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NOVECENTO
LAMBERTO CANTONI
ARTE E NATURA
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Alessandro Pomi, “Bonifica” 1940
ELOGIO DEL
MONDO RURALE
Gli artisti si sono misurati spesso con le suggestioni
trasmesse dal mondo dell’agricoltura.
Anche la recente grande mostra sul “Novecento”
italiano, organizzata a Forlì nei Musei San Domenico, ha
presentato un’ampia rassegna di opere d’arte ispirata
alla vita nelle campagne durante l’era fascista.
Lamberto Cantoni
Pietro Gaudenzi, “Il grano” 1940
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LAMBERTO CANTONI
NOVECENTO
LAMBERTO CANTONI
Cagnaccio di San Pietro, “Lacrime della cipolla” 1929
Mario Sironi, “Il contadino” 1928
Felice Casorati, “Ragazza in collina” 1937
Novecento e’ una mostra che ha avuto l’ambizione
di presentare una sintesi seria dello stato dei lavori
dell’arte, dell’architettura, della pubblicità e della
moda durante il fascismo.
La quasi totalita’ delle opere esposte infatti era
compresa tra il 1928 e i primi anni del quaranta.
Cosa succede tra gli artisti italiani in quel periodo? I
nomi piu’ prestigiosi passano da un’ idea di impegno
artistico agitato e anti conformista, che culminerà
nel delirio interventista durante il primo conflitto
mondiale, ben evocato dall’espressione “guerra come
igiene dei popoli”, ad un cosiddetto ritorno all’ordine
punteggiato dalle commissioni dei gerarchi fascisti
animati dal bisogno del regime di celebrare i miti
con i quali fare massa, ovvero arruolare gli artisti per
una propaganda di qualita’, ossessionata dal controllo
sulle grandi unita’ di senso utili all’estesica dell’epica
popolare fascista.
Quale poteva essere la via di fuga per gli artisti stritolati
tra esigenza di assecondare il regime e l’ascolto
della propria coscienza? Riscoprire i fondamentali
del proprio mestiere e studiare i grandi maestri del
passato. In due parole: affinare la tecnica classica e
ritornare al figurativo.
L’arte italiana legittimata dal regime perde così i
contatti con i temi dominanti della grande cultura
artistica europea che, soprattutto a Parigi e New
York, prosegue le avventure dell’avanguardia di inizio
secolo incamminandosi verso una lunga stagione dalla
valenza fatalmente ambivalente.
Tuttavia con il senno di poi, non si può non riconoscere
che il realismo figurativo, reso tollerabile dalla forte
impronta classica, ovvero dal recupero della tradizione
pittorica quattro/cinquecentesca, in alcuni contesti
non sia riuscito ad incapsulare nel discorso artistico
momenti di poesia visiva capace di trascendere la
detestabile attrazione alla monumentalita’ e all’epica
da quattro soldi del fascismo.
Ad essere precisi penso agli autori che ho visto
presentati nella sezione della mostra intitolata “Le
opere e i giorni. La conquista della terra e l’Italia
rurale”, apparentemente coinvolti in rappresentazioni
chiaramente auspicate dal regime, lontane da
suggestioni europee, ma anche sorprendentemente
umanistiche nella loro poetica concretezza.
Bisogna ricordare che l’Italia di quell’ampio scorcio
del novecento era un paese essenzialmente agricolo.
E’ dalle campagne, complici i rozzi latifondisti, che il
fascismo aveva raccolto i suoi primi consensi di massa.
Ed e’ con grandi riforme agrarie che i gerarchi
aggregano il consenso e al tempo stesso cercano di
creare una base economica solida per un Paese che
condannano all’autoarchia.
Il contesto della città, magnificato nel corso della prima
stagione Futurista, piu’ favorevole al cosmopolitismo e
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Baccio Maria Bacci, “Riposo dei cavatori sul Monte Ceceri” 1925
all’operaizzazione delle periferie, e’ meno favorevole
alla diffusione lineare dell’ideologia fascista. E tutto
sommato, per i rilievi economici sopra segnalati, la
realta’ metropolitana e’ considerata meno strategica
rispetto l’ideale del soldato-colono legato alla terra,
riconducibile al mito della Roma pre-imperiale.
Si capisce dunque l’interesse per temi figurativi legati
alla messa in valore dello stile di vita rurale. Per esempio
Mussolini in persona nel 1939 fornisce il soggetto
per il Premio Cremona, patrocinato da Roberto
Farinacci. “La battaglia del grano”, suggerisce il duce,
e vi partecipa anche Alessandro Pomi con un grande
quadro presentato nella citata mostra di Forlì.
Il pittore, ispirandosi all’ottocentesco stile verista a
forti tinte emozionali di Signorini, apre la visione su
uno sconfinato paesaggio abitato da eroici contadini
intenti a preparare il terreno per la semina. Non c’è
una macchina, solo vacche e uomini che con gesti lenti
e determinati, trasformano la superficie nei geometrici
rilievi che connotano l’origine delle civiltà. Chissà,
forse in questa visione poetica la giuria del premio
citato non trovandovi sufficiente energia decise di
non premiarlo. Visto con gli occhi di oggi, sembra di
scorgervi un tentativo di de mitizzare l’eroe contadino,
rimettendolo con i piedi per terra, non nelle vesti di un
dominatore ma semplicemente di chi appartiene ad
Lorenzo Viani, “Lavoratori del marmo in Versilia” 1936
una terra che lo sovrasta.
L’eroe contadino emerge con forza invece, nel quadro
che in quell’edizione vinse il primo premio. Osservate
“Il grano” di Pietro Gaudenzi. Si tratta un trittico con
al centro il nostro eroe in una posa che sacralizza i
gesti rituali che in quel preciso momento sono evocati
in absentia dalla pausa estatica imposta dall’orrenda
fatica del zappare un terreno ostico.
A lato della figura centrale due gruppi di donne
completano l’ideologema del mondo rurale
interpretandone figurazioni altrettanto fondamentali:
a sinistra, probabilmente, donne che rientrano dal
lavoro (un po’ prima dell’eroe che rimane fino allo
sfinimento), destra donne che come in una processione
sacra esibiscono il frutto di quel supplemento di
operosità che si concretizza nel pane che trasportano.
Dignità, senso della sacralità, concretezza nella
figurazione...In questo quadro troviamo condensati
i valori che il mondo rurale doveva esibire per
funzionare da potente simbolo per l’umanesimo
fascista.
Dignità e compostezza che ho ritrovato nel “Riposo
dei cavatori” di Baccio Maria Bacci; una penichella
che sembra piu’ una deposizione sacra e non certo
la siesta improvvisa che intervalla lunghe ore di duro
lavoro.
La “Ragazza in collina” di Felice Casorati, invece, mi
ha suggerito quanto sia in realtà difficile piegare l’arte
ad una ideologia. Il quadro e’ del 1937 e nel gesto
della giovane donna che tocca un volto dallo sguardo
perso nel nulla, troviamo un riferimento al mondo
interiore che tanto orrore produce nei totalitarismi.
Il colore azzurrognolo delle campagne che fanno da
sfondo sembrano rappresentare fuori dal soggetto
il pensiero melanconico di quel preciso momento;
sembrano suggerire un mondo di solitudine tristezza.
Anche il coinvolgente quadro di Cagnaccio di San
Pietro, sembra una rivincita dell’arte sulle pretese
giubilatorie che in quegli anni attraversavano il
mondo rurale. In “Le lacrime della cipolla” (1929), in
controtendenza rispetto al mito dell’eroe contadino,
troviamo una coppia di vecchi seduta di fronte a casa
in momenti pacificati nei quali emerge il silenzio
attivo tipico di uno stile di vita che spesso non ha
bisogno di grandi conversazioni per creare le piccole
epifanie che allietano la vita. E’ con le rughe del volto
che l’uomo seduto sembra voler comunicare con noi
abitatori del post moderno. Rilievi espressivi che ci
parlano di un mondo di fatiche, di intimità quotidiane
lontane da ogni idealizzazione, di una vita minima
della quale invidiamo la pace, l’assenza di rumore, il
lento scorrere del tempo.
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Achille Funi “La terra”
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