LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE: CARATTERI GENERALI ED EVOLUZIONE 1. Lo studio del diritto internazionale 1.1. Il diritto come scienza descrittiva Diritto internazionale = branca della scienza giuridica, insieme delle norme giuridiche applicabili ai rapporti tra le entità politiche che compongono la comunità internazionale. Il diritto internazionale contemporaneo ha raggiunto un grado elevato di complessità, estendendo il suo oggetto alle materie più varie (mare, spazio, navigazione aerea, commercio internazionale, telecomunicazioni internazionali, diritti umani, conflitti armati... ).Bisogna tenere conto della "prassi internazionale". Un elemento che si ricava dalla prassi internazionale riguarda l'uso che del diritto internazionale gli Stati fanno per valutare le azioni proprie e di altri soggetti. Gli istituti giuridici consolidati del diritto internazionale, intesi come complesso specifico di norme (di varia fonte) che regolano i medesimi fatti e rapporti sociali, sono usati dagli Stati in funzione dei loro interessi (es. il riconoscimento di Stati e di governi).Nel decidere come reagire di fronte a determinate situazioni, se utilizzare argomenti giuridici e, in caso affermativo, a quali norme fare riferimento, gli Stati sono determinati da valutazioni contingenti di opportuni tà, e, attraverso l'uso del diritto internazionale, possono influenzare l'andamento degli eventi in un senso a loro più favorevole. Meno frequenti sono le argomentazioni fondate su interessi comuni alla comunità internazionale nel suo complesso. 2. I caratteri della comunità internazionale 2.1. Il modello classico di comunità internazionale Il modello originario della comunità internazionale è quello di una società paritaria composta di entità politiche indipendenti, non subordinate ad alcuna autorità sovraordinata. La comunità internazionale è una società di coordinamento, perché i suoi membri si considerano eguali in diritto e non subordinati ad alcun potere superiore. Deroghe a questo principio sono stabilite solo nel contesto di sistemi di cooperazione creati dopo la seconda guerra mondiale, le organizzazioni internazionali. Così, nell'ONU il principio della sovrana eguaglianza degli Sta ti trova un'eccezione nel caso dei Membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che sono titolari del potere di veto. La comunità internazionale non è tuttavia una comunità primitiva,È un sistema policentrico, in cui i soggetti che creano le norme coincidono con i destinatari delle stesse. Membri primari della comunità internazionale, che ne fanno parte per il solo fatto di esistere, sono gli Stati, ai quali si aggiungono altre entità assimilabili agli Stati, come i partiti insurre zionali, la Santa Sede, e le organizzazioni internazionali. L'essere u mano è invece finora escluso dal novero degli enti di base della comunità internazionale. 3. Il problema storico del diritto internazionale 3.1. La pace di Westphalia del 1648 6 - 24 agosto 1648: pace di Westphalia, chiusura della guer ra dei Trent'Anni (1618-1648). Il conflitto, originato da motivi religiosi tra nazioni cattoliche e protestanti per l'egemonia politica in Europa, condusse a un nuovo equilibrio tra le potenze, segnando la nascita di una comunità internazionale diversa rispetto al passato. La pace consacrò la fine del sistema feudale, di tipo gerarchico e accentrato. Nel precedente sistema feudale a struttura piramidale, tutti gli elementi costitutivi erano orientati verso l'unità, incarnata nella doppia entità del Papa e dell'Imperatore, autorità tra loro in conflitto perma nente, considerandosi entrambe fonte dell'autorità suprema. Altra tesi circa l'origine della comunità internazionale è quella che la fa risalire all'alto Medioevo, tra il IX e l'XI secolo d.C., quando si sarebbe formata nell'Europa occidentale una comunità giuridica di popoli cristiani, la Res pu blica christiana, circoscritta ai soli Stati cristiani del mondo romano- germanico, con esclusione del mondo bizantino e di quello islamico. Questa ricostruzione riposa sulla convinzione che il diritto possa nascere solo in un ambiente formato da soggetti che condividono le stesse credenze religiose e morali. 3.2. La comunità internazionale pluralista (IX sec. d.C.) Roberto Ago (internazionalista) : l'origine della comunità internazionale pluralista risalirebbe ad epoca romano-barbarica (IX secolo), quando iniziarono a convivere e a intessere reciproci rapporti internazionali tre distinte potenze: l'Impero franco-lombardo di Carlo Magno, l'Impero bizantino e l'Impero islamico 5. Si trattava di una comunità estesa alla quasi totalità dell'Europa occidentale, a buona par te dell'Europa centrale e sud-orientale, dell'Asia sud-occidentale e dell'intera Africa settentrionale. L'odierno diritto internazionale è il prodotto della trasfor mazione dell'assetto politico dell'Europa nel passaggio dal Medioevo all'età moderna. Il cristianesimo aveva proclamato l'unità del genere umano. Questa visione universalistica fu incrinata dalla riforma luterana che, rinnegando l'autorità spirituale del Papa, fece crollare uno dei pilastri della struttura sociale del Medioevo. La negazione dell'autorità spirituale del Papa comportava anche quella dell'autorità secolare del suo omologo, l'Imperatore. La riforma protestante, dopo la pubblicazione delle 95 tesi di Martin Lutero nel 1517, rafforzò la concezione nazionale della sovranità, nel momento in cui riconobbe a ciascun principe nell'ambito dell'Impero il diritto di determinare liberamente la religione del suo Stato (cuius regio eius religio). La formazione degli Stati nazionali proseguì nei secoli dell'assolutismo, XVII e XVIII, che accentuarono il carattere anorganico della comunità internazionale, contrassegnata da guerre persistenti e, come correttivo, dal principio dell'equilibrio politico. Con il consolidarsi delle monarchie assolute, si affermò anche la concezione patrimoniale dello Stato, oggetto di un diritto del monarca. Da ciò, la larga applicazione degli istituti del diritto romano al diritto internazionale, soprattutto nella materia dei modi di acquisto e perdita della sovranità territoriale. Si consolidarono anche, nei rapporti tra gli Stati sovrani, le regole del diritto diplomatico, del diritto di guerra, specie marittima, e della neutralità. 4. Il carattere eurocentrico della comunità internazionale 4.1. L'eurocentrismo del diritto internazionale La tesi che fa coincidere la nascita della comunità internazionale con la pace di Westphalia assegna all'Europa un ruolo centrale e si qualifica quindi come tesi eurocentrica. La prospettiva definita di "universalismo egocentrico" non è solo europea, ma propria anche di altri sistemi regionali: il mondo islamico, con la sua dottrina del siyar (dal VII all'VIII secolo d.C.) e, più in generale, quale espressione della sharia che si rivolge al singolo individuo, indirizzandone la condotta, e la cui ideologia di base è la divisione del mondo tra credenti e non credenti. La scienza internazionalistica dei vari continenti afferma però che il diritto internazionale odierno è il prodotto di una pluralità di culture, di una sintesi di tutte o quasi tutte le civiltà del mondo e non può quindi essere concepito solo sulla base del contributo che alla sua evoluzione ha dato l'Europa o un altro bacino di civiltà. 4.2. Il significato della pace di Westphalia La pace di Westphalia ha segnato il passaggio dal pluralismo delle comunità internazionali precedenti, fra loro distinte e corrispondenti a una molteplicità di bacini di civiltà, a un'unica comunità internazionale tendenzialmente uni versale. E' un fatto storico incontrovertibile che, dalla pace di Westphalia, la comunità internazionale euro- mediterranea e il diritto da essa espresso si sono progressivamente estesi agli altri continenti. Questa complessa fase di espansione non si è realizzata secondo formule sempre rispettose dei popoli e delle civiltà con cui l'Europa e l'Occidente sono venuti in contatto, bensì con gli strumenti del colonialismo e dell'assoggettamento dei popoli. Solo dopo la seconda guerra mondiale la situazione è profondamente mutata, grazie all'azione delle Nazioni Unite e l'affermazione dell'autodeterminazione dei popoli, e si sono create nuove condizioni suscettibili di garantire un reale apporto delle diverse culture al diritto internazionale. 5. Il diritto internazionale dell'antichità 5.1. Il pluralismo delle comunità internazionali Prima di Westphalia il diritto internazionale si è consolidato come sintesi delle esperienze precedenti e dell'apporto di varie civiltà. Nel mondo antico, oltre alle regioni che gravitano intorno al bacino del Mediterraneo, si riconoscono altri due foco lai organizzati di relazioni internazionali: l'Asia centromeridionale e l'Estremo Oriente. All'origine più antica di tali fenomeni non può non esservi stata quindi che una pluralità di comunità internazionali tra loro distinte. 5.2. La nascita dello Stato: l'archeologia e il diritto L'archeologo francese Jean Daniel Forest ha formulato l'ipotesi che "l'invenzione dello Stato" sia avvenuta in Mesopotamia, tra il VII e il III millennio a.C. Secondo la sua ricostruzione, le comunità agricole insediate nel VII millennio sul territorio intorno agli affluenti settentrionali dell'Eufrate, Khabur e Balikh, sarebbero progressivamente evolute in comunità integrate, che con il tempo avrebbero costituito principati indipendenti. Da questi sarebbe poi derivata, con lo stabilizzarsi di una forma più evoluta di organizzazione, la città-Stato, il cui primo esempio è la città di Uruk, centro della Mesopotamia meridionale del IV millennio. Nell'archivio di Ebla, città-Stato della Siria settentrionale del III millennio a.C., è stata trovata una tavoletta recante il testo di un trattato, che indicava l'estensione dei confini dello Stato dall'Eufrate al Mar Mediterraneo. 5.3. La comunità euromediterranea Furono le regioni della valle del Nilo, della Mesopotamia, dell'Anatolia e del corridoio siro-palestinese a divenire il centro di gravità principale di una collettività internazionale importante. Le entità che ne facevano parte utilizzarono strumenti giuridici che saranno poi tipici del diritto internazionale moderno. Rimonta al 1278 a.C. il celebre trattato fra Ittiti ed Egiziani, pervenutoci in forma scritta nel testo integrale, concluso alla fine di una guerra che assicurò all'Asia anteriore 50 anni di pace. Esso contiene clausole di pace, di non aggressione, di alleanza difensiva e di estradizione non dissimili da quel le che figurano negli odierni trattati internazionali di alleanza. X - IX secolo a.C.: il centro di gravità della comunità euro-mediterranea si spostò gradualmente verso occidente con la colonizzazione della Magna Grecia. La civiltà ellenica tra il VI e il III secolo a.C. si caratterizzò per la coesistenza di una molteplicità di città-Stato, che stipulavano trattati di amicizia, stabilimento, pace, arbitrato e assistenza giudiziaria. Roma s'inserì in questa collettività dalla metà del secolo IV a.C., utilizzando in una prima fase, nei rapporti con le popolazioni italiane, strumenti di carattere internazionalistico (trattati, ambasciate, ostaggi etc.), estesi anche a regolare, con la fine del III secolo a.C., i rapporti con altre entità indipendenti nel bacino mediterraneo. Dalla fine del II secolo a.C., la politica romana si trasformò in politica di egemonia e di conquista, con conseguente assoggettamento delle esistenti entità indipendenti all'autorità romana, con l'eccezione di pochi casi, come l'Egitto e i Regni di Siria e del Ponto. Tra il I seco- lo a.C. e il II secolo d.C., l'Impero romano estese i suoi confini dalla Scozia all'Arabia. Lo ius gentium - espressione che sarà utilizzata in seguito dalla dottrina del diritto internazionale - era quella parte del diritto romano che disciplinava i rapporti tra cittadini romani e stra- nieri o tra stranieri inter se. 5.4. Il Sacro Romano Impero germanico Il 476 d.C. segnò l'inizio del Medioevo, con la deposizione dell'ultimo Imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo, da parte di Odoacre, re dei Visigoti. A modificare l'equilibrio nel baci no del Mediterraneo fu l'affermarsi dell'Islam, tra il VII e l'VIII secolo d.C., su una vastissima parte delle coste mediterranee. Si creò infatti un Impero arabo-persiano che, nel 711, arrivò fino alla Spagna, per poi spostare nell'VIII secolo d.C. il suo interesse dominante verso l'Asia. Con l'incoronazione di Carlo Magno a Imperatore nell'800 d.C. in San Pietro a Roma e la successiva pace dell'811 con Bisanzio, i due Imperi si riconobbero reciprocamente. A tale equilibrio di poteri il giurista italiano Roberto Ago fa ri- salire l'origine della comunità internazionale. Questa comunità euro-mediterranea subì profondi mutamenti nei secoli successivi. L'Impero islamico si sfaldò progressivamente, quello carolingio si trasformò in una federazione di Ducati. I Re sassoni, durante la seconda metà del X secolo d.C., unirono le corone di Germania e d'Italia e denominarono l'insieme dei loro Stati Sacro Romano Impero. L'unità gerarchica del mondo feudale medioevale lasciò in realtà alcune entità indipendenti al di fuori di essa, come Polonia, Ungheria, Russia. 6. L'espansione della comunità internazionale agli altri continenti 6.1. Il genocidio dei popoli indigeni Apporto delle altre civiltà al diritto internazionale: limitato. Un cambiamento è intervenuto solo dopo la seconda guerra mondiale, ma non ha riguardato l'assetto strutturale della comunità internazionale. I modi dell'espansione dell'Europa agli altri continenti avevano del resto avuto occasione di manifestarsi già prima di Westphalia, con la scoperta dell'America (1492), alla quale fece seguito la conquista spagnola dopo i primi viaggi di Cristoforo Colombo. 1493: i Re cattolici avevano sollecitato la sanzione pontificia dei loro diritti sulle terre scoperte e ancora da scoprire, anche al fine di dirimere la controversia con il Portogallo relativa alla sovranità sulle terre del nuovo mondo. Pertanto Alessandro VI, con la Bolla Inter Caetera, stabilì che il meridiano passante 100 leghe a ovest dell'isola di Capo Verde costituisse il confine tra le terre appartenenti alla Spagna, a occidente del meridiano, e quelle assegnate al Portogallo, a oriente. La sovranità territoriale era subordinata all'opera di evangelizzazione e conversione delle nuove genti. Le autorità locali e le esistenti formazioni politiche furono eliminate, mentre le popolazioni indigene sottoposte a trattamenti disumani, denunciati nel memoriale d'accusa di Fra' Bartolomeo de Las Casas, la Brevissima relazione della distruzione delle Indie del 1552. 6.2. Il debito storico del colonialismo Il dibattito sul trattamento delle popolazioni indigene all'epoca della scoperta e delle colonie è ancora attuale. Si discute la questione del debito storico dei paesi coloniali nei confronti delle popolazioni vittime della schiavitù e della tratta degli schiavi. Aprile 1993: Dichiarazione finale della prima (ed ultima) Conferenza panafricana sulle riparazioni di Abuja > faceva riferimento al "debito morale" e alla restituzione di beni e altri tesori tradizionali indebitamente sottratti, chiedendo risarcimenti in forma di trasferimenti di capitali, cancellazione del debito e maggiore rappresentatività all'Africa nel Consiglio di sicurezza dell'ONU. Nel 1999, l'African World Reparations and Repatriation Truth Commission, riunita ad Accra e composta di esperti di paesi africani e caribici, del Regno Unito e degli Stati Uniti concludeva che l'Occidente stimava a 777.000 trilioni di dollari il risarcimento dovuto ai popoli africani e della diaspora africana vittime della tratta degli schiavi e della schiavitù durante il periodo coloniale. Certo, le argomentazioni giuridiche relative a queste rivendicazioni sono difficili da elaborare. Anzitutto, è problematico applicare un sistema di norme contemporanee alla valutazione di fatti occorsi quando tali norme non esistevano. In effetti, la schiavitù e il commercio degli schiavi sono stati aboliti e proibiti solo all'inizio del XX secolo. 6.3. La schiavitù e la tratta degli schiavi come crimini internazionali Nel diritto internazionale contemporaneo, tratta degli schiavi e schiavitù sono considerate, insieme al genocidio, gravi crimini internazionali. 1815: Congresso di Vienna > Prima condanna internazionale. Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926: proibizione. Art.1: la schiavitù è "lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi". Rientrano nella nozione di "tratta degli schiavi" atti come la cattura, acquisto o cessione di un individuo al fine di ridurlo in schiavitù o venderlo, e, in generale, ogni atto che costituisca commercio o trasporto di schiavi. La Convenzione supplementare sull'abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù del 7 settembre 1956, definisce lo schiavo come: "l'individuo che ha tale stato o condizione" e stabilisce obblighi a carico degli Stati contraenti in tema di abolizione e repressione della schiavitù e della tratta degli schiavi, e di cooperazione per la prevenzione e la repressione del fenomeno. Essa individua inoltre una serie di pratiche di riduzione allo stato "servile" che sono assimilate alla schiavitù: la servitù per debito, il servaggio, ogni istituzione o pratica che comporti matrimonio o promessa di matrimonio deciso da terzi per conto della donna... 6.4. Le nuove forme di schiavitù Legate all'assenza di adeguate misure di prevenzione e contrasto soprattutto nei paesi occidentali. La tratta degli esseri umani è talmente diffusa, che le Nazioni Unite hanno ritenuto opportuno un nuovo strumento giuridico per rafforzare il quadro normativo esistente: il Protocollo di Palermo (15 novembre 200), diretto a prevenire, reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare le donne e i bambini, addizionale alla Convenzione sulla lotta al crimine organizzato transnazionale. Esso comprende il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l'alloggio o l'accoglienza di persone, con la minaccia dell'uso o con l'uso della forza o di altre forme di costrizione, rapimento, frode e così via. L'applicazione del Protocollo è limitata ai fenomeni di tratta nei quali sia implicata un'organizzazione criminale. Infine, va ricordato che, ai sensi dell'art. 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale del 1998, la riduzione in schiavitù è compresa tra i crimini contro l'umanità. 6.5. Le rivendicazioni dei paesi del Caricom 2004 – 2011: alcuni Stati caribici (Antigua e Barbuda, Giamaica e Guyana), avanzano rivendicazioni dirette a ottenere risarcimenti dai paesi europei coinvolti nel traffico di schiavi. Luglio 2013: paesi membri della Comunità del Caribe (Caricom organizzazione regionale con finalità economiche, il cui Trattato istitutivo è stato concluso a Chaguaramas il 4 luglio 1973 e poi modificato nel 2000, concordano la creazione di una commissione nazionale in ciascun paese e di una commissione regionale, composta dai presidenti dei singoli gruppi nazionali, per approfondire la questione di una richiesta di riparazioni alle antiche potenze coloniali, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Paesi Bassi, considerati responsabili per il genocidio delle popola zioni autoctone, la tratta degli schiavi e la riduzione in schiavitù delle popolazioni del Caribe tra il 1450 e il 1850. 7. Il contributo dei paesi americani al diritto internazionale 7.1. Il regionalismo americano 1783 – primi ‘800: nascita degli Stati Uniti d'America e dei Paesi dell'America centrale e latina.. Questi recisero in maggioranza i legami coloniali con l'Europa tra il 1811 e il 1821 ed entrarono a far parte della comunità internazionale accettando il modello westphaliano alla luce del panamericanismo. Cardine di questa evoluzione fu la dottrina Monroe, proclamata dal Presidente americano di fronte al Congresso il 2 dicembre 1823, poco dopo che in Europa, al Congresso di Vienna era stato affermato, con la Santa Alleanza, il principio dell'intervento, anche armato, delle potenze della Pentarchia a difesa del legittimismo monarchico contro ogni tentativo di sovvertire l'ordine costituito. Contenuto: gli Stati Uniti non avrebbero tollerato interventi degli Stati europei diretti a colonizzare il continente americano. Il regionalismo americano si concretò anche nella creazione, nella seconda metà del XIX secolo, della prima organizzazione internazionale a carattere regionale: l'Unione internazionale delle Repubbliche americane, istituita con la Conferenza di Washington del 1889-90 per favorire gli scambi commerciali nel Continente. L'Unione ha in seguito ampliato la propria competenza alla cooperazione in materia scientifica e culturale e alla soluzione pacifica delle controversie. Nel 1948 è stata creata l'Organizzazione degli Stati americani (OSA), che ha sostituito l'Unione panamericana. 7.2. Il diritto regionale americano In questo contesto si fece anche strada l'idea di un diritto internazionale regionale, caratterizzato da alcuni istituti sconosciuti al diritto internazionale di origine europea e applicabili solo nelle relazioni tra paesi latino-americani. Norme di diritto regionale americano: diritto di asilo diplomatico e principio uti possidetis iuris, il riconoscimento delle delimitazioni territoriali effettuate o tollerate dalla Corona spagnola all'epoca delle colonie come frontiere internazionali dei nuovi Stati, che ha acquisito in seguito natura di norma generale del diritto internazionale. Sentenza del 22 dicembre 1986 relativa alla Controversia di frontiera (Burkina Faso/Mali): la Corte internazionale di giustizia (CIG) riconosce che si tratta di un principio generale, logicamente legato al fenomeno dell'accessione all'indipendenza, ovunque si manifesti. Esso ha lo scopo di evitare che l'indipendenza di nuovi Stati costituisca occasione per l'insorgere di conflitti legati alla contestazione delle frontiere. Europa: alcuni casi di dissoluzione di Stati federali, quali l'URSS e la Cecoslovacchia, non hanno comportato la rimessa in questione delle precedenti frontiere interne. Ex Jugoslavia: situazione caratterizzata dall'insorgere di numerosi conflitti inter-etnici e dalla difficoltà, quindi, di far accettare ai nuovi Stati sorti dallo smembramento le precedenti delimitazioni amministrative della Repubblica federativa socialista di Jugoslavia. 8. L'evoluzione della comunità internazionale in Africa e Asia 8.1. Il diritto internazionale del periodo coloniale L'espansione della comunità internazionale all'Africa è stata caratterizzata, se si esclude l'area mediterranea, dalla suddivisione in sfere d'influenza e da un colonialismo breve nel tempo, ma intenso nella penetrazione e nello sfruttamento delle risorse umane e naturali. Atto finale di Berlino (26 febbraio 1885): firmato da 13 Stati europei, tra i quali Inghilterra, Francia, Portogallo, Belgio, Germania e Italia. Contenuto: suddivisione di tutta l'Africa nera in sfere d'influenza che le potenze interessate potevano occupare , con l'impegno degli Stati firmatari a garantire un'autorità effettiva sui territori occupati. Lo Stato indipendente del Congo: fondato come proprietà personale del re del Belgio Leopoldo II, che ne aveva finanziato l'occupazione da parte di una fondazione privata. 1889: Leopoldo legava per testamento allo Stato belga la proprietà del Congo e, nel 1908, il Parlamento adottava la legge che approvava il "trattato di cessione" tra il Belgio e lo Stato indipendente del Congo, con il quale il primo accettava di annettere il secondo in qualità di colonia del Congo belga. Ciò mascherò in realtà l'acquisto di terre ricche di risorse naturali da sfruttare senza limiti. Quanto al trattamento delle popolazioni indigene, v'è chi ha parlato di un olocausto. In Asia, a fenomeni di stampo coloniale (l'India divenne colonia in- glese nel 1782), si unirono fattori atipici come l'esistenza di compagini statali consolidate di millenaria tradizione, come Impero ottomano, Cina, Giappone, Persia, Siam e principati indiani. Anche tali entità furono peraltro considerate estranee al novero delle "nazioni civili" e costrette ad accettare regimi giuridici speciali, tra i quali il regime delle capitolazioni, i trattati ineguali e le concessioni territoriali. 8.2. Il regime delle capitolazioni e i trattati ineguali Il regime delle capitolazioni, disciplinato da trattati internazionali tra le singole potenze europee e occidentali e gli Stati asiatici, attribuiva agli stranieri residenti in quei paesi una condizione privilegiata rispetto alla generalità degli altri soggetti, comportante la soggezione alla sola giurisdizione dei propri consoli, le libertà di culto cristiano e di commercio. Il regime fu progressivamente abolito dopo la prima guerra mondiale. La Cina e i trattati ineguali: così denominati perché diretti a porre obblighi a una sola parte contraente, in contrasto con il carattere sinallagmatico dei trattati. Le concessioni territoriali: comportarono l'acquisto da parte delle potenze occidentali di basi navali e altre stazioni territoriali lungo le coste cinesi in regime d'inviolabilità. L’Africa mediterranea e i trattati di protettorato: pur facendo salva la loro formale indipendenza, venivano sottoposti a un penetrante controllo delle relazioni internazionali, e talvolta degli affari interni, da parte delle potenze protettrici. Quindi, durante il dominio coloniale Africa e Asia non hanno potuto avere un ruolo rilevante nell'evoluzione del diritto internazionale dell'epoca. Del resto, è il periodo in cui, come si è detto, l'eurocentrismo escludeva dalla famiglia delle nazioni tutte le "nazioni non civili", vale a dire "non europee". 9. Le dottrine del diritto internazionale 9.1. Il giusnaturalismo groziano Il carattere eurocentrico del diritto internazionale trova conferma anche con riferimento allo sviluppo delle relative dottrine. Nella prima metà del XVII secolo maturano le prime trattazioni sistematiche delle regole applicabili ai rapporti fra gli Stati, alle quali viene riconosciuta una base indipendente dai valori religiosi e morali cui si era fino ad allora fatto riferimento. Alberico Gentili, giurista e intellettuale umanista, autore del De iure belli libri tres (1598): al suo pensiero si deve il distacco del diritto internazionale dalle premesse teologiche cui era stato ancorato e la compenetrazione del diritto internazionale con il diritto di natura, tratto caratteristico delle scuole che vennero dopo. Ugo Grozio: giurista olandese che, con la sua opera De iure belli ac pacis libri tres (1625), ebbe grandissima fortuna sia tra i contemporanei che successivamente. L'uomo tende per natura alla socialità e ogni comunità umana esprime, per regolare la convivenza, un sistema di diritto composto di due elementi: il diritto naturale, prodotto dalla retta ragione, regola assoluta della condotta umana; il diritto volontario, posto sulla base della regola di diritto naturale stare pactis. Il diritto volontario è, nella società civile, lo ius civile; nella società internazionale, lo ius gentium, entrambi a base consensuale. Il valore obbligatorio dello ius gentium deriva per Grozio dalla sua conformità al diritto di natura. 9.2. Il positivismo giuridico e il diritto internazionale Il vero mutamento nella dottrina del diritto internazionale si avrà con l'abbandono del diritto naturale e la graduale afferma- zione del positivismo giuridico. Nel XIX secolo il concetto del diritto di natura cede il passo alla nuova concezione del positivismo giuridico. Positivismo: la scienza giuridica non può cercare il diritto nella mera razionalità, ma solo nel diritto posto dalla volontà di un'autorità. Se per Grozio il diritto della volontà trovava il suo fondamento nel diritto naturale, dove trovare, escluso il diritto naturale, il fondamento del diritto positivo? Per gli autori inglesi è il common consent, per i positivisti più rigorosi è la volontà dello Stato. Scuola inglese dell'analytical jurisprudence (metà XIX secolo), di cui è esponente Austin: il diritto internazionale non è diritto, perché non promana dalla volontà vincolante un'autorità gerarchicamente superiore. La dottrina giuridica tedesca della fine del XIX secolo deriva invece il suo statalismo dalla filosofia idealistica hegeliana: se lo Stato è al di sopra e al di fuori del diritto, non può esistere un diritto internazionale cui lo Stato sia subordinato. Per la teoria del diritto internazionale come parte del diritto statale, il diritto internazionale è diritto pubblico esterno, un prolungamento del diritto statale che si occupa dei rapporti con l'estero. Ciò porta alla negazione del diritto internazionale come sistema unitario e autonomo di giudizi giuridici. Poiché queste conclusioni appaiono eccessive, la dottrina positivistica indirizza le proprie indagini alla ricerca di qualche espediente che valga a spiegare la giuridicità dei trattati, in cui esaurisce il diritto internazionale. Secondo la teoria della volontà collettiva degli Stati (Triepel), le norme del diritto internazionale sono da riportare alla volontà comune risultante dalla fusione della volontà di più Stati. In Italia questa teoria, introdotta da Dionisio Anzilotti, giudice e presidente della Corte permanente di giustizia internazionale (CPGI), impera per molti anni, ma è poi ripudiata dallo stesso Anzilotti. Infatti, a ogni accordo corrisponderebbe una volontà comune, con il conseguente frazionamento del diritto internazionale in molteplici diritti internazionali. In realtà, il vero punto è costituito dall'erronea premessa di considerare solo la volontà dello Stato come ragione valida dell'ob- bligatorietà delle norme positive. 9.3. La dottrina pura del diritto e la teoria dommatica In reazione al positivismo vengono elaborate la dottrina pura del diritto di Hans Kelsen e della sua scuola, e, in Italia, la teoria dommatica delle fonti di Tomaso Perassi. Dottrina pura del diritto o positivismo: intende liberare la conoscenza del diritto da tutti gli elementi extra-giuridici, specie di ordine ideologico e afferma che il diritto è soltanto quello positivo, cioè posto in essere da determinati fatti di produzione giuridica. Perché una norma sia valida e obbligatoria occorre che chi ha emesso il comando sia stato autorizzato da una norma sulla produzione giuridica di rango più elevato. Procedimento di validità: la validità di ogni norma viene a essere fondata su una norma precedente (normativismo). Il procedimento all'indietro non può continuare all'infinito (dalla sentenza alla legge, dalla legge alla costituzione), in quanto si arriva ad un certo punto alla norma base, la quale è valida non perché sia stata creata in un determinato modo, ma perché si deve presupporre che sia valida: è il fondamento ipotetico della validità di tutto l'ordinamento giuridico. Norma base del diritto internazionale: pacta sunt servanda, norma indicante la consuetudine come primo e fondamentale fatto di produzione giuridica dell'ordinamento internazionale . La teoria dommatica delle fonti è anch'essa normativista ed assume come verità indimostrabile la norma base, che non è una creazione del pensiero giuridico, come per Kelsen. È invece un dato mutuato da altre scienze, come la sociologia giuridica e la storia, dalla quale si desume che l'accordo delle volontà degli Stati è il procedimento di creazione del diritto proprio del sistema delle relazioni internazionali: è la norma pacta sunt servanda, per cui tutto il diritto è diritto della volontà. 10. L'evoluzione del diritto internazionale tra le due guerre mondiali 10.1. La Società delle Nazioni 1919: i Trattati di Pace creano la Società delle Nazioni e l'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO). Obiettivo: moralizzare i rapporti internazionali che animavano gli Stati all'indomani del primo conflitto mondiale e garantire la continuità dello status quo territoriale raggiunto nei negoziati di Parigi. Il Patto della Società delle Nazioni, approvato il 28 aprile 1919, costituì la prima parte dei Trattati di pace conclusi dalla Conferenza di Parigi ed entrò in vigore il 10 gennaio 1920 con il primo di questi, il Trattato di pace di Versailles con la Germania. Fu uno sviluppo innovativo, ma non rivoluzionario delle esperienze di cooperazione già esistenti. Struttura della Società: l'Assemblea, composta da tutti gli Stati membri (in origine 42, divenuti 57 nel momento di massima espansione); il Consiglio e il Segretariato. In particolare, il Consiglio era composto dai rappresentanti delle potenze alleate (Francia, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) con status di Membri permanenti e dai rappresentanti di altri quattro Stati membri non permanenti, designati dall'Assemblea; era possibile, tuttavia, aumentare il numero dei Membri permanenti e non permanenti. Poiché gli Stati Uniti, a seguito del rifiuto del Senato di ratificare il Patto, non entrarono a far parte della Società, nel Consiglio sedettero solo quattro dei cinque Membri permanenti previsti. Quanto ai Membri non permanenti, il loro numero fu aumentato tre volte: nel 1922 fu portato a 6; nel 1926 a 9; nel 1936 a 11. Questo elemento costituì un fattore di debolezza della Società delle Nazioni, per il crescente disinteresse delle grandi potenze in un Consiglio composto in prevalenza di piccoli Stati.Il Patto prevedeva inoltre, all'art. 14, la creazione della Corte per- manente di giustizia internazionale. Secondo lo Statuto, la Corte era composta di 11, poi 15 membri eletti dall'Assemblea, garantendo che le persone scelte rappresentassero nell'insieme le grandi forme di civilizzazione e i principali sistemi giuridici del mondo. L'Europa continuò peraltro a essere il continente maggiormente rappresentato e l'Africa non ebbe alcun giudice. 10.2. Il nodo della messa al bando della guerra Il Patto della Società delle Nazioni non conteneva una messa al bando definitiva e totale della guerra. Gli Stati membri s’impegnavano a escludere il ricorso alla violenza bellica come unico mezzo per affermare le proprie rivendicazioni e, in caso di controversie che potessero condurre a violazioni del Patto, a non ricorrere alle armi prima di aver esperito mezzi di soluzione arbitrale o giudiziale, o di aver sottoposto la controversia al Consiglio. In caso di violazione di tali obblighi da parte di uno Stato membro, il Patto prevedeva sanzioni economiche, come l’interruzione delle relazioni eco- nomiche e commerciali, ed eventualmente sanzioni militari, per la cui esecuzione era attribuito al Consiglio un potere di raccomandazione. Era inoltre delineato per la prima volta il concetto di responsabilità individuale per violazioni del diritto internazionale, sia pure in termini vaghi. L’art. 227 del Trattato di Versailles con la Germania stabiliva che l’ex Kaiser Guglielmo II sarebbe stato giudicato da un tribunale speciale per “l’offesa suprema contro la morale internazionale e la santità dei trattati”. Il processo non fu mai celebrato, poiché i Paesi Bassi, neutrali durante il conflitto, non erano vincolati dai trattati di pace e rifiutarono di estradare l’ex Imperatore tedesco al quale ave- vano concesso asilo politico. 10.3. La nozione di aggressione Negli anni tra le due guerre mondiali si sviluppò, dall’art. 10 del Patto, la riflessione sulla problematica nozione di aggressione (infra). Ne discusse l’Assemblea della Società a proposito del progetto di trat tato di mutua assistenza, inteso a rafforzare le disposizioni statutarie sulla sicurezza collettiva, che confluì nel Protocollo di Ginevra del 2 ottobre 1924 sulla soluzione pacifica delle controversie internazionali. Se il Protocollo registrò uno scarso numero di ratifiche, il Trattato generale sulla rinuncia alla guerra come strumento di politica inter- nazionale (Patto Briand-Kellog del 27 agosto 1928) non entrò mai in vigore.I numerosi conflitti verificatisi tra le due guerre mondiali (1918-39) dimostrarono la debolezza del sistema instaurato dalla Società. 11. Il diritto internazionale contemporaneo 11.1. La Carta delle Nazioni Unite 1942 – 45: creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), la cui Carta istitutiva veniva adottata il 26 giugno 1945 dalla Conferenza di San Francisco. 8 agosto: firmato l’Accordo sul Tribunale internazionale di Norimberga per giudicare i nazisti responsabili della guerra e dei crimini commessi nel corso di essa (crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace). Lo Statuto delle Nazioni Unite entrava in vigore il 24 ottobre 1945, con il deposito del ventinovesimo strumento di ratifica; il 27 dicembre gli altri Stati che avevano partecipato alla Conferenza di San Francisco e firmato la Carta avevano depositato le loro ratifiche. L’ONU iniziava così a funzionare con 51 Membri originari. Uno dei primi atti dell’Assemblea generale fu l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, composta da trenta articoli, che enunciano fondamentali esigenze dell’intera umanità e costituiscono il primo tassello della disciplina internazionale dei diritti umani . La dottrina internazionalistica supera il dogmatismo del positivismo giuridico e riconosce che la qualificazione di giuridicità può essere attribuita a certe norme in virtù di caratteri obiettivamente propri alle stesse e al loro operare come norme di diritto. Roberto Ago elabora la teoria delle norme spontanee, secondo la quale la dottrina giuridica deve liberarsi definitivamente dai residui del positivismo e riconoscere la giuridicità delle norme frutto di germinazione spontanea. Questo diritto si forma come conseguenza di cause diverse che non hanno nulla a che vedere con un processo formale di produzione. Ago invita quindi a valersi dell’espressione diritto positivo come sinonimo di diritto vigente nella comunità internazionale.. 12. L’universalizzazione della comunità internazionale 12.1. La decolonizzazione degli anni Sessanta Nello Statuto dell’ONU, il principio di autodeterminazione dei popoli è stato posto a fondamento delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Anni Sessanta: in forma pacifica o attraverso guerre di liberazione nazionale, i popoli già soggetti a regime coloniale emergono alla piena indipendenza, provocando un incremento quantitativo dei membri della comunità internazionale . Vari fattori contribuiscono all’affermazione di nuovi valori fondamentali: l’autodeterminazione dei popoli, la proibizione della minaccia e dell’uso della forza, Gli Stati “nuovi”, sorti dalla decolonizzazione degli anni Sessanta, pur non proponendo modifiche alla struttura orizzontale della comunità internazionale, basata sulla sovranità degli Stati, avanzarono l’esigenza di un profondo ricambio dei contenuti del diritto internazionale. L’adeguamento del contenuto delle norme internazionali ai profondi mutamenti intervenuti nella comunità internazionale fu realizzato attraverso due strumenti giuridici: a) la codificazione e lo sviluppo progressivo del diritto internazionale non scritto, secondo l’art. 13 par. 1, della Carta delle Nazioni Unite; b) l’adozione di dichiarazioni di principi da parte dell’Assemblea generale, non vinco- lanti per se, ma veicoli per una successiva modifica consuetudinaria delle regole vigenti. 12.2. Multiculturalità e diritto internazionale Il diritto internazionale si è progressivamente aperto all’apporto di una pluralità di culture e civiltà. Per alcuni, il tentativo di far coesistere civiltà portatrici di valori diversi avrebbe determinato una crisi del diritto internazionale, la sua frammentazione e l’incertezza del suo contenuto.Causa: difficoltà delle culture dell’Asia e dell’Africa a comprendere il significato delle nozioni e dei concetti alla base del diritto internazionale di matrice occidentale; incapacità delle “altre” nazioni di trarre dalla loro storia un diverso diritto internazionale, di elaborare principi giuridici indipendenti suscettibili di sostituire i modelli del diritto internazionale esistente. Inoltre: disparità di sviluppo e i confitti fra gli interessi economici degli Stati. Qualche timido tentativo di dimostrare il carattere positivo della multiculturalità è però stato fatto. Il giudice Weeramantry nell’opinione individuale alla sentenza resa nel 1997 dalla Corte internazionale di giustizia nell’affare Gabçicovo-Nagymaros, in relazione al diritto ambientale e dello sviluppo sostenibile, afferma che nelle tradizioni culturali delle varie civiltà è possibile trovare principi cui attingere per sviluppare e definire il diritto internazionale; che in esse sono presenti valori comuni, e che mediante la considerazione e la sintesi delle soluzioni da essi adottate si potrebbe, almeno in alcuni campi, sviluppare una disciplina internazionale veramente universale. In tal senso, un ruolo importante dovrebbero svolgere i princìpi generali del diritto, intesi come principi generali comuni alle varie civiltà giuridiche. L’interesse preminente di questa impostazione è che essa porta a valorizzare nel modo più significativo le radici normative universalmente condivise che accomunano le varie prospettive culturali, senza abolire le peculiarità delle varie civiltà. Il confronto tra le culture sembra infatti essere l’unico metodo per garantire l’esistenza del diritto internazionale come sistema universale. 13. Le dottrine mondialiste del diritto internazionale 13.1. Il diritto globale dell’umanità Critiche al modello westphaliano: sarebbe ormai superato da un diverso modello, nel quale il ruolo della sovranità è molto ridotto, se non definitivamente scomparso; esclude l’essere umano dal novero dei membri di base della comunità internazionale, in un contesto nel quale l’umanità e i diritti umani sono divenuti i valori fondanti del diritto internazionale. Inoltre: è troppo ancorato al concetto di sovranità, in un mondo nel quale sono molte le limitazioni della sovranità esterna degli Stati e molto avanzata è l’interdipendenza tra le nazioni. S’intravede quindi un processo dinamico in cui la sovranità è progressivamente sostituita da un nuovo fondamento normativo nel diritto internazionale: i diritti umani, nuovo paradigma alla cui stregua valutare la sovranità intesa come responsabilità. Si osserva inoltre che l’evoluzione più recente dimostrerebbe una certa attenuazione della differenza tra il modello internazionale e quello interno, in conseguenza dell’affermarsi di valori comuni e interessi solidali. Tuttavia, la comunità internazionale non corrisponde ancora alla società umana universale, che abbia come membri primari la totalità degli individui che vivono nel pianeta. La costruzione di una società interindividuale universale e integrata potrà dirsi realizzata solo quando si costituirà una federazione politica mondiale, superando l’attuale divisione del mondo in quasi duecento formazioni politiche indipendenti. Il diritto internazionale continua peraltro a essere costituito da soluzioni normative condivise, cristallizzate nel sistema delle fonti riconosciute, in quanto regime comune, universale. Ciò esclude l’unilateralismo, che talvolta induce le potenze dominanti a considerare se stesse e il proprio sistema di valori come centro della comunità internazionale. Consideriamo peraltro gli aspetti più positivi dell’evoluzione nella comunità internazionale, che ha favorito il progressivo coagularsi d’interessi e valori comuni alla collettività degli Stati. Dopo la decolonizzazione, un ulteriore adeguamento si è avuto nel corso degli anni Novanta, quando il processo di mondializzazione ha accentuato l’interdipendenza tra le collettività statali ed ha evidenziato l’inadeguatezza degli elementi strutturali della comunità internazionale. L’ONU ha favorito la presa di coscienza dei problemi globali comuni all’umanità attraverso la convocazione di conferenze mondiali che hanno confermato il fattore umano quale elemento fondamentale delle relazioni internazionali. 14. I valori condivisi della comunità internazionale Le Nazioni Unite hanno posto al centro della loro azione la legalità internazionale, intesa come rispetto dei valori essenziali per la comunità internazionale. Di fronte alle massicce violazioni dei diritti fondamentali e agli efferati crimini contro l’umanità commessi nel corso di conflitti locali e guerre civili, l’ONU ha istituito due tribunali penali internazionali, per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, e ha favorito l’istituzione della Corte penale internazionale, il cui Sta- tuto, adottato a Roma nel 1998, è entrato in vigore nel 2002. Inoltre, alcune decisioni hanno costituito una reazione alle minacce alla pace e atti di aggressione verificatisi tra la caduta del Muro di Berlino e l’11 settembre 2001. Dalla metà degli anni Novanta, il mandato di alcune operazioni di peace-keeping dell’ONU è stato esteso fino a comprendere l’uso della forza, con fondamento specifico nel cap. VII della Carta. In alcuni casi le attività di peace-keeping si sono affiancate a interventi militari autorizzati dal Consiglio di sicurezza o decisi in via unilaterale da gruppi di Stati operanti nel quadro di organizzazioni internazionali, come la NATO (Kosovo, Afghanistan). Altri interventi militari sono stati autorizzati a scopi umanitari o per la protezione delle popolazioni civili nei confronti dei propri governi, in applicazione del principio della responsabilità di proteggere (Costa d’Avorio e Libia, 2011). Le ricorrenti crisi economico-finanziarie hanno messo in luce l’inadeguatezza della governance globale. Hanno assunto particolare rilievo i vertici mondiali di Capi di Stato e di governo: il G-7 e il G-8, riunioni dei paesi industrializzati (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada, e, dal 1998, Russia)... XXI secolo: l’ONU ha convocato il Vertice del Millennio, che ha avviato una riflessione generale sulle sfide e opportunità agli inizi del 2000. I valori condivisi della comunità internazionale che riflettono lo spirito della Carta delle Nazioni Unite: “libertà, equità e solidarietà, tolleranza, non-violenza, rispetto per la natura e responsabilità condivisa”. L’Assemblea generale, riunitasi a livello di Capi di Stato e di governo, ha adottato la risoluzione 55/2 che contiene la Dichiarazione sugli obiettivi di sviluppo del Millennio (MDGs) da realizzare entro il 2015: sradicare la povertà estrema e la fame; garantire l’istruzione primaria a livello universale; promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne... Per valutare i risultati conseguiti, due ulteriori vertici sono stati convocati nel 2005 e nel 2010: la Dichiarazione del Vertice mondiale del 2005, contenuta nella risoluzione 60/1 dell’Assemblea generale (World Summit Outcome) e il secondo summit del 2010 hanno definito il piano d’azione del sistema delle Nazioni Unite per mantenere fede, nonostante la crisi economico-finanziaria, agli impegni assunti, con il rafforzamento del partenariato tra comunità internazionale e società civile. 15. Il principio di sovranità nel diritto internazionale con- temporaneo Il diritto internazionale resta ancorato a due concetti chiave: la sovranità esterna e l’indipendenza degli Stati, base della struttura paritaria della comunità internazionale. Sovranità esterna: attributo distintivo dello Stato che denota l’assenza di subordinazione ad altri e il potere di esercitare in un ambito definito le funzioni appartenenti alla giurisdizione sovrana dello Stato senza interferenze esterne. E’ il presupposto per l’esercizio della sovranità interna ( potere di esercitare le funzioni fondamentali dello Stato in un dato ambito spaziale e con riferimento a una data comunità d’individui). Gli Stati hanno l’obbligo di riconoscere a tutti gli individui che si trovano sotto la loro giurisdizione, senza distinzioni di cittadinanza, i diritti umani fondamentali. La giurisdizione è territoriale, se si ha come riferimento l’ambito spaziale entro cui i poteri dello Stato sono esercitati. Sovranità: diritto soggettivo dello Stato sul proprio territorio e sulle risorse naturali in esso contenute, oggetto di un diritto di sovranità permanente tutelato dal diritto internazionale. Allo Stato è normalmente precluso l’esercizio della sua giurisdizione sul territorio di altri Stati (giurisdizione extra-territoriale), salva l’esistenza di una norma internazionale, consuetudinaria o pattizia, che lo autorizzi in tal senso. Gli Stati sono liberi di esercitare i loro poteri sulle aree “al di fuori delle giurisdizioni na- zionali”, come ad esempio l’alto mare e lo spazio extra-atmosferico ( res communes omnium), non suscettibili di divenire oggetto di diritti individuali di sovranità. Il caso del Vapore Lotus (Francia e Turchia): il 2 agosto 1926 due vapori collidono tra loro in alto mare. Conseguenze: perdita della nave turca Boz-Kourt e la morte di otto tra passeggeri e marinai turchi. Al momento dell’attracco del vapore francese Lotus a Istanbul, i comandanti dei due vapori erano stati sottoposti a procedimento penale e il comandante francese, riconosciuto responsabile del disastro, era stato condannato a una pena detentiva. La Turchia sosteneva che la competenza le spettasse di diritto, essendo la collisione avvenuta sul battello turco, quindi, in ragione delle sue conseguenze, in “territorio turco”. La Francia contestava alla Turchia di ave- re esercitato la competenza giudiziaria in violazione dei principi del diritto internazionale, che la attribuivano ai tribunali francesi (art. 15 della Con- venzione bilaterale di Losanna del 24 luglio 1923 sullo stabilimento e la competenza giudiziaria). 7 settembre 1921:la CPGI decideva che la Turchia non aveva violato il diritto internazionale, poiché nessun principio di diritto internazionale si opponeva all’esercizio della sua competenza giudiziaria per un fatto accaduto in alto mare. Gli Stati sono anche titolari di obblighi internazionali che riguardano le attività svolte nell’ambito della loro giurisdizione o sotto il loro controllo e che possono avere conseguenze dannose in aree e- sterne alle loro giurisdizioni. Il Principio 2 della Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992, che codifica una delle norme fondamentali del diritto internazionale ambientale, stabilisce che: “Gli Stati hanno, in conformità al diritto internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdi- zione nazionale”. Capitolo II LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE 1. Il diritto internazionale come sistema giuridico Sistema giuridico originario basato su specifici fatti storico-politici che ne hanno provocato l’instaurazione e l’evoluzione successiva. In quanto dotato del carattere dell’originarietà, il diritto internazionale coesiste con altri sistemi giuridici equiparati (sistemi giuridici statali, ordinamenti delle organizzazioni internazionali, ordinamento dell’Unione europea, ordinamento della Chiesa cattolica). L’impostazione è quella del pluralismo dei sistemi giuridici originari, separati tra loro ma collegati per molteplici versi. Il diritto internazionale è formalmente diverso rispetto agli altri sistemi giuridici e le sue norme hanno, di conseguenza, contenuto diverso rispetto a quelle degli altri ordinamenti giuridici. Il diritto internazionale è infatti deputato a regolare rapporti interstatali, non interindividuali. Nel diritto internazionale, la funzione normativa, consistente nella produzione di norme giuridiche, è esercitata dai membri della base sociale della comunità internazionale, per cui “legislatori” e “destina- tari” delle norme si confondono. Le fonti del diritto sono, in questo sistema, quelle più adatte alla struttura orizzontale di coordinamento propria della società internazionale: la consuetudine e l’accordo. Le fonti subordinate all’accordo, che denotano un maggior grado d’organizzazione giuridica della società, sono ancora poco sviluppate. Poiché gli accordi creano norme valide solo per le parti e non hanno effetti per i terzi, l’insieme delle norme pattizie è insufficiente a reggere la totalità delle relazioni giuridiche tra Stati. Ora, la vita di relazione internazionale presuppone un quadro giuridico unitario. È essenziale un diritto generale, che è di natura essenzialmente consuetudinaria. L’idoneità delle fonti indicate rispetto ai caratteri della comunità internazionale deriva dal fatto che sul funzionamento della consuetudine agiscono in maniera diretta le fonti materiali delle norme giuridiche, vale a dire quelle esigenze concrete, che producono la creazione e la modifica del diritto. Le fonti materiali operano a monte delle fonti in senso formale o fatti di produzione giuridica, che creano modificano o estinguono norme del diritto internazionale. 2. L’art. 38 dello Statuto della CIG 2.1. Le fonti del diritto internazionale Art.38: indica le varie categorie di norme che la Corte applica per risolvere “conformemente al diritto internazionale” le controversie che le sono sottoposte. Non è quindi una norma sulle fonti in senso stretto, ma una norma sul diritto applicabile alla soluzione delle controversie che ci può aiutare a capire il sistema delle fonti del diritto internazionale. La norma in questione è contenuta nello Statuto della CIG. Cosa prevede: “la Corte, la cui funzione è di decidere in base al diritto internazionale le controversie che le sono sottoposte, applica: a. le convenzioni internazionali sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite; b. la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto; c. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; d. con riserva delle disposizioni dell’articolo 59, le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più qualificati delle varie nazioni come mezzi sussidiari per la determinazione delle norme giuridiche”. 2.2. La dottrina e le decisioni giudiziarie Lo Statuto stesso precisa che esse costituiscono “mezzi ausiliari” di determinazione delle regole di diritto e che sono, quindi, “fonti di conoscenza” del diritto, non fonti di produzione. Dottrina: intesa come complesso delle conoscenze scientifiche ottenute attraverso la ricerca e lo studio, già nel 1900, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva affermato, nel caso The Paquete Habana, che i lavori dottrinali di giuristi eminenti non sono fonti del diritto internazionale, ma strumenti essenziali per l’interpretazione delle norme fondate su trattati, consuetudine e principi generali di diritto. Il contributo della dottrina è importante perché opera una sintesi di elementi spesso frammentari e mette in luce la logica unitaria del diritto internazionale.Lo stesso discorso vale per le decisioni giudiziarie, che costituiscono anch’esse una fonte di cognizione del diritto internazionale, un mez- zo sussidiario per la determinazione delle norme giuridiche. Se poi il caso riguarda materie nelle quali la giurisprudenza dei giudici nazionali è rilevante ai fini della determinazione dell’opinio iuris e del contenuto di una norma consuetudinaria, allora il riferimento alla giurisprudenza nazionale appare indispensabile, come nel caso della decisione del 3 febbraio 2012 sulle Immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia).L’art. 38 par. 1 lett. d) richiama peraltro, a escludere che si tratti di fonti in senso formale, l’art. 59 dello Statuto della CIG, secondo il quale le sentenze della Corte sono obbligatorie solo per le parti in lite e nel caso che è stato deciso. Esse hanno quindi l’efficacia obbligatoria della cosa giudicata internazionale. In tal senso, si deve escludere che nel diritto internazionale sia vigente il principio di common law del precedente obbligatorio (stare decisis), principio strettamente legato all’esistenza di un potere giudiziario centralizzato, che nel sistema internazionale manca. 3. Le sentenze internazionali dispositive 3.1. La sentenza ex aequo et bono Sentenza dispositiva: unica ipotesi in cui una decisione giudiziaria internazionale è da considerare fonte del diritto internazionale. Ad essa fa riferimento l’art. 38 par. 2 dello Statuto della CIG, quando le parti autorizzano la Corte a risolvere la loro controversia applicando criteri extra-giuridici, creando, quindi, una nuova norma applicabile alla controversia stessa. La Corte deve essere espressamente autorizzata dalle parti a decidere la controversia ex ae- quo et bono. Si tratta quindi di un’eccezione rispetto al par. 1, secondo il quale la Corte decide secundum ius. Nell’esperienza della CIG, però, non si sono dati casi in cui le Parti le abbiano conferito questo potere. I casi di sentenze ex aequo et bono sono rari. 3.2. Le nuove tendenze del diritto del mare Nel caso relativo alla Piattaforma continentale Tunisia-Libia, una clausola del compromesso, relativa al diritto applicabile alla controversia, chiedeva alla Corte di pronunciarsi tenendo conto di tre fattori: i principi equitativi; le circostanze pertinenti proprie della regione; le nuove tendenze accettate alla Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Sentenza del 24 febbraio 1982: la Corte ha enunciato i principi e le regole del diritto internazionale applicabili alla delimitazione delle zone della piattaforma continentale appartenenti rispettivamente alla Tunisia e alla Libia nella regione in litigio, ha enumerato le circostanze pertinenti di cui occorreva tenere conto al fine di pervenire a una delimitazione equitativa e ha precisato il metodo pratico da utilizzare per la delimitazione. Quanto alle nuove tendenze (new accepted trends), la Corte ha ritenuto di non poterle applicare, poiché esse rappresentavano uno stadio avanzato, ma non definitivo, del processo di elaborazione di nuove norme del diritto internazionale del mare. La Terza Conferenza non era ancora conclusa e il progetto di convenzione del 28 agosto 1981 non era ancora il testo finale aperto alla firma degli Stati partecipanti. 3.3. L’arbitrato dell’Alpe Cravairola Decisione d’arbitrato del 23 settembre 1874. Riguarda la delimitazione definitiva della frontiera italosvizzera, nel luogo denominato Alpe di Cravairola . Si trattava di stabilire la frontiera fra l’Italia e la Svizzera in una zona di montagna, l’Alpe Cravairola, dove la linea di confine è praticamente una linea retta, mentre per un tratto segue la linea spartiacque. Spesso una linea spartiacque coincide con la linea di confine fra due Stati, come nel caso del confine italo-francese, che coincide per un lungo tratto con lo spartiacque tra il bacino del Po e quello del Rodano. Tuttavia la regola consuetudinaria che fa coincidere la linea di frontiera con quella dello spartiacque presenta numerose eccezioni, poiché le linee di confine sono determinate anche tenendo conto di fattori storici-politici non direttamente legati alla geografia fisica. La Svizzera insisteva sul fatto che il territorio conteso fosse molto più accessibile dalla Svizzera che dall’Italia e che quindi potesse essere amministrato dalle autorità svizzere in modo più conveniente e vantaggioso, essendo l’accesso da parte italiana possibile unicamente per tre mesi l’anno. Inoltre, si osservava che i danni provocati dall’irregolare flottazione di legnami lungo i torrenti erano contrari agli interessi della popolazione svizzera e del suo territorio, e potevano essere prevenuti solo mediante l’applicazione all’Alpe di Cravairola di moderni metodi concernenti l’economia forestale e la regolazione delle acque. Conclusione: prevalsero i titoli giuridici favorevoli all’Italia sulle ragioni di convenienza e di mutuo interesse che consigliavano la cessione dell’Alpe di Cravairola alla Svizzera. La linea di confine che separa il territorio italiano da quello svizzero restava lo spartiacque dalla cima del Pizzo Quadro. 4. Il diritto internazionale non scritto 4.1. Gli elementi costitutivi della consuetudine L’art. 38 par. 1 lett. b) Statuto CIG: consuetudine internazionale = “prova di una pratica generale accettata come diritto”. Elementi costitutivi tradizionali della consuetudine: l’elemento obiettivo o materiale (comportamento costantemente tenuto dagli Stati di fronte a certe situazioni (repetitio facti) ); elemento psicologico (convincimento della doverosità giuridica del comportamento stesso (opinio iuris sive necessitatis)). Al fatto risultante dai due elementi si collega l’effetto di creare la norma consuetudinaria (consuetudine introduttiva), di modificarne il contenuto o anche di abrogarla (desuetudine). In passato, la dottrina ha considerato la consuetudine come accordo tacito, realizzato attraverso manifestazioni di volontà desumibili da fatti e comportamenti concludenti degli Stati. Tale impostazione è stata però abbandonata, per le complicazioni teoriche che comporta e perché non conforme all’esperienza. Escludendo la consuetudine come fonte primaria, il fondamento del diritto internazionale andrebbe trovato nella norma pacta sunt servanda e, pertanto, tutte le norme internazionali avrebbero identica natura giuridica (diritto particolare). L’accordo tacito a base della consuetudine avrebbe limiti soggettivi d’efficacia e vincolerebbe solo gli Stati che hanno effettivamente seguito quella condotta, mentre per gli altri sarebbe necessario supporre l’accettazione o il riconoscimento delle norme così create. In questa prospettiva il diritto internazionale coinciderebbe con un insieme di accordi e sarebbe impossibile considerarlo come sistema giuridico unitario e coerente. 4.2. Il neo - consensualismo Anni ’60 – ‘0 / Crollo del Muro di Berlino: riprendono vigore concezioni secondo le quali il consenso degli Stati sarebbe rilevante nella formazione delle consuetudini internazionali. In particolare, è stato avanzato l’argomento della mancata partecipazione di alcuni gruppi di Stati al processo formativo delle consuetudini internazionali per contestare la vigenza di talune norme o per proporre l’esigenza di un ricambio del diritto. Questo dibattito ha visto i tre maggiori gruppi di paesi all’epoca esistenti – paesi dell’area socialista, paesi in via di sviluppo e paesi occidentali industrializzati – schierarsi su posizioni diverse. Sono stati gli anni caratterizzati dall’avvio del processo di codificazione del diritto internazionale, che è continuato, con fortune alterne, fino agli anni Ottanta per poi subire una battuta d’arresto. Con- temporaneamente, la rilettura del diritto internazionale è stata fatta dall’Assemblea generale attraverso l’adozione di numerose dichiarazioni di principi. 4.3. La rilettura del diritto consuetudinario Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) e Atto finale di Helsinki (1975, strumento non vincolante): si trascrivono, per il contesto europeo, i principi della coesistenza pacifica contenuti nella Dichiarazione ONU del 1970, con tanto di capitolo sulla tutela dei diritti umani. In altri casi le dichiarazioni hanno favorito la formazione di norme convenzionali o consuetudinarie di contenuto identico, ponendosi come autorevoli manifestazioni dell’opinio iuris degli Stati. Si parla in tal senso di attività quasi-normativa dell’Assemblea generale. Ricorderemo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948; la Dichiarazione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1959; la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai popoli coloniali del 14 dicembre 1960 e la sua portata per l’affermazione del diritto di autodeterminazione dei popoli come norma internazionale di carattere imperativo. Spesso tali dichiarazioni hanno costituito il riflesso di un mero dibattito di politica legislativa internazionale e le soluzioni in esse contenute si sono collocate esclusivamente in una prospettiva di modifica del diritto internazionale vigente, consuetudinario o pattizio. Es: il diritto degli Stati, sancito dal par. 4 e) della risoluzione 3201 (S-VI) e dall’art. 2.2 c) della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, di nazionalizzare, espropriare o trasferire la proprietà di beni stranieri “conformemente alle leggi nazionali”, in contrasto con la regola classica del diritto internazionale generale secondo la quale il quantum dell’indennizzo è determinato da una norma internazionale che lo vuole pronto ed equo. Se l’opposizione degli Stati industrializzati ha impedito la formazione di una norma internazionale generale conforme alle istanze dei paesi in via di sviluppo, le stesse legislazioni interne adottate da questi ultimi a partire dagli anni Ottanta sulla promozione e protezione degli investimenti esteri, hanno ulteriormente indebolito le indicazioni contenute nella Dichiarazione sul NOEI e nella Carta dei diritti e doveri economici, confermando l’assenza di un’opinio iuris generalizzata. Nel parere dell’8 luglio 1996 sulla Liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari, la CIG ha sottolineato che le risoluzioni dell’Assemblea generale, anche se non hanno forza obbligatoria, possono talvolta avere valore normativo e fornire elementi di prova importanti per stabilire l’esistenza di una norma o l’emergere dell’opinio iuris. Per sapere se tale effetto è ammissibile nel caso di una data risoluzione dell’Assemblea generale, occorre verificare il suo contenuto e le circostanze della sua adozione; occorre inoltre verificare se esista un convincimento giuridico quanto al suo carattere normativo. 4.4. Le nuove aggregazioni di Stati e l’opinio iuris L’aggregazione degli Stati nella comunità internazionale segue linee direttrici ben diverse da quelle del periodo della guerra fredda. I gruppi di Stati protagonisti del diritto internazionale prima del crollo del muro di Berlino: Paesi industrializzati, Paesi in via di sviluppo e Paesi socialisti, questi ultimi divenuti paesi con economia in transizione dopo la fine della guerra fredda. Tali gruppi sono profondamente mutati e le aggregazioni attuali tengono conto delle nuove economie (BRICS) o di altri fattori non riconducibili alla logica precedente. Si pensi alle difficoltà che sta conoscendo il regime giuridico della lotta ai cambiamenti climatici basato sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite adottata a New York il 9 maggio 1992 e sul Protocollo applicativo di Kyoto del 10 dicembre 1997, entrato in vigore nel febbraio 2005. Questo regime giuridico è ispirato al principio della responsabilità comune ma differenziata, contenuto nella Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992: gli Stati hanno il comune dovere di cooperare per la protezione ambientale, ma, in ragione del diverso contributo al degrado ambientale globale, responsabilità differenziate. La Convenzione stabilisce un doppio standard, il primo per i paesi dell’allegato I (paesi dell’OCSE e paesi dell’Europa centrale e orientale con economia in transizione) e il secondo per tutti gli altri, compresi quelli in via di sviluppo, elencato nell’allegato II. Poiché è negli Stati industrializzati che, nel 1992, aveva origine il maggior volume di emissioni di gas a effetto serra, a essi spettava adottare politiche nazionali dirette a mitigare i cambiamenti climatici. Ai paesi in via di sviluppo, nei quali le emissioni pro capite erano più ridotte, si applicava invece un regime più blando. Assumere come punto di riferimento per le modifiche al diritto consuetudinario le aggregazioni di Stati sorte negli anni Sessanta– Ottanta non ha più senso, poiché le dinamiche sono profondamente diverse. Lo svolgimento del processo consuetudinario continua a essere caratterizzato dall’azione degli Stati, specie quelli più direttamente interessati, rivolta a incidere nella dinamica della formazione ,modifica o cancellazione delle norme consuetudinarie attraverso comportamenti dei quali si asserisce l’obbligatorietà. La consapevolezza che ciascuno Stato ha della rilevanza della sua condotta agli effetti della formazione di norme generali del diritto internazionale, non trasforma peraltro quelle espressioni di opino iuris in manifestazioni di volontà, così da tornare alla superata tesi della consuetudine quale accordo tacito. 4.6. La prassi bilaterale e multilaterale La pratica diplomatica bilaterale e multilaterale degli Stati offre dati preziosi per la rilevazione delle norme consuetudinarie internazionali. Le raccolte della prassi di diritto internazionale dei singoli Stati sono molto utili a tal fine. I repertori della pratica di diritto internazionale dei vari Stati non sono tuttavia numerosi, in quanto si tratta di ricerche che richiedono notevole impegno in termini di risorse umane e finanziarie. Come espressione della prassi ha anche rilevanza fondamentale la giurisprudenza dei tribunali internazionali. Si pensi ai casi in cui la CIG ha rilevato, con autorevolezza, che esiste in un dato settore del diritto internazionale una norma consuetudinaria. Anche la legislazione interna può essere espressione di opinio iuris, come le reazioni degli Stati alle misure legislative altrui. L’elemento psicologico si desume quindi da riconoscimenti espressi, ma anche da altri atteggiamenti degli Stati, come acquiescenza, proteste o silenzio. Un discorso specifico meritano le convenzioni di codificazione. Se la codificazione costituisce trascrizione, la norma consuetudinaria continua ad applicarsi a tutti; se la codificazione ha invece carattere fortemente innovatore, essa può costituire il punto di partenza per la formazione di nuove norme consuetudinarie. La CIG, nella sentenza del 1986, nel caso delle Attività militari e paramilitari contro il Nicaragua (Nicaragua-Stati Uniti), ha desunto norme generali del diritto internazionale dalla Carta delle Nazioni Unite, che è formalmente un trattato. Nella sentenza relativa alla Delimitazione marittima e territoriale fra il Qatar e il Bahrein, del 16 marzo 2001, la Corte ha affermato che l’art. 13 della Convenzione sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, che riguarda il regime giuridico dei bassifondi e- mergenti a bassa marea, riflette il diritto internazionale consuetudinario. 5. Il tempo nella formazione della consuetudine Partiamo dalla progressiva codificazione del diritto del mare, che ha visto susseguirsi, tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta, tre conferenze delle Nazioni Unite. La prima si era conclusa nel 1958 con l’adozione delle quattro Convenzioni del mare ( mare territoriale e la zona contigua; l’alto mare; la pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare; la piattaforma continentale). 1960: seconda conferenza > si tiene conto delle esigenze degli Stati sorti dal processo di decolonizzazione. 1962 – 82: terza conferenza > seria rilettura delle norme in vigore e una riuscita operazione di sviluppo progressivo del diritto internazionale del mare. Dunque, questo processo negoziale si è consolidato in tempi relativamente brevi. La problematica non era del resto nuova. Già verso la metà degli anni Sessanta, dopo il lancio in orbita nel 1957 del primo satellite artificiale, lo Sputnik I, era stata configurata la formazione di un diritto consuetudinario istantaneo in relazione all’esplorazione e uso dello spazio extra-atmosferico . Quanto alle consuetudini istantanee sullo spazio esterno, come quella relativa al diritto di passaggio degli oggetti lanciati in orbita attraverso lo spazio atmosferico di altri Stati, o, ancora, relativa alla libertà d’uso e esplora- zione del cosmo, esse si sono formate senza dubbio in tempi rapidi per rispondere alle impellenti esigenze delle nazioni spaziali, nell’indifferenza della maggioranza degli altri Stati. Evidente è in tal caso il ruolo di quelli che vengono definiti come “specially affected States” nei processi formativi del diritto internazionale non scritto. La risoluzione 1962 (XVIII) del 13 dicembre 1963 dell’Assemblea generale sui principi regolatori delle attività degli Stati nello spazio rifletteva quindi una situazione normativa al cui consolidamento avevano concorso in modo determinante le due superpotenze spaziali. Quando si è passati alla disciplina convenzionale, con i cinque trattati spaziali delle Nazioni Unite tra il 1967 e il 1979, l’interesse degli Stati non impegnati in attività di questo genere è rimasto peraltro scarso. Se si esclude il Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati in materia di esplorazione e uso dello spazio extra- atmosferico (OST) del 1967, accettato da più di cento Stati, gli altri accordi denotano una limitata propensione all’universalità. Anche nel caso di consuetudine istantanea, infatti, sono necessari i comportamenti di almeno due Stati, ripetuti per un breve lasso di tempo, come è avvenuto nel caso del diritto di passaggio attraverso lo spazio aereo degli Stati in caso di oggetti lanciati in orbita spaziale. 6. I limiti soggettivi d’efficacia della consuetudine 6.1. L’assenza di limiti soggettivi Le norme consuetudinarie sono generali, perché s’indirizzano a tutti i soggetti del diritto internazionale esistenti al momento della loro formazione. Di esse diventano automaticamente destinatari anche gli Stati “nuovi”, che vengono a formarsi in seguito senza che occorra una loro espressa accettazione. Le norme del diritto internazionale consuetudinario sono quindi prive di limiti soggettivi d’efficacia. Nella prassi non si è mai fatta dipendere la dimostrazione del fondamento di una pretesa basata su una norma consuetudinaria dalla prova che lo Stato abbia partecipato, con il suo costante comportamento, alla formazione della norma stessa. La norma consuetudinaria obbliga però tutti gli Stati, inclusi gli Stati di nuova formazione la cui prassi non ha avuto modo di manifestarsi, o gli Stati impossibilitati a manifestazioni di prassi, come ad esempio, relativamente alle norme di diritto spaziale, gli Stati che non hanno acquisito una capacità di lancio in orbita e non svolgono attività nazionali nello spazio. Altri Stati sono privi di litorale marittimo e quindi meno interessati alle vicende del diritto del mare. 6.2. Le consuetudini locali o regionali Si applicano solo nei rapporti fra alcuni Stati. Questo limite dipende dallo stesso contenuto della norma, volto a regolare solo determinati rapporti. Alcune sentenze della CIG confermano l’esistenza di consuetudini particolari, applicabili solo agli Stati membri di una data regione geografica. Diritto di passaggio in territorio indiano del 26 novembre 1957 e del 12 aprile 1960 (Portogallo v. India): la CIG ha riconosciuto un limitato diritto di passaggio in territorio indiano a favore del Portogallo sulla base di una pratica costante e uniforme osservata dal Regno Unito, in qualità di potenza coloniale: Per oltre un secolo, private, funzionari civili e merci passarono liberamente nella regione compresa tra Darman e le enclavi (In geografia politica , un' enclave è una regione interamente compresa all'interno di uno stato , che però appartiene ed è governata da un altro Paese). Con l’indipendenza indiana, la pratica è stata accettata dalle parti. 6.3. Il diritto di asilo diplomatico Altro caso di consuetudini con limitata sfera d’efficacia è quello delle consuetudini regionali. Il diritto d’asilo diplomatico è una norma regionale non riconosciuta dagli Stati estranei alla regione. Il caso del cardinale József Mindszenty, primate d’Ungheria: nel 1949 fu arrestato e condannato all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento dal Tribunale popolare di Budapest durante il regime di Rákosi. Nel 1956 fu rimesso in libertà durante la primavera ungherese di Nagy, ma, riuscito a fuggire nel corso dell’offensiva sovietica che represse nel sangue la rivoluzione ungherese del 1956, trovò rifugio per quindici anni (1956-1971) presso la sede dell’ambasciata statunitense di Budapest. Il regime comunista ungherese gli negò il salvacondotto per lasciare il paese, finché, dopo i pressanti inviti di Paolo VI, fu autorizzato a lasciare l’Ungheria. Altro caso: il cittadino australiano Julian Assange > il 19 giugno 2012 ha chiesto la protezione dell’Ecuador nei locali dall’ambasciata a Londra, adducendo il timore di persecuzione politica nel caso in cui, estradato in Svezia, fosse riestradato in un terzo paese (gli Stati Uniti), dove, per il caso WikyLeaks, è incriminabile per spionaggio e tradimento, reati per i quali è prevista la pena capitale. La dichiarazione del governo dell’Ecuador concernente la richiesta di asilo menziona l’art. 41 della Costituzione dell’Ecuador, che riconosce sia l’asilo diplomatico nella sede della missione, che l’asilo politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati. Il Regno Unito considera invece Assange un indagato, reo di aver violato le disposizioni sulla libertà vigilata, e gli ha negato la conces sione di un salvacondotto per abbandonare il paese. Da non confondere peraltro il diritto di asilo diplomatico con l’obbligo del Regno Unito di rispettare l’inviolabilità della sede diplomatica dell’Ecuador a Londra. La possibilità di un’irruzione nella sede ecuadoriana è st ta esclusa, in quanto costituirebbe una violazione delle norme internazionali che tutelano l’inviolabilità delle sedi diplomatiche, in particolare dell’art. 22 della Convenzione sulle relazioni diplomatiche di Vienna del 1961. 6.4. Lo Stato obbiettore Si sostiene che uno Stato, il quale si sia persistentemente e con costanza opposto all’applicazione nei suoi confronti di una norma consuetudinaria, non è vincolato a osservarla. Lo Stato deve quindi dimostrare che ha rifiutato la norma consuetudinaria, sottraendosi alla sua applicazione dall’inizio del suo processo formativo. Il delle Peschiere (18 dicembre 1951) : opponeva Norvegia e Regno Unito, era in gioco la norma consuetudinaria internazionale relativa alla determinazione del limite interno del mare territoriale, all’epoca corrispondente alla linea della costa (linea di base normale). Il Regno Unito eccepiva l’illegittimità del metodo seguito dalla Norvegia che aveva utilizzato, dal 1869 e fino alla nascita della controversia con il Regno Unito, il sistema delle linee rette di base. Tale metodo, dettato dalla particolare conformazione geografica della costa, aveva come conseguenza l’estensione delle acque comprese nella fascia di mare territoriale norvegese, sottratte al regime della libertà dell’alto mare e quindi delle attività di pesca da parte di navi battenti bandiera britannica o di altri Stati. Alla Corte è sembrato decisivo, al fine di valutare la liceità del comportamento della Norvegia, l’atteggiamento degli altri Stati, che non si erano opposti al sistema di delimitazione applicato dalle autorità norvegesi. Peraltro, l’evoluzione successiva ha condotto alla generale accettazione di due metodi per la determinazione del limite interno del mare territoriale: la linea della costa e le linee rette di base, entrambi consentiti dal diritto internazionale. Infatti, l’art. 5 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare stabilisce che la linea di base normale dalla quale si misura l’estensione del mare territoriale è la linea di bassa marea lungo la costa, come indicata sulle carte nautiche a grande scala ufficialmente riconosciute dallo Stato costiero. Art. 7: laddove la linea costiera è profondamente incavata e frastagliata, o vi è una frangia d’isole lungo la costa nelle sue immediate vicinanze, si può impiegare il metodo delle linee di base rette che collegano punti appropriati, per tracciare la linea di base dalla quale si misura la larghezza del mare territoriale. Il comportamento della Norvegia non era diretto a contestare la norma vigente, della quale non si metteva in dubbio l’applicabilità a tutti gli altri casi, ma ad affermare la legittimità del metodo seguito. Questa dinamica, insieme all’autorevole decisione della CIG, hanno condotto alla modifica del contenuto della norma consuetudinaria preesistente, che consente ora agli Stati di optare, in relazione alla conformazione geografica delle coste, tra linea normale o linee rette. 6.5. La consuetudine come processo dinamico Il processo formativo della consuetudine può essere complesso e il momento conclusivo difficile da identificare. Un conto è la prassi, infatti, intesa come aggregazione degli elementi costituivi della consuetudine, e un conto è il completamento di tale processo. Il caso Kite varrà a spiegare come si manifestano le posizioni degli Stati rispetto ad una controversia in cui è in gioco la questione di sapere se esiste, in una data materia, una norma consuetudinaria internazionale e quale contenuto essa abbia. Anni Venti del XX secolo (la regola consuetudinaria sull’esenzione degli agenti diplomatici stranieri dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario era già consolidata). La regola viene rimessa in discussione nel 1922 della Corte di cassazione italiana, che dava un’interpretazione restrittiva della norma. Il caso riguardava il Capo del Dipartimento della cifra dell’Ambasciata statunitense a Roma, entrato in lite, alla scadenza del contratto, con la proprietaria dell’appartamento che conduceva in locazione. La Corte di cassazione, con sentenza del 31 gennaio 1922, affermava che “Il rappresentante di un Governo estero è soggetto alla giurisdizione civile del Regno per tutti gli atti per i quali la competenza dei nostri tribunali è ammessa secondo il diritto comune (art. 105 codice di procedura civile) tranne il caso in cui egli abbia agito proprio in rappresentanza dello Stato estero, se non addirittura per incarico del suo governo, nella quale ipotesi gli atti da lui compiuti non avrebbero origine e giustificazione diretta da quella necessità e da quei concetti che limitano l’applicazione della territorialità della legge”. Il Decano del Corpo diplomatico accreditato a Roma, Barrère, indirizzava al Ministro degli esteri, Schanzer, una Nota Verbale affermando che: “Cette décision est en contradiction formelle avec la règle communément admise jusqu’ici et suivie en pratique par tous les Etats: cette règle est, qu’en principe, les agents diplomatiques sont exempts de la juridiction, non seulement pénale mais civile, dans les pays où ils sont accrédités”. Il Consiglio del Contenzioso Diplomatico del MAE, richiesto di parere in merito, sottolineava che “La massima accolta dalla Corte Suprema è stata oggetto di gravi censure da parte di autorevoli scrittori nostri (prof. Anzilotti e prof. Cavaglieri) che la ritennero non conforme ai principi di diritto internazionale universalmente accolti in questa materia. Una pratica secolare e la dottrina quasi unanime attestano, infatti, l’esistenza di una norma consuetudinaria diversa da quella che la Cassazione di Roma ha posto a fondamento dei suoi giudicati”. La risposta italiana alla protesta del Corpo diplomatico fu interlocutoria e il Governo suggerì che si promuovesse una conferenza internazionale di codificazione in materia d’immunità degli agenti diplomatici.La Conferenza di codificazione di Vienna ha adottato quindi, nel 1961, la Convenzione sulle relazioni diplomatiche, che riconosce l’esenzione degli agenti diplomatici dalla giurisdizione civile e penale dello Stato accreditatario non solo per gli atti funzionali ma anche, e soprattutto, per quelli della vita privata. 7. Le norme consuetudinarie imperative 7.1. Lo ius cogens Norme generali di tale importanza per la comunità degli Stati da possedere natura imperativa e quindi inderogabile. Fine anni Sessanta: i paesi in via di sviluppo e i paesi socialisti si sono fatti promotori dell’idea secondo la quale alcune regole fondamentali del diritto internazionale, come quelle sull’autodeterminazione dei popoli, il divieto di aggressione, di genocidio, di schiavitù e tratta degli schiavi, il divieto di discriminazione razziale (in particolare la segregazione razziale o apartheid)godrebbero di una forza superiore rispetto a tutte le altre, con la conseguenza che i trattati con esse incompatibili sarebbero nulli. Non si trattava quindi di configurare una nuova fonte del diritto internazionale, ma di riconoscere rango superiore ad alcune norme internazionali di natura consuetudinaria. Nel 1969, la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ha recepito questa istanza negli artt. 53 e 64, entrambi contenuti nella parte V, sulla nullità, estinzione e sospensione dell’applicazione dei trattati. Norma imperativa = “una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un’altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”. Lo ius cogens identifica dunque le norme generali del diritto internazionale che non possono essere derogate per via di accordi o di fonti subordinate all’accordo, come le decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, in quanto norme di rango dotate di maggiore resistenza. Questa innovazione introdotta dalla Convenzione di Vienna ha suscitato riserve da parte di alcuni Stati occidentali, come la Francia, che non ha ancora firmato e ratificato la Convenzione. Per superare le resistenze di questi paesi, la stessa Convenzione contempla un meccanismo obbligatorio per la soluzione delle possibili controversie sulla determinazione delle norme imperative. L’art. 66 a) prevede infatti il potere di ogni Stato parte ad una controversia avente ad oggetto gli artt. 53 e 64 della Convenzione di Vienna di sottoporre, su ricorso unilaterale, tale controversia alla decisione della CIG. Va detto, comunque, che nessuno Stato ha finora utilizzato questo meccanismo. 7.2. Gli obblighi erga omnes La nozione di ius cogens è collegata a quella di obblighi erga omnes, Si tratta di due nozioni non equivalenti, ma obblighi erga omnes sono in genere contemplati da norme imperative del diritto internazionale. Sentenza del 5 febbraio 1970 sul caso Barcelona Traction Light and Power Company: la CIG ha definito gli obblighi erga omnes come quelli che uno Stato assume nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme, distinguendoli da quelli che uno Stato assume nei confronti di un altro Stato nell’ambito della protezione diplomatica. Secondo la Corte, tali obblighi derivano, nel diritto internazionale contemporaneo, dal divieto di atti di aggressione e di genocidio, così come dai principi e norme relative ai diritti fondamentali della persona, compresa la protezione dalla schiavitù e dalla discriminazione razziale. Alcuni dei correlativi diritti, continua la Corte, sono entrati a far parte del diritto internazionale generale, altri invece sono attribuiti da strumenti internazionali di carattere universale o quasi-universale. Conclusione: la violazione di una norma imperativa comporta la commissione di un grave illecito internazionale nei confronti dell’intera comunità internazionale e non solo dello Stato o degli Stati direttamente vittime della violazione. Dopo la conclusione della Convenzione di Vienna, del resto, la questione degli obblighi erga omnes è stata approfondita nel contesto dei lavori della CDI sulla responsabilità internazionale degli Stati. Il progetto di articoli adottato in prima lettura dalla Commissione nel 1980 (relatore speciale Roberto Ago) aveva introdotto un’importante distinzione tra illeciti ordinari dello Stato (delitti) e crimini internazionali dello Stato, precisando che la violazione di obblighi erga omnes dava luogo appunto alla commissione di crimini e non di semplici fatti illeciti. Il Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato adottato il 3 agosto 2001 dalla CDI, pur avendo modificato significativamente questa impostazione, conserva la nozione di “norme imperative del diritto internazionale” e fa riferimento alle gravi violazioni di obblighi derivanti da una norma imperativa del diritto internazionale generale, considerate tali qualora coinvolgano un consistente o sistematico inadempimento dell’obbligo da parte dello Stato. L’art. 41 pre- vede le conseguenze derivanti da tali violazioni: si tratta in particolare dell’obbligo di cooperare per porre fine ad esse con mezzi leciti e dell’obbligo di non riconoscere come legittima una situazione creata attraverso una violazione grave, né prestare aiuto o assistenza al man- tenimento di tale situazione. 8. L’identità delle norme imperative 8.1. Il convincimento dell’inderogabilità Dobbiamo a questo punto chiederci quali sono i criteri che per- mettono d’identificare le norme imperative del diritto internaziona-leAl riguardo, non sembra che sia tanto l’origine a identificare una norma imperativa, trattandosi di norme di fonte consuetudinaria,quanto piuttosto l’esistenza di un elemento specifico che distingue tali norme da tutte le altre, vale a dire il convincimento di tutti gli Stati circa la loro inderogabilitàPer essere imperativa una norma con- suetudinaria deve essere “accettata e riconosciuta dalla comunità inter- nazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consen- tita alcuna deroga”.una norma imperativa può essere modificata soltanto da “un’altra norma del diritto internazio- nale generale” avente lo stesso carattere.In altri termini, in caso di norme imperative, non è sufficiente il convincimento che un dato comportamento è doveroso in quanto richiesto da una norma, ma è necessario che il convincimento riguardi anche l’inderogabilità della norma che contempla il comportamento in questione.Tuttavia, non è sufficien- te l’esistenza del convincimento generalizzato che una norma consue- tudinaria si è formata, se non c’è anche quello relativo al suo carattere cogente. 8.2. La giurisprudenza sulle norme imperative La decisione della CIG sul caso delle Questioni relative all’obbligo di giudicare o di estradare (Belgio c. Senegal) chiarisce in modo semplice gli aspetti attinenti alla rilevazione dello ius cogens. Sentenza del 20 luglio 2012: il divieto di tortura è parte del diritto internazionale consuetudinario e ha acquisito il carattere di norma imperativa. Provadella pratica e del convincimento giuridico: la Corte rileva che il divieto di tortura è contenuto in numerosi strumenti internazionali a vocazione universale, ed è stato introdotto nel diritto interno della quasi totalità degli Stati. Infine, gli atti di tortura sono denunciati regolarmente in seno alle istanze nazionali e internazionali. L’opinio iuris non riguarda solo la doverosità sociale del comportamento oggetto della norma, ma anche l’inderogabilità della norma stessa. Quindi, anche nella rilevazione di una norma imperativa non è sufficiente fare riferimento alle sole decisioni giudiziarie (che nel caso in esame la Corte peraltro non menziona), ma è necessario tener conto di tutte le manifestazioni della pratica internazionale. Proprio la giurisprudenza che sta dando il contributo maggiore a chiarire l’identità delle norme imperative. Sentenza della Corte di giustizia delle CE (Grande Sezione) nel caso Kadi, del 3 settembre 2008: “La Convenzione di Vienna non stabilisce quali norme internazionali abbiano il carattere assolutamente imperativo; pertanto, sarà l’interprete (operatore giuridico) a doverne ricavarne l’identità. Ma è opinione comune della dottrina che facciano parte dello ius cogens quei principi che richiamano valori universali e fondamentali, quali i diritti umani principali, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto della minaccia e/o uso della forza...”. 8.3. Le norme imperative nei trattati Un punto da chiarire riguarda i rapporti tra lo ius cogens e i trattati internazionali. Un trattato può riflettere una norma generale di natu ra imperativa, come talvolta riflette una norma generale del diritto internazionale, ma non può esso stesso crearla, essendo per natura generatore di norme di diritto particolare. E una norma internazionale di diritto particolare non può per definizione essere una norma accettata e riconosciuta come inderogabile dalla comunità internazionale nel suo complesso. Sentenza 3 febbraio 2006 della CIG in relazione al caso delle Attività armate sul territorio del Congo (Repubblica democratica del Congo c. Ruanda): conferma che un trattato può riflettere una norma imperativa che trova la sua origine nella consuetudine internazionale. La Corte ha riconosciuto che la Convenzione del 9 dicembre 1948 contro il genocidio contiene norme imperative del diritto internazionale, in particolare la norma sul divieto di genocidio, norme che sono preesistenti alla Convenzione stessa e di cui la Convenzione è per così dire “portatrice”. Va chiarita la relazione tra lo ius cogens e l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite: in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con lo Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevalgono gli obblighi derivanti dallo Statuto (c.d. principio del primato della Carta). Tra gli “obblighi assunti dagli Stati membri con il presente Statuto”, rientrano i principi fondamentali contenuti nell’art. 1 della Carta, che richiama il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità umana, e i diritti e doveri fondamentali degli Stati membri elencati nell’art. 2 della Carta. Ora, fra tali principi ve ne sono alcuni che corrispondono a norme cogenti del diritto internazionale, come la norma che pone il divieto della minaccia e dell’uso della forza nelle relazioni internazionali. È evidente che la natura imperativa di tali norme è una qualità che esse posseggono indipendentemente dall’art. 103 della Carta, che stabilisce la prevalenza degli obblighi statutari anche se non sono contemplati da norme imperative (ad esempio, gli artt. 55 e 56). L’incompatibilità di un trattato con una norma imperativa del diritto internazionale, riflessa nella Carta delle Nazioni Unite, comporterà la nullità assoluta di tale trattato, mentre il contrasto tra un trattato e una norma della Carta che non rispecchia una norma imperativa comporterà l’illiceità e non l’automatica nullità del trattato stesso. In questo secondo caso, toccherà agli Stati parti estinguere il trattato o sospenderne l’efficacia per regolarizzare la loro posizione nei con- fronti dell’ONU. 8.4. Le norme imperative sui diritti fondamentali La categoria di norme di ius cogens più frequentemente menzionate nella giurisprudenza. Non tutti i diritti umani sono tutelati da norme di carattere imperativo. Esiste un nucleo più ristretto di diritti umani che devono essere rispettati in qualunque situazione, quali il diritto alla vita, il divieto di genocidio, di schiavitù, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Diritti fondamentali protetti da norme imperative sono molti di quelli contemplati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; dalle Convenzioni di Ginevra per la protezione delle vittime di guerra del 1949 e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966. Sentenza della Corte delle CE (Grande Sezione) nel caso Kadi del 3 settembre 2008: menziona le “norme imperative che riguardano la tutela universale dei diritti dell’uomo”. La Francia, i Paesi Bassi, il Regno Unito e la stessa Commissione europea, intervenendo nel procedimento Kadi, hanno escluso che i diritti umani oggetto della causa, il diritto a un equo processo e il diritto al rispetto della proprietà, fossero riconducibili alla categoria dello ius cogens. Una norma dovrebbe essere qualificata come ius cogens solo qualora non ammetta alcuna deroga, mentre – si rileva – i diritti fatti valere nella fattispecie sono oggetto di limiti e di eccezioni. 8.5. Il divieto di tortura Numerose sentenze si riferiscono al divieto di tortura. Sentenza del 22 settembre 2006 relativa al caso Goiburú e altri c. Paraguay: la Corte interamericana dei diritti dell’uomo ha dichiarato la responsabilità internazionale del Paraguay per le sparizioni forzate e gli atti di tortura commessi durante la dittatura di Alfred Stroessner dagli anni ’50 agli anni ’90. Secondo i giudici, il divieto di sparizione forzata e di tortura e il correlativo dovere di indagare e perseguire i suoi responsabili hanno assunto il carattere di ius cogens, in quanto norme che tu- telano gli interessi dell’intera comunità internazionale trascendono quelli dei singoli Stati. Rientrano inoltre nel contesto delle norme imperative quelle che riguardano il divieto di genocidio e degli altri comportamenti che sono qualificati come crimini contro l’umanità. La Camera di prima istanza del Tribunale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia, nella sentenza del 14 gennaio 2000 nel caso Prosecutor v. Kupreki et al. valutando gli attacchi commessi contro la popolazione musulmana, ha affermato che le norme che vietano i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio hanno natura cogente nel senso di norme non derogabili. Le norme imperative mantengono tale natura anche se contenute in un trattato internazionale e, in caso di violazione di una norma cogente contenuta in un trattato, è esclusa la possibilità per gli altri Stati di far valere la violazione ai fini della sospensione o dell’estinzione del trattato stesso. Nella sentenza del 3 febbraio 2006 relativa alle Attività armate sul territorio del Congo (Repubblica Democratica del Congo c. Ruanda), la CIG ha affermato che la Convenzione del 1948 contiene norme imperative del diritto internazionale, come di fatto è la norma che vieta il genocidio. L’enucleazione dell’identità delle norme imperative del diritto internazionale avviene quindi attraverso la prassi internazionale, che ci aiuta a determinarne progressivamente il contenuto. 9. I rapporti fra le norme consuetudinarie e convenzionali 9.1. I trattati come diritto speciale Le norme derivanti da accordi hanno in genere un’efficacia normativa equivalente a quella delle regole consuetudinarie. Sebbene i trattati derivino la loro forza vincolante da una regola consuetudinaria, ciò non si traduce infatti in un rapporto di subordinazione dei trattati alla consuetudine. Nel diritto internazionale, il principio generale è quello della derogabilità reciproca delle norme consuetudinarie rispetto a quelle convenzionali, sicché un trattato può validamente porre una regolamentazione difforme da quella consuetudinaria. Nella pratica, il diritto convenzionale, in quanto diritto speciale, trova applicazione più frequente delle norme generali. Art. 38 dello Statuto della CIG > nel determinare il diritto applicabile dalla Corte per la soluzione delle controversie, menziona al primo posto “le convenzioni internazionali sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite”. Quindi, due o più Stati possono accordarsi fra loro allo scopo di introdurre deroghe a una norma consuetudinaria nei loro reciproci rapporti o di modificare precedenti trattati fra loro vigenti. Si pensi alla norma consuetudinaria relativa ai diritti di pesca nel mare territoriale. Il diritto internazionale generale conferisce allo Stato costiero un diritto esclusivo di pesca nelle acque che fanno parte del suo mare territoriale come espressione della sovranità che esso esercita su tale zona marittima, che può avere un’estensione massima di 12 miglia a partire dalla linea della costa. Tuttavia, numerosi sono gli accordi bilaterali con i quali Stati costieri autorizzano le navi da pesca battenti bandiera di altri Stati a esercitare la pesca nelle proprie acque territoriali. In questo caso il trattato deroga alla consuetudine generale di carattere dispositivo e, in caso di controversia, avrà la precedenza nella soluzione della vicenda. 9.2. Norme consuetudinarie che modificano trattati Allo stesso modo, una norma consuetudinaria può abrogare o modificare un trattato fra due o più Stati. Nel sistema delle Nazioni Unite, una modifica consuetudinaria ha riguardato l’art. 27 par. 3 della Carta, nel senso che le decisioni del Consiglio di sicurezza su questioni non procedurali possono essere adottate anche con l’astensione di Membri permanenti; il veto è inteso quindi esclusivamente come voto negativo. La CIG ha confermato, nel parere del 21 giugno 1971 sulle Conseguenze giuridiche per gli Stati della continuata presenza del Sud Africa in Namibia (Sud-Ovest africano) nonostante la risoluzione 276 (1970) del Consiglio di sicurezza, che tale interpretazione è stata generalmente accettata dai Membri delle Nazioni Unite e costituisce prova di una pratica generale dell’Organizzazione accettata come diritto. In altri casi ci troviamo di fronte a una semplice prassi applicativa consolidata. Secondo il parere della Corte internazionale di giustizia sulle Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, del 9 luglio 2004, l’interpretazione dell’art. 12 par. 1 della Carta è evoluta nel tempo per effetto di una crescente tendenza dell’Assemblea e del Consiglio a esaminare parallelamente una stessa questione. Tale prassi consolidata, che consente all’Assemblea generale di fare raccomandazioni riguardo a una controversia o situazione anche durante l’esercizio da parte del Consiglio di sicurezza delle sue funzioni rispetto a tale controversia, deve essere considerata compatibile con la Carta, ma non equivale a una modifica consuetudinaria. Anche in altri settori del diritto internazionale si è verificata la formazione di norme consuetudinarie successive dirette a modificare precedenti regimi contenuti in trattati internazionali. Questo fenomeno si è prodotto soprattutto nel settore del diritto del mare. Il Tribunale arbitrale anglo-francese, nella decisione 30 giugno 1977, relativa al caso della Delimitazione della piattaforma continentale fra il Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda e la Francia (Regno Unito, Francia) ha riconosciuto l’importanza dell’evoluzione del diritto consuetudinario stimolata dal lavoro della Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Peraltro la conclusione della CIG è stata che la Francia e il Regno Unito, come altri Stati, avevano fatto riferimento alla Convenzione sulla piattaforma continentale del 1958 come a un trattato in vigore e che, conseguentemente, non vi erano indicazioni conclusive circa l’intenzione delle Parti di considerare quella Convenzione obsoleta e non più applicabile rispetto alla controversia. In definitiva, poiché trattati (diritto internazionale particolare) e consuetudine (diritto internazionale generale) sono su un piano di parità ed hanno il medesimo rango, i rapporti tra le norme prodotte dalle due fonti sono retti dai principi generali che in tutti i sistemi giuridici disciplinano i rapporti fra norme promananti da fonti equi- parate. I principi generali relativi alla successione delle norme nel tempo sono i seguenti: la norma successiva prevale sulla precedente; la norma successiva di carattere generale non deroga alla precedente speciale; la norma speciale prevale sulla norma generale. Quindi, nel ricostruire i rapporti tra norme consuetudinarie internazionali e norme internazionali convenzionali, tra consuetudine e accordo, si deve tenere presente il principio per cui al carattere generale delle norme consuetudinarie si contrappone quello particolare, e quindi speciale, delle norme pattizie. Le norme consuetudinarie sono generali, come si è detto, in quanto si indirizzano a tutti gli Stati, mentre le norme convenzionali sono speciali in base alla loro sfera soggettiva d’efficacia, limitata alle sole parti contraenti, e in base al loro contenuto. In conclusione, diritto consuetudinario e diritto convenzionale s’integrano e si condizionano a vicenda, interagendo nelle materie più varie. 11. L’accordo come fonte secondaria 11.1. Gli elementi costitutivi dell’accordo L’accordo è fonte secondaria del diritto internazionale, in quanto la sua giuridicità è basata sulla norma pacta sunt servanda, di natura con- suetudinaria, dalla quale desume l’idoneità a creare norme giuridi- che vincolanti tra le parti. L’accordo è un atto giuridico, in quanto con- sta di due o più dichiarazioni di volontà di soggetti internazionali, alle quali il diritto ricollega effetti giuridici corrispondenti alle volon- tà manifestate. Se le Parti sono due ci troviamo di fronte a un accordo bilaterale, se sono più di due l’accordo è multilaterale.Le norme derivanti da accordo sono dette pattizie, convenzionali o particolari. L’ultima qualificazione – norme particolari – si riferisce alla sfera soggettiva d’efficacia dell’accordo che è limitata alle sole parti contraenti e distingue gli accordi dalle consuetudini, che creano invece norme generali, indirizzate a tutti i soggetti del diritto internazionale.possiamo rilevare che l’ac- cordo consta di due o più manifestazioni di volontà che presentano la caratteristica di essere reciproche, quindi destinate a incontrarsi, in quanto ogni dichiarazione è rivolta all’altro soggetto, e di avere iden- tico contenuto (consensus in idem). L’accordo tra le parti verte quindi sullo stesso testo, che entrambe accettano come disciplina obbligato- ria nei loro reciproci rapporti.Il procedimento dal quale trae vita l’accordo, considerato nella sua struttura essenziale, presenta quindi marcate analogie con il contratto del diritto interno.L’analogia termina qui:Il contratto è quindi mera fonte di obbligazioni, dalla quale discendono situazioni giuridiche soggettive per le parti, ma non nascono regole di diritto. Nel diritto internazionale invece, il trattato è fonte di norme giuridiche, fonte del diritto internazionale particolare. Le regole generali sulla formazione, validità ed estinzio- ne dei trattati, codificate nella Convenzione di Vienna sul diritto del 1969, contemplano l’accordo come strumento per produrre, modifi- care o estinguere norme giuridiche, indipendentemente dallo specifi- co contenuto del trattato stesso. 12. Varie categorie di trattati 12.1. I trattati multilaterali generali In passato era stata prospettata in dottrina la distinzione (Triepel), fra il trattato-contratto (traités-contrats), generatore di meri rapporti obbligatori tra le parti e che risulterebbe da volontà aventi diverso contenuto, e il trattato a efficacia generale, o trattato-legge (traités- lois), costituito dalla riunione di volontà identiche e fonte invece di norme giuridiche. Una distinzione diversa, ma per certi versi analoga, è stata riproposta anche dalla dottrina contemporanea in relazione alla categoria dei “law-making treaties”, che hanno tendenza all’uni- versalità e sono conclusi allo scopo di porre norme generali di con- dotta tra un numero considerevole di Stati, in qualità di embrionale legislazione internazionale. Questi trattati sarebbero da contrapporre ai “treaty-contracts”, che si applicano invece nelle relazioni tra un numero limitato di Stati ed hanno ad oggetto scambi di utilità.Il concetto di “law-making treaties” è stato ripreso anche in riferimento a taluni trattati globali, come quelli ambientali di portata uni- versale, che hanno l’obiettivo di porre regimi giuridici diretti a risol- vere o mitigare problemi ambientali di dimensioni ed effetti mondialiNei trattati globali sono spesso presenti obblighi assoluti, relativi a comportamenti che gli Stati contraenti de- vono tenere nei confronti di tutti gli Stati, anche quelli estranei al trat- tato (v. il regime internazionale di protezione dell’ozonosfera).riteniamo tuttavia che tali di- stinzioni non incidano sulla loro natura giuridica, assimilabile a quel- la di tutti gli altri trattati internazionali.Nel suo Progetto di articoli del 1962 sul diritto dei trattati, la CDI aveva identificato in un primo tempo la categoria dei “trattati multilaterali generali” meritevoli di considerazione speciale e li aveva definiti come quei trattati multila- terali che riguardano norme generali del diritto internazionale o di- sciplinano materie d’interesse generale per gli Stati considerati nel loro complesso. Peraltro, questo riferimento fu eliminato dal progetto finale e la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 non ha accolto questa distinzione. In realtà il trattato è sempre fonte in senso formale di regole giuridiche e non di meri rapporti obbligatori fra le parti.La presenza di obbli-ghi solidali nei trattati multilaterali comporta tuttavia, come si dirà, alcune conseguenze giuridiche (infra). 12.2. Trattati e obblighi erga omnes partes i trattati volti a tutelare beni e valori d’interesse comune ad un gruppo nume- roso di Stati – come i trattati in tema di diritti umani e di protezione dell’ambiente – si caratterizzano per il fatto di creare tra le parti dirit- ti e obblighi erga omnes partes, il cui esercizio è opponibile o il cui a- dempimento è dovuto da ciascun Contraente nei confronti di tutti gli altri. Nella sentenza relativa all’affare tra Belgio e Spagna Barcelona Traction Light and Power Company, Limited del 5 febbraio 1970 (secon- da fase), la CIG ha rilevato che i diritti fondamentali della persona umana, compresa la protezione contro la pratica della schiavitù e la discriminazione razziale, si sono integrati nel diritto internazionale generale, mentre altri sono conferiti da strumenti internazionali di carattere universale o quasi universale. Vista l’importanza dei diritti in causa tutti gli Stati possono essere considerati come aventi un inte- resse giuridico a che tali diritti siano protetti; gli obblighi di cui si tratta sono quindi obblighi erga omnes 34.Anche il Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per fatti internazionalmente illeciti, approvato dalla Commissione del diritto internazionale nel 2001, affronta questo argomento e stabilisce che la responsabilità di uno Stato per aver commesso un fatto illecito può essere invocato da ogni altro Stato diverso dallo Stato vittima della violazione: se l’obbligo violato è dovuto nei confronti di un gruppo di Stati compreso lo Stato vittima ed è stabilito per la protezione di un interesse collettivo del gruppo; se l’obbligo violato è dovuto nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso. 12.3. I core treaties dell’ONU Ma quali sono i trattati che pongono obblighi erga omnes partes e sono diretti a tutelare interessi collettivi della comunità internaziona-In questa categoria va compreso quel gruppo di “core treaties” iden- tificati dal Segretario generale dell’ONU, tra quelli rispetto ai quali funge da depositario, come rappresentativi degli obiettivi chiave del- l’Organizzazione. Nella lettera inviata il 15 maggio 2000 in previsio- ne del Vertice del Millennio del 6-8 settembre, Kofi Annan incorag- giava i Capi di Stato e di governo membri delle Nazioni Unite a fir- mare i trattati depositati presso il Segretariato, in particolare quelli più vicini allo spirito e agli scopi della Carta dell’ONU, una lista com- prendente venticinque trattati. L’elenco comprende tredici trattati in materia dei diritti umani, uno che riguarda i rifugiati, tre la giustizia penale internazionale, cinque il disarmo, tre la tutela dell’ambiente. È corretto ritenere che fra questi trattati sono compresi alcuni strumen- ti che riflettono norme imperative del diritto internazionale, mentre la maggioranza contengono sicuramente obblighi erga omnes partes. 12.4. Trattati a vocazione universale e trattati regionali Si distingue anche fra trattati a tendenza universale e trattati a carat- tere regionale. Nella prima categoria rientrano i trattati istitutivi di or- ganizzazioni internazionali a vocazione universale, come la Carta delle Nazioni Unite e gli statuti degli istitutivi specializzati delle Nazioni Unite, nonché quelli che disciplinano materie d’interesse comune a tutti gli Stati. Ai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali fa riferimento l’art. 5 della Convenzione di Vienna del 1969, stabilendo di applicarsi a qualsiasi trattato che rappresenti l’atto costitutivo di un’organizzazione internazionale, senza pregiudizio delle norme pertinenti dell’organizzazione.I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali vengono spesso qualificati trattati-costituzione, perché danno vita a strutture istituzio- nali permanenti, dotate di una soggettività internazionale distinta da quella degli Stati membri. Così la CIG ha messo in luce le caratteristi- che speciali della Carta dell’ONU in quanto trattato multilaterale isti- tutivo della più importante organizzazione a vocazione universale econ fini generali operante in ambito internazionale. Nel parere dell’8 luglio 1996, relativo alla Liceità dell’uso delle armi nucleari da parte di uno Stato in un conflitto armato, i trattati istitutivi di organizzazioni in- ternazionali sono qualificati come trattati multilaterali di un tipo par- ticolare, che possiedono carattere allo stesso tempo convenzionale e i- stituzionale 35. Il carattere convenzionale deriva dal fatto che essi attri- buiscono, come gli altri trattati, diritti e obblighi agli Stati membri, mentre quello istituzionale dalla circostanza che hanno ad oggetto la creazione di nuovi soggetti di diritto, ai quali le parti affidano la rea- lizzazione di scopi comuni. Tali caratteristiche non mutano tuttavia la natura giuridica dei trat- tati istitutivi di organizzazioni internazionali e della Carta delle Na- zioni Unite, che restano trattati internazionali soggetti, come gli altri, al regime comune dei trattati, salvo le regole pertinenti applicabili. 13. Le convenzioni di codificazione del diritto internazionale L’art. 13 par. 1 a) della Carta delle Nazioni Unite attribuisce all’As- semblea il compito di intraprendere studi e fare raccomandazioni al- lo scopo di incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione.l’Assemblea si avvale della Commissione del diritto internazio- nale, organo sussidiario permanente istituito con la risoluzione 174 (II) del 21 novembre 1947, incaricato di predisporre progetti su mate- rie di diritto internazionale che spetta all’Assemblea generale in- dicare.Alcune convenzioni di codificazione sono state adottate dall’Assemblea generale o da una conferenza diplomatica appositamenteconvocata dallo stesso organo plenario, sulla base di progetti predi- sposti dalla CDI.Fra i progetti di convenzione, ricordiamo: le quattro Convenzioni di Gi- nevra sul diritto del mare del 29 aprile 1958; la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961; la Convenzione di Vienna sulle re- lazioni consolari del 24 aprile 1963; la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969; la Convenzione di New York sulle missioni spe- ciali del 16 dicembre 1969;La stessa CDI ha adottato invece progetti di articoli in materia di re- sponsabilità internazionale degli Stati per fatti illeciti (2001), preven- zione dei danni transfrontalieri derivanti da attività pericolose (2001), protezione diplomatica (2006), responsabilità per danni transfronta- lieri causati da attività pericolose (2006),Si tratta di strumenti non vincolanti che sono stati talvolta annessi in allegato a risoluzioni non vincolanti dell’Assemblea generale, talvolta sempli- cemente oggetto di una presa d’atto della stessa Assemblea, che ne raccomanda la diffusione. Lo stesso vale per i Principi guida applicabili alle dichiarazioni unilaterali degli Stati capaci di creare obblighi giuridici adottati dalla CDI nel 2006 e per la Guida alla pratica sulle riserve ai trattati del 2011. Altre convenzioni di codificazione sono adottate direttamente da speciali conferenze diplomatiche convocate dall’Assemblea generale, senza il previo esame da parte della CDI. È questo il caso della Convenzione di Montego Bay del 30 aprile 1982 sul diritto del mare, a- dottata dalla Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del ma- re ed entrata in vigore nel 1994. 14. I regimi convenzionali self-contained Accanto a queste impostazioni che tendono a valorizzare una vi- sione unitaria e sistematica dei più importanti trattati a vocazione u- niversale, altri sottolineano invece la frammentarietà del diritto convenzionale odierno,caratterizzato dall’emergere e dal consolidarsi di sistemi giuridici particolari contrassegnati dallo sviluppo di regole materiali speciali e da meccanismi di accertamento e garanzia delle norme che si differenziano da quelle del diritto generale. Il riferimen- to è ai c.d. self-contained regimes, autosufficienti per quanto riguarda la sostanza e le regole sulla responsabilità. Ora, nel diritto internazio- nale esistono sistemi speciali di diritto convenzionale, nell’ambito dei quali vigono regole che derogano alle norme generali, regole che pos- sono riguardare anche le conseguenze della violazione di obblighi in- ternazionali e la materia della responsabilità. Così, il regime interna- zionale delle telecomunicazioni quale disciplinato dalla Costituzione e dalla Convenzione dell’Unione internazionale delle telecomunica- zioni (ITU), insieme ai collegati Regolamenti amministrativi di natu- ra pattizia, costituisce un regime giuridico speciale, ma non un regi- me self-contained. Anche laddove sono previste norme speciali di na- tura secondaria, nulla esclude che le Parti ricorrano alle norme gene- rali in tema di responsabilità internazionale se lo ritengono opportu- no. La tesi dei regimi convenzionali autosufficienti non sembra quin- di convincente. Capitolo III IL DIRITTO DEI TRATTATI ALLA LUCE DELLA CONVENZIONE DI VIENNA 1. Il negoziato della Convenzione 1.1. Un trattato sui trattati il regime ap- plicabile ai trattati come atti giuridici che nascono dall’incontro di ma- nifestazioni di volontà degli Stati contraenti.ha cono- sciuto un processo di codificazione i cui risultati sono confluiti nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. La storia della Convenzione rimonta al 1949, quando la CDI preparò una lista di priorità a proposito delle materie da codificare, in capo alla quale fi- gurava il diritto dei trattati. I lavori iniziarono però nel 1961, quando, con il rapporto di Sir Humphrey Waldock, si consolidò l’idea di una codificazione in senso proprio, sotto forma di una convenzione. I mo- tivi di questa scelta sono da collegare ai profondi mutamenti interve- nuti nella comunità internazionale dopo la decolonizzazione. Gli Stati nuovi, infatti, avevano avanzato l’esigenza di ridiscutere i contenuti del diritto internazionale consuetudinarioFu così assunta la decisione di elaborare un trattato sui trattati (treaty on treaties), diretto a codificare, e sviluppare progressivamente, le regole generali del diritto internazionale in materia di formazione, validità ed estinzione dei trattati. Nel 1966, la CDI trasmetteva all’As- semblea generale il progetto finale della Convenzione, in 75 articoli,affinché fosse convocata una conferenza diplomatica incaricata di esaminare il progetto e di concludere sulla base di esso una conven- zione generale da aprire alla firma e ratifica degli Stati. La Conferen- za si riunì a Vienna con la partecipazione di 110 Stati,Il 23 maggio 1969, la Convenzione veniva aper- ta alla firma degli Stati fino al 30 aprile 1970. L’entrata in vigore richiedeva un minimo di 35 ratifiche o adesioni: tale condizione si è realizzata il 27 gennaio 1980. Al maggio 2013, le Parti contraenti era- no 113, tra le quali l’Italia, con altri 45 paesi solo firmatari, come gli Stati Uniti.Come ha rilevato Roberto Ago, un trattato contenente le norme fondamentali sulla conclusione, la validità, gli effetti, l’interpretazio- ne, la nullità e l’estinzione dei trattati era destinato a collocarsi tra gli strumenti d’importanza costituzionale per il sistema giuridico della comunità internazionale. La Convenzione contiene sia la trascrizione di norme consuetudinarie, obbligatorie erga omnes, che disposizioni innovative, obbligatorie solo tra gli Stati contraenti.I trattati internazionali sono identificati dalla denominazione (es. accordo sulle doppie imposizioni fiscali), dalla data in cui il testo è stato adottato a chiusura dei negoziati e dal luogo in cui è stato adottato. 1.3. La struttura della Convenzione La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati consta di un pre- ambolo e di 85 articoli, distribuiti in 8 parti di ampiezza ineguale. Le parti più estese e importanti della Convenzione,la II (conclusione ed entrata in vi- gore dei trattati, artt. 6-25); la III (rispetto, applicazione e interpreta- zione, artt. 26-38); la V (nullità, estinzione e sospensione, artt. 42-72).Queste parti regolano tutta la dinamica dell’atto e i suoi effetti – com- preso il momento interpretativo – sino al venir meno di tali effetti, nonché la patologia dell’atto (cause d’invalidità) e le conseguenze che ne scaturiscono. 1.4. Gli effetti della guerra sui trattati Non sono compresi gli effetti della guerra sui trattati (art. 73). Al riguardo, va detto che la guerra ha di norma la conseguenza di so- spendere e non di estinguere i trattati. La prassi degli scambi di note per la rimessa in vigore di trattati la cui efficacia era stata sospesa du- rante il conflitto è sufficientemente consolidata. I conflitti armati in- ternazionali possono però costituire l’occasione per l’operare di cause estintive di diversa natura, come l’accordo abrogativo tacito o il mu- tamento fondamentale delle circostanze. 2. I procedimenti di formazione dei trattati 2.1. Il perfezionamento dei trattati La formazione (conclusione o perfezionamento) del trattato si ha quan- do si determina la convergenza tra le manifestazioni di volontà di due o più Stati, ciascuno dei quali consente, nei confronti dell’altro o degli altri, a essere vincolato dalle disposizioni del trattato.In materia di procedimenti di formazione dei trattati, la Convenzione accoglie il principio della libertà delle forme e non preferisce nessuno dei procedimenti tipici di conclusione utilizzati nella pratica interna- zionale. Il diritto internazionale generale non impone, infatti, una for- ma determinata in cui le singole volontà da cui l’accordo è costituito debbano essere manifestate. L’art. 11 elenca i modi di espressione del consenso a essere vincolato dal trattato, senza dare la preferenza al- l’uno o all’altro. 2.2. Trattati in forma solenne La prassi internazionale consente peraltro di distinguere fra tratta- ti conclusi in forma solenne e accordi conclusi in forma semplificata. I primi implicano un procedimento caratterizzato da due fasi. La prima è quella della negoziazione, che si conclude con l’adozione del progetto di trattato e la sottoscrizione, definitiva o ad referendum, dello stesso da parte dei plenipotenziari. In caso di trattati multilaterali, dopo la chiusura dei negoziati il testo del trattato è adottato o con il consenso di tutti gli Stati o, nel caso di una conferenza internaziona- le, con la maggioranza dei due terzi degli Stati presenti e votanti (art. 9 della Convenzione). Segue l’apertura del trattato alla firma degli Stati.Nei trattati che seguono la procedura solenne, la firma indica che il progetto è accettato nel testo definitivo ne varietur, nel senso che da quel momento non può essere modificato.La seconda fase è quella della ratifica, strumento attraverso il quale gli Stati manifestano la volontà di obbligarsi sul piano internazionale in conformità al trattato. Il tempo tra la firma e la ratifica consente agli Stati di adempiere le procedure costituzionali previste dai rispet- tivi diritti interni, in particolare di sottoporre il progetto di trattato al controllo parlamentare prima di impegnarsi in via definitiva. Lo scambio degli strumenti di ratifica determina in generale l’entrata in vigore del trattato e, in caso di trattati multilaterali a formazione pro- gressiva, può essere sostituito dal deposito dello strumento stesso presso il soggetto che funge da depositario. 2.3. Gli accordi in forma semplificata perfezionamento del tratta- to si realizza, al termine dei negoziati, con la sottoscrizione dei plenipotenziari, che vale come manifestazione di volontà diretta a stipula- re (art. 12). Una forma semplificata particolare è lo scambio di note, previsto dall’art. 13 della Convenzione, dove l’accordo risulta da dichiarazioni di volontà contenute in distinti documenti, ciascuno dei quali è da una parte contraente diretto all’altra. Di regola, è lo stesso trattato che stabilisce, in una delle sue clauso- le finali, quale procedimento i contraenti hanno scelto per la conclu- sione del trattato.Un esempio di clausola finale contenuta in un trattato da concludersi in forma solenne è l’art. 30 della Convenzione italo-svizzera sulle doppie imposizioni fiscali del 9 marzo 1976, il quale stabilisce: “La presente Convenzione sarà ratificata e gli strumenti di ratifica saranno scambiati a Berna appena possibile. La presente Convenzione entrerà in vigore alla data dello scambio degli strumenti di ratifica”. La conclusione della Convenzione è intervenuto a Berna il 9 marzo 1976; lo scambio degli strumenti di ratifica il 27 marzo 1979 e l’en- trata in vigore nella stessa data dello scambio. Viceversa, l’Accordo italo- spagnolo per la soppressione della legalizzazione degli atti dello stato civile del 1993 contiene una clausola in favore della forma semplificata: “Il presente accordo entrerà in vigore alla data della sua sottoscrizione”.Qualora il trattato non contenga una disposizione espressa al ri- guardo (ma si tratta di casi non frequenti), la volontà delle parti circa la procedura di stipulazione da seguire andrà ricavata dagli elementi del caso. Questo vuol dire che il diritto internazionale non privilegia nessuna delle procedure menzionate e non contiene una norma sup- pletiva a favore del procedimento solenne della ratifica. 2.4. Le varianti: accettazione, approvazione e adesione Le procedure tipiche, solenne e semplificata, conoscono nella pra- tica alcune varianti, alle quali fanno riferimento le norme della Con- venzione di Vienna relative ai modi di esprimere il consenso a obbligarsi.Alla ratifica, disciplinata dall’art. 14, sono assimilate l’accettazione e l’approvazione, mentre l’art. 15 si occupa dell’adesione, che riguarda i trattati multilaterali aperti, distinti da quelli chiusi, i quali non consen- tono a Stati diversi da quelli presenti ai negoziati di aderire al tratta- to.La clausola di adesione consente a Stati diversi da quelli che hanno partecipato ai negoziati, di aderire a esso in un momento successivo, mediante una dichiarazione di volontà che avviene tramite il deposi- to dello strumento d’adesione. L’adesione ha quindi la stessa natura della ratifica. La clausola di adesione consente a Stati diversi da quelli che hanno partecipato ai negoziati, di aderire a esso in un momento successivo, mediante una dichiarazione di volontà che avviene tramite il deposi- to dello strumento d’adesione. L’adesione ha quindi la stessa natura della ratificaPoiché la clausola di adesio- ne ha il valore di offerta, e l’adesione di accettazione, è evidente che si ha un’ipotesi di formazione progressiva dell’accordo, in cui non c’è contemporaneità tra le varie manifestazioni di volontà.Infine, i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali prevedo- no la procedura dell’ammissione, che comporta una domanda da parte dello Stato interessato e l’accettazione degli Stati già parti al trattato, contenuta in una specifica delibera sociale.In sostanza, la prassi ci indica che le procedure utilizzate dagli Sta- ti per la conclusione dei trattati sono le più varie e dipendono dalla libera scelta dei contraenti. Le procedure per la conclusione dei trat- tati multilaterali possono essere particolarmente complesse.La Convenzione sulla diversità biologica è stata adottata a Nairobi il 22 maggio 1992, aperta alla firma a Rio de Janeiro il 5 giugno successivo ed è entrata in vigore il 29 dicembre 1993, vale a dire il trentesimo giorno dopo il deposito della trentesima ratifica. L’art. 34 stabiliva al riguardo che gli Stati potessero esprimere il consenso a vincolarsi tramite ratifica, accettazione o approvazione. L’Accordo tra gli Stati Uniti e la Polonia del 2008 per la collo- cazione in Polonia d’intercettori di missili balistici stabilisce, all’art. 16, una procedura ancora diversa da quelle finora esaminate, che fa coincidere l’en- trata in vigore dell’Accordo con la data dell’ultima notificazione con cui le parti s’informano che tutte le procedure interne necessarie al perfeziona- mento dell’Accordo sono state adempiute. 2.5. L’entrata in vigore L’entrata in vigore, a partire dalla quale il trattato esplica efficacia giuridica, può tuttavia essere differita nel tempo rispetto al perfezio- namento e intervenire in un momento successivo: essa è infatti stabi- lita dalle clausole finali del trattato stesso, che possono stabilire un termine iniziale d’efficacia, vale a dire una data precisa, oppure su- bordinare l’entrata in vigore al verificarsi di un evento futuro e incer- to (condizione sospensiva). Mentre gli accordi bilaterali in forma sem- plificata entrano di norma in vigore all’atto della firma e quelli con- clusi in forma solenne al momento dello scambio delle ratifiche, i trat- tati multilaterali stabiliscono spesso che la loro entrata in vigore sia subordinata al deposito di un numero minimo di ratifiche. Più sono le ratifiche richieste, più tempo sarà necessario per l’entrata in vigore del trattato. L’entrata in vigore della stessa Convenzione di Vienna era condizionata a un minimo di 35 ratifiche o adesioni e tale condi- zione si è realizzata soltanto il 27 gennaio 1980. 2.6. L’applicazione provvisoria L’applicazione provvisoria di un trattato prima della sua entrata in vigore è conosciuta, ma non frequente, nei procedimenti di forma- zione degli accordi internazionali.Essa è disciplinata dall’art. 25 del- la Convenzione di Vienna, secondo il quale un trattato o una parte di un trattato si applica a titolo provvisorio in attesa della sua entrata in vigore se è il trattato stesso a stabilirlo o se gli Stati che hanno parte- cipato alla negoziazione hanno, in altra maniera, convenuto in tal senso.Nella prassi, l’applicazione provvisoria (totale o parziale) di un trattato si ha generalmente quando vi è necessità dell’immediata entrata in vigore delle disposizioni convenzionali, o di alcune di esse, senza attendere il completamento delle procedure richieste. L’appli- cazione provvisoria è considerata oggetto di un accordo preliminare in forma semplificata tra gli Stati firmatari (in caso di emendamenti a trat- tati multilaterali, tra gli Stati già parti).dal punto di vista del diritto interno degli Stati contraenti possono porsi problemi di conformità alle regole sulla competenza a stipulare i trat- tati 2.Nel caso del Trattato sul bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT), aperto alla firma il 24 settembre 1996 e ratificato da 148 Stati, mancano an- cora all’appello alcuni dei 44 Stati con capacità nucleare avanzata alla cui ra- tifica l’art. 14 subordina l’entrata in vigore. Il Trattato non contiene disposi- zioni sull’applicazione provvisoria, né una formale decisione in tal senso è stata adottata dagli Stati che l’hanno finora accettato. Tuttavia, fin dal 1996 il Trattato riceve una sorta di applicazione provvisoria, a seguito della crea- zione della Commissione preparatoria per l’Organizzazione del Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari, che ha come scopo principale la messa in opera del sistema di verifica in modo che sia operativo quando il Trattato entrerà in vigore. 2.7. Obblighi tra la firma e la ratifica L’art. 18 della Convenzione sancisce l’obbligo degli Stati che han- no accettato un trattato di non privarlo del suo oggetto o del suo sco- po nel periodo tra la firma e l’entrata in vigore.Si tratta di un corolla- rio del principio di buona fede, che permea l’intera materia del dirit- to dei trattati. Così, gli Stati Uniti, che nel 2000 avevano firmato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale del 1998, hanno ri- tirato nel maggio 2002 tale sottoscrizione, per evitare di venire meno all’impegno sancito dall’art. 18 della Convenzione di Vienna rispetto a un trattato nei cui confronti continuano a mantenere ampie riserve politiche e che non intendono ratificare. 3. I pieni poteri 3.1. I plenipotenziari Connessa ai procedimenti di formazione dei trattati è la questione dei pieni poteri, vale a dire dei poteri conferiti alle persone fisiche (plenipotenziari), che sono abilitate a rappresentare lo Stato nella negoziazione e conclusione dei trattati. L’art. 2 lett. c) della Convenzio- ne così definisce i pieni poteri: “l’espressione ‘pieni poteri’ indica un do- cumento emesso dall’autorità competente di uno Stato e che designa una o più persone a rappresentare lo Stato per la negoziazione, l’adozione o l’au- tenticazione del testo di un trattato, per esprimere il consenso di uno Stato ad essere obbligato da un trattato o per compiere qualsiasi altro atto che si riferisca al trattato”.Una persona è considerata rappresentante di uno Stato per l’una o per l’altra delle ipotesi ricor- date se esibisce i dovuti pieni poteri. I plenipotenziari devono presen- tare i loro “pieni poteri” all’inizio dei negoziati, in modo che sia nota a ciascuno dei partecipanti l’ampiezza del mandato loro attribuito ai fini della conclusione di un trattato. I pieni poteri sono rilasciati dal Capo dello Stato o dal Ministro degli affari esteri. 3.2. La presunzione di competenza La competenza di alcuni organi apicali a vincolare lo Stato sul pia- no internazionale è presunta e, pertanto, essi non sono tenuti a esibi- re i pieni poteri. Sono considerati, infatti, rappresentanti dello Stato in base delle loro funzioni: i Capi di Stato, i Capi di governo e i Mini- stri degli affari esteri, per tutti gli atti concernenti, la conclusione di un trattato. Invece, hanno competenza presunta anche i capi di missione diplomatica, ma solo per l’adozione del testo di un trattato fra lo Stato accreditante e lo Stato accreditatario, e i rappresentanti degli Stati accreditati a una conferenza internazionale o presso un’organiz- zazione internazionale, per l’adozione del testo di un trattato in quel- la conferenza, organizzazione o organo. Rispetto a tali organi statali esiste quindi una presunzione di competenza iuris tantum, vale a dire fino a che il loro operato non viene sconfessato dall’organizzazione dello Stato.Qualche parola merita anche la figura del depositario dei trattati multilaterali. Possono infatti fungere da depositari uno o più Stati, un’organizzazione internazionale o il principale funzionario ammini- strativo di una tale organizzazione, come il Segretario generale del- l’ONU. Di regola, il depositario assicura la custodia del testo origina- le del trattato e ne redige copie conformi; riceve le sottoscrizioni del trattato, le adesioni di nuovi Stati o il recesso di uno Stato parte e ne informa le parti; infine, tocca al depositario provvedere alla registra- zione del trattato presso il Segretariato dell’ONU. 4. Il treaty-making power 4.1. La competenza a stipulare nella Costituzione italiana In Italia la materia è regolata dagli artt. 80 e 87 Cost. La ratio delle norme della Costituzione italiana in tema di trattati internazionali è collegata a una duplice esigenza: affermare un ampio controllo delle Camere sull’assunzione degli obblighi in- ternazionali da parte dello Stato, senza estendere nello stesso tempo l’intervento parlamentare a tutti gli accordi internazionali. 4. Il treaty-making power 4.1. La competenza a stipulare nella Costituzione italiana In Italia la materia è regolata dagli artt. 80 e 87 Cost. La ratio delle norme della Costituzione italiana in tema di trattati internazionali è collegata a una duplice esigenza: affermare un ampio controllo delle Camere sull’assunzione degli obblighi in- ternazionali da parte dello Stato, senza estendere nello stesso tempo l’intervento parlamentare a tutti gli accordi internazionali.L’art. 87 dispone che il Presidente della Repubblica ratifica i tratta- ti internazionali previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Ca- mere. L’art. 80 indica a sua volta che le Camere autorizzano con leg- ge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica; prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari; comportano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Deve es- sere chiaro che il Parlamento esercita il suo controllo sulla sti- pulazione dei trattati non attraverso semplici atti d’indirizzo politico, quali mozioni e ordini del giorno, ma con l’adozione di una legge di autorizzazione alla ratifica.Un trattato può rientrare in più d’una delle categorie di accordi in- ternazionali elencati all’art. 80. Tuttavia, la più importante categoria di trattati fra quelle contemplate dall’art. 80 è quella dei trattati che comportano modifiche di legge.La pratica costituzionale italiana vede infatti la legge di autorizzazione alla ratifica contenere anche il provvedimento che ordina la piena e intera esecuzione del trattato nell’ordinamento interno (ordine di esecuzione del trattato). L’au- torizzazione delle Camere rimuove il limite alla competenza del Ca- po dello Stato di ratificare il trattato, e quindi a consentire la conclu- sione di quest’ultimo sul piano internazionale; l’ordine di esecuzione invece, in quanto atto giuridico condizionato, esplica i suoi effetti in un altro momento, quello dell’entrata in vigore del trattato sul piano internazionale. Questa pratica garantisce la contestualità tra il mo- mento dell’assunzione degli impegni internazionali dello Stato e quel- lo dell’adattamento interno per assicurarne l’esecuzione.Va precisato che l’autorizzazione delle Camere è uno strumento con il quale il Parlamento valuta l’opportunità politica che il trattato sia concluso e, quindi, deve essere formulata in termini positivi o negati- vi, essendo un giudizio sulla “bontà” del trattato. Il Parlamento non può quindi introdurre modifiche al trattato che è al suo esame; se re- puta necessarie delle modifiche, allora toccherà al Governo riaprire i negoziati con la o le altre parti per modificare il contenuto del trattato.Casi di questo genere sono comunque rari nella prassi costituzionale ita- liana: 4.3. Gli accordi in forma semplificata La Costituzione italiana nulla dice invece sulla possibilità di con- cludere accordi in forma semplificata, anche se tale facoltà del Gover- no si desume implicitamente dall’art. 80 limitatamente ai trattati che non rientrano in una delle cinque categorie in essa menzionate. Al ri- guardo, chi scrive ha sostenuto da tempo la tesi secondo cui si è da considerare operante una consuetudine costituzionale facoltizzante, il cui esercizio non è quindi obbligatorio, che consente al Governo di concludere in forma semplificata i trattati – in genere accordi ammi- nistrativi che non comportano modifiche di legge – al di fuori della procedura di cui all’art. 80 della Costituzione 3. Il trattato può in que- sto caso essere concluso direttamente dai plenipotenziari attraverso la sottoscrizione o essere ratificato dal Capo dello Stato senza auto- rizzazione parlamentare.Da rigettare è invece la tesi, palesemente eversiva del dettato costi- tuzionale, secondo cui il Governo potrebbe, in base ad una consue- tudine costituzionale, stipulare in forma semplificata ogni trattato, quale ne sia il contenuto. Tra l’altro, se un trattato per la cui esecuzio- ne è necessaria una legge viene stipulato in forma semplificata, la con- seguenza sarà la sua inapplicabilità sul piano del diritto interno e, quindi, la responsabilità internazionale dello Stato per violazione del- l’obbligo di eseguire il trattato in buona fede (art. 26 della Conven- zione di Vienna, Pacta sunt servanda: Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede). Anche il Capo dello Sta- to è chiamato al rispetto dell’art. 87 e a non ratificare trattati senza l’autorizzazione delle Camere quando questa è richiesta. In caso di- verso, si ha un’ipotesi di ratifica impropria, che, oltre alle conseguenze di cui si è detto, può anche essere fatta valere, a determinate condizio- ni, come vizio della volontà dello Stato diretta a stipulare il trattato. 4.4. Il treaty-making power in altre Costituzioni Secondo le norme della Costi- tuzione spagnola del 1978, spetta al Re manifestare il consenso dello Stato a obbligarsi mediante trattati internazionali (art. 63 par. 2), con previa autorizzazione delle Corte per le seguenti categorie di trattati: i trattati di natura politica, quelli di natura militare, i trattati riguar- danti il territorio dello Stato o ai diritti e doveri fondamentali dei cit- tadini, quelli che comportano obblighi per la finanza pubblica e quel- li, infine, che richiedono misure legislative per la loro esecuzione (artt. 9396).Nel Regno Unito, il treaty-making power rientra tra le prerogative della Corona. Rilevante in tale materia è la convenzione costituziona- le non scritta, detta Ponsonby Rule, secondo la quale la maggior parte dei trattati è depositata dinanzi al Parlamento per un periodo di 21 giorni prima della ratifica (procedura di silenzio-assenso). L’11 no- vembre 2010 è entrata in vigore la parte 2 del Constitutional Reform and Governance Act 2010, che riguarda la ratifica dei trattati e pone il controllo parlamentare su tali atti su basi legislative, sostituendo la Ponsonby Rule. Il contenuto è però in sostanza identico. Si richiede che i trattati che non entrano in vigore al momento della sottoscrizio- ne siano depositati di fronte a entrambe le Camere del Parlamento per 21 giorni. Se, durante questo periodo, nessuna delle due Camere decide di respingere la ratifica del trattato, allora il trattato può esse- re ratificato. Se, invece, una delle Camere decide che il trattato non debba essere ratificato, allora occorre seguire le procedure stabilite dall’Act per recuperare l’eventuale assenso delle Camere.Negli Stati Uniti il potere di concludere i trattati è attribuito al Presidente “with the advice and consent of the Senate and the concurrence of two third of the Senators” . Questa regola vale però solo per i “trattati”, mentre gli accordi in forma semplificata, detti Executive Agreements, sono sti- pulati dal Presidente senza l’assenso del Senato. L’elemento caratteristico del sistema americano è che i Presidenti hanno assunto tra le loro prerogative il potere di decidere discrezionalmente, nella gestio- ne della politica estera, se concludere uno strumento internazionale in forma di trattato o di executive agreement, o, ancora nella forma mi- sta di legislative-executive agreement, che richiede l’approvazione di una maggioranza semplice di entrambe le Camere del Congresso.Una formula diversa utilizza la Costituzione francese del 1958, la quale, all’art. 5 par. 2, qualifica il Presidente della Repubblica come “garante … del rispetto dei trattati”. L’art. 52 gli attribuisce la compe- tenza a negoziare e ratificare i trattati, mentre deve essere informato di ogni altro negoziato tendente alla conclusione di un accordo inter- nazionale per il quale non è richiesta ratifica. L’art. 53 identifica le ca- tegorie di trattati che non possono essere ratificati o approvati se non in base ad una legge: sono i trattati di pace e di commercio, i trattati o accordi relativi all’organizzazione internazionale, quelli che impe- gnano le finanze dello Stato, quelli che modificano disposizioni di natura legislativa, quelli riguardanti lo stato delle persone e quelli che comportano cessione, scambio o annessione di territori, che ri- chiedono, inoltre, il consenso delle popolazioni interessate. 5. I trattati relativi all’Unione europea Agli inizi della costruzione europea, gli Stati hanno utilizzato le norme sulla conclusione dei trattati internazionali per la partecipazione alle originarie Comunità (Trattato CECA del 1951, Trattati di Roma CEE ed Euratom del 1957). Man mano che le limitazioni di sovranità sono divenute più incisive, soprattutto ai fini dell’Unione economica e mo- netaria (Trattato di Maastricht del 1992), norme specifiche hanno fat- to la loro comparsa nelle costituzioni degli Stati membri per consen- tire la partecipazione a trattati aventi chiare implicazioni costituzio- nali. Tali norme sono state utilizzate per i successivi sviluppi (Tratta- to di Amsterdam del 1997 e Trattato di Nizza del 2001), fino al Trat- tato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che ha posto a base dell’Unione il Trattato di Unione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE).Nel caso della Costituzione spagnola del 1978, è prevista l’attribu- zione di competenze a un’organizzazione internazionale attraverso un trattato, a condizione che la sua stipulazione sia autorizzata da una legge organica, vale a dire adottata a maggioranza assoluta del Congresso. Si tratta di una procedura speciale, diversa da quella pre- vista dalla stessa Costituzione per la conclusione di trattati interna-zionali che contengano stipulazioni contrarie alla Costituzione. Per queste ultime è necessaria una revisione costituzionale che implica pro- cedure più complesse. Nonostante la legge organica adottata per au- torizzare la ratifica del Trattato di Maastricht, è stata necessaria una modifica della Costituzione per consentire l’eleggibilità di cittadini di altri Stati membri alle elezioni municipali.Altre costituzioni di Stati membri danno piena copertura costitu- zionale ai trattati europei. Nella Legge fondamentale di Bonn è stata invece introdotta una clausola europea con la revisione costituzionale conseguente al Trattato di Maastricht del 1992. L’art. 23 stabilisce che la Repubblica federale tedesca concorre alla realizzazione di un’Eu- ropa unita e, a tal fine, può trasferire, con legge approvata dal Bun- desrat, diritti di sovranità all’UE, che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di diritto e democratico nonché al principio di sus- sidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostan- zialmente paragonabile a quella della Legge fondamentale. L’appro- vazione della Camera che rappresenta i 16 Länder tedeschi diviene, dunque, obbligatoria per ogni progresso della costruzione europea che importi limitazioni di sovranità. I diritti di sovranità di cui si trat- ta sono i poteri esecutivi, legislativi e giudiziari propri della sovrani- tà tedesca, compresi alcuni poteri dei Länder.nel caso della Francia che, all’epoca della ratifica del Tratta- to di Maastricht, ha introdotto nella Costituzione del 1958 un nuovo Titolo XIV sull’UE. L’art. 88-1 stabilisce che “La Repubblica partecipa all’Unione europea, costituita da Stati che hanno scelto liberamente di eser- citare in comune alcune delle loro competenze in virtù del trattato sull’U- nione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, quali risultanti dal trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007”.In Italia la ratifica dei trattati europei ha sempre seguito la proce- dura ordinaria prevista dagli artt. 87 e 80 Cost., vale a dire la legge ordinaria di autorizzazione del Parlamento. Il fondamento costitu- zionale di tali leggi è stato reperito fin dal 1952, in occasione della ra- tifica del Trattato CECA, nell'art. 11 Cost. che consente, in condizioni di parità con altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie a un ordi- namento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. 6. La pubblicità dei trattati 6.1. La registrazione dei trattati In reazione alla diplomazia segreta, il Patto della Società delle Nazioni aveva introdotto la formalità della registrazione della pubblicazione dei trattati (art. 18 del Covenant). L’interpretazione del- l’art. 18 escludeva tuttavia che la formazione o l’efficacia di un tratta- to internazionale dipendessero dalla sua registrazione presso il Se- gretariato della Lega. La mancata registrazione produceva i suoi ef- fetti esclusivamente nell’ambito del sistema giuridico della Società e tali effetti si concretavano nell’impossibilità che il trattato non regi- strato fosse invocato e fatto valere di fronte agli organi della Società.Anche l’art. 102 della Carta delle Nazioni Unite esclude altri effetti della mancata registrazione: i trattati non registrati non sono invoca- bili di fronte agli organi dell'ONU. Né innovazioni di rilievo ha introdotto l’art. 80 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che si limita a confermare, a carico dei contraenti, l’obbligo di regi- strare i trattati stabilito per gli Stati membri dell’ONU dell’art. 102 della Carta. Resta il fatto che gli Stati hanno continuato a stipulare accordi se- greti nei settori della cooperazione militare e di difesa, del commer- cio di materiali d’armamento, dell’energia nucleare, di aspetti particolari delle relazioni economiche. 6.2. I trattati segreti La conclusione di accordi segreti dipende spesso dal fatto che gli Stati contraenti vogliono occultare il loro contenuto perché in contra- sto con altri obblighi internazionali di cui sono titolari. Si pensi agli Accordi di Lisbona del 16-23 giugno e del 17 agosto 1943 tra Gran Bretagna e Portogallo, conosciuti come accordi “Campbell-Salazar”, con i quali il governo britannico otteneva l’uso di basi e facilitazioni militari nelle Azzorre, in considerazione dell’esistente stato di necessità e nonostan- te la neutralità del Portogallo. L’obbligo alla segretezza assunto dai con- traenti con l’art. 9, intendeva evidentemente escludere che fosse noto ai bel-ligeranti che il Portogallo aveva assunto obblighi convenzionali in violazio- ne del regime consuetudinario della neutralità in tempo di guerra, del quale pure intendeva continuare ad avvalersi nei confronti dei belligeranti.Un esempio di accordo segreto incompatibile con norme fonda- mentali del diritto internazionale è quello concernente il Trattato tra Marocco e Mauritania del 14 aprile 1976 sulla delimitazione della frontiera tra i due Stati nella regione del Sahara occidentale. Infatti, l’anno precedente il Marocco aveva stipulato con la Spagna il Tratta- to di Madrid sulla decolonizzazione della regione, mentre le Nazioni Unite si erano pronunciate per l’autodeterminazione del popolo Sah- raui tramite referendum, e gli stessi Marocco e Mauritania si erano at- tivati in sede ONU affinché l’Assemblea generale chiedesse alla CIG un parere sullo status della regione. Nonostante ciò, i due Stati ave- vano concluso un accordo segreto con il quale si spartivano il territo- rio e concordavano l’occupazione militare delle rispettive zone, in spregio al principio di autodeterminazione dei popoli, alla Carta del- le Nazioni Unite e a vari altri trattati da essi conclusi.Nessuno Stato sarà quindi tenuto a riconoscere la legittimità delle si- tuazioni che dall’esecuzione del patto segreto siano eventualmente derivate.In altre ipotesi, gli Stati contraenti concludono un trattato segreto per motivi politico-militari, come nel caso dell’Accordo tra Italia e Stati Uniti, intervenuto nell’estate del 1972, per la concessione, nel- l’isola di La Maddalena, di una base navale per lo stazionamento di sottomarini a propulsione nucleare. L’Accordo è stato abrogato nel novembre 2005.Nel caso degli accordi segreti, la procedura attraverso la quale si realizza l’incontro delle manifestazioni di volontà dirette a stipulare è sempre semplificata. Le procedure semplificate, infatti, quali la sot- toscrizione o lo scambio degli strumenti constatanti l’accordo, sono le uniche compatibili con l’esigenza dei contraenti di mantenere il se- greto sull’avvenuta conclusione di un trattato o sul suo contenuto. La segretezza non attiene infatti ai modi di formazione dei trattati inter- nazionali, ma al regime della loro pubblicità. 6.3. La pubblicità dei trattati in Italia Il regime di pubblicità dei trattati è disciplinato in Italia dalla leg- ge 21 dicembre 1984, n. 839, che dispone l’inserimento nella Raccolta Ufficiale e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale degli accordi ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni internazionali, compresi quelli in forma semplificata e che non comportano pubblicazione ad altro titolo (in quanto leggi o decreti). La stessa L. n. 839/1984 prevede la pubblicazione trimestrale in apposito supplemento della Gaz- zetta Ufficiale, nonché la trasmissione ai Presidenti delle due Came- re, di “tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nelle relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note, accordi ed altri atti co- munque denominati”. È infine prevista la pubblicazione annuale, in al- legato agli indici della Gazzetta Ufficiale, del repertorio di tutti gli accordi internazionali vincolanti per l’Italia, predisposto dal Ministe- ro degli Affari esteri. 7. La disciplina internazionale delle riserve 7.1. Le riserve ai trattati multilaterali Secondo l’art. 2 d) della Convenzione di Vienna riserva significa “una dichiarazione unilaterale, quale che sia la sua articolazione e denomi- nazione, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira a escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo Stato medesimo”. La riserva è quindi una manifestazione unilaterale di volontà resa da uno Stato al momento in cui esprime la volontà di accettare un trattato multilaterale e volta a escludere l’obbligatorietà nei suoi confronti di una o più clausole contenute nel trattato. 7.2. Le dichiarazioni interpretative gli Stati attribuiscono un certo significato ad una clausola del trattato e precisano che tale clausola viene accettata secondo l’in- terpretazione indicata. La dichiarazione interpretativa non è una ri- serva, in quanto lo Stato non intende modificare o escludere l’obbli- gatorietà di una clausola del trattato, ma proporne una certa inter- pretazione. Tuttavia, una dichiarazione interpretativa deve essere equiparata a una riserva, a prescindere dalla sua denominazione, se è diretta a produrne gli stessi effetti giuridici. Nella prassi esistono anche dichiarazioni interpretative condizionali, con le quali lo Stato accetta un trattato solo a condizione di dare una specifica interpreta- zione del trattato o di alcune sue disposizioni. Sono assimilabili alle riserve anche le dichiarazioni relative all’applicazione territoriale di un trattato. 7.3. L’ammissibilità delle riserve ’art. 19 della Convenzione di Vienna riflette tale principio e stabilisce che le riserve possono essere apposte in qualunque momento: al momen- to della firma o al momento in cui lo Stato esprime il consenso a ob- bligarsi (ratifica, accettazione, approvazione, adesione e così via). Se formulata al momento della firma di un trattato soggetto a ratifica, accettazione o approvazione, la riserva deve essere confermata for- malmente dallo Stato che ne è autore, al momento in cui esso esprime il suo consenso a vincolarsi. In tali casi, si deve ritenere che la riserva sia stata fatta alla data in cui è stata confermata. In entrambi i casi, peraltro, la riserva è formulata dallo Stato prima che il trattato abbia acquisito vigore nei suoi confronti, a prescindere dal fatto che sia già entrato in vigore sul piano internazionale nei confronti di altri Stati contraenti. Non è consentito invece a uno Stato modificare successivamente riserve già apposte o formulare riserve tardive, dopo che il trattato è già entrato in vigore nei suoi confronti.Muovendosi nel quadro della Convenzione di Vienna, che contie- ne le disposizioni generali, ogni trattato multilaterale disciplina autonomamente il regime delle riserve. È quindi alle regole specifiche contenute nei singoli trattati che occorre in primo luogo fare riferi- mento per determinare se, rispetto a uno specifico trattato, le riserve sono ammissibili e in quali limiti. In generale, si deve rilevare una tendenza all’incremento del ricor- so alle riserve da parte degli Stati, al punto che l’Assemblea generale dell’ONU, preoccupata per il numero di riserve che appaiono incompatibili con i limiti imposti dal diritto dei trattati, in particolare dall’art. 19 della Convenzione di Vienna, ha raccomandato agli Stati di “dialogare” sulle riserve in modo pragmatico e trasparente, anche al fine di valutare l’opportunità di ritirarle. Un’indicazione contenuta nella Guida alla pratica sulle riserve riguarda il suggerimento di una periodica revisione dell’utilità delle riserve da parte degli Stati che le hanno formulate. A un esame più attento, infatti, anche alla luce del- l’evoluzione del diritto internazionale nel frattempo intervenuta, può risultare che la riserva ha esaurito la sua funzione e può quindi esse- re eliminata. 7.4. La divisibilità del trattato Le riserve sembrano a prima vista incompatibili con il principio generale del diritto internazionale secondo il quale le dichiarazioni di volontà degli Stati che intendono accettare un trattato devono riferirsi tutte a un testo d’identico contenuto, senza escluderne parti. In re- altà, le riserve modificano il testo del trattato nei rapporti tra lo Stato riservante e gli altri Stati contraenti che le hanno accettate e creano quindi una geometria variabile, per la quale il testo del trattato ha conte-nuto diverso secondo gli Stati contraenti di volta in volta considerati. La riserva non modifica invece il testo del trattato nei rapporti tra lo Stato riservante e gli Stati che hanno respinto le riserve formulando un’obiezione. Secondo l’art. 20 della Convenzione di Vienna, se una riserva è e- spressamente autorizzata da un trattato, non è richiesta l’accettazione da parte degli altri Stati contraenti, se invece il trattato non si esprime al riguardo, la riserva deve essere notificata alle altre parti, che posso- no obiettarne l’inammissibilità nel termine di dodici mesi, decorso il quale s’intendono accettate. Se la data in cui lo Stato ha espresso il suo consenso a vincolarsi al trattato è posteriore all’apposizione della riserva, è da tale data che decorrono i dodici mesi per formulare l’o- biezione. 7.5. L’obiezione alle riserve L’obiezione è anch’essa una dichia- razione unilaterale fatta da uno Stato in reazione a una riserva formulata da un altro Stato, con la quale il primo Stato intende esclude- re che la riserva abbia gli effetti voluti. Essa non esclude che il tratta- to entri in vigore tra lo Stato riservante e quello che obbietta, ma esclude che la riserva possa essere opposta al secondo.Per gli Stati che non obiettano, si verifica quindi una sorta di scis- sione del trattato in tanti testi quante sono le riserve apposte (divisibi- lità del trattato). L’art. 21 della Convenzione di Vienna stabilisce che una riserva formulata nei confronti di un’altra Parte modifica le di- sposizioni del trattato cui la riserva si riferisce nei rapporti tra lo Sta- to autore della riserva nei suoi rapporti con quell’altra parte, nella misura prevista dalla riserva medesima e viceversa. La riserva non modifica invece le disposizioni del trattato per le altre parti nei loro rapporti inter se. La riserva, l’accettazione espressa di una riserva e l’obiezione a una riserva devono essere formulate per iscritto e comunicate agli Stati contraenti e agli altri Stati aventi titolo per diventare parti al trattato. Anche il ritiro di una riserva o di un’obiezione a una riserva deve essere formulato per iscritto. 8. I limiti all’ammissibilità di riserve 103 8.1. Il divieto di riserve e l’indicazione delle riserve am- missibili La possibilità di formulare riserve deve essere contenuta entro cer- ti limiti, per evitare che la disciplina convenzionale sia troppo fram- mentata e, quindi, svuotata di portata sostanziale. La regola dell’ammissibilità delle riserve prevede tre eccezioni. La prima è quella in cui il trattato contiene una proibizione espressa di formulare riserve. Un caso del genere è quello della Convenzione di Rio de Janeiro del 1992 sulla diversità biologica, il cui art. 37 stabilisce: “No reservations may be made to this Convention”. La seconda ipotesi è quella in cui il trattato non proibisce le riser- ve, ma dispone che possono essere fatte solo determinate riserve, e- scludendo tutte le altre possibili. La Convenzione di Monaco sul riconoscimento dei partenariati registrati, aperta alla firma il 5 settembre 2007, enumera le riserve autorizzate (art. 20), tra le quali quelle per cui ogni Stato potrà riservarsi il diritto di non applica- re la Convenzione ai partenariati registrati fra persone di sesso diverso o escludere l’applicazione dell’art. 2, che prevede l’obbligo degli Stati con- traenti di riconoscere come valido un partenariato registrato in un altro Sta- to, anche non contraente della Convenzione. La norma stabilisce che “Aucu- ne autre réserve ne sera admise”.