Destra Storica, Sistema Amministrativo, Brigantaggio, Politica

2 /STORIA
5 Scientifico
( ARGOMENTI:
- DESTRA STORICA: SISTEMA AMMINISTRATIVO, BRIGANTAGGIO, POLITICA
ECONOMICA, QUESTIONE ROMANA E COMPLETAMENTO DELL'UNITA'
- SINISTRA STORICA: RIFORMA ELETTORALE E ISTRUZIONE, POLITICA
ESTERA, POLITICA ECONOMICA, IL TRASFORMISMO
- L'ETA' DI CRISPI
- LA CRISI DI FINE SECOLO
- GIOLITTI: DECOLLO INDUSTRIALE, POLITICA SOCIALE, POLITICA ESTERA
L'ITALIA LIBERALE
Il primo cinquantennio unitario fu festeggiato solennemente nel 1911 con
l'inaugurazione dell'Altare della Patria a Roma. Era una potenza media, accettata
e inserita nel grande gioco europeo. L'Italia aveva forze armate adeguate al suo
rango, aveva colonie, aveva aree toccate dallo sviluppo industriale. Aveva anche,
da sempre, più braccia di quanti fossero gli impieghi.
L'unica via d'uscita era l'emigrazione disperata e senza ritorno al di là
dell'oceano.
Nel 1913 ben 780.000 italiani furono costretti ad andarsene, perché le attività
tradizionali, a partire dalla agricoltura, che ancora occupava quasi il 60% degli
italiani, non erano in grado di creare posti di lavoro in misura proporzionale
all'aumento della popolazione. Alla crescita demografica, dovuta soprattutto a
un forte abbassamento della mortalità, non c'era tuttavia un altrettanto
impetuoso sviluppo della economia, che restava ancorata ad uno stadio
preindustriale. Solo alcune aree del nord conobbero il decollo industriale.
L'Italia, però, era cambiata ovunque. Gli analfabeti, che nel 1861 erano il 75%,
nel 1901 erano il 48%. Gli iscritti ai licei erano triplicati e quelli alle scuole
tecniche sestuplicati. L'aula, anche universitaria, diventava il luogo in cui,
attraverso lo studio, i meno fortunati avrebbero potuto elevarsi ai livelli
superiori. Scuola e caserma avrebbero dovuto amalgamare i cittadini giovani del
giovane Regno.
Ma perché occorreva procedere a quest'opera di fusione delle sensibilità
collettive?
Il Regno d'Italia era una nazione divisa, in primo luogo, dal punto di vista
politico. Il Risorgimento era stato portato a termine da un'élite di patrioti in
prevalenza settentrionali, raggruppati intorno a due poli fondamentali: i liberali
cavouriani e i democratici, mazziniani e garibaldini. I liberali avevano raccolto
l'eredità delle classi dirigenti precedenti
DESTRA STORICA
I liberali piemontesi, gli unici ad aver sperimentato una vita politica moderna
dopo il 1848, erano il fulcro del "partito" cavouriano, la cosiddetta "Destra
storica". I liberarli lombardi avrebbero voluto un'amministrazione piú
decentrata, onde concedere largo spazio alle autonomie locali. I liberali toscani
erano rigidamente liberisti e quelli emiliani interpretavano soprattutto gli
interessi degli agrari.
Quando si parla di "partito", non si intende una struttura come quella attuale,
con tessere, sezioni, congressi. I liberali erano pochi e non avevano bisogno di
questi strumenti; si incontravano nei club o nei comitati elettorali poco prima
delle elezioni e si accordavano sul programma e sui candidati; dopodiché, chi
vinceva amministrava, e gli elettori tornavano ciascuno ai propri affari.
IL DIRITTO DI VOTO
Un simile sistema poteva funzionare perché, di fatto, potevano votare solo pochi
cittadini: nel 1861 l'1,9% dei cittadini e il 7,9% dei maschi adulti.
Chi restava escluso?
La maggioranza degli italiani: le donne, i giovani fino ai 25 anni e soprattutto chi
non aveva i requisiti di censo e di istruzione necessari. Insomma per avere
diritto al voto bisognava essere grandi contribuenti e, dunque ricchi signori:
oppure apparteneree a categorie "prestigiose": professori, funzionari pubblici,
militari. Di fatto la stragrande maggioranza di quelli che votavano
appartenevano a un unico ceto e avevano gli stessi interessi da tutelare. Il
rapporto tra elettori e abitanti, in Italia, restò il più basso d'Europa fino al 1882
IL SUD
Tra nord e sud la frattura c'era stata subito dopo l'Unità d'Italia, col fenomeno
del brigantaggio: una guerra civile in piena regola che aveva viato quote rilevanti
del neonato esercito italiano.
Il brigantaggio definisce una forma di banditismo caratterizzata da azioni
violente a scopo di rapina ed estorsione; aveva come causa di fondo la miseria.
La società del sud era disgregata, fatta di elementi filoborbonici , di un clero
antiunitario, di notabili inaffidabili, ma anche di ceti popolari che avevano
creduto in Garibaldi e nelle sue promesse (frustrate) di redenzione sociale.
Alla miseria e alla ignoranza, primo impasto del brigantaggio, la Destra aveva
opposto la forza: a partire dalla legge Pica (1863), i cui trasgressori sarebbero
stati giudicati dai Tribunali Militari e contemplava il reato di camorrismo (
organizzazione criminale di stampo mafioso).
Chiuso il capitolo sanguinoso del brigantaggio con una autentica guerra restava
la "diversità" meridionale, condannata alla realtà brutale del "paese legale".
L'arretratezza economica, impoverì ulteriormente la vita civile delle province
extraborboniche: la camorra a Napoli, ma soprattutto la mafia in Sicilia, furono
manifestazioni di un degrado che la politica dei "signori" liberali non fu in grado
di affrontare.
Solo agli inizi del secolo, riformatori come Francesco Saverio Nitti provarono ad
immaginare uno sviluppo possibile del il sud ancorato ad un intervento dello
Stato, ma limitati furono i mezzi messi a disposizione dalle casse centrali. Non
restava che l'emigrazione.
L'Italia meridionale, dunque, non riesce a mettere in moto alcun reale processo
di crescita del Mezzogiorno.
LA QUESTIONE RELIGIOSA IN ITALIA
Nel Risorgimento, il problema della presenza della Chiesa cattolica in Italia
assunse connotati soprattutto politici: il pontefice di Roma, aveva di fatto
ostacolato la creazione di un forte potere unitario nella penisola per conservare
il proprio stato clericale, ma liberali e democratici contestavano il diritto degli
ecclesiastici a mescolarsi con gli aspetti molto terreni del governo e della
amministrazione.
Le cose si complicarono quando lo Stato liberale vinse. Per Cavour occorreva
una separazione dei ruoli: "Libera Chiesa in libero Stato".
Queste posizioni posero immediatamente l'Italia liberale in contrasto con Roma.
Pio IX nell'enciclica Quanta cura ( 1864) raccolse un compendio degli errori del
secolo tra i quali tutte le ideologie della modernità a partire dal liberalismo.
La risposta dei liberali fu duplice: le truppe italiane entrarono a Roma ( 20
settembre1870), al papa fu tolto il potere temporale e la legge delle guarentigie
(1871) formalizzava l'assetto che sarebbe durato fino al 1929 e che disciplinava
i rapporti tra il Regno d'Italia e la Santa Sede.
Nel 1874 Pio IX emanava il Non expedit ( "Non conviene"), che vietava ai
cattolici l'accesso alle urne e quindi alla vita pubblica italiana. Una parte
importante del paese si autoescludeva così dalla vicenda nazionale, cercando di
delegittimare gli uomini al potere. Il riavvicinamento fu lento e cominciò con
Leone XIII e nel 1891, con l'Enciclica Rerum Novarum, partendo da posizioni
antisocialiste, riconosceva la "questione sociale" e ne indicava i possibili
rimedi nell'opera concorde di Chiesa, Stato e associazioni.
Nel 1913, sotto il pontificato di Pio X (1903-1914), la ricomposizione almeno
parziale della "frattura" politica tra le due rive del Tevere avvenne all'insegna
dell'accordo col mondo liberal-costituzionale: garante da sempre della stabilità e
della pace sociale, la Chiesa si schierava ancora una volta con i fautori dell'ordine
e della proprietà, contro i bagliori della rivoluzione sociale.
I DEMOCRATICI,E LA SINISTRA STORICA
Poi c'erano i democratici, gli uomini di Mazzini e di Garibaldi.
Mazzini, che aveva provvisoriamente sacrificato il suo progetto politico per
l'unità d'Italia, a partire dal 1861 erano pronto a riprendere la lotta contro i
liberali moderati al potere; voleva una assemblea costituente eletta a suffragio
universale per decidere forma di stato e di governo.
I garibaldini erano contrari al modo in cui gli eredi di Cavour governavano il
paese e avrebbero voluto il suffragio universale, maggiore attenzione per i ceti
più deboli, un decentramento amministrativo.
Vi erano solo due strade per arrivare al cambiamento dello stato: o la
rivoluzione o l'accettazione delle "regole del gioco", e dunque la partecipazione
alle elezioni.
Molti vecchi mazziniani abbandonarono il "Maestro", fra questi Francesco Crispi.
Tanti fra i garibaldini scelsero di presentarsi candidati.
Di conseguenza il parlamento, a partire dagli anni sessanta, fu composto da
una Destra liberale al governo, e da una Sinistra liberale e democratica,
all'opposizione. Restavano fuori dalla Camera i repubblicani di Mazzini,
rivoluzionari e intransigenti, ma anche il grande mondo cattolico che, si sarebbe
a lungo mostrato ostile allo Stato unitario, nato contro il potere temporale del
papa.
LA DESTRA AL POTERE (1861-76)
La destra, proprio grazie alla compattezza sociale del ceto ammesso al voto,
riuscì a imporre la propria politica al paese.
Essa aveva tre obiettivi: la creazione di infrastrutture adeguate a uno stato
moderno, l'unificazione legislativo e la conservazione della alleanza con la
Francia per il completamento della unità nazionale.
I primi due obiettivi furono conseguiti sotto i governi di Ricasoli, Minghetti, La
Marmora e Menabrea.
Uffici pubblici, servizi, ferrovie videro uno spaventoso aumento delle tasse dal
quale vennero colpiti tutti soprattutto i ceti più poveri che individuavano nella
tasso sul macinato un'iniqua tassa sulla fame.
L'unificazione. Legislativa fu attuata estendendo in prevalenza i codici
piemontesi al resto del Regno.
Lo Stato riuscì per la prima volta nella storia recente della penisola ad assicurare
l'ordine sul territorio nazionale, sradicando drammatici fenomeni di
brigantaggio e di rivolta sociale generalizzata.
Quanto alle alleanze, l'Italia non modificò la posizione antiaustriaca e
filofrancese del Piemonte cavouriano: e solo dopo la caduta di Napoleone III
(1870) fu possibile prendere Roma e stabilirvi la capitale del Regno.
LA SINISTRA AL POTERE (1876-83) e IL TRASFORMISMO
Il pesante fiscalismo della Destra e la scelta di rendere lo Stato "motore" dello
sviluppo economico provocò a partire dagli anni '70 uno sfaldamento della
compagine governativa.
Maturò una opposizione visibile soprattutto al sud, che cercava di canalizzare lo
scontento di settori sempre più ampi della classe dirigente.
Ne fu leader Agostino De Pretis, un ex mazziniano e approfittò di una
"imboscata" alla Camera, favorita da diverse posizioni in seno alla compagine di
governo, per rovesciare l'ultimo ministero della Destra, quello di Minghetti, il 18
marzo 1876 (fu la cosiddetta rivoluzione parlamentare) e nelle elezioni
successive conquistò una solida maggioranza.
Il programma della Sinistra liberale si condensava nell'allargamento del
suffragio universale, nel decentramento amministrativo, nell'istruzione
elementare obbligatoria, nella abolizione della tassa sul macinato.
Destra e Sinistra provenivano dallo stesso ambiente risorgimentale ma
la Destra era espressione di una élite nobiliare e borghese possidente
la Sinistra riscuoteva consensi tra i notabili delle città, tra gli imprenditori e i
professionisti e si mostrava più aperta nei confronti delle classi medie escluse
dal voto.
Entrambi però si muovevano dentro il grande movimento liberale e liberaldemocratico che aveva "fatto" l'Italia.
Depretis governò dal 1876 al 1887, interrotto solo da due brevi ministeri di
Benedetto Cairoli, un altro uomo della sinistra.
Abolì la tassa sul macinato, introdusse l'istruzione primaria obbligatoria ( legge
Coppino, 1877), riformò la legge elettorale (1882), abbassando il censo e i titoli
richiesti in modo da portare gli aventi diritto a circa 2.000.000, peri al 6,9% della
popolazione e al 24,3% dei maschi adulti. In questo modo buona parte della
delle città, di idee democratiche e anche socialiste, ebbe accesso alle urne e nel
1882 Andrea Costa fu il primo socialista a sedere alla Camera di deputati.
Nel frattempo Vittorio Emanuele II era morto (1878) e gli era succeduto il figlio
Umberto. Era morto anche Pio IX e nel 1882 sarà la volta di Garibaldi.
Un epoca stava finendo e si vedeva dai fermenti sociali, delle prime
organizzazioni operaie e dalla frantumazione di quel blocco liberale e
democratico che aveva realizzato l'unità nazionale.
Depretis non uscì bene dalle elezioni del 1892, la sinistra radicale erra cresciuta
e la sua maggioranza era dunque a rischio, quindi decise di creare una nuova
maggioranza appoggiandosi alla Destra più moderata.
Realizzò un grande governo di centro: i democratici gridarono al tradimento, ma
Depretis replicò che il progresso e i tempi imponevano ai partiti di trasformarsi (
da qui il termine Trasformismo).
L'Italia abbandonò la Francia, divenuta una pericolosa concorrente nel
Mediterraneo (1881 annessione della Tunisia che Roma voleva a sé) e si
indirizzò verso gli Imperi centrali ( Germania e Austria-Ungheria).
Nacque così la Triplice Alleanza (1882).
DALL'INTERNAZIONALISMO AL SOCIALISMO
La prima penetrazione delle idee socialiste era avvenuta, in Italia, grazie alla
"predicazione" dell'internazionalismo anarchico dell'esule russo Bakunin, negli
anni sessanta. Il suo comunismo agrario antistatalista, pensato per le realtà
rurali dell'est, riscosse maggiori consensi del messaggio di Marx in un paese
povero e arretrato com'era il nostro. I primi gruppi dell'internazionale, formati
da intellettuali e artigiani urbani' si dedicarono a suscitare moti rivoluzionari,
tutti debitamente falliti.
Sorse comunque un partito socialista effettivamente nazionale e orientato in
senso marxista. Fu Filippo Turati a tenerlo a battesimo, a Genova nel 1892.
Il Psi divenne il primo partito di massa moderno in Italia ossia ci si iscriveva a un
movimento con un programma nazionale, presente sul territorio attraverso le
sezioni, dotato di strumenti di educazione politica. Una forza imponente,
dunque, resa ancora più efficace dalla confederazione nazionale del lavoro, sorta
nel 1906.
Ma dure lotte intestine travagliarono immediatamente il Psi. Da un lato c'era la
corrente riformista e dall'altro i rivoluzionari che spingevano il popolo alla
rivolta. Riformisti e rivoluzionari si alternarono alla guida del Psi e tra questi
ultimi spiccava il giovane Benito Mussolini.
CRISPI E LA CRISI DI FINE SECOLO
Depretis cercò di compensare la perdita della Tunisia, con un'area libera
nell'Eritrea dove gli italiani si insediarono a partire dal 1882. Nel 1887
cercarono di penetrare all'interno ma subirono una grave sconfitta a Dogali ad
opera degli abissini. Per il governo fu un duro colpo.
Pochi mesi dopo moriva Depretis e lo sostituiva Francesco Crispi, un altro ex
democratico siciliano, che sembrava deciso a continuare il processo riformatore
interrotto dal trasformismo.
Governò il paese dal 1887 al 1896 questo periodo si distinse in due parti: il
triennio riformatore (1888-90), durante il quale furono varate leggi assai
importanti per la modernizzazione dello Stato, e la fase conservatrice (1893-96),
connotata da un duro scontro con l'opposizione socialista e cattolica, da un forte
impegno coloniale e dal tentativo di piegare in senso autoritario il
costituzionalismo liberale. Attuò un grande progetto di modernizzazione e di
nazionalizzazione della società italiana, ma l'impossibilità di ricondurre il popolo
al richiamo governativo suggerì a Crispi una politica nazionale più dura e
repressiva: se le riforme non bastavano, ci avrebbero pensato i carabinieri.
Cominciò così una stagione di lotte sociali e di scontri tra il potere costituito, da
un lato, e, dall'altro, le forze d'estrema Sinistra; lotte che ebbero nella vicenda
dei Fasci Siciliani (1892-94) e poi nella crisi di fine secolo (1898-99).
I primi erano movimenti spontanei dei lavoratori siciliani (Fasci) formatosi per
reazione alla crisi economica, contro i quali Crispi intervenne duramente; nel
secondo caso il presidente del consiglio, Rudinì ordinò al generale Bava
Beccaria il cannoneggiamento della folla milanese esasperata dalla fame, nel
maggio 1898.
Crispi, ormai anziano, si dimise dopo la sconfitta pesantissima di Adua, in
Abissinia ( 1 marzo 1896), dove 5000 italiani avevano perso la vita, trovò
comunque successori in grado di continuare il suo "progetto nazionale", fatto di
riforme ma anche di autoritarismo, di bellicoso espansionismo "imperiale" e di
protezionismo economico.
Ma le elezioni politiche del giugno 1900, tenute un mese dopo la morte di
Umberto I ( assassinato da un anarchico), segnarono una svolta: sconfitte le
forze liberali più retrive, la Sinistra ( tanto liberale quanto radicale e socialista)
prevalse. Il solo Psi portò alla camera 33 deputati su 508.
Il vecchio mondo risorgimentale controllava ancora oltre l'80% dei seggi ma gli
equilibri interni mutavano verso una direzione riformatrice.
L'economia
L'Italia liberale restava una realtà dominata dell'agricoltura.
Al nord borghesi imprenditori con una logica capitalistica. Al centro
prevalentemente la mezzadria, nel sud il latifondo e la cerealicoltura.
Gli operai del nord erano propensi alla sindacalizzazione, all'azione collettiva; al
centro erano più conservatori, legati al rapporto diretto col proprietario e più
ancora col podere; al sud erano poco più che servi della gleba.
Per ciò che riguarda l'industria, il quadro è ancora più frammentato. L'Italia
aveva due grandi ricchezze: la seta e lo zolfo. I profitti della prima finirono per
accumularsi nelle banche di Milano, che divenne la prima piazza finanziaria del
paese. Il settore tessile non era limitato alla seta. Cotonifici e lanifici erano attivi
in tutte le Prealpi, dove era più facile l'approvvigionamento di energia.
Anche lo zolfo costituiva una grande risorsa: la Sicilia aveva buona parte dello
zolfo naturale disponibile allora sul pianeta ( nel 1894 77% della produzione
mondiale). Il commercio del minerale ( utilizzato in agricoltura e dall'industria
chimica), tuttavia, era nelle mani di poche società, in genere anglo-francesi; i
volti dei carusi, i ragazzini impiegati senza limiti nei cunicoli più profondi,
restano la testimonianza dell'immane opera di sfruttamento.
Diversamente da ciò che era stata la seta al nord, lo zolfo non rappresentò una
vera ricchezza per il Mezzogiorno. Il decollo dell'industria italiana, a parte gli
stabilimenti siderurgici come le acciaierie di Terni, viene collocato tra il 1896 e il
1914. I settori più rilevanti saranno quelli dell'elettrico, il meccanico e il
metallurgico. L'Italia era pressoché priva di materie prime e qui di doveva
importare ferro e carbone. Sorsero comunque colossi come l'Ansaldo e l'Ilva,
sostenuti da due importanti banche milanesi, la Banca commerciale italiana e il
Credito italiano, risultato della solida intesa italo-tedesca.
Crebbero a dismisura la produzione di ghisa e di acciaio e il comparto
metalmeccanico crebbe per le commesse governative (economia di Stato).
Fu con Giolitti che si crearono le premesse per la radicalizzazione di quella
fenditura fra le "due" Italie, (centro-nord e sud), che l'industrializzazione, nel
secondo dopoguerra avrebbe ulteriormente acuito.
La politica estera
L'Italia, come stato unitario, nacque grazie al sostanziale consenso delle potenze
occidentali, la Francia e la Gran Bretagna.. La prima era stata decisiva per
vincere la guerra contro l"Austria.
Dal punto di vista politico monarchia costituzionale e da quello economico,
liberismo anche in Italia.
Nel 1861, il Veneto, il Trentino e il Lazio restavano ancora esclusi dallo stato, era
chiaro però il disegno degli sconfitti del Risorgimento: terminare l'unificazione
con un'impresa popolare. Se avesse fatto l'Italia, il "popolo" avrebbe potuto
anche guidarla: a questo era ciò che i moderati soprattutto temevano.
Il partito cavouriano, la Destra, attendeva le occasioni propizie. La prima si
verificò nel 1866 quando Prussia e Russia si affrontarono sul campo di battaglia
per decidere a quali dei due paesi spettasse l'egemonia sul grande e
frammentato mondo tedesco. L'Italia si alleò alla Prussia e aprì immediatamente
un fronte veneto. Nonostante le sconfitte, l'Italia recuperò il Veneto. Altra
occasione coincise con la guerra franco-prussiana, che segnò il declino definitivo
del Secondo Impero( regime Bonapartista di Napoleone III) in Francia.
Poiché veniva meno la garanzia militare di Parigi, il Papa si trovava
praticamente indifeso: e fu facile, quindi, per gli Italiani, entrare a Roma, il 20
settembre del 1870.
I legami politici stretti con la Prussia ( che nel 1871 si era trasformata nella
Germania imperiale) compensarono il raffreddamento delle relazioni con la
Repubblica francese che appariva sempre più pericolosa concorrente dell'Italia
nel Mediterraneo.
La Francia occupò la Tunisia nel 1881 e l'Italia strinse la Triplice Alleanza nel
1882 (Germania, Austria, Italia) e avviava la stagione dell'espansionismo
militare in Eritrea.
La Triplice però trovò fieri avversari, tra i quali i democratici che intuivano che,
una volta alleati con Vienna, sarebbe stato impossibile recuperare Trento e
Trieste. Crispi però puntò al rafforzamento delle relazioni con la Germania e
Austria anche per simpatia verso l'autoritarismo di Bismark. Ma la guerra
doganale con la Francia, alla fine degli anni ottanta, penalizzò duramente
l'agricoltura meridionale, aggravando la già critica condizione dei ceti contadini.
Solo negli ultimi anni del secolo, e poi con Giolitti, l'Italia riprese i contatti con
Parigi, che nel 1902 portato a una prima intesa. Nel momento in cui la Francia
portò a compimento il controllo sul Marocco (1911), l'Italia ebbe come
contropartita la chance di poter agir in Libia senza ostacoli internazionali. Nel
1912 la Turchia si arrendeva e le isole del Dodecaneso, passavano al regno di
Vittorio Emanuele. Nel 1914, dunque, il nostro paese non aveva scelto da che
parte stare: da un lato restava in vigore la Triplice, dall'altro i rapporti con Parigi
erano stati recuperati; si ricominciava inoltre a intravedere la possibilità di
annettere Trento e Trieste insieme ai
sogni di grandezza imperialistici in un tripudio di tricolori e di propaganda
patriottica al quale la solenne celebrazione del 50esimo del Regno d'Italia, nel
1911, aveva dato avvio.
L'età giolittiana. (1901-14)
Giovanni Giolitti, nato nel 1842, fu il leader del nuovo corso liberale, che durò dal
1901 al 1914.
Cercò di incanalare nelle istituzioni costituzionali i fermenti che salivano dal
basso infatti ebbe un rapporto privilegiato con il Psi riformista di Filippo Turati,
un intellettuale lombardo che aveva saputo staccare operai e artigiani dalle idee
rivoluzionarie e intransigenti d primo internazionalismo anarchico per fare del
socialismo una forza capace di orientare i lavoratori, di tutelarne gli interessi
attraverso le Camere del lavoro e del sindacato, e infine di tutelarne
pacificamente la volontà ferma di cambiamento in parlamento. Il Psi non
appoggiò mai apertamente Giolitti, ma questi non ostacolò le battaglie
economiche promosse dalla estrema sinistra nel sud mentre al Sud adottò un
atteggiamento repressivo di qualunque aspirazione dei lavoratori. Appoggiò
industrie e manifatture settentrionali, mentre evitò di toccare gli arcaici equilibri
produttivi nel Mezzogiorno, anche a costo di ritardarne fortemente la
modernizzazione.
Dal punto di vista delle riforme, introdusse l'assicurazione obbligatoria per il
infortuni sul lavoro(1903), tutelò il lavoro femminile e minorile (1907), istituì
l'ispettorato del lavoro (1912), trasferì allo stato le spese per l'istruzione
elementare (1911), favorì la nazionalizzazione delle ferrovie. Si trattò di
un'opera legislativa importante, che cambiò senza dubbio le prospettive di vita e
di lavoro di vasti ceti. Tuttavia mancò un vero "disegno riformatore" giolittiano,
fu un impareggiabile domatore di schieramenti parlamentari, riuscì a districarsi
fra la Destra e la Sinistra, ma non ebbe la forza di andare oltre. Disciplinò lo
scontro sociale: le giornate di sciopero, che nel 1896-1900 erano state 15.500,
divennero 45.700 nel 1901-07 ( il che rendeva l'Italia un paese "europeo"
moderno anche sotto il profilo del conflitto tra capitalisti e lavoratori); ma,
nonostante questo, conservò la mentalità dell'oligarca che vede i soggetti della
democrazia ( i partiti, i sindacati) come nuovi strumenti da usare utilmente nel
gioco del potere. Quando all'interno del Psi, l'ala riformista fu battuta da quella
sindacale rivoluzionaria, fautrice di una lotta dura e di un grande sciopero
generale politico contro il sistema, Giolitti non si scompose: lo sciopero si tenne
nel settembre 1904, fu imponente e corale, ma non accadde nulla. Egli sciolse le
Camere e incassò i voti dei moderati preoccupati dal "pericolo rosso".
Quest'ambivalenza è visibile anche nel 1911-12, durante l'ultima fase
dell'esperimento giolittiano. Da un lato, per compiacere gli ambienti industriali,
l'esercito, i nazionalisti, egli avviò l'occupazione militare della Libia,
sottraendola all'agonizzante Impero ottomano; dall'altro, l'anno successivo, con
mossa a sorpresa, introdusse il dibattito sul suffragio universale maschile,
portando a compimento quell'itinerario di trasformazione in senso liberaldemocratico delle istituzioni del paese, al quale l'estrema sinistra aveva da
sempre aspirato.
Nelle elezioni generali dell'ottobre 1913, le prime a suffragio universale, furono
tuttavia ancora i liberali a trionfare: grazie al cosiddetto patto Gentiloni, ossia
all'accordo con gli elettori cattolici, fino allora astenutisi per protestare ( Non
Expedit, 1874) contro lo Stato liberale che aveva distrutto il potere temporale
del papa, i candidati governativi ebbero un notevole sostegno di voti popolari.
Con il suffragio universale, i liberali si scoprivano minoranza e dovettero
all'appoggio di chi "massa" era sul serio ( i cattolici).
Anche sul versante "nazionale", d'altronde, c'era fermento: la politica mediatrice
di Giolitti non piaceva a chi mirava a una nazionalizzazione vasta e radicale della
società italiana, da realizzare con l'imperialismo, con governi più autoritari, con
una più spregiudicata politica industriale e sociale. Su un altro terreno, infine, il
socialismo rivoluzionario di Mussolini, un giovane leader di periferia catapultato
dall'ennesima sconfitta dei riformisti al congresso socialista di Reggio Emilia
(1912) alla direzione dell' "Avanti", il quotidiano nazionale del partito, rompeva
per sempre la possibilità di un "gioco di sponda" riuscito piuttosto bene a Giolitti
finché c'era stato Turati. Nel 1914, Antonio Salandra, liberal-conservatore,
sostituiva lo statista piemontese alla guida del governo. In giugno una grande
sollevazione a sfondo rivoluzionario ( ma fondamentalmente pacifica) aveva
incendiato p pochi giorni Romagna e Marche, per spegnersi nel nulla, come lo
sciopero generale del 1904 : era stata la Settimana rossa, ovvero il tentativo di
dar corpo al sogno repubblicano, anarchico e socialista di una società libera e
egualitaria. Ancora qualche settimana e l'assassinio dell'arciduca d'Austria
Francesco Ferdinando a Serajevo avrebbe cancellato l'Italietta giolittiana e i suoi
velleitari oppositori.