Capitolo 1
1.
FISIOLOGIA DELLA VISIONE
1. PREMESSA
Ogni individuo percepisce e conosce la complessità del mondo circostante utilizzando i propri
organi di senso, i quali sono dotati di ricettori, opportunamente collocati in organi periferici, capaci
di reagire (captare) in maniera selettiva agli stimoli. Gli stimoli procurano l’attivazione degli organi
ricettori che trasmettono al cervello segnali codificati. Il processo termina, mediante l’elaborazione
psichica del messaggio, con la produzione della sensazione.
Sicuramente l’organo sensoriale visivo è il più importante tra tutti i sensi disponibili. Si
stima che esso da solo copra la metà degli stimoli elaborati dal cervello e che almeno l’80%
dell’apprendimento sia ad esso tributario.
L’organo ricettore periferico della vista è contenuto entro il globo oculare e prende il nome
di retina. In essa sono presenti delle strutture altamente specializzate dette fotoricettori che si
differenziano per la loro specializzazione e per la loro forma in due categorie:
 I coni
 I bastoncelli
I coni, presenti totalmente sulla retina centrale sono deputati alla visione diurna, mentre i bastoncelli
hanno sede nella retina paracentrale e periferica e sono specializzati per visione notturna.
Entrambi i tipi di fotoricettori contengono un pigmento fotosensibile detto porpora visiva.
La porpora visiva è una proteina coniugata detta rodopsina, che nei coni assume alcune varianti
atte a conferire a questi ricettori la loro particolare specializzazione nella percezione cromatica.
Tali varianti sono:
 la cianopsina,
 la cloropsina
 l’eritropsina.
Il ciclo della rodopsina
La rodopsina è costituita dalla proteina opsina a cui si aggiunge la porzione non proteica del
retinale. Il retinale deriva dall’ossidazione della vitamina A contenuta nell’epitelio pigmentato della
retina che, provenendo dall’assunzione alimentare del β-carotene, conferisce alla rodopsina il
classico colore rosso.
La luce ha la capacità di scindere il legame tra i due componenti della rodopsina. Il retinale
modifica la sua struttura isomerica, si stacca dall’opsina, producendo l’effetto di sbiancamento. A
questo punto anche l’opsina cambia la sua struttura, producendo una variazone di potenziale
elettrico nella membrana dei fotoricettori che innesca l’impulso nervoso destinato alla corteccia
visiva primaria. Naturalmente a tutta questa fase di distruzione corrisponde un’altrettanta fase di
costruzione. Altra vitamina A presente nell’epitelio pigmentato si ossida producendo retinale che
andrà a legarsi nuovamente all’opsina, ricostruendo così la porpora visiva.
I fenomeni di distruzione/costruzione della porpora visiva sono continui o meglio
sovrapposti. Nel senso che, mediante delle microscillazioni del bulbo (nistagmo fisiologico), la
percezione delle immagini viene continuamente spostata tra aree retiniche contigue. Quando
un’area retinica coinvolta nella visione viene sbiancata, un piccolo movimento del bulbo sposta lo
stimolo su di un’area contigua, permettendo alla precedente di rigenerarsi.
Fisiologia della visione
Una particolarità della retina consta nel non limitarsi al captare ed inviare al cervello i segnali
ricevuti, ma di effetuarne anche una pre-elaborazione. Ciò significa che già a livello retinico
avviene la scomposizione degli elementi fondamentali dello stimolo (lunghezza d’onda, intensità,
grandezza ecc.) al fine di organizzarli in un codice che il cervello è in grado di decifrare. A merito
di ciò la retina può non essere più considerata un semplice organo periferico (al pari degli altri
organi di senso) ma piuttosto un’appendice (un prolungamento) del cervello situata fuori del cranio.
Sebbene il processo visivo presenti ancora delle fasi non perfettamente conosciute, si ritiene che la
percezione visiva non si innesti al termine del fenomeno fotochimico della retina, ma esaminando i
tempi di latenza, in termini di tempo che passa fra l’inizio dello stimolo e la relativa reazione,
sicuramente esistono delle reazioni intermedie, alcune delle quali precedono la sensazione visiva
mentre altre la seguono. Una volta terminata questa pre-elaborazione dello stimolo, le cellule
ganglionari producono impulsi elettrici, tutti della stessa ampiezza, ma con intervalli di tempo
diversi tra gli uni e gli altri. Proprio in questa variazione della frequenza è contenuto il codice con
cui lo stimolo primario lascia la retina per avventurarsi, lungo la strada delle vie ottiche, fin nel più
profondo della corteccia cerebrale. Sarà compito dell’area cerebrale visiva primaria assegnare le
dovute priorità tra i singoli stimoli, in modo da separare ciò che deve essere amplificato (a cosa si
deve assegnare particolare attenzione) da quello che deve essere minimizzato, eliminato, o meglio
essere messo in lista di attesa.
2. IL PROCESSO VISIVO
Prendendo in considerazione gli svariati indici di risposta, lo studio del processo visivo deve
prendere in considerazione i seguenti aspetti a cui è attribuita una specifica gerarchia:
 Il senso luminoso
 La percezione del colore
 L’acutezza visiva
 Il campo visivo
Il senso luminoso
Alla base della sensazione visiva c’è un processo input/output. La porzione input è
identificata nel segnale d’ingresso, rappresentata da uno stimolo cosiddetto adeguato, cioè capace
in termini di intensità e di lunghezza d’onda di eccitare la retina.
Lo stimolo è costituito da energia elettromagnetica detta comunemente luce, che corrisponde
all’intervallo dello spettro elettromagnetico che contiene l’energia che vibra con lunghezze d’onda
(λ) compreso tra 380nm e 760nm.
Per quanto riguarda la quantità d’energia che produce il senso luminoso si parla di
luminanza della mira osservata. La luminanza della mira corrisponde allo stimolo (fase input).
Dopo l’eleborazione l’organo visivo risponde allo stimolo (output), generando una sensazione
psichica che riproduce le caratteristiche fisiche dello stimolo a cui assegna un certo valore di
luminosità detto brillanza.
Naturalmente all’aumentare della luminanza aumenta anche la risposta in termini di
brillanza. Oltre un certo valore di aumento della luminanza, l’aumento della brillanza diventa
sempre minore fino a raggiungere il punto di saturazione che corrisponde alla sensazione
dell’abbagliamento.
Quando la luminanza diminuisce anche la brillanza fa altrettanto, fino a raggiungere il
livello di soglia. Appena la luminanza dello stimolo scende sotto il valore di soglia esso non viene
più percepito (brillanza 0). In questi casi si parla di soglia assoluta e considerando la luminanza si
classificano gli stimoli come:
Capitolo 1



Stimolo liminale. Rappresenta il valore di brillanza tale da essere percepito tra il
50% e il 75% delle volte che viene presentato
Stimolo infraliminale quando la percezione avviene in percentuali più basse del 50%
Stimolo subliminale, per i valori di luminanza che non generano alcuno stimolo
Al concetto di soglia assoluta si affianca quello di soglia differenziale. Essa è definita come
il minimo incremento di valore della brillanza dello stimolo che possa essere riconosciuto almeno la
metà delle volte che viene presentato. In altre parole se su una piccola area di uno schermo
luminoso di una certa luminanza viene aumentato il suo valore, si chiamerà soglia differenziale il
primo valore di aumento capace di essere percepito.
Naturalmente il valore di soglia differenziale è un elemento molto soggettivo che dipende
dalla sensibilità dell’organo visivo in esame. Il grado di sensibilità di ciascun organo viene
chiamato: sensibilità al contrasto che è definita dalla seguente relazione:
L
c
L
dove L è la luminanza dello sfondo e ΔL la soglia differenziale e C il contrasto liminale.
È evidente che la sensibilità sta in rapporto inverso al valore di soglia: più la soglia è bassa
tanto più alto sarà il valore della sensibilità e viceversa. Nel medesimo organo visivo la sensibilità
non è un dato costante, invariabile, ma dipende soprattutto dallo stato di adattamento della retina
alla luminanza dello sfondo ove viene creato lo stimolo differenziale. Ma non solo, dipende anche
dalla luminanza dell’ambiente (campo preadattante) con cui l’organo visivo interagiva prima di
essere stimolato all’osservazione dello sfondo (campo adattante) ed ancora dalla quantità di tempo
che l’organo visivo è rimasto esposto alla luminosità del campo preadattante (ambiente).
Questo concetto di variabilità della soglia in termini di adattamento all’ambiente conduce ad
esaminare cosa succede di essa nel corso dell’adattamento dal buio alla luce e viceversa.
Le curve di Lohman mostrano come la soglia aumenta in
funzione della durata dell’adattamento. Dimostrano in modo
incontrovertibile che passando dal buio alla luce si va perdendo
progressivamente la sensibilità al contrasto e quindi la relativa
soglia differenziale sale in modo esponenziale. Si noti inoltre
che nei primissimi minuti il valore di soglia schizza
letteralmente verso l’alto, per poi crescere più lentamente man
mano che passa il tempo. Da 3 a circa 10 minuti l’organo visivo
raggiunge il completo adattamento e il livello di soglia e
sensibilità al contrasto si stabilizzano.
Nel procedimento inverso, passaggio dalla luce al buio, il
completo riadattamento con il conseguente aumento della
sensibilità e diminuzione del valore di soglia avviene in tempi
molto più lunghi: circa 30 minuti.
Ciò è sicuramente dovuto al fatto che, a fronte di un rapidissimo
adattamento dei coni sia nel passaggio buio-luce che in quello
inverso, i bastoncelli (deputati alla visione notturna) hanno
tempi di adattamento decisamente più lunghi.
Disturbi del senso luminoso.
Esistono alcune condizioni sia di tipo essenziale che
patologiche capaci di alterare il senso luminoso. Le più
caratteristiche forme di questo tipo sono l’emeralopia, la
nictalopia e la fotofobia.
Fisiologia della visione
È la condizione in cui la visione risulta difficoltosa alle basse luminanze mentre si
mantiene a valori normali in luminanza alta o medio alta. L’origine del disturbo è legata a
un’alterazione nella produzione della porpora retinica ove la carenza di vitamina A è l’elemento
dominante.
EMERALOPIA.
È la condizione contraria in cui il soggetto vede meglio a basse luminanze. A volte è
secondaria a stati infiammatori del nervo ottico.
NICTALOPIA.
Si verifica quando normali valori di luminanza non possono essere sopportati. Il
fenomeno si manifesta come un continuo abbagliamento accompagnato spesso da dolori e violento
blefarospasmo. Il fenomeno è spesso di origine patologica, secondario a tutti gli stati di
infiammazioni gravi della cornea, dell’uvea, della retina e delle vie ottiche.
Una categoria a parte è rappresentata dalle forme legate alla carenza o mancanza del pigmento
sclero-uveale, caratteristica dei soggetti albini, ove l’assenza del naturale schermo protettivo crea un
eccessivo irraggiamento all’interno dell’occhio a cui consegue un elevata deprivazione del
pigmento retinico che non consente un corretto funzionamento dei fotoricettori.
FOTOFOBIA.
Variazioni della sensibilità visiva
Oltre all’adattamento esistono altri elementi capaci di influenzare la sensibilità visiva. Uno
di questi è la lunghezza d’onda dello stimolo.
L’organo ricettore visivo, infatti, in presenza di uno stimolo luminoso non si comporta in
modo neutro. Bensì viene eccitato maggiormente da alcune lunghezze d’onda piuttosto che da altre,
anche parzialmente in funzione della luminanza dell’ambiente. In senso assoluto i ricettori retinici
dimostrano una più elevata sensibilità alle lunghezze d’onda centrali dello spettro visivo, quelle
corrispondenti alla sensazione cromatica del giallo-verde, mentre le zone marginali dello spettro,
viola-rosso, a parità d’intensità dello stimolo, trovano il livello di soglia a valori più elevati.
Tali concetti trovano adeguata corrispondenza esaminando il
grafico accanto che va sotto il nome di effetto Purkinie. In
esso si nota che in visione fotopica il massimo della
sensibilità si ottiene per una lunghezza d’onda di 555nm,
mentre in visione scotopica ci si sposta a 505nm. Passando
dalla parte della brillanza possiamo affermare che di giorno la
maggiore sensibilità si trova nell’area del giallo-verde e di
notte in quella del verde-blu. Se poi si esegue la stessa
esperienza in ambito mesopico (crepuscolo) le curve di
sensibilità presentano maggiori irregolarità con due o tre punti
di massima.
La sensibilità visiva varia anche in relazione
alla posizione dell’area retinica interessata
dallo stimolo rispetto alla fovea. Si parla in
questo senso di sensibilità a diverse
eccentricità.
Con la retina adattata la buio, la sensibilità
(soglia
assoluta)
aumenta
fino
ad
un’eccentricità di 10°, tende a mantenersi
costante fino a 30°, di qui poi ricomincia a
calare per raggiungere i minimi nell’estrema
periferia. Mentre in visione fotopica
Capitolo 1
il picco di maggiore sensibilità (soglia relativa) si ha sulla fovea. Si può quindi affermare che
progressivamente diminuendo il valore della luminanza, la fissazione si sposta dalla fovea alla
parafovea, in modo che il sistema visivo possa lavorare sempre con il massimo della sensibilità
possibile.
Le post-immagini
Quando si viene colpiti da uno stimolo luminoso di molto più alta intensità rispetto alla
luminanza dell’ambiente in cui si è adattati, ad esempio quando si fissi per un attimo il sole o
un’altra fonte luminosa molto intensa, anche dopo aver distolto lo sguardo permane proiettata sul
campo visivo un immagine postuma di ciò che si è osservato. Tale permanenza, che si può
osservare anche ad occhi chiusi, viene denominata post-immagine. In pratica il fenomeno della
brillanza permane attivo per un certo tempo anche dopo che lo stimolo è cessato.
Se si usano stimoli monocromatici si nota che il tempo di permanenza della post-immagine è
maggiore per le λ centrali dello spettro: 25 secondi per λ intorno a 510nm, 3,3 secondi per λ 630nm.
Sicuramente, come è intuibile, maggiore è la luminanza dello stimolo altrettanto sarà l’effetto di
persistenza.
Osservata sin dall’antichità, diverse sono state le teorie che hanno tentato di spiegarla, oggi
non c’è più dubbio che la post-immagine è il risultato dei processi di ricupero della porpora visiva
che è stata distrutta da uno stimolo particolarmente intenso. In altri termini, i ricettori che sono stati
sbiancati da uno stimolo intenso trasmettono, nel buio, un segnale tanto più forte quanto maggiore è
stata la quantità di pigmento distrutto.
I fosfeni
Si è detto che per avere senso luminoso è necessaria la presenza di uno stimolo adeguato
rappresentato da energia raggiante. In effetti si possono produrre sensazioni luminose anche in
assenza di stimolo energetico, come in tutti i casi di compressione retinica. Un urto particolarmente
forte del capo, una brusca scossa, scollamenti della retina da eccesso di trazione ecc. producono la
sensazione visiva di lampi di luce che prendono il nome di fosfeni . La loro presenza reiterata, in
assenza di traumi, deve essere sottoposta a diagnosi medica perché quasi sempre l’origine è di tipo
patologico: ispessimenti della coroide, focolai infiammatori dell’uvea, glaucoma, sfilacciamento
retinico sono le cause più frequenti.
L’acuità visiva
Nello sviscerare tutti gli aspetti del senso luminoso si è sempre immaginato uno stimolo
privo di forma e particolari. Il processo visivo, al contrario, richiede continuamente di decrittare lo
stimolo proprio in funzione della sua forma e grandezza e dei singoli particolari che lo
compongono. Più il segnale d’ingresso contiene elementi validi di questo tipo migliore sarà
l’interpretazione del mondo esterno da parte della psiche. Se, osservando un oggetto, non se ne
percepiscono bene i singoli particolari la soluzione più spontanea è quella di avvicinarsi all’oggetto.
Tutto ciò per migliorare l’acuità visiva.
I particolari della mira hanno una definita dimensione e sono posti ad una data distanza tra
loro. Quando un occhio fissa la mira da una certa distanza il suo punto nodale è sotteso ad un
angolo definito dalla dimensione della mira (l’insieme lineare dei suoi particolari) e dalla distanza
di osservazione. Questo angolo viene chiamato angolo visuale. La relazione che lega gli elementi in
gioco è:
Fisiologia della visione
tg. 
d
h
dove:
α è l’angolo visuale
h è la dimensione della mira
d è la distanza di osservazione
L’acuità visiva soggettiva può quindi essere misurata trovando il più piccolo valore angolare sotto
il quale la mira viene completamente percepita. Helmotz ha stabilito che, pur con diversi limiti, per
un occhio di caratteristiche standard il limite angolare di discriminazione di una mira oscilla tra i
50’’ e i 90’’, ove sono assunti i 60’’ come valore medio. Su questo assunto sono costruiti tutti gli
ottotipi normalmente in uso.
Gli ottotipi
Per costruire un ottotipo si deve definire a che distanza (d) verrà posto il soggetto da
esaminare (5mt, 3mt, ecc.), quindi, ponendo nella formula il valore angolare della massima acuità
(1’) si ricava la grandezza da assegnare alla mira. Quindi il limite angolare viene aumentato
secondo una progressione stabilita al fine di ottenere mire sempre più grandi da associare a valori di
acuità sempre più bassi.
Naturalmente stabilire il modo come calcolare la progressione deve soddisfare sia la
necessità di assegnare coerenti valori di acuità ed anche essere pratica da gestire nella quotidianità
lavorativa.
Nel nostro paese si è affermata la progressione decimale ad andamento aritmetico ideata da
Monoyer, in essa il limite massimo è rappresentato dall’angolo di 1’ (60’’) che corrisponde
all’acuità dei 10/10, mentre il limite minimo presenta un angolo di 10’ e definisce l’acuità di 1/10.
In Germania lo standard delle norme DIN
prevede una progressione di tipo geometrico
sempre su base decimale.
Nei paesi di lingua anglosassone viene utilizzato
un criterio che prescinde da una vera e propria
progressione: la frazione di Snellen che porta al numeratore la distanza di osservazione e al
denominatore la distanza alla quale la lettera dovrebbe essere osservata.
Ad esempio la dizione 20/20 significa che il soggetto è posto a 20 piedi dall’ottotipo e sta
guardando una mira dimensionata per la stessa distanza. Pertanto è assimilabile all’acuità 10/10
secondo il sistema Monoyer.
Nel caso invece di 20/40 significa che il soggetto posto a 20 piedi (6 metri) sta osservando una
lettera costruita per essere vista a 40 piedi, quindi il valore di acuità visiva è minore del precedente
(5/10).
Capitolo 1
Scala Snellen
per 20 piedi
Scala Snellen
Imperiale
Scala decimale
Monoyer
Angolo
visuale
20/12
20/16
20/18
20/20
20/22
20/25
20/28
20/32
2040
20/50
20/66
20/100
20/200
6/6,38
6/5
6/5,5
6/6
6/6,67
6/7,5
6/8,6
6/10
6/12
6/15
6/20
6/30
6/60
16/10
12/10
11/10
10/10
9/10
8/10
7/10
6/10
5/10
4/10
3/10
2/10
1/10
1’
1,11’
1,25’
1,43’
1,66’
2’
2,5’
3,3’
5’
10’
Le mire
La scelta della mira rappresenta uno dei fattori maggiormente condizionanti la risposta in
termini di acuità.
Le lettere dell’alfabeto e i numeri sono tra le mire più diffuse anche se la loro affidabilità,
in termini di ripetibilità, è abbastanza carente. Esistono infatti molte forme di grafia che differiscono
tra di loro quanto basta per aumentare o diminuire la difficoltà di riconoscimeto senza tener conto
che il soggetto esaminato può essere in grado di leggere un lettera anche quando non la discrimina,
ma solo perché la deduce per esclusione. Infine i simboli alfabetici non possono essere riconosciuti
dai bambini non scolarizzati per i quali vengono create delle mire simboliche rappresentanti oggetti
molto comuni della vita quotidiana.
La mira che risolve agevolmente tutte le improprietà dei simboli alfabetici
sono gli anelli di Landolt e per queste sono il riferimento delle norme di
standardizzazione DIN e ISO. Gli anelli vengono proposti in varia
posizioni ove il soggetto è chiamato a riconoscere la posizione
dell’apertura. Risultano poco adatte per i bambini.
Una mira che supera meglio le difficoltà di comprensione sono le E di Abini. Vengono presentate
nei quattro orientamenti che permettono di identificare
anche la presenza di astigmatismi. Per quanto detto sono
utilizzabili dai bambini a cui viene dato in mano un
campione della mira che deve essere orientato come
quella proiettata.
La costruzione della mira
Snellen prevede che costruzione della mira sia ottenuta inserendola entro un reticolo 5 volte
più grande dell’ampiezza angolare da discriminare
In questo modo la discriminazione visiva richiesta riguarda la quinta parte della dimensione totale
della mira e risponde al concetto che la buona acuità visiva consiste nell’ identificare una mira
mediante la comprensione dei particolari che la formano, ove aree nere e spazi bianche devono
essere percepiti separati.
Conoscendo l’angolo di risoluzione e la distanza a cui verrà effettuato l’esame, diventa
semplice calcolare la grandezza totale della mira:
Fisiologia della visione
htratto  tg.  d
hlettera  htratto  5
ampiezza del singolo tratto
grandezza della lettera
Esempio: si calcoli la dimensione della letterina dei 4/10 di un ottotipo da 5 m.
htratto  tg .  d  5  htratto  tg .2,5'5  0,00075  5  0,00375m
Il tratto è alto 3,75mm
La lettera sarà alta 3,75mm x 5 = 1,8 cm
Fattori che influenzano l’acuità visiva
Esiste un notevole numero di fattori sia fisici che fisiologici capaci di influenzare la risposta
visiva. Di seguito sono citati solo quelli più facilmente identificabili da chi si occupa di refrazione.
 La luminanza dell’ambiente. Maggiore è la luminanza migliore è l’acuità visiva (fino al
limite di 1000 nit oltre il quale non ci sono più variazioni). Se la luminanza è troppo bassa
l’acuità diminuisce perché aumenta l’eccentricità retinica utilizzata
 Tempo di esposizione. L’acuità aumenta maggiore è il tempo utilizzato per la
discriminazine
 Errore rifrattivo. Naturalmente la presenza di un’ametropia non corretta deprime la
risposta visiva. Risulta peraltro difficile attribuire un rapporto costante tra i due valori,
specialmente quando si utilizzano mire morfologiche la cui riconoscibilità è in parte dettata
dall’esperienza culturale del soggetto. Volendo comunque adottare un parametro di praticità
si può, con la dovuta cautela di giudizio, ricavare l’angolo di risoluzione moltiplicando per
2,8 il valore del difetto visivo. Ad esempio per un valore d’ametropia di 1,75
1,75x2,8=4,9’ pari a circa 2/10
 Eccentricità retinica. Man mano che vengono coinvolte nella visione porzioni di retina
periferica l’acuità diminuisce a causa della differente organizzazione dei campi retinici.


L’età. L’avanzamento dell’età biologica produce un aumento della diffondanza endoculare
legata a fattori di riduzione di trasparenza dei diottri (specie del cristallino). Si genera quindi
una riduzione della sensibilità al contrasto che nei soggetti anziani riduce la performance
visiva specie notturna.
Affollamento. Specie nei soggetti affetti da carenza visiva centrale, la presenza di molte
mire allineate dello stesso valore risolutivo può generare risposte meno brillanti. È
opportuno infatti, in questi casi, presentare righe che contengano poche mire o meglio anche
una sola.
Il campo visivo
L’esame del campo visivo, nella sua regolarità e integrità di estensione costituisce una
diagnosi importante del buon funzionamento non sole delle strutture endoculari ma anche di tutte le
vie ottiche.
Capitolo 1
I limiti usuali del campo visivo monoculare sono i seguenti
Nasale
60°
Tempiale
95°/100°
Alto
60°/65°
Basso
75°/80°
La conformazione facciale può influenzare questi dati. Nasi prominenti, accentuata profondità
orbitarla deprimo i dati usuali, mentre casi di esoftalmo li aumentano.
Importanza nella corretta definizione dei limiti del C.V. lo hanno anche le caratteristiche della mira
utilizzata, in relazione alla distanza a cui viene proposta. Per mire fino a 5mm di ampiezza sono
consigliate distanze di esame di circa 3 metri, mentre per mire più grandi fino a 10 mm la distanza
migliore si avvicina al metro
I campi visivi di entrambi gli occhi si
sovrappongono, dando origine ad una maggiore
porzione comune centrale e a due minori
porzioni laterali che rimangono di competenza
monoculare. L’estensione della porzione
binoculare è di circa 120° mentre le due falci
laterali monoculare oscillano tra i 25 e i 30
gradi.
Assenze di riposta di percezione della mira ne
l’esame del campo visivo evidenziano aree retiniche cieche che vanno sotto il nome di scotomi.
Esiste all’interno del C.V. monoculare un’area fisiologicamente cieca che corrisponde al forame
papillare, ove la retina s’interrompe per lasciar spazio alla testa del nervo ottico. Questo scotoma
fisiologico, chiamato anche macchia cieca di Mariotte, appare di forma ovale con l’asse minore
orizzontale di circa 5° e il maggiore verticale di circa 7,5°spostato tempialmente, rispetto al polo
posteriore di 15,5° e sotto l’equatore di circa 1,5°.
La percezione del colore
Vedere a colori rappresenta il salto di qualità di eccellenza del senso visivo, significa non
solo essere capaci di percepire uno stimolo ma di apprezzarne anche la qualità. Infatti alla soglia
assoluta la visione è acromatica e quindi di basso profilo qualitativo. Solo aumentando l’intensità
dello stimolo di una certa quantità s’inizia ad interpretare lo stimolo come colorato. L’intervallo
esistente tra soglia assoluta e soglia cromatica prende il nome di intervallo fotocromatico.
Anche nella visione cromatica esiste il concetto di soglia differenziale. Essa consiste nella
minima varianza necessaria da imprimere alla lunghezza d’onda dello stimolo affinché si generi
una diversa sensazione cromatica rispetto alla precedente. È stimato che tale incremento minimo si
aggiri tra i 2 e i 5 nm. A questo proposito si nota che al variare della luminanza dello stimolo,
alcune lunghezze lunghezze d’onda mantengono inalterato il loro aspetto, esse sono i 478nm (blu),
i 503nm (verde) e 572nm (giallo).
La capacità di percezione cromatica è concentrata nell’ambito della retina centrale e
paracentrale, mentre decade velocemente oltre i 30° di eccentricità. Ciò da corpo alla teoria che
riconosce il cromatismo come una caratteristica peculiare dei coni retinici, mentre i bastoncelli
sembrano esclusi dalla visione a colori.
Il tentativo di dare un fondamento scientifico alla percezione cromatica è da attribuire a
Thomas Young che per primo ha contestato l’idea che esistesse nella retina la capacità di percepire
Fisiologia della visione
tutte le differenze cromatiche dello spettro. Dando corpo a ciò che Maxwell già aveva affermato (i
colori non hanno una natura fisica, sono creati dall’uomo), egli notò l’esistenza di tre tipi di coni
ognuno contenete un proprio pigmento:
 Pigmento cianolabile (blu) capace di rilevare le λ brevi
 Pigmento clorolabile (verde) capace di rilevare le λ medie
 Pigmento eritrolabile (rosso) capace di rilevare le λ lunghe
Da questi tre colori detti primari, e propriamente dalla loro somma effettuata dal cervello, discende
tutta la variegata percezione cromatica.
Helmholtz concorda in parte con Young ma ritiene che ogni cono contenga tutti tre i pigmenti ed
invii al cervello un segnale già modulato.
Secondo Hering, invece esiste una specializzazione bicromatica. Il sistema funziona per coppie di
colori complementari:
 Rosso-verde
 Blu-giallo
 Bianco-nero
I coni trasmetto lo stimolo luminoso così come viene ricevuto, mentre l’elaborazione cromatica è a
carico della corteccia visiva.