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Bozza preliminare - 15 marzo 2015
IL PIANO JUNCKER.
POLITICHE E CRITERI D’INVESTIMENTO PER LE INFRASTRUTTURE
GIUSEPPE PENNISI
Premessa
In questi ultimi anni e mesi il dibattito sul ruolo delle infrastrutture nella politica di uscita dalla
crisi in Europa e più specificatamente in Italia si è fatto particolarmente intenso, anche a ragione di
interpretazioni giornalistiche di dichiarazioni di esponenti delle parti sociali. Si dispone, inoltre, di
ricca documentazione messa a punto in occasione di analisi e confronti a carattere pubblico (ad
esempio: CEPII, 2014; Huang, Pickford, Subassi, Tentori, 2014; Reviglio, 2014; Bassanini,
Reviglio 2014; Bassanini F., Reviglio E. 2013 e B, Reviglio 2012; Pennisi, Balassone, Casadio,
2011; Bassanini, Reviglio 2011, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, 2011; Ministero
dell’Economia e delle Finanze, 2014; Wagenwoort, R. De Nicola C., Kappeler A. 2011, con dati ed
analisi di alto livello. Ci sono stati altri contributi importanti sia italiani sia internazionali (ad
esempio, Klenert, Mattauch, Edenhofer, Lessman, 2015; Warren a) e b), 2014; Calderon, MoralBenito, Serven, 2011; Hull, 2011; Ragazzi, 2011). Non si citano i lavori presentati ai seminari
precedenti di questa serie in attesa di riceverli in forma scritta.
Sin dall’inizio è essenziale sottolineare che l’Italia rischia di non essere tra i beneficiari del ‘Piano
Juncker’: le infrastrutture non vengono realizzate in quanto esiste una incapacità cronica del sistema
paese a preparare, programmare, progettare, appaltare opere. Le nostre imprese e i nostri ingegneri
sono i migliori del mondo; posso affermarlo anche perché ho assunto, dopo dura selezione
competitiva, ingegneri italiani in Banca mondiale. Le nostre banche e la stessa Cassa Depositi e
Prestiti finanziano opere in Italia e all’estero, ma la pubblica amministrazione pare incapace di
allestire progetti e programmi. Il decreto legislativo 228/2011, che richiede documenti pluriennali di
pianificazione delle opere pubbliche e di pubblica utilità, è, in gran misura, disatteso. La stessa
Scuola Nazionale d’Amministrazione ha in gran misura smantellato la formazione in queste materie
da circa otto anni. Quando il ‘Piano Juncker’ entrerà in fase operativa, la qualità nella nostra
progettualità verrà messa in concorrenza con quella dei nostri partner europei. C’è il pericolo che
non riusciremo a generare domanda di investimenti all’altezza di quella di altri Paesi. Con le
implicazioni che si possono immaginare.
Questa nota ha l’obiettivo di tirare le somme di quanto pubblicato e di formulare alcune proposte al
fine di meglio definire parametri e criteri per la definizione d’investimenti in infrastrutture che
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meglio contribuiscano ad una crescita inclusiva – per “inclusiva” si intende crescita che dà
particolare attenzione alla aree territoriali ed alle fasce di reddito e di consumo meno favoriti.
La nota è divisa in quattro parti: a) esaminare le eventuali opportunità offerte dal ‘Piano Juncker’;
definizioni di come vengono contabilizzate le spese per le infrastrutture; b) strategia di rilancio della
spesa pubblica e privata per le infrastrutture; c) le strategie europee e d) parametri e criteri per
l’analisi degli investimenti, tenendo conto dei lavori recentemente avviati dall’ISTAT. Occorre
sottolineare che numerosi aspetti del ‘Piano Juncker’ sono ancora in evoluzione, come sottolineato
di recente a Roma dal Presidente della Commissione Economia del PE, On. Roberto Gualtieri
(European Council, 2015, European Parliament, 2015).
Il Piano Juncker
Il “Piano Juncker” è stato allestito come strumento per rilanciare l’anemica economia europea.
Se ne parlò molto con tanto clamore lo scorso novembre quando venne presentato. Si sarebbe
trattato di un programma ambizioso di 315 miliardi di euro, nell’arco di tre anni, a partire dal
giugno 2015, per promuovere l’occupazione e la crescita (per una sintesi Commissione Europea,
2014; per un’analisi dettagliata della situazione ad inizio febbraio, Bini Smaghi 2015, per un
approfondimento analitico, UPB 2015).
La Commissione europea (CE) ha proposto un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis),
che sarà istituito in stretto partenariato con la Banca europea per gli investimenti (BEI), ma la CE e
la BEI di proprio hanno messo sul piatto solamente 21 miliardi di euro ‘di garanzie’. Sino al 15
marzo 2015, la dotazione del Feis ha raggiunto 50 miliardi di euro, grazie a contributi volontari
degli Stati dell’UE (di cui 8 dell’Italia tramite la Cassa Depositi e Prestiti). Al Fondo sarà associato
un organismo di consulenza – lo European Investment Advisory Hub – che aiuterà gli Stati dell’UE
a mettere a punto i progetti più efficaci. Un Comitato per gli Investimenti farà proposte di
finanziamento, sulla base di istruttorie ed analisi di valutazione effettuate in sostanza dal personale
BEI. Al momento della stesura di questa nota, il regolamento del Feis è ancora al vaglio del
Parlamento Europeo e le procedure di nomina e di incarico dei componenti del Comitato per gli
Investimenti sono ancora in fase negoziale nell’ambito dell’Ecofin.
Il Fondo dovrebbe costituire, secondo i comunicati della CE, “il fulcro dell’offensiva sugli
investimenti” del Presidente CE Juncker, che mobiliterebbe 315 miliardi di euro di investimenti
pubblici e privati in tutta l’Unione europea, con un effetto leva di uno a tre nei confronti della BEI e
complessivamente di uno a quindici. Il disegno è essenzialmente di attirare capitale privato, grazie
all’aumento di qualità del finanziamento dovuto alla garanzia CE-BEI. Sarebbero sostenuti
soprattutto gli investimenti strategici, ad esempio nella banda larga e nelle reti energetiche e le
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imprese di dimensioni più piccole. In Bini-Smaghi (2015), viene presentata una stima di ripartizione
settoriale per l’intera Unione ed una dettaglia per l’Italia sulla base delle informazioni fornite dai
servizi della CE e delle amministrazioni centrali dello Stato. In UPB 2015 vengono esaminate le
numerose criticità. Questi nodi dovrebbero essere appianati da un Regolamento la cui bozza è
all’esame del Parlamento Europeo (Council of European Parliament, 2015). Detto Regolamento
dovrebbe essere approvato entro l’estate 2015, in parallelo con una Comunicazione della
Commissione sulle ‘banche di sviluppo o promozionali’ dell’Unione. La bozza di tale
Comunicazione (European Commission, 2015) sembra aprire uno spiraglio a un grado, pur limitato,
di flessibilità per gli investimenti a valere sul ‘Piano Juncker’.
La proposta istituisce inoltre un Polo europeo di consulenza sugli investimenti per contribuire
all’individuazione, la preparazione e lo sviluppo di progetti in tutta l’Unione. Una riserva di
progetti di investimento europei migliorerà, infine, l’informazione degli investitori sui progetti
esistenti e futuri. Infine, secondo alcune interpretazioni, gli investimenti del ‘Piano Juncker’ (e
quindi le controparti a valere sui bilanci degli Stati membri dell’Unione Europea UE) non
verrebbero contabilizzati (peraltro, sino ad ora, tali interpretazioni non sono confermate da atti
ufficiali) ai fine di parametri quali il rapporto tra l’indebitamento netto delle pubbliche
amministrazioni ed il PIL. Sarebbe, quindi, un cavallo di Troia per quella golden rule (esenzione
della spesa pubblica in conto capitale dal computo del vincolo al deficit annuale) a cui diversi
governi (quello italiano in prima linea) mirano da tempo.
Un incremento degli investimenti avrebbe comunque effetti positivi anche sulla dinamica del
rapporto debito/PIL e del rapporto deficit/PIL, attraverso un aumento del denominatore più che
proporzionale rispetto a quello del numeratore. Gli investimenti in infrastrutture non hanno dunque
solo importanti moltiplicatori economici, ma anche importanti “moltiplicatori fiscali”, nei quali
possono svolgere un importante ruolo anticiclico.
Gli investimenti in infrastrutture hanno, peraltro, notevole importanza anche sotto un altro profilo,
cruciale per la costruzione europea. Una delle idee fondanti dell’Europa è stata l’ambizione di
realizzare un grande mercato unico nel quale la competizione aperta tra le imprese europee avrebbe
prodotto innovazione, efficienza, produttività, dunque crescita e occupazione. Occorreva per ciò
livellare il campo di gioco, al fine di costruire una virtuosa convergenza competitiva fra le
economie europee. Per raggiungere questo obiettivo furono introdotte una rigida disciplina della
concorrenza e una complessa normativa mirante ad evitare che politiche di aiuti di Stato potessero
creare impropri vantaggi competitivi a vantaggio delle imprese di uno o più Paesi, dislivellando,
così, il terreno di gioco tra gli Stati dell’UE (Bassanini, 2014).
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Con il doppio obiettivo di illustrare il Piano (vero fiore all’occhiello di una CE che appare sempre
più pallida e sbiadita) il Vice presidente della CE, Jirki Katainen, sta facendo un road show che
entro settembre 2015 lo porterà in 28 Paesi. In gennaio ha visitato per due giorni Roma ed
incontrato esponenti del governo, dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali
Sul Piano permangono seri dubbi. Agli occhi della CE, l’Italia è tra i Paesi che più hanno bisogno di
un rilancio degli investimenti pubblici e privati per sostenere la ripresa economica, scalfire il
pericolo della deflazione, aiutare la riduzione del debito. L’obiettivo del Feis è di attirare capitale
privato. Molti investitori però sono cauti all’idea di partecipare all’iniziativa, anche se il Feis si
sobbarcherebbe i rischi insieme al settore privato (assumendosi la prima perdita, ndr).
C’è una differenza nel profilo di rischio tra i prestiti della BEI e i prestiti del Feis. A questo
riguardo, per dotare il bilancio comunitario di un cuscinetto di liquidità, la CE intende creare un
fondo di garanzia che, attraverso contributi regolari provenienti dal proprio bilancio, dovrebbe
raggiungere gli otto miliardi di euro entro il 2020. L’obiettivo della Commissione è sempre di
assicurare al Fondo un effetto leva di 15. Troppo? Molti lo temono. L’Esecutivo comunitario nota
però che il recente aumento di capitale della BEI ha generato un effetto leva di 18.
Altro nodo riguarda il governo del Feis. Bruxelles e la BEI vogliono che la selezione dei progetti sia
nelle mani di esperti indipendenti (il Comitato Investimenti), mentre gli Stati membri vogliono
influenzare le scelte e, per certi versi, condizionano i loro versamenti nel capitale iniziale ad
assicurazioni su questo fronte. La BEI mette in campo la sua circa sessantennale esperienza in
materia. La trattativa è in salita.
Un colpo al Piano è stato inferto il 23 febbraio 2015 dal Presidente della BEI, Werner Hoyer: “Se
vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un
ambiente più favorevole alla imprese di come è oggi. Ciò sarebbe molto più importante di
un’azione sugli investimenti pubblici” (‘Euronews, 2015).
Tante idee progettuali, ma progetti effettivamente ‘cantierabili’ e poche certezze. Tanti impegni
pubblici, pochi privati. Ma, soprattutto, poca innovazione. Il ‘Piano Juncker’ lascia più di qualche
perplessità alla BEI, l’istituto chiamato a un ruolo centrale nell’attuazione della strategia
dell’esecutivo di Bruxelles. Ma, al di là dei numeri di rito, è sugli scenari futuri che si concentra
l’attenzione della BEI. “L’obiettivo del 2015 è passare dalla ripresa economica al rilancio della
competitività attraverso investimenti e innovazione”, sottolinea Hoyer. Ma, a Lussemburgo, sede
della BEI, non mancano perplessità. “Non vedo abbastanza progetti per il settore privato”, ammette
Hoyer. Un problema, visto che serve il coinvolgimento dei privati perché il ‘Piano Juncker’
funzioni. “Vedo progetti orientati principalmente verso il settore pubblico”.
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Ma c’è di più. “Si è evidenziato tanto il gap di investimenti, ma in Europa c’è un problema
maggiore di gap di innovazione”. Il gap di investimenti in innovazione, da sola, vale, secondo la
BEI; 130 miliardi di euro, circa la metà del ‘Piano Juncker’ (che vale 315 miliardi). L’innovazione
oggi la fanno le imprese, dunque i privati. Per cui, a detta della BEI “occorre fare in modo che
progetti privati in ricerca e sviluppo, quelli che permettono di avere innovazione, possano avere
accesso agli strumenti finanziari dell’UE”.
Ciò indica un cambio di strategia politica. La BEI coopera con i commissari interessati, vale a dire
Jyrki Katainen (Crescita e investimenti), Pierre Moscovici (Affari economici) e Valdis
Dombrovskis (Euro), ma è il caso “iniziare a collaborare di più con Frans Timmermans e Kristalina
Georgieva”, commissari rispettivamente per la Migliore legislazione e il Bilancio. “Il Feis per gli
investimenti da solo non risolve i problemi”, sottolinea Hoyer. “Se vogliamo tornare a crescere,
abbiamo bisogno di un’azione regolatoria per rendere l’Europa un ambiente più favorevole alla
imprese di come è oggi”.
Perché Hoyer ha parlato solamente a fine giugno, dopo tre mesi dalla presentazioni del ‘Piano’? Le
ragioni sono almeno tre:
a) da un lato, a Bruxelles e in alcuni capitali europee (tra cui Roma), non si è mai voluto
ammettere che sette anni di recessione hanno avuto effetti deleteri sulla preparazione di
progetti. Le imprese combattevano per sopravvivere più che per ampliare gli impianti esistenti
o crearne di nuovi. La spesa in conto capitale si è fatta sempre più modesta: in Italia è passata
dal 3% del PIL negli Anni Ottanta a meno dell’1% e appena il 20% dell’apposito fondo per la
progettazione creato nel 1999 è stato utilizzato. Quindi, semplicemente mancano i progetti
“pronti”, “cantierabili” e con effettive ricadute positive sull’economia del Paese;
b) da un altro, la nuova crisi greca (e l’opposizione nei confronti dell’unione monetaria crescente
in molti Paesi) ha reso tutti più cauti. La calma dei mercati finanziari viene interpretata come
la quiete prima della tempesta. Su ciò pesa la situazione degli istituti di credito; le voci della
possibile istituzione di una bad bank non incoraggiano certo ad investire;
c) da un altro ancora, la situazione ad Est (leggi Ucraina) e nel Mediterraneo (leggi Libia).
Nessuno ha sino ad ora smentito le stime che un eventuale intervento in Libia contro l’Isis
costerebbe 15 miliardi di euro al mese, che cadrebbero in gran misura sui contribuenti
europei, spiazzando altri obiettivi.
Sotto il profilo tecnico, il problema più serio è riassunto in a). Il ‘Piano Juncker’ fa appello
principalmente alla finanza privata (l’apporto pubblico servirebbe principalmente a migliorare ed
innalzare la valutazione del mercato sul singolo sul progetto e su ‘grappoli’, per usare la
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terminologia francese, o pacchetti, per utilizzare quella anglosassone, di progetti). Secondo i dati
del Cresme, nel periodo 2001-2011, solo 45 progetti, su un totale di 3.600 iniziative di Public
Private Partneship (PPP) messi a bando (sopra i 10 milioni di euro), hanno raggiunto il Financial
Close (1,25%), (Bellicini, 2015). La finanza privata non manca in un Paese come l’Italia in cui i
risparmi delle famiglie hanno raggiunto i 3800 miliardi ma non si incanala in PPR. È possibile che
le banche di sviluppo o promozionali siano percepiti come canale migliore per investimenti di lungo
periodo ed a rendimenti contenuti ma a basso rischio. Ciò apre il tema del ruolo delle banche di
sviluppo o promozionali nel ‘Piano Juncker’ e non solo, tema su cui, come si è detto, si attende una
Comunicazione della CE per la prossima estate. Una stesura preliminare è in discussione tra i
Ministeri degli Stati membri dell’UE.
L’apporto delle ‘casse’ e ‘banche’ nazionali di investimento al finanziamento prenderà varie forme,
nel caso in cui prevalesse la partecipazione con titoli di proprietà (equity). L’effetto moltiplicatore,
stando all’esperienza accumulata finora, potrebbe perfino essere superiore alla formula 1 a 15.
L’aumento di capitale della BEI, dal 2012 al 2013, ha generato un effetto moltiplicatore di 1 a 18.
Nell’ambito del programma COSME della CE (sostegno alle PMI) il moltiplicatore è stato stimato a
20. Nel testo del regolamento è scritto che possono essere coperti da garanzie UE “prestiti BEI,
garanzie, contro-garanzie, strumenti del mercato dei capitali, ogni altra forma di strumenti di
finanziamento o credito, partecipazioni ‘equity’ o quasi ‘equity’, inclusi attraverso banche nazionali
di promozione o istituzioni, piattaforme d’investimento o fondi”. In sostanza, i Governi dei grandi
Paesi UE hanno ritenuto più conveniente assicurarsi un ruolo diretto nel contributo al finanziamento
dei progetti attraverso le ‘piattaforme’ per gli investimenti, che non assicurarsi lo sconto della quota
versata nel capitale del Fondo, grazie alla flessibilità delle regole dei conti pubblici. Anche perché,
almeno in teoria, potrebbero poi essere scontati gli investimenti effettuati da entità pubbliche, la cui
spesa rientra nei calcoli sull’indebitamento. Tali piattaforme consistono in ‘veicoli speciali’, conti
gestiti, accordi fondati su contratti di cofinanziamento.
I Conti delle Infrastrutture
Il ‘Piano Juncker’, per ora, contiene soltanto alcune promesse che potrebbero diventare
altrettante illusioni, oppure essere il grimaldello per avviare la crescita dell’investimento. Tuttavia,
è innegabile il fabbisogno di infrastrutture nell’UE. Dati BEI affermano da anni che il Nord Europa
è dove il fabbisogno è maggiore, a ragione del sovraccarico della rete dei trasporti (Wagenwoort R.,
De Nicola C., Kappeler A., 2011).
Soffermiamoci, a titolo indicativo, sul nostro Paese. In Italia, pochi investimenti pubblici si
accompagnano ad un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete
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ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il
13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e
la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli
francesi”.
Gli stessi documenti di finanza pubblica confermano che per gli investimenti delle pubbliche
amministrazioni non ci sarà alcun rilancio, almeno in termini di spesa complessiva. C’è, invece, da
aspettarsi piuttosto un’ulteriore flessione. È quanto si legge nel DEF alla voce del rapporto
investimenti fissi lordi/PIL: nel 2013 questo valore si è fermato all’1,7%, peggio di quanto fosse
previsto dai governi Monti e Letta (1,8%), mentre la previsione 2014 lo colloca all’1,6%, poi
all’1,5% nel 2015 e 2016, all’1,4% nel 2017 e 2018. Colpisce anche la riduzione degli investimenti
nel 2013, con una caduta dell’ordine del 10%, da 29.979 a 27.132 milioni di euro e la contrazione
del rapporto investimenti/PIL di due decimali di punto da 1,9% a 1,7% (Ministero dell’Economia e
delle Finanze, 2014).
La riduzione prevista dal DEF riguarda anche i valori assoluti degli investimenti fissi lordi, che
nella gran parte sono lavori infrastrutturali. Anche qui la tendenza è tutta in discesa: dai 25.730
milioni del 2014 ai 24.835 del 2015 ai 24.453 del 2016, per poi accennare a una leggera risalita nel
2017 (24.857) e nel 2018 (25.019). Dal 2011, quando gli investimenti fissi lordi ammontavano a
31.907 milioni, al 2014 si sono persi circa 6,1 miliardi di investimenti annui, circa il 20%.
È soprattutto il rapporto investimenti fissi lordi/PIL a dare però la portata di come la spesa in conto
capitale del settore pubblico arranchi ormai da decenni, con un’accelerazione della caduta
nell’ultimo quinquennio. Il rapporto investimenti fissi lordi/PIL era del 3,5% nel 1981, quando la
politica di debito pubblico era centrale, per poi scendere al 3,1% nel 1991 e al 2,4% nel 2001. Il
PPP viene indicato come strumento di finanziamento dei privati alternativo a quello pubblico,
immaginando anche misure di accorpamento delle concessioni e di efficientamento dei lavori da
realizzare. Sino ad ora, l’esperienza non è stata incoraggiante (Bellinci, 2015). Si tratterà di mettere
a regime le varie forme di incentivi fiscali esistenti e, magari, estenderle anche a infrastrutture
immateriali come la banda larga.
Qualsiasi analisi delle politiche, relative alle infrastrutture, richiede elementi quantitativi di base; ad
esempio, indicatori della spesa per infrastrutture in termini di PIL. Tali elementi quantitativi sono
difficilmente comparabili, come rilevato dalle recenti analisi della BEI (Wagenwoort, De Nicola,
Kappeler, 2011) e della stessa Banca D’Italia (Balassone, Casadio, 2011). Come ricordato nel
lavoro BEI citato, la definizione che sembra più sensata (e che è più frequentemente utilizzata) è
quella proposta da Edward Gramlich una ventina di anni fa che, al termine di una dettagliata
rassegna della lettera economica in materia, restringe il campo essenzialmente alle infrastrutture
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fisiche (strade, ponti, ferrovie, porti, idrovie smaltimento di rifiuti), specialmente se in condizione di
monopolio naturale (Gramlich, 1994 e, per una sintesi, Gramlich, 2007). Lo stesso lavoro BEI
sottolinea che tale definizione include esclusivamente l’infrastruttura “economica”, escludendo
quella “sociale” (scuole, ospedali). A mio avviso, l’esclusione è molto più netta da quanto appaia
nel lavoro BEI poiché, da circa trent’anni, solo varie forme di capitale “umano” e di “capitale
sociale” (North, 1994) sono considerate le leve per la crescita inclusiva e lo sviluppo endogeno (per
una rassegna, Pieterse, 2001; in questa accezione, per il “sociale” come “scuole” e “ospedali” la
componente fisica (“bricks and mortar”, mattone e cemento) raramente supera più del 10% della
spesa e ciò che conta sono i flussi annuali (ovviamente capitalizzabili) per assicurarne il buon
funzionamento.
Di conseguenza, un’interpretazione di cosa sono le infrastrutture, tale da includere queste
componenti, pur se giustificata sotto il profilo dell’analisi economica, comporterebbe l’aggiunta di
spese pubbliche e private che, invece, sotto il profilo contabile, sono di parte corrente.
Paradossalmente, in Italia, mentre negli ultimi sette anni il rapporto investimenti pubblici per
infrastrutture è sceso (raffrontando i conti pubblici e la contabilità economica nazionale da 2.5% a
circa 1% del PIL – si aggirava sul 3,5% negli Anni Ottanta), sarebbe rimasto sostanzialmente
stabile (attorno al 18% del PIL), includendo le spese per istruzione e sanità quelle maggiormente
dirette al capitale umano ed al capitale sociale. Una delle ragioni per cui non è stata accettata, a
livello dell’eurozona, l’ipotesi di una “golden rule” tale da esentare le spese per il capitale dal
computo del rapporto tra spesa pubblica e PIL, ai fini del “patto di crescita e di stabilità”, risiede
proprio nella difficoltà di definire, in una visione moderna del pensiero economico, cosa debba o
non debba rientrare nel concetto di spesa per investimento (Breuss, 2007). Cosa includere e cosa
non includere nella definizione di cosa è e cosa non è “infrastrutture” (al di là di quelle fornite dalla
statistica economica e dalla contabilità economica nazionale, di solito basta su Gramlich) diventa
elemento essenziale sia per l’allestimento e la valutazione delle politiche per le infrastrutture, sia
per finalità direttamente operative su cosa possa essere considerato finanziabile, ad esempio da
parte della Cassa Depositi e Prestiti (CPD) e delle istituzioni appartenenti al Long Term Investment
Club (LTIC).1
1
Un esempio interessante è l’evoluzione della policy della Banca mondiale in materia di finanziamento per l’istruzione
e la sanità. Particolarmente eloquente è il caso dell’istruzione. Negli Anni Sessanta, quanto la Banca cominciò ad
operare nel settore erano “eligible” (ossia ammissibili) unicamente lem spese in conto capitale (con un’alta componente
di valuta estera) progetti di formazione (e.g. scuole professionali, Politecnici) direttamente connessi ad industria od
agricoltura. Negli Anni Settanta l’“ammissibilità” venne estesa all’intero settore (ossia anche le scuole elementare)
purché limitata alle spese in conto capitale. Negli Anni Ottanta, venne ampliata al finanziamento di libri di testo. Dalla
seconda metà degli Anni Novanta vengono finanziate anche spese di parte corrente di programmi d’istruzione
innovativi nonché la Banca investe capitale di rischio (equity) in istituti privati.
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Occorre, poi, sottolineare un aspetto sollevato, sempre circa venticinque anni fa, dall’allora
Direttore del Congressional Budget Office, Alice Rivkin (Rivlin, 1991): in un’economia avanzata e
matura – Alice Rivkin guardava agli Stati Uniti, ma si può fare un ragionamento analogo per
l’Europa in generale e, per l’Italia in particolare, le spese infrastrutture fisiche differiscono in
misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi
riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche quanto l’ammodernamento e la
manutenzione straordinaria di quelle esistenti e, di conseguenza, assume un ruolo specialmente
importante il dibattito su come contabilizzare i “costi accantonati” (in gergo i sunk costs) mentre, di
converso, esternalità ed interdipendenze e prezzi ombra di alcuni fattori (e.g. lavoro) sono centrali
nell’analisi economica di nuove infrastrutture fisiche.
Queste considerazioni sono utili non unicamente sotto il profilo metodologico, ma anche per
spiegare, da un canto, il differente grado e la differente natura di dotazione in infrastrutture tra varie
aree d’Europa e d’Italia (aspetto descritto in modo accurato in Balassone e Casadio, 2011) e
dall’altro i differenti effetti della crisi in corso dal 2007 tra il gruppo originario, o quasi, di Stati
dell’Unione Europea e gli Stati neo-comunitari (analizzato in Wagenwoort, De Nicola, Kappeler,
2011). Nell’UE a 15, in effetti, c’è stata una marcata riduzione della spesa per infrastrutture secondo
la definizione di Gramlich, mentre negli Stati neo comunitari la flessione è stata breve e poco
marcata. Nel primo gruppo, i programmi di ammodernamento e di manutenzione straordinaria
potevano essere posposti; nel secondo, invece, ritardi in questo campo avrebbero reso molto più
lunga e molto più difficile la convergenza con il resto dell’UE, anche in base ai teoremi
fondamentali della teoria dell’integrazione economica (Balassa, 1961). Nel primo gruppo, infine,
c’è stata una rapida espansione della spesa per il welfare (indennità di disoccupazione e altri
ammortizzatori sociali) che, secondo un’interpretazione estesa del concetto di “infrastrutture”, è
necessaria a mantenere quel capitale umano e quel capitale sociale che, a differenza del capitale
fisico, si deteriora se non utilizzato (Galor, 2011; Pennisi, 2011).
Negli anni Cinquanta sono state realizzate numerose grandi opere perché c’era una volontà politica
che si fondava su un ampio consenso (ceto politico, imprese, sindacati e cittadini). Allo stesso
modo, per l’opinione pubblica, in passato la costruzione di una nuova opera era per definizione
un’opportunità, oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, c’era l’esigenza di costruire
l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese. A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, le
esigenze principali sono state per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture
esistente, un’esigenza molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare
sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del
consenso. Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto
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misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative, nonché con la
sempre maggior carenza di risorse finanziarie che andava a influire sulle scelte politiche. Ciò ha
cambiato il complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di
riferimento.
Un ‘caso studio’: la Legge Obiettivo
Un ‘caso di studio’ eloquente della scarsa capacità di progettare sono i ritardi nell’attuazione
della Legge Obiettivo che avrebbe dovuto accelerare spese in infrastrutture considerare prioritarie e
che venne lanciata con forte supporto politico. A fine 2011, un documento CNEL di Osservazioni e
Proposte (CNEL, 2011) concludeva che “una condivisione dello “status quo” delle infrastrutture in
Italia da parte delle amministrazioni, delle imprese e dei cittadini appare lontana, se si considera che
il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha ritenuto che l’anno che sta per chiudersi si
configuri come un anno di cerniera tra un decennio del “fare”, quello che va dal 2001 al 2010 e il
prossimo decennio, quello che va dal 2011 al 2020, che si caratterizzerà come il decennio del
“fruire”. Ciò implica non tanto prevedere procedure selettive di nuovi interventi, di nuovi progetti,
ma piuttosto misurare le reali ricadute che gli interventi programmati, progettati e, in molti casi,
appaltati, producono sul Paese. La tesi formulata dal Ministero contrasta però con i dati
dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati che dal 2004 monitorizza
l’avanzamento degli interventi previsti dalla cosiddetta Legge Obiettivo (delibera CIPE n.
121/2001) Tale osservazioni sono valide anche oggi.
Attività di programmazione
Anno
2001
2010
Opere
Interventi
Sotto-interventi
Costo
complessivo
(MLD)
125,8
358,0
228
373
188
348
753
Stanziamento effettivo delle risorse (in miliardi di €)
Valore complessivo dei Valore
dei
progetti
programmati progetti
Valore complessivo dei
Somme effettivamente erogate
nella Legge Obiettivo approvati
dal Mutui contratti
(2010)
CIPE
358,00
14,09
8,83
2,50
Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati, 2011.
L’ingente costo complessivo programmato dalla Legge Obiettivo (358 miliardi di €) stride, poi, con
il modesto volume finanziario delle opere effettivamente approvate, nell’arco di ben dieci anni, dal
CIPE (14,1 miliardi di €) e del quasi inesistente ammontare delle risorse effettivamente erogate dal
2001 ad oggi (2,5 miliardi fra l’altro ripartite in ben 32 opere). I pochi progetti avviati sono limitati
nel loro svolgimento dal contenzioso che, contava, al 28 luglio 2009, 259 ricorsi amministrativi e
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
giurisdizionali (176 promossi da privati, 62 da enti pubblici e 21 da associazioni di cittadini). I dati
sono confermati dai rapporti degli anni successivi: all’ultima conta (Camera dei Deputati, 2015),
sono stati completati lavori per 23 miliardi sui 285 programmati ed i costi di realizzazione sono
aumentati del 40% negli ultimi dieci anni.
La contrazione della capacità di realizzazione non ha determinato né un riesame dei criteri di
priorità, né una razionalizzazione della spesa e neppure una politica di sviluppo. Sebbene le
informazioni disponibili non consentano confronti internazionali sistematici, esse tuttavia indicano
che i costi medi di realizzazione sono relativamente elevati nel nostro Paese, sia per le autostrade,
sia per l’alta velocità ferroviaria. Sul divario rispetto agli altri paesi europei, oltre alle condizioni
orografiche e di antropizzazione del territorio, hanno inciso anche scelte tecniche. Anche i tempi
complessivi di realizzazione sono mediamente più lunghi e gli scostamenti di tempi e di costi di
realizzazione, rispetto alle stime iniziali, superiori a quelli rilevati negli altri Paesi europei.
Su tempi e costi di realizzazione influiscono, oltre ai diffusi fenomeni di illegalità e ai contenziosi 2
e lo scarso coordinamento tra i diversi livelli di governo; il ridotto utilizzo di valutazioni
standardizzate dei costi e dei benefici economici e sociali dei progetti; le carenze nelle procedure di
affidamento dei lavori maggiormente utilizzate, che spesso non garantiscono la selezione
dell’offerta migliore.
Dalla fine degli anni Novanta a oggi, i vari Governi che si sono succeduti nel corso delle legislature
sono intervenuti in più riprese nel settore delle infrastrutture, sia sul versante della riorganizzazione
dell’offerta, proponendo un nuovo schema di accesso al mercato delle opere pubbliche grazie al
varo delle Società Organismo di Attestazione (SOA)3, nel contesto della revisione dell’impianto
normativo degli appalti pubblici; sia sul versante della domanda, stabilendo due principi
fondamentali per l’intervento dello Stato nelle infrastrutture pubbliche: la snellezza delle procedure,
la concentrazione delle risorse finanziarie scarse su un certo numero di progetti prioritari (Legge
Obiettivo 2010).
L’esperienza del primo decennio di applicazione non ha prodotto gli effetti sperati. Gli ultimi
quattro anni non hanno evidenziato miglioramenti. Il sistema di accreditamento delle SOA ha
rappresentato un ulteriore stimolo alla staticità, mentre l’endemico ritardo dei pagamenti da parte
della pubblica amministrazione ha di fatto consentito solo a poche grandi imprese di rimanere
2
3
Che sembrerebbero essere stati presi in considerazione nei recenti decreti legislativi - ancora in fase di discussione in materia di monitoraggio e di valutazione della spesa pubblica in infrastrutture da parte dei Ministeri.
Le Società Organismi di Attestazione (SOA) sono organismi di diritto privato, autorizzati dall’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici, che accertano l’esistenza nei soggetti esecutori di lavori pubblici degli elementi di
qualificazione, ovvero della conformità dei requisiti alle disposizioni comunitarie in materia di qualificazione dei
soggetti esecutori di lavori pubblici, riassunti nel regolamento per il sistema di qualificazione, Decreto del Presidente
della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
attive. L’enfasi posta sulle opere strategiche proposte dalla Legge Obiettivo si è impantanata
all’interno di un’amministrazione non adeguatamente preparata a gestire le innovazioni normative.
Soprattutto, l’autorità politica non si è assunta fino in fondo la responsabilità di selezionare le
priorità, arrivando a identificare fino a ben 348 opere strategiche. Nel corso di questi ultimi dieci
anni si è dunque ampliata la distanza che separa gli obiettivi del quadro normativo di riferimento
dalla realtà dell’infrastrutturazione strategica del Paese.
La distanza tra obiettivi e realizzazioni è sintetizzata dal confronto tra il punto di vista del Governo
e del Ministero preposto, da un lato e il dato fornito dal Servizio Studi della Camera dei Deputati,
dall’altro (evidenziato nella precedente tabella), nonché dalle considerazioni piuttosto scettiche dei
rappresentanti di organizzazioni ed enti che hanno interagito con il Gruppo di Lavoro del CNEL. Le
misure fisiche di dotazione infrastrutturale, secondo le analisi del Servizio studi della Banca
d’Italia, suggeriscono la presenza di un divario persistente tra l’Italia e i principali Paesi europei,
nonostante negli ultimi tre decenni la spesa pubblica per investimenti italiana, in rapporto al PIL, sia
stata superiore a quella media di Francia, Germania e Regno Unito.
Il tema delle infrastrutture in Italia, tuttavia, non teme confronti dal punto di vista
dell’approfondimento scientifico e di analisi. In proposito, nel corso delle audizioni, sono stati
ricordati almeno tre documenti ricchi di studi e approfondimenti usciti negli ultimi mesi:
 il primo, è un documento di programmazione: il Piano nazionale della Logistica 2011-2020,
approvato dalla Consulta dell’autotrasporto e della logistica e attualmente in discussione nelle
aule parlamentari;
 il secondo, è un repertorio delle principali correnti di pensiero intorno alla questione: “Le
infrastrutture in Italia:dotazione, programmazione e razionalizzazione”, a cura della Banca
d’Italia;
 il terzo, infine, è un approfondimento giuridico-istituzionale: “Le infrastrutture strategiche di
trasporto: problemi, proposte e soluzioni (non ancora disponibile per la diffusione) elaborato
dalle Fondazioni Astrid, Respublica e Italiadecide per conto del Ministero delle Infrastrutture
e Trasporti.
Dai documenti citati emerge che le sole inefficienze della logistica comporterebbero, secondo il
Piano Nazionale della Logistica, un costo di 40 miliardi di euro l’anno. Un primo passo per
affrontare i problemi infrastrutturali del Paese consiste nell’appurare quali e quante siano le risorse
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
disponibili4 e quali siano le priorità strategiche da privilegiare tra quelle proposte dagli enti di spesa,
in primis dai Ministeri e dalle Regioni. Al tempo stesso, dobbiamo porre rimedio all’incapacità di
progettare e realizzare che palesiamo. Secondo le analisi del Cresme (Bellicini, 2015) i grandi
progetti (sopra i 500 miliardi), ci sono e vengono avviati, ma se non gestiti al centro si frenano o
vengono frenati. I progetti medi e piccoli (tra 50 e 500 miliardi) non riescono neanche a decollare,
se non gestiti al centro. I piccoli progetti (sotto i 50 miliardi) necessitano un pool centrale di
expertise a supporto dei comuni, che riduca drasticamente l’inefficienza con contratti e bandi tipo
standard, formazione, assistenza tecnica e gestione on line trasparente dei processi con informazioni
trasparenti. In questo campo, l’acquisto e la gestione della banca dati Cresme
è il punto di partenza e la CDP potrebbe diventare il grimaldello. Ciò comporta, ben inteso, una
centralizzazione di progettualità e procedure di attuazione che contrasta con il decentramento degli
ultimi tre lustri.
La politica per le infrastrutture nel Piano Nazionale di Riforme
Nel Programma Nazionale di Riforme, PNR (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2014), la
politica per le infrastrutture è indicata, in ordine di priorità, come quarto strumento di azione di
governo per il rilancio dell’economia nazionale, dopo la riforma fiscale, il meridione ed il lavoro,
ma prima di altre riforme considerate di rilievo nell’arco della legislatura (edilizia privata, ricerca e
sviluppo, istruzione e merito, turismo, agricoltura, processo civile, pubblica amministrazione e
semplificazione). L’elenco, occorre rilevarlo, appare più come un ordine di priorità “implicito”
(quale indicato nella premessa del documento) che come un ordine di priorità “esplicito”, espresso
in una funzione obiettivo oppure in una funzione di benessere sociale formalizzata al fine d’ordinare
programmi e progetti o di attribuire ponderazioni a costi, benefici, effetti ed impatti afferenti alle
varie classe di reddito o di consumo. Nelle oltre cento pagine del PNR, appena tre vengono dedicate
alle infrastrutture intese come “opere pubbliche” in senso stretto, un’interpretazione, quindi,
rigorosa, ma restrittiva, rispetto alla gamma di definizioni passate succintamente in rassegna nel
primo paragrafo di questa nota. Circa due terzi del documento sono dedicati al programma di
stabilizzazione di finanza pubblica nel quadro del Fiscal Compact.
In materia di infrastrutture/opere pubbliche nel PNR vengono presentate stime degli effetti macroeconomici della realizzazione del programma di infrastrutture delineato (in essenza le opere
pubbliche previste nella Legge Obiettivo) ma, né nel documento, né nell’allegato infrastrutture
(Camera dei Deputati, 2014), né nell’attenta analisi effettuata dal Servizio del bilancio del Senato
4
Spesso “nascoste” in “contabilità speciali” e gestioni fuori bilancio di vario ordine e grado il solo Ministero dei Beni
e delle Attività Culturali, MIBAC, nel proprio bilancio contava ben 324 gestioni speciali.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
della Repubblica e dal Servizio Studi della Camera (Senato della Repubblica-Camera dei Deputati,
2014) si ricavano le informazioni necessarie per apprezzare la validità delle stime econometriche
effettuate. In particolare, non viene precisata né la modellistica utilizzata, né la qualità dei dati
disponibili.
Soprattutto, il lettore ha l’impressione che ci si riferisca essenzialmente a quelli che vengono spesso
chiamati gli “effetti di cantiere” di breve periodo (ossia al valore aggiunto attivato dalla spesa per
opere pubbliche nel 2011-2013), senza tenere conto dagli impatti a volte molto più significati
sull’aumento di capitale fisso sociale e quindi sulla crescita della produttività. In breve, si trae la
sensazione che nonostante le aspettative lanciate una decina di anni fa con la Legge Obiettivo, oggi
sia perduto valore nella strategia di politica economica. Mancano elementi per esprimere una
valutazione sulle ‘misure acceleratorie’ adottate principalmente nel 2013.
Occorre sottolineare che, a conclusioni analoghe, si giunge analizzando il censimento più recente
sulle infrastrutture/opere pubbliche in finanziamento tramite sia fondi esclusivamente pubblici, sia
varie forme di partnership tra pubblico e privato (Reviglio, 2011). Il documento presentato ad un
seminario ristretto di operatori italiani e stranieri del settore aggiorna in misura significativa i dati
resi disponibili negli studi della Banca d’Italia (Balassone, Casadio, 2011) e conferma
essenzialmente la riduzione del ruolo delle infrastrutture/opere pubbliche nella strategia di riforme e
di crescita dell’Italia. A rilievi dello stesso tenore si giunge esaminando alcuni tra i documenti di
istituti privati di analisi e ricerca, ad esempio quello più recente del Centro Europa Ricerche (CER,
2011) e lo stesso documento di osservazioni e proposte del CNEL (CNEL; 2011) sul PNR; nei
documenti CEr e CNEL, al pari di quello dei servizi di bilancio e studi di Senato e Camere, le
osservazioni e proposte riguardano sia il PNR sia il Programma di Stabilità.
Da questi documenti (e da altri resi disponibili negli ultimi anni) si ricava inoltre che la lentezza (e
la poca chiarezza di regole) in materia di progettazione, gare e contrattualizzazione, il frequente
mutamento del quadro regolatorio, la scarsa priorità data alla predisposizione di studi di fattibilità e
alla valutazione delle infrastrutture/opere pubbliche (ex ante, in itinere ed ex post)5 sono elementi
che frenano la definizione e l’attuazione di una politica per le infrastrutture più delle mancanza di
risorse; alla riduzione delle risorse pubbliche derivante dai vincoli di bilancio fa riscontro invece in
Italia ed all’estero un aumento di risorse private alla ricerca di investimenti di lungo periodo a
rendimenti da considerarsi adeguati ed a rischio contenuto (ad esempio, De Carolis, Giorgiantonio,
Giovanniello, 2011); Bassanini, Reviglio, 2011; Reviglio, 2011).
5
Da natura che in questo ultimo periodo è diminuito il ruolo dell’unità centrale di valutazione presso il Ministero dello
Sviluppo Economico, ora presso l’Agenzia per la Coesione della Presidenza del Consiglio e sono state, in pratica,
smantellate le unità di valutazione create presso alcuni dicasteri (ad esempio Mibac) e Regioni.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
Occorre, a questo punto, chiedersi se il ruolo comparative ridotto della politica per le
infrastrutture/opere pubbliche nel PNR sia da attribuirsi alla maggiore urgenza e priorità di altre
riforme, specialmente nel campo della finanza pubblica e del fisco, oppure alla constatazione che in
Paesi maturi, come l’Italia, le politiche per le infrastrutture riguardano principalmente
ammodernamenti e completamenti piuttosto che nuove reti (e per questa ragione suscitano minore
attenzione che in Paesi o aree emergenti od in ritardo di sviluppo) oppure ancora che non sia stato
metabolizzato il nesso tra infrastrutture (anche nel senso ristretto di opere pubbliche) e riforme.
Tale nesso, si tenga presente, è stato al centro delle strategie della Banca mondiale (prima) e delle
altre maggiori Banche regionali di sviluppo poi, (principalmente del Banco interamericano di
sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo) ma pare sia stato poco metabolizzato nell’esperienza
europea ed ancor meno in quella italiana (Bassanini, Pennisi, Reviglio, 2015). Sulle strategie ed
esperienze in questo campo specifico da parte della Banca mondiale, del Banco interamericano per
lo sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo esiste una letteratura smisurata sin dagli Anni Ottanta;
le esperienze sono diventante particolarmente ricche negli ultimi vent’anno in seguito ai lavori
fondamentale di Dixit e Pindyck su investimenti, riforme ed incertezza (Dixit, Pindyck, 1994) e di
Adler e Posner su analisi economica dell’investimento e decisioni in materia di regolazione (Adler,
Posner, 2006). In Europa, non manca letteratura anche empirica (Bezzi, 2006; Chervel, 1995;
Ferrara, 2010; Pennisi, Scandizzo, 2003), ma non sembra sia stata metabolizzata dai policy makers
il ruolo delle infrastrutture (se opportunamente soggette a valutazione) come grimaldello per
riforme della normativa e della regolazione.
Politiche europee per le infrastrutture
Da decenni, da quando il ‘Piano Juncker’ era ‘nel grembo degli Dei’, la politica d’integrazione
europea pone l’accento sulla esigenza di notevoli investimenti per le infrastrutture, al fine sia di
migliorare la competitività del continente, sia rafforzare la coesione all’interno dell’Unione (per una
sintesi delle misure effettuate prima dell’unione monetaria, Triulzi, 1999 (per gli anni più recenti
utile consultare oltre al sito della Commissione Europea, www.euinfrastructure.com). Interessante
notare che anche il filone di pensiero che ha coerentemente espresso le critiche più severe nei
confronti del coinvolgimento ritenuto eccessivo da parte delle istituzioni europee e, in particolare,
da parte della CE, in attività che dovrebbero rientrare nella sfera esclusiva degli Stati membri
(Vibert, 2001) e da chi ha sempre sostenuto l’esigenza di una politica di bilancio molto rigorosa
(Magnifico, 2008; Valli 1999). La letteratura sulla politica europea per le infrastrutture fisiche,
specialmente le reti di collegamento Ten-T è sterminata. E tale è anche quella sulle infrastrutture
immateriali ad alto contenuto tecnologico. Alcune di queste infrastrutture interessano direttamente
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l’Italia, in quanto, traversandola da Sud a Nord e da Ovest ad Est per migliorare i collegamenti
europei, comportano nuovi snodi ed ammodernamenti del parco italiano d’infrastrutture. A riguardo
è utile ricordare che è stato emanato6 un decreto legislativo di attuazione della Direttiva europea
concernente l’individuazione e la designazione delle infrastrutture critiche europee e la valutazione
della necessità di migliorarne la protezione.
Il decreto stabilisce le procedure per l’individuazione e la designazione di infrastrutture critiche
europee, nei settori dell’energia e dei trasporti, nonché le modalità di valutazione della sicurezza di
tali infrastrutture e le relative prescrizioni minime di protezione dalle minacce di origine umana,
accidentale e volontaria, tecnologica e dalle catastrofi naturali. I sotto-settori riguardanti energia e
trasporti, individuati sono:

energia: elettricità, petrolio, gas;

trasporti: trasporto stradale, trasporto ferroviario, trasporto aereo, vie di navigazione interna,
trasporto oceanico, trasporto marittimo a corto raggio e porti.
Gli adempimenti relativi alla protezione delle infrastrutture previsti dal decreto in oggetto non
sostituiscono quelli già stabiliti da disposizioni in vigore, ma sono da ritenersi integrativi. In
particolare, sono introdotte le seguenti definizioni, riprendendo quelle utilizzate dalla Direttiva:

infrastruttura critica (IC): infrastruttura, ubicata in uno Stato membro dell’Unione Europea,
che è essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della
sicurezza e del benessere economico e sociale della popolazione ed il cui danneggiamento o la
cui distruzione avrebbe un impatto significativo in quello Stato, a causa del’'impossibilità di
mantenere tali funzioni;

infrastruttura critica europea (ICE): infrastruttura critica ubicata negli Stati membri dell’UE
il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un significativo impatto su almeno due
Stati membri. La rilevanza dell’impatto è valutata in termini intersettoriali. Sono compresi gli
effetti derivanti da dipendenze intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture. Le
funzioni di individuazione e designazione delle ICE sono svolte dal Nucleo Interministeriale
Situazione e Pianificazione (NISP) che ha anche il compito di coordinare l’elaborazione di
direttive interministeriali contenenti parametri integrativi di protezione, elabora:

entro un anno dalla designazione di un’ICE, una valutazione delle possibili minacce nei
riguardi del sottosettore nel cui ambito opera l’ICE designata;
6
È stato pubblicato sulla G.U. 102 del 04/05/2011.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015

ogni due anni i dati generali sui diversi tipi di rischi, minacce e vulnerabilità dei settori in
cui vi è un’ICE designata;

viene anche richiesto alle amministrazioni centrali dello Stato di redigere ogni anno un
piano pluriennale di infrastrutture.
Il decreto resta, a quel che se ne sa, sostanzialmente non applicato.
In parallelo, quasi con la definizione di infrastrutture critiche, emerge l’esigenza di nuovi strumenti
finanziario come gli “eurobonds” (Bassanini, Pennisi, Reviglio, 2015; Bassanini, Reviglio, 2011)
per il finanziamento delle infrastrutture da distinguersi da altre forme di obbligazioni europee
finalizzate a ridurre il peso del debito sovrano di alcuni Stati.
Gli “Eurobonds” non sono un’idea nuova ed originale. Per questo ne sono state fatte numerose
formulazioni in passato. Ad esempio, già negli anni Sessanta, Alexandre Lamfalussy propose
obbligazioni “europee” a supporto della politica agricola comune. Negli Anni Settanta, venne
delineato un programma da François-Xavier Ortoli, all’epoca presidente della Commissione
europea (giornalisticamente vennero chiamati “Ortoli Bonds”) di emissioni di obbligazioni
“europee” che avrebbero avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite
grandi investimenti in infrastrutture. Ne circolarono varie versioni, tutte preliminari: secondo alcune
sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), secondo altre direttamente
dalla Commissione europea. “Eurobonds” vennero poi proposti, sempre in chiave di finanziamento
dello sviluppo, nel “piano” Delors per la creazione del mercato unico europeo, approvato nel
Consiglio Europeo di Madrid nel 1989; in effetti, quella delle obbligazioni “europee” è una delle
parti del “piano” rimaste sulla carta. Lo stesso Delors ha rilanciato l’idea nel 2005.
Una proposta formulata da Mario Monti (Monti, 2010), riguarda “Eurobonds” a più valenze, che
verrebbero emessi da un’Agenzia europea per il debito ancora da istituire; in prima battuta,
servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati; in seconda, allo sviluppo, alla
stregua degli “Ortoli Bonds” e dei “Delors Bonds”. In questo quadro, si colloca anche la proposta di
“Eurobond” lanciati da Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker. Se ho ben compreso la proposta, ad
emetterli sarebbe la nuova Agenzia ed sottoscriverli sarebbero i Tesori e le banche degli Stati iperindebitati dell’Unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a tassi e termini più conveniente) il
fardello dei loro debiti (principalmente quelli con l’estero). Ciò potrebbe comportare una complessa
revisione (quindi, con annesse procedure di ratifica) dei Trattati, anche allo scopo d’istituire la
nuova Agenzia; ove alla fine di questo processo, gli “Eurobonds” venissero in vita in forma
sistematica (non episodica), probabilmente il nodo del “sollievo dal debito” sarebbe già stato sciolto
in altri modi, ma resterebbe loro l’obiettivo di finanziare lo sviluppo e di facilitare l’integrazione del
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
mercato mobiliare europeo. Al pari dei bond di BEI, di Banca mondiale, di banche regionali di
sviluppo, gli “Eurobonds” potrebbero arrivare al dettaglio tramite i normali canali bancari ed essere
acquistati dai risparmiatori al dettaglio. È difficile, però, argomentare che lo strumento servirebbe a
facilitare l’integrazione di un mercato finanziario come quello dell’eurozona che appare già
sufficientemente integrato (Fontana, Scheicher, 2010).
A mio avviso, la letteratura sugli “Eurodonds”, benché vastissima, ha analizzato in dettaglio gli
aspetti giuridico-istituzionali e tecnico-finanziari dello strumento, ma non ha sufficientemente
focalizzato sui suoi fondamentali economici. In effetti, i principali nessi teorici nella letteratura
sugli “Eurobonds” si riferiscono alla teoria dei mercati finanziari ed, in specie, alla teoria
dell’efficienza dei mercati (finanziari), seriamente rimessa in questione proprio dalla crisi
internazionale iniziata nel 2007 ed all’origine dell’aumento del debito pubblico e del debito sovrano
con l’estero (Bordo, Landon-Lane, 2010).
Un approccio differente, anche se non necessariamente alternativo, sarebbe quello di esaminare le
varie proposte relative agli “Eurobonds” sotto il profilo della teoria delle opzioni, in particolare
quella delle opzioni reali e degli investimenti in condizioni di incertezza (Dixit, Pyndick, 1994). In
effetti, l’acquisto di titoli ad alto rendimento di Stati le cui politiche economiche destano perplessità
è un investimento in condizioni d’incertezza piuttosto che di rischio; le variabili di quadro generale
sono tali e tante che non può essere valutato con tecniche anche raffinate di calcolo delle
probabilità, ma occorre, per una sua valutazione, costruire scenari contro fattuali e stimare “opzioni
reali” di vario tipo (Pennisi, Scandizzo, 2003). Ciò vuole, innanzitutto, dire esaminare quale può, o
deve essere, il “sottostante” dello strumento perché lo strumento medesimo possa essere efficiente
ed efficace. Ciò comporta un chiarimento sugli obiettivi e, quindi, sulle modalità di funzionamento
e sulle tecniche operative specifiche dello strumento. In prima approssimazione ed estrema sintesi,
il valore degli “Eurobonds” deve essere visto come derivante dalla qualità del “sottostante”. Le
procedure di valutazione degli investimenti, utilizzando l’analisi dei costi e dei benefici estesa alle
“opzioni reali”, comporta l’esame e la discussione delle opzioni reali ai soggetti interessati
dall’investimento e la definizione di un consenso tra essi. In merito al “sottostante”, si possono fare
varie ipotesi, di cui le tre principali possono essere le seguenti:
a) “Eurobonds” il cui sottostante è l’aderenza a politiche tale da minimizzare, in un contesto
d’incertezza, il futuro aggravio del debito e del rischio di insolvenza. Si tratterebbe di
strumenti analoghi al “policy-based lending” adottato da decenni, con alterno successo, dalle
istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario). Rispetto ad altre
aree, nell’“eurozona” il “policy based lending” viene facilitato, per certi aspetti, dal “patto di
crescita e di stabilità” che ne fornisce un quadro di riferimento. Il “patto”, però, tratta
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
principalmente di politiche di bilancio e di saldi aggregati da esse derivanti. Occorre chiedersi
se sia sufficiente o si non si debba entrare in altri aspetti (privatizzazioni, liberalizzazioni,
politiche sociali e previdenziali) che, a loro volta, sono il “sottostante” delle politiche di
bilancio e le determinano. Ciò comporta aspetti tecnici e politici non indifferenti. Da un canto,
in molti Stati (ad esempio, l’Italia) mancano ancora i dati (quali una Sam_Social Accounting
Matrix aggiornata e credibile)7 per effettuare analisi che siano quantitative e, quindi, vengano
considerate asettiche. Da un altro, analisi qualitative in merito a politiche possono essere
facilmente tacciate di essere “biased” ovvero pregiudizialmente “orientate”. Da un altro
ancora, “peers reviews” di politiche tra Stati dell’UE non sembrano avere mai brillato per
efficacia;
b) “Eurobonds” il cui sottostante è la qualità d’investimenti per la crescita, con effetti
moltiplicativi keynesiani nella fase di cantiere e con aumento di capitale sociale (e, quindi,
dell’aumento della produttività multifattoriale) nella fase a regime. Per questa tipologia,
esistono metodi, tecniche e procedure di valutazione ex-ante e ex-post codificate da decenni
ed in applicazione nei principali Stati UE, nonché guide operative della stessa Commissione
UE (Florio, 2003). È tuttavia difficile vedere in che modo tali “Eurobonds” differiscano dalle
obbligazioni BEI e BERS, anch’esse essenzialmente ancora alla “quality of lending” come
loro “sottostante” e dunque alla qualità della valutazione dei progetti d’investimento;
c) “Eurobonds” che potrebbero essere definiti “di scopo”, finalizzati, da un lato, a ridurre il
fardello del debito e, parallelamente, a facilitare alcune politiche specifiche (quali
privatizzazioni, le liberalizzazioni, alcune riforme di settore) in quelle situazioni in cui fosse
necessaria “fresh money”, non solo finanza per il riscatto. In tal caso, l’utilizzazione degli
“Eurobonds” verrebbe limitata da un lato, ad una funzione analoga a quella dei “Brady
Bonds” e, dall’altro, alla facilitazione di politiche ritenute prioritarie per il raggiungimento
degli obiettivi di finanza pubblica e di crescita reale.
In ciascuna di queste tipologie (e nelle loro possibili combinazioni), da un canto, il “sottostante”
sarebbe palese e trasparante, riguarderebbe l’economia reale e potrebbe essere valutato,
consentendo ai contribuenti degli Stati “virtuosi” (chiamati a sostenere l’operazione) di effettuare
scelte informate. Da un altro, sarebbe possibile orientare progressivamente la funzione obiettivo
pertinente al “sottostante” sempre più verso la crescita dato che, in ultima istanza, la crescita
economica è il rimedio necessario per ridurre il peso del debito ed il rischio d’insolvenza.
7
L’ISTAT ha ripreso a lavorare su questo terreno.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
Nel concludere, occorre sottolineare che gli “Eurobonds” nelle loro varie accezioni altro non
sarebbero che una forma di partnership pubblico-privato che può essere ottenuta in vari altri modi.
Parametri di Valutazione e Criteri di Scelta e per le Infrastrutture e per il ‘Piano Juncker’
Quale che sarà lo scenario futuro europeo ed italiano per la progettazione ed il finanziamento
delle infrastrutture nei prossimi anni, appare necessario riesaminare i parametri di valutazione per le
singole operazioni ed i criteri per selezione, a fonte di inevitabili vincoli di bilancio, quelli che
meglio contribuiscono agli obiettivi della società. Questo dovrebbe essere il primo compito del
Comitato per gli Investimenti del ‘Piano Juncker’, se e quando verrà creato. Credo sia utile iniziare
ad accennare a quella che potrebbe diventare una nuova linea di ricerca In sintesi, le caratteristiche
del “dopo crisi” paiono essere due:
 la prima, a carattere più generale, interessa il mondo intero e riguarda come andare “oltre il
PIL” come misura di benessere nazionale. Il PIL come misura di benessere nazionale è alla
base di gran parte della manualistica sulla valutazione e selezione delle infrastrutture;
 la seconda, a carattere principalmente europeo, riguarda come andare da un modello di
sviluppo che dalla fine della seconda guerra mondiale ha fatto perno sulla crescita trainata
dall’export (e, quindi, ha ipotizzato crescenti disavanzi dei conti con l’estero USA e saldi
attivi invece in quelli dell’Europa con il resto del mondo) ad un modello di crescita basato
invece sulla soddisfazione di bisogni collettivi interni all’Europa (infrastrutture, ambiente,
capitale umano, salute, cultura, tutela del patrimonio di beni culturali e del paesaggio) e del
miglioramento sostenibile, quindi, della qualità della vita.
Un’ampia rassegna dei tentativi per andare “oltre il PIL” è stata pubblicata da Marc Fleurbeay delle
Università di Parigi “Descartes” e di Lovanio (Fleurbeay, 2009). Sul tema, sono in corso numerosi
studi internazionali; in Italia ha cominciato ad operare una Commissione CNEL-ISTAT (CNELISTAT, 2014). Al momento, a mio avviso, il lavoro di Fleurbeay rappresenta il meglio di quanto
disponibile in un mercato spesso caratterizzato da saggistica approssimativa. Una sintesi efficace
del secondo punto è nel breve, ma eloquente saggio di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan
(Guerrieri-Padoan, 2009); un frutto interessante del saggio può esse considerato il lavoro ‘Towards
a New Pact for Europe’ predisposto da un vasto numero di istituti europeo (Promoting the
European Debate, 2014) proprio allo scopo di individuare una nuovo ‘grimaldello’ (ad esempio
l’unione energetica) che faccia da motore all’Unione.
I lavori di Fleurbeay e di Guerrieri–Padoan sembrano distanti, sia in termini di approccio (una
rigorosa rassegna della letteratura, oltre 400 titoli, il primo; un pamphlet volutamente divulgativo
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
per smuovere i decision maker il secondo), sia in termini di conclusioni (problematico il primo sulle
caratteristiche delle “serie alternative al PIL che sarebbero alle porte; più definitivo nelle sue
conclusioni il secondo). Hanno, soprattutto, un nesso in comune che riguarda sia i Governi, sia le
imprese, nel “dopo crisi”, in linea con un affinamento della definizione e del mondo di computare il
PIL che tenga conto di tre scuole di pensiero (l’economia del benessere, l’economia delle libertà ed
il perfezionismo contabile), l’accento è delle politiche pubbliche e delle operazioni delle “intraprese
private” (dovrà essere sul medio e sul lungo periodo e non più sul breve periodo, che pare avere
caratterizzato gli ultimi lustri).
Ciò ha una conseguenza implicita per di cui non credo ci sia ancora piena consapevolezza tra gli
operatori: come valutare politiche, strategie ed investimenti a lungo termine, specialmente quelli
caratterizzati da un lungo periodo di gestazione, prima di fornire flussi di ricavi all’impresa e/o di
benefici alla collettività.
Emergono questi spunti di riflessione:
1- le politiche e gli investimenti privati (anche per le infrastrutture) devono remunerare gli
investitori ad un tasso che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure
adottare quando una politica o investimento abbia un valore economico per la collettività nel
lungo periodo (una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio artistico e
paesaggistico alla televisione digitale terrestre), ma che potrebbe avere risultati
insoddisfacenti nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise
di aiuto di Stato, oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa UE, ma
anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare di colmare il divario con la
regolazione; nazionale od europea? I grandi investimenti europei, ad esempio le reti trans
europee, non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea? Specialmente una
“regolazione” che dia certezze di stabilità e di non essere frequentemente mutata sotto la
spinta d’interessi particolaristici pure di breve periodo;
2- le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto del miglioramento della qualità della vita)
avranno effetti anche sulle generazioni future, che in molti casi ne saranno le principali
beneficiarie. Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo OCSE e Banca
mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in molti
Paesi UE (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione Europea riflette i
vincoli di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche
liberamente utilizzabili. Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di DasguptaSen-Marglin di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui
consumi (Dasgupta, Sen Margling, 1972)? Secondo stime disponibili (anche da me effettuate)
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8%, il secondo sul 2,5%; il primo
non “cattura” quindi costi e benefici alla collettività nel lungo periodo (Pennisi, Scandizzo,
2003). Né l’uno né l’altro, poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future: due scuole
si confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche d’implicazioni di politica pubblica.
Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3- le metodologie di analisi delle politiche e degli investimenti, anche privati, hanno posto
l’accento sin dagli anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività)
con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle
opportunità). In materia, si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle
“ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici, a seconda dei livelli di reddito o di consumo
delle varie categorie di soggetti coinvolti nell’“intrapresa”. Nel Ventunesimo secolo e in
Paese avanzati ad economia di mercato, l’enfasi si deve spostare a come coniugare il breve e
medio con il lungo termine. Dato che previsioni e scenari (specialmente se contro fattuali) a
lungo termine, sono ardui da costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di
spostare l’accento, nella CSR, dall’analisi del rischio, all’analisi dell’incertezza?
4- la valutazione economica di grandi progetti (in grado di incidere sulle strutture), richiede,
specialmente in un Paese con l’orografia come quella italiana (con montagne e necessità di
viadotti e tunnel) una matrice di contabilità sociale. Quella dell’economia italiana è aggiornata
dal 1994, perché dal 1996 sono stati drasticamente ridotti i fondi per lavori non richiesti
dall’Eurostat. L’alternativa è la valutazione delle opzioni reali. Lavoro metodologico e
sperimentale (nonché di formazione) effettuato negli Anni Novanta nei campi dei trasporti,
del turismo e dei beni culturali, dalla Scuola Nazionale di Amministrazione, è stato interrotto
verso il 2008 e mai più ripreso.
Il Governo, e le sue strutture tecniche, in primo luogo, il Ministero delle Infrastrutture in
collaborazione con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dovrebbero rispondere a questi
interrogativi per l’Italia e la CE e la BEI a livello europeo ed, in parallelo, risolvere i nodi di scarsa
progettualità e insoddisfacente realizzazione, ricordati in vari punti di questa nota.
Bozza preliminare - 15 marzo 2015
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