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Nel proporre un’analisi o valutazione di un evento, sia esso storico o scientifico, riteniamo che debba essere doveroso introdurre il lettore con una presentazione del periodo
storico nel quale l’evento è accaduto. Riteniamo ancora opportuno precisare come l’evento
stesso sia frutto di un Pensiero il quale lentamente, ma in maniera fortemente coinvolgente,
sappia trascinare una Comunità o un Popolo a pretendere la realizzazione di conquiste
sociali, scientifiche, mercantilistiche. Queste infine generano ricchezza, che è sempre
stimolo a maggiori esigenze artistiche e culturali. Le scoperte, le invenzioni, l’evoluzione
della tecnica sono sempre una risposta ai reali bisogni dell’uomo.
Non si può comprendere Ippocrate se non si comprende il pensiero greco del V sec. a.
C., né il concetto di Ordine di Federico II se non si rivive l’ansia di Ricostruzione che rende
fecondo il pensiero politico e sociale di Carlo Magno. Così ci pare inutile ricordare Nicolai
Preposito e il suo Antidotario se non si rivive il pensiero politico e il Costume dell’Italia
meridionale nel XII sec.
È vero, la scienza, i suoi teoremi e le sue realizzazioni traggono origine dall’osservazione
della natura, ma è sempre l’evoluzione del Pensiero che rende sensibile e indirizza la capacità del ricercatore; non a caso Galeno ricordava come un buon medico dovesse essere, per
sua prima virtù, un filosofo.
Questo testo, per meglio comprendere l’evoluzione delle scienze farmaceutiche e con
esse della Farmacia, seguirà questo metodo.
In quale momento della sua storia l’Uomo ha sviluppato il Pensiero?
I prodromi della farmaceutica
Certo, il vivere insieme, sia pure in piccole comunità, deve avere stimolato un linguaggio
comune e i primi attrezzi prodotti, frutto di ragionamento consequenziale. Nel Paleolitico dobbiamo chiamare questo essere “Uomo”, ora con un cervello più sviluppato e con
una bocca più ricca di fonemi. Con quali pensieri, probabilmente suggeriti dall’istinto,
quest’uomo abbia affrontato la durezza della natura che lo circondava non ci è dato saperlo;
certo il fuoco, una vera reazione chimica sia pure non compresa, è frutto di osservazione e
riflessione, anche se certamente la gran parte del Pensiero è assorbito dalle esigenze dettate
dalla sopravvivenza. Ma già nell’uomo di Neanderthal, che oggi si pensa non appartenga
alla linea evolutiva dell’Homo Sapiens, è possibile osservare una sepoltura rituale, indice di
sentimenti, religione, paure, di speranze.
Tra i fini primari degli uomini primitivi vi è la ricerca del cibo per sé e per gli animali
allevati. Questo ci invita a riflettere che la pratica del nomadismo non deve avere solleci-
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tato, nella osservazione della natura, particolari deduzioni; lo spostarsi di luogo in luogo,
per esempio, comporta che una pianta, edule o medicamentosa, presente in un territorio
non lo sia in un altro più a Nord e quindi più freddo; questo causava quella mancanza di
esperienza alla base di qualsiasi empirismo. Certamente il loro vagare consentiva l’affermarsi di una civiltà tutta propria, gli dei che trasportavano con sé erano piccole sculture (le
grandi non avrebbero potuto trasportarle) raffiguranti delle Veneri dai grandi seni a invocare la fertilità o frammenti di ossi graffiti con disegni di animali propiziatori per un gregge
fecondo o una proficua caccia. Certamente queste popolazioni nomadi avranno alzato gli
occhi al cielo per invocare pioggia e calore al sole, al fine di avere erba abbondante per le
loro mandrie. Si manifesta così l’esigenza di instaurare un rapporto con il divino.
È con la civiltà del bronzo che si affermano i popoli “rivieraschi”, cioè che vivevano nei
pressi dei grandi fiumi: l’Eufrate, il Tigri, il Nilo, forieri di pesca e di terra fertile, facile da
coltivare in quanto dissodabile anche con il primordiale aratro di legno. Alla tecnica della
pesca bisogna affiancare le capacità agricole del sapere coltivare, organizzare e programmare la propria vita, sapendo di dover attendere la stagione del raccolto. Recenti studi
affermano che è stato l’istinto a portare a selezionare e coltivare i cereali e i legumi, in
quanto in questo momento del suo processo evolutivo l’uomo si presenta con un cervello
più sviluppato e quindi fisiologicamente pretende più calorie che potrà trovare appunto in
cereali e legumi ricchi di carboidrati.
Questi uomini rivieraschi sono agricoltori, ma integrano la loro dieta a differenza dei loro
progenitori, con piccole prede e con pesce apportatore di acidi grassi della serie omega-3,
anch’essi tanto importanti per l’ulteriore sviluppo del cervello. Si creano le premesse per
una organizzazione sociale che sa darsi un proprio linguaggio scritto, sa misurare il proprio
operato e il mondo che lo circonda, sente l’esigenza di migliorare la qualità della vita. Ora,
gli avvenimenti che scandiscono il suo vivere, il parto, lo sviluppo, l’amore, la salute e la
malattia, sono affidati alla benevolenza di un dio o di una dea; nasce più propriamente la
medicina teurgica, dove la preghiera e la speranza della guarigione sono il primo farmaco.
Magia, religione, scienza
Il concetto di magia, se riferito alla storia dell’Uomo e all’evolvere del suo Pensiero, non
trova una facile definizione. Oggi, nell’accezione comune, ma solo nelle civiltà più evolute,
la magia ci trova increduli, quando non viene intesa come sinonimo di trucco o addirittura
di imbroglio o mistificazione, ma non così nel pensiero greco dove il termine indica la
teologia dei sacerdoti persiani e le loro pratiche religiose, tanto diverse da quello che sarà il
processo mentale greco, tutto teso ad una rigorosa “ratio”. I Magi1 infatti, nella antica religione persiana, ma anche babilonese, sono astrologi, indovini, e stregoni nel senso migliore
della parola ed è per questo che nel mondo ellenistico la Magia viene intesa come forma
superiore della Conoscenza. Nel Medioevo, dalla intelligentia, è intesa come la Volontà e
la Capacità, grazie anche a una diffusa concezione neoplatonica, di conoscere le forze che
danno vita e regolano la Natura; quindi magia è ricerca, è scienza al sevizio dell’Uomo.
Così come gli alchimisti, anche i nostri attuali scienziati, pur con una maggiore conoscenza
e tecnica, altro non fanno che scoprire leggi e capacità della natura, per utilizzarle appunto
a seconda delle necessità dell’Uomo.
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Nel Vangelo i Magi sono sacerdoti definiti anche Re. Guidati da una stella giunsero a Betlemme per rendere
onore al bambino Gesù.
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Ma allora Magia è sinonimo di Scienza? Stando all’accezione storica sì, a patto che non
sconfini in quelle degenerazioni buone per i deboli e per gli animi troppo semplici.
La magia, particolarmente nelle credenze primitive, può essere definita come una forma
di religione primordiale che indubbiamente ha alimentato l’animo e stimolato la Conoscenza. Alcuni etnologi ritengono che la magia e la religione siano state generate per sfuggire
alla paura e al mistero che incombevano sulla vita dell’uomo primitivo; dello stesso avviso è
lo studioso Lewis Browne, che nel 1952 intitola la sua opera L’evasione dalla paura, bollando
tutte le religioni come frutto di intimidazioni e di paure. In maniera meno dissacrante
possiamo affermare che le religioni, sebbene abbiano stimolato un importante processo
educativo, in alcuni momenti storici sono state un freno al processo cognitivo dell’uomo,
con l’intento però di portarlo verso una eticità edificante.
Quali sono i prodromi della religione? Come detto, la paura certamente: del grande
freddo, degli animali feroci, della malattia che troppo spesso conduceva a morte, quest’ultima tanto inspiegabile, tanto inquietante. Alla fuga deve aver fatto seguito la Speranza;
il pensiero di un momento migliore, e questa è stata la prima preghiera dell’uomo, una
speranza espressa in cuor suo, poi ad alta voce, infine elevata insieme alla sua piccola Comunità. Nasce il dialogo con gli dei, la Religione, la Liturgia. Come conseguenza di questo
incontro con il divino, ricco di fervore e di speranza, la malattia (inspiegabile) viene vissuta
come una collera, una punizione del dio; il peccato, come conseguenza, porta quale punizione la malattia. Pensiero questo che ha attraversato la storia dell’Uomo sino ai giorni nostri.
Non solo allora la paura ha generato la prima religiosità, ma anche l’osservazione delle
cose positive ha portato l’uomo a sperare: la bellezza e la potenza del Sole certamente
invitavano alla preghiera, la pioggia stimolava la crescita dell’erba, vitale per le mandrie,
la Terra generava frutti e messi. Naturalmente la religiosità prendeva forma a seconda
della propria organizzazione sociale: chi era dedito al nomadismo auspicava valli ricche
di foraggio e quindi pregava il dio Sole e della pioggia; chi invece era dedito all’agricoltura pregava la dea Terra affinché fosse prodiga di frutti e di messi. I Pelasgi, popolazione
autoctona della antica Grecia, coltivando la terra ne invocavano la fertilità, rivolgendo la
loro preghiera guardando il suolo; più tardi gli Elleni, quindi gli Achei e i Dori, essendo
originariamente popolazioni nordiche nomadi, pregavano gli dei rivolgendosi al cielo. In
seguito, occupando la Grecia, le due religioni si fusero originando così quel credo raccolto
nella mitologia greca.
Altro prodromo della religiosità sono state le virtù, le somme capacità dell’uomo stesso,
quindi: la forza di Ercole, il coraggio nel combattimento di Marte, la bellezza di Venere,
le capacità mediche di Esculapio per i Greci e di Imothec (“colui che viene in pace”) per
gli Egizi. Deificare gli uomini che avevano generato ammirazione con il loro valore e virtù
faceva sentire l’uomo più partecipe alla magnificenza e onnipotenza degli dei e lo autorizzava a emularli e a richiederne i favori. Vale ricordare, quale esempio, che gli imperatori
Romani venivano deificati in quanto espressione vivente dello Ius e del Genio Romano,
valori che i popoli dovevano riconoscere e ai quali ispirarsi e modellarsi.
Abbiamo già affermato come la magia possa essere prodromo della Ricerca, della Scienza;
rimane da indagare come la religione possa avere influito sull’evoluzione della scienza. Nel
caso dell’Islam, già dal IX sec. d.C. appare evidente come questa nuova religione fosse
tutta protesa verso la Conoscenza e questo promosse un grande impulso verso gli studi
filosofici, le scienze matematiche e astronomiche oltre alla ricerca medico-farmaceutica.
Per contro, molte altre religioni assoggettate alla casta sacerdotale furono di ostacolo al
progresso sociale e scientifico, anche se è innegabile, come già detto, che la religione stessa
inviti l’uomo a una educativa riflessione. Anche quando gli viene richiesta semplicemente
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la Fede, lo invita all’individuazione dei Valori edificanti che lo devono allontanare dalla
belluina aggressività che è in lui. All’animo dell’uomo, che ricerca la Conoscenza, occorre
un Credo che soddisfi e promuova il suo anelito, che gli dia forza facendolo sentire una
espressione della divinità, esaltando così il suo infinito potenziale. Per tutto ciò, in ultima
analisi, dobbiamo convenire come, almeno nella sua prima fase evolutiva, la Religione
abbia predisposto l’uomo alla Conoscenza.
La Civiltà Egizia
Per quanto i Sumeri, i Medi, gli Assiri e i Babilonesi siano con la loro civiltà fonte di
evoluzione e conoscenza per tutto il Medio Oriente, è alla Civiltà Egizia che si preferisce
fare riferimento in quanto nasce in un contesto sociale e culturale e per molti aspetti più
storico, che sarà propedeutico per le civiltà del bacino del Mediterraneo, e più propriamente per quella che oggi definiamo “occidentale”; inoltre si espresse nei secoli, anche con
fasi di decadenza, ma sempre con una propria spiccata personalità che cambierà solo con
l’avvento dell’Islam.
La Civiltà Egizia prende forma in un periodo storico databile intorno al 3000 a.C.
quando un condottiero di nome Menes, con il suo carisma oltre che genio politico-militare,
unifica le pur diverse tra loro popolazioni dell’Alto e Basso Egitto.
Per la prima volta nella storia dell’Uomo, egli organizza con criteri meritocratici un governo
nel quale ministri capaci, funzionari, un’efficiente burocrazia e un corretto sistema di tassazione concorrono a dare vita a una nazione produttiva e serena nel suo lavoro. La tecnologia
conosciuta è avanzata per il momento storico: si conosce la ruota, la navigazione a vela, la
bilancia, il telaio, i colori e la tecnica per utilizzarli; tutto concorre a stimolare commercio,
ricchezza, nuovi confronti con altri popoli e quindi nuove esperienze. Le finanze dello Stato
sono interamente dedicate all’edificazione della Nazione e comunque – colpisce questa affermazione storica – divise dal tesoro personale del faraone. Alcuni aforismi dell’epoca come:
«Non insuperbire per il tuo sapere, perché non si tocca mai il termine di un’arte», oppure: «Rara
è la sapienza, ma spesso si trova nella schiava presso la mola» ci inducono a comprendere come
lo Stato fosse impegnato a favorire una più vasta comune cultura con finalità educative, ma
anche come valore cementante tra loro le diverse etnie della costituita Nazione Egizia.
In una nazione, il lavoro ordinato e proficuo genera sempre diffuso benessere e questo a
sua volta sollecita il piacere dell’Arte, della Cultura, il desiderio di migliorare lo stile di vita,
esigenze queste che a loro volta stimolano lo studio, la Ricerca, l’evoluzione della Scienza.
Il nuovo Stato affronta problemi sociali come la Sanità pubblica, anche con principi di
prevenzione e di igiene sociale. L’Arte Medica e Farmaceutica in particolare sono frutto di
rigorosa ricerca; è emblematico il fatto che il medico è educato a porsi davanti al malato,
tre riflessioni: posso curarlo? È un male che posso controllare con la conosciuta terapia?
Non posso curarlo! È in quest’ultima risposta che traspare l’umiltà e il rigore scientifico
di questo periodo, in quanto il Medico sa riconoscere i propri limiti senza ricorrere alla
teurgia o peggio ancora alla mistificazione; quindi prende forma per la prima volta in Egitto,
e certamente nell’immediato Mediterraneo, una medicina più razionale che comincia
anche a indirizzarsi verso studi specialistici; troveranno questi più tardi in Alessandria, nel
periodo ellenistico, la loro massima espressione. L’Egitto, anche in momenti di recessione
economica e politica, è stato sempre un formidabile polo culturale e quindi anche medico
e farmaceutico, e ciò in virtù del fatto che tutti i commerci e quindi le culture confluivano
non solo nei suoi porti ma anche via terra lungo le carovane, dalla Somalia, dalla Eritrea,
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dall’intera Africa e Medio Oriente. Ogni scambio era foriero di Conoscenza e dall’Egitto si
irradiava in tutto il Mediterraneo.
Erodoto nelle sue Storie ci parla del popolo Egizio come il più sano del Mediterraneo,
in quanto oltre all’igiene personale molto curata, che più volte sconfinava nella cosmesi,
venivano osservati periodi di digiuno, durante i quali venivano assunti blandi lassativi: la
polpa dei datteri, di tamarindo o infusi di sena.
Questa diffusa cultura, che nasce nel periodo dell’antico Egitto o Menfita, rivolta all’igiene e alla prevenzione, caratterizzò sempre gli Egizi, ma è nel 1700 a.C. che la Nazione
subisce un decadimento, come spesso accade ai popoli, per corruzione o per fraintendimento del concetto di potere. È in questo successivo periodo che il faraone, ora deificato,
è al vertice della casta sacerdotale la quale si ritiene depositaria del Sapere che gestisce
secondo i propri intenti. La Scienza quindi ora non è più libera Ricerca, non ardore di
Conoscenza, non riconosce più i suoi limiti, ma in quanto rivelazione, ossia espressione del
dio, deve essere amministrata e dispensata dai sacerdoti e per questo motivo è da ritenersi
infallibile. È vero che, come diffuso convincimento religioso, la Conoscenza era attribuita
alle rivelazioni degli dei, ma mentre prima si adorava Thoth, rappresentato nell’iconografia
con la testa di ibis o di babbuino, successivamente si pregherà Iside che viene rappresentata
foriera di erbe terapeutiche, ma col dio del silenzio ai suoi piedi, Harpocrate, che appunto
con il dito sulla bocca invita a tacere, a non rivelare la “Scienza divina”. Non è quindi un
silenzio meditativo, bensì un preciso invito ai sacerdoti del tempio, come spesso è accaduto
nella storia dell’Uomo, a non rivelare la scienza conosciuta, che deve essere intesa come
un potere oligarchico. Un dispotismo teocratico, questo, che verrà di fatto accettato dal
popolo Egizio e diverrà radicato costume, che non verrà scalfito né dalle limitrofe civiltà
emergenti del Mediterraneo né dall’Ellenismo.
È verso la fine del 1800 della nostra era che vengono scoperti – in seguito ne verranno ritrovati altri – i papiri conosciuti con il nome dei loro scopritori: Edwin Smith e Giorgio von Ebers
oltre al nostro Giuseppe Passalacqua. Il primo papiro (2000 a.C.), pur riportando medicamenti
composti, alcune droghe calmanti il dolore e norme dietetiche, si sofferma maggiormente su
aspetti clinici e chirurgici; colpisce come per la cura delle ferite infette venisse raccomandato il
miele impastato con il pane ammuffito quale antibiotico ante litteram. Il secondo (1800-1700 a.C.)
appare come un vero trattato di farmacologia e materia medica, tanto da essere definito come
“la prima Farmacopea” conosciuta nel senso anche etimologico della parola: “farmaco-fare”,
che descrive quindi l’arte di preparare il farmaco. Il papiro inizia con le seguenti parole:
… qui incomincia il libro delle preparazioni, dei medicamenti adatti a tutte le parti del
corpo di un ammalato. È lo stesso dio dell’universo Ra che presa compassione per le
sofferenze dell’Umanità, mi ha ispirato con le parole di Thoth, l’uso dei più portentosi
rimedi. Dio farà vivere chi lo ama e poiché io sono timorato di Dio, io vivrò …
Il concetto di materia medica rivelata è evidente e ce ne dà conferma il fatto che contiene
ancora 700 formule magiche, forse per preparare il paziente o come coadiuvanti l’azione
terapeutica del farmaco. Ancora di rilevante importanza è il papiro ritrovato dall’egittologo
Passalacqua che, con le sue 170 ricette, amplia il concetto di terapia dell’epoca. Tutti i
papiri di questa epoca sono scritti in ieratico, la scrittura preferita dalla casta sacerdotale e
più adatta a essere riportata su papiro, riservando i geroglifici alle pareti in pietra o intonacate. Successivamente, dopo il primo millennio a.C., verrà adottato il demotico, forma più
evoluta e più semplice, quindi maggiormente comprensibile per il popolo.
Certo, non mancavano oli e unguenti per la cura del corpo, né terre (ciprie), né colori,
né balsami profumati, il tutto con funzioni igieniche e cosmetiche. La lettura della materia
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medica, dei rimedi e delle droghe utilizzate non deve sorprendere né indurre a un sommario
giudizio negativo; sono valutazioni cliniche e relative terapie riferite a 5000 anni or sono.
Per quanto la maggior parte delle piante officinali non sia stata identificata, sappiamo che
venivano utilizzate il Papaver somniferum e il suo lattice, la canapa indiana, il rosolaccio
dei campi (Papaver rhoeas), la mandragora, dai quali si potevano ottenere rimedi analgesici
e ipnoinducenti raccomandati dallo stesso dio Thoth. Evidentemente, allora come oggi:
«Divinum est sedare dolorem».
La scilla era prescritta come cardiotonico e diuretico (i cui principi attivi sono stati ben
configurati dagli scillareni nelle farmacopee sino ai nostri anni Sessanta); il ginepro digestivo e diuretico; la corteccia del frutto del melograno come vermifugo; salvia, canfora e
rosmarino come revulsivi; il ricino per il suo olio purgante; i fiori di camomilla, profumati e
salutari consacrati al dio del Sole, come antispastico; l’Apium graveolens, una ombrellifera
alla cui famiglia appartiene il sedano, prescritto come digestivo e carminativo insieme al
finocchio, al coriandolo, all’anice. Il fieno greco, triturato in mortaio e amalgamato con
miele, veniva somministrato come anabolizzante e con funzione galattogena. Ancora: il
miele come eccipiente e correttore, ma anche come disinfettante sulle piaghe; il vino come
solvente di principi attivi nei macerati, ma anche tal quale per uso terapeutico; la mirra,
il propoli, l’incenso usati come disinfettanti e antifermentativi anche nella pratica dell’imbalsamazione; la resina storace (Styrax officinalis resina) in forma sia solida sia liquida; il
Natron, carbonato idrato di sodio (Na2CO3 ⫻ 10 H2O) che, in quanto fortemente disidratante, veniva usato nell’imbalsamazione. Appare inutile riportare tutte le droghe e i
rimedi che si è riusciti a interpretare, ricordiamo solo che molte di queste rientrano ancora
nella terapia di oggi. Va comunque detto, a onor del vero, che nella “Farmacopea” egizia
compaiono anche droghe, le più improbabili, quali: fegato d’asino, carne e grasso di leone,
di serpente, urine di uomo e donna, escrementi di coccodrillo et similaria, che certamente
limitavano l’Arte Medica e Farmaceutica. Quest’ultima è da intendere come l’arte di preparare le medicine, sebbene fossero gli stessi medici che sovrintendevano alla preparazione
del farmaco; questi certamente erano assistiti da specializzati che, inoltre, curavano la
conservazione delle droghe in locali idonei e in appositi contenitori.
Il nostro archeologo Schiapparelli,2 nello scoprire la tomba dell’architetto tebano Kha,
ha trovato un vaso il cui contenuto, a una recente analisi, ha mostrato di contenere ferro e
oppio. Certamente i farmacisti dell’epoca conoscevano le tecniche farmaceutiche almeno
più elementari quali: polverizzare, setacciare, infondere droghe, usare solventi come vino,
oli, acqua; torchiare, filtrare, e certamente anche una forma primordiale di distillazione;
ancora, amalgamare le diverse droghe farmacologicamente attive in grassi animali, nella
cera, nella polpa di dattero, nel miele.
Come detto, la lettura della Farmacopea egizia, nonostante tutto, non deve portare a una
ingiusta critica, ma ne vanno valutati e intuiti gli aspetti costruttivi. Il fatto che fosse scritta
e codificata vuol dire che era oggetto di studio da parte del medico-sacerdote e quindi, sia
pure lentamente, gli orizzonti terapeutici si ampliavano. Lo studio dell’anatomia-fisiologia
certamente avrà stimolato la pratica delle norme salutistiche, igienico-alimentari e di automedicazione che appunto fecero degli Egizi un popolo attento alla propria salute e alla
sanità della Comunità; ancora la pratica medica e la conseguente terapia avranno stimolato quell’empirismo che deve necessariamente aver portato all’osservazione della causa e
dell’effetto. Il consiglio medico andava oltre: bagni di mare terapeutici, il salasso, il vomito,
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A tal proposito è interessante visitare il Museo Egizio di Torino, secondo solo a quello de Il Cairo.
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il clistere (pratica questa scoperta proprio dagli antichi Egizi), il digiuno, l’uso di evacuativi, tutte norme igienico-terapeutiche che troveremo nelle pratiche mediche ippocratiche
e ancora nella materia medica della fine del XVIII sec. dell’era cristiana. Depurare il corpo,
depurarlo dallo pneuma cattivo che produce fermentazioni, indurlo a costumi salutistici che
allontanino gli “umori cattivi”, sono gli intenti terapeutici essenziali del medico egizio e così,
come già affermato, lo sarà per Ippocrate e per tutta la materia medica galeno-araba. Nello
studiare le affermazioni mediche antiche, sia pure di millenni, è raccomandabile la volontà e
l’umiltà di interpretarle e tradurle, se possibile, in analoghi indirizzi medici moderni; allora
si parlava di pneuma cattivo e di putrefazione, poi si parlerà di umori peccanti, poi ancora
di stati di autointossicazione, oggi di flora colica putrefattiva e di radicali liberi e così come
la materia medica egizia, ma oggi, conoscendone il meccanismo d’azione, dobbiamo ripetere
che le cause delle patologie sono da ricercare nella putrefazione negli umori cattivi, ovvero
nelle conseguenze del nostro metabolismo.
I farmaci, gli unguenti, gli oli profumati, grazie anche ai Fenici che costantemente per i
loro commerci solcavano il Mediterraneo e alla Civiltà Minoica di Creta, la medicina e la
farmacia egizia si estesero e di lì ancora torneranno in epoca ellenistica ad Alessandria, che
diverrà, tra l’altro, un centro di cultura medica e in particolare specialistica. Qui, Galeno
perfezionerà i suoi studi, divenendo maestro dell’Arte Medica occidentale e lo sarà sino
all’avvento dell’Illuminismo.
L’epopea omerica
La guerra di Troia, cantata dal divino Omero, descrive l’assedio che gli Achei portarono
sotto le mura della “ricca Ilio”: così più volte la descrive il sacro vate, sia per onorare una
città nemica tanto valorosa, ma anche per farci sapere che in virtù della sua posizione strategica e delle sue terre era da ritenersi “ricca”, potente e quindi potenzialmente pericolosa per
la nascente Civiltà Micenea. Sarebbero preziose le tante descrizioni di Omero, se su tutto
non incombesse la “questione omerica”, la quale si pone giustamente, da una attenta esegesi
dei Libri (capitoli), alcune domande:
• Omero è davvero la persona fisica che nel IX-VIII sec. a.C ha ideato e cantato l’intera
Iliade? Oppure è un raccoglitore-assemblatore dei tanti cantori che già in epoca storica3
percorrevano la Grecia?
• Vi si cantano certamente le gesta degli Achei invasori, ma il modus vivendi, i credo e le
tradizioni riportati sono dell’VIII o del XII sec. a.C.?
A complicare le cose, recenti studi avanzano la suggestiva tesi che gli avvenimenti
descritti nell’Iliade e nella Odissea in realtà si siano svolti sul mar Baltico e non su quello
Egeo e che quindi queste popolazioni nordiche (Vichinghi-Achei) invadendo l’attuale
Grecia, Creta e le coste (ora turche) prospicienti, abbiano portato con sé le loro saghe, che
infine la Civiltà Micenea ha grecizzato. Il pensiero va rispettato anche perché gli Achei,
tanto diversi somaticamente dagli abitanti autoctoni, vengono descritti alti, biondi, con gli
occhi azzurri e «smisurati»; non certo il tipo mediterraneo. Sempre dall’Iliade, l’alimentazione che praticano tra un convivio e l’altro rivela un forte consumo di carne, improprio al
costume mediterraneo, che preferiva prevalentemente cereali e legumi.
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Ancora oggi in Sicilia (anticamente Magna Grecia) è possibile ascoltare questi cantori che in piazza raccontano le gesta del paladino Orlando che con la sua Durlindana combatteva contro i Mori.
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Per contro, dobbiamo constatare un abbondante uso di vino che certamente non veniva
prodotto nelle fredde brume nordiche. Gli stessi dei che partecipano con grande “umanità”
alle sorti della battaglia sono di diversa origine: Minerva, tutta saggezza e bellicosità, ha gli
occhi azzurri; Gea, dea della Terra, è autoctona; Apollo, dio solare, è di origine orientale.
Tutti devono obbedire a Giove che dopo avere scacciato Crono ora è sovrano e accoglie e
comanda i vari dei con le loro peculiarità e le loro diverse origini.
La guerra di Troia ufficialmente è scoppiata per difendere l’onore di Menelao, al quale
viene rapita la moglie Elena, di stirpe divina4 e, più o meno consenziente, dal principe
troiano Paride.
In realtà la “ricca” città di Troia, dalle possenti mura, non poteva essere lasciata a dominare i popoli limitrofi suoi alleati (Licii, Lidi, Dardani, Sciti) e il mare prospiciente la sua
costa. La Grecia è una terra affascinante, ma povera di valli fertili, e ha sempre avuto la
necessità di essere padrona dei mari per poter prosperare con i suoi vitali commerci.
Va anche detto che questo antagonismo con il mondo persiano-turco dura malcelato
ancora oggi.
Gli Achei con i loro alleati sbarcano sulla spiaggia antistante la ricca e turrita Ilio con
ben 1180 navi, come testimoniano i versi del Libro II, definito dagli esegeti Il catalogo delle
navi. L’armata greca, forte di 120-140.000 uomini, ha il compito di annientare secondo il
costume dell’epoca i 50.000 difensori di Troia e la città stessa.
Un corpo d’armata così imponente certamente avrà avuto un responsabile sanitario e
un’osservanza igienico-sanitaria atta a mantenere salubre il campo e la sanità degli uomini
che avranno lamentato ferite da combattimento. Omero in questo non dà troppa soddisfazione, anche se con pochi versi descrive le possibili terapie dell’epoca.
Il corpo sanitario è rappresentato da Podalirio e Macaone che, oltre a essere stimati
combattenti, sono luminari della medicina con un curriculum di tutto rispetto: sono infatti
i figli di Asklepios (traslitterato)5, ormai divinizzato, ed i nipoti della maga Circe, che più
tardi sulle rive italiche incontrerà lo scaltro Odisseo. Questo ci permette di datare la figura
del divino Asklepios medico e farmacista intorno al XIII sec. a.C.
Nel campo greco, che si estendeva sulla spiaggia per circa 7 km, per motivi probabilmente di scarsa igiene, scoppiò una pestilenza, la cui causa fu individuata nell’ira di Apollo
e nei suoi strali, al fine di punire l’offesa che Agamennone gli aveva arrecato offendendo un
suo sacerdote. Placato il dio, cessata la pestilenza, lo stesso re Agamennone comanda a tutti
un bagno purificatore nel mare per allontanare definitivamente ogni causa di infezione, una
pratica questa già raccomandata da Asklepios e anche in seguito da Ippocrate.
Altri versi di interesse sanitario riguardano Menelao, il quale viene ferito proditoriamente e subito soccorso da Macaone, il quale estrae la freccia: «… ne cavò fuori il sangue …
e sulla ferita appose … farmaci lenitivi …». Per la verità l’Autore si è avvalso della pregevole
traduzione del professor Giovanni Cerri, ma va detto anche che Vincenzo Monti traduce là
dove bisogna drenare e detergere la ferita: «… succhionne il sangue …» pratica questa più
propria alla medicina dell’epoca e da tempo praticata in Egitto.
Achille, per volere del padre Peleo, aveva studiato medicina e farmacia presso il saggio
Chirone, un centauro che dedicò tutta la sua vita allo studio ed all’insegnamento delle Arti
sanitarie, anche se i suoi alunni (Giasone, Teseo, Ercole, Asklepios, Enea, Aiace di Oileo e
lo stesso Peleo)6 dovevano essere nobili e per una buona metà figli di una qualche divinità.
4
Figlia di Giove e sorella dei Dioscuri.
Tutti i nomi e le parole in greco antico saranno riportate traslitterate.
6
Questi eroi, guerrieri e taumaturghi, avevano in seno alla comunità una funzione ritenuta apotropaica.
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Achille aveva le credenziali giuste e, oltre a essere un formidabile combattente, fu un
ottimo studente, tanto da meritare che gli venisse intitolata una pianta officinale (ancora
oggi): l’achillea, che, grazie ai suoi Principi Attivi, svolgeva una precisa azione farmacologica, vulneraria, emostatica, spasmolitica. Come dire: quod sufficit per il prode Achille.
Naturalmente, il nostro insegnò al suo amico Patroclo un poco di materia medica e ce
ne dà conferma nel Libro XI, versi 844-848, dove Patroclo, estratta la freccia dalla coscia di
Euripilo, lavò la ferita con acqua tiepida e poi, sbriciolandola con le mani, vi applicò una
radice amara (mandragora?) che calmò il dolore, il sangue cessò di scorrere e la ferita si
asciugò.
Omero non è molto preciso nel descrivere il farmaco, si limita a dire “unguento lenitivo”, senza citare i Principi Attivi; ci complica il giudizio quando sul corpo di Patroclo,
ucciso da Ettore, Achille ed i suoi compagni spalmano sulle ferite «un unguento di ben nove
anni». Ora, la base di questo rimedio sarà stata certamente costituita da grasso animale o
olio vegetale o magari in giusta miscela tra loro.
La tendenza dei grassi è quella di ossidarsi, quindi di irrancidire e dopo nove anni questo
processo ci consegna un unguento con un odore discutibile, anche se fosse stato profumato
successivamente. Perché usarlo sulle ferite di un defunto?
Nella medicina tradizionale, il grasso rancido, in quanto leggermente irritante (revulsivo),
veniva applicato sui paterecci, sugli ascessi, su piccoli dolori reumatici, ma in questo caso
Patroclo è morto; si possono allora formulare due ipotesi: le ferite coperte da questo grasso non
venivano infestate dalle mosche e quindi dai vermi; oppure, come suggeriscono Giovanni Cerri
e la sua commentatrice professoressa Antonietta Gostoli, può avere una valenza apotropaica,
essendo il numero nove sacro alla religione minoico-micenea.
Nel divino poema non mancano accenni alla cosmesi, come quando Giunone (Libro XIV,
verso 170) con un processo mentale tutto femminile, si fa bella per adescare Giove in un
letto d’amore e indurlo al sonno al fine di mettere in atto il suo inganno. Quindi indossa
splendidi abiti accattivanti, graziosi sandali, si lava con ambrosia e unge il suo corpo con
un olio che spandeva attorno a sé soave profumo. Anche Giove dovette cedere alle grazie
e alle astuzie di Giunone.
Un’altra curiosità riportata più volte da Omero è quella di alludere alla grande forza
degli Achei invasori, mentre gli uomini del suo tempo, di inferiore possanza, certo non
potevano paragonarsi agli eroi da lui cantati, come quando dice che quel tale masso sollevato e scagliato da Diomede gli uomini di oggi certo non avrebbero potuto sollevarlo.
Propaganda o realtà?
Forse le antiche saghe giunte a Omero parlavano di uomini “smisurati” dotati di forza divina.
L’intera opera lascia intendere che al di là di qualche unguento miracoloso non si
disponga di altro, ma si contraddice nel Libro XVI quando si afferma: «… medici con i loro
molti farmaci …», e certamente così sarà stato perché anche la Civiltà Minoico-Micenea,
per quanto attiene all’Arte Medica e Farmaceutica, è fortemente tributaria alla cultura
egizia che ormai è diffusa in tutto il Mediterraneo.
Comunque l’intera opera ci riporta una medicina teurgica che non può prescindere
dall’intervento degli dei, non solo, ma la stessa pratica medica è affidata a esseri superiori:
condottieri forti e saggi alla guida di popoli, semidei, uomini che per le loro virtù sono stati
deificati, infine il divino vate al Libro XI, verso 514, si lancia in un apprezzamento verso
l’Arte sanitaria: «… un uomo che è medico, molti uomini vale ad estrarre frecce a spalmare
farmaci curativi …».
Per un definitivo affrancamento della medicina dal sacro, l’umanità dovrà attendere
Ippocrate.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Asklepios: Ars Medica incipit
Nel XII sec. a.C. la guerra infuria sotto le mura di Troia. Circa tre secoli dopo il divino
vate Omero ci descriverà il mondo miceneo, degli Achei e ognuno dei personaggi, come
abbiamo già visto, a somiglianza degli dei rappresenta una virtù, un modello al quale ispirarsi, da imitare, ma Omero ci presenta anche dei e semidei che con la loro sacralità specifica sono posti a salvaguardia della salute.
Podalirio e Macaone, figli di Asklepios (che presso i Romani verrà chiamato Esculapio),
sono stimati medici presso l’armata greca; Elena sapiente nell’uso di farmaci sia salutiferi
che mortali; il centauro Chirone che istruì nell’Arte Medica Ercole, Teseo, Achille, Enea,
Diomede a testimonianza di come questi eroi fossero per il loro popolo non solo figure
da emulare nella vita ed in guerra, ma anche tutori dotati di saggezza medica. Con il loro
eroismo e la loro conoscenza medica, sapevano tutelare la vita dei loro uomini.
Splendidi i versi omerici che presentano Apollo dio del sole vivificatore, ma che con i suoi
dardi d’argento sa anche punire con la pestilenza, con la morte; Asklepios, figlio di Apollo
e della bella, ma mortale, Coronide; sua figlia Igea, dea della salute sia della singola persona
che della Sanità di una comunità e ancora sua sorella Panacea, dea della salvifica terapia,
della guarigione, del farmaco capace di curare tutte le malattie.
Ultima, Circe, sorella di Asklepios, ci ricorda come un farmaco possa essere terapeutico
o mortale o indurre in strane visioni.
Il mondo descritto da Omero ci fa conoscere, attraverso accaduti divenuti mitologici,
una medicina dove la componente teurgica è essenziale e dove i principi medici e la terapia
erano appena agli albori e comunque mutuati dalla Civiltà Minoico-Micenea. Con Asklepios,
uomo o dio che fosse, la Medicina diviene più razionale e sociale e tanto era vasta la sua
Arte Medica che volle richiamare in vita un morto; essendo questo pericolosamente contro
natura, Giove lo fulminò, allora Apollo raccolse suo figlio e lo assunse deificato nell’Olimpo.
Asklepios, pur in epoca storica, fu associato o identificato al dio egizio Imothep, figura
semi-mitica dell’Egitto.
Cicerone ci dice che era un uomo, e forse lo fu, se accettiamo il presupposto che la mitologia altro non è che una traccia, pur lontana, della storia dell’Uomo. È certo che fu medico
e che, istituendo dei Templi-Ospedali, diede vita a una Scuola medica dove i suoi discepoli,
e più tardi i sacerdoti, esercitarono l’Arte Medico-Farmaceutica, mai scevra da una costante
e razionale osservazione e ricerca.
La tradizione ci tramanda che, visitato il paziente, questo veniva fatto oggetto di cure immediate dove l’igiene, la detersione delle piaghe (anche con la suzione), la somministrazione delle
erbe medicinali, una studiata alimentazione, preparavano il paziente all’“incubazione” in un
apposito sanatorio; qui, dopo la somministrazione di decotti ipnoinducenti se non proprio analgesico-narcotici, il malato riceveva in sogno la visita degli dei preposti alla tutela della salute:
Apollo, Hermes e solo successivamente, a deificazione avvenuta, di Asklepios e delle sue figlie
Igea e Panacea. Nel sogno il dio o la dea rivelava la terapia o annunciava la guarigione imminente. Va detto che Asklepios deve avere intuito le capacità di recupero e guarigione del malato
(oggi diremmo “potenziale anticorpale”) e quindi poneva il malato in condizione igienica, di
serenità e di speranza che certamente valevano come primo farmaco.
La tradizione vuole che nelle “corsie” strisciassero liberi dei serpenti che, con la loro
lingua, anche leccando le ferite, inducevano alla guarigione, in questo caso avvalendosi
anche della suggestione. Il serpente poi comparirà attorcigliato allo scettro di Esculapio
quale simbolo dell’ineffabile e del potere non conosciuto (Figura 1).
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Figura 1 Copia romana della statua di Esculapio, dall’originale del Santuario di Epidauro.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
È opportuno precisare che questi ospedali-santuari non erano solo sanatori ieratici,
tutti dediti a una semplice medicina teurgica, bensì vi si praticavano interventi chirurgici e
appropriate terapie con applicazioni o somministrazioni di preparati semplici o composti.
Vari autori come Artemidoro, Alieno, Ippocrate e Plinio, ma soprattutto la lettura delle
esposizioni epigrafiche, ex voto, scritte su tavole di argilla, dove venivano descritti gli interventi chirurgici, le pratiche igieniche o la terapia vera e propria, ce ne danno conferma.
Ci viene tramandato l’uso, come detto, del miele, del vino, dell’aceto come solventi
e disinfettanti; delle gemme di pino balsamiche e disinfettanti delle vie urinarie; della
mandragora per i suoi alcaloidi: iosciamina, atropina, ipnoinducenti e con azione anche
anestetica locale; e ancora l’aglio disinfettante, revulsivo e regolatore di patologie dismetaboliche; l’anice, il finocchio, l’origano, per le loro proprietà stomachiche e stimolanti le
funzioni digestive, ma anche nei casi di catarri cronici; l’agno casto, per i disturbi del ciclo
mestruale causati da insufficienza del corpo luteo; il lattice di fico; la cicuta; la salvia; il
panace asclepio.
Ma ancora, come detto, il vino farmaco e solvente; ed ancora il sangue sia umano sia del
galletto bianco simbolo stesso, insieme al serpente, dello stesso Asklepios.
Il sangue è simbolo della vita e della vitalità, e allora viene somministrato come farmaco
ricostituente per rigenerare nuova vigoria; terapia questa diffusa anche in Italia sino ai
primi anni del Novecento, quando appunto il sangue sgorgante da animali appena macellati veniva distribuito ai bambini deboli, ai debilitati, ai tisici.
Se si considera che nei sanatori asclepiadei venivano praticate tecniche riabilitanti come
bagni di mare, massaggi con oli revulsivi, ginnastica rieducativa, bagni termali, oltre che
una accurata igiene alimentare, si può affermare che Asklepios e la sua Scuola sono da ritenere gli istitutori della medicina occidentale che evolverà successivamente con Ippocrate
e con la medicina galeno-araba, per giungere di fatto sino alla fine del XVIII sec. dell’era
cristiana. Se valutiamo con attenzione la Scuola asclepiadea, osserviamo che evolve dalle
precedenti – e pur propedeutiche – egizia, fenicia e mediterranea in genere, perché, pur
non rinunciando alla componente teurgica, non nasconde l’Arte Medica nel segreto del
tempio e dei suoi sacerdoti che con l’esercizio delle pratiche mediche detengono il potere,
in quanto unici interpreti del suggerimento divino rivelato.
La medicina asclepiadea sarà suggerita anche dal dio, il quale però è più umano in tutte
le sue manifestazioni e soprattutto non ha segreti per nessuno, anzi vuole che si renda
manifesta la terapia a maggior gloria del dio e del sacerdote-medico.
Questo dunque non ha particolari poteri se non quelli che ha guadagnato con l’osservazione, lo studio e l’acquisita scienza; è un uomo tra gli uomini e dedica il suo impegno
alla cura del malato ed è a sua volta maestro ed educatore per chi voglia dedicare la vita,
all’Arte Medica al servizio dell’Uomo.
La Civiltà Minoico-Micenea
Duemila anni prima di Cristo, le popolazioni abitanti le rive del Mediterraneo, grazie
anche a un progresso culturale e tecnologico, conobbero un forte incremento demografico
e questo determinò che l’eccedenza della popolazione di un territorio, di una polis, quindi
uomini e donne per lo più giovani guidati da un riconosciuto capo-guerriero, in coincidenza della primavera (Primavera sacra) con una commovente cerimonia si staccassero dalla
propria Comunità e “senza voltarsi indietro” migrassero verso lidi o isole ritenuti adatti a
fondarvi una nuova patria.
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Questo fenomeno interessò Eoli, Enotri, Tirreni, Fenici e tutti i popoli rivieraschi del
Mediterraneo; inoltre i continui scambi commerciali avevano fatto del Mediterraneo una
opportunità di confronto tra le diverse Civiltà, dando così vita a una comune conoscenza
tecnologica e anche a un costume di vita che, pur ossequioso ciascuno del proprio credo,
era di fatto più aperto ai vantaggi commerciali ed ai benefici, anche in termini culturali, che
questi comportavano.
Non dobbiamo dimenticare infatti che è la ricchezza prodotta da un popolo che determina infine l’esigenza culturale, estetica, e tecnologica. Quest’ultima poi è sempre la risposta
alle necessità della vita.
Emblematica è quella che possiamo definire la prima Civiltà Europea ovvero quella
Minoica, sorta nell’isola di Creta, la quale, pur tributaria della potenza mercantile dell’Egitto, elabora una sua civiltà (re Minosse e sua moglie Pasifae ne segnano l’apogeo) effervescente e colta, amante della musica, della pittura, rispettosa delle leggi dello Stato, dove le
donne, così ci tramandano le pitture murali, amavano mostrare un abbigliamento originale
stretto in vita e che lasciava ammirare la loro femminilità e i loro seni. Gli scultori Difeno e
Scilli scolpivano già in maniera più plastica e meno stilizzata.
La stessa leggenda del Minotauro e del labirinto di Dedalo rivela una propensione a
pensieri arditi7 oltre che a una conflittualità con l’emergente popolo acheo-greco.
Queste caratteristiche della Civiltà Minoica non appaiano futili nel formulare una valutazione, perché in realtà sono proprie di una civiltà evoluta, aperta a tutte le genti del Mediterraneo, che dall’incontro-scontro con gli Achei darà vita ai prodromi della civiltà greca
classica. Solo il loro credo religioso votato al dio Veleano, severo e onnipotente, in antitesi
con il loro costume di vita, lascia trasparire una religione ancora involuta, basata più sulla
paura che sul desiderio di identificarsi nei valori espressi dal dio stesso.
La Civiltà Minoica decadde con il declino commerciale dell’Egitto, schiacciata dagli
Achei che già dal 1400 a.C., provenienti dalle brume del Nord, con le loro armi di ferro e
non di bronzo,8 soggiogarono le popolazioni autoctone greche; due secoli più tardi avverrà
una nuova invasione, quella dei Dori, sedicenti discendenti di Ercole e anch’essi ottimi
guerrieri e artigiani del ferro.
Certamente questa stratificazione di civiltà pelasgica, achea e dorica ha provocato
scontri, prevaricazioni, ma anche costruttivi confronti. Ciò, se generò particolarismi che
porteranno alla città-stato, diede vita a un unico processo culturale nel quale tutta la
Nazione ellenica si riconoscerà e che nel VI-IV sec. a.C. esploderà nell’ammirata Civiltà
Greca; propedeutica per le sue intuizioni e per i suoi valori a tutta la Civiltà occidentale.
C’è da chiedersi quale fu la causa che portò il popolo ellenico, per primo nel Mediterraneo, a porsi quelle domande che ne fecero uno spirito libero, esigente di estetica, di etica,
di scienza, desideroso di comprendere i Perché della Terra, della vita e non per finalizzarli
alle leggi dello Stato o a una qualsivoglia conquista, ma solo per arricchire il proprio Io,
per sentirsi autorevolmente partecipe alla Conoscenza ed alla Verità, attributo primo della
divinità. Nel descrivere lo svolgersi della storia e la sua evoluzione, si cerca una data precisa
che funga da divisorio tra ciò che è trascorso e ciò che dovrà avvenire.
Ma rimane difficile datare il momento nel quale l’uomo greco inizia a desiderare nel
suo intimo la Conoscenza, probabilmente tra il IX e il VII sec. a.C., in un periodo storico
7
Emblematiche sono le figure di Dedalo ed Icaro che con “ali non concesse” fuggono dal labirinto e “si librano
nell’aria”.
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Le lame e le punte delle lance in precedenza erano di bronzo, meno resistenti e meno efficaci nel combattimento.
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molto ampio caratterizzato da due personaggi diversi tra loro, ma che descrivono – a saper
leggere tra le righe dei loro poemi – il proprio mondo, i sogni di gloria, le intime aspirazioni:
Omero con la sua Iliade ed Esiodo con la Teogonia, dove si legge la descrizione degli dei, i
loro scontri e le loro apoteosi.
Queste due opere descrivono, tra l’altro, la nascita di una religione che, pur evolvendosi,
rispecchierà le ambizioni e le debolezze dell’uomo greco. Non sarà quindi una religione
severa, punitiva, chiusa ed esoterica che nega al popolo la Conoscenza in quanto ipotetica
fonte di ribellione al Potere costituito; al contrario gli dei altro non sono che la proiezione di
quei Valori che gli uomini ammirano e ai quali istintivamente tendono.
Pongono così ordine al loro mondo religioso dove le antiche divinità pelasgiche vengono
accettate, come Gea, dea della Terra, le ninfe delle sorgenti e dei boschi, mentre altri vengono
relegati al Tartaro dal dio acheo Giove, il quale con comportamenti e desideri tutti umani
popola e governa l’Olimpo.
Questi dei greci, come già detto, rispecchiano le speranze dell’uomo, che vuole essere
forte, e questa virtù pensata come valore assoluto genera Ercole; la bellezza e l’amore,
sempre così vicini, si sublimano in Afrodite, che però cerca la sua consacrazione in un uomo
altrettanto bello, Paride, ma sposa Marte che esprime la bellicosa furia invincibile, tanto
necessaria agli eroi in battaglia; Minerva, bella e guerriera, fonte della saggezza, è colei che
all’uomo appena creato da Prometeo alitò la Psiche, l’animo. È lei che rappresenta ciò che
ogni uomo aspira ad essere: bello, forte e saggio.
Nell’Olimpo vengono deificate tutte le debolezze umane, riconosciute quasi come un
aspetto irrinunciabile della vita, e così nasce Hermes, che dona la sicurezza nei viaggi, tutela
la giovinezza e la salute, ma è anche il dio dei mercanti e del loro saper mercanteggiare,
quindi del profitto; per non parlare di Apollo, che come Giove è sempre desideroso di
conoscere nuove ninfe.
La religione greca, libera da sacerdoti detentori del potere divino, non schiaccia l’uomo
su principi codificati e cristallizzati, bensì lo spinge anche verso l’ignoto, libero di emulare
i suoi dei e di raggiungere con le sue forze, con la sua umanità, quei Valori assoluti che gli
dei rappresentano.
Omero infatti ci presenta personaggi emblematici di questi valori: Agamennone il potere,
Aiace Telamonio la forza, Nestore la saggezza, Ulisse il vero vincitore della guerra, furbo
opportunista, ma reso grande agli occhi dell’uomo per il suo insaziabile desiderio di sapere,
Elena la bellezza femminile, sopraffatta dagli eventi, ma anche ambigua e conoscitrice di
farmaci – la sua maestra è stata l’egizia Polidamnia.
Nella religione greca c’è solo un momento di antagonismo tra l’uomo e la divinità ed
è quando il titano Prometeo, pietoso, vuole donare all’uomo il fuoco. Subirà un’atroce
punizione, ma l’uomo, grazie al suo martirio, sarà sempre più vicino agli dei: il fuoco come
principio di Conoscenza, di Scienza. Lewis Browne, sempre critico nei riguardi di tutte le
religioni, asserisce che i Greci si rivolgono alla filosofia appena comprendono la pochezza
della loro religione olimpica, ma sbaglia perché, come detto, questa non ostacolò, bensì
favorì un processo di emancipazione sia sociale sia del Pensiero.
Il Pensiero in Grecia è stato il frutto della sua storia e del costume di vita che si è data.
La fusione della Civiltà Minoica con la Micenea (Achea), la Pelasgica e quella Dorica
devono avere creato una risultante aperta a ogni iniziativa, dove pragmaticamente ogni
innovazione valida veniva approvata e adottata e dove i commerci consentivano un
continuo confronto di pensieri e di costume. La vera peculiarità del Greco è il suo stile di
vita, il suo desiderio di vivere in prima persona la sua polis, di mescolarsi tra i suoi concittadini, parlare o sparlare di politica, confrontare le sue idee, magari nel corso di conviviali
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banchetti tra amici, o di lunghe passeggiate al fresco, sotto ai portici. Del lavoro non deve
preoccuparsi, ci sono i mercanti egizi, i suoi schiavi, ma soprattutto i liberti e i methechi che
lavorano per lui. Socrate, cittadino greco emblematico, vende la sua proprietà, consegna
i suoi risparmi all’amico Critone perché li faccia fruttare, e così vivrà con la sua piccola
rendita, ma almeno sarà sempre vicino ai suoi amici e allievi, alla sua città, che rispetterà
anche in punto di morte, sempre stimolando la sua comunità con nuove domande alla
ricerca della Verità.
La stessa educazione superiore del cittadino greco prevede lo studio dell’oratoria, della
storia e della filosofia e non con finalità di erudizione, bensì proprio per prepararlo a vivere
intensamente e proficuamente quella politica che costituirà il progresso stesso del suo
mondo. Verrà quindi educato ad uno spirito speculativo e dialettico che piacevolmente
sconfinerà nel sofisma, nell’oratoria costruita e guidata da quella logica che prima apparteneva ai grandi saggi o ai sacerdoti, mentre ora in Atene è la virtù essenziale per sentirsi
cittadino a pieno diritto.
È in questa Grecia libera e desiderosa di esprimersi che nasce l’amore per la Filosofia,
per il Pensiero; al fine di conoscere meglio l’Uomo, il suo potenziale, il suo mondo e tutto
questo per conoscere la Verità.
I Presocratici
L’etimo della parola “filosofia” sta a significare “amore per la sapienza”, per estensione
possiamo dire della Conoscenza, definizione questa pertinente ai Presocratici, che si dedicarono allo studio sistematico e cosmologico della natura, alla ricerca del suo “principio
primo”. Successivamente, nel periodo convenzionalmente definito “ontologico”, che vede
i vertici del pensiero greco (Platone e Aristotele), il termine risulterà in parte improprio in
quanto non si accontenta dello studio della realtà, bensì con un pensiero più ampio vuole
conoscere l’Uomo, il suo Essere e – cosa apprezzabile – i suoi indispensabili Doveri, ma
– cosa ancor più ardita – vuole conoscere il potenziale dell’uomo stesso, sapere se con la
Ragione può comprendere i Valori assoluti, Dio stesso.
I Presocratici, osservando la poliedricità della natura e la sua apparente mutevolezza,
indirizzano la loro ricerca filosofica verso la conoscenza di quella legge, di quella sostanza
prima, di quella “forza” dalla quale ha tratto origine la vita, in senso appunto cosmologico con il suo continuo divenire. Non deve apparire semplicistica l’individuazione di
questo Arché, al contrario ne va valutato l’impegno speculativo a comprendere la natura,
il mondo, non come una serie di realtà diverse, magari volute dalla divinità, bensì come
una unità animata, nel suo essere e nel suo divenire, dalla “sostanza prima”. Altro valore
dei Presocratici è quello di essere usciti, come credo filosofico, da quel Pantheon che ci
descrive Omero dove uomini e dei si incontravano e scontravano a seconda dei loro umori
ed uzzoli. Agamennone, per aver preteso da Achille la sua fanciulla Briseide, se ne scuserà
in seguito con gli Achei: «... non sono colpevole io, bensì Zeus e il Fato e le Erinni che mi
indussero nell’animo un selvaggio accecamento …». Quella omerica è una religione profondamente umanizzata che non ha rappresentato un freno al divenire dell’uomo greco, anzi
il contrario; esalta i Valori dell’uomo, ma senza armonizzarli, in quanto non identificati con
la “Legge”, la “Forza” che alimenta e regola la vita, e che quindi deve rappresentare anche
un riconosciuto Valore etico oggettivo.
Le scuole presocratiche sono: la Ionica, la Pitagorica, la Eleatica e la Sofistica; i maestri che
hanno dato vita a queste scuole, con eccezione di quella Pitagorica la quale si rivolgeva solo ai
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suoi discepoli diretti, hanno espresso il loro pensiero tra i cittadini della polis (inizia la democratizzazione della cultura), ritenendo questo loro metodo di insegnamento finalizzato ad una
doverosa Comunicazione rivolta alla Comunità, propedeutico ad un pensiero formativo. Il
filosofo quindi come indagatore del Pensiero e con esso Educatore del cittadino, figura che
più tardi sarà emblematica nella persona di Socrate.
Nel VII sec. a.C. la città di Mileto è una colonia greca, ricca per i suoi commerci e per le
sue industrie tessili. Trasibulo, tiranno capace, sa arricchire la città di Arte e incoraggiare la
Cultura; tra i filosofi figura Talete, che per primo fra i Presocratici dà vita alla scuola Ionica.
Il suo pensiero enuncia che la sostanza prima è l’“Acqua”, animata da una forza vivificatrice per la quale tutto “È” e che tutto trasforma. Celebri sono due sue riflessioni: «Conosci
te stesso» per meglio vivere la propria vita; e «Tutto è pieno di dio» per comprendere il
significato sacrale della sua Forza animatrice.
Non è compito del nostro lavoro analizzare tutti i filosofi presocratici ma, solo per meglio
comprendere il periodo storico e la sua evoluzione, è opportuno guardare ad Eraclito,
sempre della scuola Ionica, ad Empedocle e a Gorgia della Sofistica. Eraclito nasce nella
bella e colta città di Efeso verso la fine del VI sec. a.C.: la sua Arché è il “Fuoco”, inteso
come una forza creatrice e intelligente; nel suo regolare accendersi e spegnersi si ha il
mutamento delle cose.
Altra certezza per Eraclito è il continuo divenire, intendendo così che la realtà incessantemente cambia e noi con essa. Possiamo interpretarla con saggezza solo se consideriamo e ci ispiriamo al Logos che, pur esprimendo la legge divina, costituisce l’anima stessa
dell’Uomo, il suo essere e quello del mondo. Eraclito parla alla sua comunità, si sente
educatore e prosegue: «Ho indagato il mio animo» e questa Ricerca la ritiene fondamentale
per penetrare sempre più la Conoscenza della propria anima, del Logos, anche se questo
trova un limite proprio nelle capacità dell’Uomo, ma questa continua Ricerca arricchirà
costantemente la mente e l’animo stesso.
La volontà di conoscere deve essere rivolta anche verso la natura la quale, però, nel suo
scorrere concederà una Conoscenza soggettiva. Anticipando esigenze moderne, Eraclito
ci parla di quanto opportuna sia la Comunicazione che, rendendo manifesta e fruibile la
Ricerca, arricchisce il sapere comune ed educa l’Uomo, in quanto soggetto, ma anche come
componente della Società. È affascinante questo pensiero eracliteo del VI sec. a.C. tipicamente greco, che trova la sua concreta espressione nel vivere in comune, in un continuo e
fertile confronto e travaso di idee.
Empedocle di Agrigento nacque verso l’inizio del V sec. a.C.; ne riportiamo il suo
Pensiero perché, oltre alle sue attività di politico e studioso, fu medico e questo in una
Grecia e Magna Grecia che si avviavano alla sua massima potenza non solo militare, avendo
sconfitto ripetutamente le forze persiane (492-479 a.C.), ma anche economica e politica.
Empedocle pone come constatazione imprescindibile che la Conoscenza umana è
promossa, ma anche limitata, dai suoi sensi. Lasciamo la parola a Empedocle che si esprime
in versi:
Sappi primieramente che quattro sono le radici d’ogni cosa, Zeus lucente, Era avvivatrice, Edenco e Nesti che di sue lacrime le nutre le mortali fonti di vita … e queste cose
non cessano mai di mutarsi continuamente ora ricongiungendosi tutte in unità per forze
d’amore, ora invece portate ciascuna separatamente nell’inimicizia della Discordia …
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Acqua, Terra, Fuoco e Aria sono le quattro Radici (Platone li chiamerà “Elementi”) che
animate dall’amore tendono ad unirsi, se dall’odio, a separarsi. Ricordiamo poi Gorgia da
Lentini, che del pantheon dei filosofi certo è il meno affascinante, ma nella sua semplicità
sembra chiudere un’epoca così da consentire a Socrate di illuminare con il suo metodo e
con il suo sapere la mente umana per i tempi a venire.
Gorgia negava sostanzialmente tutto, persino quella Conoscenza legata ai sensi. Così
sosteneva: «… nulla c’è …», negando così la Verità; se al contrario “c’è” questa non può
essere intesa né dai sensi né dall’intelletto in quanto soggettivi; infine, se ipoteticamente la
Verità, o un aspetto di questa potenzialmente conoscibile, può essere rivelata, lo sarà con
difficoltà e comunque non potrà essere compresa, causa la soggettività dell’uomo. Non solo
la Conoscenza è soggettiva, ma è legata alla Parola, la quale si esprime con l’arte del persuadere, un’arte suggestiva e convincente esercitata sull’animo di chi ascolta. Come dire: né la
Verità né la Realtà esistono come Valori, queste sono soggettive e comunque frutto di una
suggestione indotta da un persuasore, da un retore, da un fine conoscitore dell’arte del dire
e della comunicazione (come lo stesso Gorgia).
Questo non ci deve far pensare a Gorgia come ad un nichilista che rifugge da ogni
Valore: è un filosofo che enuncia il suo pensiero indipendentemente dal dovuto comportamento virtuoso; infatti scriverà ne L’Elogio di Elena: «Gli uomini retti sono onore ed
ornamento della città, del corpo lo è la bellezza, dell’animo la saggezza, dell’azione la virtù,
del pensiero la verità». Un pensiero apprezzabile per la sua eticità!
Pitagora dovrebbe essere escluso dal novero dei Presocratici non per il suo Pensiero,
in realtà tanto profondo ed innovativo oltre che poliedrico, ma perché la sua Scuola fu
piuttosto una associazione religiosa, da taluni definita setta, più che una scuola aperta alla
Comunità. Non predicava per aprire un dialogo, né per stimolare quella Ricerca comune
foriera della grandezza del pensiero greco e non solo. L’insegnamento di Pitagora, essenzialmente comportamentale e religioso, era rivolto ai suoi seguaci (non discepoli) i quali,
anche attraverso un costume vegetariano e castigato, apprendevano come i numeri fossero
regolati da leggi divine, fossero di fatto “la causa materiale”, esprimendo i principi di tutte
le cose. Il suo interessamento alla Medicina è frutto del suo pensiero filosofico; sosteneva
infatti che lo stato di Salute fosse lo stato di Armonia tra il proprio corpo e l’universo; la
disarmonia provocava la malattia; questo, come detto, richiedeva norme comportamentali
ben precise che escludevano eccessi di ogni tipo, raccoglimento nella meditazione e nella
preghiera, alcune restrizioni alimentari, tra le quali il vino e le fave e per i “matematici”,
suoi seguaci eletti, esclusivamente una dieta vegetariana.
Oggi diremmo che raccomandava un’attenta prevenzione con due farmaci da sempre
approvati: la serenità dell’animo ed una dieta morigerata e igienica.
Non vogliamo seguire tutto il pensiero pitagorico, se non per ricordare la sua etica che
invitava a ispirarsi alla divinità per divenire simile a essa; un pensiero che giunge a noi grande
e inalterato. Ripetiamo che Pitagora fu compreso, lodato e confutato solo dai grandi pensatori,
non certo dal Greco che, aperto al sapere universale, amava filosofeggiare per le strade con gli
amici, più spesso durante un banchetto; per questo Socrate fu il più amato tra tutti i filosofi.
I Presocratici, in estrema sintesi, hanno affermato l’indistruttibilità della Materia formata
da uno o più “elementi” e animata dalla Forza o Fuoco Sacro che nel suo continuo divenire, si trasforma, si riduce nei singoli elementi i quali, aggregandosi di nuovo, danno vita
ai diversi aspetti della Natura. L’esempio che veniva portato era come la legna, materiale
combustibile, bruciando genera fuoco, calore, fumo, lasciando infine le ceneri che sono della
medesima natura della terra. Lavoisier, giustamente considerato il fondatore della chimica
moderna, nel XVIII sec. ripeterà: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
La Sanità della Polis: un diritto
La Materia, la Natura quindi, come realtà da conoscere doverosamente, pur con le limitazioni imposte dai nostri sensi.
Questa concezione ha educato anche il semplice cittadino della Polis greca alla ricerca
del metodo per ampliare la Conoscenza e se questo fu vero per lo studio della Natura, dei
Valori dell’uomo, delle formule politiche, lo fu anche per la Medicina e la Farmacia, che da
espressione della divinità si trasformarono in Scienza, frutto appunto di Ricerca praticata
con metodo sempre più razionale e che evolverà in una disciplina oltre che Servizio sociale,
tanto da essere nella sua evoluzione regolata da un codice deontologico che più tardi sarà
perfezionato e stigmatizzato da Ippocrate. Alcmeone di Crotone (500 a.C.) è interprete di
questo fervore scientifico e, pur nascendo culturalmente alla scuola di Pitagora, con intento
tutto pragmatico inizia i primi studi di fisiologia praticando la dissezione, scoprendo il
nervo ottico e osservando così che conduceva al cervello.
Comprese come questo fosse la sede dei sensi e della attività intellettuale, ma ancora –
anticipando Empedocle ed Ippocrate – afferma come lo stato di salute sia dato dall’equilibrio di quelle “qualità” antagoniste tra loro (isonomia), che caratterizzano il mondo vivente
e l’uomo in particolare.
Il caldo, il freddo, il secco e l’umido, l’amaro e il dolce, l’acerbo e il maturo che, se
presenti nell’organismo in giusta “Armonia”, garantiscono il desiderato benessere psicofisico. La terapia consisterà nell’igiene alimentare mirata a contrastare le “qualità” manifestamente in eccesso e in quei farmaci armonizzanti che lo stesso medico, all’interno del suo
Iatreo, aveva già preparato o preparava al momento.
L’aspetto da evidenziare è che il cittadino greco nella sua crescita sociale e culturale,
pur esclusivamente all’interno della sua Polis, ora pretende tutti quei Valori, espressioni
estetiche e servizi, che caratterizzano la sua evoluta Comunità.
La Sanità della città è considerata un diritto e l’educazione che viene impartita ai giovani,
ispirata al concetto di “vigore e grazia”, tende a costruire quel benessere psicofisico, status
primo capace di elevare la qualità della vita.
È in questo più evoluto contesto sociale che il Medico lascia il tempio asclepiadeo per
essere presente nella sua scuola di formazione, al fine di portare la sua capacità professionale là dove ce ne sia bisogno; è un medico quindi “periodeuta”, ma anche Farmacista,
in quanto viaggia con quei farmaci preparati in precedenza e che più ricorrono nella
terapia.
Solo successivamente, in una Comunità ricca, più colta e quindi maggiormente esigente,
il medico nel suo Iatreo riceve il paziente per le cure del caso e dove il suo assistente, che
possiamo definire “protofarmacista”, prepara quei farmaci semplici o composti per i quali
la tecnica farmaceutica ora richiede un maggior tempo ed attenzione per la preparazione.
Sarà questa figura professionale che gradatamente si approprierà di capacità tecniche
sempre più ampie e peculiari, ma anche di cultura scientifica propria, particolarmente
nell’ambito della Fitoterapia essendo suo compito “erborizzare”, selezionare le erbe officinali, ricavarne la droga9 e custodirla nel più attento dei modi, per preparare successivamente le prescritte forme farmaceutiche: succhi, decotti, enoliti, acetoliti, oli, unguenti.
Evolve quindi in un Farmacognosta, profondo conoscitore delle droghe officinali, delle
loro qualità terapeutiche e della trasformazione in farmaci.
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La droga è la parte farmacologicamente attiva della pianta o dell’animale.
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Si delinea la figura del Farmacista dal cui etimo greco (“avvelenatore-guaritore”), mago,
colui che sacrifica al dio, traspare tutto il fascino – ma anche timore reverenziale – che per
secoli aleggerà attorno alla sua figura.
Il V sec. a.C.: Socrate e Ippocrate
Il V sec. a.C. in Atene è un periodo storico che all’uomo ancora oggi desta meraviglia ed
ammirazione e possiamo definirlo propedeutico all’evoluzione della Civiltà Europea: è infatti
in questo momento storico che i Presocratici avviano l’uomo ad una costruttiva speculazione
filosofica e di osservazione della natura. Va ricordato inoltre che questo è anche il sec. di
Eschilo, di Sofocle, Erodoto, Euripide, autori che esaltano il sentimento, invitano a considerare l’operato umano con le sue grandezze, ma anche a valutarne i limiti. Tra il 447 e il
432 a.C. Ictino e Callicrate, sotto la guida di Fidia e su commissione dell’autokrator Pericle,
costruiscono il Partenone.
È il secolo di Ippocrate, della alternanza tra la democrazia e la tirannide, è il secolo
dove concetti come Verità e Ragione prendono consistenza, dividendo così l’umanità in un
conflitto tra Fede e Ragione che permane ancora ai giorni nostri, anche se Papa Giovanni
Paolo II nella sua illuminata enciclica Fides et Ratio approva la Ragione purché finalizzata a un pensiero positivo, costruttivo, rispettoso dell’uomo. Il V sec. è il momento di
un grande politico, Pericle, il quale senza voler entrare nella storica controversia sul suo
concetto di democrazia (forza del popolo o della maggioranza?), pure diede corpo alla
parola Libertà; citiamo le sue parole riportate da Tucidide « … però nelle controversie private
attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà …».
Giustizia e Libertà, solo i Romani in seguito sapranno perfezionare questi due Valori. Platone,
nell’ottavo libro del De Republica, ci ricorda che la Libertà è come una coppa di vino che
inebria se bevuta ad libitum. Va goduta a piccoli sorsi e comunque conquistata giorno dopo
giorno! Solo quando l’uomo identificherà la parola Libertà con il concetto di Dovere e di
Dignità, solo allora questa parola non sarà stata pensata invano.
Il V sec. è il secolo di Socrate, luce del Pensiero, medico dell’anima, colui che ha spronato e insegnato a pensare agli uomini, al di là della evidenza dei propri sensi e dei propri
apparenti limiti.
Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C., fu educato al rispetto della sua Polis, intraprese
studi di fisica senza che questi lo interessassero particolarmente o lo distogliessero dalla sua
dedizione preferita: conoscere l’uomo. A Potidea, Antipoti e a Delio mostrò di essere un
combattente forte e coraggioso e il suo “auto-dominio” (dominio sulla propria animalità) gli
consentì di resistere con apparente indifferenza a sacrifici come la fatica ed a freddi intensi.
Visse come un vero Ateniese senza lavorare, soddisfatto di una piccola rendita, ma felice così
di frequentare botteghe, incontrare amici, parlare con loro delle mille cose cittadine, contribuire con il suo pensiero a stimolare nuove riflessioni, a porsi costantemente il “Perché”,
a riconoscere in se stessi la propria Psiche, l’anima che distingue l’uomo dalle altre cose.
Socrate non volle lasciare suoi scritti, conscio come era del continuo evolvere della Conoscenza, ma grazie a Senofonte e Platone conosciamo il suo Pensiero, la sua “Maieutica”,
l’arte con la quale con continue interrogazioni si conduce il proprio interlocutore a scoprire
da sé quelle verità appena celate nel suo animo.
Socrate quindi ci invita a riconoscere in noi la Psiche, l’anima che va intesa come l’Io
consapevole, come la ragione, come la nostra coscienza che ci porta a pensare ed ad agire
appunto con razionalità e moralità, e questo grazie alla “Areté” che è la facoltà dell’anima di
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essere etica così come la sua stessa natura vuole. Questo pensiero, pur nella sua semplicità,
ha generato una rivoluzione perché ha spostato l’oggetto del pensiero dall’Arché e dai Valori
classici greci (forza, bellezza, salute, benessere) alla Psiche dell’uomo; come dire, i Valori
che contano nella vita, per la tua comunità e per la tua persona sono dentro di te, sta alla tua
ragione e al tuo metodo di ricerca scoprire l’Areté e in genere il grande potenziale dell’Uomo.
Questa concezione, pur attraverso i grandi filosofi, caratterizzerà il pensiero morale, intellettuale e quindi scientifico europeo sino ai giorni nostri.
Non appaia l’educazione e l’etica socratica lontana dal mondo scientifico, perché alla
domanda “Che cosa è la Virtù?” Socrate risponde: «La Conoscenza!», intendendo quest’ultima come Valore primo capace con il metodo (maieutica) di generare nuova Conoscenza,
perché sarà questa infine che lo porterà a Dio. Da Socrate in poi saranno il Metodo e la
costante ricerca della Conoscenza, che ispireranno Filosofi, Scienziati, Medici e Farmacisti.
Nel V sec. a.C., i Greci della madre patria e quelli italioti delle colonie si trovarono a
dominare il Mediterraneo. L’arroganza persiana era stata più volte battuta e placata, la
Magna Grecia in particolare progrediva economicamente e militarmente tanto che i Siracusani sbaragliarono nella battaglia di Imera10 nel 480 a.C. la flotta e l’esercito cartaginese,
mentre a Cuma nel 474 a.C. annientarono quella etrusca. I Romani erano ancora tutti
intenti a perfezionare la loro Res Publica11 ed a difendersi dai popoli limitrofi.
Questo quadro generale consentiva ai Greci, pur tra scontri interni intensi, di essere
padroni dei commerci nel Mediterraneo, attività che rendeva le città greche ricche ed
attente ad ogni iniziativa culturale ed artistica.
Atene poi, grazie alla Lega Delio-Attica, approfittava del tesoro della federazione e
questo perché Pericle, opportunamente nel 454 a.C., l’aveva fatta trasferire da Delo ad
Atene,12 disponendo così del tesoro che gli permise di realizzare nella sua Polis una esplosione artistica e culturale mai eguagliate nella storia dell’Uomo.
Fu anche un periodo fortunato: infatti, proprio nei pressi di Atene, in quel di Laurium,
fu scoperta una miniera con un importante filone di argento che, oltre a sostenere la
prosperità, garantiva una dracma stabile e forte, accettata da tutti i popoli del Mediterraneo
e quindi un’ulteriore stabilità per i fiorenti commerci ateniesi.
Come spesso accade, tanta ricchezza ed effervescenza aumentano le attese della Comunità,
la quale ora desidera progredire, accrescere il proprio livello culturale, migliorare la qualità
della vita: si aprono più Scuole, Platone apre la sua Accademia; l’alimentazione migliora tanto
che Ippocrate perplesso e scandalizzato osserverà che: «… c’è gente che mangia anche due
volte al giorno …»; il cittadino, prendendo coscienza di se stesso, sente che la Salute è un suo
diritto. Come detto, la Medicina sino agli inizi del V sec. a.C. era di tipo teurgico, i sacrariospedali dedicati ad Asklepios erano molti e le guarigioni venivano considerate miracolose;
oggi possiamo affermare che avvenivano solo in quanto gran parte delle malattie sono risolte
dagli anticorpi e dal sistema antiossidante, quindi grazie alla Forza Vitale dell’organismo.
Certo l’igiene, il riposo, l’alimentazione e una terapia praticata con erbe officinali,
coadiuvavano sia gli dei preposti alla tutela della Salute, che la Forza Vitale.
Con il progredire delle varie Scuole mediche, molti, ritenendosi sufficientemente preparati, vagavano per il Paese in cerca di pazienti da guarire (medici periodeuti); sino a che
10
Nei pressi della odierna Termini Imerese (Sicilia).
Nel 509 a.C. i Romani cacciano i re Etruschi e instaurano la Repubblica.
12
La Lega Delio-Attica fu costituita nel 478 a.C. e va intesa come una federazione di Stati greci con finalità
difensiva.
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punto la loro professionalità garantisse una corretta diagnosi e terapia non è dato saperlo;
di fatto la suggestione, la preghiera e la speranza risultavano farmaci importanti, pensiero
questo condiviso anche da Platone e Aristotele.
Ippocrate, figlio di un medico non proprio luminare, ebbe come sua prima virtù il fatto di
essere un grande osservatore, la qual cosa gli consentì di guardare con spirito attento e critico
sia al malato che alla malattia e di comprendere così definitivamente come questa mai debba
essere ritenuta una punizione divina, bensì frutto di una discrasia degli elementi che costituiscono il corpo umano e la sua vitalità, con il conseguente accumulo di cataboliti metabolici.
Questo convincimento, per quanto Ippocrate si fosse formato alla scuola asclepiadea,13 lo
fece allontanare dal credo teurgico; fu il primo medico laico che alimentò la sua professionalità
con l’osservazione e con lo studio, ricercando così nel malato la causa della patologia.
Predicò inoltre, come sempre, che la professione debba essere praticata con scienza e
coscienza e come il medico per la sua professione non debba guardare agli dei, bensì con la sua
dedizione, la sua eticità essere sacerdote di se stesso.
Nacque nell’isola greca di Koo nel 459 a.C., fu attento studente del padre Eracleide dal quale
apprese i primi rudimenti; frequentò il sacrario-ospedale dedicato ad Asklepios, iniziando qui
i suoi studi di medicina (Platone lascerà dire a Fedro: «… se si deve credere ad Ippocrate, che è
della stirpe degli asclepiadi …») ed ebbe così modo di osservare i tanti malati che vi giungevano
cogliendone, aldilà della malattia, la loro unicità.
Il concetto di malattia è una astrazione, la realtà è un uomo che soffre e che parla al
medico con il suo modo di essere, il suo corpo, i suoi sintomi; osservazione questa che
caratterizzerà la medicina ippocratica. Studiò la medicina egizia, la filosofia dei Presocratici e si convinse che il mondo in tutte le sue molteplici espressioni era governato dalla
Armonia, il giusto equilibrio tra i contrari: il caldo con il freddo, l’umido con il secco,
l’amaro con il dolce ecc.
Crasi, quindi, quando vi è il giusto equilibrio tra gli elementi, i costituenti, gli Umori
(benessere psicofisico); discrasia, a indicarne un disequilibrio (l’etimo della parola rinvia a
“cattiva mescolanza”).
Fu formativa, per Ippocrate, la scuola di Crotone della quale ricordiamo i suoi due “luminari”: Pitagora e, ancor più per quanto attiene alla medicina, Alcmeone.
Gli studi filosofici, l’attenta osservazione volta a cogliere la peculiarità del malato e naturalmente la pratica medica, radicarono in lui il convincimento medico che va sotto il nome
di “Teoria umorale” per la quale il corpo umano con la sua vitalità è governato dalla crasi dei
quattro elementi che danno origine agli umori:
• il Sangue, caldo e umido ovvero il fuoco e l’acqua;
• la Flegma o Pituita un umore freddo che nasce dal cervello e caratterizza il comportamento flemmatico;
• Bile Gialla o Flava, generata dal fegato, è secca e calda, tende a riscaldare, un eccesso
genera infiammazione, febbre, vomito, un comportamento bilioso o, per usare un
termine più recente, pletorico;
• l’Atrabile o Bile Nera un umore che induce alla malinconia14 nasce dalla terra e dall’aria,
dal secco e dal freddo.
13
14
Nell’isola di Koo vi era un sacrario-ospedale asclepiadeo.
Ancor oggi ricorre la frase: «È di umor nero».
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Quando uno di questi umori prevale sugli altri allora si manifesta la discrasia, la
malattia; è compito del medico osservare attentamente il paziente, scrutare il suo volto
(facies ippocratica), ascoltare l’anamnesi e solo dopo, enunciata la diagnosi, prescrivere la dieta più appropriata, norme comportamentali e la giusta terapia farmacologica
quando necessaria.
Ippocrate comunque credeva fermamente nella Forza sanatrice della natura (vis medicatrix naturae) e amava ripetere: «Il medico deve solo seguirne gli insegnamenti …».
Il concetto della vis medicatrix naturae nel pensiero ippocratico è fondamentale, perché:
«… l’organismo tende a guarire … la natura è il medico delle malattie …», la natura che
con le sue “reazioni” (sintomi, difese), infiammazione, febbre, nausea e vomito, catarro,
suppurazione, combatte o meglio “concuoce” quanto le difese dell’organismo nella fase
acuta della malattia producono.
Successivo compito del medico sarà quello di espellere gli umori concotti,15 attraverso
gli emuntori naturali: saliva, sudore, muco nasale e bronchiale, urina, vomito e feci.
La terapia ippocratica, in estrema sintesi, può essere così riassunta:
•
•
•
•
una opportuna dieta che dia vigore, ma che non affatichi la Forza Vitale dell’organismo;
norme comportamentali igieniche, compresi i bagni marini e termali;
somministrazione di farmaci che facilitino la cozione;
farmaci “evacuativi” che facilitino l’espulsione degli umori concotti attraverso gli emuntori ritenuti più idonei.
Riportiamo alcuni pensieri e formule prese dal trattato Le piaghe:
Le piaghe non si infiammano se non quando vogliono suppurare e suppurano a mezzo
del sangue che si altera e si riscalda finché marcendo si trasforma in pus.
È necessario, specie per le ferite di arma da taglio, applicare un medicamento vulnerario
e qualche sostanza disseccativa.
Umettare e detergere la piaga con vino, prima di procedere ad altra medicazione.
Si fanno cuocere nel vino bianco dolce le radici di quercia verde, quando avranno bollito
a sufficienza si decanti. Si prendano due parti di questo decotto ed una di feccia di olio
di oliva ben asciutta, si faccia cuocere con questa mescolanza a fuoco lento sino a giusta
concentrazione.
Fare una decozione unicamente con grasso vecchio di porco che si fonderà e sopra si
metta la radice di scilla precedentemente tagliata, poi coprite con una benda. L’indomani
si faranno dei lavaggi con vino.
Si fa fondere grasso vecchio di maiale e cera, si mescola olio, incenso, raschiatura di loto,
argilla ocracea (ricca di idrossido di ferro), si adopera in unzioni.
Dopo avere unto la parte con grasso vecchio di maiale, si impasta con il residuo della
radice di asfodelo bruciata nel vino e resa impalpabile.
Il paradigma ippocratico tenne scuola nei secoli, e lo fece proprio Claudio Galeno e sino
alla fine del XVIII sec. costituì la medicina ufficiale del mondo arabo e occidentale.
Cominciò a essere appena incrinata da Galileo e da Cartesio, che pretendevano l’osservanza del metodo e la riproducibilità del fenomeno.
Lentamente, ma definitivamente, fu messa da parte dall’Illuminismo sempre critico e
dissacrante verso un pensiero di fatto imposto dal “credo” ufficiale senza alcuna ulteriore
ricerca critica, benedicente la volontà della Chiesa.
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In epoca medioevale verranno chiamati “umori peccanti”.
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Ricordiamo che alla Università Federico II di Napoli solo nel 1840 fu abolita la cattedra
di Studi ippocratici a favore di quella di Igiene.
Oggi, pur in epoca di medicina tecnocratica, il pensiero ippocratico ritorna proprio in
quei medici che prima ancora di riconoscere la malattia, intendono conoscere il malato.
È attuale grazie anche alla “educazione” professionale del medico omeopata, che vuole
evidenziare la unicità del malato per meglio giungere alla diagnosi e alla terapia.
Tornano ancora, dal loro periodo aurorale, il riconoscimento dovuto alla vis medicatrix
naturae,16 la scienza delle costituzioni umane, la psicosomatica, e ancora quell’approccio medico
tutto umanistico, il quale crede che la medicina sia un’Arte piuttosto che un metodo terapeutico.
Elementi, Umori, Temperamenti
Aria cuore SANGUE umido e caldo temperamento sanguigno.
Fuoco fegato BILE FLAVA secco e caldo temperamento bilioso, collerico.
Acqua cervello FLEGMA umido e freddo temperamento flegmatico.
Terra milza ATRABILE secco e freddo temperamento melanconico, introspetto.
Ippocrate non fu un innovatore della tradizionale pratica asclepiadea, bensì un rivoluzionario; cancellò il medico demiurgo tra il malato e gli dei e ne istituì uno responsabile
della sua diagnosi e terapia, forte solo dei suoi studi e della sua dedizione.
Insegnò anche – certamente conosceva Socrate – la maieutica per essere vicino al malato
e meglio comprendere la malattia; raccomandò anche a chi sano un costume di vita capace
di tutelare la salute, facendo comprendere l’importanza della dieta, dell’attività fisica,
dell’osservanza dei Valori che danno serenità alla vita.
Forgiò l’Arte Medica inferendo in essa eticità, doverosa scienza, e curando la figura
del medico sin nei minimi particolari: ben vestito, non altezzoso, disponibile e profumato
affinché il profumo rendesse grata al paziente la sua presenza.
Lasciamo parlare Ippocrate nel suo trattato Del Medico:
… stimiamo buona pratica del medico che egli badi di essere di buon colore e in carne,
per quanto lo porta la sua costituzione, in quanto la gente stima che chi non è ben
disposto del corpo suo né agli altri possa recar vantaggio. Anche esteriormente vesta
decoroso ed usi profumi che abbiano odore non nocevole; da questi ricevono grata
sensazione i malati …
Il suo sapere medico è racchiuso nel Corpus Hippocraticum, 72 libri in gran parte scritti da
lui, ma certamente anche dai discepoli che successivamente hanno riportato il suo pensiero.
L’opera ci dà la vastità degli interessi del Maestro; solo per citarne alcuni: il morbo sacro
(epilessia), la dieta,17 le acque, le ferite, la prognosi, il cielo, gli aforismi.
16
17
Uno studio recente ha osservato che il 70% delle patologie si risolvono senza intervento medico.
Ippocrate: «… fa che il cibo sia la tua medicina …».
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Questi per due millenni furono considerati il testo classico fondamentale della Medicina
ed ancora oggi oggetto di riflessione.
L’intero Corpus Hippocraticum fu infine raccolto e custodito nella costituita Biblioteca
alessandrina.
L’esegesi e la ratio dell’intero Corpus collocano l’opera nel suo tempo, e ciò sta a indicare
che ogni critica risulta pleonastica; del pensiero del Maestro va colta l’eticità ed il metodo
per comprendere il malato e la conseguente malattia.
Il paradigma di Ippocrate così letto ed interpretato giunge intatto, ancora oggi, a quanti
intendono ritenere che la Medicina sia un’Arte dedicata all’uomo.
Socrate sosteneva di non conoscere la verità, ma certamente di conoscere i miracoli e gli
incantesimi, quel tanto da non crederci.
Una simile affermazione presuppone che ancora nel V sec a.C. i miracoli erano all’ordine del giorno, così come gli incantesimi perpetrati da persone più o meno in buona fede,
medici compresi, che affidavano il loro intervento alla suggestionabilità del paziente.
Questa situazione era ben nota ad Ippocrate, che quindi, oltre che inferire eticità e
dignità nella professione, pretese che venisse osservato un ordine degli studi dove, quale
prima disciplina, dovesse figurare la Filosofia; questa avrebbe garantito al futuro “Iatros”
una maggiore ampiezza di pensiero e sensibilità sui molteplici aspetti della vita.
Inoltre, lo studio della filosofia avrebbe allontanato quegli “studenti” non disposti al
massimo impegno.
Questa saggia imposizione fu, nel futuro, sempre osservata e fatta propria da Galeno e
ancora da Federico II Sacro Romano Imperatore, proprio per conferire maggiore autorevolezza alla figura del medico.
Diede vita quindi con i discepoli che avrebbero diffuso la sua Arte a una casta, intesa
questa nel senso migliore del termine di cui studio, norme comportamentali, rispetto, assistenza e reciproco scambio di osservazioni e riflessioni mediche erano i valori fondanti.
Tutto questo, chiaramente espresso nel suo Giuramento, aveva anche la finalità di non
lasciare spazio a medici sedicenti, oltre che tutelare il malato al quale era dovuta la migliore
prestazione possibile scevra da miracoli ed improvvisazioni.
Queste leggi ad usum scholae medici hippocratis rappresentarono la base statutaria per
quelle che saranno le Universitas e le Corporazioni medievali, le quali, come propria finalità, avevano quella di difendere l’Arte in tutti i suoi aspetti: giuridico ed economico, ma
anche di garantire all’aquirente-utente un prodotto o prestazione di assoluta qualità.
Ippocrate morì a 109 anni e dedicò tutta la sua vita all’Arte Medica, fu un vero Greco,
sensibile interprete del suo secolo; quando fu invitato con doni ed onori da re Artaserse
in Persia per debellare una epidemia, rifiutò, affermando che mai avrebbe aiutato un
nemico della Grecia.
Gli furono riconosciuti i massimi onori, compresa la concessione della cittadinanza
ateniese.
Esculapio fu elevato all’Olimpo, Ippocrate ad emblema stesso della Medicina.
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Giuramento antico di Ippocrate
Giuro per Apollo medico e per Asclepio e Igea e Panacea e per gli dei tutti e per
tutte le dee, chiamandoli a testimoni1 che eseguirò questo giuramento e questo
impegno scritto: di stimare il mio maestro di quest’Arte come mio padre e di vivere
insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli
ed insegnerò loro quest’Arte se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei
precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli ed i figli del mio
maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma
nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze ed il mio giudizio,
mi asterrò dal recare offesa.2
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.3
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia Arte. Non opererò coloro
che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a quelli che sono esperti di questa
attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni
offesa e danno volontari e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne
e degli uomini liberi e schiavi.4
Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio sulla vita degli uomini
tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
A me dunque che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di
godere della vita e dell’Arte onorato dagli uomini tutti, per sempre.
Mi accada il contrario se spergiuro.
Tradotto dall’originale greco
1
Da queste prime righe, si comprende meglio la laicità di Ippocrate tutta volta verso la sua professione,
ma senza irridere o mancare di rispetto agli dei, che anzi invoca quali tutori della sua eticità.
2
In questo primo paragrafo si leggono quelli che saranno i primi impegni che caratterizzeranno gli statuti
delle Corporazioni medievali.
3
In questo secondo paragrafo ed in quello che segue, la Chiesa ha letto la santità degli intenti ed il rispetto
per la vita, accettando così nella sua interezza il pensiero ippocratico.
4
Molto bello questo passo che pone il medico di fronte all’Uomo, senza nessuna discriminazione.
Ippocrate e i suoi allievi disponevano di una propria Farmacopea intesa come un elenco
di droghe vegetali oltre che rimedi di origine biologica e minerale; di questi ne conosciamo
il nome, ma non tutti riusciamo ad identificarli anche perché, essendo caduti in disuso, se
ne è perso il ricordo della loro attività farmacologica.
La scuola ippocratica riteneva giustamente che ogni farmaco (da adesso in poi inteso
esclusivamente come preparato curativo) avesse una sua naturale predisposizione per un
particolare umore o organo piuttosto che per un altro; questo ci dice che la terapia consisteva nel concuocere la patologia nella sua fase acuta ed infine con un secondo farmaco
scegliere l’emuntore dal quale espellere i cataboliti della malattia (purgare).
Gli aghi o la resina dei pini, ad esempio, con la loro azione balsamica, dopo avere prima
somministrato nella fase iniziale della patologia (tosse, bronchite) un infuso di petali di
Papaver rhoeas, ipnoinducente e sedativo della tosse con azione bulbare, venivano prescritti
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anch’essi in infuso o per suffumigi, al fine di promuovere, in quanto balsamici, una azione
risolutiva ed espettorante.
Nel Corpus Hippocraticum sono riportate solo 130 erbe officinali, in realtà poche rispetto
a quante se ne conoscevano in Persia ed in Egitto; si può ipotizzare che una maggiore conoscenza delle droghe da utilizzare si avrà solo dopo l’occupazione da parte di Alessandro dei
territori orientali.
Chi scrive ritiene che ciò sia solo in parte esatto; vero è che Dioscoride, cinque secoli
dopo, elencherà oltre 800 droghe (così come la Historia Plantarum di Teofrasto, V sec.
a.C.) nel suo De Materia Medica e così tante altre opere dell’epoca, ma tutte hanno una
finalità enciclopedica piuttosto che di pratica medica “sul campo”. Inoltre dopo Ippocrate,
nel tempo ogni discepolo si è sentito in dovere di valutare ed aggiungere un farmaco di
natura animale o vegetale, quel tanto da personalizzare la sua Farmacopea.
Quanto sopra ce lo lascia intendere il Benedicenti nel suo Medici, Farmacisti, Malati
dove riporta come nella terapia di scuola ippocratica, al fine di curare alcuni disturbi dell’utero, venissero prescritti suffumigi: «… facendo bollire un cagnolino sventrato e riempito
di erbe aromatiche …». Ippocrate, da quell’attento osservatore e sperimentatore che era,
non avrebbe mai usato un farmaco tanto improbabile quale un povero cagnolino ridotto a
suffumigi, né escrementi di coccodrillo o grasso di leone o tante altre assurdità che figureranno nelle Farmacopee medievali e rinascimentali.
Purtroppo il testo Farmaxitis, dove il Maestro descriveva i suoi farmaci e la tecnica
farmaceutica per prepararli, è andato perduto e quindi non rimane, nella esegesi dei suoi
scritti, che lasciarsi guidare dalla ontologia del suo pensiero.
Elencare le droghe vegetali menzionate nel Corpus Hippocraticum sarebbe prolisso, ricordiamo solo quelle conosciute o ancora oggi prescritte:
Il Papaver somniferum ed il rhoeas, la Mandragora, l’Aconito napello; quest’ultimo in
quanto contenente alcaloidi tossici, dimostra che lo si sapeva usare in giusta dose, ben
sapendo che: dosis sola facit venenum.
Le resine: di pino, la mirra, il mastice per le loro azioni rubefacenti ed antibatteriche.
Droghe digestive, di natura calda che in ambiente gastrico concuociono gli alimenti
facilitando così la digestione: Finocchio, Anice, Aneto, Salvia, oltre la Camomilla per la sue
qualità anche miorilassanti.
Compare anche la segale cornuta, più propriamente la farina infettata dal fungo, certo
utilizzata non a scopo abortivo, bensì per facilitare il parto.
I semi di lino, la malva fiori, le galle di quercia, il salice corteccia erano droghe semplici,
ma largamente usate.
Molto particolare, nella loro prescrizione, erano gli oli essenziali (ancora oggi di difficile
prescrizione) che si ottenevano per distillazione. Alcuni, particolarmente aromatici, venivano dispersi in olio di oliva o mandorle al fine di profumare più che le belle donne greche,
i loro mariti e gli atleti dopo i loro esercizi ginnici.
Le piante officinali e le rispettive droghe venivano colte in tempo balsamico e preparate
dai rhizotomoi, erboristi ante litteram, e successivamente consegnate al medico il quale
preparava, anche estemporaneamente, nel suo laboratorio il farmaco prescritto. Naturalmente molti rhizotomoi preparavano di propria iniziativa prodotti generici o per patologie
minori più ricorrenti.
Alcuni di questi seguitarono ad erborizzare, altri coadiuvarono maggiormente con il
medico acquisendo così una specializzazione che li qualificherà “Farmacisti” ante litteram,
garanti della droga usata e della corretta tecnica di preparazione.
Le forme farmaceutiche somministrate erano molteplici.
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• Per uso interno: sciroppi, succhi, i macerati nei vari solventi, ma anche le paste, le pillole
e le polveri, oltre che i tradizionali decotti ed infusi.
• Per uso esterno: pomate e linimenti, oli arricchiti di principi attivi, ma anche suffumigi
per inalazione, gargarismi e sciacqui per le affezioni del cavo orale.
Per ottenere la forma farmaceutica voluta necessariamente si doveva ricorrere a solventi
ed eccipienti. Tra i primi oltre l’aqua fontis e la piovana perché priva di soluti, il vino che,
essendo una soluzione idroalcolica, aveva un potere estrattivo e solubilizzante maggiore
rendendo al farmaco anche una migliore palatabilità.
Come esempio ricordiamo che le capsule immature del Papaver somniferum (il migliore
era quello di Smirne) secernono, se incise, un lattice che rapprendendosi dà l’oppio, successivamente raccolto in pani, come droga finale. Della pianta officinale tal quale venivano
somministrate le capsule in poltiglia, amalgamate nel miele o sospese in forma di sciroppo.
I pani consentivano di essere somministrati in polvere, quindi anche in pillole oltre che
in soluzioni alle volute concentrazioni.
La solubilizzazione della polvere in vino e non in acqua consentiva di estrarre la morfina
solubile sia in acqua che alcol, la papaverina, la tebaina, la narcotina, solubili in alcol. Così la
soluzione idroalcolica di oppio, con funzione paregorica,18 riproduceva l’attività farmacologica propria dell’oppio che – oggi si è visto – è diversa da quella della semplice morfina. Altro
solvente usato era l’aceto con il quale, oltre che estrarre i Principi Attivi, si potevano preparare gli ossimelliti. Ricordiamo l’ossimellito di Scilla (5 parti di acetolito di Urginea Scilla
Maritima e 10 di miele depurato) solo perché figurerà ancora nelle Farmacopee del XIX sec.
Gli oli erano utilizzati sia come solventi che eccipienti, tra questi l’olio di mandorle,
di olivo, di ricino, di lino. Come eccipienti propriamente detti venivano usati: la farina
di grano o di orzo ben setacciata, la pasta di fichi (quella di datteri era costosa), il miele e
l’ossimellito. Per uso esterno: adipe di maiale, oli e cera.
Nel laboratorio del medico e dei rhizotomoi certo non poteva mancare il fuoco, che
facilitava le solubilizzazioni, consentiva di depurare il miele, cuoceva quello che la tecnica
richiedeva, infine ispessiva o concentrava la preparazione. Gli strumenti, quelli di sempre:
distillatore, almeno due torchi di diversa grandezza, una macina media di basalto, mortai
di varie misure, setacci, imbuti, piastre e spatole per le pomate, contenitori e misuratori di
vetro, anche se costosi.
Con questa officina (che poi si dirà “galenica”), i rhizotomoi si affrancheranno dall’erborizzare, cercare radici e rizomi; e sempre più, nel tempo, saprà costruire, più propriamente,
l’Arte Farmaceutica.
Farmaco: pozione magica,
veleno o medicamento?
Sin qui abbiamo parlato dei prodromi della storia della Medicina e Farmacia, ma anche
dello stesso Omero nell’Iliade, che ci ha indotto a parlare di “Farmaco” come di un preparato
benefico e salutifero, ma in realtà molti autori antichi lo intendono come veleno, ricordando
così il suo significato primigenio. Ancora oggi alcuni vocabolari di lingua italiana ispirandosi
alla parola greca pharmakon sostengono che indichi: una o più sostanze capaci di produrre
18
Medicamento ad azione calmante.
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modificazioni funzionali utili o dannose. Altri, rifacendosi alla odierna diffusa accezione,
precisano che il farmaco è dotato di virtù terapeutiche.
Nella fase aurorale della medicina greca, pharmakos (con il sigma finale) sta a indicare il
mago, la vittima sacrificale, l’avvelenatore. A ricordarne l’antico etimo, Ipponatte (una sorta
di Cecco Angiolieri ante litteram) tre secoli dopo Omero usa il termine pharmakoi per indicare gente malvagia. Evidentemente, aldilà della cattiva propensione di Ipponatte, deve aver
prevalso il significato più sacrale per il quale il prodotto del pharmakos è il pharmakon con
funzione sia terapeutica che avvelenatrice; infatti, Omero, questa volta nell’Odissea (Libro IV,
verso 219) ci parla di Elena, grande conoscitrice di farmaci, ma ora meno “amante” e più moglie
di Menelao, perfetta padrona di casa, impietosita dalle ansie dell’ospite Telemaco in cerca del
padre Ulisse:
entro nel vino ch’essi bevevano un farmaco infuse19
ch’ira e dolore scacciava, che dava l’oblio d’ogni male
…………………………………………………………..
Tali di Giove la figlia (Elena) sapea salutari possenti
farmachi: dati a lei li aveva la sposa di Tono,
Polidamnia d’Egitto che molti quel fertile suolo
farmachi dà, buoni questi mortiferi quelli
(ODISSEA, Libro IV, verso 219)
Ma nei canti successivi la maga Circe somministra il pharmakon sia a Ulisse che ai suoi compagni,
ma solo Ulisse riesce a scongiurare il pericolo con un antidoto suggerito dal dio Hermes: il moly,
una radice nera, al latte, simile al fiore.20
La stessa parola Pharmakeia ha una molteplicità di significati per noi discordanti: medicina, avvelenamento, sortilegio o magia; insomma, in tempi mitici il termine Pharmakon
richiedeva un’ulteriore precisazione a indicarne un uso: terapeutico, velenoso o prodigioso.
Non a caso, il simbolo della medicina è il serpente con il suo veleno, ineffabile, affascinante, ma anche perché ritenuto esente da malattie e con il suo rinnovare ogni anno la pelle
è il simbolo della immortalità. Comunque già Platone (Atene 427-347 a.C.), discepolo di
Socrate nel De legibus, anticipando la moderna medicina psicosomatica, afferma che anche
la parola (benevola), il canto, la musica (e la preghiera) sono da considerare farmaci perché
inducono a una più pronta guarigione.
Quindi Platone usa il termine Farmacon a indicare un benefico uso terapeutico. Con
l’evoluzione dell’arte medica, il temine Farmaco diverrà sinonimo di preparato terapeutico.
La lingua latina come sempre pragmatica e precisa, userà termini come: medicina, medicamentum, remedium, potio, cataplasma, a indicare un uso auspicalmente benefico; mentre:
venenum, virus indicano un’azione tossica, anche se Varrone, Sallustio, Svetonio usavano
ancora l’antico termine (più raffinato) a indicare una azione velenosa.
Verrà Teofrasto Paracelso nel XVI sec. il quale, forte dei suoi studi innovativi, così si
esprimerà: «Dosis sola facit venenum».
19
Si tratta del Nepenthes, per quanto alcuni autori ritengano si tratti del laudano (farmaco degno di lode); non se
ne conosce ancora con certezza la formula, probabilmente veniva preparato con oppio, canapa indiana, mandragora
e belladonna. Comunque, essendo un farmaco composto, molte droghe sedative o ipnoinducenti concorrevano alla
preparazione del farmaco.
20
Per quanto Apuleio definisse il moly “clarissimus herbarum” e Galeno riteneva che fosse la ruta silvestre, in
realtà è un preparato che non conosciamo. Alcuni autori ipotizzano sia l’Allium magicum (Linneo: Allium moly),
altri le solite droghe allucinogene o ipnoinducenti: Belladonna, Mandragora. Ovidio nelle sue Metamorfosi ricalca
il pensiero di Omero: pianta magica da usare negli incantesimi.
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Profumi
Per quanto si voglia datare l’uso dei profumi in periodi storici a noi più vicini, dobbiamo
precisare che già da 6000 anni a.C. la pratica era ricorrente. Le motivazioni sono molteplici:
la più istintiva e comprensibile è che ogni uomo viene attirato da un aroma coinvolgente
come quello dei fiori, ad esempio, dell’arancio amaro: le zagare. Averlo apprezzato e desiderato sul proprio corpo e sugli indumenti appare sentimento naturale, tale da sollecitare
una richiesta al laboratorio di un rhizotomos il quale, intuito l’interesse commerciale, si
specializzerà nella odorosa disciplina unguentaria dimenticando le droghe più terapeutiche, ma meno redditizie.
Le popolazioni che abitavano le sponde del Mediterraneo, Babilonesi e Siriani compresi,
avevano un concetto diverso dell’igiene personale; gli Egizi ne erano molto attenti,21 così
come gli Etruschi ed i Romani. I Greci ed i Persiani non brillavano per una particolare
pulizia del corpo; a questi, cospargersi di profumo, al fine di coprire gli odori maleodoranti
del proprio corpo, parve una soluzione piacevole. Quanti al contrario si detergevano, lo
facevano con argilla in polvere o con la cenere. Essendo entrambe alcaline creavano, con
i grassi della cute (film idrolipidico), una sorta di “sapone” che detergeva la pelle, però
lasciandola secca ancor più di quanto la potesse rendere il forte calore del sole. Per ovviare
a questo inconveniente ci si ungeva con oli e grassi di varia natura restituendo così elasticità
e morbidezza alla pelle. Però i grassi e gli oli usati non avevano un odore particolarmente
gradevole; fu cosa naturale, anche con l’elevarsi della cultura e del censo, desiderare un olio
lenitivo, ma odoroso, che rendesse gradevole la persona.
Altra motivazione, la più remota, appartenente alla protostoria, è data dal convincimento che gli dei si alimentassero non con cibi umani, bensì con i fumi dei sacrifici o
con le offerte profumate dei fiori, delle resine (incenso), di piante aromatiche. La parola
“Profumo” deriva dalla frase latina “Pro fumo tribuere” (agli dei). Cospargere il corpo di
essenze odorose significava aggiungere un tocco di sacralità alla propria persona oppure
più semplicemente evocare una funzione apotropaica: il profumo nella sua sacralità allontana i mali.
Ogni ipotesi merita riflessione.
Con il tempo e considerato l’alto costo del profumo, questo ha evidenziato il censo,
il ceto di appartenenza, la cultura, determinando così un fiorire di officine interamente
dedicate alla produzione di profumi. Ci si preoccupò di valutare l’aspetto terapeutico di
un aroma grato, anche dietro sollecitazione di Platone e di Aristotele, ma si constatò che la
cura risultava più palliativa che terapeutica. (Oggi, l’Aromaterapia più propriamente studia
gli effetti terapeutici dei diversi oli essenziali aromatici, senza dimenticare le implicazioni
sui sentimenti e sulla psiche.)
La cosmesi e l’uso dei profumi era un aspetto importante del costume egizio, basti
pensare che la regina Hatsepsuthe organizzò una spedizione militare verso Oriente al
fine di procurarsi droghe e resine odorose; il risultato fu la realizzazione del Kyphi un
profumo molto apprezzato in tutto il Mediterraneo, per non parlare, ma in epoca più tarda,
di Cleopatra, che dedicava molta attenzione al suo laboratorio cosmetico,22 con i risultati
che hanno fatto la storia. Ma l’esigenza del profumo per la propria persona dilagava nel
Mediterraneo già dal secondo millennio a.C.
21
22
Lo testimonia Erodoto nelle sue Storie.
Cleopatra amava prendere il bagno nel latte di mandorle. A Roma Poppea preferiva quello di asina.
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Recentemente a Pyrgos, nell’isola di Cipro, è stata rinvenuta una officina-profumeria
interamente attrezzata alla produzione sia dell’olio di oliva che dei profumi pronti per essere
commercializzati. L’officina presenta macine di basalto, un torchio grande per l’estrazione
dell’olio, altri di dimensioni minori, utilizzati per spremere le droghe rese esauste dall’estrazione, inoltre recipienti fittili per la decantazione, orcioli da porre sul fuoco, imbuti e – cosa
interessante – un distillatore per l’estrazione di oli essenziali dalle piante aromatiche. Si è
visto che questi distillatori funzionavano come gli attuali (saranno perfezionati dagli Arabi
nel IX sec. d.C.) raccogliendo il distillato in un orciolo oppure convogliando i vapori saturi
di oli essenziali su di un panno intriso di olio o di grasso; in seguito a distillazione esaurita,
questo verrà rimosso saturo di oli essenziali. Si è anche osservato che la “pentola” dove
avveniva la formazione del vapore non veniva posta sul fuoco diretto, ma su di un letto
di sassi al fine di non denaturare con l’eccessivo calore le delicate essenze odorose. Altra
tecnica di estrazione era quella di lasciare macerare per più giorni la droga odorosa in apposito solvente; questo a seconda della fragranza e della tonalità che si voleva ottenere poteva
essere: olio, grasso animale, vino o acqua. Per meglio favorire il processo di estrazione, la
giara ben sigillata con la calce si poneva sulla cenere calda ad una temperatura non superiore a 60° (oggi il processo ancora attuale viene chiamato “digestione”). La temperatura
era controllata perché, se troppo elevata, gli oli essenziali, le frazioni proteiche e le aldeidi si
denaturavano alterando così la fragranza voluta. Il prodotto finito, profumi o acque aromatiche venivano confezionati in contenitori appositi: aryballoi o alabastra, più tardi in fiale di
vetro, pronti per la vendita ad una clientela selezionata dato l’alto costo del prodotto.
Cipro, già nel secondo millennio a.C., era un’isola felice che seppe sfruttare la sua posizione geografica, essendo posta a metà strada tra la Grecia e l’Egitto e prospiciente le coste
dell’Anatolia colonizzate dai Greci. Dopo l’insediamento miceneo, ma già in epoca minoica,
la sua produzione e relativa commercializzazione fu ispirata ed orientata da due fattori.
Il primo: la spuma del suo mare, dalla quale splendida e femminile, era nata Venere –
kyprogenia – e questo deve avere orientato i Ciprioti al culto della dea e delle sue sacre e
femminili attese: profumi e cosmetici, ingredienti finalizzati a correggere ed esaltare la bellezza.
Altra felice intuizione fu quella della coltivazione – furono tra i primi – degli ulivi e
quindi della produzione dell’olio di oliva23 utilizzato per uso alimentare, ma in gran parte
per scopi farmaceutici e cosmetici. Dopo il lavaggio del corpo o degli esercizi ginnici ci si
ungeva con olio d’olivo per ripristinare sulla cute la giusta acidità ed il fisiologico film idrolipidico che avrebbe svolto la sua azione lenitiva. Però l’olio ottenuto dalle olive mature ha
un odore sui generis che, se grato sugli alimenti, lo è meno sulla cute rendendolo di fatto
inadatto per uso cosmetico. L’intuizione dei Ciprioti fu quella di utilizzare le olive completamente acerbe, ottenendo così un olio inodore, pur con una resa molto bassa; questa
giustificava un costo elevato. A tale prodotto, base per la produzione dei profumi, fu dato
il nome di “Omphaciom” (acerbo) ideale per “accogliere” oli essenziali liposolubili.
Gli oli essenziali più usati erano: il Rosmarino, la Lavanda, il Pino, la Salvia, il Mirto, il
Calamo Aromatico, la Mirra e molti altri; tutte droghe i cui oli essenziali venivano estratti,
come detto, sia per distillazione che per macerazione o digestione. Altra tecnica, ma per
i fiori più delicati, era quella che oggi chiamiamo “infioraggio” ovvero stenderli e porli
ad intimo contatto con il grasso voluto e ripetendo l’operazione sino a risultato voluto, la
23
Il costo dell’olio d’oliva era molto elevato (ancora oggi) per la lenta crescita dell’olivo, la scarsa resa, la difficoltà della raccolta; per questo si preferiva commercializzarlo per uso farmaceutico o per la produzione di profumi.
L’olio vecchio, irrancidito, veniva usato nelle lampade. Per uso alimentare, oltre certamente lo stesso olio di oliva, si
utilizzava l’olio di sesamo.
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successiva spremitura dava il prodotto finito. Con le droghe, le cui essenze odorose erano
idrosolubili (rosa, hennè fiori, zafferano, mandorle amare) si producevano acque profumate o anche oli ed unguenti con una particolare tecnica; mescolando l’acqua di macerazione con olio e lasciandola evaporare lentamente con calore tenue.
Va detto che le tecniche, in gran parte già conosciute dagli Egizi, si diffusero nel Mediterraneo con la particolarità però che venivano utilizzati oli di natura diversi: in Anatolia
dai semi di lino, in Mesopotamia dal sesamo, in Egitto si preferivano grassi animali e, ove
consentito dalle coltivazioni, l’olio di mandorle dolci ed amare.
I profumi ciprioti erano prevalentemente preparati con l’Omphaciom, inodore, nessuna
acidità ed una relativa lunga conservazione in virtù delle sue caratteristiche chimico-fisiche:
essere monoinsaturo, contenere polifenoli e tocoferoli (vitamina E), questi ultimi antiossidanti che ne rallentano l’irrancidimento. In realtà il Profumo che si otteneva non aveva una
lunga scadenza, quindi molti, personalizzati, venivano preparati estemporaneamente, su
richiesta del cliente; tal’altri, quelli che maggiormente erano apprezzati, era possibile trovarli
già pronti in eleganti contenitori ed ognuno veniva richiesto con il suo nome commerciale; ne
riportiamo alcuni: Susinum24 delicato con tonalità di giglio, canfora e mirra; Rhodinum, con
effluvi di rosa e calamo; Cyprinum, un profumo caldo di calamo e cardamomo; Metopium,
dal caratteristico aroma delle mandorle amare e della resina di terebinto; Mirtum-Laurum un
profumo non eccessivamente costoso con tonalità aspre di mirto, alloro, fieno greco; Telinum
tipico dell’isola di Telo, gradito al divo Cesare, con un vago aroma di violetta, maggiorana e
calamo. Ultimo, ma non in termini di raffinatezza, era l’Unguento Reale preparato per il re
dei Parti e tanto apprezzato dai Romani; ne riportiamo la formula qualitativa: vino, miele,
maggiorana, loto, cipero, zafferano, mirabolano, costo, ammomo, nardo, maro, mirra, cassia,
storace, lodano, cinnamomo, opobalsamo, calamo aromatico, giunco, enante, malobrato,
sercato, fiori di hennè, aspalato, panace. La formula è riportata da Plinio, dove l’ammomo,
con un gradevole odore canforato, veniva anche usato come fissatore, così come il “costo”
(pianta aromatica); la maggiorana dal dolce profumo (tanto apprezzato dai Latini); la cassia
dal delicato aroma di cannella; lo storace, contenendo vanillina, ha una fragranza dolce e
persistente; lo spalato soave – così lo ha definito Plinio –, la cui estrazione avveniva con una
breve macerazione nel vino. Diffuso, anche per la semplicità della preparazione, era l’Esperidee, una piacevole miscela di aromi agrumosi: arancio, limone, cedro, bergamotto, formula
che verrà intelligentemente ripresa nel XVII sec. dal farmacista Giovanni Paolo Feminis.
Gran parte delle droghe erano di importazione: dalla Siria, dall’Egitto, dalla Palestina,
dall’India. Desta meraviglia come piante odorose autoctone, come timo, rosmarino, salvia,
lavanda, fossero poco utilizzate, ma forse solo per profumi più commerciali o per oli da
usare nei massaggi per la loro azione revulsiva. Nella Roma repubblicana (post seconda
guerra punica) ed imperiale la diffusione delle terme e delle palestre incrementò l’uso
di oli profumati anche presso ceti non proprio abbienti, ma era la qualità, l’uso degli
unguenta exotica, che denotava il vir nobilis.
È dal VII sec. a.C. che gli scambi commerciali e culturali nell’intero Mediterraneo
stimolarono il consumo di profumi; quindi appare ovvio, conoscendo il carattere degli
Etruschi e delle loro donne così amanti della vita, che ne facessero largo consumo come
testimoniano gli arredi funebri, dove si può osservare come i contenitori, tanto apprezzati
per la loro fattura e decorazione, inizialmente venissero dall’Eubea, isola greca nel mare
Egeo e successivamente da Corinto, questi ultimi molto raffinati. Considerato lo stato di
24
Susinum, dall’arabo soushin, “giglio”.
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emancipazione femminile presso gli Etruschi, c’è da ritenere che il consumo dei profumi
fosse molto elevato.
Valutato l’interesse commerciale e di costume che ruotava attorno ai profumi nel IV sec.
a.C., se ne volle interessare lo stesso Teofrasto (“oratore divino”, così lo chiamò Aristotele)
grande filosofo e naturalista che successe ad Aristotele nella conduzione del Liceo e volle
fissare il suo pensiero anche ne I Profumi e lo fece da par suo trattando: la causa degli odori,
l’eucrasia dei vari aromi, le piante aromatiche idonee, gli oli più opportuni da utilizzare, le
corrette tecniche, insomma una summa che sarà stata propedeutica ai tanti unguentari che
fervevano in Alessandria ed a quelli che fioriranno nell’Italia greco-romana.
Anche nella Roma dei re, l’uso di erbe odorose da bruciare era praticato nei templi e nelle
funzioni funerarie; in seguito, la vicinanza con gli Etruschi e gli scambi commerciali con i
Greci fecero conoscere ai severi Romani un uso più personale dei profumi, degli unguenta.
Per quanto Catone tuonasse contro tali costumi corruttori, un uso maggiore cominciò dopo
la conclusione della seconda guerra punica – 201 a. C. (pace con Cartagine) – quando Roma
si decise per una politica estera di tipo imperialista; questo determinò un più intimo contatto
con il mondo greco ed orientale. Una vera e propria attenzione ai costumi orientali ed ai
suoi prodotti si avrà con il ritorno nell’Urbe del generale Lucullo dal suo proconsolato in
Cilicia, che riportò tanto oro per sé e per il Senato, il piacere per una tavola ricca di raffinate
pietanze, la pianta di ciliegio sconosciuta a Roma, l’uso della droga – Oppio o Hascisc – ma
solo per uso personale, oltre che le mollezze orientali compresi i profumi.
L’evoluzione degli unguentari fu rapida e la Campania, greca ed ubertosa, divenne un
importante centro di produzione con le città di Paestum e Pompei, prime fra tutte anche
per le loro rinomate coltivazioni di rose che consentivano di produrre acque distillate ed
unguenta alla fragranza appunto di rosa.
Se nella Roma tardo-repubblicana l’uso del profumo era un vezzo, in quella imperiale
appariva imprescindibile, quasi una sorta di divisa, era un modo di comunicare la propria
cultura ed il proprio ceto sociale; non a caso il consumo degli unguenta diminuirà con il
decentrarsi del potere di Roma, mentre si manterrà importante a Costantinopoli-Bisanzio.
Gli Arabi cureranno il piacere dell’uso degli aromi, dei vapori odorosi, dei profumi; in
Europa ed in Italia, la povertà, la consequenziale ignoranza, la castigata morale cristiana,
imponevano un regime di sussistenza che nulla poteva concedere al superfluo. Sarà il Rinascimento, con la sua esplosione culturale, a ricorrere, come sua esigenza, all’uso dei profumi.
Con il perfezionamento, dopo l’XI sec. dell’era cristiana, della distillazione e quindi
con l’avvento dell’alcol (aqua ardens 60° o aqua vitae 70-80°) se ne intuì il valore solubilizzante. Grazie a questa nuova tecnica farmaceutica, le essenze odorose non vennero più, o
in minima parte, amalgamate con grassi vegetali o animali, bensì solubilizzate in soluzioni
idro-alcoliche.
Fu così che nel 1685 il farmacista GianPaolo Feminis realizzò l’Aqua Mirabilis utilizzando essenze agrumose, lavanda, rosmarino. Il preparato in realtà aveva intenti terapeutici
sfruttandone le doti disinfettanti e revulsive, ma la sua fragranza nuova e coinvolgente
prevalse. La formula infine giunse ad un suo parente acquisito, Giovanni Maria Farina
da Santa Maria Maggiore (Piemonte), che perfezionando l’antica formula con l’aggiunta
di essenze più “calde” realizzò l’Acqua di Colonia, così chiamata in onore della città
dove appunto venne definitivamente realizzata. Il genio imprenditoriale di, ora Giovanni
Maria Farina, e la gradevolezza del prodotto, seppero affermare l’Eau de Cologne in tutta
Europa, con grande apprezzamento di sua maestà l’imperatore Napoleone. Ancora oggi è
un gradito profumo.
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EVO ANTICO
Verso l’Ellenismo
Il macedone Filippo II e suo figlio Alessandro imposero, nel 357 a.C., la loro egemonia sulla
Grecia; se questo significò la fine politica delle varie Polis (città stato), non lo fu per le attività
commerciali e culturali. Alessandro, in particolare, per realizzare il suo sogno di conquista, aveva
bisogno di danaro, di uomini, di navi e quindi promosse ogni attività ed iniziativa commerciale
e culturale che potesse garantirgli quanto voluto. Volle fondare, conquistato l’Egitto, una nuova
capitale – Alessandria – dove la sua aspirazione di unificare la civiltà greca e quella orientale
doveva realizzarsi e dove furono edificate le tre meraviglie del mondo: il grande Faro alto 135 m;
la Biblioteca, quale emblema del sapere, che conservava settecentomila volumi; il museo, vero
e primo luogo di ricerca teso al progresso della scienza e della conoscenza.
Fu cosa naturale per l’intelligentia del momento confluirvi ed infatti vi conversero le
scuole filosofiche e mediche di tutto il Mediterraneo, divenendo così un polo culturale che
decadrà solo con la caduta dell’impero Romano, ma non prima di avere formato Galeno e
Dioscoride, due pilastri indiscussi del sapere medico.
Va ricordato che l’educatore del giovane Alessandro fu Aristotele, il quale infuse nella
sua mente e nell’animo l’amore per il Sapere; per tutto questo egli nutrirà, per il suo
Maestro, stima ed affetto e dai territori da lui occupati, tramite i ricercatori che lo seguivano, gli invierà ogni curiosità scientifica, piante, animali o resoconti medici che avrebbero
potuto interessarlo.
Da questa osmosi tra la Grecia, le colonie italiote ed il mondo orientale sino all’Indo, la
scienza in genere se ne avvalse, particolarmente la Medicina e le scienze naturali, ma anche
gli studi propriamente farmaceutici.
Socrate, Ippocrate, Aristotele avevano guidato l’intelligentia del loro momento storico
verso un processo irreversibile: Socrate aveva predicato la Conoscenza, come unico mezzo
per giungere alla Verità.25 Aristotele aveva dato fiducia all’uomo, al suo Potenziale, alla sua
ratio, capace questa di penetrare e superare confini inimmaginabili. Ippocrate, con la sua
disciplina, aveva invitato a guardare all’uomo, alla sua unicità, e quindi anche al suo corpo
inteso come insieme di organi solo apparentemente funzionanti ognuno per proprio conto
(riflessone e ricerca che oggi chiamiamo “fisiologia”). Platone, Aristotele, Teofrasto, Erasistrato, pur con lievi distinguo, non cambiarono il pensiero ippocratico, ma coralmente
parteciparono a quell’effervescente momento storico nel quale ognuno da protagonista fu
artefice di quella speculazione scientifica che sarà alla base dell’Arte Sanitaria.
Tra i grandi medici e ricercatori vogliamo ricordare Erofilo, fondatore della Scuola
Medica Alessandrina, in quanto più vicino al nostro concetto di essere medico. Studiò
il corpo umano dissezionandolo ed ancora attuali sono le sue osservazioni; fu anche un
attento assertore della Polifarmacia dando un impulso alla farmacologia e conseguentemente alla tecnica farmaceutica.
Si avvia così un processo storico classificato: Ellenismo; periodo magico per la scienza,
nel quale sinergicamente il pensiero greco, egizio, persiano, mesopotamico confluirono
nella loro capitale naturale: Alessandria. Roma è attenta al mondo che la circonda, ma è
ancora impegnata contro i temibili Sanniti.
Nella Scuola Medica Alessandrina, il sapere medico ora è così vasto che prendono
forma, come una esigenza professionale, le specializzazioni: quella oculistica e ginecologica, ad esempio. Si avvia sempre più un processo scientifico che Roma saprà valorizzare ed
in epoca cristiana Costantino l’Africano consegnerà alla Scuola Salernitana.
25
Socrate: «… non la raggiungerai mai, ma ti ci avvicinerai sempre di più».
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
L’Ellenismo
Il termine “ellenistico” fu introdotto dallo storiografo tedesco Johann Gustav Droysen a
metà del XIX sec., sulla base di una errata traduzione di un brano degli Atti degli Apostoli
dove hellenistai non indicava persone che parlavano un greco imbarbarito (come riteneva
il Droysen), ma Giudei di lingua greca, per differenziarli da quelli di lingua aramaica. È
evidente che il termine è completamente diverso da “ellenico”, che i Greci utilizzavano per
designarsi, e che nell’accezione moderna definisce il momento della cultura più propriamente classica, limitata, anche geograficamente, alla Grecia continentale e alle colonie di
Occidente.
Convenzionalmente si indica con Ellenismo il periodo storico che inizia con la morte di
Alessandro Magno nel 323 a.C., a soli 33 anni per febbri, e termina con la battaglia di Azio
nel 31 a.C. (o con la conquista di Alessandria da parte di Ottaviano, il futuro imperatore
Augusto, quando di fatto l’Egitto divenne provincia personale dell’imperatore). In realtà
gli storici non concordano sulla data della fine di questa epoca, sebbene siano prevalentemente d’accordo che coincida con la definitiva conquista romana del regno d’Egitto.
È evidente che qualunque siano le date scelte per convenzione, il trapasso dall’età classica al mondo Romano fu lento e graduale e che non si realizzò contemporaneamente in
tutte le regioni.
Non è questo il luogo dove esporre le interminabili guerre con le quali i generali di Alessandro si contesero il potere dell’immenso impero da lui lasciato. Ricordiamo solamente
che intorno al 301 a.C. (battaglia di Ipso) i Diadochi, o successori diretti di Alessandro,
dopo anni di conflitti ed intrighi per conquistare almeno una parte dell’Impero, sono tutti
scomparsi. La situazione tende a stabilizzarsi con la costituzione di tre vasti reami: quello
d’Egitto (dinastia dei Tolomei), quello di Macedonia (dinastia degli Antigonidi) e quello
d’Asia (dinastia dei Seleuciti). Da quest’ultimo si originerà nel 263 a.C. il quarto Regno
ellenistico indipendente, quello di Pergamo, che rivaleggerà, se non altro dal punto di vista
culturale, con il regno d’Egitto.
La disgregazione del grande Impero di Alessandro segna il fallimento del progetto
culturale ecumenico tra la Civiltà Greca e quella persiana ideato dal Macedone. La battaglia di Azio e l’avvento del principato di Augusto segnano la fine di un’epoca, avvertita da
alcuni storici antichi come un lungo intervallo di decadenza culturale durante il quale si
erano persi i grandi ideali dell’età classica, sia nella politica che nell’arte, e ristabilisce una
continuità con il progetto di impero universale di Alessandro.
Dal punto di vista politico, lo smembramento dell’Impero del Macedone conferma la
grande innovazione rappresentata dall’istituto monarchico: di grandi o piccole dimensioni
le monarchie si instaurano ovunque.
Questi avvenimenti politici ebbero delle pesanti ripercussioni sull’arte e sulla cultura
in genere. A governare non erano più regimi democratici o oligarchici, ma un sovrano che
esercitava un potere assoluto ereditario, circondato da una corte brillante e sfarzosa, dotata
di corposi apparati burocratici e di eserciti professionali ed agguerriti.
Il processo di divinizzazione del monarca, diffuso tra i Persiani e gli Egizi e continuato
dallo stesso Alessandro, divenne man mano più forte, tanto che il cerimoniale di corte
raggiunse eccessi mai visti prima. Il sovrano è l’espressione vivente della legge e le sue
decisioni non necessitano di essere approvate da alcuna assemblea.
È logico che tali cambiamenti influissero sostanzialmente anche sull’aspetto sociale. Il
cittadino, indipendentemente dalla sua condizione economica e sociale, non è più chiamato ad esprimere il proprio parere attraverso le assemblee democratiche (istituzione che
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aveva caratterizzato l’età delle polis), ma è divenuto un semplice suddito che deve al re
cieca obbedienza. Di conseguenza, si disinteressa della cosa pubblica e si ripiega su sé
stesso. Fondamentali in questo contesto furono le maggiori dottrine filosofiche in voga in
età ellenistica, cui accenneremo più avanti.
Dal punto di vista economico assistiamo in questo periodo ad una situazione critica
nella Grecia continentale. L’agricoltura, nonostante la diffusione dei concimi, non riesce a
soddisfare la richiesta di cereali ed il prezzo del grano sale vertiginosamente; l’allevamento
trae profitto dall’estensione dei pascoli, ma pochi se ne avvantaggiano. L’industria ed il
commercio della Grecia continentale sono in pericolo, poiché rapidamente i nuovi Stati
orientali cominciano a svilupparne di proprie. La Grecia può esportare solo vino ed olio,
i cui prezzi sono purtroppo stabili; anche l’artigianato, un tempo fondamentale per l’economia ellenica, sopravvive modestamente in alcune zone, Corinto ed Atene ad esempio.
Questo contesto vede gli elementi più dinamici dell’economia abbandonare la madrepatria
e trasferire i capitali nelle città insulari e nelle terre d’Egitto e d’Asia minore.
Le conseguenze di questa crisi si rivelano fatali per la Grecia: si spopola, la povertà
genera la rivolta; il brigantaggio e la pirateria si diffondono nuovamente.
La situazione non è altrettanto grave nelle isole dell’Egeo. Rodi, approfittando della sua
strategica posizione davanti ad Alessandria d’Egitto e vicino alle coste dell’odierna Turchia,
sviluppa intensi scambi commerciali ed in qualche modo eredita il ruolo esercitato dal
porto del Pireo durante l’età classica. Per capire l’importanza della sua flotta mercantile
citiamo l’esempio del codice marittimo (la Lex Rhodia) applicato in età ellenistica, tenuto
in grande considerazione dall’imperatore romano Marco Aurelio e adottato in parte da
Bisanzio e da Venezia, secoli dopo.
In questo contesto assistiamo allo sviluppo di un fenomeno sociale caratteristico del
periodo ellenistico: l’urbanizzazione. Questa fu particolarmente intensa in Asia minore,
dove gli agglomerati urbani contribuirono alla diffusione della cultura e del modo di vivere
greci. Le nuove città, che spesso conservavano il nome del monarca fondatore, sono i centri
del potere, ospitano la residenza del re con tutta la corte ad essa legata, il ginnasio e le
Scuole filosofiche, cuore pulsante della vita culturale ed artistica; l’Agorà muta il suo significato originario: da spazio riservato alle assemblee politiche e popolari, diventa esclusivamente luogo di incontro e di commercio.
Importantissima fu Pergamo, città voluta dalla dinastia Attalide per rivaleggiare con le
grandi capitali dell’Oriente, in primis Alessandria d’Egitto. Pergamo ospitò una famosa
biblioteca, degna di competere con quella alessandrina, una famosa scuola di retorica,
una splendida collezione di sculture all’interno del palazzo reale, i migliori artisti ed artigiani dell’epoca, e divenne il principale centro d’arte drammatica. Plinio il Vecchio così
commenta: «Quando Attalo (il re che lasciò in eredità il suo stato a Roma) morì, i Romani
cominciarono ad amare, e non solo ad ammirare, le meraviglie greche». Atene, scuola della
Grecia, si trova così affiancata da Pergamo, scuola di Roma.
Alessandria d’Egitto, in effetti, giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale
dell’epoca ellenistica, tanto che la letteratura e l’arte fiorite in questo periodo vengono
definite da alcuni Autori “alessandrine”. La città sull’estuario del Nilo, più fiorente rispetto
agli altri centri ellenistici, ebbe un vantaggio: fu la capitale di un regno che, essenzialmente,
durò millenni. In Alessandria le nuove tendenze urbanistiche, più efficienti e pratiche, ma
anche un po’ rigide e limitate, ideate dagli architetti di Mileto, si sposano con il gusto del
monumentale, del grandioso, caratteristico dell’Egitto e dell’Oriente. In questa capitale
troviamo accanto ad un capolavoro di ingegneria, qual è il famosissimo Faro, il primo
tentativo di raccogliere in un unico luogo il sapere universale: la Biblioteca.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Dal punto di vista economico i cambiamenti in questo periodo storico furono altrettanto
notevoli. La Grecia continentale ha perso il ruolo dominante ed accentratore proprio dei
secoli passati. Già nel IV sec. a.C. il declino è evidente: solo due centri insulari, Rodi, di
cui abbiamo già parlato, e Delo, oltre a Corinto, mantengono un’importanza internazionale; tutte le attività si spostano progressivamente in Asia minore, in Siria ed in Egitto.
È importante sottolineare che in questa epoca assistiamo allo sviluppo di decisive innovazioni tecnologiche nel campo della navigazione (ad esempio l’astrolabio, utilizzato per
secoli dai naviganti per determinare l’altezza di un astro sull’orizzonte) e delle infrastrutture commerciali (ad esempio il nuovo porto ed il faro ad Alessandria d’Egitto), inoltre gli
scambi furono facilitati dallo sviluppo dell’economia monetaria e dalle banche. Il Mediterraneo è ormai troppo piccolo ed i mercanti si spingono ad est verso l’India e a sud,
verso l’Africa nera, pur di soddisfare le esigenze di una clientela sempre più sofisticata ed
esigente. I mercanti creano le prime “associazioni di categoria”, ad esempio a Delo. Si crea
una grande borghesia capitalista, ricca ed illuminata, amante del fasto, che certo non può
più accontentarsi della vita colta, ma semplice ed austera della Grecia del V sec. a.C.
Come precedentemente accennato, in questo contesto socioeconomico, le trasformazioni avvenute nell’ambito filosofico furono ancora più radicali. Obiettivo dell’indagine
conoscitiva non è più la riflessione politica ed il sistema democratico sociale, ma l’individuo, la sua felicità (in senso filosofico) e l’appagamento mediante la sapienza individuale.
Le principali correnti filosofiche del periodo ellenistico furono lo stoicismo e l’epicureismo. Il primo, fondato nel 308 a.C. ad Atene da Zenone, prende il nome da stoà, “portico”
in greco, ove Zenone impartiva le sue lezioni. Alla base di questa dottrina, filosofica e spirituale, vi è l’autocontrollo ed il distacco dai beni materiali, pensiero incarnato dall’atarassia
(letteralmente “assenza di agitazione”), intesa come metodo per raggiungere l’integrità
morale ed intellettuale. Lo Stoicismo influenzò il mondo Romano, oltre che importanti
uomini politici e filosofi greci e romani, da Seneca a Catone Uticense a Marco Aurelio.
Anche l’Epicureismo, filosofia fondata da Epicuro nel IV sec. a.C., ebbe numerosi adepti
tra uomini di Stato, personaggi politici e pensatori; tra i tanti ricordiamo Lucrezio ed Orazio.
Questa dottrina prevede il raggiungimento da parte dell’Uomo della liberazione dall’ansia e
dalla paura vivendo una vita morigerata, scevra da ogni desiderio di ricchezza, oltre che etica.
Entrambe queste filosofie ellenistiche affermavano che la felicità non dipende da fattori
esterni. L’uomo saggio è invulnerabile a qualsiasi disgrazia. Il fine è la tranquillità della
mente, ed ogni attività, inclusa l’investigazione della natura, è ad essa subordinata. Il
concetto non è nuovo tanto che lo stesso Aristotele disse: «Il Saggio cerca di raggiungere
l’assenza di dolore, non il piacere».
La conseguenza diretta di queste profonde variazioni nel mondo politico, economico e
filosofico fu un approccio culturale più scientifico e razionale nei confronti delle Scienze,
anche mediche e farmaceutiche.
La Scienza in epoca ellenistica
Prima di analizzare velocemente alcuni dei più importanti scienziati e medici di questo
periodo storico, è necessario comprendere come i cambiamenti politici, economici e culturali esposti in precedenza e che differenziano il periodo ellenistico da quello classico, interessano in vario modo l’evoluzione della Scienza. In primo luogo è evidente che non siamo
più di fronte ad una scienza esclusivamente greca, ma incontriamo studiosi provenienti da
tutto il mondo conosciuto; ad esempio Zenone, il fondatore dello stoicismo, era di Cizio,
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città dell’isola di Cipro; Seleuco era babilonese, nato sulle rive del Tigri; Archimede, tra
i più grandi matematici di tutta l’antichità, nacque a Siracusa, in Sicilia. Le conoscenze si
diffondono ora in modo diverso, più rapido, e rimbalzano da un punto all’altro del Mediterraneo sulla scia dei traffici commerciali.
Troviamo un’altra caratteristica sociale, di non secondaria importanza, della scienza
ellenistica: lo sviluppo del mecenatismo regio. Alcuni scienziati iniziano a ricevere congrui
aiuti dai sovrani ellenistici, in particolare dalle dinastie dei Tolomei e degli Attalidi. La
ricerca mirata alla matematica ed alle scienze naturali trasse vantaggio dal mecenatismo
dei sovrani di Alessandria; ad esempio il grande matematico, geografo ed astronomo
Eratostene (Cirene 276 a.C. - Alessandria d’Egitto 194 a.C.) ricoprì la prestigiosa carica
di direttore della Biblioteca di Alessandria. L’aiuto dei sovrani non si limitò solo all’aspetto economico, ma fu anche pratico: analizzeremo più avanti gli studi di due grandi
medici anatomisti, Erofilo di Calcedone ed Erasistrato di Ceo, che ebbero la possibilità
di eseguire gli studi su cadaveri provenienti dalle prigioni di Stato di Alessandria, chiaro
esempio della lungimiranza dei Tolomei, unici in tutta l’antichità a permettere, anzi a
favorire, ricerche su corpi umani. Certamente le tecniche d’imbalsamazione utilizzate da
secoli in Egitto, e le relative conoscenze, furono di non poco aiuto agli studiosi di epoca
ellenistica.
È vero che i sovrani non “sponsorizzarono” la ricerca in quelle che noi definiamo
“scienze applicate”, tranne chiaramente quella mirata al perfezionamento di macchine
belliche e di strumenti per la navigazione.
È certamente valida la considerazione che i Tolomei attiravano studiosi e scienziati
ad Alessandria per lo stesso motivo per cui raccoglievano i testi letterari nella biblioteca:
aggiungere lustro ed importanza alla loro dinastia. Stesso pensiero è riferibile alla dinastia
degli Attalidi a Pergamo.
Rimane evidente che la maggior parte di coloro che si dedicarono alla ricerca scientifica
proveniva da famiglie agiate ed influenti; per fare un esempio, il già citato Archimede fu
amico e parente di Ierone, tiranno di Siracusa.
Di non secondaria importanza è che molti studiosi integravano le loro rendite con l’insegnamento o praticando la professione di medico o di architetto. Sicuramente vi furono
architetti ed ingegneri ed ancor più medici che guadagnarono notevoli somme esercitando
la professione.
Un fondamentale passo avanti nell’evoluzione della Scienza compiuto in epoca ellenistica è la definitiva separazione delle scienze esatte e naturali dalla filosofia. Questa fu una
conseguenza imposta dall’incremento delle conoscenze e delle problematiche emerse nei
singoli settori della ricerca scientifica. Solo Teofrasto (m. ca. nel 290 a.C.), grazie alla sua
versatilità, si può ancora permettere di interessarsi al mondo naturale e scrivere testi come
Storia delle piante e Ricerche sulle piante, che hanno costituito un modello unico nell’antichità di studio delle scienze naturali, ed al contempo elaborare l’opera Caratteri morali ad
alto contenuto filosofico ed etico. Gli scienziati che verranno preferiranno approfondire
singole discipline, ormai lontane dall’antica matrice, la filosofia.
Altro tratto caratteristico del periodo ellenistico fu la produzione specialistica, priva
di pretese letterarie, che assunse proporzioni ragguardevoli dal IV sec. a.C. Un numero
di opere sempre maggiore fu pensato e scritto per un ristretto numero di “addetti alla
materia”: furono testi tecnici, scevri da qualunque vezzo poetico.
Se vogliamo evidenziare un limite dello sviluppo della Scienza in questa epoca, dobbiamo
ammettere l’incapacità di giungere ad una sintesi, così che molte idee e creazioni culturali
rimasero allo stato di embrione.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Principali scienziati
Eratostene di Cirene (290-180 ca. a.C.) occupa un posto di rilievo tra gli eruditi alessandrini, se non altro per i suoi molteplici interessi (fu soprannominato “Pentatlo” dai contemporanei). Eratostene si occupoò di filosofia, cronologia, matematica, musica e geografia. A
prescindere dal valore letterario delle sue opere, Eratostene ci ha lasciato in prosa numerosi
trattati riguardanti le sue ricerche. I colleghi invidiosi gli diedero anche il soprannome “Beta”,
per indicare che nei vari campi della sua attività restava sempre secondo. Questo giudizio è
chiaramente iniquo. Fondamentali furono i suoi studi in materia di cronologia: egli gettò le
basi di questa materia e la sua cronologia greca divenne un modello e rimase valida per tutte
le epoche successive. Eratostene adottò per le epoche a lui più vicine le liste delle Olimpiadi,
mentre per i periodi anteriori fece ricorso agli elenchi dei re di Sparta. L’autentica originalità di Eratostene furono comunque gli studi nelle scienze matematiche e nelle conoscenze
geografiche. Gli si attribuisce all’unanimità il merito di aver gettato le basi della geografia
matematica. La scoperta più impressionante fu quella del calcolo della circonferenza della
Terra. Conoscendo la distanza tra due luoghi, Alessandria d’Egitto e Siene, la misurazione
delle ombre per mezzo dello gnomone (strumento da lui stesso inventato) diede come risultato la cifra di 252.000 stadi, equivalenti a circa 39.690 chilometri, con una approssimazione
stupefacente al valore calcolato in seguito, che è di circa 40.000 chilometri.
La fortuna delle discipline matematiche durante il periodo ellenistico è legata senza dubbio
ad altri due grandissimi studiosi: Euclide ed Archimede. Del primo si ignora la patria, ma ci
sono giunti alcuni testi riguardanti la matematica, la geometria, l’algebra e lo studio della
fisica ottica. È quasi incredibile che i tredici libri degli Elementi scritti da Euclide ad Alessandria durante il regno di Tolemeo I Sotèr (quindi durante la prima metà del III sec. a.C.)
siano rimasti in uso come testo scolastico fino ai tempi moderni. Sfortunatamente sono andati
perduti numerosi scritti, altri sono giunti a noi parzialmente nella versione araba.
Mente ancora più feconda fu Archimede (Siracusa 287-212 a.C.), secondo alcuni Autori
il più insigne matematico dell’antichità, universalmente riconosciuto come il più grande
ingegnere. Studiò ad Alessandria, ma passò in patria il resto della vita. La sua attività di
ingegnere fu estremamente creativa: inventò la vite perpetua, utile per l’irrigazione agricola, e macchine per il trasporto di carichi pesanti. Collaborò attivamente alla difesa della
sua città contro l’assedio dell’esercito Romano, guidato da Claudio Marcello, inventando
straordinarie macchine da guerra e balistiche. Si narra che morì proprio durante l’assedio
di Siracusa: nonostante l’ordine perentorio del generale Romano di risparmiare la vita al
grande scienziato greco, un soldato lo trafisse con la spada dopo che Archimede, totalmente assorto nei suoi calcoli, si era rifiutato di rispondere per tre volte all’intimidazione
del milite che gli chiedeva il nome. Di Archimede ci sono giunti numerosi scritti, considerati tra i capisaldi della matematica e della fisica antica; soprattutto egli va ricordato per
la misurazione della circonferenza mediante il valore di π,26 la determinazione del peso
specifico dei corpi, il principio idrostatico, tutt’oggi chiamato con il suo nome, la ricerca
del centro di gravità dei corpi ed i meccanismi delle leve.
Alcune tra le più grandi intuizioni della Scienza Alessandrina interessano l’Astronomia.
Aristarco di Samo (310-230 a.C.) fu il primo ad ipotizzare un sistema eliocentrico in tutta
la sua purezza: il concetto che il sole e le stelle rimangono fissi mentre la Terra e gli altri
pianeti compiono un percorso circolare attorno ad essi era troppo audace per gli scienziati
coevi. Il sistema geocentrico era troppo radicato nel pensiero dell’epoca, e la concezione
26
Archimede riteneva che corrispondesse a 3,1419.
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aristarchea fu combattuta per secoli e riuscì ad affermarsi solo agli albori dell’età moderna,
dopo quasi due millenni, con la riscoperta della cosmologia eliocentrica da parte dell’astronomo polacco Nicola Copernico (1473-1545 d.C.).
Molti Autori individuano in Ipparco di Nicea in Bitinia (metà del II sec. a.C.) il più
grande astronomo dell’antichità. A lui dobbiamo l’invenzione di vari strumenti tra cui
l’astrolabio, la scoperta della processione degli equinozi e le eclissi, la catalogazione di oltre
800 stelle con l’indicazione della loro latitudine e longitudine celeste, l’applicazione del
calcolo trigonometrico all’astronomia, alla geografia ed alla cartografia. Ipparco era certamente a conoscenza delle osservazioni babilonesi in materia astronomica: probabilmente
tra gli studiosi dei due popoli vi fu lo scambio delle reciproche conoscenze.
Un accenno, tra i tanti grandi studiosi di età ellenistica, meritano Apollonio di Perge
in Panfilia, attivo verso il 200 a.C., che elaborò la teoria delle sezioni coniche, e Ctesibio,
vissuto ad Alessandria d’Egitto sotto Tolomeo II Filadelfo. Sono attribuite a Ctesibio l’invenzione della pompa da incendio e l’organo idraulico, il perfezionamento dell’orologio ad
acqua e l’intuizione delle potenzialità dell’aria compressa. L’impiego della forza del vapore
dimostra che durante l’epoca ellenistica si arrivò ad un passo da invenzioni di grandissima
portata sociale, che avrebbero rivoluzionato l’economia. È da tenere presente che la possibilità di utilizzare a basso costo, fino all’estremo, la forza lavorativa dell’uomo smorzava
ogni forte stimolo allo sviluppo della macchina. Inoltre gli interessi dei depositari delle
conoscenze tecniche utilizzabili per questo balzo erano spesso rivolti alla conoscenza pura
ed astratta. Questi sono i motivi essenziali per cui durante l’Ellenismo lo sviluppo tecnico
fu mirato soprattutto al servizio dell’arte militare e della medicina.
Anche nel campo delle scienze mediche furono compiuti progressi fondamentali
durante il periodo ellenistico. Gli insegnamenti di Ippocrate, raccolti nel famoso Corpus
Hippocraticum, la cui datazione risale al periodo compreso tra il 430 ed il 300 ca. a.C.,
serviranno come modello ai medici per secoli, fino all’arrivo di Galeno, che diede un altro
decisivo contributo alla Scienza medica. Gli studiosi di età ellenistica ebbero quindi come
riferimento il percorso indicato da Ippocrate: la raccolta e l’analisi dei dati e la successiva elaborazione di teorie generali che avvalorassero e spiegassero razionalmente le tesi
espresse. Ippocrate non fu certamente uno scienziato ellenista, ma influenzò in maniera
decisiva il pensiero scientifico delle epoche successive, in particolare la Scuola empirica,
sorta ad Alessandria d’Egitto nel III sec. a.C. L’empirismo, concezione che fu ripresa ed
approfondita in età moderna da filosofi quali Ruggero Bacone, Hobbes e Locke, pone
nell’esperienza la fonte ed il criterio di validità di ogni conoscenza. Fondatori di questa
Scuola furono Filino di Coo e Serapione di Alessandria, che vissero tra il 270 ed il 220 a.C.
L’esponente più illustre fu Eraclide di Taranto, attivo tra la fine del II sec. e l’inizio del I
sec. a.C., acuto osservatore e prolifico autore di materie mediche. Le sue opere non ci sono
giunte, ma Galeno certamente le analizzò e riportò che Eraclide fu attratto particolarmente
dallo studio dei veleni, tanto che, per testarne gli effetti, non avrebbe esitato ad assumere
delle microdosi di alcuni di essi.
Facendo un passo indietro, troviamo nella prima fase dell’Ellenismo due grandi medici:
Erofilo di Calcedone ed Erasistrato di Iulide a Ceo. Entrambi diedero vita a scuole di
grande importanza e contribuirono a notevoli progressi nel campo della medicina, in particolare dell’anatomia. Il primo si dedicò allo studio del cervello e fu il primo a considerarlo
come sede del pensiero e della sensibilità, abbandonando la dottrina aristotelica che identificava nel cuore l’organo centrale. Erofilo sviluppò le osservazioni fatte dal suo maestro
Prassagora sulle pulsazioni, e giunse a differenziare i nervi motori da quelli sensitivi.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Erasistrato studiò in particolare il sistema circolatorio, riuscendo a distinguere le arterie
dalle vene; secondo le sue teorie, in queste ultime scorreva effettivamente il sangue, mentre
le arterie erano deputate alla diffusione dello pneuma, ossia l’essenza vitale. In questo modo
egli si precluse la possibilità di scoprire la reale circolazione del sangue. Ciò non sminuisce i
notevoli risultati raggiunti da Erasistrato, che fornì una precisa descrizione dei vasi polmonari e delle valvole cardiache: egli giunse a specificare che l’arteria polmonare assomigliava
ad una vena mentre la vena polmonare somigliava ad una arteria. Erasistrato gettò le basi
dell’anatomia patologica, ricercando nelle alterazioni anatomiche le cause di numerose
patologie, dalla pleurite alla pericardite. Il grande medico di Ceo, che secondo Plinio il
Vecchio era nipote di Aristotele, elaborò una teoria secondo la quale il sangue, una volta
procurata una ferita, passa dalle vene alle arterie e, spinto in periferia dallo pneuma proveniente dal cuore, determina non solo uno stato infiammatorio, ma anche la reazione della
febbre. Estremamente attuali sono i principi terapeutici proposti da Erasistrato, i quali si
basano su norme dietetiche ed attività fisica, concetti peraltro già noti in quanto facenti
parte degli insegnamenti della Scuola Medica Ippocratica. Il grande Ippocrate (460-370
a.C.) raccomandava l’importanza delle norme alimentari e comportamentali che ai nostri
occhi possono sembrare banali, quali l’alimentazione varia e leggera, l’attività fisica moderata e costante, ma radicalmente innovative per quel periodo.
Dal punto di vista della tecnica farmaceutica è doveroso sottolineare che, sebbene
ancora non si conoscessero i concetti di punto di fusione e di prodotto di solubilità, già a
quei tempi si prediligeva un eccipiente rispetto ad un altro in base all’esperienza ed all’osservazione. Nel II sec. a.C. i nostri Padri farmacisti avevano a disposizione vari tipi di oli
vegetali (estratti ad esempio dall’olivo, dal sesamo, dal mandorlo, dalla palma; addirittura
alcuni Autori, tra i quali lo stesso Nicandro di Colofone, distinguevano diversi oli di oliva
ottenuti da varietà e metodiche di raccolta differenti e di grasso animale, principalmente
dai bovini, dagli ovini o dai suini) e, di conseguenza, sceglievano l’eccipiente più appropriato in funzione delle caratteristiche delle sostanze attive necessarie alla specifica preparazione, fermo restando le proprietà medicamentose insite nell’eccipiente stesso.
Grande valore, sia dal punto di vista tecnico che terapeutico, fu dato alle soluzioni
saline. L’acqua di mare, che ai tempi doveva essere certamente meno inquinata rispetto
ai giorni d’oggi, era ritenuta avere proprietà medicamentose e disinfettanti e quindi era
impiegata frequentemente per diluire i principi attivi di origine minerale e vegetale, oltre
che per lavaggi e bagni terapeutici.
Durante il periodo ellenistico, le conoscenze farmaceutiche non riuscivano a distinguere
perfettamente tra Principio Attivo ed eccipiente; è il caso del latte e del miele, ma anche
dell’aceto e del vino, sostanze alle quali si attribuivano proprietà medicamentose, ma che,
allo stesso tempo, erano frequentemente utilizzate per veicolare altri principi.
Abbiamo visto che Eraclide si interessò in modo particolare allo studio dei veleni, ma
egli non fu l’unico a perseguire tali ricerche in epoca ellenistica. Facciamo un particolare
approfondimento su due figure, differenti da molti punti di vista, ma che, a nostro parere,
possono costituire un riferimento per capire alcuni aspetti peculiari della cultura in questo
periodo: Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, e Nicandro di Colofone, poeta didascalico
alessandrino.
Mitridate VI ed il Mitridato
Mitridate VI, noto anche con l’appellativo “il Grande”, fu re del Ponto dal 120 a.C.
alla sua morte, avvenuta nel 63 a.C. È ricordato per essere stato uno dei più formidabili
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ed indomiti nemici della Repubblica Romana; egli costrinse a ben tre guerre Roma, scontrandosi con alterne fortune con alcuni tra i più grandi condottieri romani: Lucio Cornelio
Silla, Lucio Licinio Lucullo e Gneo Pompeo Magno. Non è questa la sede per analizzare
il corso delle Guerre mitridatiche, sebbene sia rilevante ricordare che Mitridate si propose
come campione della causa greca, l’unico in grado di sottrarre i Greci al giogo Romano;
egli nutrì l’ambizione di espandere il suo regno dal Mar Nero all’Anatolia, dalla Bitinia
alle isole del Dodecanneso. Uomo di grande spessore politico e di grande cultura (è ricordato anche per la fenomenale memoria e la sua poliglossia: Plinio il vecchio narra che «...
regnò su ventidue nazioni amministrò la legge in altrettante lingue senza bisogno di interprete
...»), in questa sede lo vogliamo ricordare per il suo interesse nei confronti dello studio
dei veleni. Aiutato dal suo medico personale Crateua (autore peraltro di un interessante
erbario con commento), Mitridate elaborò e mise in pratica una teoria che ancora oggi
porta il suo nome: mitridatismo. Il re del Ponto studiò e, a quanto risulta dagli storici che
riportarono la sua fine, da Appiano d’Alessandria a Cassio Dione ad Aulo Gellio, riuscì a
rendersi immune ai veleni. Certamente non doveva mancare il coraggio a questo sovrano
che osò sfidare i Romani ripetutamente inseguendo il sogno che fu di Alessandro; egli volle
acquisire l’immunità ai veleni più utilizzati in quel periodo grazie all’assunzione di piccole
dosi crescenti degli stessi. Mitridate mise in pratica questo stratagemma per difendersi da
possibili attentati, ma, dopo essere stato battuto nell’86 a.C. da Silla, nel 69 a.C. da Lucullo
e nel 66 a.C. da Pompeo Magno e tradito dal figlio Farnace, decise di togliersi la vita. Gli
storiografi dell’epoca narrano che, dopo essersi somministrato il veleno (immediatamente
fatale per le figlie che avevano implorato il re di assumerlo prima di lui) e aver constatato il
mancato effetto, Mitridate il Grande chiese a Bituito, un ufficiale dei Galli al suo servizio,
di trafiggerlo con la spada. Riporto le commoventi parole pronunciate dal sovrano, tramandate da Appiano d’Alessandria:
Ho avuto gran servigi dalla tua arma usata contro i nemici, ora avrò da essa un vantaggio
ancora più grande se mi ucciderai e mi risparmierai dall’essere condotto prigioniero a
Roma. Benché io mi sia prevenuto contro tutti i veleni che uomo possa ingerire, non mi
sono mai prevenuto contro l’insidia domestica, che è sempre stata la più pericolosa per i
re: il tradimento dell’esercito, dei figli, degli amici.
Bituito subito dopo rese al sovrano il favore che lui desiderava.
A Mitridate VI si attribuisce la creazione di un antidoto universale, contenente oltre
90 Principi Attivi, passato alla storia con il nome di “Mitridato”, e che in epoche successive fu preso a modello per l’elaborazione della famosa Teriaca. Questa formulazione, più
volte modificata ed arricchita (ad esempio Andromaco, medico personale dell’imperatore
Nerone, aggiunse la carne di vipera, principio attivo insostituibile a suo parere), ha goduto
per secoli di una notevole fama come rimedio universale.
Nicandro e la Theriakà
Ricordiamo il poeta Nicandro di Colofone per le sue opere Theriakà (Sugli animali velenosi e relativi antidoti) ed Alexipharmaka (Sui veleni vegetali, minerali e d’altra natura e
relativi antidoti). Questi due poemetti didascalici in esametri sono a noi giunti integri e,
sebbene siano ritenuti da alcuni Autori scritti in maniera pedante e banale, sono ricchi
di descrizioni naturalistiche curiose, a volte anche molto fantasiose, oltre che di ricette
mediche.
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Tra gli esempi più curiosi citiamo una ricetta contro l’avvelenamento da morso di serpenti:
Togli le sottili membrane dal cervello di un pollo domestico, altre volte tritura finemente
del basilico selvatico e dell’origano o taglia dal fegato di un cinghiale il lobo più alto
che cresce dalla tavola e inclina verso la cistifellea e verso le porte. E dopo aver tagliato
tutti questi ingredienti insieme o separatamente, bevili in aceto o in vino; ma con il vino
seguirà un migliore effetto terapeutico.
È possibile affermare che proprio la Theriakà di Nicandro sia la più antica opera esistente
su i rischi determinati da morsi e punture di animali e sulle possibili cure ai loro veleni.
Interessante ricordare che nella Biblioteca Nazionale di Parigi è conservata una copia
dei testi di Nicandro dell’XI sec. d.C., derivata da modelli illustrati molto più antichi. La
Theriakà e l’Alexipharmaka conservate in Francia riportano importanti riferimenti per la
storia iconografica dei codici farmaceutici; sono corredate infatti da numerose immagini di
eleganti figure umane, zoologiche e botaniche, che conferiscono all’opera un incredibile
fascino ed originalità.
Nicandro di Colofone nacque probabilmente intorno al 180 a.C. e fu sacerdote ereditario del dio Apollo e quindi poeta. Egli fu attivo presso la corte di Attalo III: il re di
Pergamo fu grande conoscitore di veleni e ripetutamente sperimentò le proprie conoscenze
sui suoi schiavi.
Per comprendere l’importanza dei poemi di Nicandro è necessario fare riferimento
al ruolo rivestito dalla iologica (Scienza dei Veleni, da ιóς: “tossico”, “veleno”) durante
l’epoca ellenistica. Molti sovrani del periodo incentivarono le ricerche mediche e farmacologiche e, proprio per cautelarsi da possibili avvelenamenti, promossero lo studio di
antidoti e panacee. Oltre ai già citati Mitridate VI Eupatore ed al re di Pergamo Attalo III,
ricordiamo il re di Macedonia Antigono Gonata (320-240 a.C.) ed il re d’Egitto Tolomeo
IV (240-205 a.C.), tutti affascinati dalla scienza dei veleni.
Per quel che riguarda le precedenti produzioni alle quali può aver fatto riferimento
Nicandro, a lungo si è pensato che la sua fonte principale fossero gli scritti di Apollodoro
Iologo di Alessandria. Ciò non è esatto in quanto Nicandro certamente deve aver letto
anche le opere degli allievi di Apollodoro, come Stratone e Apollonio di Menfi, che molte
ricerche dedicarono in questa direzione. Altro importante precedente per il nostro Autore
deve essere stato Numenio di Eraclea (ca. 250 a.C), medico, figlio di Dienclese, medico
anch’egli noto per gli scritti di dietetica e per i fantasiosi rimedi contro il mal di mare e le
nausee della gravidanza. Più volte Nicandro fa riferimento ad antidoti studiati da Numenio
nella sua Theriakà.
Il poeta di Colofone ebbe a disposizione testi quali la Theriakà di Filino (prima metà
del III sec. a.C.) e Sugli animali velenosi di Andrea (ca. 220 a.C.). Come i precedenti in
versi, Nicandro probabilmente attinse alla Theriakà di Numenio di Eraclea e al poema Dei
serpenti di Metrico. Sfortunatamente nessuno di questi scritti è a noi giunto integro. È a
questo punto evidente l’importanza dei poemi di Nicandro, che ebbero una vasta eco ed
una indiscutibile influenza su tutti gli scienziati che si interessarono successivamente all’antica scienza dei veleni e dei loro antidoti.
Analizziamo brevemente il testo della Theriakà, componimento di 958 esametri. Dopo
un breve proemio in cui si dedica l’opera ad Ermesinatte e in cui si spiega il contenuto al
lettore, Nicandro apre la trattazione vera e propria con raccomandazioni di carattere generale, illustra la possibilità di evitare il morso dei serpenti, ragni e scorpioni con le fumigazioni a base di sostanze di odore sgradevole e penetrante (ad esempio lignite, zolfo, Nigella
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nera, Galbano), con la preparazione di giacigli con piante dall’aroma repulsivo (ad esempio
Laburno fetido, Agnocasto e Menta, che ci lascia perplessi) oppure ungendosi il corpo con
preparati dall’odore nauseabondo, nel caso si debba dormire all’addiaccio. Segue una ampia
sezione dedicata alla descrizione degli animali pericolosi; si trattano quattordici serpenti
velenosi, dall’aspide alla vipera. Dopo alcuni versi di collegamento, Nicandro comincia
l’analisi dei rimedi semplici e composti atti a contrastare gli effetti dei veleni. Segue ancora
una sezione riservata a ragni, scorpioni ed altri animali nocivi, dall’ape alla vespa alla salamandra alla murena marina. La Theriakà si chiude con la descrizione di terapie generali e di
varie misure di emergenza, come l’applicazione di ventose e sanguisughe, la cauterizzazione
o l’applicazione del succo di fico sulla lesione. Negli ultimi versi troviamo la ricetta per la
preparazione di un “rimedio per ogni forma di affezione”, una sorta di panacea.
Riportiamo il testo di Nicandro, nel quale ritroviamo specie vegetali ancora utilizzate ai
nostri giorni accanto a elementi che suscitano la nostra ilarità.
Perché tu possa apprendere a fare un rimedio per ogni forma di affezione, ti sarà molto
utile, quando avrai mischiato tutte le erbe insieme, che vi sia l’aristolochia e le radici
dell’iris e del nardo, e quelle del galbano insieme a secchi piretri, e quelle della pastinaca cretese, che guarisce ogni male. E della brionia nera, e insieme radici porose di
peonia, scavata di fresco e frutti di elleboro nero, misto a schiuma di nitro. E versa inoltre
cumino, un germoglio di enula insieme a scorza di stafisagria. Grattugia una uguale quantità di semi di alloro, citiso, muschio equino basso e inoltre del ciclamino, dopo averlo
raccolto. Metti succo di papavero splendente, semi di agnocasto tutt’intorno, balsamo,
e inoltre semi di cinnamomo, sfondilo e una tazza piena di sale, mescola insieme anche
caglio e granchio; ma il primo dovrebbe essere di lepre, l’altro dovrebbe abitare in fiumi
pieni di ciottoli. E avendo messo il tutto in una cavità di mortaio assai grande, impasta
triturando con pestelli di pietra. E subito versa sugli ingredienti secchi succo di caglio
e mescola insieme; prepara pastiglie rotonde del peso di una dracma, determinando il
peso in maniera precisa con bilancia e prendile in due cotili di vino, dopo aver agitato.
Questi versi possono essere considerati alla stregua del Mitridato o delle numerose
ricette che saranno definite Teriaca nei secoli successivi.
Le forme terapeutiche, gli ingredienti vegetali, animali e minerali utilizzati per la preparazione dei rimedi occupano una buona parte dell’opera di Nicandro. Va evidenziato che i
principi vegetali sono di gran lunga i più numerosi e che raramente l’Autore si preoccupa
di fornire delle motivazioni farmacologiche sulla scelta di questo o di quel rimedio.
In alcuni casi l’appartenenza dei principi attivi alla sfera del simbolico o del sacro è
evidente, ad esempio un valore magico di amuleto contro il morso dei serpenti è attribuito
alla radice a fittone della carota e al trifoglio. Anche l’impiego di rimedi quali il cervello
di pollo domestico, i testicoli di castoro o dell’ippopotamo, è da riferire ad un ambito più
magico che scientifico; certo sono elementi che fanno sorridere al giorno d’oggi. Sicuramente buffa è la convinzione che anche lo sputo umano possa atterrire ed allontanare gli
animali pericolosi e che quindi possa essere utilizzato come strumento di difesa.
È altresì vero che molti principi vegetali citati da Nicandro erano conosciuti per l’attività
depurativa; esempi riconosciuti dalla moderna farmacognosia sono il ginepro, il sambuco
e l’anice. Altre droghe erano e sono tutt’ora utilizzate per l’attività emetica (ad esempio il
Ricino) o fortemente purgativa (Senna e Frangula). Alcune piante citate nella Theriakà di
Nicandro hanno un elevato contenuto in tannini, ad esempio l’enula, l’iris, il cinquefoglie,
ed erano impiegate per uso topico come astringenti. Anche l’impiego di specie dotate di
azione antispasmodica (ad esempio l’agnocasto) risulta razionale al giorno d’oggi.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Da un’analisi di tutti i rimedi consigliati da Nicandro viene ribadito il pensiero medico
fondamentale di purificare l’organismo del paziente mediante la stimolazione del vomito,
la sudorazione, la minzione o la purga intestinale.
Più complessa è la comprensione del ruolo svolto dai rimedi di origine animale. Ad
esempio Nicandro prescrive ripetutamente l’impiego di parti del cervo (ad esempio il
midollo per la preparazione di un unguento, le corna per le fumigazioni): l’unico criterio
nella scelta di questi ingredienti è da attribuire alla credenza di una sorta di antagonismo
tra le due specie animali, cervo e serpente. Convinzione questa estremamente radicata
presso gli Antichi, tanto da essere più volte citata da Dioscoride e da Plinio (addirittura
questi credeva che i serpenti evitassero chi porta con sé un dente di cervo). Comunque il
corno di cervo è stato utilizzato in diverse forme farmaceutiche sino alla fine del XVIII sec.
L’utilizzo del fegato o della testa di un serpente velenoso per curare l’avvelenamento
causato dal morso della stessa specie di serpente porta quasi ad una considerazione degna
delle moderne scuole di omeopatia: il principio terapeutico per il quale è considerato
rimedio di un male la causa stessa che lo ha determinato («simila similibus curantur»).
Sono interessanti le raccomandazioni del nostro Poeta riguardanti le tecniche di preparazione dei rimedi. Ad esempio egli distingue, tra i cosiddetti eccipienti, varie qualità di
vino (bianco, invecchiato ecc.), latte, aceto o più raramente acqua, scegliendo quelli più
idonei, dal suo punto di vista, di volta in volta.
Curiosa, ma certamente pratica, l’idea di preparare preventivamente delle specie di
compresse, ottenute mediante lavorazione in mortaio ed essiccazione degli ingredienti, da
diluire in olio nel momento della necessità.
Possiamo concludere che nell’opera di Nicandro sono presenti un gran numero di
elementi diversi, alcuni appartenenti alla tradizione magico-simbolica, altri suffragati dalle
attuali conoscenze, altri, infine, di cui non si è potuto individuare l’origine, miscelati in
maniera originale, che rispecchiano in qualche modo le caratteristiche della Scienza medica
di epoca ellenistica.
La medicina etrusca
Fin dall’VIII sec. a.C. il Mediterraneo era un mondo, che oggi diremmo “globalizzato”,
perché è vero che la competizione tra i popoli era molto accesa, ma tutti erano accumunati
dal commercio che consentiva loro lo scambio di materie prime: ferro e piombo etrusco,
grano e droghe esotiche egizie; olio, vasellame e vino pregiato greco; profumi ciprioti;
vetro e stoffe di varie tinte fenicie. Questi scambi commerciali portavano ricchezza, ma
anche esperienze, tecniche e cultura, un sapere, pur diversificato, ma propedeutico ad un
costante comune progresso. Ad esempio, gli Etruschi erano in forte competizione con i
Greci, eppure non sapevano rinunciare al vasellame corinzio od attico, particolarmente
raffinato, che copiosamente oggi troviamo nelle loro tombe. Roma stessa era sorta nelle
immediate vicinanze del porto etrusco sul Tevere, dove approdavano regolarmente navi
greche e fenicie. Queste comunanze commerciali, in qualche modo livellarono la conoscenza e la cultura in genere, ma si dovrà aspettare il V sec. a.C. nel quale il paradigma
culturale greco cominciò a primeggiare per esplodere infine nell’Ellenismo, che anche
Roma apprezzò e fece proprio. Ma quando questo evento evolutivo avvenne, gli Etruschi erano ormai politicamente assenti e di fatto non parteciparono da protagonisti al
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progresso culturale; per questo motivo la Conoscenza che ci hanno lasciato appare affascinante, ma arcaica.
Erodoto nelle sue Storie riporta che gli Etruschi guidati dall’eroe Tirreno giunsero dalla
Lidia e si insediarono in un territorio che dal fiume Tevere si estendeva sino alla valle
Padana. Dionigi di Alicarnasso più tardi dirà, sbrigativamente, che sono autoctoni, Italici.
Le teorie in realtà sono molteplici ma queste due oggi sono ritenute le più attendibili, pur
lasciando ancora nel dubbio quali siano gli ascendenti degli Etruschi.
Questi giunsero (o presero coscienza di sé) in Italia nel XIII sec. a.C., ma è solo nel IX-VI
sec. che rappresentano una potenza italica con precise mire espansionistiche, almeno per
quanto attiene i commerci via mare. Tale esplosione di potenza era data da indubbie capacità imprenditoriali e commerciali, che hanno generato ricchezza e consentito loro un livello
culturale tale da desiderare e concedersi una vita ordinata, elegante e piacevole: primeggiarono nella pittura e nell’arte in genere; nell’edilizia e nella realizzazione di figure fittili;27
costruirono acquedotti, segno di grande civiltà; drenarono zone paludose. Furono formidabili navigatori, ma anche coltivatori ed allevatori in una terra (alto Lazio, Toscana, Umbria,
Emilia) particolarmente fertile. Questa loro versatilità fece dell’Etruria una terra ricca e felice;
Livio dirà di loro: «… Etruscos gentem Italiae opulentissimam armis, viris, pecunia esse ...».
Come Popolo commise degli errori; non seppe approfittare del paradigma culturale e
politico che giungeva dalla Grecia, rimanendo legato a quella “Etrusca Disciplina”28 – così
la chiamavano – che voleva a capo della città-stato un re-sacerdote, lucumone, di estrazione
strettamente aristocratica, che certo non voleva considerare le diverse esperienze politiche
percorse dai popoli del Mediterraneo.
Altro grave errore strategico è stato quello di essere paghi del loro territorio, senza assicurarsi di avere una autorevole presenza in tutto il territorio Italico; strategia politica che
al contrario caratterizzò Roma. Fondarono qualche colonia in Campania ed a nord del
Brutium (attuale Lucania), ma si dimostrò una strategia inefficace; di fatto queste furono
fagocitate dalla più pressante presenza Greco-Italiota e Romana. La disastrosa battaglia
navale di Cuma (474 a.C.) contro i Greci siracusani e successivamente la pressione Romana,
li fecero scomparire già nel IV sec. come entità politica. Negli anni tra il 90 e l’88 a.C. Roma
concesse loro, “ per fedeltà”, la cittadinanza Romana.
Gran parte dei loro costumi e delle loro esperienze furono assorbite da Roma; Servio
Tullio, la gens Fabia, Pompeo, Mecenate erano di origine etrusca, vissero per la grandezza
di Roma.
Riconoscersi esclusivamente nella “Etrusca Disciplina”, senza voler sperimentare altre
esperienze politiche e sociali, fece sì che il loro livello culturale e sociale non conobbe i
vertici di quello greco e così anche la medicina rimase di tipo teurgico, dove il medicosacerdote fungeva da demiurgo tra il “paziente” ed il dio preposto alla tutela dell’organo
malato. Per le affezioni alla testa si pregava Tinia (il Giove greco), Giano, antico dio
etrusco-romano era tutore del concepimento, Turan degli organi genitali; per pregare il dio
si offriva prima o dopo la guarigione la riproduzione in terra cotta delle parti anatomiche
da guarire o guarite. È interessante il ritrovamento di un utero, sempre fittile, offerto a
Giano, all’interno del quale è visibile una pallina (feto) ad invocare il concepimento. Una
27
Splendidi ed insuperati sono: Apollo di Vejo e Latona recante in braccio Apollo infante, entrambe al Museo
di Valle Giulia a Roma. Altrettanto splendidi sono i cavalli alati al Museo Etrusco di Tarquinia.
28
A Tarconte, fondatore di Tarquinia, mentre con l’aratro dissodava il suo terreno dal solco, balzò un giovane
nell’aspetto, ma saggio nel pensiero, di nome Tagete, che gli rivelò l’Etrusca Disciplina. Questa dettava il sistema
sociale e politico oltre che il modus vivendi.
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medicina quindi molto simile, anche sotto l’aspetto più propriamente terapeutico, a quella
asclepiadea anche se più libera ed aperta di quella egizia, ma da considerarsi nella sua
dottrina, di qualità pre-ippocratica, intesa nel senso più limitativo del termine.
Teofrasto parla della Etruria come di una terra «… ricca di farmaci …», ma forse
intendeva dire di erbe medicamentose e propensa all’uso di preparati destinati alla cura
del corpo; infatti gli Etruschi, pur non avendo precise nozioni anatomiche, erano molto
attenti alla prevenzione: curando l’igiene personale, praticando attività fisica, prendendo
frequentemente bagni termali ed osservando una dieta non parca,29 ma curata e variata. Le
droghe assunte per uso terapeutico erano quelle tipiche che ricorrono nelle farmacopee
del Mediterraneo: Finocchio, Alloro, Timo, Pino aghi, Camomilla, Rosmarino, Cavolo,
Aglio, il Papaver rhoeas, Miele, il vino30 sia come farmaco diaforetico che come solvente,
ma anche la limatura di ferro contro le anemie. Le erbe medicinali autoctone sopra riportate sono di ampia maneggevolezza, come dire esenti da controindicazioni; questo lasciava
spazio ad una medicina demoiatrica, familiare, empirica, praticata dal “pater familias”che
somministrava pozioni ai familiari ed elevava preghiere. Il Colchico, Nardo, Bosso, Salice,
Felce maschio sono droghe autoctone in Etruria, ma con un più elevato indice di tossicità,
pertanto venivano prescritte dai medici-sacerdoti. Non sappiamo se preferissero la prescrizione di farmaci semplici o composti, in ogni caso i solventi erano sempre acqua, vino, olio,
aceto. Per i preparati ad uso esterno: grassi animali, olio e farina di cereali, quest’ultima
per i cataplasmi. Gli strumenti del laboratorio? Il mortaio, recipienti vari, qualche rara fiala
fenicia in vetro, piastre e spatole per lavorare gli unguenti; comunque lo immaginiamo,
meno attrezzato di un laboratorio egizio, cipriota o greco.
Gli Etruschi furono però esperti chirurghi (così come lo saranno i Romani), come
testimoniano numerosi reperti e strumenti quali coltelli di varie misure e fogge, cauteri,
pinze. Si distinsero anche per la loro perizia nelle tecniche odontoiatriche; lo dimostrano
le numerose ed ingegnose protesi dentarie ritrovate, che per la loro precisione, funzionalità e resistenza all’usura, destano ancora stupore ed ammirazione. La loro abilità nella
lavorazione dell’oro31 in forma di piccoli granuli fu propedeutica per la lavorazione delle
protesi dentarie. Queste venivano realizzate con vari strumenti: crogiuoli, pinze, saldatori,
piccole incudini e, non deve sorprendere, trapani32. I reperti trovati ci mostrano lamine
d’oro impiegate per unire tra loro i denti che presentano mobilità e quindi flessibili e resistenti alla masticazione; ma anche veri e propri ponti volti a sostituire i denti mancanti.
Questi non potevano essere estratti da cadaveri, vista la sacralità del defunto ed allora
venivano ricavati da denti animali, per lo più vitello e bue, sagomati in modo da adattarsi
adeguatamente alla bocca del paziente; anche in questi casi la protesi veniva legata ai denti
superstiti mediante fasce d’oro.
Oggi è possibile ammirare questi esemplari di protesi dentarie anche presso i musei di
storia etrusca di Roma, Civitacastellana, Tarquinia, Volterra.
Tarquinio Prisco, quinto re di Roma di padre greco, ma nato a Tarquinia, fu il fondatore della cultura etrusco-romana ed egli stesso fu attento osservatore del mondo vegetale
29
Posidonio d’Apamea scandalizzato dagli etruschi ripeteva: «… e pensare che apparecchiano due volte al
giorno!».
30
La parola “Vinum” è un termine etrusco adottato in seguito dalla lingua latina, deriva dal Falisco “Vinom”.
31
Gli Etruschi furono valenti orafi, ma lavorarono con grande raffinatezza anche il ferro ed il bronzo.
32
L’invenzione del trapano risale al periodo Neolitico, quando la trapanazione dei denti veniva eseguita a
scopo terapeutico, usando un trapano rudimentale presumibilmente in legno dotato di idonea punta di selce ed
azionato mediante apposito archetto.
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e volle riportare le sue osservazioni nell’Ostentarium Arborium Etruscum33 dove parla di
piante infauste, ma anche di quelle ritenute terapeutiche, segno dell’interesse allo studio
della “fitoterapia”. Inoltre attento alla Sanità34 di Roma, promulga leggi sanitarie ed invia
una commissione di studiosi a Delo per invocare la protezione di Apollo, ma anche per
apprendere provvedimenti contro la pestilenza che in quel momento ammorbava la città.
Stessa cosa fece Servio Tullio, suo successore, mandando ambasciatori a Crotone per
apprendere nozioni mediche. Queste due iniziative dimostrano l’attenzione per la Sanità,
ma anche quanto nel VII sec. a.C. fossero conosciuti ed apprezzati questi centri medici.
Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio imposero ai rudi Romani di razza latina e
sabina la cultura, la liturgia etrusca, le capacità edili, la cura per l’igiene del proprio corpo,
ma per un vero interesse verso la medicina, i Romani dovranno attendere la conclusione
della seconda guerra punica.
La medicina romana
Prendiamo in considerazione la Comunità Romana successiva al 509 a.C., momento nel
quale con forte determinazione le tre tribù dell’Urbe decisero di costituirsi in Repubblica.
Evento politico importante, non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche perché
afferma che tutti i cives pur di diversa origine, latina, etrusca e sabina, si devono riconoscere in un unico popolo con una propria comune volontà. Certo gli Etruschi avranno
contribuito con iniziative commerciali, con tecniche edili più raffinate, con uno stile di
vita più ricercato, i Sabini con la loro bellicosità, i Latini con il loro innato pragmatismo
e stoicismo. Zenone di Cizia predicherà il pensiero stoico solo nel III sec. a.C., ma nei
Romani anche della prima Repubblica, l’accettazione degli eventi, qualunque fosse la loro
conclusione, faceva parte del loro stile di vita al quale, per somma virtù, si doveva partecipare senza piegarsi a debolezze o particolari emozioni, mostrando forza e sopportazione
per gli eventi avversi.
Anche la malattia era un evento avverso che si sarebbe verificato inesorabilmente più
volte nella vita; non rimaneva quindi che rivolgersi al dio con un sacrificio e “concordare”
con lui la guarigione; questo dopo che il pater familias aveva propinato al suo familiare
malato il farmaco da lui ritenuto specifico, comportamento medico che aveva imparato
da suo padre. Veniva quindi osservata una medicina teurgica praticata secondo le antiche
tradizioni.
Il civis Romano aveva con gli dei un rapporto franco, verrebbe da dire “utilitaristico”,
questo grazie al fatto che, ritenendo di avere lui stesso un comportamento morale verso la
sua famiglia e nei riguardi della Res Publica, non aveva bisogno di elevare preghiere imploranti il perdono, accettava gli dei come entità superiori, tutori di tutto ciò che all’uomo
appare ed accade.
Era cosi variegato il pantheon Romano che ogni cosa vivente o inanimata aveva la sua
ninfa od il suo “genio” protettore, a tutela di una fontana, di un confine, di un letto nuziale.
Da ricordare ancora che Roma ed i suoi cives, nel loro momento aurorale, non avevano
33
Le notizie sugli Etruschi a noi pervenute sono riportate nelle opere di Catone, Varrone, Columella, Saserna.
L’Opera “magna” sulla storia etrusca Tirrenikà fu scritta in venti volumi dall’imperatore Claudio, ma è andata
perduta.
34
Chi scrive, usa il termine “Sanità” se riferito ad una nazione, città, comunità. – Salute – se riferito alla singola
persona.
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particolari commerci diretti con i popoli del Mediterraneo; questo limitava il loro orizzonte
e li costringeva ad un rapporto arcaico con il sacro, con tutto ciò che ne conseguiva.
Con questi convincimenti, stoico-teurgici, il Romano affrontava la malattia invocando
i suoi dèi prischi, quelli più propri alla malattia o, in seguito, quelli che verranno assorbiti
dalle altre culture mediterranee. Quindi invocheranno Giano come dio del concepimento,
Bona Dea per la fecondità, Mater Matuta per una nascita senza complicazioni, ma aiutata
in questo da Stimula, capace con il suo intervento di regolare le contrazioni uterine. A
questi si affiancavano dei minori, come Juturna, Fauno, Rumina, tutrice di un abbondante
allattamento, ed ancora Pomona che, oltre a concedere frutti abbondanti, propiziava la
raccolta delle erbe medicinali al pater familias, erborista ante litteram. Questo pantheon di
dei italici aviti, successivamente verrà integrato con quelli Greci: Apollo, Esculapio, Igea,
Panacea, Mercurio, tutori della Salute ed in epoca imperiale con tutti quelli che i popoli
conquistati proporranno.
I Romani credevano, come molti popoli del Mediterraneo, ma ancora ai giorni nostri in
qualche sacca di arretratezza, che la malattia fosse una punizione del dio e quindi più che
pie invocazioni, suppliche e sacrifici non potevano offrire. Una volontà la espressero quando
nelle XII Tavole (449 a.C.) vollero scrivere: «… salus populi suprema lex …», ad indicare che
la “Res Publica”, e per essa il Senato ed i tribuni, doveva curare maggiormente, e possibilmente con nuove tecniche, l’igiene della città, delle acque e dei bagni publici oltre a tutti
quei provvedimenti adatti a prevenire malattie e pestilenze.35 Ma è solo nel 291 a.C., dopo
tre anni di pestilenza, che – letti i Libri Sibillini – il Senato inviò dieci ambasciatori guidati
da Quinto Ogulnio in Grecia presso il tempio-ospedale di Epidauro (il console Flaminino
libererà la Grecia dall’occupazione macedone solo nel 196 a.C.) per ascoltare il responso di
Esculapio e comprendere così come porre fine alla pestilenza. Non ci fu un vero e proprio
responso, ma la leggenda narra che un serpente, simbolo del dio e della sua Arte, uscito dal
tempio si diresse verso la nave romana e qui, acciambellato, giunse infine all’isola Tiberina,
insula in flumine nata, dove sbarcò scomparendo nell’isola stessa, ad indicare la sacralità del
luogo. Lì i Romani costruiranno un tempio-ospedale dedicato ad Esculapio.36
Aldilà dell’aspetto mitologico, bisogna ricordare che Quinto Ogulnio era un tribuno,
oggi lo definiremmo “progressista”, che con l’aiuto del fratello Gneo, ma tra molte reticenze da parte degli ottimati,37 fece approvare appunto la Lex Ogulnia (287 a.C.), grazie
alla quale ai plebei era consentito di accedere al Collegio degli Auguri e quindi alle cariche
politiche. Questa sua propensione alle esigenze del popolo gli deve aver suggerito quanto
importante fosse la Salus dell’Urbe e quindi di cercare di porre fine, con mezzi e scienza,
alle sofferenze che l’epidemia portava; da qui la sua missione al tempio asclepiadeo di
Epidauro. La missione non si risolse solo in invocazioni e sacrifici (serpente a parte), bensì,
valutata l’importanza medica e sociale dell’ospedale e della sua organizzazione, si volle
creare un centro medico che si prendesse cura dei malati, che tutelasse la sanità di Roma e
che inferisse, cosa ancor più importante, principi sanitari di prevenzione.
Nonostante l’istituzione dell’ospedale pubblico, la Medicina rimase con le sue consuetudini teurgiche simili a quelle asclepiadee nella Grecia pre-ippocratica; in Roma l’afflusso dei
medici greci inizierà dopo la conclusione (201 a.C.) della seconda guerra punica. Quindi
35
Le XII Tavole rappresentano un determinante progresso giuridico e politico, in quanto le leggi orali o consuetudinarie vengono scritte evitando così interpretazioni di parte. Riconoscono inoltre l’uguaglianza dei cittadini Romani
di fronte alla legge. Saranno sempre vigenti e riportate nel Digesto dell’imperatore Giustiniano (533 d.C.).
36
Il tempio è stato eretto proprio dove oggi si trova l’Ospedale Fate Bene Fratelli.
37
Gli ottimati sono gli aristocratici con diritto a ricoprire il ruolo senatoriale.
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il paziente, una volta ricoverato nel tempio-ospedale, oltre alle consuete norme igieniche,
doveva osservare tre giorni senza bere vino, più un giorno di completo digiuno; a tutto
ciò seguiva l’incubatio per mezzo della quale in sogno gli apparivano il dio tutore o le sue
rivelazioni; l’interpretazione del sogno, se poco chiara, veniva affidata al sacerdote-medico
che dichiarava la terapia e le norme comportamentali.
I Romani, pragmatici come sempre, credevano nell’intervento divino, ma meno ai sogni
ed alle loro interpretazioni, buone per gli animi semplici. Tale sospettoso atteggiamento
crebbe con l’elevarsi del livello culturale, tanto che nel 63 a.C. Cicerone nel suo De Divinatione scriverà: «… et enim ad aegros non vates aut hariolos sed medicos solemus adducere
…». I tempi sono cambiati, Ippocrate ha conquistato la medicina Romana, nonostante
Catone maior, more maiorum, avesse poco prima definito il medico :«… nequissimus et
indocile genus ...».
A Roma, negli ultimi decenni del III sec. a.C., la terapia era molto semplice e vedeva
prescritte quelle erbe medicinali che la dea Pomona “indicava”, tipiche della campagna
mediterranea; a ben osservare sono le medesime che ancora compaiono nei nostri testi di
fitoterapia: Assenzio, Lauro, Ortica, Mirto, Ginepro, Menta, Noce, Mela Granata.38 Vera
panacea era ritenuto il Cavolo (tanto magnificato da Catone), il quale aveva virtù alimentari, regolatrici della peristalsi intestinale e formidabile vulnerario. Molto usato era il vino,39
anche medicato con le erbe sopra menzionate. Veniva consigliata l’Aristolochia contro il
morso dei serpenti, la cui efficacia era data dal fatto – riteniamo – che in Italia solo la vipera
è velenosa e raramente mortale. Droghe esotiche come il Papaver somniferum, la Cannella,
il Cardamomo e tutte quelle che saranno presenti nella Farmacopea ellenistica ancora non
figuravano nella pratica medica di Roma, ma il dilatarsi degli orizzonti inevitabilmente aveva
creato l’esigenza di tutelare la salute e, se possibile per un Romano, migliorare la qualità
della vita. Comincia così a farsi strada il mercato delle piante medicamentose; infatti sulla
sua bancarella lungo la via, l’Herbarius vende e consiglia le sue erbe; la Taberna Unguentaria, più professionalmente vende unguenti, impiastri, farmaci semplici, aromi. Cicerone già
parla di “Pharmacopola” (produttore e rivenditore di farmaci), Scipione l’Africano, molto
curato nella persona, amava vestire alla greca, con grande scandalo di Catone, e quindi
probabilmente si sarà rivolto al suo Myropola di fiducia per ottenere un profumo cipriota.
I Romani vengono definiti, se paragonati ad altre civiltà mediterranee, rozzi ed affatto
acculturati, giudizio parzialmente vero anche se giustificabile. Quanto al suo livello culturale va considerato che era un popolo giovane, senza una sua storia, proveniente essenzialmente da pastori-guerrieri e quindi nella sua fase aurorale più attento alla sua sopravvivenza che ad esteriorità considerate futili, anche se dobbiamo riconoscere loro la volontà e
la capacità di darsi Leggi di elevato spessore politico e sociale, cosa per l’epoca innovativa
e progressista ed ancora oggi fondamenta del Diritto moderno. Va considerato, inoltre, che
già dal 493 a.C., appena sedici anni dopo l’istituzione della Repubblica, il popolo Romano
dovette affrontare guerre aspre, con l’unico intento di difendere la propria sopravvivenza
contro i popoli limitrofi, contro la temibile Veio,40 le tremende guerre sannitiche, quelle
38
Il melograno non è una pianta italica, come conferma la sua classificazione, Punica Granatum (Plinio affermava che i migliori frutti venissero da Cartagine). Il frutto è originario della Persia; la sua migrazione verosimilmente è: Persia, Egitto, Grecia, Magna Grecia, Italia centrale.
39
Il vino stesso era ritenuto un efficace farmaco. Nel costume della Roma repubblicana alla donna non era
permesso bere vino, pena severe punizioni sino alla morte; solo in caso di malattia alla donna veniva somministrato vino tal quale o medicato.
40
Veio cadrà solo nel 396 a.C.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
tarantine che videro le legioni impegnate da Pirro re dell’Epiro, generale definito da Annibale “il Migliore”. Nel 264 a.C. cominciano le guerre puniche, sessantadue anni dopo
Annibale verrà sconfitto irrimediabilmente da Scipione a Zama.
Per Roma si apre una nuova era: concluse le campagne di carattere difensivo in territorio
Italico e considerando che Filippo V di Macedonia si era mostrato vicino ad Annibale, il
Senato inaugura una politica da molti definita “imperialista” attaccando il re macedone. A
guerra finita, come sopra ricordato, il console Flaminino dichiara libera la Grecia dal giogo
macedone di fronte ad una folla grata ed esultante. Ma i Greci non compresero la fortuna
che era loro capitata ed in nome della presunzione ed arroganza si mostrarono proditorii
nei riguardi di Roma. Il console Flaminino aveva studiato a Taranto quindi era portato, per
sua educazione, ad ammirare la cultura greca; questo forse giustifica il suo munifico gesto
rivolto al popolo greco, ma questa volta il Senato, indignato dal loro comportamento,41
inviò il meno sensibile console Mummio che non soffriva affatto di timore reverenziale nei
riguardi dei Greci; quindi, individuata in Corinto la città più riottosa, la rase letteralmente al
suolo, uccise tutti gli uomini, rese schiave le donne. Da quel giorno la Grecia non si riprese
più. Dopo un ultimo intervento di Silla diverrà partecipe dei destini e della civiltà di Roma.
Ma qualche cosa nell’animo dei rudi Romani stava cambiando: la tradizione vuole (vera
o costruita) che il console Mummio vedendo Corinto bruciare piangesse, commosso tra il
dovere verso Roma e ciò che la Grecia rappresentasse per il Pensiero, l’Arte e la Civiltà.
(Una tradizione politicamente corretta.)
Questo excursus sulla storia delle campagne militari di Roma, pur in estrema sintesi, è
solo per evidenziare il fatto che con un simile reiterato impegno, il popolo Romano altro
non poteva fare che confidare esclusivamente nelle sue stoiche virtù militari, non per insensibilità alla cultura, quanto per dedizione alla Repubblica.
Sono passati appena sei secoli da quando Roma “quadrata” era grande appena pochi
jugeri di terra; ora il mare è “nostrum”, Pergamo e l’Egitto invocano la protezione del
Senato, le coste iberiche e nord africane sono province Romane e l’Urbe è pronta a fare
propria l’Arte in tutte le sue espressioni, anche quelle Mediche e Farmaceutiche.
Graecia capta ferum victorem cepit
Per la verità, prima del definitivo intervento del console Mummio, Perseo figlio di
Filippo di Macedonia fomentò una “guerra santa” chiamando a raccolta i Greci delle varie
Poleis contro Roma, sempre più egemone nel Mediterraneo; questa, in risposta, mandò
il console Paolo Emilio il quale sbaragliò le falangi della coalizione macedone ed ancora
una volta si limitò a redarguire i Greci, ma portò con sé mille ostaggi: tra questi lo storico
Polibio, istitutori, filosofi, artisti e medici; molti di questi aprirono, nelle città italiche,
scuole e “studi”.
Roma era ormai pronta per pensieri alati, l’“estetica” non era più un inutile esibizionismo, ma si stava trasformando in una esigenza.
Quanto alla Salute, ora, veniva curata con entusiasmo ed interesse per tre motivi: poter
maggiormente godere delle gioie della vita, per comunicare agli altri efficienza, per manifestare uno status aristocratico o un censo elevato (paiono i nostri tempi).
41
I Greci costituirono la lega achea proprio quando Roma stava combattendo la terza ed ultima guerra punica.
Forse reclamavano la libertà, ma più propriamente era in gioco per Roma e per la Grecia il dominio commerciale
del Mediterraneo.
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Roma, a ben riflettere, rappresentava nel II e I sec. a.C. un interessante mercato per
quanti avessero qualche cosa da offrire o da commercializzare. Per i tanti medici oltre che
preparatori di farmaci e profumi, che le scuole greche ed alessandrine potevano proporre,
fu una opportunità di lavoro e per quanto possibile di celebrità. Tra i tanti che giunsero a
Roma dalla Bitinia, ma di Scuola alessandrina, vogliamo ricordare Asclepiade, che esercitò
la sua arte medica confutando Ippocrate ed affermando come l’unica terapia dovesse consistere in un costume igienico, alimentazione compresa, e in qualche appropriato farmaco
che, senza considerare gli umori corrotti, agisse ripristinando, non già l’eucrasia, ma un
corretto equilibrio tra atomi che entrano nell’organismo e quelli che escono. Parole oscure
per dire che una sana alimentazione, aria salubre (atomi che entrano) conferiscono una
buona salute, sempre che gli emuntori (atomi che escono) funzionino correttamente; il
tutto deve essere valorizzato con una vita sportiva e serena. Amava sintetizzare la sua medicina in: «cito, tuto et iucunde», aforisma che confortava i pazienti Romani: rapidamente,
con sicurezza, e gioiosamente; anticipando così quelle che saranno le regole della Scuola
salernitana del XII sec. d.C. Dietro quel suo pensiero si nascondeva forse non un innovatore, ma certamente un clinico di spessore che sapeva individuare la patologia e la sua
eziologia; inoltre era un medico molto apprezzato per il suo fascino personale, ma forse
anche perché prescriveva copiose coppe di vino che con la loro azione vasodilatatrice,42
dilatando i pori, facilitavano il flusso degli atomi. Prescriveva inoltre vino miscelato con
acqua di mare, massaggi, elleboro come depurativo e catartico; ammirato oratore ed amico
di Cicerone, sapeva infondere al malato la serenità e la iucunditas necessarie per guarire.
Il continuo afflusso di medici era apprezzato dai cives, anzi stimolava in loro un maggiore
interesse ed apprezzamento per l’Arte Medica che cominciò così ad essere considerata
una professione, non più di formazione empirica, bensì un’Arte scientifica altamente meritoria, tanto che Caio Giulio Cesare decretò di concedere la cittadinanza Romana ai medici
che esercitassero in Roma, ufficializzando così il loro ruolo. Questa decisione stimolò la
presenza dei vari “Sanitari” nell’Urbe i quali giustamente, ognuno con le proprie esperienze e riflessioni professionali, vollero fondare proprie scuole mediche, che infatti sorsero
numerose: l’Organicista, l’Empirica, la Dogmatica, la Pneumatica, ognuna con una sua
premessa filosofica, anche se tutte infine confluivano in una dieta igienica, nel farmaco
purificatore, nella attività fisica.
Ancora va ricordato Temisone, fondatore della scuola metodista, il quale è passato alla
storia per avere messo a punto lo sciroppo Diacodio, ne riportiamo la formula:
Teste di Papavero (var. somniferum), Zafferano, Acacia, miele e vino.
Formula di sicura efficacia se ancora la troviamo nella Farmacopea del dott. Baumé,
maestro speziale di Parigi e dimostratore in chimica, edita nel 1788, il quale, pur apprezzandola, ne propone un’altra semplificata:
Teste di Papavero lb. 1 e cassonada (zucchero raffinato) lb. 4
anche se il dott. Baumé dichiara infine di preferire lo sciroppo di Oppio realizzato con
il suo metodo, dove l’estratto è ottenuto per digestione in acqua di fiume: «… è ottimo
quando è necessario istupidire ed acchetare i dolori interni, calma la tosse ...».
42
L’alcol ha una azione vasodilatatrice e quindi facilita la fuoriuscita di atomi da espellere. Oggi al vino, che è
una soluzione idroalcolica, si riconosce una importante azione antiradicalica in virtù dei suoi polifenoli; contrasta
inoltre le dislipemie.
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STORIA DELLA FARMACIA. DALLE ORIGINI AL XXI SECOLO
Con il moltiplicarsi in Roma di scuole e studi medici, la magra Farmacopea demoiatrica
latina si moltiplicò importando tutte quelle droghe e materie prime che la Scuola alessandrina
proponeva, ma quello che ci rimane difficile comprendere sono quei “neo-farmaci” prescritti,
che oggi anche ai profani appaiono illogici ed inutilmente ripugnanti. L’unica spiegazione è
che il medico, accettata l’elucubrazione per cui la tale assurdità fosse una valida terapia, una
volta somministrata, costatava che il malato guariva; il medico ne menava vanto, misconoscente della vis naturae medicatrix di ippocratica memoria. La cosa che appare sconcertante è
che anche personalità di valore come Aulo Cornelio Celso le abbia riportate nella sua opera
enciclopedica, tra le possibili terapie senza confutarle, in disprezzo al suo stesso pensiero: «…
rationalem puto medicinam esse debere …» abbandonando i tempi di quando era «scientia
rudis et vulgaria» (De Medicina, Proemio 2-74). Tra i farmaci improbabili riportiamo il fiele
delle pernici selvatiche per acuire la vista,43 fiele di iena per gli ematomi, carne di vipera nelle
ulcere gastriche, sterco di cane bianco seccato e triturato in casi di angina, rondini di nido tal
quali o polvere di rondinotti sospesa in acqua mielata pratica terapeutica questa che, a detta
dello stesso Celso, annoverava abili ed autorevoli sostenitori. Per fortuna dei suoi pazienti
nel capitolo XXVI del IV libro sostiene: «… sed medicamentis uti nisi in vehementibus malis
supervacuum est».
Questa pratica di pensare farmaci assurdi e ripugnanti comincerà a scemare solo dopo il
XVII sec., quando la immobile tradizione medica lascerà il posto alla Ragione ed al Metodo.
Ad Aulo Cornelio Celso viene riconosciuto un posto di rilievo nella storia della Medicina e Farmacia, fu studioso e ricercatore, ottimo oratore, Romano appartenente alla aristocratica gens Cornelia e quindi vanto della intelligentia Romana e testimone dell’interesse
che la Medicina destava in Roma. Nacque tra il 14 a.C. ed il 50 d.C. nei pressi di Verona,
forse fu medico, certamente persona colta ed enciclopedica, volle fissare la sua ricerca nel
lavoro De Artibus, opera in sei libri dove ha trattato: agricoltura, giurisprudenza, oratoria,
arte militare, filosofia oltre che medicina; l’opera risulta emblematica e testimone dell’interesse culturale del suo momento. Resta il dubbio sul fatto se fosse medico o meno, perché
non viene menzionato dagli storici, ma anche perché ha voluto trattare la Medicina in un
contesto troppo ampio dove si parla anche di Arte Militare; inoltre, per quanto le sue osservazioni siano corrette ed interessanti, nella lettura particolarmente del De Medicina, libro IV,
non convince: non si riesce a comprendere se sia un suo pensiero o una nozione appresa.
Mostra una buona conoscenza dell’anatomia e, compatibilmente con il suo tempo, della
patologia. Sconcerta con le pratiche mediche e la terapia, probabilmente la Conoscenza del
momento non permetteva altro. Dalla lettura del libro IV possiamo vedere che molto usati
erano i cataplasmi revulsivi e con le stesse finalità: i massaggi, suffumigi, bagni caldi e freddi
alternati, esulcerazioni sulla cute operate con ferro rovente.44 Altre pratiche che ricorrono
sono i clisteri, i salassi, e le incisioni sulle parti infiammate ed infette per consentire alla
noxa morbosa di drenare. Anche il vomito era ritenuto terapeutico;45 riportiamo una pratica
terapeutica in caso di paralisi della lingua: «… mangiare molti ravanelli … deinde vomere».
43
Il fiele animale era usato come lassativo ma particolarmente nella cura degli occhi; ricordiamo che nella Bibbia
è riportato come l’Arcangelo Raffaele guarisca Tobia dalla cisposità agli occhi che lo rendeva cieco, prescrivendogli
di cospargervi sopra il fiele del pesce. Per questo motivo l’Arcangelo Raffaele viene ritenuto uno dei protettori
dell’Arte Farmaceutica perché non opera un miracolo, ma prescrive un farmaco, appunto il fiele del pesce.
44
Terapia ancora oggi praticata, solo per uso veterinario, definita “bottone di fuoco”. Serve per fare affluire
sangue (calore) sulla parte dolente e risolvere così la patologia.
45
Il vomito veniva ritenuto altamente terapeutico in quanto consentiva di espellere umori ritenuti dannosi.
Veniva sollecitato ingerendo acqua tiepida con sale e miele o somministrando una pozione di Elleboro bianco o
ancora per titillamento della gola con una piuma o bacchettina d’avorio.
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Le droghe più consigliate da Celso sono: il vino bianco e rosso, senape, isoppo, menta,
timo, assenzio, ma anche fiele di toro, castoreum,46 il Tetrafarmaco per massaggi, ed ancora
per unzioni: oli e grasso vecchio. (Il Tetrafarmaco, di origine greca, era composto da: cera,
pece, resina di pino e grasso di toro – o in sostituzione Lanolina. Lasciare fondere il tutto
a fuoco tenue.)
Le forme farmaceutiche tradizionali, con una ricorrente prescrizione, sono: vini medicati, pastiglie, succhi, oleoliti, acetoliti.
A ben riflettere, meravigliarsi e criticare le terapie e le pratiche mediche dell’epoca augustea risulta improprio; non dobbiamo mai dimenticare che la Medicina e la Farmaceutica
sono ancora agli albori, cosa che giustifica, almeno in parte, le incomprensibili ed improbabili scelte.
Il merito di Aulo Celso è quello di averci tramandato la sua volontà di voler razionalizzare la Medicina, ma anche di avere elaborato una sintesi della medicina ellenistico-romana
del I sec. d.C.; subito dopo verranno Dioscoride e Galeno.
Molti furono i medici che esercitarono in Roma nei primi decenni dell’Impero, ma tra
questi sicuramente Dioscoride primeggiò per il suo vasto Sapere; apprezzato in seguito da
Galeno, lo sarà ancora da quanti vorranno educarsi alla Scienza medica e farmaceutica. Di
virtù eclettiche, nato in Cilicia nel I sec. d.C., compì i suoi studi in Grecia ed Alessandria.
Seguì come medico militare le legioni, con grande interesse e curiosità per ciò che poteva
osservare e studiare e questo arricchì ulteriormente la sua esperienza professionale, che
volle raccogliere nella sua opera De Materia Medica. Scritta in cinque libri, questo suo
lavoro fu testo di riferimento e consultazione per quindici secoli; scritta in greco fu tradotta
in latino, in arabo e da questo ancora in latino in epoca medievale e poi umanistica.
Di testi enciclopedici ne furono scritti molti secondo il vezzo culturale dell’epoca, ma
Dioscoride intuì la corretta stesura del testo; divise i libri in tre regni: vegetale, animale e
minerale. Nel primo libro classifica gli oli, gli unguenti, spezie ed alberi; nel secondo gli
animali, alcune loro parti, i diversi tipi di latte, di grassi e di miele; nel terzo e quarto le
erbe, le loro droghe e radici; nel quinto il vino, bevande in genere e minerali. Inoltre, cosa
particolarmente comoda per la consultazione del medico e farmacista neofita, tutto viene
elencato a seconda della loro azione farmacologica. Descrive poco più di mille sostanze
delle quali 813 piante medicinali,47 suggerisce 4780 utilizzazioni terapeutiche; un’opera
indubbiamente imponente.
Apprezzato dalla intelligentia del suo tempo, fu da tutti ritenuto un grande farmacognosta e preparatore di farmaci. Probabilmente lo fu, anche se rimane difficile comprendere
quanto il suo lavoro sia originale o una semplice, pur attenta, osservazione dei tanti ottimi
medici e rhizotomoi presenti nel mondo greco-orientale. L’opera sommamente apprezzata
fu propedeutica ai futuri studi arabi, alla Scuola Salernitana ed utilizzata pedissequamente
per tutto il Medio Evo. Oltre la consueta tecnica farmaceutica utilizzò molto la distillazione
per ottenere oli essenziali ed il mercurio dal cinabro; l’“Oisypum” (“lanolina”, grasso ricavato dalla lana di pecora, capace di emulsionarsi con l’acqua), che ha la caratteristica di non
irrancidire; la Gomma Ammoniaca,48 solo per citare qualche sua originalità.
46
È la secrezione del castoro maschio al fine di attirare le femmine. Veniva molto usata nella terapia dell’epoca
nelle varie forme farmaceutiche.
47
Di queste, dall’elenco riportato dal Conci, escluse quelle eduli; ne abbiamo contate 59 ancora utilizzate in
fitoterapia.
48
La Gomma Ammoniaca è una gommo-resina ricavata dal Doreum Ammoniacum. Veniva utilizzata per la sua
azione balsamica e come addensante nelle sospensioni; per uso esterno come revulsivo in impiastri.
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Quello che al solito lascia perplesso sono alcuni farmaci da lui descritti, decisamente
improbabili, e ci si domanda allora come un genio dell’Arte Sanitaria potesse credere che il
“fumo delle scarpe vecchie” faccia uscire i serpenti entrati nella bocca. Passi l’affermazione
che il sangue di agnello possa guarire l’epilessia, ma che l’unguento preparato con la intera
testa di una lepre guarisca la calvizie è contro ogni logica, così come lo zoccolo bruciato
dell’asino e bevuto è ottimo per la montata lattea.
Senza nulla togliere a Dioscoride, rimpiangiamo il vecchio infuso di Camomilla.
Aetas Galeni incipit
Quando l’imperatore Cesare Augusto chiuse le porte del tempio di Giano promulgando
la Pax in tutto l’impero, Roma pose fine alla sua aspirazione espansionistica e lentamente si
trasformò in una idea satura di Valori, in una civiltà comune nella quale dalla Britannia sino
alla Siria i popoli si riconoscevano nel Genius di Roma imperiale. Ci saranno ancora conflitti
lungo i confini del nord-est o piccole rivolte come quelle giudaiche, ma di fatto venivano
considerate come semplici operazioni di tutela o di polizia. La solidità dell’Impero, la sua
prosperità, diffusero esigenze culturali e, con esse, tutte quelle proprie dell’uomo che vuole
andare oltre i suoi bisogni più semplici.
Galeno nacque in questo felice momento storico, nel 129 d.C., a Pergamo sotto il principato di Adriano dove, sollecitato dal padre, iniziò i suoi studi di filosofia e di medicina.
Molte erano le scuole a sua disposizione di anatomia, che tanto lo coinvolse, e di accademie
mediche ispirate ai vari orientamenti (i dogmatici, gli empirici ed altri pensieri medici). Tutti
lo interessarono, ma avvertì anche che il processo filosofico e medico iniziato con Socrate
ed Ippocrate si era arrestato, ripetendo a volte con sofismi schemi di epoche precedenti;
la Cultura stessa gli parve che si fosse cristallizzata, paga del Pensiero dei grandi filosofi e
medici. Sentì, Galeno, la necessità di allargare i suoi orizzonti, di incontrare nuovi Maestri;
per tutto ciò si trasferì a Smirne dove perfezionò ulteriormente gli studi di anatomia, ma
anche di filosofia. Qui iniziò a delinearsi la personalità di Galeno, che per gli studi filosofici preferì ricostruire il suo sapere dedicandosi alla lettura diretta dei testi di Alcmeone,
Platone, Aristotele, Posidonio, Ippocrate; questa sua scelta didattica e formativa era frutto
di un convincimento che, allontanandolo dalle diverse scuole, lo portò ad elaborare una
sua sintesi, un nuovo paradigma con una “maieutica” giustificata da una nuova euristica e
proprio in questa si esprimerà gran parte della originalità di Galeno.
Da Smirne si trasferì nella capitale della scienza e di quella medica in particolare, Alessandria, dove tutto confluiva e dalla quale tutto si irradiava nell’impero. Dalle tante scuole
alessandrine, anche specialistiche, certamente Galeno arricchì la sua professionalità, ma
sempre più si convincerà (forse saranno stati i più approfonditi studi ippocratici) di dover
rifondare la Medicina che dovrà essere, questa volta, intesa unica e non suddivisa in sette e
quindi di dover riproporre l’ontologia, il dovere della Scienza medica, la quale sarà interamente dedicata allo studio ed alla sua funzione sociale.
Maturati questi suoi convincimenti, si sentì pronto ad affrontare Roma, dalla quale tutto
prendeva le mosse, con la sua moltitudine di cittadini sempre più attenta alla cura del
proprio corpo: dalla prevenzione alla benefica terapia. È stato osservato che tra tutte le
scienze i Romani prediligessero la Medicina, forse perché la consideravano una scienza
esatta, in qualche modo tangibile a differenza di altre discipline troppo teoriche ed affatto
pragmatiche. A Roma Galeno si sentì un medico completo capace di educare, promuovere
comportamenti igienici, formulare la corretta diagnosi e, da questa, la terapia più idonea,
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senza evocare sedicenti maestri o indirizzi preconcetti e per questo limitanti; comportamento professionale che piacque ai Romani ed all’imperatore Marco Aurelio i quali
seppero apprezzare e valorizzare il Maestro. Fecondo di pensiero e di scritti, se ne contano
più di mille pagine, sempre in greco: scrisse su ogni aspetto dello scibile medico. Citiamo
solo alcuni titoli tanto diversi tra loro: Procedimenti Anatomici, De Diaeta Subtiliante, De
Natura Hominis, De Theriaca. Tutti i suoi testi si differenziano da quelli enciclopedici che
lo avevano preceduto, per il fatto che sono frutto di studi originali e di sue esperienze
professionali, cosa che rende ancor più autentico ed attendibile il suo Pensiero medico.
Galeno come fisiologo, clinico, terapeuta, dietologo, chirurgo, riconosce gli insegnamenti ippocratici: l’osservazione del malato e dei suoi sintomi, la vis medicatrix naturae, ma
trova la teoria umorale perfettibile e con la sua terapeutica vuole andare oltre, essere lui
stesso artefice della guarigione; ritiene di perfezionare il pensiero ippocratico adattandolo
maggiormente non solo alla discrasia che manifesta il malato, ma anche ad ogni farmaco ed
ad ogni cibo o bevanda che dovrà assumere il paziente.
Osserva Galeno che i quattro umori ippocratici, Sangue, Bile, Flegma, Atrabile, presentano quattro Qualità Elementari: Caldo, Freddo, Secco ed Umido. In ogni corpo,49 queste
qualità si manifestano in quattro Gradi diversi ed ancora ognuno di questi viene graduato
in: il Principio, il Mezzo, la Fine.
Il Temperamento di un corpo altro non è che l’insieme delle qualità espresse nella loro
giusta e peculiare gradazione, per cui avremo un Temperamento Temperato dove le Qualità
Elementari sono in perfetto equilibrio; un Temperamento Intemperato quando una delle
Qualità nei suoi Gradi caratterizza il corpo stesso sia umano, sia animale che vegetale. Ad
esempio nei legamenti del corpo, dovendo questi essere elastici, prevale l’Umido, così come
nell’umor vitreo; nelle ossa, avendo queste funzione di sostegno, prevalgono il Freddo ed il
Secco a scapito del Caldo e dell’Umido, presenti solo in caso di infiammazione. La clinica
e la terapia consistono, in Galeno, nel valutare attentamente la discrasia manifestata dal
paziente (la patologia), nel considerare il sesso, il colorito, l’età, la complessione e la facies
ed ancora l’ambiente e lo stile di vita del paziente, quindi: clima, attività fisica, qualità
del sonno, alimentazione, funzioni intestinali, ansia o depressione. Al termine di questa
indagine clinica (ancor oggi in epoca tecnocratica apprezzabile), si deve trovare uno o più
rimedi che, antagonizzando la discrasia stessa, ripristinino il giusto equilibrio degli Umori
e delle loro Qualità. Osserva ancora Galeno (le droghe vegetali da lui studiate ed utilizzate
sono circa 500) che il farmaco somministrato tal quale è a volte inerte, ma viene trasformato
in attivo dal Calore Innato, liberando così i suoi Principi Attivi: «… medicamentum est
omne quod naturam nostram alterare potest ...».
Lo studio dei Temperamenti nei loro diversi Gradi investì anche una fondamentale
branca della terapia: la dietetica, che doveva prescrivere cibi compatibili con lo stato di
salute del paziente e della sua malattia; se questa si manifestava con una discrasia nella
quale risultava prevalente l’Umore freddo, non sarebbe stato igienico alimentarsi con
avena, cavolo, fave fresche, ciliegie, oxygala (yoghurt), bensì con cibi caldi come: puls di
grano, carne di maiale, aglio e cipolla. Questa osservanza fu scrupolosa ancora nel Rinascimento, quando i prìncipi, mercanti e benestanti programmavano pranzi e banchetti dove
ad un cibo di Qualità calda ne doveva corrispondere uno di Qualità fredda per non alterare
la crasi dell’intero banchetto. Naturalmente i poveri ed i contadini non avevano di questi
problemi; il loro piatto forte quotidiano era dato dai legumi.
49
Si intende ogni corpo o parte di esso appartenente al mondo animale o vegetale.
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Rimane da scoprire il metodo per valutare le Qualità, i Gradi e quindi i Temperamenti
dei farmaci e degli alimenti, cosa non facile perché solo l’osservazione, il tatto ed il gusto
ci possono suggerire l’esatto Temperamento. Quindi la valutazione è affidata ai sensi
ed a volte, da come si esprime Galeno, al buonsenso. Questa metodica lascia interdetti
e comunque appare affidata interamente alla sensibilità di Galeno che indubbiamente
doveva essere grande, ma soggettiva.
Fu chirurgo (medico dei gladiatori di Pergamo), clinico, terapeuta di elevata esperienza,
rappresentò la logica e completa evoluzione del pensiero ippocratico, lasciando ai futuri
medici e farmacisti norme scientifiche che giungeranno intatte sino a tutto il XVIII sec.
dell’era cristiana e questo per due motivi: non era facile confutarlo e poi, con quali mezzi?
Per quanto Galeno non stimasse i cristiani, così come il suo imperatore Marco Aurelio,
nelle sue riflessioni filosofiche ammise di credere in una unica Entità divina autrice di ogni
cosa, e questo fece di lui per la chiesa un monoteista degno di essere accolto tra i credenti
del vero Dio. Riportiamo le belle parole di Galeno:
Nell’ordire questo ragionamento, mi pare di cantare un inno alla gloria di Te, che ci hai
creati! Meglio Ti onoro con il rivelare le opere tue stupende, che non con ecatombe di
tori e con gli incensi. La pietà vera sta prima nel conoscere me stesso, poi nel manifestare
agli altri quanto grande sia la tua bontà, sapienza, possanza, e bontà per l’equa distribuzione dei tuoi doni…
(DE USU PARTIUM)
Dobbiamo dire, sia pure a malincuore, che per questo suo convinto pensiero, da parte
della Chiesa cristiana (ma anche da parte della fede mussulmana ed ebraica), il paradigma
di Galeno non fu utile al progresso scientifico, perché non confutabile, era la Verità, quasi
un dogma, cristallizzando così il Sapere medico su di una tradizione che sempre più veniva
superata. Né vi fu revisionismo nel Rinascimento con il suo ardore di sapere, né con il
Concilio di Trento. Sarà compito dell’Illuminismo proporre una nuova euristica.
Di Galeno proponiamo una sua formula: Pillole Tribus (tre componenti) ricavata dal De
Medicamentorum Compositione secundum locos. È interessante, non tanto per i suoi costituenti – sono tre lassativi – quanto per il meccanismo d’azione con il quale dovrà svolgere
la sua azione farmacodinamica nelle affezioni articolari:
Agarico (bianco), Aloe, Coloquintide polverizzati ed impastati con Oximele.
Hanno la funzione di indurre un alvo diarroico risucchiando e purgando gli umori
corrotti, quindi di espellere le sierosità infiammatorie dalle articolazioni. Favoriscono
l’espulsione dei tre Umori diversi dal Sangue che si pervertono nell’organismo: Flemma,
Bile nera, Bile gialla.
Possiamo ipotizzare che il meccanismo d’azione sia questo: stimolando in dose catartica la
funzione intestinale e con l’osservanza di una attenta dieta di cibi “freddi”, l’organismo sia
costretto a ridurre la sua azione infiammatoria; come dire che “esso sia costretto a raffreddarsi”.
Il medicamentarius e la sua taberna
Compito del medico, secondo i dettami ippocratici, era quello di visitare il malato,
consigliare la giusta dieta, prescrivere il farmaco più idoneo, che lui stesso doveva preparare responsabilmente. Se tutto questo era praticabile nella fase aurorale della medicina,
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con l’evolversi di questa si moltiplicarono i “tecnici” necessari alla definitiva preparazione
del farmaco, in considerazione che sempre più la prescrizione preferiva farmaci composti
(mixturae) che, in quanto tali, richiedevano tempi di preparazione più lunghi e quindi
non praticabili da un medico che doveva prestare attenzione ed assistenza ai suoi pazienti.
Sappiamo che il medico, sul retro del suo ambulatorio, produceva farmaci coadiuvato da
tecnici, ma la materia prima, le piante medicinali (che ora possiamo chiamare “officinali”)
dovevano essere raccolte da persone esperte, mentre resine, piante esotiche, oli, grassi di
diversa natura venivano acquistati da grossisti rivenditori. Questa ripartizione di compiti
si amplificò con l’affermarsi della Scuola ellenistica, che vide lievitare la conoscenza delle
droghe, in gran parte provenienti dall’ex Impero di Alessandro e da tutto il Mediterraneo,
ora diventato Mare Nostrum. Prenderanno così forma nuovi operatori, ognuno con una
sua specializzazione; come gli herbarii ed i rhizomatoi che raccoglievano piante e radici
officinali. Questi, oltre che vendere all’ingrosso ed al minuto le loro droghe, ne consigliavano alla clientela l’azione farmacologica e come prepararla per il proprio uso terapeutico,
espletando un compito medico e farmaceutico non loro. Questo abuso viene testimoniato
dal termine Seplasium (rimedio) mutuato da una piazza della città di Capua – Seplasia –
dove venivano smerciate le erbe medicinali; Seplasarius in seguito identificherà la figura
del “Farmacista” che nel tempo ed in diversi luoghi verrà chiamato anche: pharmacopola,
myrapola, medicamentarius, pigmentarius (rivenditore di sostanze colorate e profumi),
apothecarius (magazziniere), aromatarius (venditore di spezie aromatiche). Ancora nel XV
sec. a Roma, negli atti ufficiali, chi operava in Farmacia veniva chiamato aromatarius;
il termine di “Farmacista” verrà adottato verso la fine del XVII sec ed in Italia dopo
la Rivoluzione Francese, anche se nei Paesi del Nord Europa verrà preferito quello di
apothecarius.
Alcuni erboristi, dovendo importare droghe da Paesi lontani, si trasformarono in
Tabernae apothecariae che con la funzione di magazzino grossista trovarono la loro specializzazione vendendo al pubblico ingredienti preconfezionati, come ad esempio il Bolo
Armeno ed altre argille di provenienza esotica, ma anche sale (cloruro di sodio), miele,
cera, oli, grassi di varia natura, prodotti in genere che interessavano la cura del corpo.
Le Tabernae medicamenti o medicinae condotte dal medicamentarius operavano più
specificatamente per i medici prescrittori di farmaci semplici o composti, ma curavano
anche la produzione di quei rimedi dalla formula consolidata come il Mitridato, la Teriaca,
il collirio Danai, l’Isotheon (divino) contro la colite, il Diarhdometitis per stimolare le
funzioni intestinali; preconfezionati che oggi i farmacisti definiscono da banco, ovvero affidati al loro consiglio professionale.
Infine oltre ai medici propriamente detti, vi erano quelli periodeuti o circulatores che
portavano la loro professionalità in paesi poveri, lontani dai grossi centri, ed avevano con sé
farmaci in precedenza preparati, vere panacee per ogni male. (Herbarii, rhizomatoi, circulatores, confluiranno nell’interessante figura del Ciarlatano che svolgerà il suo commercio
sulla pubblica piazza.)
Nel tempo, queste diverse prestazioni paramediche si sono consolidate formando
persino, oggi diremmo, delle categorie, tanto che più volte sono dovute intervenire, con
editti e multe, le autorità sanitarie per frenare queste iniziative il più delle volte dannose
per il paziente. Ma inutilmente, a causa delle rivendicazioni – che si sono verificate sino
agli anni Cinquanta dei nostri giorni – tra le varie categorie (erboristi, droghieri, ciarlatani,
farmacisti e medici); ognuno puntualizzava le loro specifiche e legali competenze e diritti.
Come detto, Galeno disponeva della conoscenza diretta di circa cinquecento piante
officinali con grande preoccupazione del suo “Farmacista” di fiducia, che doveva tra l’altro
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conservarle tutte nel suo laboratorio, anche se la prescrizione in genere vedeva incrementato l’uso di rabarbaro, pepe, centaurea, iperico, uva ursina, biancospino, ambra grigia,
resina di trementina e valeriana, oltre all’oppio, mandragora ed il giusquiamo. Tra le
droghe animali: la cantaride, la ragnatela come emostatico, la vipera ed i tanti tipi diversi
di grasso. Di sicura pertinenza del Medico e del Farmacista risultavano i diversi minerali:
zolfo, pirite, nitrum,50 bitume, antimonio, la spuma d’argento (ossido di piombo). I più
prescritti e consigliati erano i rimedi per uso esterno, che venivano usati come eccipienti,
ma anche per una loro azione terapeutica: oli, lanolina, burro, grasso di bovino, oca, suino
(fresco o vecchio), capra, cervo, orso e felini, anche se il più pregiato era considerato quello
che si depositava intorno ai reni degli animali ed al midollo delle ossa (medulla). Purtroppo
la polifarmacia dell’epoca non poteva fare a meno di rimedi che ci limitiamo a definire
“originali”: cenere di rane, polvere di riccio terrestre, sterco di varia natura, da quello della
lucertola a quello del coccodrillo, anche se molto apprezzato era quello di lupo che aveva
mangiato ossa.
La Taberna seplasia o myrapolium (la Farmacia), in epoca imperiale, aveva una attività
poliedrica in quanto vendeva ai suoi clienti-pazienti profumi, polveri per la pulizia del
corpo, unguenti lenitivi ed odorosi, farmaci preconfezionati o da preparare su prescrizione
del medico (galenici magistrali). Tale attività dettava le esigenze tecniche della Farmacia,
la quale doveva essere locata in un posto commerciale, ed essere dotata di più locali per
la conservazione delle droghe e sostanze minerali, di un laboratorio per la produzione del
farmaco che sempre più richiedeva tecniche appropriate. Ma quello che in ultima analisi
dettava l’ubicazione era l’uso del fuoco, indispensabile per la preparazione delle tante
forme farmaceutiche; il che escludeva le “insule” (palazzine), le quali strette le une alle
altre, non essendo dotate di camino, di cappe e canne fumarie, spesso si incendiavano. Al
contrario, la farmacia doveva avere un ampio locale dedicato all’uso del fuoco con relativa
cappa che allontanava i fumi magari in un proprio giardino, lontano dalle eventuali possibilità d’incendio. Le forme farmaceutiche che il medicamentarius preparava erano: le polveri
che otteneva con il mortaio ed i diversi setacci; i succhi da frutti o piante fresche, che una
volta pestati venivano torchiati e filtrati con un panno; i macerati sia in poltiglia per applicazioni locali che in forma liquida, che poteva essere concentrata a fuoco lento; gli infusi ed
i decotti per lo più venivano preparati estemporaneamente in quanto, mancando i conservanti, con facilità si deterioravano (si riteneva che la scadenza fosse entro i tre giorni); per
questo motivo, quando possibile, venivano preparati in aceto o utilizzando un vino di forte
gradazione (vini medicati) per evitare la fermentazione acetica. Gli unguenti profumati
ed i malagma medicinali (unguenti, empiastri) figuravano ampiamente nella polifarmacia
Romana utilizzando come detto: cera, oli ed i grassi a disposizione a seconda se il malagma
doveva avere azione lenitiva, risolvente o curativa in profondità.51 Le Tabernae, come
detto, che preparavano unguenti profumati erano provviste di distillatore o compravano
le essenze tal quali, magari a Cipro, da incorporare in adeguato eccipiente grasso. Forme
farmaceutiche più usate che in epoche precedenti erano le pillole,52 i colliri ed i tamponi
vaginali, segno che le specializzazioni, che si acquisivano in Alessandria, stavano producendo specifiche attenzioni.
50
Per quanto l’individuazione del nitrum sia controversa, riteniamo si tratti del nitrato di potassio.
Tre sono i termini che distinguono l’azione degli unguenti: Unguentum, preparazione odorosa per profumare; Malagma, con funzione propriamente medicamentosa; Acopa, con funzione di emolliente, lenitiva.
52
Tra queste ricordiamo con azione analgesica e soporifera le pillole di Oppio, Mandragora, Giusquiamo in
virtù dei loro Principi Attivi: morfina, scopolamina, atropina.
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Abbiamo sempre parlato di medicina romana, ma intendiamo dire di “epoca romana”;
appare logico che Siena, Mantova, Napoli, ma anche Efeso e Costantinopoli avessero le
medesime opportunità mediche; sarà proprio quest’ultima capitale che saprà conservare ai
posteri la Scienza medica e farmaceutica greco-romana.
Abbiamo citato il Mitridato e la Teriaca, di questa parleremo più estesamente in seguito;
del Mitridato diciamo che fu un farmaco studiato da Crateva, celebre medico e fitoterapeuta alla corte di Mitridate VI re del Ponto. Questo – per ritornare sulla sua affascinante
figura – fu un personaggio dotato di grande personalità e fascino che impegnò non poco
Roma ed i suoi generali. Nacque nel 132 a.C., da ragazzo si rifugiò sulle montagne per
sfuggire alla madre che voleva sopprimerlo, al fine di poter regnare liberamente sul Ponto.
Temprò il suo corpo al freddo ed alla fatica, quando ritenne di essere sufficientemente
pronto, anche politicamente, tornò, uccise la madre ed i suoi fratelli probabili antagonisti,
sposò la sorella e finalmente diede sfogo alla sua ambizione: emulare le gesta del macedone
Alessandro e distruggere Roma ed il suo crescente potere nel Mediterraneo. Le statue lo
riproducono con una evidente bellezza fisica; la storia riporta che, oltre alla sua ambizione,
era dotato di notevole curiosità intellettuale e di una formidabile memoria che gli consentiva di parlare ben 22 lingue. Il suo interessamento per le Scienze mediche lo portò ad avere
vicino a sé Crateva al quale chiese un rimedio che lo rendesse insensibile ai veleni, che per
la verità erano molto usati a quei tempi nelle corti medio-orientali.
Crateva, con i suoi studi, intuì che l’organismo riusciva ad assuefarsi ai veleni se questi
fossero stati assunti costantemente a micro, ma crescenti dosi (mitridatismo) e così preparò,
per il suo re, il pharmakon con 50 diversi tipi di veleni. Qui le cose si complicano, perché
è vero che dosi non tossiche, di alcuni veleni, non uccidono, ma è anche vero che, se
assunte per lungo tempo per accumulo o danni agli organi, portano a morte lentamente; ad
esempio l’arsenico, con un dosaggio inferiore ai 100 mg non uccide ma, tra l’altro, rallenta
la respirazione cellulare portando comunque, dopo un certo tempo, a morte il malcapitato.
Non sappiamo quali fossero i veleni somministrati in microdosi da Crateva a Mitridate,
ma certamente questi assumeva quotidianamente un antidoto che in ogni caso avrebbe
neutralizzato ogni veleno: quello che passerà alla storia come il Mitridato; apprezzato in
seguito da Galeno e Andromaco, medico personale dell’imperatore Nerone, con qualche
sostituzione di droga e con l’aggiunta dei trocisci di Scilla, del Rabarbaro rapontico e della
carne di Vipera, formulò la Teriaca.
Il Mitridato doveva essere ben efficace, insieme alla pratica del mitridatismo se, Pompeo
alle porte, Mitridate, assunto il veleno, non riuscì a morire, così che – come detto – dovette
ricorrere alla spada.
Crateva con il suo Mitridato diede inizio a quelle formulazioni interminabili che domineranno gli Antidotari53 sino ai primi del XIX sec., frutto del processo mentale per il quale
più droghe compaiono nel preparato, più questo risulterà terapeutico. Quello riportato nel
Ricettario Fiorentino del 1498 verrà preparato con circa 101 droghe macerate in vino “antiquissimo”; infatti anche nella Teriaca verrà consigliato, quale solvente, il vino: malvasia
amabile di Spagna, di Scio, di Falerno, purché di corpo, ricco di tannini e di polifenoli oltre
che di elevato grado alcolico per scongiurare la fermentazione acetica. Nel tempo, il Mitri53
L’Antidotario è una raccolta di rimedi, contravveleni, alexifarmaci che fungono da antidoto in casi di avvelenamenti causati sia da sostanze minerali, vegetali o da malattie. Nel Medio Evo, sulla scia di questo pensiero, il
termine indicherà una raccolta di ricette, considerando, per esteso, che l’antidoto significherà più propriamente
“rimedio”.
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dato varierà la formula in alcuni suoi costituenti, ma non il nome, che comparirà ancora
nelle farmacopee del 1800 non più in casi di “avvelenamenti criminali”, ma nei morsi velenosi e nella rabbia, contro la peste, nelle febbri maligne, contro le semenze verminose e «si
dà nel vaiolo come ottimo cordiale». La dose è da diciotto grani a due dramme/die. Deve
essere conservata in vaso invetriato ben chiuso per una durata non superiore a dieci anni
(ma alcune Farmacopee parlano anche di trenta anni).
A ben valutarla non sembra tutta questa panacea, ma appaiono alcune sue funzioni
farmacologiche: Amaro stomachico, stimolante l’appetito e le difese anticorpali; Carminativo per la temuta flatulenza; Balsamico per le vie respiratorie; Regolatore della peristalsi intestinale; Coleretico per incrementare la funzionalità epatica. Contiene Oppio per
le coliche e perché induce, nell’oblio, a sperare. Tutte funzioni meritorie certamente, ma
con il beneplacito di Crateva e di Mitridate, in caso di avvelenamenti da cibi o da farmaci,
è bene non assumere il Mitridato, sarebbe inutile; per il morso degli animali niente paura:
sono in Europa (quasi) tutti innocui, mentre in caso di malattia è bene chiamare un medico!
Roma ultimo atto
Con la morte dell’imperatore Marco Aurelio, finì il periodo aureo dell’Impero Romano
e la sua capacità di aggregare i popoli conquistati assorbendo i loro Credo e Valori, ma
donando loro lo Ius ed un convincimento: l’imperatore, nel quale si materializzava il Genio
di Roma, era padre e tutore di ogni cittadino o uomo libero dell’Impero. Gli imperatori
che si susseguirono dopo Marco Aurelio non ebbero la capacità di emularlo e così per l’impero cominciò inesorabile una parcellizzazione ed una decadenza dolorosa ed umiliante.
Quali le cause?
La prima fu proprio il “decentramento”. Sotto Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio,
Marco Aurelio, ogni cittadino Romano, ma anche ogni uomo libero, sentiva che la forza
dell’imperatore era la sua, che credere in lui, non tanto come dio, ma come uomo, significava identificarsi in quei Valori che la Civiltà greco-romana aveva saputo costruire e che
erano motivo di sicurezza e prosperità.
Inoltre si verificò il decadimento dell’istituto del Principato, per il quale l’imperatore
aveva la facoltà di eleggere un successore tra i suoi parenti o persone da lui stimate. Il
prescelto, primus inter pares, acquisiva il titolo di Princeps54 che avrebbe conservato insieme
a quello di imperatore. Si potrà osservare che alcuni prescelti furono di scarse capacità
e moralità, ma nell’insieme l’impero tenne proprio nei suoi Valori più cementanti. Tutto
questo venne meno quando fu affidato il Proconsolato a generali di sangue non romano né
italico. Questi, presa conoscenza del loro effettivo potere, constatando che possedevano la
regione loro affidata, oro per il prelievo fiscale e le legioni necessarie alla difesa (o per l’offesa), si domandarono perché non utilizzare tutto questo e quindi ambire al titolo di imperatore. Cosa che avvenne più volte, tra l’altro con spargimento di sangue, come accadde con
Galba, Settimio Severo, Costantino e molti altri. Processo, questo, facilitato dal fatto che le
legioni, ormai tanto decentrate da Roma, erano fedeli esclusivamente al loro generale che le
utilizzava infine per le sue ambizioni ed il suo potere.
La seconda causa fu provocata dagli imperatori che da Costantino e successori arrivarono al potere; questi, per elevare l’autorità della propria persona, adottarono la strategia
di sminuire quella del Senato e di tutta la classe aristocratica, che in verità tanto si era
54
Princeps: l’etimo della parola viene da primus capere.
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prodigata, mores maiorum, con carattere, capacità e sacrifici per la grandezza di Roma.
Sminuendo il Senato, si sopprimeva l’anima stessa della Caput Imperii.
La terza causa fu proprio Costantino che divise l’Impero con due capitali: Roma e
Costantinopoli e questo inevitabilmente creò interessi che sempre più si diversificarono,
provocando disunione tra i due Imperi, senza considerare che la parte più produttiva
apparteneva a Costantinopoli.
La quarta causa fu l’adozione del Cristianesimo come religione di stato (313 d.C.), e
questo divise ulteriormente la coesione all’interno dell’Impero; sfaldamento che in molti
casi si trasformò in lotta aperta tra le diverse religioni. Non bisogna credere all’alone di
misticismo che pervase, dopo l’Editto di Milano, la fase aurorale del Cristianesimo; fu uno
scontro determinato ed arrogante, particolarmente da parte dei cristiani, come sempre
intolleranti. Di questa situazione ne risentì l’esercito, che vide sostituire i suoi ufficiali,
vecchi legionari esperti ma pagani, con altri inesperti e cristiani ed in quanto tali probabilmente poco versati alle leggi della guerra. Tutto questo proprio nel momento in cui da nord
e da est i barbari premevano ai confini manu militari.
Quinta causa furono i barbari, che di fatto trovarono l’Impero ridotto ad una semplice
entità giuridica. Alarico, Ataulfo, Genserico, Eurico, Odoacre sono solo dei capi barbari
che il console Caio Mario avrebbe sbaragliato al primo attacco: eppure dal 410 d.C. (primo
sacco di Roma) furono gli attori del dramma “La caduta dell’Impero di Roma”.
Un’altra concausa fu che il tardo Impero e l’imperatore con la sua classe dirigente non
seppero o non vollero gestire l’assimilazione dei barbari che già avevano varcato i confini;
da Alarico ad Odoacre tutti riconoscevano nell’Impero la fonte della Civiltà, ma certo non
erano personaggi da sopportare arroganze; di conseguenza il loro intervento militare fu
cruento e destabilizzante sino a giungere all’atto finale: la deposizione dell’ultimo imperatore di Roma, Romolo Augusto.
Probabilmente altri ulteriori motivi ne determinarono la caduta, ma è certo che, iniziato
il processo, le cause si moltiplicarono, ogni città si racchiuse in se stessa, il mercato e l’economia crollarono, le strade si dissestarono, lo stesso servizio postale, vanto dell’efficienza
di Roma, venne meno. La conseguenza peggiore fu che la Cultura, intesa in senso lato, non
essendo più alimentata né dall’interesse né dal benessere, lentamente decadde, così come
le professioni, che non potendo “alimentarsi e rigenerarsi”, frequentando Disciplinae ed
Accademie, si rifugiarono nell’empirismo, senza più alcuna base teorica e senza intenti di
ricerca. Se questo accadde nelle città a prevalenza latina, figuriamoci nelle campagne e nei
piccoli centri dove era prevalente l’elemento barbaro. Le biblioteche, le Arti, le Scienze e
per esse la Medicina e la Farmacia persero il loro ruolo primario, in qualche caso scomparvero, ritornando a pratiche magico-demoiatriche. Questo decadimento si manifestò
particolarmente nell’Europa nord-occidentale, mentre in quella orientale con capitale
Costantinopoli ed in Italia, in Puglia, Sicilia, nel Ravennate, ad Amalfi ed in genere le coste
italiane, che giuridicamente dipendevano ancora dall’Impero d’Oriente, la Cultura, pur
faticosamente, si conservò o quanto meno venne rispettata.
Come più volte evidenziato, la Cultura viene sempre sostenuta o dalla volontà dello
Stato o da un diffuso benessere; non è facile pensare ad uno studente Latino del VII sec.
d.C. andare ad Alessandria d’Egitto per frequentare un corso di specializzazione medica.
Ma i testi, gli scritti dei grandi pensatori, in gran parte si salvarono proprio grazie all’Impero d’Oriente e saranno studiati attentamente dagli Arabi e riconsegnati ad una Europa
che non aveva più memoria di se stessa.
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