23 FEBBRAIO 2015
I PROFETI E LA GIUSTIZIA SOCIALE
PATRIZIO ROTA SCALABRINI, DOCENTE DI ESEGESI PRESSO LA FACOLTÀ TEOLOGICA DELL'ITALIA SETTENTRIONALE DI MILANO.
Il titolo di questa conferenza rapporta tra loro due concetti: quello del profetismo e
quello della giustizia, e in specie la giustizia sociale.
Nello sviluppo di questa riflessione sono debitore in particolare ai contributi di Pietro Bovati S.J., che ha studiato a fondo il profetismo e il tema della giustizia. Peraltro
sullo sfondo di questo mio intervento restano le osservazioni che egli ci ha offerto a
Bergamo, in occasione della IV Edizione di effettobibbia il 25febbraio 2011, in cui tenne la relazione proprio sul tema: “I profeti e la giustizia”.
La voce dei profeti si leva incessantemente a difendere i diritti dei deboli, di coloro
che sono minacciati e vilipesi nella loro dignità. Voce coraggiosa, che si oppone ai
giudizi falsi, emessi da giudici compiacenti con il potente di turno; voce tenace che
contrasta con il silenzio omertoso in cui i potenti costringono a vivere; a tutto ciò si
accodano spesso anche i rappresentanti del potere religioso. Anche contro di loro si
leva forte la voce dei profeti. Basti ricordare la predicazione di Amos in Samaria e in
particolare a Betel, nel tempio del regno, predicazione che il sacerdote Amasia, responsabile di quel tempio, vorrebbe zittire, allontanando il profeta come persona
scomoda, non gradita: «Amasia disse ad Amos: “Vattene, veggente, ritirati nella terra
di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare
più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”» (Am 7,12-13).
Queste voci profetiche non vengono da un medesimo ambiente culturale, da una
determinata categoria sociale, né tanto meno sono autorizzate da un preciso ambito
sacrale. Esse si richiamano invece ad un mandato, ad un carisma, che viene messo in
relazione all’iniziativa di Dio, all’irrompere della sua parola nella vita di colui che viene
chiamato ad essere profeta. Non è quindi tanto questione di lucidità nell’analisi dei
fenomeni sociali, di mente illuminata nell’affrontare le problematiche economiche, e
neppure di un particolare coraggio e determinatezza nel carattere, bensì di qualcosa
che il profeta avverte come un dono: il dono di una visione. Infatti i profeti ‘vedono’
ciò che rimane nascosto agli occhi dei più, sprofondati nel loro vissuto quotidiano,
nelle problematiche e nei giochi di potere, nei conflitti e nelle tensioni che segnano la
vita di tutti. E tra ciò che i profeti vedono, un punto emerge in modo particolare:
l’ingiustizia.
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Il loro compito è proprio quello di portare alla luce quanto rimane nascosto agli occhi dei più, svelando un’ingiustizia mascherata in mille forme. In questo smascheramento vi è contemporaneamente la rivelazione della giustizia di Dio, che non riguarda solo l’ambito del rapporto intimo del credente con Lui, ma la costruzione di una
società giusta e fraterna, rispondente appunto al piano divino che si rivela nella storia
d’Israele e, più ampiamente, dell’umanità intera.
Portare alla luce la nascosta ingiustizia umana
In nome della sua esperienza di Dio, del suo rapporto diretto con YHWH, il profeta
pretende di offrire non tanto delle proprie opinioni e valutazioni della realtà in cui si
trova a vivere, ma di quanto il Signore gli comunica. Ecco perché solitamente mette le
proprie parole sotto un’intestazione precisa: «Così dice il Signore», oppure «Oracolo
del Signore», oppure ancora «Ecco quanto mi fece vedere il Signore». Queste ed altre
formule, che costellano la letteratura profetica, intendono rimandare ad un’origine
divina del messaggio.
Ne risulta che quanto il profeta afferma circa la società vuole essere la comunicazione dello sguardo divino su di essa, e non tanto un esercizio di critica sociale da parte del profeta medesimo. La parola profetica, comunque, non vuole semplicemente
informare, ma trasformare, cambiare. Se un certo modo di vivere non è secondo la
volontà di Dio, non è neppure secondo il bene umano, e perciò non può essere ulteriormente tollerato e va assolutamente mutato.
Un messaggio di questo tipo non è episodico, ma sistematico nei profeti. Si pensi
ad esempio ad Isaia e al suo primo capitolo, che ha davvero un valore programmatico. In esso, dopo aver denunciato la corruzione profonda del popolo, che misconosce
l’amore paterno del Signore, il profeta eleva una requisitoria rivolta ai capi e al popolo intero, in cui viene dichiarata l’insufficienza del culto senza la pratica della giustizia
sociale. Eppure, proprio mentre minaccia i suoi fedeli per il culto formalista e privo di
giustizia, il Signore offre una speranza: l’ingiustizia sarà superata e il peccato radicalmente cancellato se il popolo accoglierà la parola del suo Dio (Is 1,10-19).
Anche la requisitoria immediatamente seguente ha ancora per oggetto lo svelamento dell’ingiustizia nascosta, specie quella praticata nei tribunali e nell’oppressione
dei più deboli della società (Is 1,21-28). Compito del profeta non è però solo la denuncia di questa mancanza di giustizia, ma l’annuncio della possibilità della purificazione e del rinnovamento profondo, se il popolo lascerà agire, nella propria vita, la
parola del Signore.
Isaia, come abbiamo già suggerito, non è il solo a muovere questa denuncia. Già prima di lui Amos e Osea avevano lanciato durissime accuse ad uno stile di vita che mascherava sistematicamente l’ingiustizia. Si pensi allora a quanto dice Osea all’inizio
della seconda parte dell’opera a lui attribuita: «Non c’è infatti sincerità né amore, né
conoscenza di Dio nel paese. Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette
adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue» (Os 4,1-2). E Amos invita
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gli specialisti nell’oppressione sociale (Egiziani e Filistei) ad una sorta di ‘corso di aggiornamento’, con visita turistica alla capitale Samaria per scoprire come, dietro le
facciate dei sontuosi palazzi, si celi un mondo di ingiustizie e di sopraffazioni nei confronti dei membri più deboli del popolo: «Fatelo udire nei palazzi di Asdod e nei palazzi della terra d’Egitto e dite: “Adunatevi sui monti di Samaria e osservate quanti disordini sono in essa e quali violenze sono nel suo seno”. Non sanno agire con rettitudine – oracolo del Signore –; violenza e rapina accumulano nei loro palazzi» (Am 3,910).
Lo stesso vale per Michea, contemporaneo di Isaia, il quale deve asserire che non c’è
un solo giusto nel popolo, e il Signore è diventato come un racimolatore che, quasi
disperatamente, cerca qualcosa che sia rimasto di buono per saziare la sua fame:
«Ahimè! Sono diventato
come uno spigolatore d’estate,
come un racimolatore dopo la vendemmia!
Non un grappolo da mangiare,
non un fico per la mia voglia.
L’uomo pio è scomparso dalla terra,
non c’è più un giusto fra gli uomini:
tutti stanno in agguato
per spargere sangue;
ognuno con la rete dà la caccia al fratello.
Le loro mani sono pronte per il male…» (Mi 7,1-3).
Un secolo dopo udiamo nuovamente denunce simili, ad opera di Geremia, che deve
constatare con amarezza che, a dispetto del fiorire degli atti di culto nel tempio di Gerusalemme, si continuano a perpetrare delitti e gravi ingiustizie: «Ma voi confidate in
parole false, che non giovano: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso,
bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate. Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, sul quale è invocato il mio nome, e dite: “Siamo
salvi!”, e poi continuate a compiere tutti questi abomini» (Ger 7,8-10).
Secondo Geremia, la cosa più grave è che il culto serva a mascherare questa mancanza di giustizia, per cui le persone si autoassolvono senza cambiare; ecco perché dichiara che hanno reso il tempio una spelonca, un covo di ladri, cioè il luogo dove ci si
camuffa, si pone la refurtiva e ci si prepara per tornare presentabili per la vita civile:
«Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome?
Anch’io però vedo tutto questo! Oracolo del Signore» (Ger 7,11).
Tutta la storia della profezia è segnata da queste denunce fino all’ultimo dei profeti-scrittori, cioè a Malachia: «Io mi accosterò a voi per il giudizio e sarò un testimone
pronto contro gli incantatori, contro gli adùlteri, contro gli spergiuri, contro chi froda il
salario all’operaio, contro gli oppressori della vedova e dell’orfano e contro chi fa torto al forestiero. Costoro non mi temono, dice il Signore degli eserciti» (Ml 3,5).
L’ultima affermazione smaschera la pretesa di essere timorati di Dio, cioè essere dei
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credenti, mentre invece, nella pratica, si commettono iniquità e ingiustizie, tra cui
spiccano appunto quelle perpetrate a danno delle categorie più deboli e povere.
Il paradosso è che queste cose sono proibite dalla legge, ma restano nascoste alla
coscienza. È la stessa coscienza che occulta a se stessa l’ingiustizia, si autoinganna, si
compiace della falsità. Occorrono i profeti a snidare questo autoinganno, a svelare il
male che si ammanta a volte di legalità, di fedeltà alla tradizione, di pratiche religiose.
Poiché il male, quando è palese, suscita riprovazione, se non da parte di tutti almeno di molti, ha bisogno di nascondersi, di mimetizzarsi. Ecco quanto deve fare il profeta: richiamare la coscienza alla verità e togliere la cortina di perbenismo. Ci piace ricordare qui un salace proverbio dei maestri d’Israele: «Questa è la condotta della
donna adultera: mangia, si asciuga la bocca, e dice: “Non ho fatto niente di male”»
(Pr 30,20). Come l’adulterio ha bisogno di nascondersi e come il tradimento va dissimulato, così l’ingiustizia mette in campo i propri travestimenti. Va smascherata!
Il compito profetico di smascheramento dell’ingiustizia, può trovare una sorta di
icona, di immagine esemplare, nel racconto riguardante il profeta Natan che, con la
celebre parabola del ricco che si è impossessato dell’unica pecora del povero, smaschera il peccato di Davide che pure sembrava avere avuto una perfetta soluzione regale, con il matrimonio conseguente alla morte del marito di Betsabea.
Un altro episodio esemplare è quello del profeta Elia, che svela l’ingiustizia perpetrata da Acab ai danni di Nabot. Anche qui il delitto si era celato dietro una parvenza
di legalità (vedi 1Re 21).
Questi due esempi riguardano profeti non scrittori; venendo però ai profeti scrittori, basterebbe citare, quale paradigma, l’oracolo di Amos contro Israele, oracolo nel
quale si mostra come pesanti sopraffazioni ai danni dei più deboli vengano attuate rispettando il sistema legale: «Così dice il Signore: “Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra
la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri. Su vesti prese come pegno si
stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del
loro Dio”» (Am 2,6-8).
Può succedere, in sostanza, che il dispositivo legale e giudiziario, invece di servire
alla giustizia, operi una sorta di distorsione delle coscienze, una specie di violenza sulle anime. Ebbene, compito dei profeti è denunciare questo processo discorsivo. Fondamentalmente essi individuano tre modi con cui si giunge a fare della legge uno
strumento a servizio dell’iniquità.
Il primo modo è la manipolazione del sistema legislativo stesso, confondendo con
le proprie interpretazioni quanto dovrebbe invece evidenziare il male che va combattuto ed evitato. Citiamo, in proposito, quanto scrive Is 10,1-2: «Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda
e per defraudare gli orfani» (Is 10,1-2).
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Un ‘guai’ analogo era stato prospettato già in Is 5,20, quando si denunciava la perversione dei valori etici, sensoriali, nel tentativo di creare una mentalità che assecondi pratiche ingiuste e un sistematico sfruttamento dei più deboli: «Guai a coloro che
chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro». Un secolo più tardi Geremia giungerà ad una medesima, amara, constatazione, asserendo che laTôrāh del Signore viene ridotta a menzogna dalla penna menzognera degli scribi: «Come potete
dire: “Noi siamo saggi, perché abbiamo la legge del Signore”? A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!» (Ger 8,8).
Un secondo di questa distorsione delle coscienze che i profeti denunciano è – come
abbiamo già sopra accennato – il porre il culto, e in generale l’apparato religioso, non
al servizio di un processo di conversione e di riforma di vita, ma a quello di una tranquillizzazione delle coscienze, in una sorta di processo di autoassoluzione. In ciò si accavallano gli oracoli profetici di Amos, Michea, Isaia, Geremia. Quest’ultimo farà della
lotta contro il culto distorto, uno dei punti essenziali di tutta la sua missione profetica, e ciò gli costerà molto caro, tanto da giungere ad un processo con condanna a
morte, non realizzatasi però per l’intervento di Achikàm (vedi Ger 26). E ovviamente,
poiché la voce del profeta risulta scomoda, si cerca di tacitarla, impedendogli di profetare (esemplare è il caso di Amos) e soprattutto favorendo i profeti compiacenti,
quelli che lusingano gli ascoltatori, non denunciando il male e illudendoli con false
promesse di prosperità e di benedizione.
Il vero profeta, quello che annuncia quanto Dio gli ha fatto vedere, deve allora
combattere strenuamente contro le voci dei falsi profeti, che manipolano disinvoltamente il divino e legittimano comportamenti che producono ingiustizia e morte. Anche se i falsi profeti vengono ben presto smentiti dai fatti, riescono comunque a confondere le coscienze, a seminare il dubbio, a far crescere il qualunquismo morale e il
formalismo religioso.
La rivelazione della giustizia di Dio
Davanti alla corruttela dei costumi e al dilagare dell’iniquità, sembrerebbe che la
giustizia di Dio si possa manifestare soltanto come castigo, come repressione del male, e ciò sarebbe rivelatore di una doverosa vicinanza a coloro che sono vittime di ingiustizia. Eppure il solo castigo non ristabilisce la giustizia, né risana i danni fatti dal
male.
Come ha ben mostrato Pietro Bovati, nel suo studio sul ristabilimento della giustizia, cioè nell’indagine sui cosiddetti rîb profetici, non si può ridurre il messaggio profetico ad un mero annuncio del giudizio imminente. Questo significherebbe innanzitutto negare che la finalità della profezia è il ricondurre il peccatore alla conversione,
l’ingiusto alla giustizia. Non è quindi il realizzarsi del giudizio come castigo l’intento
della missione profetica, sia questa attuata in modo orale, sia attraverso lo scritto.
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Basti leggere questo passo dell’episodio in cui Geremia riceve da Dio l’ordine di far
fissare per iscritto dal segretario Baruc i contenuti della sua profezia
Ordunque, nella letteratura esegetica, si insiste molto su quella che sarebbe la
struttura essenziale degli oracoli profetici di giudizio. Nella prima parte vi sarebbe
l’accusa; nella seconda parte – o comunque in relazione di conseguenza all’accusa – vi
è l’annuncio della sanzione divina contro i reati oggetto dell’accusa, della denuncia.
Eppure questa struttura non rende ragione pienamente della natura dell’oracolo profetico, perché imposta quest’ultimo su uno schema forense in cui il
, cioè il
giudizio o sentenza, viene emesso da un giudice che giudica stando al di sopra delle
parti in causa. Invece non è così, perché Dio è intimamente parte in causa, in quanto,
perpetrando l’ingiustizia, il reo attenta pure alla struttura di alleanza che lega Dio con
il popolo e con il singolo fedele. Il giudizio connesso agli oracoli profetici è perlopiù da
riferirsi invece ad un altro schema giudiziario, quello del rîb. Questo schema ha a che
fare con un tipo di relazioni collegate ad un patto o ad un legame profondo come
quello familiare. Lo scopo del ‘litigio familiare’ non è quello di rompere i rapporti, ma
di risanare le fratture, di denunciare una situazione non per congelarla in modo sanzionatorio, ma per riportarla alla sua verità originaria.
Ebbene, si denuncia il male per cercare di instradare il colpevole su una possibile
via di salvezza. Spesso il castigo avviene ancora prima del giudizio, del rîb, per indurre
chi vive nell’ingiustizia e trasgredisce l’alleanza, a rendersi conto che qualcosa non va,
ad interrogarsi sulla propria responsabilità. Su tale terreno la denuncia profetica può
diventare feconda, in quanto induce alla conversione, al ravvedimento. È così che si
manifesta la giustizia di Dio che, se castiga, non è tanto per punire quanto per correggere.
In questo senso i profeti annunciano il castigo inesorabile e terribile proprio perché
non si realizzi, non diventi appunto inesorabile. Così le minacce e gli avvertimenti profetici circa un disastro storico che sta avvicinandosi, hanno la finalità di impedire il loro realizzarsi. Al contrario, è così che si realizza la giustizia di Dio, celebrata dal famoso cantico di Mosè (o cantico di testimonianza): «Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto» (Dt
32,4).
In altre parole, l’oracolo profetico di accusa prevede non due, ma tre parti: la denuncia, la sanzione minacciata, l’annuncio di qualcosa che supera la sanzione e che apre
alla speranza. Esempio sommo di questo tipo di rîb profetico sono gli oracoli di Osea,
che usano sia la metafora familiare del divorzio e della ricomposizione del legame nuziale (Os 2,4-25), sia quella genitoriale, in cui l’amore del genitore supera tutte le ribellioni e le ingratitudini di un figlio ribelle (Os 11). Ma si ricordino anche i tre rîb con
cui inizia il libro di Isaia, il libretto della consolazione di Geremia (Ger 30-31), e alcuni
indimenticabili oracoli del Deuteroisaia, come ad esempio Is 54.
Perché il rîb si realizzi pienamente nella sua natura di litigio profetico in vista del ristabilimento della giustizia, è necessario che da parte dell’ingiusto si intraprenda un
cammino di sincera conversione, che comincia con il riconoscere le proprie responsa6
bilità, la caparbietà e perversione del proprio cuore. Non è per questo suo cambiamento che il peccatore ottiene il perdono, ma senza conversione egli non accetta il
perdono, perché non ne riconoscerebbe neppure la necessità e tanto meno la gratuità.
È su questa giustizia di Dio che si fonda la speranza di un vero cambiamento da parte
degli ingiusti. Infatti tutti i tentativi di riforma delle strutture sociali, politiche e religiose non sono stati in grado di risanare l’animo umano dall’ingiustizia che vi dimora.
Un profeta, sopra tutti gli altri, ha mostrato l’inadeguatezza di tentativi di riforma delle strutture, che prescindesse da un cambiamento profondo del cuore: Geremia. Costui fa una disamina attenta e sofferta del fallimento della struttura templare e
dell’istituzione sacerdotale, del fallimento della monarchia e di tutti gli apparati politici, dell’insuccesso dell’avventura sapienziale, del crollo delle attese suscitate da profeti rivelatisi falsi, inattendibili. Allora unica speranza di poter seminare giustizia là
dove vi è il trionfo dell’ingiustizia è l’iniziativa divina di ri-creare il cuore umano. Ecco
allora la promessa di una circoncisione del cuore (Deuteronomio e Geremia), di una
scrittura della Legge sul medesimo (Geremia), del dono di un cuore nuovo, di carne
(Ezechiele), dell’effusione dello Spirito (Isaia, Gioele), della restaurazione di un pieno
rapporto di alleanza (Osea).
Tanti linguaggi per dire una certezza: il cuore, come metafora del principio sorgivo
della libertà umana guidata dall’intelligenza, dal discernimento e dallo slancio amoroso, verrà reso capace di bene dall’iniziativa di Dio, che si espliciterà attraverso il dono
della sua Parola e del suo Spirito. È questa la perfetta giustizia annunciata dai profeti.
Volontà di Dio e giustizia umana
I profeti non si limitano a denunciare l’ingiustizia e a suggerire una via d’uscita da
essa grazie alla ‘giustizia’ divina che accorda il perdono al peccatore pentito. Essi infatti rivelano anche qualcosa della volontà concreta del Signore sull’umanità e in primo luogo su Israele, popolo che Egli si è scelto come suo testimone anche nel suo edificare una società giusta e fraterna.
2) Sintetizziamo qui la riflessione/rivelazione profetica sulla volontà divina sulla ‘società’ umana in cinque tesi. A. Dio è interessato al qui e ora della storia umana; B. Dio
si interessa anche delle cose materiali; C. Dio si interessa in particolare della società;
D. Dio vuole un mondo ricco e prospero; E. Gli interessi di Dio scatenano il dramma
nella storia.
Il progetto divino sulla società umana
Illustriamo brevemente tali tesi, presenti in modo massiccio (ma non esclusivo) negli scritti profetici.
Anzitutto abbiamo detto che Dio è interessato al ‘qui e ora’ della storia umana. È
questo un aspetto assolutamente evidente nei profeti. Infatti il ministero profetico è
quello di portare la parola di Dio a giudicare una situazione attuale, storicamente de7
terminata. La loro convinzione è che è sulla terra e per gli uomini – e in particolare
per Israele – che Dio agisce. Si pensi, ad esempio, a come il Secondo Isaia interpreti le
vicende storiche del suo tempo vedendo in Ciro il servo del Signore, colui che Dio ha
suscitato per consolare il suo popolo e per liberarlo dall’esilio babilonese. Per i profeti
la parola di Dio non riguarda l’altro mondo, ma annuncia un cambiamento decisivo in
questo mondo. È un Dio sempre interessato alla storia e al mondo degli uomini.
La seconda tesi è strettamente connessa alla prima, e cioè Dio si interessa alla storia e perciò anche alle cose materiali e non solo agli eventi interiori, riguardanti lo spirito umano. I profeti annunciano la regalità di Dio, come ad esempio Is 6. Ma la regalità di Dio significa la trasformazione di questo mondo anche nella sua dimensione
economica. La ragione di questa attenzione ai tratti materiali, economici,
dell’esistenza umana, si radica in una precisa teologia della creazione e della storia.
Secondo la teologia biblica della creazione, Dio fa ogni cosa buona, e quindi anche
la materia è buona. Per quanto poi riguarda la teologia biblica della storia, si deve ricordare che l’inizio della storia d’Israele è posto sotto il segno di una liberazione, per
opera del Signore, dal sistema economico e politico del faraone e delle città-stato
feudali di Canaan, per fare entrare il popolo in una terra buona, dove scorre latte e
miele (cfr. ad es., Ger 32,22; Ez 20,6).
La terza tesi è che Dio si interessa alla società umana e propone un ordinamento
sociale che faccia della giustizia il suo perno. Quanto abbiamo detto sopra sostanzia
questa tesi. Suggeriamo solo, a modo di esempio, di rileggere alcuni passi di carattere
messianico, in cui i profeti prospettano una società guidata da un re giusto (Is 9,6;
11,3-5). In definitiva, i profeti, come già la Tôrāh, hanno di mira l’edificazione di una
comunità in cui si persegua un modo di vivere giusto, fraterno, solidale.
In quest’ottica dell’attenzione di Dio alla storia umana vista nella sua dimensione
economica e sociale, diventa evidente anche la quarta tesi, e cioè quella Dio vuole un
mondo ricco e prospero perché vuole la gioia e la felicità delle sue creature. Si capisce
allora meglio come le promesse messianiche siano espresse sovente in termini di abbondanza economica, come ad esempio in Is 60,5-6: «Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà
su di te, verrà a te la ricchezza delle genti. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando
le glorie del Signore».
Ma questa volontà di Dio, cioè il suo progetto su questo mondo, si scontra drammaticamente con i progetti e la volontà di uomini ingiusti, egoisti e peccatori. È questa la quinta tesi, che peraltro rimanda a quanto abbiamo detto fin dall’inizio circa
l’opera dei profeti nello smascheramento di strutture dell’ingiustizia che si nascondono spesso alla stessa coscienza dei colpevoli.
I profeti ereditano dalla fede di Israele una certezza: Dio interviene nella storia come Colui che lotta contro il male e contro ogni sistema di ingiustizia incarnato
all’inizio nella figura del faraone, figura che i profeti riconoscono, di volta in volta,
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come ripresentantesi in circoli di potere che opprimono i poveri e che fanno della violenza il loro mezzo per affermarsi.
La giustizia sociale, voluta da Dio
Da questo progetto divino scaturiscono alcune indicazioni circa la “giustizia sociale”. Soltanto tenendo presente il quadro sopra abbozzato, almeno allusivamente, è
possibile comprendere il concetto profetico di “giustizia sociale”. Anche per questa
parte proponiamo cinque tesi fondamentali in forma sintetica:
1) L’ingiustizia si serve del potere e della ricchezza. La predicazione profetica è
esplicita nel condannare l’ingiustizia che viene commessa da chi ha potere e ricchezza
o da chi vuole acquisirli (cfr. Ger 5, 26-29) Ma non è la ricchezza o il potere che sono
per sé ingiustizia, bensì la cupidigia del potere e della ricchezza.
2) Giustizia e responsabilità del potere e della ricchezza verso il povero. Potere e
ricchezza sono spesso uniti, specie nell’antica società israelitica. Il «povero» era privo
di proprietà sue, ma anche era sprovvisto di potere. Denaro e potere erano soprattutto in mano del re, il quale doveva far valere
e edaqāh, cioè giustizia e rettitudine/giustizia e prosperità. Fare giustizia è anzitutto il compito del re; in particolare
ciò implicava la difesa del povero e dell’indigente. La giustizia non è accrescere la ricchezza solo per sé, ma l’esercizio del potere/denaro secondo l’esigenza degli altri, a
cominciare dai soggetti più svantaggiati (il povero e il misero).
3) L’opzione preferenziale per i poveri. Chiunque «crede» davvero in YHWH entra a
far parte e condivide la sorte del «popolo povero» di Dio, dove è superata la divisione
degli uomini in padrone/servo, oppressore/oppresso, potente/debole. Dio libera il
«suo povero», cioè Israele, facendone una società modello tra tutte le società del
mondo. Quindi la trasformazione che YHWH opera per il suo popolo povero promuove la trasformazione di ogni società nel mondo. Ne consegue che ‘fare la giustizia’ è,
secondo il messaggio profetico, assumersi lealmente la responsabilità che potere e
ricchezza richiedono verso chi è povero, debole, sfruttato. Potere e ricchezza sono infatti spesso congiunti, e certamente non solo nell'antica società israelitica in cui soltanto la proprietà della terra garantiva il godimento dei pieni diritti entro la comunità.
Il ‘povero’ è ovunque la persona priva sia di proprietà sue, sia di potere. Ora, fare la
giustizia consiste nel non accrescere la ricchezza solo per sé, ma nell’esercizio del potere e nell’uso del denaro secondo l'esigenza effettiva degli altri, a cominciare dai
soggetti più svantaggiati (il povero e il misero). È infatti il povero il primo destinatario
di una prassi di giustizia da parte di chi ha denaro e potere.
Pertanto il delitto peggiore da parte di un potente, di una persona che abbia responsabilità di comando è proprio l’anteporre alla giustizia il proprio interesse, operando compromessi, oppressioni e violenze.
Un esempio in negativo di tale comportamento è il re Ioiakim, che Geremia condanna durissimamente: «Guai a chi costruisce la casa senza giustizia e il piano di sopra senza equità, che fa lavorare il suo prossimo per nulla, senza dargli la paga e dice:
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“Mi costruirò una casa grande con spazioso piano di sopra”, e vi apre finestre e la riveste di tavolati di cedro e la dipinge di rosso. Forse tu agisci da re perché ostenti passione per il cedro? Forse tuo padre non mangiava e beveva? Ma egli praticava il diritto e la giustizia e tutto andava bene. Egli tutelava la causa del povero e del misero e
tutto andava bene; questo non significa infatti conoscermi? I tuoi occhi e il tuo cuore,
invece, non badano che al tuo interesse, a spargere sangue innocente, a commettere
violenza e angherie» (Ger 22,13-17).
4) La pratica della giustizia dipende dalla conoscenza di Dio. Si pensi a quanto scrive Geremia: «Passano da un delitto all’altro e non conoscono il Signore» (9,3). Una
società che ha rifiutato la conoscenza di YHWH, ha escluso la ricerca di Dio, si condanna alla menzogna a tutti i livelli e quindi all’ingiustizia. I profeti inculcano l’idea
che la mancanza di verità e lealtà, l’abbondanza di delitti contro il prossimo non si
possono giudicare soltanto con criteri umani. Occorre la conoscenza di Dio. La stessa
tesi si ritrovava già in Os 4,1-2: «… non c’è infatti sincerità né amore, né conoscenza di
Dio nel paese. Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio,
tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue».
Se il popolo ‘conoscesse’, quindi anche riconoscesse Dio e le sue esigenze espresse
nella Tôrāh, non agirebbe contro giustizia. In altri termini, il credente deve preoccuparsi delle ingiustizie a tutti i livelli, perché ciò interessa realmente Dio. Quando manca la conoscenza di Dio manca pure la conoscenza dell’uomo, che viene ridotto a
semplice ingranaggio di una macchina enigmatica e crudele. La vera conoscenza di
Dio deve tradursi in giuste relazioni con il prossimo.
5) Le obbligazioni della giustizia verso il prossimo sono la prima delle umane responsabilità, antecedente anche il dovere del culto. Questa tesi è la conseguenza di
quella precedente o, se si vuole, ne è l’esplicitazione. L’unico culto che è gradito a
Dio, quale espressione della vera conoscenza di Dio, è quello che integra in un tutto
coerente le giuste relazioni con Dio e con il prossimo.
A riprova di ciò si leggano due passi profetici. Il primo è tratto da Osea ed è la conclusione dello smascheramento di una falsa liturgia penitenziale, in cui alle parole rituali non corrisponde una decisione autentica di conversione: «Voglio l’amore e non il
sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6).
Il secondo passo è tratto da Michea e presenta la risposta di YHWH agli interrogativi di un popolo che pensa di ottenere il favore divino con il moltiplicare le azioni cultuali, addirittura giungendo a pensare che Dio gradisca sacrifici umani. Ebbene, a tale
delirio il Signore contrappone la manifestazione della sua volontà: «Uomo, ti è stato
insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia,
amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio».
Il popolo ragionava in modo analogo al genere contabile, come se Dio volesse di
più, facendo però della sua volontà qualcosa di assurdo («Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?» - Mi 6,7).
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Il profeta invece indica con chiarezza l’alterità qualitativa delle attese di Dio e, in
definitiva, anticipa la concentrazione neotestamentaria del comandamento di Dio
nella duplice esigenza dell’amore verso Dio (fede umile) e amore verso il prossimo
(pratica della giustizia).
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