Il Pensare n. 3 - Ontologia e alterità

Ontologia e alterità
Indice
Ontologia e alterità: percorsi
Furia Valori, Marco Casucci
p. 4
Dall’essere al dono. Paul Ricœur e le sfide dell’ontoteologia
Annalisa Caputo
Università di Bari
p. 10
Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre
Gianluca Cavallo
Università di Torino
p. 24
Il sorriso di Caligola. Una riflessione sul tragico in Camus
Giuseppe Crivella
Università di Perugia
p. 35
Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele
Federico Croci
Università Vita-Salute San Raffaele – Milano
p. 46
Della Noluntas come Überwindung. Ontologia e differenza in Arthur
Schopenhauer
Giampaolo Loffredo
Scuola Superiore di Polizia – Ministero dell’Interno
p. 54
Il Pensare – Rivista di Filosofia ♦ ISSN 2280-8566 ♦ www.ilpensare.it ♦ Anno III, n. 3, 2014
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Sguardo fenomenologico e alterità. Riflessioni a partire dalle Meditazioni cartesiane di Husserl
Federica Malfatti
Ruprecht-Karl Universität – Heidelberg
p. 67
Vladimir Jankélévitch: il presagire di un Altrove
Giulia Maniezzi
Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano
p. 80
Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
Università di Siena
p. 92
La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”. Alcuni aspetti della
metafisica di Karl Jaspers
Danijel Tolvajčić
Università di Zagabria
p. 105
Esistenza, alterità, identità in Pantaleo Carabellese
Furia Valori
Università di Perugia
p. 135
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Editore
Osservatorio su “Ontologia, persona, linguaggi. Per una nuova antropologia”
Associazione Centro Culturale “Leone XIII”
www.LeoneXIII.org
Sede: Piazza 4 novembre, 6 – 06121 Perugia
Direttore
Furia Valori
Comitato scientifico
Daniel Arasa, Mariano Bianca, Marco Casucci, Luigi Cimmino, Gianfranco
Dalmasso, Markus Krienke, Massimiliano Marianelli, Letterio Mauro, Edoardo
Mirri, Marco Moschini, Giuseppe Nicolaci, Paolo Piccari, Silvano Zucal.
Redazione
Marco Casucci, Samy Abu Eideh, Pavao Žitko.
Periodicità
Annuale
Prima uscita: 2012.
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Ontologia e alterità: percorsi
Furia Valori, Marco Casucci
Ontologia e alterità: percorsi
La riflessione sul tema dell’“alterità” interroga da sempre la filosofia e il pensiero contemporaneo l’ha ripreso con particolare attenzione declinandolo, in particolare, nell’ambito
di un’articolata indagine ontologica, spesso anche critica nei confronti della sua storia. Alterità e ontologia si presentano, quindi, come due termini in relazione dialogica e dialettica
tra di loro, in grado di raccogliere significazioni sempre diverse e di suggerire sviluppi speculativi inediti ad una riflessione che sempre più si interroga sul senso dell’essere nella sua
dimensione relazionale con l’altro/Altro. Proprio in questo senso l’alterità come alter-ego e
l’alterità come trascendenza costituiscono i due poli di riferimento che si sono intrecciati nei
saggi che presentiamo. La questione dell’alterità si articola così su di un duplice livello ed
esplica una tensione sempre viva per il pensare. Tensione “interna” ed “esterna” al pensare
medesimo che lo interroga e lo interpella verso un al di là di se stesso radicato in quel sé che
costituisce il centro non egologico ma relazionale che chiede di essere portato ad esplicazione.
La domanda sull’alterità diviene così il luogo in cui la dottrina dell’essere, sin da i suoi
albori, conosce il suo scacco e la sua riconferma, andando a sostenere l’interrogativo leibniziano sull’essere e il nulla. Da sempre, ponendo la questione dell’essere, inevitabilmente si
pone anche la questione del non-essere, dell’altro, del non-identico che rende più complessa
e articolata la questione ontologica medesima.
Ciò in effetti era già noto alla metafisica antica come questione che, ad esempio, costringerà Platone ad una revisione radicale della sua dottrina dell’idea in un progetto che fosse in
grado di comprendere anche i grandi generi dell’άλλον e dell’έτερον. E non c’è quindi da
stupirsi se a più di venti secoli di distanza un grande pensatore come Ricœur abbia cercato,
sulla “via lunga” di una riflessione antropologica ai limiti della “terra promessa”
dell’ontologia, di dare ancora una risposta a questo interrogativo platonico che si è riverberato su tutto il tessuto del pensiero filosofico occidentale. Il tema dell’“altro” è insomma
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estremamente problematico per la nostra tradizione ontologica, proprio perché conduce
sulla via di un pensare “alternativo” che rifiuta il darsi dell’identità immediata di riflessione,
per mettersi in cammino verso una complessità del dire e del pensare che si manifesta interamente nella ricchezza di percorsi e articolazioni.
Ed è stato senz’altro così anche per questo numero della nostra rivista, su cui sono confluiti interventi di diversa ispirazione che hanno toccato aspetti di volta in volta differenti
della medesima questione. Da questo punto di vista, è stato possibile notare come la relazione tra la questione dell’essere e la questione dell’altro è stata articolata secondo due direttrici fondamentali: una di carattere “orizzontale”, incentrata prevalentemente sull’esigenza di “giustificare” o “dare ragione” dell’altro come “altro-da-me” sul piano delle relazioni intramondane; e un’altra di carattere “verticale” intesa a cogliere l’“Altro” nella sua
dimensione di trascendenza sulla linea di un distacco e di una differenza che costringono il
pensare ad un “salto”. Rispetto a queste due macro categorie, in cui crediamo si possano cogliere gli aspetti salienti dei saggi qui presentati, ovviamente ciascun autore ha presentato la
sua specifica sfumatura e combinazione di temi che spesso si articolano in una doppia direzione tanto “orizzontale” che “verticale”.
Così, nel suo lavoro incentrato sul percorso filosofico di Paul Ricoeur, Annalisa Caputo
pone attenzione al tema del dono come punto di fuga della riflessione ricoeuriana. In particolare il saggio sottolinea come nel percorso del pensatore francese si assista ad una evoluzione significativa che passa attraverso tre fasi fondamentali in cui si intersecano in maniera
differente il tema ontologico dell’origine e quello del limite, entrambi caratterizzanti la speculazione ricoeuriana. L’autrice evidenzia una prima fase, sviluppatasi negli anni ’50-’60: si
tratta della cosiddetta “filosofia della volontà” in cui la riflessione sul tema dell’origine si caratterizza come tentativo di elaborazione di una “poetica”; una seconda fase del pensiero ricoeuriano, che attraversa gli anni ’70-’80, si caratterizza invece per una maggiore attenzione
al tema ermeneutico e che arriva fino a Sé come un altro; a partire da quest’opera, che può
essere considerata uno spartiacque nel pensiero ricoeuriano, si sviluppa una riflessione che
verte maggiormente sul limite e si fonda su un agnosticismo di base che si rifiuta definitivamente di sovrapporre la dimensione ontologica a quella teologica, sancendo definitivamente l’impossibilità per la filosofia di dire in Dio la totalità dell’essere, così come aveva
tentato di fare l’onto-teologia. La Caputo evidenzia l’esigenza di dialogo fra i due aspetti, che
da Ricoeur viene sempre mantenuta, in particolare nella sua prosecuzione parallela dei sentieri dell’“ermeneutica filosofica” e dell’“ermeneutica biblica”. Forse nella sua ultima opera
Percorsi del riconoscimento si può assistere ad un potenziale ricongiungimento delle vie fino a quel momento separate, nella paradossale “economia del dono”: qui le tematiche
dell’alterità e del Principio trovano altresì una loro esplicazione essenziale nell’ontologia relazionale del pensatore francese.
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Ontologia e alterità: percorsi
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Con il saggio di Gianluca Cavallo ci ritroviamo invece in un ambito strettamente politico
che tuttavia non intende rinunciare ad una analisi di tipo ontologico per quel che riguarda il
tema del riconoscimento dei diritti all’interno della comunità umana. Infatti l’autore affronta criticamente le riflessioni di MacIntyre sul tema dei diritti umani per vedere se, a partire
dalla rilettura della filosofia aristotelico-tomistica operata dal pensatore, sia possibile una
fondazione ontologica degli stessi. In particolare l’autore sottolinea come i diritti umani siano criticabili da un punto di vista strettamente liberal-proceduralistico, giungendo a rivalutare positivamente in particolare la “regola d’oro” come principio etico-teleologico in grado
di dare un contenuto costituente una sorta di “legge naturale” alla base dei diritti formulabili storicamente. Da questo punto di vista è quindi importante il contributo aristotelicotomista, nella misura in cui è in grado di mettere al centro la dimensione relazionale in direzione del bene comune. Cavallo propone a fondamento di una rinnovata teleologia in politica l’“ontologia relazionale” di MacIntyre.
Il contributo di Crivella propone all’attenzione un elemento fondamentale che entra a
condizionare l’“essere” dell’“altro”: ovvero il “tragico”. Come già aveva avuto modo di evidenziare P. Ricoeur nel suo capolavoro Sé come un altro il “tragico dell’azione” costituisce
un momento fondamentale nell’analisi del sé alla ricerca drammatica di un radicamento ontologico. Da questo punto di vista il saggio di Crivella dedicato al Caligola camusiano costituisce un importante punto di riflessione che intercetta l’esigenza di considerare una relazione impossibile che si inscrive nella dinamica tragica del potere come cancellazione nichilistica di ogni alterità. Così l’autore mette in relazione il dramma di Caligola con altre due
opere fondamentali del pensatore francese: Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta sottolineando come la dimensione dell’“uomo assurdo”, tipica dell’esistenzialismo di Camus, prenda
forma nelle vesti del tirannico imperatore romano.
Il saggio di Federico Croci procede ad una serrata analisi in particolare del Sofista platonico con l’intenzione di enucleare la dinamica aporetica che qui viene ad esprimersi nel
rapporto tra identità e differenza. L’autore fa notare come il difficile rapporto tra ente e
non-ente, così come si presentava problematicamente a partire da Parmenide, venga letto
platonicamente in maniera rinnovata, all’interno di una dinamica in cui “identità” e “differenza” si intrecciano in modo indissolubile, creando così una trama metafisica all’interno
della quale la negazione gioca un ruolo mai meramente “negativo” quanto piuttosto coessenziale alla trama dell’essere. nel saggio la questione sul tema dell’identità e della differenza viene affrontata anche negli esiti dell’ontologia aristotelica, che nel tentativo di risolverle,
rinnova le aporie platoniche.
Il lavoro di Giampaolo Loffredo affronta il tema della “differenza ontologica” nel pensiero schopenhaueriano, riprendendo una prospettiva heideggeriana che fa da sfondo a tutto il
saggio e che costituisce una chiave di lettura importante, in grado di restituire al pensatore
di Danzica quello spessore ontologico che troppo spesso un lettura “esistenzialista” tende ad
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occultare. L’autore così intende mettere in evidenza come la dimensione della Noluntas
piuttosto che quella della “volontà di vivere” costituisca il vero nucleo tematico dell’opera
schopenhaueriana. Solo a partire da questa dimensione che si palesa nel finale del capolavoro schopenhaueriano è possibile, anzi doveroso, rileggere tutta la sua dottrina sulla soglia
di una Überwindung radicale in cui tutta la metafisica del Wille si trasvaluta. La Noluntas
schopenhaueriana è quindi ciò che pone, a detta dell’autore, sulla soglia di questo oltrepassamento a partire da cui si dischiude una radicale “differenza ontologica” che, sola, permette una rilettura sensata del Mondo, oltre le numerose contraddizioni che vi si possono troppo facilmente rinvenire, laddove si riducesse Schopenhauer a “pensatore della volontà”.
Con il saggio di Federica Malfatti abbiamo invece un approccio puramente fenomenologico al problema dell’alterità. L’autrice infatti prende spunto dalle considerazioni cartesiane
sul tema del Cogito così come vengono presentate nelle Meditazioni cartesiane. L’analisi si
incentra in particolar modo sul significato del darsi del mondo come alterità in Husserl, interrogandosi sul senso radicale di questa alterità a partire dall’epochè fenomenologica. Il
saggio sviluppa la critica husserliana alla soggettività tradizionalmente intesa per giungere
al significato della costituzione fenomenologica come termine di riferimento dell’analisi. È
quindi a partire da questo punto che viene presentato problematicamente il tema
dell’“alterità” e il suo significato per il soggetto. La stessa problematica della relazione intersoggettiva propriamente scaturisce dall’esigenza di mostrare come non si dia mai un rapporto singolare e solipsistico tra io e mondo, quanto piuttosto una relazione condivisa tra
più soggetti. L’alterità diviene quindi una modalità essenziale inscritta nel soggetto medesimo ma che si presenta sempre problematicamente ad un soggetto sempre centrato nel suo
ego. Proprio per questo l’autrice sottolinea come l’alterità nella prospettiva della fenomenologia husserliana non si dia mai tematicamente, ma sempre come una zona d’ombra, come
un’assenza che permane al di là della presentazione dell’oggetto.
Su altri sentieri ancora ci conduce il saggio di Giulia Maniezzi che scandaglia il senso
dell’alterità in Valdimir Jankélévitch. Il filosofo francese di origini russe viene qui preso in
considerazione facendo particolare attenzione al rapporto sussistente tra la sua ontologia e
il senso dell’alterità di cui essa si fa portatrice. Per l’autrice, infatti, la filosofia di
Jankélévitch è incentrata sull’evento come luogo di rottura della continuità definitoria tipica
della metafisica occidentale, la quale ha nella maggior parte dei casi operato in direzione di
una “determinazione” definitoria dell’essere, ignorando quell’eccedenza che all’essere stesso
appartiene come quel di più che misteriosamente lo “fa” essere e lo mette in opera. In questo senso la cosiddetta “filosofia prima” di cui la metafisica si attribuisce il titolo, in realtà è
sempre “seconda”, perché cercando di attingere l’essere in maniera concet-tualmente definitoria, tralascia “il fatto” che esso sia, ovvero quello stupore riguardante l’interrogazione
fondamentale circa l’essere e il nulla. Una “ontologia dell’alterità”, costituisce per l’autrice
la più intima essenza della filosofia di Jankélévitch.
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Col saggio di Andrea Sacconi, poi, si rimane in ambito francese, sviluppando una analisi
della interpretazione derridiana di Nietzsche. In particolare, l’autore mette in evidenza come l’attenzione riservata da Derrida al pensatore tedesco conduca ad una caratterizzazione
di Nietzsche come pensatore dell’alterità, in netta contrapposizione con l’interpretazione
heideggeriana che vedeva nel filosofo di Röcken l’ultimo canto della metafisica occidentale e
del suo “oblio della differenza ontologica”. Secondo la lettura offertaci da Sacconi, infatti,
Derrida ha messo in evidenza come il pensiero di Nietzsche, nel suo stesso incedere frammentario e aforismatico, costituisca un via di accesso a quell’Altro che non ha dimora nella
filosofia occidentale, ma che ne costituisce l’inevitabile presupposto. Da questo punto di vista per Derrida, Nietzsche sarebbe il pensatore che prima di tutti ha tentato di andare oltre
la “presenza”, riuscendo a pensare ciò che è in grado di irrompere oltre il linguaggio metafisico e a guardare oltre di esso. Il “pensiero del forse” diviene così l’elemento che per l’autore
del saggio permette a Derrida di cogliere in Nietzsche l’iniziatore della critica della presenza
e l’iniziatore di un pensiero dell’alterità.
Un altro aspetto del rapporto essere-altro è poi affrontato con differente impostazione
nell’ampio saggio di Danijel Tolvajčić, che affronta il concetto di trascendenza in Jaspers a
partire dal tema della “fede filosofica” e della questione teologica che nel pensatore tedesco
risulta essere problematica. L’argomento affrontato risulta di particolare importanza, nella
misura in cui tenta di portare in luce l’attualità speculativa del pensiero jaspersiano e la sua
impostazione prettamente metafisica. L’autore sottolinea come la lettura che Jaspers dà di
Kant non concluda nell’agnosticismo, quanto piuttosto in una metafisica di carattere esistenziale, incentrata su quella che viene appunto definita “fede filosofica”. Da questo punto
di vista l’autore del saggio pone in evidenza il carattere profondamente metafisico della speculazione jaspersiana, facendo riferimento soprattutto agli ultimi testi della produzione del
pensatore tedesco, evidenziando come la questione teologica stessa trovi in Jaspers un importante centro di riflessione, a partire dall’intendimento della “cifra” “Dio”. Tale teologicità del pensiero jaspersiano può essere quindi ritrovata, oltre i limiti del dire umano, caratterizzato dalla dimensione apodittica e definitoria, in un linguaggio in grado di accennare ad
una alterità irriducibile e inoggettivabile, autenticamente trascendente, che si lascia cogliere
solo all’interno di una domanda esistenziale radicale che intende confrontarsi col tema
“Dio”.
Il saggio di Furia Valori, infine, affronta criticamente la particolare riflessione riguardo
all’alterità elaborata nell’ontologismo critico di Pantaleo Carabellese. A questo scopo
l’autrice focalizza l’attenzione sulla seconda parte dell’ultimo sistema L’Essere e la sua manifestazione, intitolata significativamente Io, che costituisce la più ampia e matura trattazione della soggettività molteplice condotta dal filosofo. Qui è contenuto un interessante
sviluppo del concetto di alterità che riceve luce all’interno della concezione carabellesiana
dell’“Essere di coscienza puro” che “esige”, per esser tale, il nesso fra Oggetto puro, ossia
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Ontologia e alterità: percorsi
Furia Valori, Marco Casucci
Dio, e soggettività molteplice. Il soggetto, in quanto esistente necessariamente – il Carabellese ripensa la lezione cartesiana – implica per lui altrettanto necessariamente l’altro, che è
sempre un altro io. In questa riflessione diviene stringente il suo confronto critico con Fichte il cui io assoluto si identifica in toto con la coscienza, riducendo l’oggettività a negazione; così l’io fichtiano è in realtà il solo che cade nel nulla del non pensare. Il Carabellese
rivendica l’immaterialità dei soggetti nella loro purezza apriori, la loro infinita penetratività
e identità, senza però indicare come possano differenziarsi l’uno dall’altro. La Valori pone in
evidenza il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto; nello stesso tempo osserva che il Carabellese si involge in una sorta di circolo vizioso fra Dio e io molteplice, in
quanto se da un lato Dio nell’Essere coscienziale è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, dall’altro a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i
soggetti pensanti.
Nel complesso, quindi, i percorsi dell’intreccio fra alterità e discorso ontologico presentati possono costituire un valido contributo alla discussione e il punto di partenza per ulteriori
sviluppi. In ogni caso la dimensione della relazionalità così come si pone all’interno della
questione ontologica costituisce un nucleo tematico ricco di declinazioni a cui si spera questo numero della rivista possa aver dato un contributo significativo.
M. C., F. V.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
Dall’essere al dono. Paul Ricœur e le sfide
dell’ontoteologia
Annalisa Caputo
From Being to Gift. Paul Ricœur and the Challenges of the Ontotheology
Abstract
Can we consider Paul Ricoeur as exponent of the history of ontology? As we known, ricoeurian Scholars are divided regarding this issue. In the past they have taken seriously Ricoeur's idea of ontology
as “promised land” that you can only “see before you die”. However, there are scholars who, recently,
have considered “ontology as guide of his adventure”. The aim of this essay is to reconcile this “hermeneutic conflict” through a historical contextualization and to analyze the last Ricoeur’s phase, in
which – we believe – the classical onto-theology is rethought in the direction of an ontology of gift.
Keywords: Ricœur; Ontology; Metaphysics; Otherness; Gift.
***
Premessa: Ricœur e l’ontologia
Se «ontologia vuol dire dottrina o teoria dell’essere»1, possiamo considerare P.
Ricœur come un esponente dell’ontologia? Possiamo rintracciare, se non proprio
una dottrina, per lo meno una questione ontologica in Ricœur?
Si tratta di domande non retoriche, se è vero che, nelle risposte, la critica è divisa
su fronti diversi. Tradizionalmente si è presa sul serio l’affermazione ricœuriana
dell’ontologia come “terra promessa” che si può solo «scorgere prima di morire»2; in
questa prospettiva, la filosofia di Ricœur si mostra coerentemente “solo” come
un’antropologia ermeneutica (al di là, o al di qua, delle questioni ontologiche).
P. Ricœur, Ontologie, in Encyclopedia Universalis, Paris, 1972 (XII), p. 94.
P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni (1969), tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Jaca Book, Milano 1977, p. 37. Per una sintesi sulla letteratura secondaria, cfr. F. Brezzi, Introduzione a
Ricœur, Laterza, Roma-Bari 2007 e D. Iervolino, Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003.
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Annalisa Caputo
Dall’altro lato, di recente, non mancano studiosi che, scavando al di sotto delle tradizionali categorie storico-filosofiche e lavorando negli interstizi del pensiero
ricœuriano, giungono a considerare l’«ontologia come guida fedele dell’avventura di
Ricœur»3.
Le interpretazioni sono per certi versi tutte legittime, legittimate dal fatto che il
pensiero di Ricœur non è sistematico né tantomeno monolitico. Il che, però, non
vuol dire contraddittorio. A nostro avviso è possibile, infatti, conciliare questo “conflitto” ermeneutico, attraverso un’opportuna contestualizzazione storica. Dati i limiti
di questo lavoro, ci limiteremo ad assumere e proporre, in maniera schematica, una
suddivisione orientativa del pensiero ricœuriano in tre fasi: la prima che possiamo
far culminare con la trilogia (incompiuta) sulla filosofia della volontà (anni ’50 e
’60); la seconda (fase propriamente ermeneutica: anni ’70 e ’80), che possiamo far
arrivare fino a Sé come un altro: opera di soglia, rispetto all’ultima fase, che – a nostro avviso – può corrispondere agli anni ’90 del Novecento e arrivare fino a Percorsi del riconoscimento (2004) 4 . In ognuna di queste fasi abbiamo un’autocomprensione diversa del compito della filosofia, un’attenzione ad ambiti e tematiche differenti, e, di fatto, anche un modo diverso di intendere il rapporto tra “pensiero”, “essere”, “alterità”.
Il nostro obiettivo è arrivare all’ultima fase, in cui la proposta di Ricœur ci appare
maggiormente originale, sia pur nell’anti-sistematicità della ricerca: la proposta di
un ripensamento dell’onto/teologia classica, nella direzione di un’ontologia del do L. Herrerías Guerra, Espero estar en la verdad. La búsqueda ontológica de P. Ricœur, Gregoriana,
Roma 1996, p. 5. Ma cfr. anche, tra quelli che sottolineano la presenza di un’ontologia in Ricœur, O.
Aime, Senso e essere. La filosofia riflessiva di P. Ricœur, Cittadella ed., Assisi 2007; V. Brugiatelli,
La relazione tra linguaggio ed essere in Ricœur, Uniservice, Trento 2009; J. M. Heleno, Hermenêutica e ontologia em P. Ricoeur, Instituto Piaget, Lisbona 2001; D. Iannotta, Frammenti di lettura. Percorsi dell’altrimenti con P. Ricœur, Aracne, Roma 1998 (p. 10 : «un’ontologia spezzata: […]
ontologia ermeneutica in senso proprio»); F. Sarcinelli, L’ontologia del non-ancora in P. Ricœur e in
E. Bloch, in «Lo sguardo», 2013 (II, 12), pp. 179-193; J.P. Skúlason, Le cercle du sujet dans la philosophie de Paul Ricœur, L’Harmattan, Paris 2001 (p. 319: un’ontologia indiretta e spezzata).
4 La scansione che scegliamo nasce come mediazione tra le diverse proposte critiche. È nota la scelta
di J. Greisch, che nel suo P. Ricœur: l’itinérance du sens, Millon, Grenoble 2001, distingueva la fase
“Ermeneutica I” (1960-1970) e “Ermeneutica II” (1975-1990); a cui, oggi, sappiamo di poter aggiungere una Ermeneutica III. D’altra parte, per confermare questa ipotesi, sarà sufficiente richiamare i
testi “autobiografici” di P. Ricœur, Riflession fatta (1995), tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano
1998; La critica e la convinzione (1995), tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1997. Su questo ci
permettiamo di rinviare al nostro A. Caputo, Io e tu. Una dialettica fragile e spezzata. Percorsi con
P. Ricœur, Stilo, Bari 2009.
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Annalisa Caputo
no, sulla soglia della quale, paradossalmente, tornano ad incrociarsi la questione
dell’essere umano e la questione dell’essere Primo.
Ma per comprendere la fecondità del lascito ricœuriano è indispensabile comprendere che cosa il pensatore francese intenda per ontologia nelle diverse fasi del
suo percorso.
1. La questione dell’essere nella “Filosofia della volontà”: tra ontologia e Poetica
L’avventura de La filosofia della volontà termina là dove l’ermeneutica del simbolo doveva “volgersi” verso l’essere.
«Fingiamo di credere che il “conosci te stesso” sia puramente riflessivo, mentre è anzitutto un appello attraverso il quale ciascuno è invitato a situarsi meglio nell’essere. […] Il simbolo ci parla in fondo come indizio della situazione dell’uomo al centro dell’essere nel quale
si muove, esiste e vuole. Il compito del filosofo guidato dal simbolo sarà allora quello di
spezzare il recinto incantato della coscienza di sé, infrangendo il privilegio della riflessione.
Il simbolo “dà da pensare” che il Cogito è all’interno dell’essere e non l’inverso»5.
L’ontologia è la meta di quella che Ricœur chiama una «seconda rivoluzione copernicana»6. Se la modernità, da Copernico in poi, mettendo al centro il soggetto, ha
dimenticato di pensare l’essere, l’ermeneutica dovrà porre nuovamente il soggetto
nell’essere. Là dove “l’essere” qui è evidentemente la pre-condizione ontologica di
ogni realtà. Con echi heideggeriani, Ricœur ricorda come «la filosofia senza presupposti» sia una «chimera». Ogni nostro iniziare è posto in un’origine che ci precede.
E questa origine non è tale solo dal punto di vista temporale, ma anche e soprattutto
dal punto di vista dell’arché fondativo. L’ermeneutica, infatti, «installa l’uomo a titolo preliminare all’interno del suo fondamento: e a partire da qui incarica la riflessione di scoprire la razionalità del suo fondamento»7.
Lo studio di questo “essere” (Pre-dato, Origine, Fondamento), però, Ricœur non
lo chiama nella Filosofia della volontà né ontologia, né teologia, né metafisica, bensì
“Poetica”.
P. Ricœur, Finitudine e colpa (1960), tr. it. M. Girardet, Il mulino, Bologna 1970, pp. 632-633.
Id., Filosofia della volontà I: Il volontario e l’involontario (1950), tr. it. Di M. Bonato Marietti, Genova 1990, p. 35.
7 P. Ricœur, , Il simbolo dà a pensare (1959), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2002, p. 39;
ma, in termini simili, cfr. anche Id., Finitudine e colpa, cit., p. 634.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
«Il compimento dell’ontologia del soggetto esige un nuovo cambiamento di metodo,
l’accesso ad una sorta di “Poetica” della volontà in accordo con le nuove realtà da scoprire.
Nel senso più radicale del termine, la poesia è l’arte di ammaliare il mondo della creazione.
In realtà l’ordine della creazione è ciò che viene tenuto in sospeso dalla descrizione. […] In
rapporto alla prima rivoluzione copernicana, la poetica della volontà deve apparire come
una seconda rivoluzione copernicana che decentra l’essere, senza tuttavia ritornare ad un
regno dell’oggetto»8.
La scelta del termine è eloquente. Parlare di “ontologia” significherebbe “oggettivare” l’essere, sostanzializzarlo, concettualizzarlo, razionalizzarlo: e dunque perderlo. La poesia, invece, e dunque il metodo della poetica, si limita ad “evocare”; e lascia intatto, nella sua inattingibilità, quel Pre-dato, quell’Origine, che, in fondo, secondo Ricœur, è “mistero” 9.
Forse, proprio per questo, la ricerca di Ricœur naufraga. Con uno scacco paragonabile all’interruzione heideggeriana di Essere e tempo, la ricerca ontologica
ricœuriana si arresta – nella Filosofia della volontà – proprio lì dove avrebbe dovuto iniziare il suo “discorso”10. Le parole vengono meno. «La Poetica della Trascendenza non l’ho mai scritta se, sotto questo titolo, ci si aspetta qualcosa come una filosofia della religione, in mancanza di una filosofia teologica. La mia cura, mai attenuata, di non mescolare i generi, mi ha piuttosto avvicinato alla concezione di una
filosofia senza assoluto»11.
Una svolta: la scelta di un filosofare agnostico, che porterà Ricœur sempre più a
distinguere il “polo biblico” da quello “razionale-critico”, l’ambito religioso da quello
filosofico. Una sorta di «divieto di soggiorno di Dio in filosofia»12, che, in qualche
maniera, diventa anche un divieto di soggiorno del tema dell’Essere nella filosofia,
divieto posto proprio per superare i limiti della ontoteologia tradizionale.
Secondo Ricœur, infatti, l’ontologia e la teologia (metafisiche) sono cadute nello
stesso errore: pretendere di dire l’origine, il fondamento: ipostatizzarlo; l’ontologia
P. Ricœur, Filosofia della volontà I, Il volontario e l’involontario, cit., pp. 33; 35.
In questo, il primo Ricœur fa sua la lezione di Marcel e Jaspers: cfr. G. Marcel et K. Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe, Temps présent, Paris 1948.
10 P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., p. 604. La Poetica, intorno alla quale doveva essere intessuto il
terzo volume della Filosofia della volontà, Ricœur non la scriverà mai.
11 P. Ricœur, Riflession fatta, cit., p. 37. «La terza parte doveva trattare del rapporto del volere umano con la Trascendenza, termine evidentemente jaspersiano, che designava pudicamente il dio dei
filosofi; […] doveva allargarsi in una poetica delle esperienze di creazione e ri-creazione miranti ad
una seconda innocenza» (ibidem).
12 P. Ricœur, La critica e la convinzione, cit., pp. 25, 210.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
sostanzializzandolo in un Essere trascendente; la teologia razionale immaginando
Dio come questo Essere, afferrabile dalla ragione, mero oggetto di riflessione.
L’agnosticismo dell’ermeneutica ricœuriana, rispetto ad esse, si pone come epoché: come soglia di auto-censura. In questo senso comprendiamo la famosa espressione presente ne Il conflitto delle interpretazioni: «l’ontologia è una terra promessa per una filosofia che comincia col linguaggio e con la riflessione; ma, come Mosè,
il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»13.
Non è un rifiuto della questione dell’Essere/Principio (da un lato) o di Dio
(dall’altro lato), ma è un silenzio di rispetto: rispetto dei limiti del pensiero e
dell’eccedenza dell’Origine.
Il “professor” Ricœur, dunque, sceglie di dedicarsi a questa ermeneutica del limite: nel deserto dell’esodo. È questa la fase più nota del suo pensiero: il ripensamento
della fenomenologia, la scoperta della via lunga dell’interpretazione, il dialogo con le
scienze, l’attenzione al tema del linguaggio. Come si pone in questo contesto il problema dell’essere?
2. Dalla Ontologie del 1972 a Soi-même comme un autre: nella storia della metafisica, l’irruzione dell’ontologia dell’alterità
Acquista un valore decisivo, a riguardo, l’articolo scritto da Ricœur nel 1972 per
l’Encyclopedia Universalis. Si tratta proprio della voce Ontologia. Interessante per
una serie di ragioni. Primo: perché “costringe” Ricœur a ricollocare la questione
dell’essere “dentro” la filosofia e non ai suoi margini ineffabili; secondo: perché –
trattandosi di una voce da enciclopedia – offre una sintesi chiara ed efficace del pensiero di Ricœur sull’ontologia negli anni ’70.
Ma, a queste ragioni più interne al pensiero ricœuriano, possiamo aggiungerne
un’altra, più esterna, che riguarda il valore in sé delle riflessioni ricœuriane. Ci sembra infatti di poter cogliere già in questo articolo una forma di originalità, che rende
le pagine ricœuriane, non tanto una voce compilativa, ma uno squarcio interrogativo: profondamente teoretico.
Quale, infatti, la posta in gioco dell’articolo? Ricœur la dichiara subito, già nella
“colonna” introduttiva: è il rapporto tra storia dell’ontologia e storia della metafisica
e, dunque, la possibilità di «dare un senso non metafisico alla questione
dell’essere»14.
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P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 37.
P. Ricœur, Voce Ontologie, in Encyclopedia Universalis, vol. XII, p. 94.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
È sufficiente anche solo una banale giustapposizione tra la posizione di Ricœur e
quella del “secondo” Heidegger, per rendersi conto dello scarto. La storia della metafisica è solo una parte della storia dell’ontologia. L’ontologia non coincide con la
metafisica.
Ma questo è già “altro” anche rispetto alla Filosofia della volontà. Il Ricœur ermeneutico, liberatosi dal timore di far coincidere “Principio”, “Essere” e “Dio”, è ora
in grado di distinguere tra l’ontoteologia (che per lui coincide con metafisica) e
l’ontologia.
Lo schema dell’articolo è molto chiaro in questo. Nella prima sezione (Metafisica
e ontologia), Ricœur ripercorre la storia di questa sovrapposizione, che trova la sua
origine nell’Antichità (Parmenide, Platone, Aristotele15) e il suo sugello in Kant16.
Nelle tre sezioni seguenti, invece, vengono presentati tre ambiti in cui la questione
ontologica si (ri)propone nel Novecento, in maniera non metafisica: Scienza e ontologia; Linguaggio e ontologia; Fenomenologia e ontologia. Non è difficile riconoscere in questi tre ambiti gli interessi dell’ermeneutica ricœuriana: che quindi propone se stessa come modello di ontologia, un’ontologia che si dice al plurale, come
ontologia regionale, ossia come la questione
- della realtà degli oggetti scientifici,
- del pre-linguistico nel linguaggio,
- dell’alterità al-di-là dell’essere.
Quest’ultima è l’esperienza della fenomenologia francese, che si annuncia in E.
Levinas, M. Henry e J. Derrida; ed è questa la “linea” sulla quale Ricœur conclude
l’articolo, evidentemente ponendo in questo solco la propria ricerca e le proprie
domande.
È spalancata qui, in germe, l’ontologia di Sé come un altro. Un’onto/antropologia
più che un’onto/teologia. Un’ontologia del Sé che trova il suo fondamento
nell’alterità: e, in questa maniera e in questa misura, supera la metafisica della medesimezza, che aveva schiacciato l’essere sull’identità.
Per la ricostruzione dell’ontologia antica da parte di Ricœur è imprescindibile il riferimento al corso tenuto da Ricœur nel 1953-54: Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, tr. it. di L. M.
Possati, Mimesis, Milano 2014.
16 Secondo Ricœur, è Kant che, ripensando la storia della filosofia nella logica di una coincidenza tra
storia dell’essere e storia della metafisica (e ponendosi al di là di questa coincidenza), apre il problema di capire «se sia possibile un’ontologia senza metafisica».
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
È sin troppo nota la posizione ricœuriana di questa fase; ci sarà sufficiente richiamarla brevemente. Nell’opera del 1990, il tema dell’alterità viene declinato –
possiamo dire schematicamente – in una triplice direzione:
- “il sé come altro in sé”: la passività che abita nel cuore dell’io, il corpo proprio, limitato, sofferente, fragile;
- “l’altro come altro-sé”: i tu, gli amici, i vicini con cui condividiamo la vita; ma
anche i ‘ciascuno’, gli sconosciuti, gli altri che, come noi, condividono il mondo e la storia;
- e infine l’“Altro come il totalmente Altro”: fonte di un’ingiunzione che ci precede (sia essa semplicemente quella degli antenati, sia essa lo sguardo di un
Dio, sia essa un posto vuoto).
L’intreccio di questi livelli d’alterità ci consegna la proposta di un’ontologia della
persona decisamente originale: al di là dell’idem (il soggetto tradizionale, in cui
l’essere è medesimezza invariabile, perennemente uguale a se stessa, sottratta al
tempo e alla finitezza), al di là dell’anti/idem (la morte del soggetto, annunciata dai
maestri del sospetto, in cui l’essere è fumo che svapora, e l’unica invariante è la perenne dissoluzione, l’impossibilità di un’identità e dunque di un’ontologia), “tra”
idem e anti-idem, si colloca la promessa dell’“ipseità”: il tentativo, che ognuno di noi
fa, di costruire se stesso in un’identità narrativa, fragile e spezzata, con la consapevolezza di non essere un tutto, ma nemmeno un niente. E che quello che sarò, sarò
io a deciderlo: a partire da ciò che posso e da ciò che non posso: nella mia responsabilità ma anche in tutto ciò che non dipende da me: e che comunque sarò io ad assumere e a rendere mia “storia”.
«La dialettica della medesimezza e dell’ipseità risulta immanente alla costituzione ontologica della persona. […] Lo strumento di questa dialettica è la costruzione dell’intreccio
che, da un pulviscolo di eventi ed episodi, ricava l’unità di una storia. […] Il concetto di
identità narrativa, con il quale definisco la coesione di una persona nella concatenazione di
una vita umana, […] si sottrae all’aut-aut del sostanzialismo: o l’immutabilità di un nocciolo
intemporale, o la dispersione nelle impressioni, come si può notare in Hume e Nietzsche»17.
C’è un’ontologia, dunque, in Sé come un altro. Certo. Ma un’ontologia del Sé. Regionale e non metafisica. Onto-antropologica e non onto-teologica. In questo senso,
la conclusione del testo del ’90 resta coerente con le premesse di questa seconda fa P. Ricœur, La persona (1990), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 66-68. Su questi
temi cfr. M. Buzzoni, P. Ricœur: persona e ontologia, Studium, Roma 1998.
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Dall’essere al dono
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se. Infatti, sulla terza forma di alterità (l’Altro come origine, come fonte di ingiunzione), Ricœur sospende il giudizio.
«Forse il filosofo in quanto filosofo, deve confessare che egli non sa e non può dire se
questo Altro, fonte dell’ingiunzione, è un altro che io possa guadare in faccia o che mi possa
squadrare, o i miei antenati di cui non c’è punto rappresentazione, tanto il mio debito nei
loro confronti è costitutivo di me stesso, o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto. Su questa aporia dell’Altro si arresta il discorso filosofico»18.
Riteniamo, però, come detto all’inizio, che sia possibile scandire una terza fase
del pensiero ricœuriano, che si snoda proprio a partire dalla fine degli anni ’80 e
sempre più chiaramente negli ultimi quindici anni della sua esistenza. Una fase che
ci piace ripensare come il compimento (fragile e spezzato) di quella seconda rivoluzione copernicana, annunciata e non portata a termine dalla Filosofia della volontà19, una fase Poetica, in cui il ripensamento del tema dell’Origine e del “Fondamentale” passa attraverso il ripensamento delle tematiche del dono e della sovrabbondanza. Un ripensamento che rimette in gioco le barriere concettuali e disciplinari, e
dunque anche la questione dell’ontologia e dell’Alterità.
3. L’ontologia del dono come soglia “tra” antropologia e teologia
Se il rischio dell’ontoteologia metafisica era quello di identificare l’essere con Dio
(e ipostatizzare entrambi), la Filosofia della volontà – con il suo desiderio di scrivere sul Trascendente – aveva sfiorato questo rischio. E solo il silenzio e l’interruzione
del progetto avevano schivato il pericolo.
Il cammino nel deserto dell’ermeneutica ha liberato, però, Ricœur dai timori
dell’idolatria. L’articolazione delle ontologie regionali ha consentito di distinguere,
senza mescolare, i molteplici significati dell’essere.
Ora, al termine del percorso, la terra promessa non è più un miraggio, bensì una
possibilità. La filosofia può non soltanto scorgerla, ma tornare a scrivere di essa:
tornare a scrivere sull’Origine, tornare a scrivere di ontologia e di teologia: non unificandole nell’analisi metafisica di un Essere trascendente; non escludendole per
principio l’una rispetto all’altra, ma rimanendo sulla soglia: là dove i linguaggi si
È il noto finale di Sé come un altro (1990), tr. it. di D. Iannotta Jaca Book, Milano 1993, p. 473.
Ci permettiamo su questo di rimandare al nostro A. Caputo, A Second Copernican Revolution.
Phenomenology of the Mutuality and Poetics of the Gift in the Last Ricœur, in «Studia Phaenomenologica», 2013 (XIII): On the Propter Use of Phenomenology – P. Ricœur Centenary, ed. by O. Abel
and P. Marinescu, pp. 231-256.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
fanno “traducibili”, là dove gli orizzonti possono dialogare, là dove il «già-sempreesistente» è “prima” per entrambe, là dove «il dato si svela dono» per entrambe, là
dove «l’origine è miracolo» per entrambe: nella loro alterità.
Ci sia consentita, per chiarire questa proposta interpretativa, una lunga citazione
da La critica e la convinzione (1995):
«Tengo ad affermare un duplice riferimento, che è assolutamente primario per me […]:
il rapporto tra convizione e critica. […] In un certo momento della mia vita, una trentina di
anni or sono [la metà degli anni ’60 – n.d.A.], sotto l’influenza di K. Barth, ho spinto molto
avanti il dualismo, fino a promulgare una sorta di divieto di soggiorno di Dio in filosofia. Infatti sono sempre stato diffidente nei confronti della speculazione che si chiama ontoteologica, e ho reagito in maniera critica a qualsiasi fusione tra il verbo essere greco e Dio, malgrado Es 3,14. La diffidenza rispetto alle prove dell’esistenza di Dio mi aveva spinto a trattare sempre la filosofia come un’antropologia – è ancora il termine che ho utilizzato in Sé
come un altro […]. Forse avevo anche altre ragioni per proteggermi dalle intrusioni, dalle
infiltrazioni troppo dirette, troppo immediate del religioso nel filosofico; erano ragioni culturali, direi perfino istituzionali: tenevo molto ad essere riconosciuto come professore di filosofia, che insegna la filosofia in un’istituzione pubblica e parla il discorso comune. […] Ma
si possono trovare nei due registri delle analogie che possono diventare affinità, e io le assumo, poiché non credo di essere il maestro del gioco, e nemmeno il maestro del senso. Le
due mie dipendenze mi sfuggono sempre, anche se talvolta si fanno reciprocamente cenno.
Ci troviamo a questo punto di intersezione [il filosofico e il religioso] senza averlo scelto. E
per noi è un compito dato il far comunicare registri distinti […]. È ciò che oggi direi, dopo
aver difeso per decine di anni, talvolta astiosamente, la distinzione dei due registri. Credo di
essere sufficientemente avanzato nella vita e nell’interpretazione di ciascuna di queste due
tradizioni, per arrischiarmi sui luoghi della loro intersezione. Uno di questi è […]
l’economia del dono»20.
Non si tratta dunque di tornare a confondere ontologia e teologia nell’ontoteologia,
ma di far dialogare ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, sulla soglia di ciò
che le accomuna. Perché «non siamo i maestri del gioco»: e così come non possiamo
forzare metafisicamente la loro sovrapposizione, non possiamo forzare razionalisticamente la loro contrapposizione.
E negli interstizi emerge una tematica: quella del dono21. Tematica che ci sembra
possa andare ad indicare un nuovo modello di ontologia: al confine tra antropologia
e Poetica.
20
21
P. Ricœur, La critica e la convinzione, cit., pp. 197; pp. 210-11; p. 223.
Cfr. ivi, p. 223.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
Che cosa significa, dal punto di vista antropologico, ripensare l’uomo nella logica
del dono? Significa acquisire la consapevolezza che “il nostro essere” prima e più che
medesimezza e ipseità, «è originariamente un essere dato/donato».
In Percorsi del riconoscimento (2004), reinterpretando alcune pagine hegeliane
alla luce delle suggestioni di J. Taminaux e A. Honneth, l’ultimo Ricœur approfondisce in questa direzione la tematica della “filiazione”. “Siamo” perché “siamo nati”;
siamo nati perché “altri” ci hanno preceduti e fatti nascere. «Maschile e femminile
sono tra le invarianti che strutturano il nostro essere-al-mondo secondo il modello
familiare: ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e una donna»22. L’essere
umano è innanzitutto un figlio. La “filiazione” è la figura fondamentale e primaria
del riconoscimento di sé. Simbolo efficace di questo dono d’essere, di questa discendenza d’essere è l’albero genealogico. Possiamo immaginarlo con le radici verso
l’alto; con una doppia radice, un doppio ramo: la linea materna e quella paterna. Linee che risalgono la catena delle generazioni, fino al primo uomo e alla prima donna. Un albero con origini che si perdono nella storia stessa dell’umanità. E, in
quest’albero, come frutto e come eventuale nuovo ramo, il nome di ciascuno di noi;
e, prima ancora, il nostro cognome, la nostra identità, istituita anche “civilmente”,
che ci ricorda che siamo “figli di”.
Questa è la nostra prima e indiscutibile forma di identità. Possiamo non essere
padri, non essere madri, non essere fratelli o sorelle. Ma mai nessuno potrà toglierci
il nostro essere figli: «inestimabile oggetti di trasmissione»23. L’essere dell’uomo
non è innanzitutto un “io penso”, “io percepisco”, “io agisco”, “io ho diritti e doveri”.
Ma è un essere-trasmesso. Il mio essere è il dono di una trasmissione di desideri.
Sono un dono, senza prezzo: al di là di ogni prezzo e ogni valore: inestimabile24.
«Il venire al mondo di un essere nuovo è in tal senso senza precedenti: questo,
che sono io». Ricœur, citando Hannah Arendt, lo chiama “miracolo”. «Il miracolo
che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane dalla sua normale, “naturale”
rovina è in definitiva il fatto della natalità»25.
In questo senso, esistenzialmente, il primo dono (e il primo riconoscimento) è
quello dei genitori; ed è decisivo. Questo ovviamente, potremmo dire, vale anche i
P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento (2004), tr. it. di F. Polidori Cortina, Milano 2005, p. 216.
Cfr. P. Legendre, L’inestimable objec de la transmission, Fayard, Paris 1985, testo di cui Ricœur si
dichiara debitore in queste pagine di Percorsi del riconoscimento (pp. 217 sgg.).
24 Qui il riferimento di Ricœur è a M. Hénaff, Le prìx de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie,
Ed. Le Seuil, Paris 2002; cit. in Percorsi del riconoscimento, pp. 262 sgg.
25 Ivi, p. 219 (cfr. il testo arendtiano Vita activa, tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989).
22
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
per figli adottati. Ricœur ricorda come i Romani avessero una particolare cerimonia
di “adozione” dei propri figli naturali, quasi a sottolineare che, in ogni caso, la maternità e la paternità non si giocano tanto o solo nella generazione fisica. In realtà
«ogni nascita accettata è un’adozione, dal momento che […] il padre, la madre […]
ha accettato o scelto di tenere “quel” feto diventato “suo” figlio e di farlo nascere»26.
Ma, ovviamente, già Hegel sapeva che la logica del dono non è solo quella che si
gioca tra genitori e figli. In senso lato e ampio, infatti, ogni forma d’amore è una
forma di dono. «Gli individui sono l’amore. […] Il loro essere l’uno per l’altro è
l’inizio di ciò. […] Il riconosciuto è riconosciuto come avente immediatamente valore, mediante il suo essere […]. Nell’amore l’uomo viene necessariamente riconosciuto ed è necessariamente riconoscente»27.
Per essere, per esistere è decisivo sentirsi riconosciuti, sentirsi amati. È dunque
l’amore dell’altro (non necessariamente e solo quello dei genitori: l’amore degli amici, l’amore dell’amante, del compagno, della compagna) che mi fa riconoscere come
un io: amato, e perciò inestimabile oggetto di valore.
L’uomo è un essere “bisognoso”. Ma di cosa ha bisogno primariamente?
Dell’altro. Di un altro che gli dica: tu. Intuiamo come, nell’interpretazione ricœuriana di Hegel, ci sia un ripensamento radicale del rapporto tra ontologia e alterità:
“essere se stessi in un estraneo” (Hegel); non poter esistere senza l’altro (Ricœur). E
questo lo comprendiamo bene se pensiamo alle situazioni di misconoscimento, nonriconoscimento. Se l’altro (l’amico, l’amante) mi “umilia”, si “ritrae”, mi “rifiuta”, mi
nega l’“approvazione”, colpisce il mio essere. «Privato di approvazione è come se
non esistessi» 28 . In questo senso, il nostro essere dipende non solo dal dono
dell’alterità dei nostri genitori, ma anche dal dono di tutti quelli che ci hanno riconosciuti e amati.
Infine, ma in maniera decisiva, Ricœur sottolinea come la costituzione del nostro
essere dipenda anche dalla possibilità/capacità di non rimanere solo oggetti passivi,
semplici destinatari del dono altrui: ma soggetti amanti a nostra volta, soggetti capaci di esperienze di dono, di amore.
L’esperienza più alta che la vita può concedere ad un uomo è, in questo senso,
quella della mutualità: mutuo riconoscimento, incontro di due doni, dissimmetria di
Ivi, p. 218.
G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, citato da Ricœur in Percorsi del riconoscimento, pp.
205-206.
28 Ivi, p. 216.
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Dall’essere al dono
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una duplice gratuità. L’amore come dono gratuito, infatti, secondo Ricœur, non si
scambia mai sullo stesso livello, ma ogni volta cade da un dislivello, dall’Altezza del
senza prezzo29.
Infatti, se l’amore è dono, ogni dono autentico è un dono “primo”, un “primo dono”. Quindi, chi risponde mutualmente all’amore non fa una specie di “restituzione”, di “ricambio” del dono. Il dono di chi risponde autenticamente e mutualmente
all’amore non è “secondo” al primo, ma sovrabbondante come ogni origine. Non è
legato, vincolato, al primo; ma libero, come ogni gesto gratuito. Può essere “secondo” dal punto di vista temporale: ma dal punto di vista qualitativo, se autentico, è
originario come il primo. Perciò Ricœur parla di un «secondo primo dono»: raro,
come l’amore autentico; desiderato e desiderabile come un ottativo mai pregarantito30.
Per questo, ogni autentico dono è un “rischio”. Si assume il rischio di essere rifiutato, di non essere riconosciuto, di non essere accettato, apprezzato. Si consegna alla
possibilità della misconoscenza e dell’ingratitudine. Per questo, ogni autentico dono
è un’attesa. Un’attesa che resta sempre aperta alla possibilità di una “sorpresa”: la
sorpresa di un «secondo primo dono»31. Per questo, ogni autentico dono è gratuità
che evoca gratitudine. E gratitudine che chiama nuova gratuità.
“Gratitudine”. Nella lingua francese si usa uno stesso termine (reconnaissance)
per dire sia la gratitudine/riconoscenza, che il riconoscimento. Il riconoscimento
desta riconoscenza. E solo perché qualcuno “prima” ci ha fatto il dono di essere
amati, riconosciuti, ecco che “dopo” anche noi possiamo diventare capaci – a nostra
volta – di gratuità.
Si dà, allora, un colpo di scena. Un risvolto paradossale della logica del dono. Che
non va (come sarebbe potuto sembrare ad un primo livello) dalla gratuità alla gratitudine, ma dalla gratitudine alla gratuità. Ma perché tutto questo è importante per il
nostro discorso? Perché si tratta di un colpo di scena? Perché, se viene prima la gratitudine (se prima devo poter dire “grazie” per essere stato amato, e solo di conse Su questo, oltre il cap. finale di Percorsi del riconoscimento è da vedere Amore e giustizia (1990),
tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2000.
30 «La generosità del dono suscita non una restituzione che, in senso proprio, annullerebbe il primo
dono, ma qualcosa come la risposta ad un’offerta. Al limite, occorre considerare il primo dono quale
modello del secondo dono e pensare il secondo dono come una sorta di, se così si può dire, “secondo
primo dono”» (Percorsi del riconoscimento, cit., p. 270). «Questi comportamenti riconducono il
primo dono al centro del quadro, e questo perché il primo dono diventa il modello del secondo dono»
(ivi, p. 259).
31 Ivi, pp. 271 ss.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
guenza posso imparare a mia volta donare e amare), allora questo significa che io
non posso mai essere “primo” a riconoscere ed amare. Significa che io sono sempre
secondo. C’è sempre una gratuità che “prima” mi ha riempito e preceduto. Io non
sono mai un primo donatore, un primo essere. C’è sempre qualcuno che mi precede,
c’è sempre un dono che mi precede. Ogni essere, ogni dono, ogni desiderio d’amore
è sempre solo risposta, sempre un “secondo primo dono”.
Nel cuore della logica paradossale del dono, ecco, allora che rinasce una domanda
dal sapore “metafisico”: qual è l’Origine del dono? Come è possibile che nasca (o che
si sia nato, originariamente) un essere, un dono, un desiderio d’amore, se è vero che
siamo sempre secondi? Se nessuno di noi può mai essere primo nel dare e
nell’amare, da dove proviene l’essere come dono? Esiste un Primo donatore? Oltre
l’economia del dono umana, esiste un’economia del dono dell’Origine, nell’Origine?
C’è un’Alterità assoluta del dono?
Qui le domande dell’antropologia e quelle dell’esegesi biblica vengono ad intersecarsi. E qui a nostro avviso, anche al di là di Ricœur, sul tema dell’essere come dono
si aprano spazi affascinanti e inediti di un nuovo, possibile dialogo tra filosofia e teologia.
Forse è possibile rileggere la Genesi come donazione originaria di esistenza. Forse
è possibile rileggere la kenosis del Figlio e il comandamento dell’amore verso i nemici come il vertice discendente di questo dono d’amore, nell’agape. Forse è possibile rileggere l’intera storia come redenzione, come dono di libertà e liberazione; e
l’escatologia come la possibilità di risveglio delle promesse incompiute della storia32.
«In tal modo, il Dio della speranza e quello della creazione sono, alle due estremità
dell’economia del dono, il medesimo Dio»33.
Ma la poetica di questo Dio non è ontoteologia. E perciò non è mai ultimamente
dicibile nella prosa umana. Appena afferrabile dai balbetti dell’esegesi e della teologia ermeneutica. Assolutamente impensabile per le e nelle fragili maglie della ricerca filosofica.
Qui le risposte dell’antropologia e quelle della teologia tornano a divergere: e la
filosofia si mostra ancora più fragile e spezzata: incapace di dire l’Essere come Altro.
Su questi temi cfr. in particolare A. LaCocque-P. Ricœur, Come pensa la Bibbia (1998), tr. it. Di F.
Bassani, Paideia, Brescia 2002; e P. Ricœur, Vivo fino alla morte (2007), tr. it. di D. Iannotta, Effatà,
Torino 2008.
33 P. Ricœur, Amore e giustizia, cit., p. 34.
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Dall’essere al dono
Annalisa Caputo
Un percorso inutile, allora, il nostro? Forse no. Perché la soglia è guadagnata. E
rimanendo su di essa si mostra, comunque, l’originalità di questo ripensamento
dell’essere come dono, donato da “altri”. E se la domanda relativa al Primo donatore, in ogni caso, dal punto di vista filosofico, resta in sospeso34, ora, però, nella logica dell’ultimo Ricœur, quella dell’Altro non è più solo una “aporia”: è una “nuova”
ontologia. L’ontologia di un “essere secondo”. L’ontologia di un “essere dato”.
L’ontologia di un “essere dono”. Perché… che all’origine ci sia altro è un dato ontologico. Che io non mi sia fatto da me è un dato ontologico. Che io sia figlio è un dato
ontologico. Che io sia perché mi riconosco come desiderato, amato, destinatario di
un dono è un dato ontologico. Che l’uomo non sia soggetto autocentrato e autofondato ma “inestimabile oggetto di trasmissione” è un dato ontologico. Il dato ontologico è: che siamo una provenienza di desideri, il risultato di una sovrabbondante discendenza d’amore, il dono di una trasmissione di vita (data dai genitori, segnata
nell’albero genealogico, radicata della storia degli avi). Oltre questo dato, si apre
l’enigma dell’origine, enigma che è quello stesso della dono della nascita e della vita.
Miracolo della natalità che, nella sua insondabilità e indicibilità, rende comunque
ogni uomo un ‘senza prezzo’ degno di lode.
Una nuova onto-teologia? Forse no. Forse solo il tentativo di ripensare il “trattino” che congiunge ontologia e teologia: il tratto di una soglia: tra l’essere umano e
l’essere di Dio: in una nuova paradossale analogia: non analogia entis, ma analogia
doni. Mai dicibile perché sempre già iniziata.
Infatti, filosoficamente non è possibile comunque sapere, per riprendere la conclusione di Sé come
un altro, se il Primo donatore sia «un altro che io possa guadare in faccia, o i miei antenati, […] o Dio
– Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto».
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Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre
Gianluca Cavallo
Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre
Gianluca Cavallo
Alasdair MacIntyre on Natural Rights and Law
Abstract
This paper focuses on the theme of natural rights, as it emerges from the works of Alasdair MacIntyre. In After Virtue he argues that «there are no such rights, and belief in them is one with
belief in witches and in unicorns», but in later works he endorsed a thomistic view on natural
law, which is compatible with the acknowledgment of universal human rights. MacIntyre’s writings contain the premises for an ontological foundation of natural rights, despite his rejection of
any formulation of them.
Keywords: Human Rights; Natural Law; Philosophical Antropology; Communitarianism; MacIntyre.
***
In questo articolo intendo ripercorrere un tratto dell’itinerario intellettuale di
Alasdair MacIntyre, concentrandomi sul tema dei diritti umani e di una loro
possibile fondazione ontologica. Se in Dopo la virtù (1981) egli scriveva che
«non esistono diritti del genere, e credere in essi è come credere nelle streghe e
negli unicorni»1, in scritti successivi ha sostenuto una concezione tomista della
legge naturale, la quale è compatibile con il riconoscimento di diritti umani universali. La ripetuta presa di posizione, da parte di MacIntyre, contro di essi2 è
basata implicitamente sull’assunto che «il linguaggio dei diritti non può essere
A. MacIntyre, Dopo la virtù, tr. it. rivista da M. D’Avenia, Armando, Roma 2007, p. 104 (prima
edizione italiana: Feltrinelli, Milano 1988).
2 A. MacIntyre, Are There Any Natural Rights?, Bowdoin College, Brunswick (Maine) 1983; Id.
Community, Law and the Idiom and Rhetoric of Rights , in «Listening», XXVI, 1991, pp. 96110. Per una critica a MacIntyre sul tema dei diritti si veda K. Shrader-Frechette, Natural Rights
and Human Vulnerability: Aquinas, MacIntyre, and Rawls, in «Public Affairs Quarterly», XVI,
2, 2002, pp. 99-124.
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separato dal contesto liberale in cui è nato»3. Tuttavia, gli scritti stessi del filosofo forniscono le premesse per un diverso approccio alla questione, che fornisce
maggiore coerenza e forza all’etica che egli ha proposto nel corso degli anni.
1. La negazione dei diritti umani in Dopo la virtù
Una delle principali tesi del testo del 1981 è che la modernità si caratterizza
come un susseguirsi di tentativi di fondare la morale, i quali si sono rivelati fallimentari in quanto basati su premesse non valide perché: 1) astratte (la ragione
di Kant); 2) contingenti (le passioni di Hume e Diderot); o 3) soggettive (il piacere degli utilitaristi, la scelta esistenziale di Kierkegaard).
Sullo sfondo di queste considerazioni, MacIntyre polemizza con il tentativo di
Alan Gewirth di fondare i diritti umani4. La tesi centrale di Gewirth è che un
soggetto razionale, individuati i mezzi necessari per portare a termine con successo un’azione, riterrà di avere diritto a questi mezzi e, per non cadere in contraddizione con sé stesso, dovrà riconoscere questi diritti anche ai suoi simili.
Ciò non significa che ogni individuo possa avanzare una pretesa in termini di diritto per qualsiasi mezzo in vista di qualsiasi scopo, ma che vanno riconosciuti
come diritti quei mezzi che costituiscono “necessariamente” una condizione di
possibilità per lo sviluppo libero dell’agente: ad esempio, la libertà e il benessere.
La critica di MacIntyre si articola in più punti, la maggioranza dei quali non è
però efficace5. Il più interessante rilievo critico, che mi sembra l’unico sostenibile, nota come un diritto universale sia un principio astratto che non si traduce in
alcun «genere intelligibile di azione umana»6. Detto altrimenti, l’enunciazione
di un diritto non dice nulla, in termini positivi, su quali conseguenze esso debba
avere per l’azione morale dell’uomo. Soltanto «particolari tipi di istituzioni o
pratiche sociali»7 possono legittimare l’interpretazione di un’azione come coerente con il principio enunciato. Ma poiché le istituzioni hanno un carattere
D. Wallace, Jacques Maritain and Alasdair MacIntyre: The Person, the Common Good and
Human Rights, in B. Sweetman (ed.), The Failure of Modernism: The Cartesian Legacy and
Contemporary Pluralism, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 1999, p.
134.
4 A. Gewirth, Reason and Morality, University of Chicago Press, Chicago 1978.
5 Cfr. la risposta di A. Gewirth, Rights and Virtues, in «The Review of Metaphisics», XXXVIII, 4,
1985, pp. 739-62. Per un’analisi e una discussione di questo dibattito (non proseguito oltre
l’articolo appena citato), cfr. G. J. Walters, MacIntyre or Gewirth? Virtue, Rights, and the Problem of Moral Indeterminacy, in W. Sweet (ed.), Philosophical Theory and the Universal Declaration of Human Rights, University of Ottawa Press, Ottawa 2003, pp. 183-200.
6 A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 103.
7 Ibidem.
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contingente, storicamente determinato e sorretto da rapporti di forza, non è
possibile ritenere che i diritti riconosciuti in una determinata epoca e paese abbiano una validità universale8.
Benché non lo espliciti, qui MacIntyre si mantiene fedele al suo marxismo
giovanile e in particolare al testo marxiano su La questione ebraica, in cui è svelato il carattere ideologico delle dichiarazioni dei diritti, essendo esse nient’altro
che la codificazione dell’individualismo proprietario borghese. Il concetto
astratto di libertà, infatti, si presta ad essere inteso secondo una sua specifica
accezione, che nei Grundrisse Marx caratterizza come “indipendenza personale”, contrapponendola alla “dipendenza personale” che caratterizzava i modi di
produzione schiavistico e feudale9. Si tratta di un concetto negativo, che potrebbe essere riformulato nei termini di una “non-dipendenza personale” o, meglio
ancora, di una “dipendenza non-personale”, in quanto essa non implica affatto
la libertà, come vorrebbe l’ideologia liberale, bensì una nuova forma di dipendenza, cioè quella “materiale”. Autentica libertà sarebbe piuttosto il regno delle
“libere individualità”, in cui ogni forma di dipendenza (personale e materiale) è
superata dalla libera associazione comunitaria dei lavoratori, secondo un tema
già presente nell’Ideologia tedesca.
Il tentativo di Gewirth di fondare razionalmente i diritti dell’uomo, perciò,
fallisce, secondo MacIntyre, insieme a qualsiasi forma di kantismo. Nella sua
replica, in effetti, Gewirth sembra aver frainteso questa critica di MacIntyre,
ammesso che la nostra interpretazione sia corretta10. Coerentemente con la sua
impostazione kantiana, egli sostiene che il riconoscimento dei diritti è la condizione trascendentale della libertà d’azione che dev’essere riconosciuta ad ogni
essere razionale. L’esistenza stessa del diritto, poi, comporta la consapevolezza,
da parte dell’individuo, di essere situato in un contesto sociale, ma, essendo anche questa una condizione trascendentale (cioè conoscibile a priori), non vi è alcuna necessità di prendere in considerazione il carattere specifico di ogni istituzione storica.
Il problema è che tale concezione si basa su un concetto “noumenico” di individuo, incapace di garantire un’applicazione morale concreta. Parafrasando la
settima Tesi su Feuerbach, potremmo dire che Gewirth (come già Kant) non ve Circa l’importanza di questa critica all’interno del dibattito fra liberali e comunitaristi, cfr. C. S.
Nino, The Communitarian Challenge to Liberal Rights, «Law and Philosophy», VIII, 1, 1989,
pp. 37-52.
9 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 89.
10 Cfr. A. Gewirth, Rights and Virtues cit., pp. 746-47.
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de che l’idea di libertà è anch’essa un prodotto sociale e che l’individuo astratto,
che egli considera, in realtà appartiene a una determinata forma sociale.
Come ha argomentato meglio altrove11, MacIntyre ritiene che il discorso liberale sui diritti umani si fondi su un’idea non ben definita, la quale ignora la natura teleologica dell’essere umano, la cui dignità è una realtà dinamica da intendersi sempre in relazione a determinate “pratiche”12. La teoria dei diritti universali, che privilegia l’individuo rispetto alla società, è emersa nel contesto del falfallimento del progetto illuminista, con il moltiplicarsi di opzioni morali fra loro
in competizione e il declino di una concezione unitaria del bene comune. Ma è
esattamente in relazione al bene comune che la dignità umana può essere correttamente intesa, come vedremo meglio in seguito.
Tuttavia, MacIntyre compie l’errore di rifiutare, insieme al discorso liberale,
qualsiasi aspirazione all’universalità e, in ciò, si rivela non ancora pienamente
tomista. Infatti, «secondo una prospettiva tomista il problema con i diritti umani universali non è né l’appello alla verità universale, né la generalità di norme
morali universali, bensì l’enfasi sui diritti umani come possesso individuale, separati dai doveri che sono più importanti per la società umana»13.
L’aspirazione di MacIntyre è quella di rifondare un’etica sostanziale di stampo aristotelico, contrapposta a ogni proceduralismo liberale. A ben vedere, tuttavia, è possibile anche una sostanzializzazione del discorso sui diritti, che passa
attraverso la definizione di un più preciso significato del termine “umani”, ossia
attraverso una più attenta considerazione di che cosa significhi per l’individuo
essere un agente libero14.
2. Legge naturale o diritto naturale?
Con la modernità il discorso giusnaturalistico ha subito uno slittamento concettuale dall’idea (presente già in Aristotele) di “legge naturale” a quella di “di-
A. MacIntyre, Community, Law and the Idiom and Rhetoric of Rights, cit.
Il termine “pratica” assume in MacIntyre un significato specifico: «[p]er “pratica” intend[o]
qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di
raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono. […] [A]rti,
scienze, giochi, la politica in senso aristotelico, la costruzione e la conservazione della vita domestica, cadono tutti sotto questo concetto» (Dopo la virtù cit., p. 232).
13 D. Wallace, Jacques Maritain and Alasdair MacIntyre cit., p. 135.
14 Cfr. B. Bowring, Misunderstanding MacIntyre on Human Rights, in «Analyse & Kritik»,
XXX, 2008, pp. 205-214; B. S. Turner, Alasdair MacIntyre on morality, community and natural law, in «Journal of Classical Sociology», XIII, 2, 2013, pp. 239-253.
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ritto naturale”15. La legge naturale era per gli stoici il comando, valido universalmente, del logos cosmico; questa dottrina, che passò mediante Cicerone alla
cultura latina, venne poi ripresa ed elaborata dalla teologia cristiana cattolica,
anche in funzione di commento a quei passi di San Paolo in cui si sostiene, ad
esempio, che «quando i gentili che non hanno la legge fanno per natura le cose
della legge, costoro, non aventi legge, son legge a se stessi» (Rm 4, 15). La legge
naturale viene spesso espressa, nella riflessione cristiana, mediante la formula
della Regola d’oro, che si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento (Tb 4,
16; Mt 7,12). La trattazione più compiuta della dottrina giusnaturalistica cristiana si trova in Tommaso d’Aquino16.
Secondo l’Aquinate, ogni legge avente ad oggetto casi particolari è valida solo
se sussunta sotto la legge più generale, che ha per fine il bene comune.
Quest’ultima è stabilita direttamente da Dio, inteso come logos, e ogni natura
razionale finita è capace di conoscerla. Infatti, «in essa [scil. la natura razionale
finita] si ha una partecipazione della ragione eterna, da cui deriva una inclinazione naturale verso l’atto e il fine dovuto. E codesta partecipazione della legge
eterna nella creatura ragionevole si denomina legge naturale»17. Il bene comune
cui tende la legge è la “comune felicità” di una “comunità perfetta” intesa come
luogo in cui è possibile realizzare la “beatitudine” terrena18.
In una simile prospettiva la legge naturale è strettamente intrecciata alla moralità; la libertà non può essere disgiunta dal bene. Di conseguenza, la legge naturale, prima di implicare il riconoscimento di diritti, implica un preciso obbligo: citando Graziano, Tommaso afferma che «il diritto naturale è ciò che è contenuto nella Legge e nel Vangelo […] in forza del quale ciascuno è obbligato a
fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a lui»19. Come ha sostenuto Novella
Varisco, per intendere correttamente questo precetto occorre ricordare che per
Tommaso «l’oggetto proprio della volontà è il bene, mentre il desiderio, la cupiditas, è rivolta al male», sicché «la Regola d’oro che impone di trasferire ad altri
il bene che voglio per me, impone, allo stesso tempo, che tale bene, per essere
Cfr. A. MacIntyre, Enciclopedia, geneaologia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale, tr. it. di A. Bochese e M. D’Avenia, Editrice Massimo, Milano 1993, pp. 120-121.
16 Diamo qui alcuni riferimenti esemplificativi del percorso sinteticamente tracciato: Aristotele,
Etica Nicomachea, 1134b; Cicerone, De legibus, I, 12, 33; Id., De Re publica, III, 22, 33; Agostino d’Ippona, In psalmum 57 enarratio; Id., In eumdem psalmum 118, sermo 15; Tommaso
d’Aquino, Summa theologiae, Ia - IIae q. 90 e ss.
17 Summa theologiae, Iª-IIae q. 91 (http://www.fulvionapoli.it/sommateologica/somma.htm)
18 Ivi, Iª-IIae q. 90.
19 Ivi, Iª-IIae q. 94. Tuttavia, «quanto è contenuto nella Legge e nel Vangelo [non] è tutto di legge naturale, poiché molte cose ivi insegnate son superiori alla natura» (ibidem).
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veramente tale, sia adatto ad altri e ne permetta la fioritura»20. Il diritto individuale è subordinato a questo obbligo morale; cioè non può esistere alcun diritto
che sia incompatibile con il bene comune.
Con l’emancipazione dell’uomo moderno da qualsiasi ordine si pretendesse
fondato sull’autorità divina, i principali teorici del giusnaturalismo del XVII secolo hanno misconosciuto il valore vincolante della legge naturale, affermando
piuttosto il diritto individuale alla libertà, da far valere contro ogni pretesa del
potere pubblico di limitare gli spazi d’azione. L’individuo è ontologicamente
prioritario rispetto al collettivo, sicché il compito della legge naturale è di tutelare un diritto che gli uomini già posseggono in quanto tali.
Hobbes concepisce esplicitamente l’individuo come atomo egoista, che entra
in società soltanto perché il potere lo difenda dal «pericolo di morte violenta»21
che caratterizza lo stato di natura. La società non è volta al perseguimento di alcun bene comune, ma unicamente alla difesa della libertà dei singoli, in un tentativo di armonizzazione degli egoismi, in modo che non si danneggino a vicenda. Secondo John Locke ogni individuo ha un diritto originario alla proprietà
(compresa «la proprietà della sua persona»22), da far valere contro il potere
pubblico qualora esso venga meno allo scopo per il quale è stato istituito, cioè la
difesa della proprietà stessa. Com’è noto, questa impostazione è alla base del liberalismo, e ha la sua massima espressione nel cosiddetto harm principle formulato da John Stuart Mill nel suo saggio On Liberty (1859), secondo il quale il
solo scopo per cui è lecito l’esercizio del potere su un membro della società è
prevenire il danno che egli potrebbe recare ad altri.
L’elemento principale che differenzia la prospettiva moderna da quella antica
è, come ha notato MacIntyre, la diversa concezione della natura umana. Secondo l’ontologia aristotelica il fine (telos) di ogni individuo è di portare a compimento l’essenza che caratterizza la specie cui appartiene, muovendo dalla potenza (dynamis) all’atto (energheia). Quest’ultimo, essendo lo scopo intrinseco
di ogni movimento, “secondo la sostanza” è “anteriore” rispetto alla potenza23.
Per Aristotele è la razionalità la cifra specifica dell’anima umana, ma si tratta
di una forma di razionalità che egli concepisce come tale da non potersi svilup 20 N. Varisco, La Regola d’oro in Tommaso d’Aquino, in C. Vigna, S. Zanardo (a cura di), La regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 147-148.
21 T. Hobbes, Leviatano, tr. it. di G. Micheli, Rizzoli, Milano 2011, p. 131.
22 J. Locke, Trattato sul governo, tr. it. di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 23 (si
tratta della traduzione del Second Treatise).
23 «Tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos)
costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)»
(Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9).
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pare al di fuori della comunità, dove la figura del saggio funge da criterio per la
determinazione di quale azione sia conforme a virtù24. Al contrario delle caratteristiche meramente fisiche o biologiche, che molto spesso possono giungere
all’atto «per virtù propria», le virtù razionali (teoretiche e pratiche) possono svilupparsi solo «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori»25,
cioè quando vi sia un contesto adeguato al loro sviluppo. Questo, naturalmente,
è quello che Tommaso d’Aquino ha sostenuto doversi basare sulla legge naturale, cioè sul bene comune.
Il rifiuto moderno dell’ontologia aristotelica è espresso senza mezzi termini
da Hobbes: «io credo che difficilmente si può dire qualcosa di più assurdo in filosofia naturale di ciò che si chiama ora Metafisica di Aristotele, o di più ripugnante al governo di quanto ha detto nella sua Politica, o di più ignorante di una
gran parte della sua Etica»26. Per il filosofo inglese la natura umana è caratterizzata da tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i
singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio27. Vi è, poi, il fondamentale
istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La
“somma” del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili»28 e
questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può
forzare il suddito a subire il male senza difesa.
Chiaramente Hobbes rappresenta un caso limite di pessimismo antropologico, ma è accomunato agli altri pensatori moderni dall’idea che l’individuo sia già
perfettamente realizzato al di fuori (e prima) della società. Usando la terminologia aristotelica, secondo i moderni la natura umana è già sempre in atto e il
compito dello stato è unicamente quello di limitare la libertà dei singoli quando
questa si faccia prevaricatrice rispetto a quella dei loro simili.
La credenza nell’esistenza dei diritti umani, formulati a partire da queste
premesse, è un “errore ontologico”29, non perché essi sono finzioni come le streghe e gli unicorni, ma perché si basano su un’ontologia insostenibile.
3. L’ontologia relazionale di MacIntyre
Con il libro Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues (1999) MacIntyre propone una sua propria ontologia, riprendendo la tradi Etica Nicomachea II, 6, 1107a 1.
Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
26 T. Hobbes, Leviatano cit., p. 708.
27 Ivi, p. 129.
28 Ivi, p. 135.
29 Così si è espresso, criticando la posizione di MacIntyre, M. Freeman, The Philosophical Foundations of Human Rights, in «Human Rights Quarterly», IV, 3, 1994, p. 500.
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zione aristotelica e tomista, ma aggiungendovi considerazioni di carattere biologico che derivano dalle conoscenze scientifiche più recenti30. A dire il vero, il legame che egli cerca di istituire tra l’animalità umana e le forme di vita a essa più
vicine (ad esempio i delfini) non è dirimente; sembra, piuttosto, che il suo discorso starebbe in piedi perfettamente anche senza tali riferimenti, ed è così che
qui lo presentiamo.
Fin dalla nascita l’uomo è inserito in un contesto intersoggettivo: la sua educazione e crescita dipendono dai genitori, parenti e insegnanti; nel corso degli
anni la rete di relazioni si allarga agli amici, ai colleghi e in generale a tutti coloro che partecipano con lui a qualche “pratica”. Mediante queste relazioni,
l’individuo diviene in grado di sviluppare quelle che MacIntyre chiama le «virtù
della razionalità pratica indipendente». Esse permettono all’individuo di comprendere cosa significhi impegnarsi in una pratica e perseguire i beni interni ad
essa, nonché di imparare a ordinare ogni sua attività in vista di un bene ultimo.
Una volta divenuti adulti questo rapporto di dipendenza nei confronti degli
altri non viene meno, perché siamo sempre esposti all’errore nel giudizio relativo sia alla bontà dei fini che ci proponiamo di perseguire, sia a quella dei mezzi,
sia al comportamento altrui (e la fonte di questi errori può essere sia morale che
intellettuale). Inoltre il percorso complessivo della nostra vita è tale per cui in
ogni momento ci troviamo, senza poterlo prevedere, a un diverso gradino di una
«scala di disabilità nella quale tutti noi siamo collocati»31. Con questo MacIntyre
intende una cosa semplicissima, cioè che nessun individuo è indipendente, in
quanto ci sono cose che egli non capisce o non sa fare o, più gravemente, può
trovarsi a dover affrontare malattie e disabilità fisiche di diverso grado, transitorie o anche permanenti (magari fin dalla nascita). Questo richiede che in una
comunità buona gli individui sviluppino anche le «virtù della dipendenza riconosciuta», che sono alla base di quei comportamenti di cura dell’altro, senza i
quali non potrebbero fiorire nemmeno le virtù del ragionamento pratico.
La comunità buona si dovrebbe configurare, perciò, come «una rete di relazioni di dare e ricevere»32. Ciascuno di noi, infatti, è quello che è perché ha “ricevuto” la cura degli altri: genitori, educatori, amici, conoscenti che hanno non
solo aiutato lo sviluppo delle nostre capacità pratiche e intellettuali, ma che ci
sono a fianco nei momenti più tragici, rappresentati dalle varie forme di disabilità, accordandoci quel riconoscimento che ci permette di comprendere che, no A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, tr.
it. di M. D’Avenia, Vita e Pensiero, Milano 2001.
31 Ivi, p. 73.
32 Ivi, p. 97.
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nostante la disabilità, noi siamo sempre la stessa persona e abbiamo sempre la
stessa dignità. Questa dipendenza ci impone un obbligo morale a “dare” agli altri la stessa cura che noi abbiamo ricevuto, o sappiamo dovremmo o potremmo
voler ricevere un giorno in futuro.
Questo tipo di reciprocità va oltre la giustizia comunemente intesa, poiché
implica la disponibilità a dare senza tener conto di “quanto” noi abbiamo già ricevuto o riceveremo e, inoltre, a dare senza riguardo a chi si dona, poiché nella
rete di relazioni in cui siamo inseriti capita spesso che si riceva da qualcuno e si
debba donare a un altro, per poi magari ricevere ancora da un terzo, e così via.
La «virtù della dipendenza riconosciuta» per eccellenza è quella che Tommaso
d’Aquino chiama “misericordia”, che è «afflizione o dispiacere per la sofferenza
di qualcun altro»33 e che ci muove ad aiutarlo. In altre parole, una buona comunità dovrà essere retta dal riconoscimento che ciascuno è il “prossimo” di ogni
altro.
Anche se nell’opera cui stiamo facendo riferimento MacIntyre non parla di
diritti umani, possiamo affermare, in base a quanto da lui stesso sostenuto, che
gli individui, partecipando alla vita comunitaria, si trovano ad essere reciprocamente dipendenti dai loro simili; perciò essi riconoscono che ciascuno ha diritto
al riconoscimento e alla cura e, di conseguenza, che vi è una legge naturale che
impone un obbligo morale di reciprocità. Questo discorso è perfettamente universalizzabile: astraendo dall’esperienza concreta, si può affermare che ogni individuo, essendo ontologicamente dipendente da altri, è titolare di un diritto
inalienabile al riconoscimento e alla cura, e quindi al tipo di comunità politica
che permette all’uomo di realizzare la vita buona (l’aristotelica eu zen).
Non si tratta semplicemente di riaffermare la dottrina di Tommaso: a ben vedere, esiste una differenza di prospettiva. Per l’Aquinate il diritto derivava dalla
legge e quest’ultima implicava un comando morale proveniente direttamente da
Dio. Al contrario, il discorso qui condotto sulla scia di MacIntyre parte da una
base antropologica: il diritto è affermato a partire da precisi bisogni umani.
I diritti umani sono perciò rifiutati nella loro formulazione moderna perché
essi non riconoscono adeguatamente la natura dell’uomo, dando per scontato
che esso sia un essere razionale e autonomo e dimenticando la sua animalità,
che è portatrice di disabilità, malattia, necessità di cura.
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Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre
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4. Legge naturale e comunità politica
Poiché la cura reciproca passa anche attraverso le istituzioni comunitarie e il
pari riconoscimento di tutti i soggetti implica che essi debbono essere considerati su un piano di parità, una comunità che rispetti i diritti umani così intesi
dovrà prevedere spazi per la deliberazione razionale e collettiva in vista del bene
comune, garantendo a ciascuno il diritto di influenzare la decisione finale. Questo impone di riconoscere che uno dei beni comuni del gruppo sociale, anzi,
quello fondante, sarà la verità, intesa quale scopo della deliberazione stessa34 (in
questo senso, la verità e il bene vengono a coincidere). Perché la verità possa essere perseguita, la sua ricerca deve trovare «qualche posto continuativo e significativo nelle nostre vite». Occorre, inoltre, che essa sia anteposta a qualsiasi interesse che potrebbe indurre la deliberazione a stagnare su una posizione di comodo. Ogni persona impegnata nella deliberazione deve perciò essere il più
possibile priva di desideri, pregiudizi o interessi personali che potrebbero indurla a prediligere il proprio tornaconto rispetto al bene comune. Ma la razionalità
della ricerca richiede anche che ogni agente abbia buoni motivi per fidarsi
dell’altro e per non averne paura: la mancanza di fiducia potrebbe creare delle
divisioni e delle fratture, mentre la paura potrebbe indurre un soggetto a sottomettersi al volere di un altro. Perciò sarà necessario che tutti i partecipanti alla
deliberazione si impegnino ad essere onesti e veritieri, a mantenere le promesse
fatte e a seguire una norma che vieti di danneggiare gratuitamente la vita, la libertà o la proprietà altrui35. Da questa ricerca, pertanto, dovranno essere esclusi
coloro che violano queste leggi, cioè coloro che non hanno alcun interesse al
Cfr. A. MacIntyre, Aquinas and the extent of moral disagreement, in Id., Ethics and Politics.
Selected essays. Volume 2, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 64-82. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a questo testo. Per completezza, si rimanda anche a Id.,
Natural law as subversive: the case of Aquinas, in Id., Ethics and Politics cit., pp. 41-63.
35 Sarebbe forse meglio dire la “dimensione privata”, in quanto è noto come per Tommaso
d’Aquino (sulla cui dottrina della legge naturale tutto questo discorso si basa) non tutta la proprietà sia legittima, ma sia anzi lecito ricorrere all’esproprio quando ci si trovi in stato di necessità e si manchi delle risorse possedute da altri in sovrappiù. Come ha scritto MacIntyre stesso
nella sua trattazione della teoria tomista della giustizia: «la proprietà è limitata dalle necessità
del bisogno umano» (Id., Giustizia e razionalità, tr. it. di C. Calabi, Anabasi, Milano 1995, vol. 1,
p. 243). Si confronti anche quanto scritto da Paolo VI nella Populorum progressio: «Nessuno è
giustificato a tenere per suo uso esclusivo ciò di cui non ha bisogno, mentre altri mancano del
necessario […] il diritto di proprietà non deve mai essere esercitato a detrimento del bene comune […]» (cit. in A. MacIntyre, Where We Were, Where We Are, Where We Need to Be, in P.
Blackledge, K. Knight (eds.), Virtue and Politics. Alasdair MacIntyre’s Revolutionary Aristotelianism, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2011, pp. 307-334. La citazione è tratta da
p. 324).
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Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre
Gianluca Cavallo
conseguimento del bene comune, ma il cui scopo è palesemente quello di influenzare l’esito della decisione per poter realizzare i propri interessi36.
Proseguendo su questa linea, secondo MacIntyre, si scopre che le condizioni
necessarie, i “principi primi”37 della ricerca razionale sono esattamente quei
precetti della legge naturale individuati da Tommaso d’Aquino38. Anche per
questa via, dunque, si vede come l’attribuzione dei diritti sia logicamente antecedente alla conoscenza della legge naturale.
Secondo il grande filosofo medievale la legge naturale è qualcosa che tutti gli
uomini, in quanto esseri razionali, possono riconoscere; la legge positiva, il cui
compito è dare attuazione ai principi generali di quella naturale, è razionale soltanto se non si discosta da essa. Ogni individuo, perciò, ha il diritto di non rispettare la legge positiva che violi i precetti della ragione, a meno che il non rispettarla implichi azioni anch’esse contrarie alla legge naturale. Ora, è chiaro
come le leggi su cui si regge il nostro ordinamento sociale siano ben lontane
dall’essere un’applicazione di tali precetti. Perciò MacIntyre ritiene che essi siano la base di una rinnovata concezione della pratica politica, che rifiuti il modello dominante39.
Una comunità che possa essere gestita democraticamente dai frutti di una deliberazione comune non può che essere di piccole dimensioni, di modo che le
persone che ne fanno parte possano incontrarsi in uno spazio fisico. Ma ciò che
più conta è che questo luogo deliberativo sia regolato dalla “legge naturale”. In
altre parole, la comunità deve permettere lo sviluppo delle virtù, condizione per
perseguire la vita buona per l’uomo. Soltanto in una simile comunità la politica
può essere intesa come una pratica cooperativa, partecipando alla quale ogni
persona può imparare a definire che cosa è bene per sé e qual è il bene
comune40.
36 Cfr. A. MacIntyre, Toleration and the goods of conflict, in A. MacIntyre, Ethics and Politics
cit., pp. 205-223.
37 I principi primi si scoprono, ma non si dimostrano. Essi possono essere difesi soltanto mediante la confutazione di chi intende negarli, mostrando come questi sia impossibilitato a sostenere una reale ricerca della verità.
38 La legge è trattata da Tommaso in Summa Theologiae, Ia-IIae, 90-108. I precetti della legge
naturale emergono poi nella discussione delle virtù, ivi, IIa-IIae, 1-170.
39 Cfr. S. Maletta, MacIntyre and the Subversion of Natural Law, in P. Blackledge, K. Knight
(eds.), Virtue and Politics, cit., pp. 177-194.
40 Si rimanda, in conclusione, a A. MacIntyre, Politica, filosofia e bene comune, in «Studi perugini», II, 3, 1997, pp. 9-29.
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
Il sorriso di Caligola. Una riflessione sul tragico
in Camus
Giuseppe Crivella
The Smile of Caligula. A Reflection on Camu’s Tragic
Abstract:
The subject of this study is the play Caligula by Albert Camus, analyzed according to an
intersection of critical perspectives in order to see the transition from Le mythe de Sisyphe to
L’homme révolté.
Keywords: Camus, Caligula, Absurd, Tragic, Sisyphe/Homme Révolté.
***
«Tout est sur le même pied: la grandeur de Rome et tes crises d'arthritisme»
(Caligula, I, 7)
Una sorte alquanto controversa è toccata al Caligula, pièce scritta nel ’38 ma
pubblicata dopo vari rimaneggiamenti per la prima volta solo nel ’44, lo stesso
anno della sartriana Huis clos. Sebbene infatti in essa appaia probabilmente per
la prima volta un “esemplare” ben delineato di homme révolté con una ricchezza
di tratti psicologici e sfumature che pochi altri personaggi camusiani possono
vantare in modo così marcato, quest'opera forse non ha mai goduto di
un’attenzione critica rilevante, finendo spesso con l’essere trascurata o derubricata come testo secondario, di transizione, in ogni caso messo in ombra dalla presenza del saggio più corposo della seconda fase del pensiero di Camus, L’homme
révolté.
Eppure, in seno alla produzione del filosofo franco-algerino, il Caligula sempre più splende con un fulgore sinistramente affascinante: la fredda crudeltà
immotivata dell’imperatore, seppure – o, forse, proprio perché – dedotta dalla
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
ferma ottemperanza a postulati logici che non ammettono deroghe in quanto elevati assurdamente a norme assolute, appare all’interno dell’iter speculativo di
Camus coi connotati di ciò che qualche decennio prima Nietzsche aveva definito
«forma di esistenza catilinaria», ovvero appartenente al novero di quelle
«nature alle quali, per un qualche motivo, manchi il comune consenso, le quali sappiano di non essere ritenute benefiche, utili, – quel sentimento-ciandala di non essere
considerate come uguali, ma come reiette, indegne, contaminatrici. Tutte le nature di
questo genere hanno nei loro pensieri e nelle loro azioni il colore del sottosuolo. [Esse
stesse] sentono il tremendo abisso che [le] separa da tutto ciò che è sancito dall’uso e che
viene onorato»1.
Ma, alla luce delle tesi esposte in seguito dall’autore del Sisyphe nel saggio del
’51, il Caligula può apparire anche come il risultato maturo di quel cruciale processo di ibridazione attuatosi in quegli stessi anni tra l’homme absurde e
l’homme révolté.
È per questa serie di motivi che il Caligula va considerato quale testo imprescindibile: in esso abbiamo infatti il feroce ritratto di un uomo assurdo costretto a
mimare la parte del regnante assoluto, del sovrano onnipotente, dell’imperatore
(semi)divino proprio nel momento in cui ogni spessore di senso si è ritratto perversamente e oscuramente dal mondo, in un vacillamento di immagini brutali e
brucianti, la cui soffusa e radicale illusorietà rimanda ad una fantasmagoria di
raffigurazioni sfocate, di pantomime tanto grottesche quanto apparentemente
necessarie e ineliminabili.
Non v'è origine identificabile per questa deriva. Vi sono però dei fenomeni,
degli eventi che ne costellano lo sviluppo, ne accelerano l’evoluzione, ne facilitano
oscenamente l’avanzata: dapprima l’amore torbido ma sincero per Drusilla, oggetto di una passione incestuosa, vorace, malata, dinanzi a una corte accondiscendente ma solerte nel mascherare l’insano sentimento; in seguito, la morte
violenta e inaspettata di Drusilla stessa, l’uscita di scena dalla vita del sovrano
dell’unica cosa che sembrava ai suoi occhi concreta, reale, consistente, veritiera.
È a questo punto che Caligola diventa un nome intriso di follia e spettralità; il solo nominarlo significa evocare la forma assoluta, il distillato puro di una sventura
capillare e tortuosa, che dal cuore stesso del potere filtra e si ramifica in tutto
l’impero, infetta Roma riverberandosi in essa come una inavvertita ma flagrante
epidemia. Il dramma allora si spalanca su di una sorta di allucinato cerchio vuoto: quello delle parole dei dignitari che si interrogano senza costrutto intorno alla
F. W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, ed. it a cura di F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano
1970, p. 231.
1
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
fuga di Caligola, e quello delle varie presenze umbratili che affollano vanamente
il palcoscenico, figuranti inconsistenti, sagome schiacciate dalla assenza stessa
del sovrano, voci affioranti da una palude metafisica, nella quale esse si consumano in attesa del protagonista.
L’assurdo qui è avvertibile sotto forma di una livida Stimmung che intride
ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo; sebbene esso sia incarnato e rappresentato
in senso pieno da Caligola, l’escamotage di aprire la pièce sulla lacuna fisica di
quest'ultimo, sul suo ostinato sottrarsi alla vista, fa sì che la sua vischiosa presenza coincida in realtà esattamente col senso di vana attesa, di spasmodica inconcludenza, di attonita vacuità in cui tutti i comprimari vengono risucchiati e dalla
quale emergono come legnosi manichini mossi e tenuti in vita da una mano tanto
più invisibile quanto più potente e consistente.
Seppur fuori scena, la presenza di Caligola è perentoria e irrefutabile, circonda
tutto e tutto compenetra, proprio come l’assurdo di cui egli è compiuta espressione, strisciante e letale, irreperibile tabe. Da qui una prima e decisiva conseguenza: Caligola non è Mersault. L’assurdità in quest'ultimo cresce dall’interno,
ma egli non la vive, non la affronta, non la incarna direttamente; piuttosto scivola
sulla sua vita lasciandovi le dure tracce di una devastazione sottile che terzi devono riscontrare e ratificare, in una completa e astratta impersonalità.
Caligola di contro rappresenta una tipologia di assurdo che rispecchia i protocolli emersi con Le mythe de Sisyphe: in esso lo splendore e la crudeltà di un
mondo refrattario agli assalti della ragione onniesplicativa – chiuso pertanto in
quella irragionevolezza certosina e pertinace che deve essere mantenuta sempre
vigile per opporsi simultaneamente ad una metafisica della consolazione ultraterrena e alla recisa deliberazione della morte volontaria – si acuiscono sempre più
in un crescendo di orrore disumano e raggelato stupore omicida, i quali però riescono ad eludere ogni esito tragico proprio perché l’assurdo camusiano non prevede lo scontro diretto e fatale con un principio trascendente – se vogliamo rifarci al noto assunto goethiano riportato da Jaspers nel suo magistrale lavoro sul
tragico2 – ma piuttosto si radica in un difficile compromesso che non deve essere
mai spezzato o messo in dubbio. Dice in proposito Camus ne Le mythe de Sisyphe:
«Le premier de ses caractères à cet égard est qu'elle [la nozione di assurdo] ne peut se
diviser. Détruire un de ses termes, c’est la détruire tout en-tière. Il ne peut y avoir d'absurde hors d'un esprit humain. Ainsi l’absurde finit comme toutes choses avec la mort.
Mais il ne peut non plus y avoir d'absurde hors de ce monde. Et c’est à ce critérium
2
K. Jaspers, Del tragico, trad. di I. A. Chiusano, SE, Milano 1987, p. 67.
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
élémentaire que je juge que la notion d'absurde est essentielle et qu'elle peut figurer la
première des [...] vérités»3.
In tale situazione le controparti che danno vita all’assurdo non devono mai
venire meno, le polarità in tensione devono in ogni istante conservarsi in uno
strenuo antagonismo, tenuto desto grazie a una dialettica che assicuri un vitale e
morboso attrarsi delle forze antagoniste, segnando in tal modo davvero il perimetro di quel campo del possibile che Camus evoca in esergo al saggio del ’42, citando la III Pitica di Pindaro.
L’assurdo allora si delinea qui con i caratteri di un equilibrio precario ma infrangibile, perché esso non scade in illusioni e infingimenti trascendenti (o esistenziali): il confronto, la lotta, la sproporzione tra l’uomo e il silenzio irragionevole del mondo – sproporzione che tuttavia indica l’unica misura comune tra i
due termini in gioco – devono essere elevati a metodo assoluto; l’assurdità qui
non è la rinuncia a comprendere, ma lo sforzo a sfidare sempre da capo i limiti di
ogni comprensione, è cioè l’accanimento sulla soglia di baratri che si rivelano essere immense muraglie prive di spiragli.
L’evidenza spinosa a cui l’assurdo conduce, a cui esso dà luogo e in cui esso al
tempo stesso si radica – in un movimento dolorosamente circolare del pensiero
che finisce con lo strangolarsi nel tentativo disperato di liberarsi d'ogni contraddizione – non è un dato assumibile o desumibile una volta per sempre; recepirlo
e leggerlo in questo senso vorrebbe dire trasformare l’assurdo in una presupposizione che permea il quotidiano senza tuttavia metterlo in scacco, accogliere una
sorta di palmare certezza che però non ha la forza di modificare la vita dell’uomo
sradicandola dalle fondamenta.
La perversa fecondità dell’assurdo nasce invece da quell’informe ragnatela di
rapporti e reazioni, iniziative e contrasti che il soggetto è chiamato a mettere in
campo e ad affrontare sempre oscillando tra l’accettazione la rivolta. Afferma
Camus, sempre nel Sisyphe:
«Conscience et révolte, ces refus sont le contraire du renoncement. Tout ce qu’il y a
d'irréductible et de passionné dans un coeur humain les anime au contraire de sa vie. Il
s’agit de mourir irréconcilié et non pas de plein gré. Le suicide est une méconnaissance.
L’homme absurde ne peut que tout épuiser, et s’épuiser. L’absurde est sa tension la plus
extrême, celle qu'il maintient constamment d'un effort solitaire, car il sait que dans cette
conscience et dans cette révolte au jour le jour, il témoigne de sa seule vérité qui est le
défi»4.
3
4
A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942, p. 43.
Ivi, p. 62.
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Giuseppe Crivella
Dalla sua prima apparizione pertanto Caligola brilla come una creatura solitaria avvolta da una luce selvaggiamente cruda, affine nelle fattezze al monologante
titanismo del Tamerlano di Marlowe e, nella sua scultorea imponenza, possente
come un personaggio sofocleo, così che da oscure latebre mentali la sua voce è
una straziata isola di dolore umano – troppo umano – che trafigge e scheggia i
gessosi profili dei dignitari di corte: Drusilla è il nome che improvvisamente vibra
nel silenzio della reggia, simile a una protesta barbaricamente metafisica, bestemmia rivolta contro ogni assoluto, condanna inesprimibile comminata ad un
divino assente, confessione di una colpa terrena per cui non è prevista sanzione o
espiazione, ma solo la dura macerazione nell’affermare la propria compiaciuta e
inutile innocenza. Proprio per questa serie di motivi Caligola appare da subito
sdoppiato: nella sala che accoglie il suo inopinato ma atteso – e forse anche temuto – ritorno campeggia uno specchio in cui con un aspetto di selvaggia spossatezza l’imperatore non solo si contempla, ma si presenta ai nostri occhi. Ecco come la didascalia introduce la sua prima entrata in scena:
«La scène reste vide quelques secondes. Caligula entre furtivement par la gauche. Il a
l’air égaré, il est sale, il a les cheveux pleins d'eau et les jambes souillées. Il porte plusieurs fois la main à sa bouche. Il avance vers le miroir et s'arrête dès qu'il aperçoit sa
propre image»5.
Ed in effetti è proprio in questo riflesso fedele e alienato – è emblematico il
passo indietro compiuto da Caligola nello scorgersi riflesso – che a noi è dato vedere la vera scena dello spettacolo, dal momento che la superficie riflettente non
raddoppia ma piuttosto inghiotte le figure che vi si pongono davanti, essa rappresenta il varco entro cui Caligola penetra con tutta la sua figura, la sua corte e il
suo impero nell’attimo estremo e fatale in cui egli delibera di regnare applicando
una logica inversa ad ogni ratio propria del comando. Egli si impone per lo
squarcio logico che porta con sé: non più regnante, ma deforme penombra di un
potere che sapendosi illimitato aspira all’impossibile sovvertendo le leggi stesse
in base alle quali Roma si regge. Il suo è un dominio cannibalico, divora cioè brani del proprio corpo, perseguendo con minuta perizia una sorta di lucido smembramento delle forze che regolano, consolidano e salvaguardano il potere.
Agli occhi di Caligola tutto converge e collassa in un astratto furore di anomalo spettacolo epurato d'ogni finzione, in cui il grido dell’uomo assassinato per
A. Camus, Caligula, Gallimard, Paris 1944, p. 25. Molto interessante è lo studio di Nancey de
Gromard sulle didascalie nel Caligula. Cfr. AA.VV., La passion du théâtre, Rodopi, AmsterdamNew York 1994, pp. 49-63. Atto I, Scena 3.
5
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
sbaglio o per gioco – come ben illustra l’episodio dell’uccisione di Mereia6 – è
tanto vero quanto la lama del coltello che gli lacera le carni, in una forma d'accumulazione barocca di dolore gratuito e sibillina crudeltà in seno a cui ogni atto ha
un causa tanto chiara e lampante, lucidamente deducibile, quanto misteriosa e
inspiegabile, perché privata di ogni movente effettivamente esplicabile. Caligola
non è solo l’uomo assurdo, ma è in primis colui che opta per una logica assoluta,
ferrea, indefettibile, lugubremente perseguita nei suoi effetti spietati e inesorabili.
Ma la logica qui non funziona come mezzo di chiarificazione, non ammette
dimostrazioni; essa opera come un macabro sortilegio che prescrive una condotta di allucinata ed estrema consequenzialità: incorrere in essa significa rimanere
invischiati a morte in quella inumana palus putredinis, la quale non rappresenta
altro che il decomposto residuo della vera ragione umana. Non è allora un caso
che, appena rientrato a palazzo, Caligola ad Hélicon che gli consiglia di non portare il suo ragionamento fino al punto estremo risponda con gelida secchezza: «Il
suffit peut-être de rester logique jusqu'à la fin»7.
Ciò che mette in scena – e al tempo stesso in scacco – Camus attraverso Caligola è una creazione senza domani, un dramma anchilosante dell’intelligenza che
riflette perfettamente quella ascesa assurda in cui lentamente e in modo efferato
tutti diventano consapevoli della gratuità di ogni atto, di ogni atteggiamento, di
ogni scelta, di ogni condotta. Il divorzio dal mondo e la rivolta contro questo non
devono in alcun modo condurre però a nuovi fantasmi metafisici, non devono suscitare nuove illusioni di trascendenza, non devono più invitare alla speranza in
un domani. Idoli di fango e immagini slegate sono ciò che il pensiero e la realtà si
comunicano, gesti bruciati nell’istante stesso in cui vengono compiuti, parole che
trovano riscontro immediato solo nelle carni martoriate degli uomini, e una ironica distanza verso ogni forma di progetto, compresa la congiura che i patriciens
ordiscono ai danni di Caligola e di cui egli è perfettamente consapevole.
In tal senso Camus mette a punto una sorta di figura grottescamente tragica
che però non riesce a reggere i toni propri della tragedia. Imbevendolo di assurdo, Camus non può non (tra)sfigurare – forse sarebbe corretto anche
(tra)svalutare – la tragedia del suo personaggio in una farsesca pantomima di un
sovrano assoluto, detentore di un potere totale e, proprio per questo, autofagocitantesi, ipertrofico, dunque goffamente scomposto, il quale arriva a sovvertire le
regole stesse su cui quel potere si regge allestendo quale culmine comico di questa immonda farsa uno spettacolo teatrale – poderosissima qui risulta
6
7
Ivi, atto II, scena 10, p. 97
Ivi, p. 30.
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Giuseppe Crivella
l’evocazione dell’Amleto attraverso il ricorso ad un meta-teatro che travalica addirittura la soglia dell’umano – in cui è Venere stessa ad essere recitata e impersonata da Caligola8. Camus nel saggio del '51 così affronta questa forma di “trascendenza negativa” perseguita e ottenuta tramite un esercizio illimitato del crimine:
«Ici […] le maximum de la jouissance coincide avec le maximum de la destruction.
Posséder ce qu'on tue, s'accoupler avec la souffrance, voilà l’instant de la liberté totale
vers lequel s'oriente toute l’organisation. Mais dès l’instant où le crime […] supprime
l’objet de volupté, il supprime la volupté, qui n'existe qu'au moment précis de la suppression. Il faut alors se soumettre un autre objet et le tuer à nouveau, un autre encore, et
après lui l’infinité de tous les objets possibles»9.
Caligola allora incarna perfettamente questa consapevolezza: egli è un tragico
commediante, un fanciullo malato diventato adulto prima del tempo e forse senza volerlo, il quale ha già rinunciato con torva sicurezza ad ogni futuro, in nome
di un amore perduto elevato però a cifra metafisica di un dolore ineluttabile, esito
di uno scacco casuale assimilato, assorbito e amplificato su dimensioni cosmiche.
Per lui oramai l’istante e l’eterno collimano in un tempo immobile, senza durata o
progressione, in uno spazio perfettamente totalizzato dagli ambienti ciechi del
palazzo10: non vi è esterno, da essi non si esce – se non cadaveri –, non vi è un altrove rispetto a quei luoghi, quasi a suggerire che non vi è “alibi” per la sua vita –
«je suis sans alibi»11, dice a chiare lettere Caligola prima di uccidere Caesonia –,
vissuta come una colpa involontaria ma irredimibile nel momento in cui si è trovato a dover sopravvivere a Drusilla, intrappolato così in un gioco delle parti solitario ed amaro, in cui l’esistenza è l’ardente ferita attraverso cui insinuarsi nel
mondo pur con l’arida certezza d'avervi già rinunciato:
«Je vis, je tue, j'exerce le pouvoir délirant du destructeur, auprès de quoi celui du créateur paraît une singerie. C’est cela, être heureux. C’est cela le bonheur, cette insupportable déli-vrance, cet universel mépris, le sang, la haine autour de moi, cet isolement non
pareil de l’homme qui tient toute sa vie sous son regard, la joie démesurée de l’assassin
Ivi, atto III, scena 1, p. 118-122.
A. Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris, 1965, p. 63: la sezione, non a caso, è quella de La
révolte métaphysique: «Je viens de comprendre enfin l’utilité du pouvoir. Il donne ses chances à
l’impossible. Aujourd'hui, et pour tout le temps qui va venir, ma liberté n'a plus de frontières»
[Atto I, scena 9]. Sottolineature nostre.
10 A questo proposito sono illuminanti le pagine de L’homme révolté dedicate a ciò che Camus
chiama casemates de la débauche, nella sezione dedicata a Sade e, in particolre, ai «lieux clos,
[…] dont il est impossible de s'évader», cit., p. 61.
11 Caligula, atto IV, scena 13, p. 203.
8
9
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
impuni, cette logique implacable qui broie des vies humaines [il rit], qui te broie, Caesonia, pour parfaire enfin la solitude éternelle que je désire»12.
Un universo stagnante e senza sviluppo, inebetito e asciuttamente ripetitivo
nella propria vacua smania di capillare e consapevole autodistruzione è quello in
cui Caligola coltiva e lascia che si dischiuda il vitreo e venefico fiore dell’assurdo,
un universo in cui, come già visto, il tragico e il quotidiano emettono ininterrottamente risonanze affini, assurgendo entrambi a simboli di uno stesso squadrato
significato inoppugnabile che appiattisce ogni inquietudine soprannaturale su di
un lessico angusto, frammentario, circoscritto ad un hic et nunc in cui lo scacco
di ogni speranza è l’unica certezza in cui riporre fiducia: ecco allora che Caligola
non può non essere sedotto da un vuoto che coincide esattamente con la pietrificata pienezza di un mondo ove tutto è significato da segni certi ma nulla ha
senso.
Alla luce di ciò vi è pertanto una considerazione da fare: lo spazio scenico in
cui prende corpo il dramma non coincide mai fattualmente col perimetro fisico
del palco che calca l’attore, ma piuttosto si dilata, si espande e si moltiplica fratturandosi in un convulso non-luogo verbale tanto immateriale quanto concreto,
dal seno del quale si dipana una stremata e disorientante concatenazione di argomenti incongrui che finiscono col cingere d'assedio il pensiero e la persona
stessa di Caligola, tenendo in scacco tutta la corte. Se l’assurdo pertanto consiste
nello svelare la turpe e sorda fatuità di tutte le illusioni forgiate dagli uomini per
schermare la vivace brutalità del mondo, obbedire senza capire e senza porsi domande è ciò che rimane alle – e forse anche delle – loro vite, temprate alla dura
fiamma di un raziocinio che conduce direttamente tra le fauci della notte, una
notte in cui la veglia dello spirito – torturante ma inevitabile – non ha altro scopo
che quello di consumarsi e disperdersi in un chiaroscuro più penetrante della luce del giorno.
Spazio polifonico e al tempo stesso angusto è quello del proscenio, inghiottito
dal riflesso densamente “irrealizzante” dello specchio, ma anche amplificato da
una parola che, come visto, pur eludendo ogni coralità, ha senza dubbio uno statuto plurale, monomaniacalmente plurale, avvitata cioè senza requie attorno allo
strisciante frastuono dei silenzi, degli “a parte”, dei monologhi di Caligola. Per
quanto infatti i personaggi, i deuteragonisti del dramma si oppongano e cerchino
di resistere al vorace cupio dissolvi incarnato dell’imperatore, essi in realtà cadono pienamente nel suo gioco, animato da una dialettica distruttiva, finalizzato allo smembramento e non alla ricomposizione superiore degli opposti. In tal senso
12
Ivi, Atto V, scena 13, p. 204.
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
il programma di illimitata violenza, di lirismo inumano attuato da Caligola sembra puntare deliberatamente al raggiungimento di quel caos primordiale e originario, in cui le forze antagoniste vengono portate ad unità, in una magmatica fusione dei contrari sfociante in quella divina equivalenza grazie alla quale
l’imperatore riesce a «mêler le ciel à la mer, confondre laideur et beauté, faire
jaillir le rire de la souffrance»13.
Ambivalente, sdoppiato, bifronte, egli impersona simultaneamente il boia
universale e la vittima ideale, l’esecutore materiale di un rito sacrificale assoluto e
il capro espiatorio di un esercizio estremo dell’assurdo, al quale è necessario aderire integralmente – e, per forza di cose, volontariamente – scegliendo di dissolversi in esso. Già nel Sisyphe Camus aveva esposto questo stato di cose:
«partie d'une conscience angoissée de l’inhumain, la méditation sur l’absurde revient
à la fin de son itinéraire au sein même des flammes passionnées de la révolte humaine»14.
Da qui deriva senza dubbio il sorriso luciferino e al tempo stesso angelico –
quasi di liberazione – con cui egli si prepara all’irruzione finale nel palazzo dei
congiurati venuti a trucidarlo. È in questo perfetto frangente di pienezza e purezza razionale che Caligola arriva a compiere in modo impeccabile il suo “suicidio
superiore”15 e senza misura alcuna con la dimensione umana. Proclamata così
l’esistenza di un assoluto in cui creazione e distruzione sono le frammentarie manifestazioni di una metafisica della finitudine e dello scacco, qui declino e trionfo,
catastrofe e salvezza ostentano oscenamente gli stessi tratti nel ghigno grottesco
di chi, amaramente ironico e dolorosamente compiaciuto, sa di aver portato fino
al culmine del possibile la propria sfida a tutto ciò che è umano, soccombendo e
dunque attestandone l’ineffabile riuscita.
Sulla scorta di quanto fin qui detto non risultano allora improprie le analisi
che Fernande Bartfeld16 ha dedicato all’opera di Camus, mettendo in risalto la
stretta correlazione tematica e concettuale tra tre nuclei di riflessione che nel Caligula si strutturano secondo una verticalità di coerenza isotopica particolarmente netta. L’eccesso, l’assurdo, il tragico non solo si incardinano in una traiettoria
di collimazione piena, ma reciprocamente quelle tre nozioni si influenzano, si
contaminano e si sfocano, facendo del tragico una sorta di metafisica terrena, ove
la parossistica furia deliberativa di Caligola tiene il posto del destino imperscru Ivi, atto I, scena 11, p. 53.
A. Camus, Sisyphe, cit., p. 60.
15 Ivi, p. 97
16 F. Bartfeld, L’effet tragique, Champion-Slatkine, Paris-Génève 1988, pp. 46-60.
13
14
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
tabile imposto agli uomini senza possibilità di replica, l’eccesso diviene una sorta
di raffinatissimo congegno drammatico sfruttato fino allo sfinimento per esibire
la mostruosa inanità di ogni sforzo umano per uscire dal cerchio dell’assurdo e
l’assurdo stesso viene riletto a postulato fondativo della sanguinaria ambizione
pedagogica – la stessa che l’imperatore aveva esposto all’inizio del dramma17 –
che spinge Caligola ad insegnare agli uomini la bruciante necessità di optare per
una vita interamente votata alla dispersione. Forse proprio per questo motivo
verso la fine della pièce Caligola, di nuovo davanti ad uno specchio – lo stesso
specchio che lo aveva accolto al suo ritorno dopo la fuga improvvisa seguita alla
morte di Drusilla e nel quale era comparso ai nostri occhi per la prima volta –,
pronuncia con la recisa fermezza di epigramma funebre queste parole:
«La logique, Caligula, il faut poursuivre la logique. Le pouvoir jusqu'au bout,
l’abandon jusqu'au bout. Non, on ne revient pas en arrière et il faut aller jusqu'à la consommation!»18.
Alla luce di quanto detto finora è forse possibile inquadrare ancora meglio la
figura di Caligola, mettendo in frizione questo passo della pièce con la domanda
che apre il primo capitolo del saggio del ’51, in cui Camus esordisce chiedendosi
«che cos’è l’uomo in rivolta»19, e rispondendo con le note parole: «un uomo che
dice no, che rifiuta ma non rinuncia»20, e in tal modo trasvaluta la sua negazione
trasformandola in un sì reciso a possibilità ancora inattuate.
Ma, se le nostre analisi sono esatte, Caligola incarna l’esatto contrario di una
condotta scandita da questi assunti, assurgendo a paradossale controfigura
dell’homme révolté, o forse rappresentando il passaggio obbligato che ogni uomo
in rivolta deve attraversare per potersi definire effettivamente tale. Caligola infatti è affermazione pura, espressione asseverativa di tutto ciò che può e dunque deve essere attuato nella breve e bruciante parabola del suo regno. Egli pertanto
non rifiuta ma, proprio non rifiutando nulla, rinuncia a tutto ciò che potrebbe garantirgli durata, stabilità, sopravvivenza. Ecco perché il suo totale – forse sarebbe
giusto dire “totalitario” – dir sì è in realtà una negazione ostinata e feroce.
A. Camus, Caligula, «Alors, c’est que tout, autour de moi, est mensonge, et moi, je veux qu’on
vive dans la vérité. Et justement, j’ai les moyens de les faire vivre dans la vérité. Car je sais ce qui
leur manque, Hélicon. Ils sont privés de la connaissance et il leur manque un professeur qui sache
ce dont il parle». Atto I, scena 4.
18 Ivi, atto III, scena 5, p. 145.
19 A. Camus, L’homme révolté, cit., p. 25.
20 Ibid.
17
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Il sorriso di Caligola
Giuseppe Crivella
Se per l’uomo in rivolta è il contenuto del suo no a dar senso all’azione rivoluzionaria 21 , fatta di sovversione e progetto, infrazione e ricostruzione,
l’affermazione pura di Caligola non ha altro oggetto che la messa in opera cieca e
incontenibile del proprio potere, a cui è necessario dar fondo senza alcuna istanza di controllo e senza alcun principio di finalità. Se la rivolta infatti – come nota
ancora Camus – può dirsi tale è perché riconosce ancora un limite da cui muovere e su cui poggiare, Caligola di contro campeggia al centro di una scena tanto
sconfinata22 quanto angusta23 con la sfingea fisionomia di un prometeo in rovina,
che nell’esercitare senza remore le proprie insaziabili facoltà e volontà di distruzione non fa altro che macerarsi nell’arida gratuità che infetta tutti i suoi gesti.
Ma il limite estremo della consumazione, come sappiamo, segna agli occhi di
Camus uno scacco inammissibile. Ed è a questo punto che le strade dell’autore e
del suo personaggio iniziano a divergere risolutamente e, ben consapevole del
fatto che non si possa tornare indietro, Camus sentirà il bisogno di procedere secondo un altro cammino, orientandosi risolutamente verso la ricerca di una via
d'uscita che consenta di eludere il vicolo cieco della compiaciuta autodissoluzione.
Ibidem.
Il suo regno è Roma e Roma è il mondo intero.
23 Come visto poco sopra, non si esce dagli ambienti del palazzo, in tal modo la reggia esaurisce
tutto l’orizzonte mentale, esistenziale e drammatico dei personaggi.
21
22
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Logiche dell’alterità
Federico Croci
Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità
in Platone e Aristotele.
Federico Croci
Logics of Otherness. The Aporetic Dimension of the Identity in Plato and Aristotle
Abstract
The article analyzes the most important aspects in Platonic discussion about the problem of identity and difference, particularly in reference to Theaetetus and Sophist. The first part is dedicated
to show the aporias in the central passages of Platonic discourse (especially in reference to Aristotle’s criticism against the logic of πρ ς λλα), while the second section is focused on Aristotle
(it is shown that the logic of κα 'α τό adopted by Aristotle does not prevent the development of
aporias similar to those already found in Plato).
Keywords: Plato, Aristotle, identity, difference, ontology.
***
Fin dal suo albore, la filosofia si interroga intorno al mondo: la costituzione del
cosmo (di ciò che appare in una forma ordinata e armonica come totalità delle relazioni tra gli enti) è indagata nella forma del principio di non contraddizione, vale a dire secondo il nesso di identità e alterità.
La dialettica che intercorre tra questi due termini è ciò che di massimamente
problematico il pensiero greco consegna alla modernità: non solo perché
l’intendimento dei primi filosofi pare rimandare a un pensiero dell’identità che
non è realmente differente dalla differenza (si pensi, ad esempio, alla coincidentia oppositorum eraclitea), ma, anche, perché è sulla comprensione del rapporto
tra i due termini che si gioca la rottura tra la logica platonica del
e quella aristotelica del
’
.
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Logiche dell’alterità
Federico Croci
Il Sofista si apre a partire dalle conclusioni aporetiche del Teeteto relativamen1: in particolare, in questo dialogo era risulte alla definizione di cosa sia
tato problematico esibire una esaustiva indicazione di cosa sia
, stante la definizione di
come retta opinione fornita di
. Le tre ipotesi socratiche
(
è espressione vocale di un pensiero,
è analisi delle parti di un tutto,
è indicazione della differenza specifica) si erano mostrate fallaci. Platone,
assumendo senza problematizzarlo il metodo diairetico, suggerisce che l’identità
dell’ente è riscontrabile a partire dal progressivo determinarsi dei concetti per
mezzo della discriminazione analitica delle differenze: tuttavia, lungi dal farsi
catturare tramite le sei definizioni che lo Straniero elabora, il sofista dalle molte
teste (
)2 trascina l’intero processo diairetico nella sua oscura tana, nel
non-luogo inaccessibile (
)3 dove nulla lo può toccare. Nella discussione relativa alla sei definizioni si ripresenta una duplice aporia affrontata e lasciata irrisolta nel Teeteto: se il sofista possiede una scienza di apparenze, allora
detiene un sapere del falso, una conoscenza del non-ente in quanto è, in quanto
ente4; inoltre, l’arte del sofista, essendo produzione, è passaggio dall’essere al
non-essere5.
È il filosofo, incarnato nella maschera dello Straniero, ad esser caduto nella rete dell’uomo stupefacente-terribile (
)6. Come sciogliere il nodo e rituffarsi nella caccia?
Lo Straniero sottolinea, in prima battuta, che il non-ente non va attribuito né
all’ente, né al qualcosa, giacché entrambi sono uno e ciò che è uno di conseguenza è, e, dunque, chi dice il non-ente dice il non-uno, cioè non dice nulla, non dice
simpliciter7: il sofista non dice, tuttavia, non nel senso che tace o che non dice
nulla di sensato (
), bensì in quanto ciò che dice non ha un significato,
è pura profusione fonetica senza coerenza (
). Eppure, incalza lo Straniero, questa prima risposta è buona solo per bambini: se, infatti, dire il non-ente
coincide con il non-dire, non si formula alcuna proposizione né si palesa alcuna
struttura predicativa.
Questa conclusione contraddice quella per cui si rileva che chi afferma il nonente asserisce il non-uno, in quanto in questa seconda conclusione si attribuisco Platone, Teeteto, 206C-210D, in Platone, Tutti gli scritti, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano
20054, pp. 252-256.
2 Platone, Sofista, 240C, cit., p. 285.
3 Ivi, 239C, p. 284.
4 Ivi, 237A, p. 282.
5 Ivi, 219B, p. 266.
6 Ivi, 236D, p. 281.
7 Platone, Teeteto, 189A, cit., p. 236. Cfr. anche Sofista, 237E, cit., p. 282.
1
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Logiche dell’alterità
Federico Croci
no dei predicati (l’essere non-uno) a ciò che per definizione non li ha (il nonente). Questo tipo di confutazione è autoconfutazione, perché si riferisce un significato (il dire il non-uno) all’assoluta insignificanza. Perciò, l’assunzione implicita è duplice e duplice l’autocontraddizione: si sostiene che il non-ente “dica”
il non-uno (struttura predicativa), ma, pure, che “il” non-ente dica il non-uno,
cioè che il non-ente sia e con ciò sia un uno8.
Lo Straniero rileva a questo punto un secondo nodo problematico, già toccato
fuggevolmente nel Teeteto: il problema del non-ente, su cui si è iniziato a dibattere ed indagare, non è astratto dal problema dell’ente, ma, anzi, è profondamente
intessuto con esso. Se indicibile è il non-ente, se il significato del non-ente è il
contraddittorio rimando alla pura insignificanza, impronunciabile è pure l’ente.
Per poter superare l’impasse, Platone introduce surrettiziamente un’identificazione impropria che assumerà un ruolo decisivo nel procedere del dialogo,
inficiandone l’intero sviluppo: egli, che in precedenza aveva sempre discusso del
non-ente determinato (
), passa ora a parlare del non-essere (
/
), identificandolo con l’assolutamente non-ente (
), l’opposto
9
dell’ente-in-totalità (
,
) , per poi ricominciare a discorrere del
non-ente; l’Ateniese gioca, inoltre, sull’ambiguità dell’espressione
,
che rimanda sia alla totalità di ciò che è, sia a ciò che è in maniera compiuta. Con
questa operazione Platone presuppone come evidente quella differenza tra nonessere come assoluto non-ente e non-ente relativo, la quale, tuttavia, dovrebbe
essere resa evidente solo dalla conclusione dell’indagine.
La domanda diviene, a questo punto, quale sia l’identità dell’ente (come, cioè,
sia possibile distinguere l’ente dal non-ente, fondandone la reciproca alterità).
Platone pone identità e differenza tra i generi sommi: il loro rapporto non è né
quello della totale esclusione, né tantomeno quello della confusione. Identità e
differenza si partecipano tra di loro e partecipano a ogni ente, ma è la differenza a
possedere priorità logica: l’identico è identico in quanto è differente da tutti i suoi
differenti, o, in altri termini, l’ente è quel che è a partire dal suo non essere la totalità dell’altro da sé. Il fiore è fiore in quanto è non-erba, non-albero e così via.
La conclusione, pertanto, ha dello straordinario: l’identità dell’ente è data non
dal suo distinguersi dal non-ente, così come pensava Parmenide (il quale assumeva un significato univoco del non-ente), bensì dal suo essere identico al nonente, o, meglio, dal suo esprimersi strutturalmente come non-ente. L’ente è intrinsecamente differenziantesi, poiché il non-ente non significa mai l’assoluto
non essere, bensì solo l’esser-altro: l’ente è l’ente in quanto è altro dal proprio al 8
9
Ivi, 238D-E, p. 283.
Ivi, 248A-249D, pp. 291-292.
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Logiche dell’alterità
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tro, cioè dai suoi non-enti e, rispetto a ciascuno di essi, è anch’esso un non-ente,
un altro. L’identico è tale sempre e solo a partire dall’alterità, in cui e da cui soltanto può costituirsi: l’ente è altro non solo rispetto agli altri enti, ma, pure, rispetto a sé, poiché costantemente diviene l’intreccio di relazioni a partire da cui si
costituisce la sua identità. L’ente è relazione: la totalità dell’ente è relazione.
La soluzione platonica, che si sforza di pensare il costituirsi dell’essere
all’interno della
originaria dei generi, non è, tuttavia, esente da numerose aporie. La prima è quella che l’essere, lungi dal palesarsi come il genere supremo, ricomprendente tutti gli altri, è in realtà un concetto ambiguo: da una
parte esso è ciò che è intrinsecamente autodifferenziantesi in tutti gli altri generi
(l’ente si dice
, dirà Aristotele)10, ma d’altro canto l’essere come essere si
costituisce solo a partire dalla
. L’essere si instaura precedendo se stesso,
poiché esso è fonte-frutto della
dei generi, ma questa stessa
appare come ciò che si manifesta in virtù dell’essere. La
precede e non precede l’essere, così come questo precede e non precede se stesso. L’aporia è inevitabile: se l’essere si costituisce solo a partire dalla relazione, domandarsi se tale
relazione è significa applicare una categoria a ciò che precede e fonda tutte le categorie. Se un ente avesse la propria natura prima della partecipazione all’altro da
sé, allora sarebbe prima del suo essere, giacché il suo essere, la sua natura, sorge
solo in tale relazionarsi. Il dinamismo è interno a ciascun ente e lo rende potenza
aperta a infinite possibilità di relazione con gli altri enti. Non a caso, l’idea è un
che di vivente11: ecco rinvenuta, quasi inconsciamente, l’essenza della dialettica, il
12, fondato sulla
filosofico
. Il pensare è il relazionare
in giudizi secondo il partecipare (
): la negazione non indica mai il contrario dell’ente, ma sempre e solo un diverso (
)13. Il diverso è l’idea del nonente, la sua natura14: una stessa cosa può essere e non essere, se intesa secondo
rispetti diversi (
)15.
L’idea onniabbracciante non è, pertanto, quella di essere, né quella di non-ente
nel senso di diverso, su cui ogni identità in sé si fonda, bensì l’originaria relazione
e il divino intreccio dell’essere e del diverso. La natura del diverso è frammentata
in tutte le cose che intrattengono rapporti reciproci16: l’essere e il diverso, disciol Aristotele, Metafisica, Γ, 1003a, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, p. 131.
Platone, Timeo, 30B-D e 39E, cit., p. 1363 e p. 1368.
12 Platone, Sofista, 216C, cit., p. 264. Cfr. anche 253C-254B, pp. 296-297.
13 Ivi, 258E-259A, p. 302.
14 Ivi, 258B-D, p. 301.
15 Ivi, 256A, p. 299.
16 Ivi, 258D-E, pp. 299-300.
10
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ti in tutti gli enti, sono reciprocamente, l’uno attraverso l’altro, poiché si compenetrano17.
Anche per Aristotele (che, a differenza di Platone, distingue nettamente il senso terminologico di ente ed essere)18 l’ente è intrinsecamente differente nei suoi
significati: tuttavia, l’identità dell’ente è qualcosa che gli appartiene in virtù delle
sua natura, non a partire dalle relazioni che esso intrattiene con altri enti; per lo
Stagirita, affermare che la relazione precede la cosa in relazione è una pura e
semplice follia, giacché implica che questa relazione sfugga di necessità alla definizione, cioè al logo19. Aristotele sottopone a Platone proprio l’unica domanda
che, per l’Ateniese, è insensato porre: l’essere si partecipa a se stesso, la
è? La partecipazione è per partecipazione, la partecipazione si partecipa a se medesima, la partecipazione è prima di se stessa? L’aporia, in cui Platone incappa, è
chiara: l’identità, di cui egli discorre a proposito di ciascun ente, è data sempre e
solo negativamente. Cosa è la nuvola? Non-cielo, non-stella, non-pioggia. Altro
non può rispondere.
Per Aristotele, l’impiego platonico della differenza specifica come struttura
epistemica conduce all’assurdo di un ente che non è mai definito positivamente:
si indica la differenza specifica e questa, lungi dall’esprimere ed esaurire l’ente
nel giudizio e nella definizione predicativa, rimanda sempre ad altro, secondo un
gioco infinito di alterità che è formalmente tutto esplicitato nella seconda ipotesi
del Parmenide. Per Aristotele, ciò equivale ad affermare che la conoscenza che si
dischiude nel discorso è ombra vana, infinito esercizio di rimandi, in cui la cosa
toccata è detta nell’infinito esercizio-sforzo di dirla ri-dicendola continuamente.
Platone mostra che pensare non è identico a giudicare e che il giudizio, come relazionarsi dei generi, si fonda sull’attingere quel Quinto che è prima di ogni determinare conoscitivo. L’identità della cosa è sempre detta e definita ex negativo,
poiché l’unica positività che di essa si offre è quella dell’esperienza pre-logica, del
Ivi, 259A, p. 302.
L’ambiguità che accompagna tutta la trattazione platonica è il continuo oscillare tra un uso esistenziale del verbo essere e un uso predicativo che significa partecipazione e relazione. Entrambi
gli usi verbali, tuttavia, si richiamano reciprocamente, poiché essere / esistere, per Platone, vuol
sempre dire esser-qualcosa: nei termini di Aristotele (Elenchi sofistici 166B-167A, in Aristotele,
Organon, tr. it. di G. Colli, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1970),
è sempre
per questo il
rappresenta un nemico che lo Straniero non sconfigge: proprio in
di esso si continua a parlare come se fosse un qualcosa, pur non esistendo. Per Platone, non si
può dire che qualcosa esiste senza affermare che cosa esso sia e viceversa, laddove per Aristotele
si può parlare di qualcosa senza che esso debba necessariamente esistere, poiché si posseggono
concetti anche di enti non esistenti: all’Ateniese è aliena ogni distinzione tra logica e metafisica,
per cui deve concludere che ogni oggetto del pensiero ha un suo fondamento reale nelle cose.
19 V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona,
II, 2, 2 e 6, ETS, Pisa 2009.
17
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Logiche dell’alterità
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silenzioso
, in cui l’ente appare nella sua assoluta semplicità che è, al contempo, inesauribile illimitatezza, infinità irriducibile al gioco relazionale del tutto
e delle parti.
Per Platone il diverso stesso non è mai definibile in sé, ma sempre per altro20:
il diverso è diverso in quanto è l’alterità di qualcos’altro e non perché possegga
una sua essenza. Insolubile è, per l’Ateniese, l’aporia del nesso originario tra essere e diverso: ogni genere, anche l’essere, è se stesso in quanto è differente da
tutti gli altri e, al contempo, il diverso si partecipa a tutto in quanto è.
Al contrario, per Aristotele, se l’essere è se stesso in quanto partecipa del diverso e il diverso si partecipa ad ogni cosa in quanto è, allora l’essere è prima di
essere. Per Platone, invece, pensare il diverso implica un continuo rimando ad altro: l’impossibilità di pensare il diverso in sé va di pari passo con quella di pensare ciascuna cosa in sé, poiché l’identità di ogni ente, per essere pensata, rimanda
alla totalità dell’altro da sé. Ogni definizione d’identità, in virtù di questo rimando infinito ed aperto, si mostra strutturalmente imperfetta: la finitudine del dire
e la limitatezza del pensare non sono che un vago riflesso, perennemente cangiante, dell’infinità del Quinto. Il movimento, in cui si costituisce l’identità di ciascuna cosa, è strutturalmente aporetico e contraddittorio: muovendosi nel continuo rimando all’altro, ogni identità è un qualcosa di dinamico, fluido, processuale.
Ogni identità è, pertanto, non-identica, sempre in fieri in virtù dell’imperfezione di ogni
. Ecco perché Platone introduce la definizione, poi lasciata
indiscussa, per cui la cosa è
: il termine non indica
una capacità o una possibilità legate ad una certa funzione, come sarà per Aristotele, bensì la struttura stessa di ogni cosa come relazione e processo. Per
l’Ateniese, l’ente è logicamente e realmente movimento incessante.
Da ciò consegue anche che, definito l’ente come
, i generi del movimento e della quiete vengano immediatamente dedotti dal concetto dell’essere e non
introdotti estrinsecamente: il termine
rimanda sia all’ente come movimento, sia all’apertura che gli è strutturale per la partecipazione con gli altri generi ed enti. L’essere come
, originariamente aperto alla diversità, è privo
di un contenuto fisso e immutabile: l’in-sé si dà solo nella forma del per-altro.
L’originario intreccio tra essere e diverso è ciò che è eternamente dato all’anima,
la mescolanza solo miticamente cantabile da cui essa nasce, il dato-donum originario, relazione che è presupposto, irrisolvibile logicamente, di ogni pensabilità e
Cfr. G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Loffredo, Napoli 1996 e Il Teeteto di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2002.
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Logiche dell’alterità
Federico Croci
dicibilità: pensare l’in-sé è pensarlo e dirlo sempre e solo nella forma del peraltro21.
La dialettica dei generi non è, pertanto, solo legge logica del reale, ma, pure,
fenomenologica e linguistica22. Mai la cosa sarà colta dal nome, dall’immagine,
dalla definizione o dalla scienza: il Quinto illumina l’uomo dedito al sapere, inaspettatamente, balenando nell’istante23.
A questo punto è necessario evidenziare un particolare assai curioso: è degno
di nota che Platone abbia aperto la discussione del Sofista introducendo un personaggio, lo Straniero di Elea, che non ha assistito al dibattito del giorno prima
tra Socrate e Teeteto e che non sa nulla dei suoi esiti: egli, del tutto ignaro delle
aporie discusse da Socrate, aveva ingenuamente fissato il compito di individuare
il sofista indicandone la differenza specifica per mezzo del procedimento diairetico. Fin dall’inizio, Platone avverte il lettore attento che l’intera trattazione del
dialogo, al di là del suo esito aporetico o meno, è viziata alla radice dall’assunzione di un procedimento conoscitivo del tutto infondato: immediatamente, pertanto, il lettore è implicitamente invitato a fare attenzione a come sia possibile dare la “parvenza” di una trattazione compiuta su un determinato argomento, assumendo un presupposto problematico e sviluppandone a fondo le conseguenze. Il dialogo più filosoficamente rilevante di Platone si rileva, per chiara
indicazione dello stesso autore, un magistrale gioco ironico.
Rimane da vedere se l’ontologia aristotelica sfugga, in virtù della sua logica
dell’inerenza, all’aporeticità che critica a Platone.
Tre sono i punti salienti dell’argomentazione aristotelica. In primo luogo, lo
Stagirita assegna alla filosofia prima il compito di vedere (
)24 l’ente in quanto ente nel suo esplicitarsi strutturalmente autodifferenziantesi. L’ente è
l’originario, la natura che precede ogni relazione: eppure, il principio di non contraddizione non presuppone nella sua stessa definizione-essenza la relazione tra
diverso e identico, cioè la comunanza dei generi del Sofista25? Inoltre, l’argo M. Heidegger, Identità e differenza, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009, pp. 28-29. Richiamando il passo 254D del Sofista, il filosofo tedesco fissa l’attenzione sull’espressione utilizzata da Platone per designare l’“identità”:
. «Di essi, ciascuno dei due [scil. stasi e movimento] è un altro, esso stesso
a se stesso»: l’impiego del dativo
è indizio che l’identità di ciascun ente è frutto di una
mediazione interna alla cosa stessa, per cui la cosa è relazione a se stessa e si costituisce solo processualmente in connessione all’alterità. A è A nella forma di A = A: ogni ente non è esso stesso lo
stesso (
), bensì è se stesso con se stesso.
22 Platone, Sofista, 259E, cit., p. 302.
23 Platone, Lettera VII, 341A-344D, cit., pp. 1819-1822.
24 Aristotele, Metafisica, Γ, 1003a, cit., p. 131.
25 V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, I, 2, 3, Città Nuova, Roma 2002, p. 46.
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Logiche dell’alterità
Federico Croci
mentazione aristotelica vacilla qualora, invece di considerare il singolo ente determinato, si prenda in esame la totalità degli enti: nella definizione di ciò che è
totalità concorrono tutti i predicati, cioè tutto ciò che è.
Nel caso della totalità
e
’
coincidono: poiché il
rapporto tra la totalità e un ente determinato precede logicamente quello tra singole determinatezze, ne consegue, quindi, che tale distinzione non possa essere
applicata nemmeno ad esse. L’essenza di Socrate, pertanto, non è l’esser-uomo
come animale razionale, bensì la totalità degli accidenti che gli competono: già si
mostra la conclusione a cui Aristotele arriverà per altra via, ovvero l’indefinibilità
dell’individuo, la quale si fonda sull’indefinibilità della totalità.
Ciò che Aristotele sottace è che questa conclusione, derivando dall’ impossibilità di fondare la distinzione tra
’
e
, faccia cadere
anche quella tra totalità e singolo: ogni singolo è quel che è, in base al suo relazionarsi alla totalità dei predicati; ogni ente è, platonicamente, una determinata
prospettiva sull’Uno26. La totalità non è che l’infinito rimandarsi in atto di prospettive, in cui tutto è in tutto.
Infine, nella Metafisica27, distinguendo differenza da diversità, lo Stagirita
precisa che la prima implica un riferimento a un medesimo (questo A non è questo B), al contrario della seconda (questo A non è B, C, D ecc.). Aristotele dice che
e
sono
: tale
, non essendo né differenza né diversità, né
rinvia né non rinvia a un medesimo; è l’alterità come distinzione, che è e non è
diversità e differenza.
In Aristotele vi è un’affermazione che non è riducibile all’affermazione legata
alla negazione. Il principio di non contraddizione, per il quale A non è B, presuppone un essere al di là della contraddizione, che permette ad A come a B di essere28.
È possibile, dunque, risolvere l’arcana gigantomachia tra l’Ateniese e lo Stagirita? Le strade che percorrono, parallele, conducono entrambe a bivi, a vicoli ciechi e, talvolta, paiono paradossalmente incrociarsi. Destinale è, per la filosofia di
costoro, il peregrinare nella selva dei concetti, nel disperato tentativo di mostrare
l’aureo volto della cosa nel logo.
V. Vitiello, Grammatiche del pensiero, II, 2, 4, cit.
Aristotele, Metafisica, I, 1054b, cit., p. 449.
28 V. Vitiello, Incontro sul Parmenide e il Sofista, in M. Bianchetti – E. S. Storace (a cura di), Platone e l’ontologia. Il Parmenide e il Sofista, Milano 2004, pp. 112-113.
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Della Noluntas come Überwindung
Giampaolo Loffredo
Della Noluntas come Überwindung. Ontologia e
differenza in Arthur Schopenhauer
Giampaolo Loffredo
Noluntas as Überwindung. Ontology and Difference in Arthur Schopenhauer
Abstract
The present paper intends to be a small contribution to the study of Arthur
Schopenhauer’s ontology of the Will and its inner Otherness. First and foremost, the
concept of Noluntas is maintained to lie at the very heart of schopenhauerian
philosophy, from the beginning to the end. Furthermore, the Denial of the Will-to-live is
interpreted as a way to disclose groundbreaking Überwindung perspectives, moving off
the beaten track, towards Martin Heidegger’s understanding of Truth.
Keywords: Schopenhauer; Noluntas; Ontology; Will-to-live; Überwindung
***
Si sollevi lo sguardo, è notte. D’una oscurità avvolgente, cupa. Siamo in quello
che ci appare come il fondo di un abisso – dell’abisso nel quale siamo precipitati.
O forse non è neanche il fondo. Invero, non riusciamo a comprendere la nostra
posizione nello spazio, ma al contempo dobbiamo riconoscere di non aver interamente messo da parte la forma conoscitiva del tempo – di non aver potuto in
nessun modo lasciarla cadere. Avvolti dall’oscurità, solleviamo nondimeno lo
sguardo. Un cielo trapunto di stelle si disvela. Fori, squarci luminosi, che possiamo contemplare proprio perché siamo avvolti dalla notte più fonda. Era sempre stato lì ciò che solo ora siamo posti in condizione di vedere. Neanche comprendiamo perché lo slancio dello sguardo verso tali presagi di luce ci sia di consolazione. E dimentichiamo d’essere avvolti dall’ombra.
Non già manipolazione del senso della ricerca attraverso il gioco del linguaggio, non già filosofia d’accademia, accecata dalla polvere dei refusi, né anelito
d’un possibile riparo dal naufragio delle contraddizioni, ma un salto nel baratro
della radicalità del pensiero è nel cominciamento della filosofia di Schopenhauer.
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Giampaolo Loffredo
Un presentimento abissale appare inscindibilmente correlato al bisogno
metafisico, scaturigine d’ogni filosofare. Per Schopenhauer, sgomento ed
afflizione è lo stupore filosofico: è «la cognizione della morte, insieme con la vista
del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte
alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo» 1 . Come
l’ouverture del Don Giovanni, la filosofia incomincia con un accordo in re
minore2.
Come è noto, i primi e mai rinnegati sentieri speculativi percorsi da
Schopenhauer sono compenetrati dal convincimento che soltanto la coscienza
individuale sia l’immediatamente dato3 e che la filosofia non debba compiacersi
di vuote astrazioni, bensì trarre la propria materia, enucleandola dal groviglio
della coscienza 4 . Tale groviglio, teatro d’abisso, assume forma radicalmente
dualistica nella metafisica giovanile schopenhaueriana, nella contrapposizione
dicotomica tra “coscienza empirica” e “coscienza migliore”, lasciando poi il posto
alla successiva dottrina del Wille, che rivendica discutibili e storicamente segnate
esigenze di sistema ed esprime insoddisfatti propositi di monismo.
Nell’enigmatico concetto di coscienza migliore è già esplicata una più elevata
visione del pensare, ben distante dal cogitare calcolante del paradigma
rappresentativo, che nel porsi innanzi il Mondo come oggetto per il soggetto, vuol
ridurre ogni volto del Vero alla sua cosalità, imprigionandolo per esercitarne il
totalizzante possesso. La coscienza migliore s’impone quale riviera immobile di là
del paradigma rappresentativo, sicuro presagio d’un senso morale, che pure non
può non essere scorto nel groviglio nostro5, e che si oppone recisamente al
A. Schopenhauer, Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. a cura di N.
Palanga e A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, §17, p. 939.
2 Ivi, pp. 953-54.
3 Riceviamo perdurante conferma di tale incrollabile persuasione così nel cominciamento come
nei successivi sviluppi del pensiero di Schopenhauer: «Non v’è dubbio, infatti, che mai nessun individuo è potuto uscire da se stesso per identificarsi senza mediazione con le cose distinte da lui:
al contrario, ciò di cui egli ha conoscenza sicura e quindi immediata si trova all’interno della sua
coscienza» (A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §1, p. 739).
4 A. Schopenhauer, Scritti Postumi, vol. I, I frammenti giovanili (1804-1818), ed. it. diretta da F.
Volpi, Adelphi, Milano 1996, p. 166: «Nella sua natura più intima la mia filosofia deve distinguersi da tutte quelle che ci sono state fino a ora (esclusa in una certa misura quella platonica) perché
non è, come tutte, una mera applicazione del principio di ragione sufficiente e non ne segue quindi il filo, come debbono fare tutte le scienze, perciò non deve neanche essere una scienza, ma
un’arte. Non si atterrà tanto a ciò che deve essere in conseguenza di una dimostrazione, ma unicamente a ciò che è: dall’intrico della nostra coscienza metterà in risalto, delineerà e denominerà
ogni fatto particolare, così come lo scultore fa venire fuori determinate forme dal blocco di marmo informe; procederà quindi di necessità separando e scindendo, dal momento che non vuole
creare nulla di nuovo, ma solo insegnare a distinguere quel che c’è; le spetterà pertanto il nome di
criticismo nel senso originario della parola».
5 Ivi, p. 19: «Vi è una consolazione, una sicura speranza, e ce la fa sentire il sentimento morale.
Quando ci parla così chiaramente, quando nell’intimo sentiamo una motivazione anche verso il
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mondo: «La coscienza migliore non appartiene appunto al mondo, ma gli è
contrapposta, non lo vuole»6.
L’opinione di chi scrive è nel senso di ritenere che la Noluntas sia tanto
nell’esito quanto nel principio della filosofia schopenhaueriana: il giovane Schopenhauer sembra infatti formulare una prima embrionale concezione di Noluntas proprio attraverso la via della coscienza migliore. Ciò è tanto più evidente, ove
si consideri che anche alcune tra le prime tracce di “volere” nella filosofia schopenhaueriana sono contrassegnate dalla negazione. Nel 1813, in margine al System der Sittenlehre di Fichte, Schopenhauer scrive (prima della svolta di Dresda, allorché viene intrapresa la chiara direzione della dottrina del Wille) parole
che assumono indubitabile centralità teleologica nell’ambito del proprio pensiero: «La libertà del volere si potrebbe chiamare una libertà di non volere [Nichtwollens]»7. Molti anni dopo ritroveremo nell’approdo dell’Epifilosofia lo slancio
verso la possibilità di «volere eventualiter altrimenti»8, cui la negazione del Wille
mette capo. Prima saremo, tuttavia, chiamati a misurarci con l’ontologia della
Volontà e a valutarne le condizioni d’oltrepassamento.
«Lo scopo che mi sono qui proposto è quello di indicare come questo libro
debba essere letto per riuscire facilmente comprensibile»9: è il notissimo incipit
della prefazione alla prima edizione de Il mondo come volontà e rappresentazione. Nonostante il libro fosse volto a comunicare “un unico pensiero”, doveva
sembrare opportuno a Schopenhauer indicare immediatamente al lettore una
prima indefettibile via per la comprensione del medesimo: «per chi voglia penetrare a fondo il pensiero qui esposto, non resta che leggere questo libro due volte»10. La prima lettura richiede pazienza, «attinta alla fiducia che, nella seconda
lettura, tutto o quasi tutto possa essere visto in ben altra luce»11.
sacrificio più grande, che contraddice del tutto il nostro apparente benessere, allora vediamo in
modo vivido che il nostro è un altro benessere e che in conformità a esso dobbiamo agire in direzione opposta a tutte le motivazioni terrene; e che il grave dovere ci rimanda a una felicità superiore, a esso corrispondente; che la voce che udiamo nel buio viene da un luogo luminoso».
6 Ivi, p. 159.
7 A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlass, Bd. II, Kritische Auseinandersetzungen
(1809-1818), hrsg. von A. Hübscher, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1985, p. 349.
Nondimeno, si tratta ancora di un embrione di Noluntas, poiché il “volere” cui Schopenhauer fa
riferimento nei manoscritti del 1813 non può essere ritenuto corrispondente alla Volontà di vivere
teorizzata a partire dal 1814. La Vernichtung della volontà individuale evocata nel 1813 non è pertanto da considerarsi del tutto sovrapponibile alla negazione del Wille di cui al IV libro del Mondo
come volontà e rappresentazione: il Du sollst nichts wollen avrebbe dovuto ricevere specificazioni ulteriori, attraverso l’elaborazione dell’ontologia della Volontà, che nuovi elementi teorici
avrebbe introdotto nel pensiero schopenhaueriano.
8 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §50, p. 1582.
9 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., p. 5.
10 Ivi, p. 6.
11 Ivi, p. 7.
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Infine, Schopenhauer chiede al lettore di soddisfare anche altre due condizioni: la lettura degli scritti di Kant e, in guisa di premessa, della Quadruplice radice
del principio di ragion sufficiente.
L’Autore si spinge fino al punto di precisare che la lettura del libro senza
l’adempimento delle richieste fatte non potrebbe dar frutto ed è quindi assolutamente da tralasciare12.
L’ostinata insistenza di Schopenhauer sulla necessità di una doppia lettura
della propria opera non può e non deve essere trascurata, se è vero – come a parere di chi scrive – che dalla seconda lettura si scorge davvero tutto in tutt’altra
luce, allorché il cammino sia rischiarato dall’approdo alla Noluntas, Aliud non
Aliud dell’ontologia del Wille. Potrebbe nondimeno essere necessario domandarsi quale sia il senso d’una metafisica della Volontà così posta, il cui destino è
d’essere “rinnegata”, così come appare necessario chiedersi se l’indubitabile primato assiologico della Noluntas non si risolva altresì in un primato ontologico.
Invero, la scaturigine dell’ontologia della Volontà non deve esser disgiunta
dall’esigenza di conferire al sistema filosofico in divenire un evidente fondamento
esperienziale, ché nell’orizzonte schopenhaueriano la filosofia dev’essere intesa,
innanzi tutto, quale «comprensione del senso e del contenuto dell’esperienza»13.
Esperienza di ciò che scorgiamo in noi stessi, di ciò che si rende presente nella
nostra coscienza, l’immediatamente dato, oggetto d’originaria intuizione, non già
astrazioni mere, che nel mondo dei concetti trovano dimora. Il presentimento del
Wille sorge da ciò che scorgiamo essere, gettandoci nella profondità di noi stessi,
(apparentemente) senza mediazione alcuna.
La necessità d’essere fedele all’impostazione filosofica kantiana ed al suo linguaggio costringe Schopenhauer a misurare ogni proprio sforzo definitorio
all’interno del rapporto fenomeno-noumeno. In tal modo, tuttavia, è stato fin
troppo semplice fraintendere il senso profondo del suo pensiero, attraverso la
mera identificazione della Volontà con la cosa in sé e traendo da tale proposizione le più erronee conseguenze, senza tener conto dell’accezione affatto peculiare
che tale espressione assume nel sistema filosofico schopenhaueriano.
Ivi, p. 11.
A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §17, p. 971. Così anche A. Schopenhauer, Critica della filosofia kantiana, appendice a Il Mondo, cit., pp. 595-96: «Il compito della metafisica non è di sorvolare l’esperienza, in cui è questo mondo, ma penetrarla a fondo, in quanto l’esperienza interna
ed esterna è veramente la fonte principale di ogni conoscenza; che dunque la soluzione
dell’enigma del mondo è possibile solo attraverso il collegamento dovuto e compiuto al giusto
punto dell’esperienza interna e dell’esperienza esterna, e attraverso l’unione in tal modo realizzata di queste due così eterogenee fonti di conoscenza: sebbene anche così solo all’interno di certi
limiti, che sono inseparabili dalla nostra natura finita, per cui noi giungiamo ad una giusta comprensione del mondo stesso senza raggiungere una spiegazione conchiusa e che non lasci più ulteriori problemi della sua esistenza».
12
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Come è noto, al Wille perveniamo come attraverso un passaggio segreto:
«Per raggiungere l’essenza propriamente intrinseca delle cose, cui non possiamo
arrivare partendo dall’esterno, c’è per noi, dall’interno, una via aperta, per così dire un
cammino sotterraneo, un passaggio segreto che, come a seguito di un tradimento, ci
porta di colpo su quella rocca che ci era impossibile conquistare, assaltandola
dall’esterno. La cosa in sé, proprio in quanto tale, può arrivare alla coscienza solo in
modo assolutamente immediato, solo quando essa stessa acquista coscienza di sé:
volerla conoscere oggettivamente significa pretendere qualcosa di contraddittorio. Ogni
conoscenza oggettiva è rappresentazione, quindi apparenza fenomenica, nient’altro che
un mero fenomeno cerebrale»14.
Nemmeno la percezione interna, tuttavia, quella che giunge alla percezione in
noi del Wille, fornisce un adeguato disvelamento della cosa in sé. Conserva il modo di conoscenza fondato sulla scissione tra soggetto e oggetto, né può dismettere
la forma conoscitiva del tempo (il riconoscere la propria volontà in singoli atti di
volizione)15, sì da non consentirci d’essere integralmente al di fuori del paradigma
rappresentativo. E la consistenza del velo del tempo è tale da non permetterci
d’afferrare l’universalità del Volere. Entra nella nostra coscienza solo una sequenza d’atti di volontà: nel fondo di noi stessi si agita, senza posa, un cieco impulso alla vita, una tensione alla vita, che percepiamo nella sequenza dei singoli
atti del volere. La consistenza ontologica della Volontà universale, nella percezione della sua affermazione, si attenua, sfuma, proprio in virtù del distendersi nel
tempo della successione in atti. Anzi, può cogliersi l’essenza di tale (aspetto, volto
della) Volontà solo ove la si consideri nel suo distendersi temporale, nel suo legame col fenomeno, col decettivo divenire.
Scorgiamo e riconosciamo in noi stessi singoli atti del volere e desumiamo che
tali atti partecipino di un’unica tensione alla vita. Tale tensione scorgiamo e riconosciamo, per analogia, con procedimento schellinghiano, anche negli altri fenomeni. Negarne il rilievo sarebbe egoismo teoretico. La tensione appare come in
sé dei fenomeni, i quali ne costituiscono obiettivazione, sì da farci ritenere possibile il proporsi d’una risoluzione al problema della relazione tra uno e molteplice.
A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, p. 986; A. Schopenhauer, La Volontà nella Natura, tr.
it. a cura di I. Vecchiotti, Laterza, Bari 2000, p. 140: «Ora però, come uno entrando nella grotta di
Posillipo si addentra sempre di più nell’oscurità, finché, dopo aver superato la metà, la luce del
giorno proveniente dall’altra estremità comincia a rischiarare il cammino, proprio così qui; là dove la luce dell’intelletto, rivolta verso l’esterno, con la sua forma della causalità, essendo stata
progressivamente sopraffatta dalle tenebre, diffondeva alla fine soltanto un debole ed incerto
chiarore, proprio allora le viene incontro una illuminazione di tipo completamente diverso, dalla
nostra propria interiorità, per la circostanza fortuita che noi che giudichiamo siamo qui proprio
gli oggetti da giudicare».
15 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, p. 987.
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In tale orizzonte di senso è l’ambito dell’ontologia e della metafisica della Volontà, prima facie.
L’astrazione che induce ad ipotizzare una Volontà universale è invero solo
provvisoria, poiché il destino di tale astrazione è d’essere negata, per far posto ad
una visione più alta. Nondimeno il primo passaggio – quello della prima astrazione – appare a Schopenhauer necessario, perché soltanto riconoscendo, attraverso il fenomeno, la natura dell’atto della volontà che costituisce il volto interno
del mondo come rappresentazione è possibile volere eventualiter altrimenti.
La Volontà come “cosa in sé” è dunque intesa in un’accezione affatto peculiare
ed è pertanto da considerarsi come l’aspetto, il volto del noumeno che – soltanto
– può esser definito e riconosciuto “in positivo” dal nostro modo di conoscenza.
Ciò che invece è posto fuori dal paradigma rappresentativo non può che ricevere
formulazione in termini puramente negativi – negazione della Volontà.
Schopenhauer sembra volersi spingere fino all’estrema provocazione, nel lambire esigenze d’auto-oltrepassamento del sistema, suscitando dal medesimo la
più accecante delle contraddizioni, quasi a voler suggerire al lettore che la Verità
può porsi solo in termini contraddittori alla coscienza dell’uomo. Siamo quindi
chiamati a riconoscere il carattere paradossale della Verità, che dimora nel sovvertimento della rappresentazione, della relazione tra soggetto e oggetto, suscitata dalla lacerazione del modo di conoscenza: apertura al totalmente Altro.
Oziosi appaiono gli argomenti in ordine alla presunta aporeticità della fenomenizzazione del Wille, rispetto al concetto di cosa in sé16. Siano le parole di
P. Martinetti, Schopenhauer (1941), a cura di M. Fontemaggi, Il Melangolo, Genova 2005, pp.
79-80: «La coscienza di noi stessi come Volontà implica sempre ancora, come già si è detto,
l’opposizione col soggetto conoscente, che la conosce attraverso il tempo. La coscienza della Volontà in noi è il punto in cui conosciamo più immediatamente la cosa in sé: ma è una conoscenza
ancora imperfetta ed opaca. In numerosi passi Schopenhauer riconosce che lì noi non abbiamo
ancora la cosa in sé assoluta. Questo sembra essere in contraddizione con la sua esplicita affermazione che la cosa in sé è la Volontà. Ma quest’apparente contraddizione riposa solo sul duplice
senso di “cosa in sé”. La cosa in sé gnoseologica, cioè l’essere che si rivela a noi come il fondamento immediato delle apparenze sensibili, è bene la Volontà quale noi l’apprendiamo, nel tempo,
immediatamente nel nostro interno. Ma quest’interpretazione gnoseologica non ci dà ancora la
cosa in sé metafisica: non ci fa pervenire a quel fondamento ultimo che lo spirito nostro esige e
che deve essere pensato come indipendente dalle forme della conoscenza e perciò straniero alla
molteplicità ed al mutamento». In senso conforme, G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1969, p. 136: «la coscienza empirica, o meglio il mondo empirico che
ad essa appartiene e a cui essa appartiene, è visto come l’apparenza di una cosa in sé (la volontà di
vivere), e l’opposizione non è più fra l’apparenza e la cosa in sé, ma fra la cosa in sé dell’apparenza
– la volontà di vivere che nel mondo delle apparenze trova appunto la sua manifestazione e della
quale è possibile una determinazione completa nella cosmologia di cui abbiamo detto – e la cosa
in sé quale rimane, quando si sia negata la volontà di vivere e il mondo delle apparenze che essa
trae seco»; G. Riconda, Tradizione e avventura, Società Editrice Internazionale, Torino 2001, p.
71: «La cosa in sé, che stando al primo libro del Mondo è la volontà di vivere, si sdoppia alla fine
dell’opera nella cosa in sé come volontà di vivere, di per sé conoscibile ma assiologicamente nega16
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Schopenhauer a dirimere ogni controversia. Nel § 22 della sua opera fondamentale è già chiaramente sottolineato che:
«La cosa in sé, per essere pensata obiettivamente, dovrà pure assumere un nome, un
concetto, da un oggetto, da un qualcosa di oggettivamente dato, cioè da un suo fenomeno: ma questo, perché serva di tramite alla comprensione della cosa in sé, dev’essere il
più perfetto tra i fenomeni, cioè il più evidente, il più sviluppato, il più rischiarato
dall’intelligenza. Tali condizioni sono quelle in cui si trova la volontà umana»17.
tiva, e quel Nulla cui mette capo la negazione della volontà di vivere, che dal punto di vista assiologico si configura come positivo, ma sfugge alla conoscenza filosofica che trova qui il supplemento nella mistica». Si veda altresì E. Mirri, Volontà e Idea nel giovane Schopenhauer, saggio introduttivo a A. Schopenhauer, La dottrina dell’Idea. Dai frammenti giovanili a Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di E. Mirri, Armando, Roma 1999, p. 27: «A meno che la volontà
stessa – ed è questo il non-detto di Schopenhauer che va messo in chiaro – non si dimostrasse infine “fenomeno”, come il “vivere” di cui si costituisce totalmente […] un che di relativo, insomma,
in nessun modo un “in sé”, un’assolutezza». Cfr. anche A. Vigorelli, Il riso e il pianto. Introduzione a Schopenhauer, Guerini Studio, Milano 1998, p. 74.
17 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §22, p. 176. Così anche A. Schopenhauer, Scritti postumi, vol.
III, I manoscritti berlinesi (1818-1830), ed. it. diretta da F. Volpi, Adelphi, Milano 2004, pp. 57879: «È vero in effetti che ognuno possiede l’assoluta certezza di recare in sé qualcosa di affatto
imperituro e indistruttibile, ma rimane la domanda: che cos’è? Non è la coscienza, né tanto meno
il corpo su cui essa palesemente si fonda. Si tratta piuttosto di ciò su cui corpo e coscienza insieme
si fondano, ossia ciò che, entrando nella coscienza, si presenta come volontà. Al di là di questa
sua apparenza non possiamo andare, dato che non possiamo uscire dalla coscienza, e quindi non
ci è consentito chiedere che cosa mai sia esso quando non cade nella coscienza. Resta dunque vero che anche la volontà la conosciamo sempre solo come apparenza e non secondo ciò che potrebbe essere interamente in sé e per sé. Nondimeno essa rimane l’apparenza in assoluto più immediata dell’essenza in sé tanto da poter valere come la cosa in sé, cioè come il dato ultimo cui
perveniamo quando inseguiamo l’apparenza e, abbandonandone ogni altra dataci in modo solo
esteriore ed immediato, teniamo stretta quell’unica al cui interno ci è concesso di guardare, il nostro stesso io. Conoscere qualcosa secondo ciò che è del tutto in sé e per sé non sarà mai possibile
perché è contraddittorio. Infatti, non appena conosco ho una rappresentazione, ma questa,
proprio [corsivo dell’Autore] perché è la mia rappresentazione, dev’essere diversa dal conosciuto
e non può identificarsi con esso: è sempre l’ektypos di un prototypos. Di conseguenza la rappresentazione rimane sempre solo l’apparenza del conosciuto per una coscienza e, quindi, quale che
sia la natura di tale conosciuto, esso offre soltanto apparenze. Ciò vale anche nel caso in cui il conosciuto è la mia propria essenza, dal momento che, cadendo nella mia coscienza, essendo cioè
conosciuta, è già apparenza, ossia qualcosa di diverso da quella essenza – un altro. In quanto sono un conoscente, la mia stessa essenza è per me solo un’apparenza. In quanto però sono una tale
essenza originaria, non sono conoscente, poiché la conoscenza è secondaria». Nel medesimo senso, ivi, pp. 186-87: «Se per noi stessi siamo un enigma, o se, come dice Kant, l’io si conosce solo
quale apparenza e non secondo ciò che può essere in sé, lo dobbiamo al fatto che anche
l’autocoscienza ha un soggetto e un oggetto, e quindi l’io non si limita semplicemente ad essere
(come se fosse interamente intimo a se stesso), bensì si scinde in un conoscente (intelletto) e in
un conosciuto (volontà). Anche all’interno, quindi, come all’esterno, l’oggetto è dato al soggetto
solo in modo condizionato, sicché tra l’essere in sé dell’oggetto (in questo caso la volontà) e la
rappresentazione di esso nel soggetto (cioè nell’intelletto) si ha una differenza dovuta alle forme
o alle funzioni specifiche del soggetto. Nel caso della conoscenza interna, tuttavia, vengono a cadere le forme di spazio e causalità, e rimangono solo quelle di tempo e di oggetto per un esseresoggetto in generale: nella conoscenza interna la cosa in sé si presenta dunque assai meno velata
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Della Noluntas come Überwindung
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Molti anni dopo, nel celebre supplemento Della conoscibilità della cosa in sé,
la riflessione sul tema perviene ad una compiutezza mai raggiunta prima:
«È vero quindi che l’atto volontario è soltanto la manifestazione fenomenica più
diretta e più chiara della cosa in sé, ma da questa verità risulta che, se noi potessimo
conoscere tutti gli altri fenomeni altrettanto direttamente e intimamente, dovremmo
ritenerli uguali a ciò che in noi è la volontà. In questo senso io sostengo dunque che
l’intima essenza di ogni cosa è volontà e chiamo la volontà cosa in sé. In tal modo la
dottrina kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé viene ad assumere una
trasformazione, secondo la quale è soltanto e in assoluto e a fondo che la cosa in sé non
può essere conosciuta: per noi, invece, essa viene sostituita da quello che è di gran lunga
il più immediato tra i suoi fenomeni e che, per questa immediatezza, si distingue toto
genere da tutti gli altri; dobbiamo quindi ricondurre l’intero mondo dei fenomeni a quel
fenomeno nel quale la cosa in sé si presenta coperta dai suoi veli più sottili e che resta
ancora tale solamente in quanto il mio intelletto, che solo è dotato della facoltà
conoscitiva, rimane ancora e sempre diverso da me, nella mia qualità di essere dotato di
volontà, e non depone, nemmeno per la percezione interna, la forma conoscitiva del
tempo. / Pertanto, anche dopo quest’ultimo ed estremo passo, ci si può ancora
domandare che cosa sia mai in definitiva quella volontà che si presenta nel mondo e
come fosse il mondo, quando la si consideri assolutamente in sé; che cosa sia dunque la
volontà, prescindendo completamente dal fatto che essa si presenti come tale, oppure
dalla circostanza che, in generale, essa si manifesti fenomenicamente, che venga cioè
conosciuta. Questa domanda non troverà mai una risposta, perché, come si è detto,
l’essere conosciuto è già, di per sé, in contraddizione con l’essere in sé e perché ogni
essere conosciuto è, in quanto tale, soltanto fenomeno. Ma la possibilità di porre questa
domanda ci indica che la cosa in sé, che noi conosciamo con la massima immediatezza
nella volontà, può avere, interamente al di fuori di ogni possibile fenomeno,
determinazioni, proprietà, modi d’essere che sono per noi assolutamente inconoscibili e
inconcepibili e che resteranno, quale essenza della cosa in sé, proprio quando la cosa in
sé, come vedremo nel quarto libro, si sarà liberamente annullata in quanto volontà, si
sarà perciò completamente staccata dal fenomeno e, per la nostra conoscenza, ossia in
riferimento al mondo dei fenomeni, si sarà trasformata nel puro nulla. Se la volontà
fosse semplicemente e assolutamente la cosa in sé, anche questo nulla sarebbe assoluto:
invece, proprio in quella sede, noi dimostreremo espressamente che esso è soltanto
relativo»18.
La Volontà, coi suoi fenomeni, sprofonda nel nulla; quel nulla, la cui tetra
figura si pone innanzi quale invalicabile limite al nostro sentiero. Ne siamo
atterriti, come i fanciulli temono le tenebre, ed invano tentiamo di scacciarne la
lugubre impressione. Nondimeno deve pur trattarsi d’un nihil privativum, ché
invero ogni nulla può essere tale solo in relazione a qualcos’altro. Se il nulla è
inteso nel presupporre tale relazione, non v’è spazio per una concezione del nihil
che in quella esterna, ragione per cui io l’ho definita in base a questa che ne è la manifestazione
più immediata».
18 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, pp. 988-89.
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Giampaolo Loffredo
negativum – che neanche sarebbe pensabile19. Il Nulla relativo rispetto alla
Volontà lascia così aperto uno spazio, che la filosofia schopenhaueriana può solo
indicare, kantianamente pervasa di criticismo 20 , in termini negativi – come
negazione della Volontà. Donde il celebre ribaltamento conclusivo del Mondo
come volontà e rappresentazione, dal quale la seconda lettura deve ripartire:
«Di fronte a noi non resta, dunque, che il nulla. Ma, non ce ne dimentichiamo: ciò che
si ribella contro un simile annientamento, cioè la nostra natura, non è che la volontà di
vivere, quella volontà di vivere che noi stessi siamo e che è il nostro mondo. […] Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo
la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in
cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo, con tutti i suoi soli e le
sue vie lattee, ad essere il nulla»21.
Il disvelamento in noi del Wille ci ha accompagnato nella definizione di ciò che
la nostra facoltà conoscitiva può formulare solo “in negativo” – come negazione
della Volontà. Siamo ora interamente fuori dal fenomeno. Mentre la Noluntas
trova dimora al di fuori del fenomeno, la Volontà può essere riconosciuta e colta
solo nella dimensione temporale – nella dimensione di singoli atti di volontà, di
una volontà particolare/individuale. Se la volontà di vivere non è propriamente il
noumeno, ma conserva un inscindibile legame col fenomeno, ebbene, non esaurisce la totalità del nostro essere ed il suo destino di annullamento deve indurci a
rimeditarne il volto alla luce di una visione più alta. E riceviamo conforto nel nostro cammino dalle splendide pagine dell’opera di Piero Martinetti:
«Se noi consideriamo la Volontà nella sua totalità, dobbiamo riconoscere che essa ha
la sua unità, il suo vero senso e il suo fine nella liberazione; e che in fondo, al di là della
Volontà di vivere discorde, vana e dolorosa, si leva, come vera essenza delle cose, una
Volontà morale, che anzi è, al suo limite, una Noluntas. Perciò quando Schopenhauer ci
mette dinanzi, per una specie di anticipazione, all’unità ed alla perfezione della Volontà,
egli ha dinanzi a sé la Volontà quale dovrà apparire nell’esperienza ideale superiore
dell’uomo geniale e del santo, non quale essa appare a noi nell’esperienza ordinaria»22.
V’è una profondità ulteriore rispetto a ciò che avevamo inteso essere il fondo.
Avevamo scorto una potenza cieca, abisso inattingibile, necessitante il nostro agire, volontà di vivere, Volontà: così l’avevamo chiamata. Pure, ancorché incono A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §71, pp. 571-72.
Per una attenta riflessione sul rapporto tra lo sviluppo sistematico della metafisica della Volontà nell’epoca dei grandi sistemi postkantiani e l’esigenza di fedeltà all’autentico criticismo kantiano, cfr. M. Segala, Schopenhauer, la filosofia, le scienze, Edizioni della Normale, Pisa 2009, pp.
122-26.
21 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §71, pp. 575-76.
22 P. Martinetti, Schopenhauer, cit., p. 80.
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scibile, ne avevamo scorto un volto, riconosciuto in noi e nell’oggettivarsi in ogni
fenomeno. Cosa in sé: così l’avevamo chiamata, ancorché in un senso affatto particolare, legato al nostro modo di conoscenza. Eppure, in guisa di presagio, abbiamo scorto in noi stessi, innanzi tutto, e nell’osservare gli altri, che cosa può accadere quando ci sembra che la volontà si rinneghi, quando avviene o sembra disvelarsi nell’umana coscienza la libertà di non volere, allorché sorga in noi il
pensiero o il presagio – sì, deve essere un presagio – della negazione. Nondimeno
comprendiamo che tale pensiero, tale presagio – ché non è certo conoscenza – attinge a qualcosa che non corrisponde sensu proprio ad un’oggettivazione. Ché
non abbiamo dinanzi un fenomeno. Nell’esperire in noi e nello sguardo dell’Altro
ciò che la ragione ed il linguaggio possono esprimere solo negativamente come
negazione della Volontà – o filosoficamente non esprimere affatto, ma quale rinuncia! – noi non affermiamo più l’essere come oggetto. Rileviamo invece la
drammaticità di uno scarto tra ciò che abbiamo riconosciuto essere e ciò che siamo chiamati ad essere nella parte più remota di noi stessi.
Schopenhauer ravvisa in tale ulteriore profondità l’essenza della cosa in sé.
Nell’ammettere che l’essenza (Wesen) è nella negazione della “cosa” scorgiamo
altresì una prospettiva di oltrepassamento della metafisica. Emerge una concezione alla cui stregua l’essenza non può essere entificata, ridotta alla sua cosalità
– scardinamento autentico del paradigma rappresentativo. E ci sentiamo persino
sospinti dall’anelito di poter respingere ogni esplicita ricusazione heideggeriana,
mentre muoviamo i nostri passi nel fitto dei medesimi sentieri:
«Visto a partire dalla metafisica (cioè a partire dal problema dell’essere [Seinfrage]
nella forma: che cos’è l’ente?), l’essenza nascosta dell’essere (il rifiuto) si rivela come il
mero non-essente, il nulla. Ma il nulla come nulla [Nichthafte] dell’ente è la più radicale
controparte del semplice niente [Nichtige]. Il nulla non è mai un mero niente, come non
è affatto qualcosa, alla stregua di un oggetto; il nulla è l’essere stesso, la cui verità sopravverrà all’uomo quando si sarà oltrepassato come soggetto, cioè quando non si rappresenterà più l’ente come oggetto»23.
Nel rimeditare l’essenza, siamo nondimeno ancora percorsi in ciascuna parte
di noi stessi da un invincibile terrore per la soppressione del fenomeno nostro,
ancorché persuasi che l’annullamento della Volontà non possa implicare la deriva
nell’assoluto Nulla. Teodorico Moretti-Costanzi sottolinea, con ineguagliabile
profondità, come
M. Heidegger, Sentieri Interrotti, tr. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 101
nota 14. Per un’ampia riflessione sullo schopenhauerismo heideggeriano, cfr. T. Moretti-Costanzi,
L’ascetica di Heidegger (1949), in Id., Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano
2009, p. 2581 ss.
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«Schopenhauer raccomanda di discacciarne la sinistra impressione, di vincere in noi
il fanciullo timoroso della tenebra; mentre però, suo malgrado, non può esimersi dal
guardare atterrito la nebbia funerea che ondeggia come ultimo termine in fondo alla virtù, con la luce di questa, ancora una volta, la squarcia, e la dissipa. Come il Petrarca
nell’ultimo canto, vede allora distendersi nei cieli liberati dall’universo che va in frantumi e si dissolve per tutto il giro dei suoi astri, lo splendore di Dio “…diese unsere so sehr
reale Welt mit allen ihren Sonnen und Milchstrassen – Nichts”»24.
Attraverso l’esempio dei santi, ci perviene da lontano una luminosità rischiaratrice, custodita in fondo all’essenza nostra, alla cui stregua è possibile ritrovar dischiusi il senso e la pienezza dell’esistenza, di là delle miserie di questo mondo:
«Giacché è il mondo delle cose finite, del dolore e della morte. Ciò che è in esso e
viene da esso deve finire e morire. Ma ciò che non è e non vuol essere di questo
mondo lo attraversa con onnipotenza facendolo fremere, come un fulmine che
esplode verso l’alto e non conosce tempo né morte»25.
Il dolore, la miseria, il male si rendono drammaticamente presenti nel nostro
stato, nella nostra condizione di avvolgente necessità. Nondimeno tale necessità
non esaurisce la totalità dell’essere. Vi è uno scarto incommensurabile tra affermazione e negazione della volontà, che si esprime nel problema, serio concreto
profondo, della libertà. È il problema dello scarto tra necessità e libertà.
L’affermazione della Volontà, in quanto apparente libertà di volere, ha una connotazione relativa. Pertanto, ove sia intesa come totalità assolutizzante, si presenta in tutta la sua miseria. Necessità è orizzonte di relatività:
«La necessità è il regno della natura, la libertà è il regno della grazia. […] la negazione
del volere, la presa di possesso della libertà, non si può raggiungere a forza e di proposito
deliberato. Scaturisce dall’intima relazione della conoscenza con la volontà nell’uomo e
quindi si produce repentinamente quasi per ispirazione venuta dal di fuori. Perciò la
Chiesa la chiama effetto della grazia. Ma come, secondo la Chiesa, la grazia non riesce
efficace, se non cooperiamo a riceverla, così anche l’effetto del quietivo si risolve in un
atto di libera volontà. L’azione della grazia muta e trasforma dal profondo la natura
dell’uomo, il quale ormai disdegna ciò che ha finora desiderato con ardente bramosia; è
davvero un uomo nuovo che si sostituisce all’antico»26.
La libertà di non volere è un modo di formulare – per quanto difetti
d’adeguatezza – il vero senso della libertà, che trova il proprio cominciamento
T. Moretti-Costanzi, Schopenhauer (1942), in Id., Opere, cit, p. 2316, ove si sostiene che Schopenhauer avrebbe tratto ispirazione, per le ultime parole della sua opera fondamentale, dal Trionfo dell’Eternità del Petrarca: «Questo pensava: e mentre più s’interna / la mente mia, veder mi
parve un mondo / novo, in etade immobile ed eterna. / E l’ sole e tutto l’ciel disfare a tondo / con
le sue stelle; ancor la terra e l’mare; / e rifarne un più bello e più giocondo».
25 A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, vol. II, tr. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1998, pp. 365-66.
26 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §70, pp. 565-66.
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nella negazione della necessità, del relativo, del finito in cui consistiamo:
possibilità dell’essere, possibilità del superamento della relatività necessitante.
Tale è il primo fondamento del problema della libertà, in quanto superamento del
finito, del relativo, della necessità. Non già dell’apparenza mera, bensì di ciò che
non deve essere inteso come assoluto. Sulla responsabilità dell’individuo nello
scenario dell’abisso della tensione della libertà, Schopenhauer avrebbe dovuto
“dire” di più, ma non ha osato. Nondimeno ha preferito evitare il completo
silenzio ed anche ai suoi interlocutori – non solo nelle sue opere – ha mostrato
autentica commozione nel trasmettere i propri presagi di libertà, sorti dal fondo
della coscienza migliore.
La Noluntas è indubitabilmente legata all’insufficienza del linguaggio, che tenta di scorgere e pronunciare l’oltrepassamento. L’abissale pensiero del volere
eventualiter altrimenti è reso ora possibile: ciò che vi è di più profondo nella nostra essenza, interamente fuori d’ogni fenomeno, non assolutamente
un’incognita, una X, bensì la negazione di ciò che abbiamo riconosciuto essere, in
relazione al nostro modo di conoscenza. Se non-volere significa negazione di ciò
che abbiamo riconosciuto essere, dobbiamo confrontarci col Morire. Non già
soppressione del fenomeno del Wille, è il Morire, bensì conseguenza del ripensare radicalmente l’uomo, come “uomo nuovo”, colui che rinuncia alla volontà e la
nega: «solo lui infatti vuole morire davvero e non soltanto in apparenza: lui solo
quindi non ha bisogno né chiede di sopravvivere. Egli rinuncia di buon grado
all’esistenza, come noi la conosciamo: ciò che ottiene in cambio è nulla ai nostri
occhi, poiché nulla è la nostra esistenza in rapporto a quell’altra»27.
Nel più remoto angolo della più remota parte di noi stessi è il luogo ove si rende possibile il pensiero dell’autentica libertà; il luogo ove risiede la possibilità
della rimeditazione di noi stessi; ove s’apre il minuscolo uscio del non più essere
questo. Di tale libertà scorgiamo soltanto un lontano presagio, eppure ne sentiamo quasi la nostalgia, come se vi appartenessimo, da sempre.
Vorremmo affrancarci, ma non siamo liberi di farlo. Dovremmo farci interamente da parte, per divenire libertà.
E non possiamo certo sorprenderci d’essere stati ricondotti al principio del nostro sentiero, a quel livello di (migliore) coscienza, che nella libertà di non volere
lascia riposare l’essente nel suo proprio essere28. E nel contemplare quei luminosi
squarci del cielo, che, sorti dalla Noluntas, indicano la via che conduce ad un
nuovo fondamento29, avvertiamo suggestioni di heideggeriana Gelassenheit, ove
A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §41, pp. 1402-03.
Si leggano, sul punto, le considerazioni di Edoardo Mirri in A. Schopenhauer, La dottrina
dell’Idea, cit., p. 78.
29 M. Heidegger, L’abbandono, tr. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 2012, p. 44.
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il luogo dell’abbandono è dal “Non Volere”30 compenetrato, quale dischiudimento all’apertura dell’essere31.
Sullo sfondo è il Vero, che non dimora nella giustezza della visione, che non si
fa comprendere dal cogitare calcolante: «l’essere si sottrae ritraendosi nella propria verità. Esso custodisce se stesso e si nasconde in questo custodirsi. In questo
nascondente custodimento della propria essenza da parte dell’essere, si intravede
forse l’essenza del mistero in cui la verità dell’essere è [west]»32.
Oltrepassata l’ontologia della Volontà, scardinato definitivamente il paradigma
rappresentativo, riconosciamo infine il primato ontologico della Noluntas. Il limite del linguaggio, che ci costringe alla negazione, all’impossibilità di pronunciare il mistero, non può impedirci di affermare che il nascondimento del pensiero nello sguardo dell’Altro è il rifugio ultimo della filosofia, dove è, al contempo,
silenzio e fragore.
Ivi, p. 52.
E. Mirri, Il pensare poetante in Martin Heidegger, Armando, Roma 2000, pp. 105-106.
32 M. Heidegger, Sentieri Interrotti, cit., p. 243.
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Sguardo fenomenologico e alterità
Federica Malfatti
Sguardo fenomenologico e alterità. Riflessioni a
partire dalle Meditazioni cartesiane di Husserl
Federica Malfatti
Phaenomenological Perspective and Otherness. Reflections upon Husserl’s
Cartesian Meditations
Abstract
What does Husserl have to say about the relations between the self, the other (the not-self) and
the world? Which problems arise from the concept of “other”, from a wider, phenomenological
point of view? What does it mean, phenomenologically speaking, having to do with an Otherness?
How can the phenomenological subject meaningfully think about the other as another subject,
but different from himself? What kind of presence has the other, in the world of a subject - absence, presence, or present assence? What cognitive aim serves the Otherness, in the constitution
of the objectivity of the world?
Keywords: Husserl, Phenomenology, Otherness, World, Objectivity.
1. Il senso di un’indagine fenomenologica
1.1 Agli albori di un nuovo sguardo
Fenomenologia è esercizio di sguardo, sguardo chiamato a mutare e sguardo
che muta. Attitudine fenomenologica è maturazione di un nuovo modo di porsi al
cospetto della realtà1. È uno sforzo peculiare, quello fenomenologico, da un certo
punto di vista privo di oggetto in senso tradizionale – è un richiamo dello sguardo a volgersi non tanto ad un dass (il mondo) quanto ad un wie (il darsi, del
mondo). Guardare il mondo con occhi fenomenologicamente orientati significa,
primariamente, problematizzarsi, fare problema del proprio aprirsi alla realtà;
significa, in altri termini, trovarsi a dover rivolgere l’attenzione verso se stessi, reflectere nel senso etimologico di ripiegarsi su di sé2, indagare se stessi e le pro Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo,
p. 143 e L. Vanzago, Coscienza e alterità, Mimesis, Milano 2008, p. 49.
2 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa,
Studi Bompiani, Milano 2009, p. 4.
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Sguardo fenomenologico e alterità
Federica Malfatti
prio strutture come presupposto della loro applicazione. Nel far ciò, a rigore, non
si intacca mai il mondo in quanto tale, o meglio non si agisce su di esso per via diretta. Non è il mondo a mutare, da un punto di vista fenomenologico – a cambiare sono se mai il modo (il wie) del suo darsi, il modo in cui ad esso ci si riferisce e
il modo in cui ad esso ci si relaziona. In linea generale è proprio in tale interesse
per la modalità (per il come, per il wie) e nello speculare disinteresse per il dass
che si comprende il senso dello sguardo fenomenologico. La questione, da un
punto di vista fenomenologico, non è mai, allora, tematico-ontica (non è realistica); cioè: non è mai “se” qualcosa si dia, ma “come” quella cosa si dia (e, in ciò,
quale sia il “senso” di tale suo darsi)3.
1.2 Un passo indietro: mondo sospeso, riduzione e limiti del linguaggio
Il mondo, per un Io che abbia preso le distanze dalla natürliche Einstellung di
cui parla Husserl, cessa di essere un mondo dato4. Detto altrimenti: esso cessa di
essere assunto implicitamente come tale e come esistente. Preme sottolineare,
qui, come il problema non riguardi mai l’esistenza o la non esistenza tematica di
qualcosa, quanto se mai, e più radicalmente, l’esistenza stessa – la tesi
sull’esistenza5. Abbandonare l’atteggiamento naturale significa, in generale, rinunciare a qualsiasi presa di posizione (priva di fondamento auto-evidente); significa, in particolare, porsi da un punto di vista neutrale rispetto alla positività o
alla negatività dell’esistenza – nella misura in cui è l’esistenza stessa, se mai, come modalità concettuale di interpretazione del reale, ad essere messa in discussione. Negare l’esistenza come reazione all’esercizio del dubbio non può essere la
soluzione (dato che non-p è pur sempre correlativo di p, si dà come rovescio di p
stesso, lo mantiene per così dire in vita, per quanto negato, mentre qui è proprio
il suo statuto ad essere in questione) e anzi un dubbio che vada a poggiare su di
una negazione non è un dubbio abbastanza radicale. È la tesi sul mondo genericamente intesa (di esistenza o di non esistenza che sia), da un punto di vista fenomenologico, a dover essere messa in discussione, ad essere neutralizzata, posta
in Klammern, ausgeschalten (e questo è il senso dell’epoché fenomenologica)6.
Lo sguardo ingenuo, o naturale, si immagina come uno sguardo che va in avanti,
che muove quasi inconsciamente verso un mondo che è già lì; uno sguardo insomma che vive in un mondo dato, che in qualche modo si relaziona ad una stati Ivi, p. 20.
Cfr. S. Luft, Husserl’s phenomenological discovery of the natural attitude, in «Continental Philosophy Review», 1998 (31), pp. 153-170.
5 Cfr. P. Ricoeur, Etudes sur les «Méditations Cartésiennes» de Husserl, in «Revue philosophique
de Louvain», 1954 (92), pp. 75-109.
6 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa,
Studi Bompiani, Milano 2009, p. 7 e ivi, p. 13.
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cità preesistente. Di contro, lo sguardo fenomenologico è uno sguardo che regredisce, che muove un passo all’indietro e non in avanti al cospetto del mondo, che
ne pone in parentesi l’immediatezza – e che ciò facendo ne pone in parentesi anche la staticità. Il mondo del nuovo soggetto non è più mondo dato, e perciò
mondo fermo; è mondo che è colto nella misura in cui si dà, nel suo darsi ad un
soggetto o, detto altrimenti, nella misura in cui viene ad essere, si fa evento, fenomeno d’essere per quella soggettività guardante. Il mondo di un soggetto fenomenologico non è più mera collezione di cose isolate e determinate, ma si fa
struttura, acquista complessità e dinamicità. La cosa (l’oggetto) ottiene il suo
senso nella misura in cui è tolta dall’isolamento ed è posta all’interno di una dimensione relazionale (anche se non oppositiva), nel momento in cui è in nesso
con altro. Questo non per dire che non si dia nulla che non sia relativo ad un soggetto, e neppure che il soggetto crei o costituisca il proprio oggetto – quanto per
svuotare di senso la stessa concezione che opponga un soggetto conoscente ad un
oggetto conosciuto (o da conoscersi) al di fuori di esso7. Qui non si tratta di far
prevalere sull’altro uno dei due corni della relazione oppositiva, ma di mostrare
(perché di zeigen, forse, e non di sagen si tratta) l’inconsistenza intrinseca di
questa stessa opposizione. È questo un tentativo audace, perché in qualche modo
innesca, a partire dal linguaggio, un tentativo di auto-superamento del linguaggio
stesso. Se si assume quest’ultimo come dato, se ci si ferma agli strumenti espressivi da questo forniti, ci si ritrova costretti a pensare la relazione conoscitiva in
termini relazionali e in termini oppositivi8. Ma allora rigettare tale concezione, e
manifestare tale insoddisfazione dall’interno (linguisticamente), equivale a mettere il linguaggio contro se stesso. Il linguaggio scopre da sé e mostra la propria
inadeguatezza, parla dei propri limiti, assiste ad uno slittamento semantico nei
suoi strumenti concettuali. Non ha più senso, da un punto di vista fenomenologico, “parlare” di soggetto e oggetto. La radicalità dell’attitudine fenomenologica ha
come riflesso una problematizzazione onnipervasiva che, come tale, non risparmia nulla – neppure il linguaggio in cui viene espressa.
1.3 Ego cogito cogitata. Il mondo qua cogitatum
L’esito di un mutamento di sguardo in senso fenomenologico è un mondo ridotto, nel senso etimologico di re-ductus, ossia ricondotto al suo darsi ad un soggetto percipiente9. Detto in altri termini: l’esito della riduzione è un mondo che si
Cfr. K. Tharakan, Husserl’s notion of objectivity: a phenomenological analysis, in «Indian Philosophical Quarterly», 1998 (25), pp. 215-225.
8 Si pensi a Gegen-stand, lett. “la cosa che sta di contro”.
9 La problematica della riduzione è delineata in E. Husserl, Zur Phänomenologischen Reduktion.
Texte aus dem Nachlass (1926-1935), Kluwer, Dodrecht-Boston-London 2002. Per un’analisi cri7
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Federica Malfatti
dà come cogitatum correlativo di un cogito (di un atto di cogitare, di una cogitatio). Ma la triade che sembra sottesa a tale discorso è solo apparente: non sono
vissuti da un lato l’Io cogitante, dall’altro l’oggetto cogitato ed infine l’atto di cogitare a porre tali due elementi in correlazione10. Non solo l’oggetto cogitato si dà,
si costituisce nel suo darsi come oggetto di una cogitatio11; lo stesso Io è tale nella
misura in cui cogita, nel momento in cui si dà un mondo (oppure, detto in altri
termini, nella misura in cui lo “intenziona” – nel senso che è punto di partenza di
atti intenzionati o intenzionali). Cogito e cogitata, atti intenzionali e oggetti intenzionati non si danno gli uni senza gli altri, sono due volti dello stesso gesto,
sono due modalità di cogliere e di descrivere la medesima e unica realtà. Ma dire
che il mondo ridotto è mondo “per un” soggetto equivale a dire che tale mondo
trova in tale soggetto il proprio senso, che è esso stesso la struttura di senso che
lo accompagna e lo giustifica come soggetto. Perché se l’essere del mondo è essere per un soggetto, ossia se il mondo ridotto si scopre mondo non semplicemente
dato, ma costituito o da costituirsi, si ha come immediato riflesso il darsi a vedere
di qualcosa (e tale è l’Io trascendentale, o trascendentalmente ridotto) che sia
l’elemento costituente, che sia condizione del darsi del dato, che sia presupposto
di ogni oggettivazione e di ogni manifestarsi. L’Io, allora, va concepito come fonte
del senso, come condizione di apertura di un discorso di senso12.
1.4 Un passo in avanti: l’Io e la costituzione
La questione relativa alla costituzione è il risvolto propositivo dell’attitudine
fenomenologica. Si è visto come il primo movimento auspicato dalla fenomenologia sia un passo all’indietro, un regredire di fronte al mondo dopo averlo posto
in parentesi. Ma tale sforzo regressivo è significativo nella misura in cui fa appello ad un ritorno, nel senso in cui esige un nuovo passo in avanti13. Si tratta, a questo punto, di tentare di parlare di ciò che si era escluso, di fare ritorno a quella
realtà che si era sospesa. Lo sguardo fenomenologico, dopo il ripiegamento su di
tica della questione, cfr. D. Lohmar, Die Idee der Reduktion Husserls Reduktionen – und ihr gemeinsamer, methodischer Sinn, in H. Hüni-P. Trawny (a cura di), Die erscheinende Welt. Festschrift für Klaus Held, Duncker & Humblot, Berlin 2002.
10 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, p. 163 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F.
Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 15.
11 Ivi, p. 201.
12 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, p. 144 e ivi, p. 150.
13 R. Bernet, L’idéalisme husserlien: les objects possibile ou réels et la conscience transcendentale, in R. Bernet, Conscience et existence, PUF, Paris 2004, pp. 143-168. Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano
2009, p. 33 e ivi, p. 172.
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Sguardo fenomenologico e alterità
Federica Malfatti
sé (sull’immanenza), torna allora a quella realtà (alla trascendenza) da cui aveva
preso le distanze. Tale ritorno è un’esigenza che s’impone al soggetto conoscente,
nella misura in cui la scoperta del mondo come correlato di un’intenzione, del
mondo come mondo per un soggetto, lungi dall’essere la risposta alle domande, è
se mai la scaturigine delle stesse. L’essenza fenomenica del mondo, e dell’Io, non
può essere assunta come tale – va indagata e problematizzata. Il mondo fenomenico è variegato, poroso, non unitario; è misto di attualità e potenzialità, immediatezza e mediatezza, scorrimento e fissazione, parzialità e unità, mutevolezza e
permanenza14, molteplicità e identità, luci e ombre, presentazioni e presentificazioni, presenze e assenze (e in questo, forse, assenze presenti o, il che è lo stesso,
presenze di assenze). Si può dar sì il caso di fenomeni che si diano immediatamente e non problematicamente in quanto tali, ma si può dare anche il caso di
fenomeni che invochino di essere trascesi, che in quanto tali si diano non di per
sé ma come mezzo per qualcosa di ulteriore, che nel loro essere lì sono lì per altro, che sono in qualche modo la base di partenza per un salto, per operare
un’inferenza (presuntiva o analogica) che proietti al di là degli stessi. Quello
dell’Io, poi, è un caso particolare: l’Io che nella riduzione si è scoperto monade
(ossia apertura di senso e presupposto di ogni oggettivazione), si trova a fare i
conti con la propria “gettatezza” in quel mondo di cui lui stesso ha permesso e garantito la costituzione. L’Io fenomenologico, nel momento in cui pretende di stagliarsi all’origine del senso, si scopre essere primariamente un Io che è corpo, una
coscienza incarnata che deve fare i conti con la propria condanna all’esteriorità.
L’Io deve poter pensare la propria stessa esteriorità, di fatto, mentre vorrebbe
precedere ogni esteriorità, deve riuscire cioè a pensarsi come oggetto, come costituito15. Già si intuisce, qui, la possibile rilevanza dell’alterità nel processo di costituzione dell’Io: l’alterità è un’alterità guardante e oggettivante, è un’alterità che è
colta come oggetto ma che è essa stessa soggetto; è qualcosa, perciò, in cui il sog La permanenza dell’oggetto ha in generale come presupposto la permanenza della coscienza (il
suo mantenersi identica in tempi diversi); di più: la coscienza può cogliere l’oggetto come invariante solo dopo aver colto la propria invarianza nel fluire temporale (e qui si inserirebbe la complessa questione concernente la temporalità, avente come correlato un’idea di coscienza il cui essere sia essere temporalizzato, che è nella misura in cui “è presente”, nella misura cioè in cui è in
bilico tra due regioni di indeterminatezza, che si staglia all’intersecarsi di due zone d’ombra –
passato e futuro, mantenute in contatto con il presente, e anzi in qualche modo presenti, mediante ritenzioni e protenzioni). Cfr. D. Lohmar, What does Protention “protend”?, in «Philosophy
Today», 2002 (46), pp. 154-167.
15 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, p. 150 e ivi, p. 153 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini,
tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 27.
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getto si può calare immaginativamente e che gli permette di pensarsi come costituito16.
2. Il mondo per un Io. Alterità emergente
2.1 Ego e oggettività
Ciò che si dà all’esperienza di un Ego non è mera molteplicità caotica. L’Io
opera per sintesi, e anzi il suo mondo è tale nel momento in cui è sintetizzato,
nella misura in cui è ricondotto al suo essere correlato di un atto sintetico (intenzionale). L’Io, nel suo essere fonte di atti sintetici e intenzionali, è garanzia di unità nella molteplicità; è, si è visto, polo di riferimento della manifestazione, condizione di ogni darsi del mondo. Tale sua interpretazione in senso trascendentale,
questo suo essere condizione di apertura di un discorso di senso sembrano porre
un problema di fondo. La riconduzione del mondo all’essere mondo per un soggetto potrebbe essere interpretata come un collassare dell’in sé sul per sé. Sembrerebbe aprirsi qui la questione di come possa darsi un mondo oggettivo o, detto
altrimenti, di dove risieda la validità di quel per sé, di quel mondo che vale per un
soggetto guardante. La soluzione, da un punto di vista fenomenologico, consiste
in una specie di sospensione del problema stesso: se l’unico oggetto che conta è
oggetto intenzionato, se non c’è oggetto al di fuori di quello che si dà come correlato di un’intenzione, se anzi gli stessi concetti di soggetto e oggetto vanno ripensati, non ha senso porsi una questione che come oggetto abbia l’oggettività
(l’oggettività, di per sé). Non a caso, quando Husserl nella «V Meditazione Cartesiana» si pone il problema di oggettività e validità, egli sceglie di affrontarlo indirettamente, mediatamente, come riflesso di un problema diverso – ossia come
correlato della questione dell’altro e dell’alterità. Husserl non va alla ricerca
dell’oggettività e dei suoi fondamenti tematicamente, non si pone il problema
dell’oggettività in quanto oggettività, ma lascia che il problema dell’oggettività
emerga e si risolva nel suo parlare di alterità17. Postulando l’intersoggettività,
parlando di mondo come mondo intersoggettivo, troverà l’essenza
dell’oggettività. Scoprirà cioè non solo o non tanto come l’oggettività vada a fondarsi sull’intersoggettività – scoprirà, piuttosto, come l’oggettività “sia” intersoggettività. Come l’intersoggettività sia, in altri termini, il modo adeguato di intendere (e di pensare) l’oggettività, come il mondo sia oggettivo nel suo essere inter-
Cfr. ivi, p. 30.
Cfr. ivi, p. 117: «Si tratta ora della costituzione trascendentale e perciò del senso trascendentale
dei soggetti esterni e, per una conseguenza ulteriore, d’una storia universale del senso che, emanando dall’interno, rende per me possibile in assoluta originarietà il mondo oggettivo».
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soggettivo – nel suo darsi come correlato non tanto di un’intenzione, quanto di
una co-intenzione18.
2.2 Ego solus ipse e Ego nella sfera appartentiva
Accanto al problema dell’oggettività sembra però stagliarsi, per l’Ego fenomenologicamente ridotto, la questione del solipsismo («E la fenomenologia, che voleva risolvere i problemi dell’essere oggettivo e darsi già come filosofia, non sarebbe allora da stigmatizzare come solipsimo trascendentale?»19). Come reazione
anticipante un’eventuale obiezione in tal senso (che è obiezione a doppio taglio,
che mentre fa problema dell’essere dell’Io fa problema anche dell’essere degli altri, e dell’essere degli altri per se stessi oltre che dell’essere degli altri per l’Io),
Husserl reagisce con apparente e voluta paradossalità, radicalizzando il ripiegamento dell’Io sull’Io, dell’Io su di sé. Quella che Husserl mette in atto (e che
chiama riconduzione alla sfera appartentiva, alla Eigenheitlichkeit20) è un’operazione, astrattiva, di delimitazione in qualche modo dall’interno. È come se l’Io
tracciasse, a partire da sé e dalla proprietà di sé, una linea discriminatoria tra il
proprio e il non proprio. Ma tale linea avrebbe non tanto il senso di Schranke,
quanto di Grenze nel senso di Kant e di Wittgenstein. Schranke è confine nel senso di barriera, limite tracciato da un punto di vista esterno (che come tale presuppone di poter cogliere, visivamente, entrambe le regioni d’essere coinvolte
dalla separazione); Grenze invece è più orizzonte che confine, è linea tracciata
dall’interno e a partire da qualcosa di dato, confine in qualche modo dal volto bifronte, che ha un lato positivo e uno negativo (positivo perché parte da una presenza, negativo perché fornisce ciò che manca mediatamente, mediante un riflesso, come qualcosa che non si dà ma che in tale suo non darsi non è vuota negatività – come assenza che è presenza, come presenza di un’assenza). Circoscrivere
(nel senso di tracciare la linea d’orizzonte attorno al) lo spazio della sfera del sé
diviene allora la modalità di individuazione di ciò che come tale non si dà tematicamente, di ciò che (il non proprio, l’altro) si staglierà come assenza, ma come assenza presente21 e come tale non ignorabile, al di là dell’orizzonte stesso.
2.3 Alterità che s’intravvede
L’orizzonte di esperienza dell’Io, quell’orizzonte che si dà già come fenomenico, è astrattivamente purificato da ogni traccia di estraneità. Tale ripiegamento
Cfr. ivi, pp. 114-115.
Ivi, p. 113.
20 Ivi, p. 119.
21 Cfr. R. Sokolowsi, Presence and Absence, Indiana University Press, Bloomington and London
1978.
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drastico e artificiale sull’Io prevede il tentativo di esclusione metodica, da quel
mondo che si dà al soggetto conoscente, di ogni traccia di elemento non riconducibile all’Io cogitante. Ciò implica l’esclusione, dall’orizzonte, di quanto non si dia
come noema di un soggetto intenzionante22 – o, il che è lo stesso, di tutto quello
che è intuito essere punto di partenza di una noesi, almeno potenziale (dunque,
di quanto sia soggettività altra rispetto al soggetto o di quanto sia anche solo indice di quella soggettività). Tale sforzo di circoscrizione e di esclusione è particolarmente fecondo nel suo risvolto negativo, ossia se si volge lo sguardo agli esclusi (a ciò che nel proprio non può essere fatto rientrare), ed è particolarmente interessante ai fini della comprensione non tanto dell’alterità (di cosa sia, alterità),
quanto del senso-alterità23. Ne emergerà un’alterità che è strumento dell’Io, che
forse da un certo punto di vista ne è il presupposto; ma ne emergerà anche
un’alterità silente, un’estraneità celata e implicita nella familiarità24.
2.4 Duplicità dell’Ego
Da un punto di vista appartentivo, l’Io si coglie nella propria peculiarità. Mentre il mondo fenomenico gli si dà (almeno ad un primo sguardo) univocamente e
non problematicamente, nell’esperire se stesso egli fa esperienza di una complessità sconosciuta. Nel percepirsi sperimenta una duplicità costitutiva (o, il che forse è lo stesso, nel percepirsi si scinde – quasi che l’assunzione di una consapevolezza di sé come unitario possa avvenire soltanto scindendosi, facendo esperienza
di un doppio). Il soggetto è carne e corpo, Leib e Körper25; è carne nel senso di
qualcosa che muove e può muovere, è corpo nel senso di qualcosa che è mosso; è
carne che muove un corpo, e al tempo stesso è corpo mosso da una carne. Leib e
Körper si danno in interconnessione, dipendono l’uno dall’altro – il Leib non solo
muove e può muovere il Körper, ma il primo “è” la stessa possibilità di agire con
e grazie al secondo (e ha tale possibilità come forma d’essere26). Nell’essere corpo
e carne insieme, nell’essere cioè coscienza condannata ad un’esteriorità e ad una
Cfr. J. Drummond-L. Embree (a cura di), The phenomenology of the Noema, KluwerDodrecht-London 1992.
23 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa,
Studi Bompiani, Milano 2009, p. 164.
24 È interessante notare come una traccia di estraneità si riscontri: 1) a livello di oggettualità, in
oggetti particolari che come tali portano l’orma di una soggettività altra, di un’intenzione altrui
(che come tali si danno ad un soggetto ma non sono totalmente riconducibili al soggetto stesso);
2) a livello di soggettività, da un punto di vista interno rispetto alla stessa (Io che si coglie come
altro di un altro, che ha intrinsecamente un’alterità costitutiva).
25 Cfr. F. Didier, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl, Editions de Minuit, Paris
1981.
26 Cfr. Io sono = Io posso, E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 119.
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Sguardo fenomenologico e alterità
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corporeità, il soggetto scopre se stesso costituente e costituito insieme. È proprio
a partire da tale duplicità costitutiva che si dà un’esperienza di paradossalità in
relazione a sé, per cui ciò che è all’origine di ogni costituzione (il soggetto) deve
divenire, per se stesso, oggetto costituito e da costituirsi. Altrove Husserl tenta di
superare la paradossalità (e il rischio di incoerenza) ricorrendo al concetto di
temporalità (la coscienza si può sì cogliere, ma può farlo in ritardo rispetto alla
sua manifestazione; può cioè oggettivare qualcosa che da un certo punto di vista
non è più sé, o almeno non è più sé presente, sé attuale – che è sé trascorso ma
trattenuto). Nella «V Meditazione Cartesiana» pare invece suggerire che l’essere
costituente e l’essere costituito (le due mani che si toccano, l’orecchio che sente la
propria voce) possano coesistere, siano compossibili, possano darsi insieme al
medesimo istante. Sarebbe interessante riuscire a far dire a questo punto a Husserl come già qui, in questa coesistenza paradossale di due esperienze che solo
problematicamente possono coesistere, si celi, implicita, un’alterità; si dia insomma una forma di estraneità, seppure su un piano diverso, forse di natura
immaginativa. Un’alterità, ma un’alterità immaginata, sarebbe allora strumento
di salvataggio della coerenza: la percezione di sé come oggetto avverrebbe sì dal
punto di vista di un Io (e fin qui la paradossalità permane), ma di un Io che si
immagina altro, che si cala immaginativamente nei panni di un’alterità percipiente (e qui la paradossalità sarebbe esclusa) – detto altrimenti: di un “qui” che
assuma immaginativamente la prospettiva di un “là”27. Ma al di là dei termini in
cui viene intesa, vero è che proprio tale duplicità si rivelerà strumento e canone
interpretativo dell’alterità altra, dell’alterità in quanto tale – che è alterità vera,
diversa da quella che si dà ad un soggetto e che per definizione sarà sempre alterità non altra, alterità “per quel” soggetto (nel duplice senso di valida soggettivamente, ma anche di funzionale al soggetto, di specchio, di superficie riflettente
mediante la quale cogliersi, innescando un ritorno di sguardo a partire da quel
soggetto28).
3. Il mondo per Io molteplici. Alterità compiuta
3.1 Alterità dell’altro. Altro come assenza
L’alterità come alterità altra, ossia l’alterità come soggettività non potrà mai
darsi all’Io tematicamente, in forma diretta. L’alterità è per definizione qualcosa
che si sottrae al soggetto, è una zona d’ombra, una regione opaca nel suo mondo
Qui i termini “qui” e “là” non si riferiscono ad una spazialità oggettiva, ma sono “qui” e “là” assoluti (il “qui” è sempre relativo ad un Io, è sempre dove l’Io sta, è punto astratto che si dà come
correlativo ideale di un “là” – che come tale non può mai darsi se non in opposizione ad un “qui”).
Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, pp. 136-137.
28 Cfr. ivi, pp. 116-117.
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Sguardo fenomenologico e alterità
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fenomenologico. Anche qui, e radicalmente: c’è qualcosa che si sottrae, che rifugge i tentativi di essere fatto oggetto; eppure accanto a ciò, ma correlativamente, si
dà il fatto di tale sottrazione – si dà l’esserci di un non esserci (e pare quasi che
quell’ombra non sia tanto l’indice di un’alterità presente, quanto che l’ombra
“sia” l’alterità stessa; che l’alterità abbia l’assenza, e quella precisa assenza, come
particolare forma d’essere). In generale la negatività (intesa però più precisamente come parzialità, come darsi parziale piuttosto che come impossibilità) è costitutiva di ogni modalità intenzionale – ma al di sopra di ogni altra è peculiare della modalità percettiva.
In Georges Braque (18821963), come in Tony Cragg
(1949), si può notare il tentativo di cogliere artisticamente la
coesistenza, ad uno sguardo,
di molteplici prospettive di
percezione (una sorta di rappresentazione in forma presentativa di quanto per definizione si dà solo appresentativamente). Il punto di vista del
fruitore è come soggetto ad
una moltiplicazione fittizia; da
un punto di vista unico si finge
la percezione simultanea di
più punti di vista. In Cragg si
ha, nelle sue stesse parole, un
divenire che si stabilizza, il
condensarsi di un fluire, una
sorta di presente con tanto di
protenzioni e ritenzioni materializzate.
Georges Braque,
Mandola, 1910.
Olio su canvas, 72 x 58.2 cmcm,The
Tate Gallery, London.
Tony Cragg,
Current Version, 2010. Bronzo, Collezione Lilian Johannsson.
L’oggetto percepito mi si dà per profili parziali. Ciò significa che l’oggetto non
mi si dà mai nella sua interezza, che l’identità è oscuramente consaputa, che
l’unità mi si dà per costituzione a partire da una prospettiva limitata – insomma,
che l’essere dell’oggetto sia il suo darsi in forma parziale, il suo rimandare ad
un’unità nella parzialità. È come se il profilo fosse lì non per sé ma per altro; come se con il suo esserci rimandasse a qualcosa di ulteriore e di cui è parte (e che
come tale non potrà mai darsi). L’oggetto è sempre oggetto unitario, ma tale sua
unità è unità non data immediatamente, eppure consaputa, presunta e inferita a
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Sguardo fenomenologico e alterità
Federica Malfatti
partire da una sua manifestazione parziale (colta insomma in veste “appresentativa” a partire da un suo profilo “presentatosi”). È pur vero che attorno all’oggetto
si può ruotare, a scoprirne presentativamente i lati nascosti; ma è anche vero che
ciò che è rilevante, qui, è il fatto che qualsiasi lato presentato rimandi automaticamente ad un’unità sottesa, con tutti i suoi lati celati, e che tale unità relativa
all’oggetto non possa essere fatta oggetto a sua volta, non possa darsi tematicamente29. Detto in altri termini, più vicini ai nostri scopi: l’unità dell’oggetto si dà
in forma mediata, come esito di un’inferenza. E l’altro, così come l’unità, è qualcosa che per definizione non mi si può dare immediatamente. Detto altrimenti:
l’altro come altro, ossia l’altro come soggetto, non può (pena l’incoerenza) essere
ridotto ad oggetto per un soggetto. L’alterità (l’alterità come soggetto) va in qualche modo svincolata dall’oggettualità, mentre è oggetto per un soggetto. La situazione sembra disperata, ma c’è in realtà un modo, ci dice Husserl, in cui l’altro
come altro si può dare – ed esso è suggerito da un lato dall’esperienza della percezione, dall’altro dall’esperienza di sé.
3.2 Assenza come presenza. Duplicità per analogia
La lezione che si trae dalla percezione è che la negatività non è mero vuoto, ma
soprattutto che quello che si dà non si dà necessariamente in forma immediata
(“presentativa”). Ciò che invece deriva dalla consapevolezza di sé è l’esperienza di
coesistenza e compossibilità di Leib e Körper. Quel fenomeno peculiare che è il
fenomeno altro (qualcosa che è oggetto/non-oggetto, che ha esistenza diversa rispetto alle cose, che è con me nel mio mondo, che si preannuncia soggetto che
vede me30) può allora essere ricompreso alla luce di una comprensione di sé. La
presenza di un Io (di un Leib) è intuita, inferita a partire dalla presenza di un
Körper. Si dà, nel mondo, come oggetto (ossia presentativamente) un corpo “come il mio”. Ma tale corpo, a partire dall’esperienza che si ha di sé, chiama un andare oltre, un trascendere il livello “presentativo” e un accedere, però tramite lo
stesso, a quello “appresentativo”. Detto altrimenti: la duplicità costitutitiva dell’Io
è posta in relazione all’altro, è proiettata nell’altro per via analogica a partire da
sé, è nell’altro trasposta e presunta.
3.3 L’altro come l’immagine, l’immagine come l’altro
Al di là della percezione, c’è un’altra modalità intenzionale che prevede un livello “appresentativo”, che prevede cioè il darsi di un’assenza, il non esserci come
Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, p. 172 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F.
Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 15 e ivi, p. 17.
30 E attraverso il quale mi vedo veduto – il che però equivale a vedersi vedente.
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modalità di apparizione: tale è la modalità di immaginazione o, detto altrimenti,
della coscienza di immagine31. Ciò che fa di un’immagine se stessa è la sua capacità raffigurativa, rappresentativa, direi evocativa. L’immagine (materiale) è tale
nella misura in cui è superficie da attraversare, da trascendere in quanto tale, nella misura in cui rimanda ad altro, è lì, ma nel suo essere lì è lì per altro. Esperire
un’immagine vuol dire porsi in relazione a qualcosa che come tale non si dà. È
pur vero, si obietterà, che può darsi: ma nel momento in cui si desse, e si desse
realmente, non sarebbe più immagine (sarebbe il significato dell’immagine – non
il Bildding né il Bildobjekt, ma il Bildsubjekt). Cogliere qualcosa come immagine
significa non soltanto prescindere dalla cosa, dal suo esserci come Bildding (come oggetto che rappresenta, che offre una rappresentazione, che crea un ponte
tra due mondi), ma significa proprio elevare tale suo esserci, vederlo non in
quanto tale ma in quanto mezzo per altro. Una volta scoperto il Bildobjekt (ciò
che nell’oggetto vuole essere rappresentato), ecco che l’immagine in carne ed ossa (Bildding) non conta più, è lasciata adagiata e silente e inerme sullo sfondo,
abbandonata nella sua cosalità, mentre nell’orizzonte di assenza va delineandosi
la sagoma di una presenza – per quanto tale apparizione non possa per definizione essere diretta (esattamente come era nel caso del Leib altrui, di una soggettività altra), ma necessariamente mediata. Il Bildobjekt, così come l’alterità come
soggetto, non può mai darsi come presente – è sempre compresenza (Mit-da),
presenza inferita, presenza secondaria, oggetto di un’intenzionalità indiretta (e in
ciò eccedenza, sovrappiù percettivo e, da un certo punto di vista, adombramento)32.
3.4 Oggettività e intersoggettività. Altro come strumento cognitivo
L’alterità inserita nel mio mondo, ossia nel mondo di un Io, porta con sé, ha
come risvolto positivo una sorta di contaminazione a doppio taglio – che se da un
lato interessa l’Io stesso, dall’altro interessa il mondo in senso generale. Mediante
una soggettività altra, dotata per definizione di potere costitutivo alla stregua di
qualsiasi Io, l’Io di partenza si scopre oggetto intenzionale (è Io guardato). Ma
qui non si tratta di porre un’alterità all’origine di una soggettività (che si colga
come soggettività una volta ricondotta alla sua oggettualità). Di fatto è pur sempre a partire da un soggetto che si comprende l’attività costituente di un soggetto
C. Calì, Husserl e l’immagine, Aesthetica Preprint Supplementa, Centro Internazionale di Studi
di Estetica, Palermo 2002, E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile. Al di là dell’immagine,
Unicopli, Cortina, Milano 2001 e L. Vanzago, Husserl e la doppia vita dell’immaginazione, in
«Paradigmi», 2009 (3), pp. 1-16.
32 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, Appendice ai §§ 11 e 20 della V Ricerca Logica, pp. 206-209 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 129.
31
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Sguardo fenomenologico e alterità
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altro (il soggetto altro mi dà un’esteriorità, mi riconduce al mio essere Essere e
non solo Nulla, ma sono sempre Io a cogliermi come costituito da un altro – sono
pur sempre io ad essere consapevole di vedere l’Io che mi guarda, e questo equivale a dire di vedersi guardante oltre che guardato). D’altro canto, un mondo popolato di Io (che lo guardano e che si riguardano in un gioco di rimandi speculari) è un mondo trasformato, che si scopre mondo di soggetti molteplici, che è luogo unico di convergenza di prospettive distinte. È un mondo, quello che emerge
dalla scoperta dell’alterità altra, che si dà all’uno nella misura in cui può darsi a
ciascuno; un mondo, detto altrimenti, che è oggettivo nella misura in cui è intersoggettivo, che è intenzionato nella misura in cui è co-intenzionato, che acquista
realtà (e validità) mediante l’intersoggettività. È un mondo, detto altrimenti, che
cessa di essere correlato di una monade e che viene ad essere correlato di un soggetto nuovo e complesso – di una comunità di monadi in correlazione. Intersoggettività, dunque, viene ad essere una modalità di interpretazione dell’oggettività;
l’intersoggettività è garanzia di oggettività, anzi l’oggettività “è” intersoggettività
– l’oggettività consiste in un darsi concomitante del mondo a soggetti molteplici,
aventi ciascuno la propria prospettiva irriducibile sull’unica realtà. L’oggettività,
dunque, in qualche modo invoca una pluralità per il suo stesso esistere, nel senso
che è per definizione convergenza di prospettive plurali su un unico punto.
L’estraneità, allora, si rivela una specie di esigenza cognitiva, è funzione
dell’oggettività, è presupposto della validità del darsi del mondo. Ed è interessante, in conclusione, notare come si abbia bisogno di un’estraneità, di un non darsi,
di una forma di resistenza alla percezione, di un sottrarsi alla vista (di un’assenza
presente), perché il mondo si dia realmente come tale; come cioè si debba poter
pensare il mondo come parziale, come mondo poroso e costellato di zone
d’ombra (perché tale è un mondo popolato da alterità altre), per acquisire certezza, come Io, della sua realtà33.
33
Ivi, pp. 148-149 e ivi, p. 159.
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Vladimir Jankélévitch: il presagire di un altrove
Giulia Maniezzi
Vladimir Jankélévitch: il presagire di un
Altrove
Giulia Maniezzi
Vladimir Jankélévitch: the Prediction of an Elsewhere
Abstract
This paper intends to explore the metaphysical discourse elaborated by Vladimir Jankélévitch,
through the notions of Je-ne-sais-quoi and Presque-rien, with the aim of showing that the French
philosopher has developed, in effect, a form of ontology of the otherness. In contrast with the
classical way of understanding metaphysics as the science of being as being, Jankélévitch thought
that first philosophy was, first and foremost, called to wonder and to ascertain the existence of
reality. According to Jankélévitch, this reality is paradoxically based on a non-foundation, that he
proposed to call mystery.
Keywords: Metaphysics, Ontology, Otherness, Je-ne-sais-quoi, Presque-rien.
***
1. Introduzione
«Il lucore timido e fugace, l’istante-lampo, i segni evasivi – è questa la forma
che le cose più importanti della vita scelgono per farsi riconoscere»1. Nessun altro
incipit potrebbe esprimere la sensibilità filosofica di Vladimir Jankélévitch meglio di queste poche parole, che racchiudono il senso profondo di tutta la sua parabola intellettuale e umana.
Filosofo russo naturalizzato francese fin da quando i genitori Schmul
Jankélévitch e Anna Ryss, ebrei russi nati rispettivamente a Odessa e Rostov, decidono di trasferirsi in Francia con i tre figli, Vladimir Jankélévitch rappresenta
una personalità complessa ed eclettica, difficilmente collocabile definitivamente
nelle grandi tradizioni filosofiche contemporanee. Vissuto tra il 1903 e il 1985, ha
avuto modo di osservare da vicino l’andamento della filosofia nel Novecento, va-
V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, P.U.F, Paris 1957; tr. it. di C. Bonadies Il
non-so-che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987, p. 229.
1
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Vladimir Jankélévitch: il presagire di un altrove
Giulia Maniezzi
lorizzandone motivi e prendendone le distanze, per dar vita a una riflessione che
già la critica coeva non ha esitato a definire “aérienne”2.
Quello jankélévitchiano pare da subito un pensiero costruito a partire da un
vasto campo di suggestioni provenienti dai più disparati contesti: il romanticismo, l’idealismo tedesco, la mistica russa, lo spiritualismo francese, la riflessione
di Bergson, ma anche quella di classici come Platone, Aristotele, Plotino, i padri
della Chiesa, Pascal e Kierkegaard, Francesco di Sales, Fénelon, Giovanni della
Croce3.
Tuttavia, la pluralità di referenti non deve trarre in inganno: gli autori citati
accompagnano, come in controluce, la filosofia jankélévitchiana che, lungi dal ridursi a una collazione sincretica di motivi eterogenei, si staglia con una propria
specificità sull’orizzonte delineato dall’intersecarsi di diverse tradizioni. Già le
prime due opere pubblicate da Jankélévitch permettono di intravedere chiaramente la direzione in cui egli costruisce, lungo cinquant’anni di riflessione, la
propria individualità filosofica: del 1931 è lo studio dedicato a Henri Bergson4 e al
1933 risale la pubblicazione della tesi di dottorato consacrata a L’Odyssée de la
conscience dans la dernière philosophie de Schelling5. Come si può facilmente
intuire dai soggetti di questi due lavori, qui nominati emblematicamente tra i
numerosi che si potrebbero evidentemente rievocare, la filosofia di Jankélévitch è
«completa»6, senza frazionamenti: è una filosofia che affronta problemi specificatamente metafisici ma anche distintamente estetici e morali, in un orizzonte di
pensiero in cui pare impossibile scindere cammini che, solo nella loro simultaneità, finiranno per indicare una destinazione.
In questo intrecciarsi di percorsi e di significati consiste l’essenza stessa della
filosofia che, se vuole conservare la portata veritativa del termine greco sophìa,
non può rinunciare a pensarsi come «interrogazione infinita»7 e «infinita posizione della questione»8 mediante cui si cerca di «dare nome a ciò che non ha no G. Suarès, Vladimir Jankélévitch (Qui suis-je?), La Manufacture, Lyon 1986, p. 14.
Un’approfondita analisi delle fonti del pensiero di Jankélévitch si ritrova nel testo di Isabelle De
Montmollin, La philosophie de Vladimir Jankélévitch. Sources, sens, enjeux, P.U.F., Paris 2000,
pp. 13-84.
4 V. Jankélévitch, Henri Bergson, Alcan, Paris 1931.
5 V. Jankélévitch, L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan,
Paris 1933.
6 L. Jerphagnon, Vladimir Jankélévitch ou de l’Effectivité. Présentation, choix de textes, bibliographie, Editions Seghers, Paris 1969, p. 11.
7 V. Jankélévitch, Philosophie première, introduction à une philosophie du «Presque», Presses
Universitaires de France, Paris 1953, p. 178. Tutti i passi di Philosophie première qui citati sono
stati tradotti in italiano da chi scrive, in quanto l’opera è attualmente disponibile solo in lingua
francese.
8 Ibidem.
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me, a ciò che c’è di impalpabile»9. Per dire anche una sola cosa, la filosofia non
può che parlare una vita intera: questo è l’insegnamento che Jankélévitch tenta
continuamente di veicolare ai suoi lettori e di tenere lui stesso a mente, nella profonda convinzione che ciò che di fondamentale c’è da dire è, in fondo, sempre da
ridire. L’impegno con cui il filosofo cerca di dar voce all’essenziale non sarà mai
abbastanza, perché esso, l’essenziale, è tutto ciò che deve essere detto in filosofia,
almeno nella misura in cui essa si pone come filosofia prima.
Ed è proprio questa suggestione, allora, che occorre tenere sullo sfondo, laddove si voglia provare a ricostruire il discorso ontologico-metafisico di
Jankélévitch che, proteso a cogliere per tangenza non ciò che costituisce un problema, ma il problema del problema, il problema con esponente per così dire, è
definitivamente convinto che gli oggetti privilegiati della filosofia siano «diffusi e
diffluenti più di ogni altro»10.
Per questo, dunque, l’Autore guarda con insoddisfazione a quelli che gli paiono
meri esercizi di retorica, mediante cui la filosofia passa il tempo a mettersi in
questione e a cercare una propria definizione, dimenticando il compito fondamentale: stupirsi che ci sia qualcosa piuttosto che il nulla e che questo qualcosa
sia un mistero inattingibile, sempre proiettato altrove.
Sullo sfondo di questa concezione della filosofia come interrogazione perpetua,
emerge la scelta stilistica di Jankélévitch in direzione di un linguaggio per così dire musicale e allusivo, ricco di neologismi ma anche di parole antiche, un linguaggio capace di articolarsi in figure e forme che non rinviano ad altro che a se
stesse, secondo il significato più fecondo che questa circolarità può assumere.
Jankélévitch ama utilizzare termini che si stagliano nel silenzio e restano come
sospesi sul nulla. Anche laddove si ponga alla ricerca della bella forma, non lo fa
mai per un mero gusto letterario, ma perché mosso dalla convinzione che «bisognerebbe poter creare da sé le parole, modellarle ogni volta secondo la sfumatura
che si cerca di suggerire»11.
2. La filosofia prima: l’essere come mistero
Per tentare una ricostruzione ragionata del discorso metafisico elaborato da
Jankélévitch pare inevitabile addentrarsi nelle impegnative pagine di Philosophie
Ibidem.
E. Lisciani Petrini (a cura di), Vladimir Jankélévitch, Béatrice Berlowitz, Da qualche parte
nell’incompiuto, Einaudi, Torino 2012, p. 76.
11 Ivi, p. 37.
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première, testo del 1953 ormai considerato dalla letteratura critica come il punto
focale12 della riflessione jankélévitchiana intorno al fondamento ultimo del reale.
In un dialogo critico e dialettico con i grandi temi dell’ontologia del Novecento
e con le eterne questioni con cui la filosofia ha avuto a che fare dall’istante stesso
in cui è sorta, l’Autore intende riformulare la domanda che da sempre i filosofi
hanno ritenuto di importanza primaria: quella sull’essere.
Emblematicamente, il testo jankélévitchiano si apre con una definizione, ex
parte negationis, della metafisica, che, correttamente intesa, non è affatto «una
fisica estremamente ragguardevole»13 o, come sembra credere una certa parte
della filosofia contemporanea, «una sorta di trans-fisica che non differirebbe dalla fisica che per l’essenza particolarmente elevata del suo oggetto»14. Al contrario,
svolgere un autentico discorso metafisico vuol dire «prendere sul serio tutto ciò
che rappresenta l’avverbio di luogo infinito Al di là, cioè nel rendere onore al dislivello vertiginoso che separa il Quaggiù e l’Ulteriore»15.
Ciò vuol dire, innanzitutto, ripensare la modalità con cui classicamente la domanda metafisica è stata posta. Ossessionati dal problema del nulla che circonda
l’essere e l’esistenza come terminus a quo e ad quem, Parmenide, Platone, Aristotele e la cultura greca in generale avrebbero, a dire di Jankélévitch, mancato il
punto decisivo, preoccupati principalmente di indagare i rapporti, di esclusione
in Parmenide e di interazione dialettica in Platone e Aristotele, tra essere e nulla.
Tutta la difficoltà di cui questa tradizione di pensiero sarebbe intrinsecamente
portatrice è ravvisabile in quella che Jankélévitch evidenzia come la principale
incertezza del discorso aristotelico circa lo statuto epistemologico della metafisica. Da un lato, infatti, lo Stagirita riconosce la superiorità e la primarietà della
scienza dell’essere in quanto essere in generale, scienza che è chiamata a rispondere alla domanda “perché” vi sia essere anziché nulla16; dall’altro, tuttavia, Aristotele non avrebbe mai abbandonato il piano che, in termini jankélévitchiani, si
potrebbe definire del Déjà-là17. In altri termini, pur avendo il merito di comprendere che la metafisica in quanto scienza dell’essere puramente e semplicemente
Cfr. L. Jerphagnon, Vladimir Jankélévitch ou de l’Effectivité. Présentation, choix de textes, bibliographie, cit., p. 15. Dello stesso parere è anche F. Pittau, Il volere umano nel pensiero di Vladimir Jankélévitch, Università Gregoriana, Roma 1972, p. 39.
13 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 1.
14 Ibidem.
15 Ivi, p. 2.
16 A proposito dell’alternativa tra essere e non-essere su cui si è costruita classicamente la metafisica, Jankélévitch chiarisce che in realtà si tratta di una finta alternativa, perché in ogni momento
in cui lo si consideri, l’essere è ciò che si continua. Come a dire, che il nulla non è mai dato e
l’alternativa è del tutto “zoppa”. Quanto invece al poter essere altrimenti, anch’esso considerato
dalla metafisica classica, esso appare una «semplice possibilità metafisica sempre esclusa
dall’attualità non lacerabile del fatto» (Cfr. ivi, p. 177).
17 Cfr. ivi, pp. 1-2.
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non è una scienza come le altre, Aristotele si è concentrato su questioni che, per
Jankélévitch, sono definitivamente secondarie: interrogandosi sull’essere in
quanto tale, sull’ ν come universale predicato e sull’ο σία di questo essere, lasciando da parte la domanda sull’ε ναι, cioè su quello che l’Autore ama chiamare
«le fait d’Être»18, Aristotele avrebbe dato luogo a una filosofia solo apparentemente «première»19. Sintomo di ciò sarebbe la tendenza definitoria riscontrabile
nelle opere dello Stagirita, laddove per l’Autore francese «definire non è porre ma
semplicemente enunciare l’ο σία di un essere già-essente»20.
A prendere sul serio il dislivello ontologico che separa il piano del quaggiù (Icibas) dal piano specificatamente metafisico dell’ulteriore (Ultérieur) sono, invece,
i filosofi alessandrini e in particolare Plotino che, nelle Enneadi, avrebbe costruito una complessa trama ontologica in cui il “laggiù”21 assume effettivamente il
senso di un “al di là”22, cioè di un piano autenticamente trans-mondano rispetto
all’empiria. Il riferimento alle opere plotiniane, frequentemente citate da
Jankélévitch accanto a quelle tradizionalmente considerate come i fondamenti
della metafisica occidentale, dice di come interrogarsi circa l’essere significhi, per
il filosofo francese, interrogarsi su qualcosa di radicalmente differente rispetto a
quei piani della realtà che solo una riflessione ingenua23 potrebbe considerare ultimativi.
La prima ingenuità metafisica di cui sarebbe vittima parte della filosofia occidentale consisterebbe nella pretesa di cogliere il fondamento del reale a partire
dall’esperienza, come se l’orizzonte propriamente metempirico fosse raggiungibile tramite un mero processo di «sublimazione o estenuazione progressiva della
realtà concreta, palpabile e ponderabile»24. Richiamando una distinzione già
tracciata da Aristotele e poi ampiamente ripresa e risemantizzata da Schelling,
Jankélévitch ricorda che intercorre una distanza infinita tra il sapere che cosa
una cosa è e sapere che una cosa è, esattamente come esiste un vuoto incolmabile
tra «tutto ciò che si vede, palpa, percepisce positivamente»25 e che è «empirico»26 e il fatto dell’empiria, il puro darsi della realtà, che è invece «un profondo
mistero»27.
Ivi, p. 1.
Cfr. ibidem.
20 Ibidem.
21 Ivi, p. 2.
22 Ibidem.
23 Cfr. ivi, p. 3.
24 Ibidem.
25 Ivi, p. 29.
26 Ibidem.
27 Ibidem.
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Altrettanto illusoria è la pretesa di cogliere il reale nella sua costituzione ontologica attraverso una conoscenza di tipo eidetico e concettuale: anche una volta
raggiunto cognitivamente il livello delle essenze, ancora non si saprebbe nulla di
quella metempiria ultima che è fondamento del reale. Le verità eterne, infatti,
non sono autosufficienti e lo dimostra il fatto che la storia della filosofia, davanti
alla constatazione che tali verità avrebbero potuto essere diverse da quelle che
sono, si è tanto affannata per trovarne un ancoramento. Anche le essenze, dunque, fondandosi sull’oscurità di un’effettività radicale, non sono in grado di appagare la ricerca metafisica.
A questo proposito, dunque, occorre distinguere tre modalità con cui è possibile porre la domanda circa il problema dell’essere: due di esse sono modalità
quidditative e categoriali, mentre una sola è l’autentica modalità metafisica.
Quidditative sono le domande che, dice Jankélévitch, nel processo conoscitivo
umano si pongono come primaria e secondaria: esse sono, rispettivamente, la
domanda per così dire qualitativa, mediante cui l’uomo si interroga circa il reale
così come viene colto percettivamente a livello sensoriale, e la domanda volta a
individuare l’essenza concettuale di qualcosa mediante un procedimento razionale che culmina nella definizione. Recuperando uno dei principi chiave della filosofia positiva di Schelling, già presente in Kant, Jankélévitch ricorda come
l’esistenza sia estranea all’essenza e conclude, per questo, che la questione di che
cosa sia l’essere in generale è una questione assurda, generatrice di mere verità
lapalissiane28 del tipo «l’essere è ciò che è» e di tautologie in cui l’essere da definire compare, viziosamente, tre volte: «come soggetto, come copula e come attributo»29.
Completamente diversa da questi due approcci ed effettivamente primaria in
sé, benché terziaria dal punto di vista dell’uomo, se non addirittura sconosciuta ai
più30, è la domanda che riguarda il fatto stesso che «c’è un essere, le cui maniere
di essere ci sono sconosciute»31, ossia quella domanda che «non domanda ciò che
un essere è, o qual è (di che natura), non descrive il suo contenuto, non elenca i
suoi caratteri, non fa l’inventario delle sue proprietà o predicati, ma dichiara
semplicemente che esso è, o non è»32.
Dunque, a dichiarare che l’unico approccio fecondo per la metafisica è la mera
constatazione quodditativa e a determinare l’impossibilità di ogni concettualizzazione è la natura stessa dell’essere.
Cfr. ivi, p. 232.
Ibidem.
30 Ivi, p. 103.
31 V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 40.
32 Ivi, p. 111.
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Così come viene concepito da Jankélévitch, lungi dall’essere ens generalissimum, l’esse è piuttosto nominabile attraverso un termine per lo più marginale
nella metafisica occidentale: mistero.
Pensato come una sorta di luce crepuscolare che rende luminose le ombre e
umbratili le luci, l’essere è costitutivamente misterioso non nel senso che il mistero è qualche cosa di rinchiuso nei «nascondigli dell’empiria»33 o qualche cosa
da afferrare «spalancando gli occhi»34. Piuttosto, il mistero è inerente al «fatto
dell’empiria in generale»35, cioè alla globalità dell’esperienza, che testimonia o
depone in favore dell’al-di-là attraverso la sua effettività e la sua totalità, cioè attraverso la sua «Quoddità radicale»36. A essere autenticamente metafisico è il fatto gratuito dell’empiria, come evenienza di una totalità che interroga e zittisce al
tempo stesso. Se l’essere-sostantivo37, per usare un’espressione dell’Autore, può
legittimamente essere fatto oggetto di riflessione da parte di una delle tante
scienze quidditative e categoriali che si dividono il campo dello scibile umano,
l’esse come avvento continuo, dunque come avvenimento e darsi nell’esistenza, è
radicalmente trans-categoriale. Ecco perché, allora, l’interrogazione autenticamente metafisica è quella che inizia davanti al semplice fatto che c’è dell’essere e
che, al contempo, davanti a tale soglia si arresta: la domanda sul quod, cioè
sull’emergenza di ciò che si dà, è tanto interrogativa quanto puramente constatativa e quello della metafisica è, di fatto, un discorso breve. L’essere, infatti, come
continuo emergere da e ricadere nel nulla, per poi riemergerne di nuovo, è
«un’eterna domanda alla quale si è risposto dall’eternità: è la totalità paradossalmente problematica, in altri termini il mistero, il quale è risposta a se stesso; e
questa risposta, essendo un immemorabile già-là e un fatto eternamente compiuto, risponde di fatto, non di diritto»38.
Quella di Jankélévitch, dunque, più che una filosofia dell’essere nel senso classico del termine è una filosofia dell’evento che opera su una presenza: è una metafisica che è, di fatto, un «approfondimento»39 dell’esperienza. Non certo nel
senso che si può cogliere il fondamento del reale risolvendo gli indovinelli di cui
l’empiria sarebbe cripticamente custode, ma nel senso che è solo attraverso lo
sguardo istantaneo di chi si meraviglia e prende coscienza dell’empiria in quanto
totalità che si guadagna quello stato di grazia che consiste nell’intravedere anche
nelle cose più banali il mistero dell’esistenza.
Ivi, p. 29.
Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37 Cfr. V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 18.
38 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 232.
39 Ivi, p. 28.
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3. Realtà diafane : le Je-ne-sais-quoi e le Presque-rien
Se questa è la concezione dell’essere così come viene formulata sistematicamente dall’Autore in Philosophie première, è anche vero che la ricostruzione del
suo discorso ontologico-metafisico non può prescindere dal considerare una serie
di nozioni inusuali per la tradizione occidentale che, abbozzate nel testo del 1954,
sono poi oggetto primario di riflessione nel volume del 1957 Le Je-ne-sais-quoi et
le Presque-rien.
Se l’essere del reale è qualcosa di sfuggevole a ogni definizione, in virtù del suo
essere un soffio evanescente di cui si può tutt’al più costatare la presenza,
Jankélévitch sente la necessità di introdurre termini allusivi, espressioni che, più
che descrivere compiutamente, rimandano intuitivamente a ciò che nominano.
Questo è propriamente il caso delle due espressioni “il non-so-che” e il “quasi
niente”, espressioni che l’Autore sa essere portatrici di una profonda problematicità se guardate dall’angolo visuale della tradizione occidentale moderna che ha
fatto della chiarezza e della concettualizzazione i propri principi metodologici. Da
qui allora l’esigenza di spendere molte parole, nel tentativo di dissipare possibili
equivoci e fraintendimenti.
Richiamandosi ancora una volta a quella linea della filosofia occidentale i cui
motivi hanno sotterraneamente attraversato varie epoche, Jankélévitch predilige
termini utilizzati da pensatori come Giovanni della Croce e Baltasar Gracián40 e
parla di “non-so-che” per riferirsi all’essere, inteso come quel surplus a cui la ragione è impossibilitata a dar voce, come quel mistero insondabile che fa essere il
reale nella sua individualità e che non è una cosa, ma semplicemente un nescioquid di cui si ignorano il nome, la qualità e la natura.
Il non-so-che, come struttura ontologica, è ciò che segna la differenza, tanto
impercettibile, eppure tanto essenziale, tra l’esserci effettivo di una cosa e la sua
essenza immutabile e atemporale41. Pura effettività che rende esistente tutto ciò
che lo circonda42, efficacia che rende effettive tutte le altre proprietà, da cui si distingue radicalmente, il nescioquid può essere solo presagito, senza mai essere
compiutamente saputo, può essere appena intravisto ma mai conosciuto nella
sua natura essenziale. Il verbo che meglio si addice a questo mistero che «fa esse Proprio Gracián è stato il primo a nominare il “non-so-che”, benché non abbia usato sempre
questa espressione, preferendo parlare di “el despejo”. Cfr. B. Gracián, Obras completas, éd. Arturo de Hoyo, Aguilar, Madrid 1960.
41 Cfr. V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 176. Cfr. anche V. Jankélévitch, Il non-so-che
e il quasi-niente, cit., p. 70: «Il quod aggiunge in più al quid una clausola assolutamente essenziale senza la quale la quiddità rimane ipotetica, senza la quale le qualità di questa quiddità rimangono indifferenti, oniriche, fantasmatiche».
42 Cfr. V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, p. 63.
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re senza essere esso stesso»43, in virtù del fatto che «ciò che fa essere è una certa
specie di essere e anzi infinitamente più di un essere»44, è “avvenire”. Tale mistero, tale non-so-che, infatti, è, puramente e semplicemente, in un moto auto-tetico
che l’Autore paragona al sorgere o al lampeggiare del fulmine ridotto al fatto di
accadere45, cioè, si potrebbe dire, alla folgorazione stessa.
Se per la metafisica classica il non-so-che è motivo di inquietudini e perplessità inesauribili, data la sua costitutiva inconoscibilità, se per conoscibilità si intende l’apprensione razionale secondo categorie, per Jankélévitch esso è l’unico
nome che si può dare a quella grazia che, pur senza essere niente in se stessa, è
diffusa e riversata ovunque e fa essere il reale nella sua effettività. Così concepito,
dunque, il non-so-che non è un elemento in una totalità aperta, ma è propriamente ciò che «mantiene l’apertura»46: si tratta di costatare, con meraviglia e
stupore, che c’è qualche cosa che non è niente, qualche cosa di appena intravisto
nella sua quoddità ma non conosciuto, che si può dunque chiamare il mistero del
non-so-che47.
Parlando dell’essere come non-so-che l’Autore intende sfiorare il mistero
dell’esistenza, del darsi di qualcosa a partire da un fondamento infondato o meglio da un non-fondamento, per nominare il quale Jankélévitch trova appropriato
il nome boehmista di Ungrund48. Un mistero che l’Autore descrive anche con
un’altra espressione: il nescioquid è, in sé, un presque-rien, cioè letteralmente un
quasi-niente, dove l’avverbio francese presque deve essere inteso non nel senso
volgare per cui un’unica mancanza impedirebbe a qualcosa di essere completo,
ma nel senso impegnativo per cui il non-so-che ha un’identità intrinsecamente
liminare.
Per comprendere adeguatamente il significato profondo di tale nozione, occorre passare attraverso il discorso che Jankélévitch svolge intorno al divenire. Assimilando la lezione bersgoniana per cui l’essere è del tutto diveniente, l’Autore
intende dire che l’essere, in quanto mistero, è continuamente in procinto di essere, che esso non è mai, ma che, piuttosto, compie incessantemente il proprio avvento all’esistenza.
Viene così istituita quella che si potrebbe chiamare una coincidentia oppositorum tra essere e divenire: l’essere è completamente operazione e maniera di divenire e, viceversa, il divenire non è nient’altro che essere sempre nascente. Ri Ivi, p. 45.
Ibidem.
45 Cfr. ibidem.
46 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 148.
47 Cfr. ivi, p. 240.
48 Cfr. ivi, p. 102.
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prendendo ancora una volta il maestro Bergson49, Jankélévitch ritiene che non ci
sia un «essere prima, un essere dopo, e uno zoccolo o supporto del cambiamento»50 e che l’unica “sostanza”51, per usare un termine caro alla tradizione occidentale, sia da individuare nell’“avvento-all’-altro”52. Ciò vuol dire, allora, che non c’è
altro essere che il divenire stesso e che l’essere non è mai il complemento determinante di un’apparizione che rivelerebbe secondariamente un essere preesistente. Così come il divenire non è mai il divenire di un diveniente, cioè di qualcosa
che diviene e che, quindi, potrebbe non essere e non divenire, l’essere è tale solo
«nel mutamento che gli fa lasciare il suo essere, in sé inesistente, per un altro essere che non sarà meno inesistente» 53 , in modo tale che è solo in virtù
dell’alterazione che l’essere esiste. Pensato come la particolare modalità che
l’essere ha di essere non essendo, il divenire rappresenta l’indivisibile orizzonte
in cui accade l’emergenza continua dell’essere e per questo Jankélévitch gli attribuisce l’appellativo di “ontogonico”54. Da questo punto di vista, allora, non si può
non concludere che essere e divenire siano identici ed è esattamente in questo
orizzonte di pensiero che si inserisce l’utilizzo dell’espressione “quasi-niente”.
Pensato come «qualcosa che non è niente»55 e, dunque, come un terzo tra essere e non essere, il quasi-niente, infatti, è un appena qualche cosa, è la totalità
nascente e la promessa esaltante che qualcosa è sul punto di essere. Jankélévitch
sta parlando dell’«infaticabile ritorno di ogni primavera»56, di quei piccoli avvenimenti della vita quotidiana che, nella misteriosa semplicità della loro esistenza,
parlano di un assoluto che si può appena nominare. Quasi-niente, insomma, è il
nome proprio di quell’impercettibile soglia che separa, secondo una misura infinitesimale, essere e non-essere nel flusso inarrestabile del divenire, in
quell’emergenza improvvisa e miracolosamente continuata che si suole chiamare
“evento” e che è l’unica modalità con cui «l’essere insipido, inodore e incolore fa
effettivamente prova di sé»57.
Ricordare tutto questo vuol dire aver presente, in ogni istante, che il quasiniente non è la semplice differenza aritmetica tra il tutto e il quasi tutto, ma è
quell’incanto dell’essere che, pur essendo niente per il ragionamento discorsivo, è
tutto per la contemplazione leggera e delicata della metafisica.
Jankélévitch cita a questo proposito il testo di Bergson La Pensée et le Mouvant del 1934.
V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 21.
51 Ibidem.
52 Ibidem.
53 Ivi, pp. 21-22.
54 Ivi, p. 21.
55 Ivi, p. 70.
56 Ivi, p. 39.
57 Ivi, p. 18.
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In fondo, se si volessero intrecciare le nozioni di mistero, je-ne-sais-quoi e
presque-rien si potrebbe dire, con Jankélévitch, che l’essere non è altro che «quel
non-so-che di dubbio ed equivoco»58, «quell’ibrido di essere e non-essere»59,
«quel quasi-niente che è il fuggevole divenire»60, in cui ogni realtà continuamente si disfa, si riforma e si trasforma, secondo un dinamismo incessante che è modificazione continua e continua configurazione di un Altrove.
4. Conclusioni
Al termine di questa breve ricostruzione dell’articolato discorso metafisico di
Jankélévitch, si potrebbe concludere dicendo che quella elaborata dall’Autore di
Philosophie première è una vera e propria ontologia dell’alterità.
Considerando i termini che permeano costantemente le analisi jankélévitchiane e che, direttamente o indirettamente, illuminano in maniera trasversale le nozioni ontologiche fondamentali, si può costatare che si tratta di avverbi, aggettivi,
sostantivi, ma anche di complesse locuzioni, che rimandano al campo semantico
dell’alterità. Alla luce di quanto dice Jankélévitch circa il linguaggio come vero e
proprio supporto per il pensiero, pare ragionevole pensare che la scelta di tali vocaboli non sia dovuta solo a una precisa scelta stilistica ma anche a una chiara
posizione teoretica61.
Nel plasmare il proprio linguaggio a partire da parole provenienti dal greco,
dal latino, ma anche dal russo e dal tedesco, Jankélévitch opta per espressioni in
grado di far presagire, attraverso il loro significato sfuggente, l’infinita distanza
tra piano empirico e piano metempirico, tra il piano del Quaggiù e il piano
dell’Ulteriore. Questo perché non ci può essere serio argomentare metafisico laddove si rifiuti la differenza radicale, scandalosa e non meramente scalare, tra empiria e metempiria.
Dunque, tramite espressioni come non-so-che e quasi-niente, l’Autore intende
ricordare che l’oggetto proprio della filosofia prima, ammesso che di oggetto si
possa parlare senza tradire la radicale trans-categorialità dell’essere, è costituivamente un “tout-autre”62. Il piano metafisico, infatti, è intrascendibilmente ul-
Ivi, p. 17.
Ibidem.
60 Ibidem.
61 A questo proposito, è utile ricordare quanto dice Jankélévitch circa le parole: essendo un supporto al pensiero, esse devono essere soppesate, auscultate nella loro sonorità, per percepire il segreto del loro senso e, attraverso esse, poter così pensare tutto ciò che in una questione è
pensabile.
62 Moltissimi i luoghi in cui Jankélévitch impiega questo termine: cfr. Philosophie première, cit.,
pp. 22, 30, 54-57, 83, 87-88, 97, 107-111, 123-124, 159-160, 183, 188, 210-212, 252-255, 265.
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Vladimir Jankélévitch: il presagire di un altrove
Giulia Maniezzi
teriore63 e la metempiria non è mai il semplice opposto dell’empiria. Essa ne è
piuttosto il contraddittorio e, dunque, non è tramite il prolungamento delle qualità e delle realtà empiriche che si può accedere al tutt’altro ordine della metafisica,
la cui soglia si può varcare solo tramite ciò che l’Autore chiama «mutazione iperbolica»64, tramite quella radicale metastrophé di cui già Platone parlava nel libro
VII della Repubblica.
Concependo come margine misterioso e non tematizzabile il puro darsi del
mondo empirico in quanto totalità che, improvvisamente e continuamente, ripete
il miracolo dell’uscita dal niente e della metamorfosi, l’Autore, da un lato, salvaguarda l’alterità di un orizzonte trascendente essenzialmente differente
dall’universo del quaggiù e, dall’altro, salvaguarda la positività dell’empirico,
pensato come unica dimensione che, nel suo esserci, può dare impulso a quel salto acrobatico mediante cui l’uomo può intercettare l’ordine del totalmente altro.
Dunque, non un’ulteriorità separata dall’empiria in nome di ciò che si potrebbe chiamare con Simmel la «fobia del contatto»65, secondo una riproposizione
più o meno classica dello schema platonico, ma nemmeno un’ulteriorità da ricercare nei segreti dell’empiria, con una totale chiusura nel regno dell’immanenza,
ma piuttosto quello che si vorrebbe qui chiamare il presagire, nell’empirico, di un
Altrove, che affonda le radici del suo mistero nella semplicità dell’ordinario.
Interessante notare, a questo riguardo, che nel lessico jankélévitchiano “ulteriorità” non è semplicemente sinonimo di “alterità”, ma, insieme a questo secondo termine, costituisce una locuzione iperbolica: “alterità ulteriore” è il termine che meglio indica il rapporto di tangenza e di radicale distinzione che sussiste tra empirico e metempirico.
64 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 54.
65 Cfr. G. Simmel, Philosophie des Geldes, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig 1900; tr. it. a
cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Filosofia del denaro, UTET, Torino 1984, pp. 668-669.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
Derrida, Nietzsche and the Thought of the “Maybe”
Abstract
In Politics of Friendship Derrida interprets Nietzsche’s philosophy. What emerges by this interpretation is that Nietzsche can be seen as the thinker of an extreme and irreconcilable otherness.
Nietzsche’s philosophy, for the french thinker, could teach a way of thinking different from those
of the metaphysical and ontological tradition based on the ontological dimension of the presence.
Keywords: Presence, Otherness, Virtuality, Event.
In Politiche dell’amicizia1 Derrida concentra la sua attenzione sull’opera di
Nietzsche, fornendone un’interpretazione che non solo può essere inserita nelle
ricerche tipiche della cosiddetta “Nietzsche renaissance”, ma che diviene anche
l’occasione per determinare il senso della filosofia derridiana nel suo complesso.
Nonostante infatti sia errato sistematizzare la filosofia di Derrida per il fatto che,
per il filosofo francese, è impossibile fissare un fondamento originario sul quale
erigere un sistema filosofico, e questo a causa di una non-presenza che abita, precede e determina la purezza e la pienezza di qualsivoglia origine2, tuttavia è possibile rintracciare un continuo ed insistente ritornare delle stesse tematiche lungo
tutta la sua produzione; tematiche che rivelano l’interesse di Derrida per quella
J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995.
Ci si riferisce qui al tema della traccia intesa come supplemento d'origine. Per quanto tale tema
percorra tutta l’opera derridiana, è ne La voce e il fenomeno (J. Derrida, La voce e il fenomeno,
tr. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2010) che forse mostra maggiormente tutta la sua radicalità. Qui Derrida, confrontandosi con la filosofia di Husserl, denuncia il primato che il filosofo
tedesco assegna alla voce interna della coscienza intesa come manifestazione originaria della presenza a sé, mostrando come tale primato sia frutto di pregiudizi storici e metafisici e come tale
originarietà supposta sia in verità intaccata da sempre da una supplementarità che ne inficia i
suoi caratteri di purezza e pienezza. Già qui è evidente la portata estrema del pensiero derridiano:
la dimensione della presenza, che nella filosofia di Husserl assume forse, per mezzo della centralità data alla coscienza trascendentale, la sua forma più radicale e compiuta, ha dei limiti “strutturali”, metafisici, che impediscono di pensare la supplementarità della traccia per quella che “è” e
per come essa opera. Per l’impensabilità della traccia attraverso gli strumenti metafisici e a partire dalla dimensione della presenza si veda anche l’articolo La différance (J. Derrida, La différance, in J. Derrida, Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997).
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
dimensione dell’essere, corrispondente allo spazio fondamentale su cui si sviluppa ogni sapere di stampo metafisico-occidentale, che è la presenza; tematiche il
cui sviluppo dunque può essere considerato come il tentativo di dare risposta alla
domanda ontologico-metafisica che chiede: “Che cos'è la presenza?”.
Tale domandare però, come affiora da molte opere di Derrida, non è innocuo,
anzi presuppone un certo modo di determinare il senso del suo domandato3; un
modo che, nel caso della presenza presa ad oggetto ed interrogata circa la sua essenza, risulta essere inadatto. Infatti, la domanda ontologico-metafisica che chiede l’essenza della presenza si situa già all’interno di ciò che domanda, di quella
dimensione della presenza cioè di cui chiede l’essenza e dalla quale riceve strumenti e modalità di procedere.
L’indagine su “che cos'è la presenza” non può essere fatta attraverso quegli
strumenti che dalla presenza emergono, alimentandosene, e che alla presenza
conducono, determinandola. Per poter chiedere della presenza c’è bisogno di un
modo d'indagare l’essere che si ponga in alternativa rispetto al procedere razionale caratteristico del pensiero della tradizione occidentale. Per fare questo Derrida si rifà a Nietzsche, o almeno ad una certa interpretazione del pensiero nietzscheano, quella che vede nel filosofo tedesco colui che inaugura un nuovo modo
di pensare.
Si vedano ad esempio le pagine introduttive del lungo articolo sul pensiero di Emmanuel Levinas (J. Derrida, Violenza e metafisica, in J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi,
Einaudi, Torino 1990). Qui Derrida evidenzia quella differenza che intercorre tra l’interrogazione
“pre-metafisica” (o “oltre-metafisica”, dato che non si tratta di ritrovare un’origine perduta nel
tempo, magari ripercorrendo a ritroso le tappe essenziali della storia della filosofia per riafferrare
una verità nascosta nel sapere preplatonico o presocratico che sia) e l’interrogazione propriamente metafisica. Se questa è, per la sua vocazione a ricercare l’origine fondativa, interrogazione sulle
possibilità stesse dell’interrogazione, quella (l’interrogazione “pre-metafisica” o “oltre-metafisica”) corrisponde a tali possibilità. Solo che l’interrogazione metafisica, pur ricercando le ragioni della sua possibilità, non può trovarle che come già determinate dal suo stesso domandare. La
domanda metafisica (e quella ontologica in particolare) predetermina con il suo stesso domandare le sue possibili risposte, impone il modo attraverso il quale dare forma a tali risposte. La domanda ontologico-metafisica insomma non può non avere come risposta qualcosa che è, che è
presente. Ecco come Derrida esprime questo pensiero, parlando di come si svolgerebbe
l’interrogazione in una comunità dell’interrogazione (“pre-metafisica”): «Comunità
dell’interrogazione, dunque, in quella fragile istanza in cui l’interrogazione non è ancora abbastanza determinata perché l’ipocrisia di una risposta si sia già introdotta sotto la maschera
dell’interrogazione, perché la sua voce si sia già lasciata ingannevolmente articolare nella sintassi
stessa dell’interrogazione.» (J. Derrida, Violenza e metafisica, cit., p. 100). Ed ecco come il filosofo francese descrive la differenza tra l’interrogazione “pre-metafisica” e quella metafisica: «Ha allora inizio una battaglia che si colloca nella differenza tra l’interrogazione in generale e la “filosofia” come momento e modo determinati – finiti o mortali – della interrogazione stessa. Differenza
tra la filosofia come potere o avventura della interrogazionme stessa e la filosofia come avvenimento o svolta determinati nell’avventura» (J. Derrida, Violenza e metafisica, cit., p. 101).
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
1. Heidegger e Derrida interpreti di Nietzsche
In linea con le interpretazioni della “Nietzsche renaissance”, Derrida vede nel
nome di Nietzsche il segno di un evento irrimediabile per la storia del pensiero.
La sua opera avrebbe prodotto una crepa nell’edificio metafisico e, allo stesso
tempo, starebbe ancora oggi lì ad indicarne un’apertura che impone al pensiero
di pensare il suo impossibile. Nietzsche sarebbe il primo filosofo dell’estrema e
inconciliabile Alterità.
A tal proposito la distanza dall’interpretazione heideggeriana di Nietzsche è
evidente e profonda. Se Heidegger, infatti, ripensa la filosofia di Nietzsche in relazione alla storia della filosofia, arrivando a conclusioni che includono il pensiero della volontà di potenza in quella stessa storia (di cui tra l’altro sarebbe il culmine e la conclusione4), Derrida invece vede nella filosofia nietzscheana il tentativo di pensare secondo modalità che trasgrediscono le norme del pensiero
tradizionale, proponendosi così come alternativa al pensiero ontologicometafisico. La differenza tra le due interpretazioni corrisponde alla differenza tra
un’operazione normalizzatrice, che fa di Nietzsche un filosofo della tradizione,
tanto che risulta possibile rintracciare nel suo pensiero eredità e filiazioni, e
un’operazione che è ricerca del nuovo, un’operazione che rintraccia nei testi nietzscheani un’apertura verso tematiche che non possono essere affrontate attraverso gli strumenti della logica tradizionale. Se nell’interpretazione heideggeriana
si arriva a ridare coerenza e continuità ad un pensiero radicale e ambiguo come
quello di Nietzsche, in quella derridiana si assiste ad una frattura tra ciò che Nietzsche dice esplicitamente, e che può anche essere inserito nel profondo solco che
la storia della filosofia ha tracciato, seppur in una posizione di opposizione e di
sua critica radicale, e ciò che nei suoi testi rimane implicito ma che rappresenta il
vero nucleo di novità del pensiero di Nietzsche.
Tanto la ricerca genealogica, che per la prima volta mette in questione la natura retta del pensiero e la struttura irriflessa dei suoi presupposti, quanto la sentenza sulla morte di Dio e la missione, dichiarata a più riprese e quasi ossessivamente, di rovesciare il platonismo, entrambi aspetti di una ricerca che vede nella
verità, ideale e trascendente, una «specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere»5, sarebbero allora solo teorizzazioni esplicite formulate nel linguaggio della tradizione (peraltro non senza contraddizioni e ambiguità) la cui faccia nascosta ed implicita indicherebbe un nuovo
compito per il pensiero e un nuovo ambito del pensare. Ogni riflessione nietzscheana, ogni suo aforisma e ogni suo pensiero, pur parlando nel linguaggio
della tradizione, indicherebbero quindi, allo stesso tempo, seppur implicitamen 4
5
Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit. in M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 43.
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te, un luogo Altro, impensabile attraverso gli strumenti della metafisica, ma proprio per questo necessario alla comprensione filosofica di quel luogo (comune)
della presenza da cui tutti parliamo e nel quale tutti viviamo. È per questo che
ogni riflessione di Nietzsche, ogni suo aforisma, ogni suo pensiero, sarebbero, più
che delle teorizzazioni, dei dispositivi di senso in grado di mettere in comunicazione la filosofia e il suo Altro6. Attraverso questi dispositivi Nietzsche svolgerebbe la duplice operazione di attaccare esplicitamente la tradizione servendosi (del
linguaggio) della tradizione e, contemporaneamente, di indicare una possibilità
di senso Altra, un luogo Altro considerato impossibile (perché impensabile attraverso le modalità di pensiero tradizionali), ma necessario per spiegare (e fondare)
l’ente, quell’ente che la tradizione filosofica, soprattutto nella sua riflessione ontologica, vuole comprendere.
Nietzsche, pensando l’impensabile della tradizione, introdurrebbe nella storia
del pensiero quella modalità di pensiero (che prima di tutto nelle intenzioni di
Nietzsche è modalità di rottura e di stravolgimento) indispensabile per poter determinare pienamente che cos'è la ragione, che cos'è la tradizione metafisica che
di essa si serve, che cos'è infine il vivere in un luogo comune, riconosciuto e riconoscibile, che si regge su fondamenta logiche e ontologiche condivise7. Sembra
Derrida mostra tale modo peculiare di produrre senso dell’aforisma nietzscheano sempre in Politiche dell’amicizia dove viene analizzato il paragrafo 214 di Al di là del bene e del male intitolato
Le nostre virtù. Questo paragrafo, che si rivolge agli “Europei del dopodomani” chiamandoli con
il pronome personale “noi”, nonostante parli delle virtù di tali europei in maniera ancora tradizionale (e specificatamente, come nota Derrida, rifacendosi al senso machiavelliano di virtù), si
conclude con una subordinata incompleta, che è anche un’esortazione, una speranza, un invito,
quasi una profezia: «– Ah, se sapeste quanto presto, quanto presto ormai tutto sta per cambiare –
e dài, dài!» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. in J. Derrida, Politiche dell’amicizia,
cit., p. 45); subordinata che Derrida definisce teleiopoetica in una duplice accezione del termine
composto: Teleiopoiós come quel che fa giungere al termine, che compie qualcosa; e tele, prefisso
greco che richiama la distanza, il lontano. Queste due accezioni (il compimento e la lontananza)
operano insieme per determinare, per quanto possibile, l’avvento di un evento che è lì lì per arrivare ma che è anche incalcolabile, imprevedibile, così come è allo stesso tempo già giunto per il
fatto stesso di essere nominato. Si assiste qui, in questa mescolanza di significati anche in conflitto tra loro, al tentativo di dire l’indicibile dell’evento (il quale, per essere tale, non può essere progettato attraverso il calcolare metafisico).
7 La domanda che chiede “che cos'è la ragione” non può che indagare il suo domandato per mezzo
del domandato stesso. Ciò significa che l’essenza della ragione è determinata ricorrendo alla ragione stessa. L’operazione nietzcheana invece consisterebbe nel tentare la determinazione di tale
essenza a partire dalla messa in rapporto della ragione con il suo Altro. Come fa notare Deleuze
tale messa in rapporto non è espressione di una ragione che ritornerebbe instancabilmente (questa volta nella sua forma dialettica) a manifestare il suo dominio nella determinazione
dell’essente. «Tutto dipende dal ruolo che il negativo viene ad assumere» (G. Deleuze, Nietzsche e
la filosofia, tr. it. di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002, p. 13): non più un negativo normalizzato,
sottomesso o ad un genere superiore capace di accomunare positivo e negativo (ragione “tradizionale” e modo “comune” di pensare la differenza) oppure al rapporto (razionale) tra esso e il suo
opposto (ragione dialettica); ma un negativo capace di affermare la sua propria singolarità prima
ed oltre la determinazione che si imporrebbe per mezzo del rapporto dialettico. L’affermazione
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dunque che la domanda ontologica, che chiede che cos'è l’ente (l’essentepresente), per poter essere sviluppata nella sua pienezza non possa prescindere
dal pensare il rapporto che intercorre tra se stessa, in quanto massima manifestazione del pensare metafisico, ed il suo Altro, ciò che mai potrà essere ricondotto a quella presenza intesa come dimensione di arrivo ma anche di partenza dello
stesso domandare ontologico-metafisico.
2. Derrida e la “critica della presenza”
Derrida vede dunque in Nietzsche il precursore di un pensiero che chiede, sospettando della stessa domanda, che cos'è la razionalità senza ricorrere agli
strumenti della razionalità stessa, indicando con ciò un modo Altro attraverso cui
il mondo può essere interpretato.
La dimensione che la razionalità apre e dalla quale sorge è la presenza.
Non estranea nemmeno alle riflessioni nietzscheane, la questione della presenza può essere vista come quel filo rosso che percorre tutta la produzione derridiana, donandole coerenza e radicalità. Ma interrogarsi sulla presenza significa
mettere inevitabilmente sotto critica gli stessi strumenti razionali con cui la metafisica ha costruito la sua storia e, allo stesso tempo e proprio per questo, proporre un’alternativa d'indagine, con propri strumenti, proprie domande, propri
modi di procedere.
Situandosi all’interno dell’edificio metafisico e della sua trama concettuale, Derrida prende a tema “concetti” che destrutturano l’intera costruzione; anzi, che
producono insicurezza sul modo stesso di costruire. Questi “concetti” presi a tema (il cui elenco, pur mostrando inizialmente una sorta di parentela tra i suoi
elementi, sembra proseguire in maniera indefinita, tanto da coinvolgere anche
concetti che apparentemente sembrano pacifici e certi, concetti su cui la metafisica sembra non aver più nulla da dire e che invece, proprio perché messi a confronto con gli altri “concetti”, risultano non più così ovvi) sono l’espediente che
Derrida usa per mostrare i limiti del pensiero razionale occidentale. Tematiche
quali l’altro, l’evento, l’invenzione, l’esemplarità, la testimonianza, il nome proprio, la metafora, il rappresentare e la rappresentazione, la lettera, il singolare, il
del “negativo” (che è tale solo nel rapporto dialettico) diviene allora manifestazione dell’intento
nietzscheano di trasvalutare tutti i valori, di dare cioè voce ad una differenza Altra rispetto a quella dell’opposizione e della contraddizione. È qui che entra in gioco la decostruzione derridiana del
pensiero di Nietzsche: Derrida, più di Deleuze che vede in Nietzsche soltanto il profeta della “differenza prima dell’identità”, e più di Heidegger che invece determina la filosofia della volontà di
potenza come il compimento della “metafisica della soggettività” i cui primi segnali vanno rintracciati nel Cogito cartesiano, combina i due aspetti, utilizza cioè il testo nietzscheano per mostrarne appartenenza e alterità rispetto alla tradizione. Egli (Derrida) si serve di Nietzsche per
porsi sulla soglia del dominio metafisico al fine di rimarcare i suoi stessi limiti da ambo i lati:
quello del “luogo comune metafisico” e quello di un Altrove “anti-metafisico”.
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simulacro, ma anche il dono, il debito, la responsabilità, la morte, la giustizia,
l’eredità, ecc., hanno il preciso scopo di mostrare come l’indagare proprio del
pensiero razionale, trovandosi di fronte questi “concetti”, non possa far altro che
normalizzarli, impedendo loro di manifestarsi per quello che sono essenzialmente (se di essenza in questi casi si può parlare). Questa normalizzazione operata
dall’indagine razionale dunque, allo stesso, tempo fa emergere i limiti
dell’indagine stessa, ciò che essa non può in nessun modo pensare.
Da ciò risulta che l’impensabile della razionalità svolge una funzione indispensabile per la fondazione della razionalità stessa. Infatti, sia che l’insistenza del
“concetto” derridiano all’interno dell’edificio metafisico denoti un’imperfezione
della modalità razionale tradizionale che va migliorata, sia che “esso” segnali il
confine da non travalicare che divide il vero razionale dal falso del sogno e della
follia, il suo carattere di impensabilità fa risaltare i limiti del sistema che lo pensa, mettendo così in comunicazione il sistema metafisico stesso con il suo Altro.
Nell’analizzare questi “concetti” Derrida si trova quindi di fronte ad una scelta:
o utilizzare il linguaggio della tradizione, con la conseguenza di trasformare inevitabilmente l’analizzato, impedendo così di manifestarsi per quello che “è”; oppure rompere con la tradizione attraverso l’uso di una modalità di pensiero che
forse non può produrre più alcun sapere. Derrida risolve il dilemma proponendo
una modalità d'indagine, la quale inevitabilmente è anche una modalità di uso
del linguaggio, che consiste nell’abitare il sistema di pensiero tradizionale decostruendone allo stesso tempo i suoi modi di operare. Ecco come sintetizza Derrida il suo modo di procedere:
«Questa [la “strategia generale della decostruzione”] dovrebbe evitare di neutralizzare
semplicemente le opposizioni binarie della metafisica e insieme di rimanere semplicemente, confermandolo, entro il campo chiuso di quelle opposizioni. Bisogna dunque
compiere un doppio gesto, secondo un’unità sistematica e al contempo distanziata da sé,
una scrittura sdoppiata, e cioè automoltiplicata: è quanto in “La double séance” ho
chiamato doppia scienza»8.
Decostruire cioè significa: porsi nel sistema ontologico-metafisico rimarcandone i dualismi e le antinomie che caratterizzano il suo modo di dare forma
all’essere; svelare genealogicamente l’uso che la tradizione fa di questi dualismi,
mostrando come sia irriflessa e ingiustificata la preminenza di un polo antinomico sull’altro, eventualmente rovesciando il loro rapporto gerarchico; a tale fase di
rovesciamento (che, come dice esplicitamente Derrida, implica una continua e interminabile analisi in quanto la gerarchia tra gli opposti si ricostituisce sempre da
capo, almeno finché si è nel sistema di pensiero della metafisica), si aggiunge
8
J. Derrida, Posizioni, tr. it. a cura di G. Sertoli, Bertani Editore, Verona 1975.
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contemporaneamente l’operazione di una scrittura doppia che, oltre a invertire la
gerarchia, marchi l’emergenza di un “concetto” nuovo e ribelle alle classificazioni
metafisiche, capace anzi di evidenziarne i limiti; di quel “concetto” che risulta
cioè impossibile da spiegare finché ci si situa all’interno della dimensione della
presenza.
Da ciò trova giustificazione anche lo stesso linguaggio che Derrida usa; un linguaggio ambiguo, innaturale, volutamente e necessariamente complicato; un linguaggio fatto di elementi indecidibili e destrutturanti l’intera composizione testuale; un linguaggio che procede in maniera obliqua non trattando mai direttamente il proprio oggetto d’indagine. Stile linguistico e contenuto concettuale si
formano e si determinano reciprocamente al fine di far intuire quel luogo Altro,
quella dimensione dell’Altrove irriducibilmente diversa dalla dimensione della
presenza ma che tuttavia risulta essere necessaria alla fondazione di quest’ultima.
Come per tutti i grandi filosofi, il merito di Derrida sta dunque anche nell’aver
inventato un linguaggio capace di adeguarsi al suo contenuto. Tuttavia il suo resta un linguaggio che parla nella e della tradizione. I dualismi ontologicometafisici non sono affatto superati, anzi risultano essere la materia più feconda
con cui egli dà forma alle sue riflessioni. Il linguaggio derridiano non riesce del
tutto cioè a descrivere quel luogo Altro che pure, attraverso le sue analisi, vuole
far intuire.
Nietzsche invece, stando all’interpretazione derridiana, riesce a sfondare il
muro metafisico della presenza per mezzo di un peculiare uso del linguaggio. E ci
riesce servendosi di un’unica parola: “forse”.
3. Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Politiche dell’amicizia si apre con l’analisi della celebre apostrofe aristotelica
sul tema dell’amicizia («O miei amici, non c’è nessun amico»9). Pur nella sua
contraddizione performativa, cioè nel fatto che risulta contraddittorio rivolgersi
agli amici per dir loro che di amici non ce ne sono, questa apostrofe è fatta propria dalla tradizione filosofica che se ne serve, citandola come caso esemplare
ogni qual volta che c’è da mostrare la totale supremazia gerarchica del sapere
sull’oggetto saputo. Se l’amicizia infatti è un modo dell’amare, e se si vuole determinare cos'è l’amare stesso, la philìa, soltanto chi ama (e quindi contemporaneamente sa di amare) può a buon diritto tentare la comprensione dell’amare; bisogna cioè che qualcuno ami per sapere cosa significa amare. Questa supremazia
del soggetto attivo, che sa cosa fa mentre lo fa, sull’oggetto passivo è uno dei pilastri su cui si basa l’intera conoscenza razionale-occidentale:
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J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 4.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
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«Questa differenza irriducibile […] giustifica la gerarchia intrinseca: conoscere non
significherà mai, per un essere finito, essere conosciuto; né amare essere amato. La
struttura dell’uno deve restare quella che è, eterogenea a quella dell’altro, e la prima,
quella dell’amore per l’amante, dice insomma Aristotele, sarà sempre preferibile
all’essere amato, come l’agire al patire, l’atto alla potenza, l’essenza all’accidente, il sapere al non sapere»10.
Nietzsche interrompe la lunga filiazione della citazione aristotelica, apparentemente ribaltandola, ma in realtà proponendo un’alternativa al procedere metafisico e alle gerarchie che esso stabilisce.
Ecco cosa dice Nietzsche in Umano troppo umano, l’opera che, come ci indica
Derrida, forse più di ogni altra tenta di ripiegare l’eccesso dell’al di là
nell’immanenza priva delle false illusioni della trascendenza: «E forse verrà per
ognuno anche un’ora più lieta in cui dirà: “Amici, non ci sono amici!” così gridò il
saggio morente; “Nemici, non ci sono nemici!” grido io, il folle vivente»11. Qui la
saggezza viene contrapposta alla follia; modo questo di far intendere che è l’Altro
della tradizione che parla, ciò che la razionalità mai potrà comprendere a pieno.
Tuttavia, come spesso accade in Nietzsche, per intendere l’affermazione nella
sua portata radicale e rivoluzionaria, bisogna vederla non come semplice ribaltamento delle gerarchie della tradizione che però continua a servirsi del linguaggio della tradizione, ma come dispositivo di senso che parla già un linguaggio altro, un linguaggio che apre verso una dimensione diversa dell’essere, che non sia
quella della presenza. È per questo che Derrida sottolinea il “forse” con cui
l’affermazione inizia. Questo “forse” parla di qualcosa che (forse) succederà,
dell’evento che porterà dal morente al vivente.
Il passaggio che porta dalle teorie del saggio morente all’affermazione del folle
vivente è quello che (forse) aprirà la venuta di un nuovo genere di filosofi. Derrida prova a darcene una descrizione:
«Questi filosofi di un genere nuovo accetteranno la contraddizione, l’opposizione e la
coesistenza di valori incompatibili. Non cercheranno né di dissimularla, né di dimenticarla, né di superarla. Ed è qui che la follia sta in agguato, ma è pure qui che la sua urgenza chiama davvero il pensiero. […] Che ci dice infatti Al di là del bene e del male? Che
bisogna essere folli agli occhi dei “metafisici di ogni tempo” a chiedersi come una cosa
potrebbe sorgere dal suo contrario, e se per esempio la verità potrebbe nascere
dall’errore, la volontà di verità dalla volontà di illusione, l’azione disinteressata
dall’egoismo ecc. Come addirittura porsi una simile questione senza diventare folle?»12.
Ivi, p. 21.
F. Nietzsche, Umano troppo umano, cit. in Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 42.
12 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 48-49.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
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Il processo nietzscheano alla metafisica è iniziato e dà voce all’Altro della tradizione razionale-occidentale, la follia. I filosofi dell’avvenire, portatori di una
nuova prospettiva d'interpretazione che apre ad una dimensione Altra dell’essere,
non possono che essere dichiarati folli dal pensiero metafisico. Il pensiero di questa nuova stirpe di filosofi dubita sull’esistenza delle antitesi su cui si regge il
pensiero tradizionale, vedendo in esse soltanto che pregiudizi. Il cosiddetto senso
comune, nato dalla decisione, anch'essa pregiudiziale, di una gerarchia tra i termini antitetici, nasconde per i nuovi filosofi un’astuzia dogmatica, quella che vede l’universalizzazione come la forma stessa della verità, che fa della verità un
qualcosa che deve essere universale, per tutti la stessa, una messa in comune che
fa ragionare, ma per irregimentare.
È ciò che ha di mira Nietzsche in Umano troppo umano: fare una “storia della
ragione” per mostrare a coloro che sapranno vedere (i filosofi dell’avvenire) che
essa (la ragione “universalizzante” e “intersoggettiva”) è tutt'altro che ovvia, evidente e pacifica; che ciò che essa apre e rende possibile (la dimensione della presenza) è frutto di operazioni irriflesse, violente e pregiudiziali e che l’esistenza di
tale dimensione rimane il massimo enigma, in realtà mai messo a tema dal pensiero (razionale) che la produce; che, infine, la ragione deve essere “riportata alla
ragione”, deve divenire cioè ciò che avrebbe dovuto essere.
Riportare la ragione “alla ragione” è operazione fattibile solo se si inizia a percorrere quel modo alternativo di pensiero che Derrida rintraccia nelle riflessioni
nietzscheane e che chiama “pensiero del forse”, quel pensiero cioè che i filosofi
dell’avvenire dovranno imparare a seguire.
Dice infatti Nietzsche: «Forse! – Ma chi vorrà preoccuparsi di siffatti pericolosi “forse”! Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali
che abbiano gusti e inclinazioni diverse e opposte rispetto a quelle fino a oggi esistite – filosofi del pericoloso “forse” in ogni senso. – E per dirla con tutta serietà:
io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi»13.
È in questo veder-arrivare che si apre quel modo alternativo di pensiero che è
il “pensiero del forse” e che si lega indissolubilmente al tema dell’evento, di uno
di quei “concetti” cioè che la metafisica non può pensare perché non sa farlo.
«E siccome questo pensiero a venire non è una filosofia, quantomeno una filosofia
speculativa, teorica o metafisica, non un’ontologia né una teologia, né una rappresentazione né una coscienza filosofica, si tratterebbe di un’altra esperienza del forse: del pensiero come un’altra esperienza del forse. Un’altra maniera, quindi, di rivolgere, di rivolgersi al possibile. Tale possibile non apparterrebbe più allo spazio del possibile, alla pos-
13
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. in Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 49.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
sibilità del possibile il cui concetto avrebbe assicurato la sua costanza, attraverso così
tante mutazioni, da Aristotele a Hegel e a Bergson»14.
Di quale possibile parla Derrida?
Per rispondere bisogna affrontare il “concetto” di evento e vedere in che modo
esso è legato al “pensiero del forse”.
4. Il forse e l’evento
Che cos'è un evento? Con questa domanda Derrida tenta la filosofia tentando
di interrogare l’impossibile della filosofia (e con essa di tutto il sapere occidentale). In questa domanda, più che volontà di sapere, più che volontà di avere per sé,
possedere, normalizzare, risolvere al fine di riutilizzare il proprio domandato, c’è
intenzione, anche ironica, di ritorcere la domanda su se stessa, di ritorcerla contro colui che domanda. C’è qui molta consapevolezza del luogo (comune) del domandare, tanto che l’interrogazione che vuole sapere l’essenza dell’evento diviene
l’occasione per riflettere sui limiti e sulle possibilità del domandare (ontologicometafisico) stesso. L’evento, in quanto domandato, sarebbe allora l’espediente
per mostrare i limiti di un sistema di pensiero che crede di poter assimilare qualunque cosa gli si può porre davanti inserendola pacificamente in una qualche categoria preesistente fissata dai pochi principi logici su cui il sistema tutto si regge.
Non siamo ancora alla determinazione di una “logica” alternativa (se così si potrebbe ancora chiamare), ma nell’operazione derridiana già si intravede il tentativo di indicare l’apertura nel sistema logico e ontologico tradizionale.
Tra tutti i “concetti” presi a tema nelle sue ricerche, infatti, l’evento esemplifica
più di ogni altro qual è il modo di procedere di Derrida: l’evento, “concetto” eminente e impossibile, svolgerebbe la duplice funzione di indicare l’essenza
dell’interpretazione razionale per mezzo della sua capacità di rimarcarne i limiti15. Presenza e calcolo sono i termini che caratterizzano questa essenza, la prima
come sua (unica) dimensione d'essere e d'agire, il secondo come mezzo che apre
ogni prospettiva e ogni progettazione. Per questo presenza e calcolo non determinano soltanto il tempo presente dell’esperienza, l’esser-presente della coscienza e delle sue esperienze, ma costituiscono, se così si può dire, il filtro del sistema
che allo stesso tempo fa vedere e dà forma sia al passato, ripresentandolo, sia al
futuro, anticipandolo.
L’evento, per essere tale, non può appartenere a questo regime d'interpretazione, non può cioè essere possibile al modo del progetto e del calcolo anticipatorio. «Poiché – dice Derrida – un possibile che fosse solo possibile (non impossi 14
15
J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 84-85.
Questo almeno è il senso della decostruzione soggiacente al presente lavoro.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
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bile), un possibile sicuramente e certamente possibile, anticipatamente accessibile, sarebbe un cattivo possibile, un possibile senza avvenire, un possibile già scartato, per dir così, sicuro della sua vita. Sarebbe un programma e una causalità,
uno sviluppo, uno svolgimento senza evento»16. L’evento, invece, sarebbe ciò che
non può essere sicuro, certo, programmabile. Sarebbe quindi l’instabile e
l’impensabile di un sistema di pensiero che affonda le sue fondamenta nella dimensione della presenza, anche quando ricorda, anche quando progetta. Continua perciò Derrida: «Sia pure nella sua forma ultima e minimale, l’instabilità
dell’inaffidabile consiste sempre nel non consistere, nel sottrarsi alla consistenza
e alla costanza, alla presenza, alla permanenza o alla sostanza, all’essenza o
all’esistenza, come ad ogni concetto di verità che sarebbe loro associato»17.
Ecco dunque: l’evento non può essere ricondotto alle categorie di cui la tradizione si serve per spiegare il mondo. Esso rappresenta semmai quel quasiconcetto che, se pensato per quello che “è”, mostra al sistema metafisico i limiti
del suo sguardo, in un’operazione che produce instabilità ed incertezza nel sistema. La pura possibilità che l’evento indica, la possibilità non prevista e non prevedibile, irrazionale, indecidibile, terrificante perché incalcolabile, sarebbe necessaria per fondare il calcolare metafisico stesso, ovvero il dominio della razionalità
umana sull’ente.
Che cosa sia questa inconsistenza che non potrà mai essere-presente, che si
sottrarrà sempre ad ogni categoria di verità, non può essere chiesto direttamente,
specie attraverso il domandare ontologico-metafisico. È a tal proposito che Derrida riprende Nietzsche, individuando il lui quella modalità di pensiero, in grado
di gettar luce conoscitiva anche laddove la metafisica non può arrivare, che chiama, appunto, “pensiero del forse”.
Se l’evento rappresenta quell’impensabile della tradizione che però va pensato,
l’elemento necessario (anche se estraneo) di ogni indagine che vuole essere filosofica e che, per essere tale, deve saper pensare anche se stessa, il suo dominio e i
suoi limiti, il “forse” è il mezzo per riuscire nell’impresa impossibile, il modo d'essere grazie al quale ci si può abbandonare all’imprevedibile della pura possibilità.
È ovvia a questo punto l’Alterità tra i due modi di pensiero. Non si passa cioè dal
modo razionale al “modo del forse” senza produrre cambiamenti catastrofici
nell’interpretazione che si dà del mondo.
Al futuro progettato, programmato, anticipato, si contrappone, diverso e irriducibile, la figura dell’evento, di quell’arrivante cioè la cui venuta non può essere
mai certa, che “forse” mai potrà davvero venire all’esistenza, ma che, allo stesso
tempo, insiste nei pressi dei territori conquistati della presenza, condizionandoli.
16
17
J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 42-43.
Ivi, p. 43.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
Derrida ci descrive così quale “sapere” circa l’essere si produce per mezzo del
pensiero del forse:
«Esiteremmo, tuttavia, sul bordo di una finzione. Il mondo sarebbe come sospeso a
una sorta di ipotesi elementare e senza confini, una condizionalità generale che vincerebbe su ogni certezza. Lo spazio e il tempo virtuali del “forse” starebbero per aspirare la
forza dei nostri desideri, la carne dei nostri eventi, ciò che c’è di più vivo nella nostra vita. No, non starebbero neanche per farlo, poiché la presenza stessa di un tale processo
sarebbe rassicurante e ancora troppo effettiva; no, starebbero lì lì per giungervi, e questa
imminenza basterebbe alla loro vittoria. Essa basterebbe, non a opporsi a questa forza e
a questa vita, né a contraddirle, neanche a nutrirle, ma, peggio ancora, a renderle possibili, rendendole con ciò solo virtualità, di una virtualità che non le abbandonerebbe mai,
neanche dopo la loro effettuazione; rendendole perciò ancora impossibili, come soltanto
possibili, fin nella loro presunta realtà. La modalità del possibile, l’insaziabile forse distruggerebbe tutto, implacabilmente, con una sorta di auto-immunità da cui non sarebbe
esente nessuna regione dell’essere, della physis o della storia»18.
L’esperienza del forse, della virtualità del quasi-presente, dell’imminente condizionalità, non fa preferenze. La dimensione privilegiata della presenza, su cui si
fonda l’edificio metafisico, risulta essere una tra le tante. Meglio: essa perderebbe
la sua determinazione, la sua marca distintiva, la “sua” verità. Essa diverrebbe
virtuale proprio come ogni altra dimensione e, proprio per questo, risulterebbe
indistinguibile per una qualche istanza analitica (se ancora potesse esistere) che
volesse discernere il “vero” dal “falso”.
Fare propria questa modalità di pensiero significa sgretolare ogni determinazione chiara e distinta e, di conseguenza, perdere la possibilità di fissare qualsivoglia certezza.
D'un solo colpo l’edificio metafisico è distrutto. Con esso perde efficacia conoscitiva lo stesso Ego soggettivo, fondamento di ogni sapere, il quale diviene ingranaggio di sistema, elemento di giuntura prodotto da delle virtualità (siano esse di matrice storico-sociale, economica, inconscia) allo scopo di legare altre virtualità e dare così ulteriore sviluppo a quel grande meccanismo che è l’essere.
Essendo l’essere costituito di sole virtualità, la domanda ontologica perde il
suo potere. Non si può più cioè determinare qualcosa come un’essenza, essendo
quest'ultima possibile soltanto se vi è una dimensione conoscitiva privilegiata
(quella della presenza) che apre un campo di verità universali.
Inoltre, non essendoci più dimensione privilegiata, tutto diviene immanente,
di un’immanenza priva di scopo, meccanismo fatto di virtualità che eternamente
18
Ivi, pp. 93-94.
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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse”
Andrea Sacconi
ritorna, dove l’uomo non occupa più il posto centrale ma risulta essere ingranaggio tra altri ingranaggi19.
In questa immanenza e in questa virtualità totali nessun sapere può più essere,
sia esso di stampo teoretico o pratico. O meglio: la determinazione (parziale, illusoria) di un qualche sapere non avrebbe più a che fare con la verità, ma sarebbe
solamente produzione di significati da collegare ad altri significati all’unico scopo
di far funzionare il sistema.
A questo proposito l’orizzonte aperto dal “pensiero del forse” non è distante da ciò che mostrano le teorizzazioni di Deleuze e Guattari sulle molteplicità esposte prima ne L’anti-Edipo (G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002) e poi in Mille piani.
(G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, tr. it. di G. Passerone, Cooper&Castelvecchi, Roma 2003).
19
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
La trascendenza, la fede filosofica e la cifra
“Dio”. Alcuni aspetti della metafisica di Karl
Jaspers
Danijel Tolvajčić
(Tr. it. a cura di Pavao Žitko)
Transcendence, Philosophical Faith and Cypher “God”. Some Aspects of Karl
Jasper’s Metaphysics
Abstract
In this paper, its author, Danijel Tolvajčić, professor of Philosophical Anthropology, Ethics and
Philosophy of Religion at the Catholic-Theological Faculty of the University of Zagreb (Croatia),
examines the particular characteristics of Karl Jaspers' metaphysics. For the philosophy of existence, the metaphysics is intended as a research method of transcendence, through the existence
considered as a gift. The main topic of Jaspers' metaphysics and of this paper is the theoretical
meaning of the Chiffer “God” and this leads to the analysis that Tolvajčić makes of the relationship between philosophical faith and religion. The particular attention in this paper Tolvajčić dedicates to the mode in which should be intended the metaphysics in Jaspers, determined by the
speculative context of his philosophical thought.
Keywords: Metaphysics, Transcendence, Jaspers, Existence, Method, Faith, Religion.
Nota del traduttore
Il presente contributo è stato originariamente scritto in lingua croata e pubblicato per conto
della Società croata “Karl Jaspers” in quanto parte integrante del volume collettaneo Filozofija
egzistencije Karla Jaspersa, a cura di Boško Pešić e Danijel Tolvajčić, Zagabria 2013, pp. 103130.
L’autorizzazione per la pubblicazione della presente traduzione è stata rilasciata dalla Società e dall’autore dell’articolo, D. Tolvajčić, docente di Antropologia filosofica, Etica e Filosofia
della religione presso la Facoltà Cattolico-teologica dell’Università degli Studi di Zagabria,
Croazia.
L’importanza dell’argomento affrontato in questo scritto riguarda innanzitutto l’attualità
della portata speculativa del pensiero jaspersiano e la sua essenziale metafisicità. L’Autore rintraccia in Kant il punto di partenza del filosofare jaspersiano e afferma l’impossibilità di una
metafisica del sapere, ma evidenzia la possibilità di una metafisica esistenziale del credo.
L’articolo contiene una significativa analisi teoretica dei testi dell’ultimo Jaspers con la quale
Tolvajčić legittima e giustifica le posizioni sostenute in questo scritto, volte a sottolineare il carattere metafisico dell’autentico pensiero filosofico e le possibilità di un suo esplicarsi, assieme
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
ai limiti che il pensiero incontra nella riflessione su ciò che, jaspersianamente, non rientra
nell’ambito della γν σις, ma che comunque la fonda, standone fuori.
L’Autore affronta, infine, le ragioni che rendono impossibile un sistema filosofico in Jaspers
a partire dai postulati teoretici dell’Existenzphilosophie e mette in evidenza anche le cause del
difficile rapporto che Jaspers ha avuto, da una parte, con la teologia e dall’altra, invece, con il
rifiuto del pensiero su Dio, radicato nelle posizioni speculative di matrice atea.
La traduzione è stata eseguita integralmente sul testo pubblicato in lingua croata, assieme
alle citazioni in essa contenute. Le convergenze e le similitudini con le traduzioni italiane dei testi di Jaspers, originariamente scritti in lingua tedesca, sono comunque possibili, ma non necessarie.
1. Introduzione
La filosofia contemporanea sembra essere allergica alla metafisica; una delle
sue caratteristiche fondamentali è proprio la sua non-metafisicità. È, quindi, giustificato il discorso dei molti studiosi della filosofia contemporanea sul carattere
postmetafisico della filosofia odierna. Anche Jürgen Habermas nella sua omonima opera – Il pensiero postmetafisico1 – riporta una simile diagnosi: la filosofia
contemporanea considera la problematica metafisica – insensata. La filosofia ha
– afferma Habermas – abbandonando la metafisica, abbandonato il profondo
bisogno umano della ricerca del senso della vita. Chi è chiamato, però, se non la
filosofia, a rispondere a tali domande? Con il suo non volersi occupare di questi
argomenti, pensa Habermas, la filosofia si priva di un suo campo significativo,
perdendo, così, il proprio ruolo nella vita umana. Rimangono, perciò, “soltanto”
la religione e l’arte con le proprie visioni della metafisica.
La metafisica evidentemente non risulta più interessante alla filosofia contemporanea; ma possiamo dire che, con ciò, il pensiero metafisico sia davvero scomparso dalla vita dell’uomo? Possiamo seppellirlo in maniera definitiva?
In quanto opposizione ad un tale modo di pensare emerge Karl Jaspers con la
propria filosofia di cui una parte significante rappresenta ciò che potremmo
chiamare – la problematica metafisica. Anche se non è l’unico metafisico del suo
Per illustrare la tesi di Habermas vedere: J. Habermas, Postmetafizičko mišljenje. Filozofski
članci, Beograd 2002, pg. 63-64: «Dopo la metafisica, la teoria filosofica ha perduto il suo statuto
extra-quotidiano. I contenuti esplosivi dell’esperienza di ciò che supera la quotidianità si sono
trasferiti nell’arte diventata autonoma. […] La religione, privata dalle funzionalità della creazione
delle immagini del mondo, osservata dall’esterno, rimane, come prima, insostituibile per un rapporto normalizzante con ciò che si trova al di fuori del dominio del quotidiano. A causa di ciò, anche il pensiero postmetafisico coesiste con la prassi religiosa. […] Finché il linguaggio religioso
porta con sé il contenuto semantico ispirativo, al quale non possiamo rinunciare e il quale (per
ora?) sfugge alle capacità espressive del linguaggio filosofico, aspettando ancora la sua traduzione
nei discorsi speculativi, la filosofia, nemmeno in quanto postmetafisica, potrà mai sostituire e respingere la religione».
1
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
tempo, egli non esita ad esprimersi sulla propria filosofia nel seguente modo: «La
filosofia dell’esistenza è, in realtà, metafisica. Essa crede in ciò da cui proviene»2.
Jaspers evidentemente pensa che la metafisica non riguarda soltanto la storia del
pensiero. Però, come si articola in lui la metafisica e come le approccia? Queste
sono le questioni che si propone di analizzare il presente elaborato, in modo particolare con l’analisi dei tre concetti metafisici chiave: la “trascendenza”, la “fede
filosofica” e la “cifra Dio”.
La nostra tesi è che la filosofia di Jaspers rimane aperta alle questioni metafisiche, però senza seguire le vie della metafisica tradizionale e senza offrire una
concreta cognizione metafisica dal valore universale; la filosofia di Jaspers rimane ancorata alla persona e alla sua possibile autorealizzazione. Essa non può diventare un sistema compiuto di conoscenze, dal momento in cui «il pensiero metafisico non è possibile completare e non si può fissare in un unico vero»3.
Si tratta del pensiero che non rinuncia all’introspezione “obbligatoria ed obbligante” dei suoi contenuti e oggetti; esso è, in Jaspers, pensato come una fede filosofica in modo da evitare la sua fissazione in concetti. La fede filosofica non ha
alcuna “prova” delle proprie affermazioni e non vuole affatto provarle; essa crede
nei propri presupposti metafisici, sempre storici ed individuali.
2. L’esistenza come “dono” e trascendenza
Se tutti i modi dell’essere Omnicomprensivo sono fondati in uno solo – proclama Jaspers ne “La fede filosofica”, allora diventa evidente che la “trascendenza” è “l’essere vero”4. In direzione di una trascendenza così pensata è indirizzato
il pensiero dello Jaspers “maturo”; ancor di più, in un passaggio egli afferma:
«Non credo che si possa, almeno nella speculazione, essere ancorati alla trascendenza più di quanto io lo abbia fatto nei miei scritti»5. Ma che cos'è la trascendenza e da dove ci proviene la consapevolezza che di essa abbiamo?
L’uomo, secondo Jaspers, non si può comprendere soltanto da se stesso; in
quanto esistenza possibile egli arriva alla fondamentale consapevolezza di non
essere stato, da se stesso, creato:
K. Jaspers, Philosophie: I Philosophische Weltorientierung, II Existenzerhellung, III Metaphysik. (in avanti Philosophie, alcuni volumi si riportano in ordine – Philosophische Weltorinetierung come I, Existenzerhellung come II, Metaphysik come III), Berlin-Heidelberg-New York (4°
edizione invariata) 1973, I, p. 27: «Existenzphilosophie ist im Wesen Metapysik. Sie glaubt,
woraus sie entspringt».
3 Ivi, p. 35.
4 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube, München 1963, p. 31.
5 K. Jaspers/R. Bultmann, Pitanje demitologiziranja, Zagreb 2004, p. 87.
2
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Danijel Tolvajčić
«Laddove io sono veramente me stesso, so di essere stato, a me stesso, donato. Laddove io sono veramente me stesso, so che non lo sono per me stesso.”6 “Non ci siamo
creati da soli. Ognuno può pensare, per se stesso, che sia esistita la possibilità che gli non
ci fosse. Questo ci accomuna agli animali. Noi ci troviamo, però, liberi; la condizione per
la quale non obbediamo alle leggi naturali in modo automatico, ma ci troviamo ad essere,
non per noi stessi, ma per la nostra libertà, donati a noi stessi. […] Al culmine della libertà, quando il nostro parere ci sembra necessario, non per mezzo di una costrizione esterna di un accadere inevitabile secondo le leggi naturali, bensì per un concordare interno
che altrimenti non si vuole, nella nostra libertà noi diventiamo consapevoli di essere ciò
che la trascendenza ci ha dato»7.
Anche se l’esistenza è “la fonte dalla quale io penso e agisco”, si mostra comunque che essa non è l’essere in sé; non è sufficiente a se stessa, ma è indirizzata all’Assolutamente Altro – vale a dire, alla trascendenza che è la sua fonte.8
Sull’“essere dono” dell’esistenza dalla trascendenza nella libertà – afferma Jaspers - “si discute in quasi tutti i miei scritti”9. Anzi, la consapevolezza della “libertà come dono” è «l’elemento inevitabile della verità nella chiarificazione filosofica dell’esistenza; l’elemento che senza San Paolo, Sant'Agostino e Lutero forse
non sarebbe entrato in modo così chiaro nella nostra coscienza»10.
La Trascendenza è, in realtà, «il potere grazie al quale io sono, in realtà, me
stesso»11. Si può, dunque, dire che l’uomo è stato «creato all’immagine della trascendenza»12 . Ciò significa che, in fin dei conti, non è possibile identificare
l’esistenza con la sua trascendenza: «L’identificazione della trascendenza con
K. Jaspers, Von der Wahrheit. Philosophische Logik. Erster Band, München 1947, p. 110.
K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, München 1953, p. 63.
8 Paul Ricoeur parla di un “paradosso kierkegaardiano” (kierkegaardian paradox) dell’esistenza
pensata jaspersianamente: il pensiero che l’esistenza può essere, in quanto libertà, è il rialzamento originario di ciò che chiamo “me stesso”, però è anche un dono radicale della misericordia della
divinità nascosta”, Paul Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy to Religion, in Paul Arthur
Schlipp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers, pp. 611-642, qui p. 619. Anche Kurt Salamun
considera l’esperienza della “gratuità” in quanto essenziale per la corretta comprensione del concetto d'esistenza: «Nell’esistenzialismo di Jaspers emerge una questione di cruciale importanza:
In che modo risulta possibile la realizzazione di una personale autonomia ed esistenza? La risposta di Jaspers è che l’esistenza non può affatto essere pianificata o gestita perché è, infine, un dono dell’essere inoggettivante che lui chiama “trascendenza”. […] Nel processo del divenire
un’esistenza, il singolo sente che l’autorealizzazione esistenziale non è né il risultato di una pianificazione razionale né il prodotto dell’autogestione (self-managment): l’esistenza è esperita come
un dono dalla fonte trascendente» (K. Salamun, Karl Jaspers on Human Self-Realisation. Existenz in Boundary Situations and Communication, in K. Salamun - G. J. Walters (a cura di), Karl
Jaspers' Philosophy. Expositions and Interpretations, New York 2008, pp. 243-262, qui p. 247.
Cfr. Id., Karl Jaspers, München, pp. 39; 46-64.
9 K. Jaspers, Reply to my Critics, in P. A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers,
New York 1957, pp. 749-869, p. 780.
10 Ibidem.
11 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 79.
12 Ivi, p. 108.
6
7
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l’esistenza è impossibile, perché l’esistenza sa di stare di fronte alla divinità»13. La
trascendenza non soltanto non si esaurisce nell’esistenza, ma non è nemmeno la
totalità del mondo. Jaspers mette in evidenza l’ovvietà del fatto che il mondo –
precisamente come l’esistenza - «non è da se stesso, né tantomeno causa sui. […]
Detto usando il linguaggio del mito: il mondo è l’essere creato»14. L’«esistenza
possibile», «consapevole di non essere stata la propria causa», fa esperienza del
mondo come “creato”, “aperto” e «impossibile da comprendere soltanto da se
stesso»15. Ciò significa che, per via della trascendenza, io sono libero e indipendente in relazione alla totalità dell’essere del mondo; non sono riconducibile alla
mera sopravvivenza ed immanenza.
La Trascendenza appare soltanto nell’esistenza e soltanto nel momento in cui
il mondo non viene concepito come totalità di tutto l’esistente. Tuttavia, ciò non
induce al rifiuto del mondo; tutto ciò che c’è nel mondo e il mondo stesso diventano chiari, diventano «il linguaggio della trascendenza». Nel suo scritto La fede
filosofica, Jaspers definisce la trascendenza nel seguente modo:
«La Trascendenza è […] l’essere totalmente diverso da noi, sul quale noi non esercitiamo alcun
diritto, però sul quale siamo fondati e al quale ci rapportiamo. […] La Trascendenza è l’essere che
non è mai il mondo, ma che si manifesta tramite l’essere nel mondo. La Trascendenza è soltanto
quando il mondo non è esclusivamente per se stesso, quando non è fondato in se stesso, ma rimanda sia fuori che oltre se stesso. Se il mondo viene concepito come un tutto – la Trascendenza
scompare. Però, se la Trascendenza 'è', allora nell’essere del mondo soggiorna ciò che ad essa rinvia»16.
La Trascendenza è l’essere in sé, inoggettivato ed assoluto – «eterno, indistruttibile, invariabile, la fonte»17. Essa è il fondamento di tutto ciò che c’è; in quanto
tale, essa è «l’Omnicomprensivo di tutti gli omnicomprensivi»18. La Trascendenza non può essere raggiunta in alcun pensiero, rappresentazione, realtà empirica,
speculazione o qualsiasi altra forma finita. Essa è “al di là” di tutto il pensabile.
La regola fondamentale del pensiero volto alla Trascendenza e che Jaspers, as K. Jaspers, Philosophie III, p. 65. Secondo Richard Wisser «la vera trascendenza per Jaspers
[…] è ciò he indipendentemente dall’uomo “è”» ed è ciò «che media la consapevolezza umana sulla propria creazione ed è ciò con cui non viene propriamente abolita, ma lacerata la finitezza che
lo definisce» (R. Wisser, Karl Jaspers. Filozofija u obistinjenju, Zagreb 2000, p. 43.) La stessa
traccia segue anche Bernard O'Connor, secondo cui non è possibile pensare la trascendenza soltanto come una «dinamica all’interno della coscienza, ma come una realtà indipendente dalla coscienza, la quale funge da fondamento a questa stessa coscienza. La Trascendenza è allo stesso
tempo la fonte dell’esistenza e del mondo». (B. O'Connor, A Dialogue Between Philosophy and
Religion. The Perspective of Karl Jaspers, Landham 1988, p. 15).
14 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 90.
15 Cfr. ivi, p. 104.
16 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., pp. 18-19.
17 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München 1963, p. 385.
18 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 109.
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
sieme a Kant, riprende dalla Bibbia è: «Non ti farai idolo né immagine alcuna»19.
Tuttavia, queste “immagini”, “rappresentazioni” e “forme” possono, sempre se
non vengono concepite come realtà “fissate” e compiute della trascendenza, essere intese come un modo per “esperire” la trascendenza in quanto l’”essere vero”.
Accanto a ciò, secondo Jaspers, anche le denominazioni e i nomi della trascendenza «possono ammassarsi all’infinito»20. Nell’Occidente si sono, comunque,
stabilizzati alcuni “nomi autorevoli” i quali sono, presi isolatamente, non definiti,
ma secondo la tradizione, essi sono «infinitamente carichi di significato». Questi
nomi sono: “Essere” (Sein), “Realtà” (Wirklichkeit), “Divinità” (Gottheit) e “Dio”
(Gott). A ciascuno di questi “nomi autorevoli” Jaspers ha attribuito una funzione
propria; ciascuno di essi afferra la realtà della trascendenza sotto un aspetto diverso:
«Se la trascendenza viene pensata come l’Omnicomprensivo, la chiamiamo l’Essere. […] Se
con la trascendenza viviamo, essa è la Realtà vera. […] Se in una tale Realtà, ci parla qualcosa di
richiedente, governante, avvolgente, chiamiamo la trascendenza Divinità. Se, in quanto individui
ci troviamo ad essere personalmente colpiti e se, in quanto persona, incontriamo la trascendenza
come persona, la chiamiamo Dio»21.
Anche se possiamo legittimamente “nominare” la Trascendenza “Essere”,
“Realtà”, “Divinità” e “Dio”, nessuno di questi nomi fa della Trascendenza un oggetto né la comprende interamente. Nessun nome, da solo, è sufficiente, anche se
in grado di rappresentare la cifra decisiva per la quale all’uomo sia data la possibilità di diventare ciò che è. Essi indicano il modo in cui la trascendenza è stata
attivamente presente nella storia, permettendo così l’indipendenza dell’uomo
singolo dall’oppressione schiavizzante dell’immanenza. Questi nomi indicano
l’“esperienza” grazie alla quale risulta possibile “afferrare”22 la trascendenza. Essi
non sono niente di fisso, ma vanno concepiti come “cifre”.
Nel momento in cui uno di questi “nomi autorevoli” dovesse essere concepito
in senso assoluto, non accadrebbe altro che la fissazione e l’eliminazione della
trascendenza.
3. La metafisica come metodo di ricerca della trascendenza
Come pensare ciò che non è pensabile? Esistono davvero le vie filosofiche sulle
quali la trascendenza ci appare?
Per Jaspers la metafisica indaga e descrive le vie del pensiero volto alla trascendenza. Soltanto il pensiero metafisico, in grado di trascendere, permette
Es. 20, 4; Deut. 5, 8.
K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 111.
21 Ivi, p. 111.
22 Cfr. ibidem.
19
20
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l’avvicinamento alla suddetta realtà; la realtà altrimenti impensabile a causa della
sua irriducibilità alle categorie. Il pensiero metafisico ha la funzione annunciatoria, ovvero linguistica per la quale la realtà della trascendenza si rende comprensibile alla possibile esistenza nella sua storicità.
Come deve essere, allora, la metafisica? Nonostante l’irriducibilità della trascendenza a ciò che si dà come “oggetto”, il pensiero ha bisogno degli “oggetti”.
Jaspers introduce, perciò, la nozione di “oggetti metafisici”. Certo, non si tratta
affatto di oggetti nel senso empirico. Il pensiero, metafisico o non, senza oggetti
non si dà. Però, gli oggetti definiti come metafisici sono privi di univocità. Essi
sono plurisignificanti e ogni esistenza li legge e comprende in quanto “cifre”.
L’oggettività metafisica non è mai una realtà universalmente obbligante, bensì, se
partiamo da ciò che Jaspers chiama «la chiarificazione d'esistenza», la realtà empirica che ci circonda parla di un’”altra” realtà – quella della trascendenza. La
Trascendenza comincia a parlare tramite l’essere del mondo. La sola ragione, privata dalla sua testimonianza esistenziale, è condannata alla sterilità; quest'oggettività, dunque, risulta imprigionata nell’inconciliabile contraddittorietà. Però, al
pensiero metafisico, concepito nel senso jaspersiano, risulta possibile testimoniare che il finito sia fondato nell’infinito, di cui intuizione abbiamo dall’infinito porsi domande. Si tratta del filosofare metafisico che si svolge nel cerchio, nelle tautologie e nelle contraddizioni. Ogni oggetto metafisico viene abolito nella sua
contraddizione. Soltanto in questo modo esso può salvarsi dalla “pietrificazione”
e dalla perdita della trascendenza: perciò la trascendenza sta «al confine dei due
mondi che si rapportano a vicenda come l’essere e il non essere»; la visione empirica e generalizzante cede il posto alla visione esistenziale della trascendenza: si
cambia l’essenza dell’oggetto, il quale, nella visione esistenziale, non è a se stante,
bensì indica la trascendenza.
Il pensiero che tende, dunque, ad esprimere l’essere dell’inafferrabile trascendenza, ruota principalmente intorno alle tre sfere in cui si forma l’oggettività metafisica: la mitologia, la teologia e la filosofia23. Queste tre sfere sono, malgrado
la loro costante reciprocità, in lotta continua, perché la lotta è la necessità della
libertà autentica; l’assenza della lotta indurrebbe soltanto «al silenzio tombale
della non-libertà».
La metafisica jaspersiana accetta gli enunciati del mito e della teologia, ma non
nel modo in cui questi spesso vengono compresi nei loro ambiti, in quanto, dunque, una reale presenza della trascendenza, bensì in essi riconosce le cifre che si
sono storicamente stabilite, diventando assolute, e perciò universalmente obbliganti.
23
Cfr. K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 26.
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La metafisica filosofica è possibile soltanto come gioco (das Spiel). Essa non
ha una dimensione obbligante, dal momento in cui l’uomo, in quanto esistenza
singola e storica, legge autonomamente le cifre della trascendenza. Il suo aspetto
importante è la libertà del pensiero e il tono apolemico: Jaspers non va contro le
nozioni diversamente poste, ma cerca di comprenderle e leggere in esse la scrittura cifrata della trascendenza. Questo gioco metafisico è caratterizzato da tre
metodi con i quali l’esistenza filosofica cerca la trascendenza:
1. «Il trascendere formale» (Das formale Transzendieren) tende a superare le
categorie, partendo dal definito e definibile, e avviandosi verso l’indeterminato.
Si tratta di diversi tentativi filosofico-speculativi che nella storia hanno cercato di
afferrare l’Ultimo. Tutti i pensieri sulla trascendenza, che provengono dal trascendere formale, si rivelano o come tautologie o come contraddizioni interne.
Tutti gli enunciati sono il “non-sapere”. In quanto metodo razionale, esso non
riesce, perché la domanda filosofica sull’essere qui arriva alla sua fine e non alla
sua risposta ultima. La Trascendenza nel trascendere formale non è un pensiero
compiuto e riconducibile alle categorie determinate, bensì è un pensiero non riuscito nell’impensabile. Esso è necessariamente non-pensabile (risulta pensabile
soltanto come impensabile). Quindi, anche tutti gli enunciati storici sulla trascendenza (nella storia della filosofia spesso pensata tramite la cifra “Dio”), in
realtà, non sono un effettivo sapere, anche se vengono concepiti «quasi come un
pensiero matematico». Essi non hanno un carattere obbligante, ma «sono indirizzati all’esistenza nella sua storicità»24. Tutte le immagini, i simboli, le rappresentazioni e i pensieri oggettivanti in generale, raggiungono, se intesi come “sapere”, l’assoluto insuccesso. Quello che si mostra sono le contraddizioni che, in
effetti, non dicono nulla sull’inafferrabile. Tutto ciò che si può dire sulla trascendenza è riconducibile alla tautologia: è ciò che è. Però, l’insuccesso del pensiero
non è la sconfitta, ma il risveglio dell’esistenza. Il trascendere formale è esistenzialmente pieno, anche se infruttuoso e sterile nel contesto della conoscenza empirica. La sua forza esistenziale si manifesta soltanto nel trascendere l’oggettività,
perché il “rappresentabile”, assieme al “pensabile”, altro non è che un altro e
“particolare modo d'essere”. L’“impensabile” (undenkbar), anche se si svela, comunque non si rende raggiungibile da questo metodo. «Il naufragio nell’abisso»,
al quale è condannata la ragione nel suo pensare la trascendenza, parla
all’esistenza. Il trascendere formale, se concepito correttamente, previene la materializzazione, ovvero l’immanentizzazione della trascendenza e apre lo spazio
alle cifre.
24
K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 66.
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2. «I legami esistenziali con la trascendenza» (Existentielle Bezüge zur Trascendenz) è il metodo della metafisica con il quale si pensano i modi della coscienza esistenziale sulla trascendenza. Anche qui è presente la consapevolezza
dell’insuccesso di una conoscenza rigida della trascendenza; con questo metodo
non si può affatto pensare la trascendenza, ma soltanto i modi del suo apparire
all’essere dell’esistenza. Questo metodo ha più successo del “trascendere formale”, visto che, a differenza dell’assoluto insuccesso degli aspetti formali del trascendere nella speculazione filosofica, l’attenzione viene indirizzata ai, molto più
efficaci, modi del rapportarsi esistenziale a ciò in cui essa riconosce la propria
fonte. Emerge, dunque, la struttura antinomica dell’uomo in quanto esistenza
possibile e, da ciò deriva anche la plurisignificatività dell’apparire della trascendenza all’uomo.
Jaspers arriva, così, ad individuare le quattro relazioni esistenziali che si rapportano a vicenda, indicando la trascendenza e «non permettendo all’esistenza di
calmarsi nella sopravvivenza»25. Il rapporto esistenziale tra la sfida e la devozione (Trotz und Hingabe) è stato preso da Kierkegaard. Si tematizza la questione
della disperazione per arrivare a se stessi. La disperazione porta alla sfida. Nella
sua opera La malattia mortale Kierkegaard afferma: «Noi sfidiamo proprio perché il disperato vuole stare con se stesso»26. Il presupposto della sfida è l’apertura
alla trascendenza. In questo contesto si tematizza anche la questione della teodicea: essa è o la giustificazione della trascendenza o la sua negazione. La caduta e
l’ascesa (Abfall und Aufstieg) indicano la dinamicità dell’esistenza: essa o si eleva verso la trascendenza o sprofonda di fronte ad essa. La trascendenza si manifesta nelle tensioni tra la positività e la negatività; tra il passaggio al non-essere e
la salita verso il vero essere. Ne La legge del giorno e la passione per la notte
(Das Gesetz des Tages und die Leidenschaft zur Nacht) Jaspers descrive gli stati
psichici e gli istinti fondamentali dell’uomo, specialmente le sue potenzialità
creative, da una, e quelle distruttive dall’altra parte, notando in entrambe le possibilità di una presenza trascendente. “La legge del giorno” ordina la realizzazione
della nostra permanenza nel mondo sulla via dell’infinito. Il suo confine è la morte. Ai confini della legge del giorno appare il rifiuto – ovvero, “la passione per la
notte” che distrugge tutto ciò che è stato edificato nel tempo. Trascinando tutto
ciò che c’è e abbattendo l’ordine stabilito, essa precipita verso “l’abisso del nulla”.
In questo modo, anche lo stare sul confine della passione per la notte diventa «la
condizione dell’esperienza della trascendenza». Entrambi gli “stati” si trovano in
un rapporto dialettico. La sintesi di questi due mondi non è possibile, ogni esistenza si decide da sola nelle proprie crisi; questi mondi sono in una polarità irri 25
26
Ivi, p. 69.
S. Kierkegaard, Bolest na smrt, Beograd 1980, p. 52.
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solvibile, mentre il loro essere rimane nascosto. E infine, la ricchezza dei molti e
dell’Uno (Der Richtum des Vielen und das Eine) è il riferimento alla tradizione
filosofica in cui si rimanda all’Uno trascendente che appare in tutta la storia del
pensare metafisico. Jaspers si riferisce principalmente all’Uno della tradizione
neoplatonica. L’accento cade sul significato dell’Uno per la singola esistenza: esso
ha la sua fonte nell’esistenza che trascende l’unità del mondo e del pensiero logico, rendendo, così, possibile l’incontro dell’esistenza e dell’Uno nella concretezza
storica della propria vita.
3. La lettura della scrittura cifrata (Lesen der Chiffreschrift) è il metodo principale della chiarificazione filosofica della trascendenza. La teoria delle cifre rappresenta il contributo jaspersiano più originale al pensiero metafisico. Le cifre
sono «il pensiero filosofico originario» 27 e, in quanto tali, esse sono per
l’esistenza l’unico mezzo della presenza di ciò che, pur sempre, rimane trascendente. Esse possono essere tutto ciò che ci appare nella coscienza in generale e,
perciò, esse designano «i confini assoluti della coscienza umana»; al di fuori di
essi il pensiero non può andare. Essi sono gli “oggetti” presi da tutti gli aspetti
della realtà e indicano all’esistenza l’unico possibile “al di là” - si parli di filosofia,
religione, natura, cultura, arte – e dei quali, perciò, cambia il significato. Non sono più autonome, ma in esse la trascendenza diventa presente in modo specifico,
inoggettivabile. Il loro “ruolo” è la mediazione tra l’esistenza e la trascendenza.
«La lettura delle cifre» è un atto individuale, possibile soltanto tramite l’essere se
stesso dell’uomo. Che cos'è la cifra (e come qualcosa diventa una cifra),
l’esistenza deve indovinare da sola nella propria libertà. Anche se la trascendenza
risulta indipendente da essa, il suo “essere in sé” non risulta raggiungibile
all’esistenza se non in modo mediato, tramite la plurisignificatività delle cifre.
Nelle cifre l’esistenza “dimora”, si approfondisce in esse in un unica, irripetibile
osservazione storica. Il pensiero speculativo cerca di dimorare nella cifra e di incontrarsi con l’essere assoluto; in quanto tale, esso è “annunciabile”. Ma, questa
annunciabilità è specifica ed è paradossale; essa è, nella comprensione, il tocco
dell’incomprensibile. In questo “essere incomprensibile” trovo la fonte di ciò che
sono. Al di là della comprensione possibile o impossibile, appare l’essere sfuggente della trascendenza. Ma, che cosa sono le cifre? In che modo determinarle? Tutto ciò che c’è può essere visto come cifra28 a causa dell’effettiva impossibilità della loro determinazione. Tutto ciò che c’è può indurci, in quanto esistenze, a cercare la trascendenza; in questo modo, la trascendenza, in un certo senso, ci risulta
“presente”. La cifra è, perciò, sempre plurisignificante e mai del tutto dispiegata.
Le cifre hanno, dunque, un carattere indeterminato; sono la scrittura «impossibi 27
28
K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1038.
Cfr. K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 170.
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le da leggere in modo universale», la scrittura che parla al singolo nella sua interiorità mentre egli trascende. La metafisica è, perciò, il pensiero che trasforma il
vivere nella cifra.
Anche se la “lettura delle cifre”, detto comunque con riserva, risulta il metodo
principale della metafisica jaspersiana, non si deve mai pensare che, al posto della cifra, afferiamo la trascendenza in sé. Le cifre, da sole, non sono mai la trascendenza, ma soltanto la sua presenza. Esse sono, nel loro significato, molteplici
e, nella forma del mito, della rivelazione, delle speculazioni razionali e di tutte le
altre forme, indicano all’esistenza la trascendenza nascosta. Essa non è imprigionata in alcuna cifra. Nessun apparire dell’essere diventa la trascendenza. Quando
si cerca di afferrare la trascendenza, essa scompare. L’esito è sempre la sua “presenza infinita”.
Ciò significa anche che la vera essenza delle cifre è la loro plurisignificatività.
«È sempre possibile leggere la cifra in modo diverso. In essa non c’è mai alcuna
conclusione sulla trascendenza, che altrimenti sarebbe, per così dire, calcolata»29.
La “lettura delle cifre” è l’atto individuale che si svolge nell’“agire interiore” contemplativo. Il “luogo” della lettura della scrittura cifrata è soltanto l’esistenza singolare. L’esistenza si approfondisce nei simboli e in essi riconosce le traccie
dell’”essere assoluto”.
Il metodo di «lettura di tutto l’esistente in quanto cifra», precisamente come i
metodi precedentemente descritti, non arriva mai agli enunciati obbliganti sulla
trascendenza, ma si avvicina di più alla possibilità di afferrare la sua realtà sfuggente. La metafisica è possibile soltanto come chiarificazione della necessità di
una ricerca delle vie verso la trascendenza, ovvero in quanto ricerca e ritrovamento dei sempre nuovi metodi di trascendere. Da ciò anche il suo carattere costantemente tendente all’ulteriorità. Qualsiasi altro sarebbe falso. Non afferriamo
mai la trascendenza in sé, ma sempre e soltanto la sua cifra. Precisamente come
nei precedenti metodi metafisici, il pensiero deve sempre essere consapevole del
proprio insuccesso.
Anzi, l’insuccesso (Scheitern) è ciò con cui si compie il domandare filosofico: è
l’ultimo30 - molteplice e onnipresente. Con esso si compie anche «l’orientazione
filosofica nel mondo» – non esiste il mondo in quanto totalità, esso non riesce in
quanto esistenza e non si può comprendere da se stesso né in se stesso; con esso
finisce anche «la chiarificazione dell’esistenza» – l’essere-in-se dell’esistenza, in
quanto tale, non si verifica, naufraga e non si può reggere da solo. Né il mondo né
l’uomo risultano approcciabili come afferrabili oggetti.
29
30
Ivi, p. 149.
Cfr. ivi, pp. 220, 222.
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Ciò vale ancor di più per la trascendenza. Il pensiero finisce con il “non-poterpensare”, precisamente come nel “trascendere formale”. Questo pensiero non è
mai la razionalizzazione della trascendenza per via dei ragionamenti fondati su
ciò che chiamiamo “causa-effetto”, bensì il pensiero metafisico in grado di trascendere, consapevole dell’impossibilità di una risposta ultima. In questo modo
si viene a creare il filosofare metafisico in grado di concepire l’irriducibilità della
trascendenza alle categorie e la nullità di una siffatta gnosi. Il pensiero speculativo è la scrittura cifrata manifestatasi nel suo darsi. Il medium, invece, del linguaggio speculativo non è la conoscenza, ma la contemplazione: «L’immersione
contemplativa volta a toccare la trascendenza nella scrittura cifrata autocompresa, saggiamente presa e formata che pone questa stessa trascendenza, in quanto
oggettività metafisica, di fronte allo spirito»31. La conoscenza scientifica cede il
proprio posto alla contemplazione che proviene dalla fede filosofica, visto che si
tratta di una “testimonianza della trascendenza” non proveniente dalla conoscenza: «Il sapere sulla trascendenza esiste in quanto autoimmersione contemplativa nella scrittura cifrata labile e plurisignificante»32. Il pensiero speculativo,
qui presente, deve sempre essere consapevole del carattere fuggitivo del proprio
oggetto. La trascendenza, in quanto scopo della metafisica, non diventa mai immediatamente presente. Ogni pensiero naufraga sull’impensabile. Niente può
evitare l’insuccesso. E comunque, l’insuccesso non è un semplice fallimento o la
sterile decadenza. Secondo Jaspers, anche nell’insuccesso si può manifestare
l’essere. L’insuccesso diventa, in questo modo, un fertile insuccesso: anche se non
sappiamo nulla sulla trascendenza, osiamo vivere della sua realtà sempre sfuggente. L’insuccesso dimostra come il pensiero metafisico (se articolato come una
ricerca sterile e razionale delle vie che inducono alla trascendenza) di per sé,
dunque, non è sufficiente, ma è necessaria la “fede”; tuttavia, in Jaspers, la fede
non è, come dice lui, religiosa, bensì – filosofica.
4. L’idea della “fede filosofica”
Karl Jaspers di solito viene percepito come “il filosofo dell’esistenza”; ciò nonostante che dopo la Seconda guerra mondiale egli ha preferito chiamare la propria filosofia “la fede filosofica” (der philosophische Glaube). Si tratta di uno dei
concetti fondamentali della sua filosofia matura; è certamente il concetto al quale
Jaspers ha dedicato anche l’omonimo scritto programmatico33. Anche se ha for K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 135.
Ivi, p. 160.
33 Cfr. su ciò R. Wisser, Karl Jaspers. Filozofija u obistinjenju, cit., pp. 6-7: «Lo scritto programmatico di Jaspers nella nota pubblicazione dal titolo La fede filosofica […] non ha mostrato soltanto “il concetto della fede filosofica” – afferma Wisser – ma ha dato anche una panoramica di
ciò che egli chiama “i contenuti filosofici della fede”, l’enunciato: “Dio è” – Permane un appello
31
32
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mulato l’idea della “fede filosofica” soltanto nel dopoguerra, l’aveva difesa già dopo la pubblicazione della sua opera principale, portante il titolo Filosofia: «Dal
momento in cui è stata pubblicata la mia Filosofia (1931.), ho professato pubblicamente la fede filosofica come senso dell’insegnamento filosofico. Nello scritto
La fede filosofica /1947.) l’ho formulata in modo chiaro»34.
Di cosa si tratta? La fede filosofica parte dalla consapevolezza
dell’inaccessibilità della verità al “sapere”, ma esige lo sforzo della persona intera.
In accordo con ciò e secondo la nostra opinione, essa rappresenta la “conclusione” necessaria della metafisica delle cifre. La fede filosofica «non è il sapere su
ciò che possiedo, ma la certezza (Gewißheit) che mi guida»35.
Pensata in questo modo, la fede filosofica diventa l’atto dell’esistenza filosofica in cui essa – a causa dell’insuccesso di ogni enunciato finito e pensiero concluso – diventa consapevole della trascendenza 36 . Il suo contenuto è metaoggettivo; in quanto oggetto, esso stesso continuamente perisce: «Soggettivamente, la fede è il modo in cui l’anima si chiarisce nei confronti del suo essere,
della sua fonte e della sua meta. Oggettivamente, la fede si esprime come contenuto che, in quanto tale, rimane in se stesso incomprensibile, anzi, scompare
nuovamente in quanto soltanto oggettivo»37. Jaspers è del parere che nella fede
filosofica la filosofia non abbandona il proprio campo. Anche se notevolmente diversa dalla religione, anch'essa ha le sue “positività” grazie alle quali è possibile
progettare la propria esistenza e, in quanto tale, la fede filosofica può diventare il
fondamento, la “sostanza” della vita personale. Nell’intento di salvare il senso del
filosofare, essa non si può sottomettere alla “religione rivelata”, né tanto meno
abbandonarsi all’“ateismo”. Contrariamente all’ateismo, che porta all’adorazione
degli idoli e delle guide e, a differenza della “religione rivelata” che considera la
filosofia o come una scienza o come il pensiero senza dio, la fede filosofica «afferma la propria ricerca di Dio dalla propria fonte»38.
L’innalzamento è la caratteristica principale di questa fede: «Io non so se credere. Però, mi avvolge una tale fede che mi azzardo a vivere per essa»39. Questa
frase illustra in modo del tutto chiaro la sua intenzione. Non ci sono delle certezze fisse, non c’è un “sapere sicuro” di nessuno di questi contenuti, è necessario
azzardarsi a credere.
incondizionato. - Il mondo ha una vita temporanea tra Dio e l’esistenza». Sembra che Wisser si
riferisca anche agli altri due «contenuti filosofici della fede» ne L’introduzione alla filosofia,
l’«uomo è finito e infinito» e «l’uomo può vivere sotto la guida di Dio».
34 K. Jaspers, Filozofijska autobiografija, Novi Sad 1987, cit., p. 136.
35 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München 1963, p. 49.
36 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 22.
37 K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 279.
38 K. Jaspers, Vernunft und Existenz. Fünf Vorlesungen, München 1960, p. 140.
39 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, pp. 38-39.
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Con ciò, Jaspers non pensa affatto di aver introdotto qualcosa di nuovo nella
filosofia. Si tratta, infatti, «di ereditare la millenaria filosofia e precisamente in
quanto conferma dell’indipendenza della fonte del credere filosofico» 40 . Gli
esempi paradigmatici di Jaspers sono Socrate, Boezio e Giordano Bruno, ciascuno dei quali «è morto per la verità della propria fede». Loro sono «le persone degne di massimo rispetto, martiri che hanno professato la fede filosofica»41. Sono
morti per la loro verità, con la quale erano “tutt'uno”; l’hanno confermata esistenzialmente nella loro vita. Questa è stata, dunque, la verità “esistenziale” che
ha guidato tutto il loro essere.
«Seguendo la tradizione di Platone, Bruno, Spinoza, Kant, Lessing e Goethe vorrei […]
mettere l’accento sulla fonte eterna ed indipendente del mio filosofare, la fede filosofica
che si afferma da sola nel pensiero della ragione. Questa fede non è né la teologia confessionale né la scienza, ne tanto meno il credere della chiesa né l’assenza della fede»42.
In questo senso, tutta la filosofia si rivela una preparazione, una spinta, mentre per la fede filosofica risulta necessaria anche la conferma, la realizzazione nella singola esistenza, nella sua storicità concreta. E proprio perché è storica, concretamente realizzata in un momento, essa è libera da ogni assolutizzazione e
dogmatizzazione, non è possibile definirla universalmente a causa della sua storicità. La fede filosofica è libera, storica e sempre in divenire.
Proprio perché è libera, la fede filosofica è profondamente individuale; essa è
«soltanto nell’autopensiero – nel pensiero di se stesso – di ciascun individuo»43;
è la fede della singola esistenza che cerca il proprio senso lottando contro la mancanza del senso che incontra nel mondo privo di umanità. La fede permette alla
singola esistenza di raggiungere la propria pace nella trascendenza, ma non a discapito della propria libertà e individualità.
È necessario distinguere la fede filosofica dalla scienza e dalla religione. La
scienza, intesa in modo assoluto come visione del mondo, necessariamente induce alla delusione esistenziale. Essa non può concepire e dare il senso alla vita. La
scienza è particolare, l’Omnicomprensivo esce dal dominio della sua competenza
e perciò essa non può dare il senso che, invece, richiede la totalità. Sembra che
all’uomo non rimanga altro che la metafisica. Perciò la trascendenza, vista la sua
“apparizione” nella fede filosofica, risulta necessaria all’esistenza come sua propria pensabilità, ma anche come pensabilità dell’intera realtà. Il pensiero si
completa con l’impensabile, ma esistenzialmente importante. Dall’altra parte, la
K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 777.
K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 12.
42 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 777.
43 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 16.
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religione, che in verità professa una fede che comprende la totalità della vita,
spesso assolutizza alcune cifre della trascendenza e genera, con ciò, l’intolleranza
nei confronti del diverso. La fede religiosa è vista come «l’atto della misericordia
divina», ovvero è la divinità che si rivela, permettendo al singolo di credere, mentre, in filosofia, la “fede” è “l’atto esistenziale” del singolo uomo, «il rapportarsi
attivo con la propria vita». Questa è la sua principale differenza dalla fede rivelata. «Colui che filosofa, vive dalla propria fede»44. Per il filosofo, Dio non si rivela,
ma rimane nascosto. La fede filosofica non conosce la preghiera, il culto o la comunità dei credenti; essa rimane pur sempre ciò che riguarda il singolo45.
Il commentatore Sören Holm lo ha espresso in modo seguente: «Mentre la fede e la rivelazione possono essere descritte, per così dire, “in giù”, da Dio
all’uomo, dal sopranaturale al naturale, la fede, per come è stata concepita da Jaspers, può essere descritta “in sù”, dall’uomo alla trascendenza»46.
La fede filosofica, a differenza di quella religiosa e “scientifica”, non ha una posizione ferma, ma si “innalza” e non insiste sulla fissazione dei propri presupposti:
«La fede filosofica dev'essere determinata negativamente: essa non può diventare una
confessione. Il suo pensiero non diventa mai un dogma. La fede filosofica non ha una posizione ferma di fronte ad un qualcosa che è oggettivamente finito nel mondo; essa usa i
propri punti di vista, i concetti e i metodi, senza alcuna sottomissione»47.
E comunque, non si tratta di un qualcosa di riconducibile alla mera sensazione
o all’evidenza diretta, ma di un “qualcosa” che può essere determinato come ciò
che «coglie l’essere, tramite la storia ed il pensiero»48. Non si deve, di certo, dimenticare che Jaspers individua nella scienza il retroterra concettuale delle propria filosofia, anche perché egli stesso proviene da un contesto scientificomedico. La filosofia non è né “ascientifica” né “antiscientifica”, però mette in evidenza il fatto che la scienza, in quanto un afferrare l’essere in modo parziale, non
è in grado di rispondere alla domanda sul senso. La visione del mondo e i valori
esistenziali della vita trascendono il dominio dell’esperienza, che è quello della
scienza. Entrano nel campo della filosofia e della sua fede, non negando, affatto,
la legittimità della scienza in quanto tale.
La fede filosofica rappresenta la risposta filosofica all’essenziale bisogno umano di credere. Essa è, già da sempre, presente nei singoli individui pronti a filoso K. Jaspers, Vernunft und Existenz, cit., p. 142.
Cfr. W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, Hamburg 1995, p. 49.
46 S. Holm, Jaspers' Philosophy of Religion, in P. A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl
Jaspers, pp. 667-692, qui p. 669.
47 Ivi, p. 16.
48 Ibidem.
44
45
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fare; è la fede dell’individuo pensante in grado di trasportare l’intera esistenza e
vive della consapevolezza della trascendenza in quanto fondamento. Essa è, ancor di più, l’appello per la realizzazione dell’essere di ciò che già da sempre
l’uomo è.
È la fede e non il sapere ciò che dà le significanti risposte esistenziali alle domande che si pone il nostro ente. Il sapere è limitato; esso non è mai la totalità e
non può offrire delle risposte esistenzialmente significanti. Esso è finito e si muove entro le categorie del finito; è l’insoddisfazione della mera sopravvivenza ciò
che ci incita a porci delle domande su ciò che “oltrepassa” la finitezza dell’oggetto
conosciuto. Questa è la premessa fondamentale a partire dalla quale Jaspers sviluppa la sua fede filosofica che si pone come un continuo compito e che emerge di
fronte alla minaccia nichilistica, da una parte, e dell’eccessivo razionalismo,
dall’altra. La soluzione è, secondo Jaspers, l’accettazione della tradizione filosofica, ovvero il ritorno alle «fonti dell’eterno filosofare, philosophie perennis»49.
Come già ribadito, la fede filosofica è libera e vede se stessa come l’appello alla
libertà dell’uomo. Non è possibile, dunque, confessarla. Anzi, essa non vuole affatto essere un pensiero confessionale, bensì realizzata nell’autopensiero (Selbstdenken) del singolo. A ciascuno è stata donata la possibilità di autorealizzarsi. La
fede filosofica, dunque, ha un carattere universale; è presente in tutti i singoli individui dagli inizi del mondo e dell’uomo. Questo credere è “eterno”, afferma Jaspers.
Questo è il motivo per il quale, nell’Origine e il senso della storia, Jaspers fa
riferimento alle «tre categorie del credere eterno»: la fede in Dio, la fede
nell’uomo e la fede nelle possibilità del mondo50.
Anche se non sono i contenuti dottrinali obbligatori, “la fede in Dio”, “la fede
nell’uomo” e “la fede nelle possibilità del mondo” possono prendere forma dei
«contenuti della fede filosofica» (philosophische Glaubensgehalte). Questi non
sono i contenuti che provengono dalla conoscenza, ma sono quelli che “portano”
l’esistenza filosoficamente credente. Jaspers ha elaborato i contenuti filosofici
della fede nelle seguenti opere: La fede filosofica e L’introduzione alla filosofia.
Ne enumera cinque:
1. «Dio è»;
2. «Permane l’appello incondizionato»;
3. «L’uomo è finito e infinito»;
4. «L’uomo può vivere sotto la guida di Dio», e
5. «Il mondo ha una vita temporanea tra Dio e l’esistenza».
49
50
K. Jaspers, Vernunft und Existenz, cit., p. 137.
Cfr. Karl Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, München 1950, pp. 212-220.
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
Da ciò risulta evidente che «i contenuti della fede filosofica» si muovono
all’interno della triade filosofica “Dio-uomo-mondo”. Qui non si tratta, però, di
quel tipo di metafisica prekantiana che, in alcune delle sue accezioni, aspirava ad
una “gnosi” su Dio, uomo e mondo; «i cinque postulati della fede filosofica non
possono essere approvati come tesi scientifiche. Non è possibile razionalmente
costringere nessuno a credere in essi, né con la filosofia né con la scienza»51.
La speculazione jaspersiana su Dio, uomo e mondo si svolge all’interno della
cornice teoretica prestabilita dai due pensatori, fondamentali per la comprensione del suo filosofare, vale a dire Kierkegaard e Kant, anche se Jaspers abbraccia,
ciononostante, la millenaria tradizione filosofica. L’influenza kierkegaardiana sui
contenuti della fede filosofica è visibile dalla ripresa jaspersiana del principale
postulato kierkegaardiano, incentrato sul singolo che esiste di fronte a Dio. Allo
stesso tempo, Jaspers rispetta anche la restrizione kantiana del sapere su ciò che
è trascendente. Nella fede filosofica, dunque, “Dio” non è l’oggetto del sapere, ma
del “non-sapere sapido”. Jaspers è molto chiaro su questo punto: «Non c’è alcun
sapere su Dio e sull’esistenza. C’è soltanto la fede»52. Non è, certamente, meno
significante nemmeno lo scritto kantiano La religione entro i limiti della sola ragione53 in cui egli ha cercato di rielaborare, in modo razionale, la rivelazione, alla
quale si richiama, a sua volta, la religione. La fede rivelata diventa qui la fede razionale. Tra l’altro, nell’antologia di Schilpp, lo stesso Jaspers afferma che la fede
filosofica, nonostante l’indipendenza della sua fonte, trae una parte dei propri
contenuti dalla fede che è raggiungibile «entro i limiti della sola ragione», però
quel tipo di fede che comunque sta «in una polarità necessaria e voluta con la fede specificatamente religiosa»54.
Tuttavia, accanto a Kierkegaard e Kant, la fonte essenziale per l’articolazione
dei contenuti della fede filosofica per Jaspers è stata la Bibbia, interpretata, come
già più volte ribadito, in maniera non affine alla dottrina cristiana. Jaspers riconosce il ruolo fondante della Bibbia per la cultura occidentale fino ai giorni nostri. «I contenuti filosofici del filosofare occidentale hanno la loro fonte storica
[…] anche nel pensiero biblico. Chi non può credere in alcuna rivelazione, può
comunque accettare la fonte biblica; può permettere, anche senza la rivelazione,
di essere pervaso dalla sua verità in quanto – uomo»55. Jaspers parla anche delle
«caratteristiche fondamentali della religione biblica» di cui egli si appropria per
la sua fede filosofica: “un solo Dio”, “la trascendenza di Dio creatore”, “l’incontro
K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 91.
Ivi, p. 81.
53 Cfr. I. Kant, Religija unutar granica pukog uma, Zagreb 2012.
54 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 756.
55 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 39.
51
52
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dell’uomo con Dio”, “i comandamenti”, “la coscienza storica”, “la sofferenza” e
«l’apertura all’irrisolutezza»56.
5. “È sufficiente che Dio sia” – la cifra “Dio” e il suo significato per la fede
filosofica
Nella sua Introduzione alla filosofia, Jaspers espone una tesi coraggiosa sulla
necessità, non soltanto di domandare, ma anche di rispondere alla questione se
Dio è: «Sembra che i filosofi del nostro tempo evitino volentieri la domanda
sull’esistenza di Dio. Né affermano il suo essere, né lo negano. Tuttavia, chi filosofa, deve trovare il fondamento di se stesso»57. La sua risposta è chiaramente
positiva, visto il primato e l’essenzialità del postulato “Dio è” (Gott ist)58 per la
fede filosofica. Che Dio è, Jaspers non dubita. Per la fede filosofica vale che «soltanto colui che parte da Dio, può ricercarlo»59. Il commentatore Sören Holm giustamente nota che Dio è, in un certo senso, un “a priori” della fede filosofica:
«Dietro il nostro filosofare e in quanto il suo fondamento, c’è sempre l’ovvietà
dell’esistenza di Dio, nonostante la sua velatezza. […] Che Dio è, dev'essere una
condizione posta dall’inizio»60. In questo senso, a Jaspers risulta estranea qualsiasi forma di ateismo. Per lui vale: «Che cosa c’è, se Dio non è?»61. In quasi tutti i suoi scritti maturi62, Jaspers mette in evidenza «l’ovvietà che Dio è». Che “Dio
è”, afferma Jan Milič Lochman, studente di Jaspers a Basilea, non è un aforisma
isolato, ma rappresenta il «cantus firmus nella polifonia del pensiero jaspersiano»63. Ciò risulta molto evidente nelle opere in cui si esplicita la “fede filosofica”
(La fede filosofica, Introduzione alla filosofia e La fede filosofica di fronte alla
rivelazione). Jaspers arriva anche ad affermare la necessità della fede in Dio: «Il
pensiero su Dio è necessario affinché l’uomo possa arrivare a se stesso, affinché
possa diventare libero dal mondo»64. In questa cifra fondamentale, l’esistenza
Cfr. ivi, pp. 39-41.
Ivi, p. 40.
58 Ivi, p. 33.
59 Ivi, p. 35.
60 S. Holm, Jaspers' Philosophy of Religion, cit., p. 676.
61 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, München 1977, p. 37.
62 Cfr. per es., le opere di Jaspers: Der philosophische Glaube, cit., pp. 33, 129; Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 360; Von der Wahrheit, cit., pp. 897-898;
Einführung in die Philosophie, cit., pp. 38-39; Chiffren der Transzendenz, cit., p. 37.
63 J. M. Lohman, Transzendenz und Gottesname. Freiheit in der Perspektive der Philosophie von
Karl Jaspers und in biblischer Sicht, in Jeanne Hirsch e altri (a cura di), Karl Jaspers. Philosoph,
Artzt, politischer Denker. Symposium zum 100. Geburtstag in Basel und Heidelberg, München
1986, pp. 11-30, qui p. 11.
64 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1053.
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“giace”. Il diventare se stesso dell’uomo dipende da come egli pensa la cifra
“Dio”65.
Infatti, egli vede «la certezza dell’esistenza di Dio» non soltanto come un presupposto, ma come un compito permanente del filosofare (die bleibende aufgabe
des Philosophierens). Nello scritto La fede filosofica egli afferma: «Il compito
permanente del filosofare […] è diventare se stessi in modo da avere chiara
l’evidenza di Dio»66. Perché, però, «il compito permanente» della fede filosofica
dovrebbe essere «la ricerca della risposta sulla questione “Dio”? Perché essa insiste soprattutto sulla continuità della ricerca umana di se stessi. Ciononostante, in
questa ricerca l’uomo non si basta. La sua esperienza autentica è proprio quella di
notare, nei momenti e nelle situazioni in cui si egli trova da solo, che in quanto
tale si trova a se stesso “donato” da ciò che egli non è. In questo senso, si può dire
che il “pensiero su Dio (Gottesgedanke) risulta necessario affinché l’uomo possa
giungere a se stesso, affinché possa liberarsi dal mondo»67. Secondo la nostra
opinione, è precisamente qui che bisogna cercare il nucleo del discorso jaspersiano su Dio68. È ovvio che uno dei nomi della trascendenza è “Dio”; si tratta, però,
della cifra direttamente riferita a ciò che pur sempre rimane trascendente69:
«Donato a se stesso, non sapendo da dove, l’uomo sente il bisogno della trascendenza in quanto persona, trovando, per essa, la cifra: “Dio”»70. La cifra “Dio”,
nelle sue diverse varietà, si è sempre riferita, in modo esplicito, alla realtà della
trascendenza: «Per l’esistenza, consapevole di non essere stata la propria causa, è
necessario pensare Dio in quanto trascendenza anche senza l’uomo; bisogna,
dunque, pensare in negativo ciò che non trova, nel positivo, alcun compimento» 71 . “Dio come trascendenza” diventa così la “forma inevitabile” dell’apparizione dell’essere assoluto, trascendente e nascosto, ma nello stesso tempo, anche la fonte della libertà umana. “Dio” è, in quanto cifra, sia il nome mitico
per la realtà della trascendenza72 sia il “nome” per la trascendenza in quanto persona, quando abbiamo bisogno, dunque, di incontrarla in forma di persona73:
«La trascendenza che sovrasta il mondo o che viene prima del mondo si chiama
Cfr. le opere jaspersiane, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 248;
Der philosophsiche Glaube, cit., p. 146.
66 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 144.
67 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1053.
68 In questo senso anche Ricoeur – anche se consapevole del fatto che Jaspers esplicitamente rifiuta la religione rivelata – afferma che la metafisica delle cifre “è una filosofia religiosa di Jaspers”. P. Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy to Religion, cit., p. 619.
69 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 212.
70 Ibidem.
71 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 164.
72 Cfr. K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 1.
73 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 111.
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Dio»74. Questo aspetto del pensiero jaspersiano è stato esplicitato da molti commentatori rilevanti. Tra i primi che se ne sono occupati è stato Helmuth Pfeiffer
nel suo lavoro L’esperienza di Dio e la fede (Gotteserfahrung und Glaube) dove
esplicita «che nel dopoguerra, Jaspers tende ad utilizzare il nome Dio per la trascendenza»75; anche l’allieva di Jaspers, Jeanne Hirsch afferma che «Jaspers di
volta in volta (e più spesso nei lavori maturi) chiama la trascendenza Dio»76. Tra
gli studiosi più giovani, vanno indicate le monografie di Kurt Salamun77 e Werner
Schüßler78. Secondo la nostra opinione, comunque, questa “svolta” è stata esplicitata al meglio da Frederic Copleston il quale afferma che «nella più tarda filosofia
di Jaspers possiamo vedere la svolta versa una posizione teistica più chiara»79.
Tuttavia, qui mancano le accezioni religiose di “Dio”: «La fede rivelata sa che
cosa ha fatto Dio quando si è rivelato per la salvezza dell’uomo; quando ha agito
nel mondo, legandosi al tempo e allo spazio»80, a differenza della «fede filosofica
che non possiede un sapere su Dio, ma ascolta il linguaggio cifrato. Dio stesso è
una cifra»81. “Dio” della fede filosofica non è un Dio rivelato, in alcuni momenti e
in alcune religioni visto anche come legislatore e giudice; Jaspers non vuole affatto vedere in esso un ente sul quale fondare una conoscenza compiuta né tantomeno un qualcosa da oggettivizzare e da sottoporre ai giudizi in generale82. In
quanto cifra, “Dio” è sempre un deus absconditus83.
La tematizzazione jaspersiana di Dio è al di là di ogni sapere su Dio. Egli rifiuta
qualsiasi discorso su Dio che si renderebbe approvabile tramite il pensiero filosofico. Questo è il punto dal quale Jaspers, in quanto seguace di Kant, parte. Le
prove, in quanto giudizi obbliganti, trasformano Dio in “un mero oggetto” di natura empirica e, così facendo, fissano la realtà della trascendenza, annullandola
K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 33.
H. Pfeiffer, Gotteserfahrung und Glaube. Interpretation und theologische Aneignung der Philosophie Karl Jaspers', Trier 1975, p. 132.
76 J. Hirsch, Karl Jaspers. Eine Einführung in sein Werk, München 1980, p. 36.
77 Cfr. K. Salamun, Karl Jaspers, München 1985, pp. 139-146.
78 Cfr. W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, cit., pp. 83-84; 85-99.
79 F. Copleston, Contemporary Philosophy. Studies of Logical Positivism and Existentialism,
London 1956, p. 164. Anche se qui, certamente, non si può parlare di un teismo teologico o cristiano.
80 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 196.
81 Ibidem.
82 Cfr. J. N. Hartt, God, Transcendence and Freedom in the Philosophy of Karl Jaspers, in «The
Review of Metaphysics», 4 (1950), pp. 247-258, qui p. 252.
83 È interessante notare la critica di Leszek Kolakowski all’utilizzo jaspersiano della nozione deus
absconditus, visto che nel suo contesto originario e biblico essa assume una connotazione diversa.
All’idea jaspersiana della trascendenza, nemmeno «l’espressione biblica “deus absconditus” risulta adeguata, afferma Kolakowski, dal momento in cui il nascondimento del Dio cristiano non svaluta né la rivelazione né l’approccio mistico» (L. Kolakowski, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, in J. Hersch e altri (a cura di), Karl Jaspers. Philosoph, Artzt, politischer
Denker. Symposium zum 100. Geburstag in Basel und Heidelberg, cit., pp. 31-46, qui p. 36.
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del tutto. Dio non è mai uguale agli “oggetti” che indagano le scienze, proprio
perché sovrasta l’empiria in quanto tale. Risulta impossibile conoscerlo nel mondo. Su ciò che è trascendente non ci possono essere delle conclusioni e delle “prove” sicure e obbliganti. Però, anche se le “prove” – come tra l’altro aveva già dimostrato Kant – nella loro accezione obbligante risultano poco convincenti, ciò
non vuol dire affatto che la trascendenza sia una bugia. La confutazione di tutte le
prove dell’esistenza di Dio non significa che Dio non ci sia. Una deduzione di
questo tipo sarebbe falsa, visto che «così come non si può dare la prova
dell’esistenza di Dio, non si può dare una prova nemmeno della sua non esistenza. Le prove e le loro confutazioni dimostrano un sola cosa: “Dio di cui si è data la
prova non è Dio, ma soltanto una cosa nel mondo»84.
Che cosa significa, allora, la definizione jaspersiana di Dio in quanto “cifra”?
Prima di tutto, ciò significa, per Jaspers, che nessuna istituzione nel mondo può
pretendere di avere il primato sull’argomento “Dio”; ovvero, ogni singolo individuo ha la strada libera verso Dio, senza alcun intermediario. Giorgio Penzo lo ha
espresso in modo alquanto sintetico: «Che Dio sia cifra significa che non è sottomesso al potere dell’uomo, anche se può essere svelato soltanto all’uomo in quanto singolo. Non è possibile comandare la cifra, ma soltanto lasciarsi prendere da
essa»85. Secondo Jaspers, la fede filosofica è la via giusta verso Dio. In questo
senso va compresa la tesi esposta da Jaspers ne L’introduzione alla filosofia; la
tesi, dunque, incentrata sul «pensiero intorno a Dio in quanto chiarificazione della fede»86, non religiosa, ma filosofica che si muove nelle cifre.
*
*
*
Come si inserisce l’argomento “Dio” nella metafisica e nella fede filosofica? Innanzitutto e prima di tutto, grazie all’esperienza del fallimento! Il fallimento, in
quanto “cifra ultima”, con la quale si conclude la “Metafisica” jaspersiana e incomincia la fede filosofica diventa il luogo in cui è possibile “esperire” la realtà di
Dio. Questo è anche l’insegnamento che ci dà l’esperienza biblica del popolo
ebraico (specialmente il profeta Geremia), assieme alle altre istituzioni del pensiero filosofico. In queste situazioni limite, in cui facciamo esperienza del naufragio, del fallimento, dello scacco possiamo provare l’ovvietà di ciò che “Dio è”. Ne
L’introduzione alla filosofia, Jaspers scrive:
K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 35.
G. Penzo, The Adventure of the Ciphers. Jaspers and Christian Thought, in R. Wisser – L. H.
Ehrlich (a cura di), Karl Jaspers Philosophie. Gegenwärtigkeit und Zukunft/Karl Jaspers Philosophy. Rooted in the Present, Paradigm for the Future, Würzburg 2003, pp. 165-171, qui p. 167.
86 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 49.
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«In una situazione di questo tipo, le seguenti parole hanno un solo significato: che
Dio è, è sufficiente. Se ci sia 'l’immortalità', ciò non si chiede più; questa domanda non
sta più in primo piano. Non si parte più dall’uomo, la sua testardaggine è spenta ormai, e
anche la sua preoccupazione inerente alla beatitudine e all’eternità. Però, nello stesso
modo, si è arrivati alla conclusione che è impossibile avere un senso della totalità del
mondo, un senso ancora da perfezionare e in grado di mantenersi, in qualsivoglia forma.
E ciò perché Dio ha creato il tutto dal niente e tutto è nelle sue mani. Nella perdita del
tutto, rimane soltanto: Dio è»87.
“Dio è” rimane, dunque, la tesi essenziale di cui l’uomo può avere certezza. In
ciò che è contingente, corruttibile e distruttibile si fa l’esperienza di ciò che è
eterno e indistruttibile di per sé. F. Copleston lo commenta nel seguente modo:
«Ogni catastrofe e ogni decadenza storica può, per la fede (filosofica), diventare un
segno o un indicatore di Dio. Il fallimento degli ideali umani e delle sue speranze svela la
finitezza, la contingenza e la natura transitoria di tutti gli oggetti; il fallimento diventa
così il segno della fede basata sul fatto che, anche se tutto dovesse scomparire, Dio rimarrebbe»88.
Il fallimento indica «la coscienza abbracciante di Dio»89. Kantianamente parlando, laddove è paralizzata ogni possibilità del sapere, si apre lo spazio per la fede. “La coscienza abbracciante di Dio” e non il “sapere” è esperibile col trascendere, ovvero con l’uscita dalla realtà grazie a questa stessa Realtà. Nel momento in
cui diventiamo indipendenti dalla realtà del mondo e, dunque, liberi, ci si mostra
la “realtà vera”, compresa nell’espressione “Dio è”.
*
*
*
La fede in Dio, che risulta accettabile al singolo individuo filosofante, è soltanto quella che è, in modo più intimo, legata alla possibilità dell’umana libertà.
«L’ovvietà della libertà include in se l’ovvietà dell’essere di Dio»90. Jaspers tematizza il legame 'libertà – Dio' in molti dei suoi scritti91. Il commentatore Julian
Hartt non erra quando dice: «Su questo Jaspers insiste: Dio si svela come fonte e
come meta della nostra libertà»92.
Ivi, p. 38.
F. Copleston, Contemporary Philosophy. Studies of Logical Positivism and Existentialism, cit.,
p. 164.
89 Cfr. K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 45.
90 Ivi, p. 44.
91 Cfr. le opere jaspersiane: Einführung in die Philosophie, cit., pp. 44-50; Von der Wahrheit, cit.,
pp. 216-217; Chiffren der Transzendenz, cit., p. 48.
92 J. N. Hartt, God, Transcendence and Freedom in the Philosophy of Karl Jaspers, cit., p. 254.
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La sola libertà si esperisce soltanto in quanto “donata da Dio” e qui diventa
chiaro che “Dio” è il nome per la trascendenza:
«A colui che è veramente consapevole della propria libertà, anche Dio, nello stesso
momento, gli si rende ovvio. La libertà e Dio sono inseparabili. Perché? Io so di certo:
nella mia libertà, non sono libero grazie a me stesso, ma sono donato, in essa, a me stesso; io mi posso anche eliminare, ma non posso farlo con la mia libertà. Laddove io sono
veramente me stesso, so di essere stato, a me stesso, donato. Laddove io sono veramente
me stesso, so che non lo sono per me stesso. La libertà più grande sa che essere liberi rispetto al mondo significa essere profondamente legati alla trascendenza. Dio è per me
evidente assieme alla determinazione nella quale esisto. Egli mi è evidente, non in quanto il contenuto del sapere, bensì in quanto la presenza per l’esistenza»93.
In modo simile Jaspers si esprime anche nell’opera Sulla verità: «Egli
(l’uomo) ha soltanto una fonte nella quale testimonia se stesso nella sua libertà.
Questa fonte è la divinità. Soltanto in essa c’è la sorgente (Quelle) della sua libertà, soltanto da essa proviene la sua sincerità e la sua intima verità; il suo amore
più profondo e la sua conquista più alta»94. La cifra “Dio” indica la trascendenza
in quanto «il fondamento della mia libertà»95. In questo senso, secondo la nostra
opinione, va compresa la, spesso citata, tesi jaspersiana: «La libertà e Dio sono
insperabili»96.
A che cosa si riferisce la libertà nel pensiero di Jaspers?
La libertà è pensata come il signum dell’esistenza97: «Il libero essere dell’uomo
chiamiamo anche la sua esistenza»98. La nostra esistenza si chiarisce in quanto
libertà. Noi possiamo formare la nostra vita grazie a questa libertà, scegliendo tra
le diverse possibilità e, allo stesso tempo, non essere schiavi né del mondo né
dell’esistenza. Egli non è automaticamente sottomesso alla legge naturale come lo
sono gli animali, «la vita privata dell’esistenza»99. Si tratta della libertà che è possibile provare «nell’attività nella quale l’uomo diventa 'libero' dalle circostanze
che lo determinano: egli agisce grazie a ciò che supera la determinazione delle situazioni particolari»100. «La più alta libertà sa che essere liberi rispetto al mondo
significa essere legati alla trascendenza in modo più profondo»101. La libertà, anche se non è un oggetto sottoponibile alla verifica, è ciò che, in noi, è presente in
K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43-44.
K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 216-217.
95 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, cit., p. 50.
96 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43.
97 Cfr. K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 176.
98 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43,
99 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 76.
100 E. B. Koeneker, God and the Ambiguities of Freedom in the Thought of Karl Jaspers, in «Proceedings of the American Catholic Philosophical Asociation», n. 50 (1976), pp. 90-98; qui p. 93.
101 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43.
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quanto «un’inevitabile possibilità»102 . Soltanto in quanto libero e proprio in
quanto me stesso, io veramente posso scegliere – la libertà è la possibilità di scegliere. Per Jaspers, «Dio agisce tramite le libere decisioni del singolo ed è possibile scoprirlo in ogni processo in cui divento consapevole della mia personale libertà»103.
Inoltre, ciò significa che nella libertà ci si pongono anche delle condizioni: non
possiamo seriamente negare il fatto che ci risulta sempre possibile la decisione in
quanto tale e che, con ciò, decidiamo anche di noi stessi, essendo responsabili104.
E quando la nostra libertà è al suo culmine, quando agiamo non a causa di un
condizionamento esterno o di una necessità, diventiamo consapevoli della nostra
libertà come dono della trascendenza. Nella libertà, di certo, Dio non si prova,
però diventa possibile che Egli è. Nella presenza dell’esistenza in quanto libertà,
l’unica evidenza certa è Dio: «Dio è, per me, in quanto nella libertà veramente divento me stesso»105. Questa è una delle differenze più evidenti tra Jaspers e
l’esistenzialismo francese (specialmente quello sartriano) il quale – quando tratta
della libertà – mette in risalto una componente significante della propria posizione; vale a dire, il suo ateismo. A questo punto, correttamente conclude Werner
Schüßler quando dice che «la libertà delle persone – l’argomento, dunque, del
quale si serve l’esistenzialismo sartriano per negare la possibilità dell’esistenza di
Dio – per Jaspers è stata veramente la testimonianza intensa che Dio è»106.
6. La fede filosofica e la religione
È ovvio che i contenuti della metafisica jaspersiana e della sua fede filosofica
combacino, in parte, con i contenuti della religione e della teologia107. Ciò ha indotto alcuni commentatori, come per es. Golo Mann, ad affermare che «la fede
filosofica è sostanzialmente – se non formalmente e dogmaticamente – la fede
cristiana» 108 . Alcuni, però, come Wilhelm Weischedel, hanno parlato
Ivi, p. 62.
E. B. Koeneker, God and the Ambiguities of Freedom in the Thought of Karl Jaspers, cit., p.
93.
104 Cfr. K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 63.
105 Ivi, p. 44.
106 W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, cit., p. 84.
107 Lo afferma Jaspers stesso nella sua Autobiografia filosofica: «Dopo un corso sulla metafisica
(1927-1928) mi si è avvicinato un prete cattolico per ringraziarmi in quanto ascoltatore e per
esprimere il suo consenso con ciò che dicevo: “Avrei soltanto una cosa da ridire – la maggior parte di ciò di cui Lei ha parlato, secondo noi fa parte della teologia”. Queste parole, dette da un uomo giovane, intelligente e convincente, mi hanno sorpreso. Era ovvio: io parlo di cose che gli altri
considerano appartenenti alla teologia, ma parlo di esse non come teologo, bensì come filosofo»
(K. Jaspers, Filozofijska autobiografija, cit., p. 130).
108 G. Mann, Freedom and the Social Sciences in Jaspers' Thought, in P. A. Schlipp (a cura di),
The Philosophy of Karl Jaspers, cit., pp. 551-564, qui p. 563.
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Danijel Tolvajčić
«dell’orientamento teologico del concetto della fede filosofica»109, mentre alcuni,
come Jörg Salaquarda vanno così lontano da parlare della fede filosofica in termini di «un’esplicita teologia filosofica»110, o ancor di più, come Johannes Ries di
una «teologia filosoficamente tradotta» (philosophische übersetzte Theologie)111.
Tuttavia, secondo il nostro punto di vista, queste sono interpretazioni sbagliate. Lo stesso Jaspers ha sempre cercato di mettere in evidenza il fatto che si parlava di un qualcosa che, certamente, appartiene alla tradizione del pensiero filosofico, ma con la consapevolezza che il suo «pensiero su Dio è originariamente filosofico»112. A noi sembra che bisogna concordare con Paul Ricoeur e con la sua
affermazione «che Karl Jaspers […] è uno dei rari filosofi che cercano di mantenere la posizione difficile tra le religioni positive, il loro credo e le strutture confessionali e l’umanismo ateo derivato da Auguste Comte, Karl Marx o Nietzsche»113. Per Jaspers, la religione non ha il monopolio sull’argomento “Dio”,
mentre la fede filosofica «apre gli spazi aperti nei quali Dio può parlare»114. In
questo senso e sempre secondo la nostra opinione, la fede filosofica si può leggere anche come una critica alla religione.
Come già esplicitato, la fede filosofica è “un innalzamento”, in cui si esperisce
la certezza del Fondamento, nell’ignorantia e con il coraggio, come certezza
dell’esistere, mentre la fede rivelata, secondo Jaspers, concepisce la rivelazione di
Dio come compiuta; essa, in alcuni casi, pretende di possedere una gnosi su ciò
che è la “volontà di Dio”. Contrariamente ad una tale concezione, Jaspers dichiara: «non c’è la Realtà diretta di Dio nel mondo, ovvero non c’è Dio che nel mondo
parlerebbe tramite le autorità rappresentative, come riti, parole e sacramenti e al
quale dovremmo sottometterci, sottomettendoci a tali autorità»115. Certamente,
ciò non significa affatto che Dio non ci sia. Per la fede filosofica, Dio è nascosto e
non si rivela mai. Il suo nascondimento è necessario, perché Egli ci ha «creati per
la libertà e per la mente grazie alle quali noi accettiamo ciò che siamo»116. Se Dio
non fosse nascosto – afferma Jaspers richiamandosi a Kant – e se «fosse possibile che appaia in tutto il suo splendore, diventeremmo dei manichini obbedienti e
W. Weischedel, Der Gott der Philosophen. Grundlegung einer Philosophischen Theologie im
Zeitalter des Nihilismus, Darmstadt 1961, tomo II, p. 127.
110 J. Salaquarda, Einleitung, in Id. (a cura di) Philosophische Theologie im Schatten des Nihilismus, Berlin 1971, p. 3.
111 J. Ries, Philosophische Glaube? (I), in «Die neue Ordnung», n. 6 (1952), pp. 396-402, qui p.
401.
112 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, cit., p. 42.
113 P. Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy of Religion, cit., p. 611.
114 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 187.
115 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 481.
116 Ibidem.
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smetteremmo di essere liberi, contrariamente, invece, a come Dio ci voleva»117.
Di conseguenza, la lotta tra la fede filosofica e la fede rivelata è la “lotta” tra il
Dio nascosto e il Dio rivelato.
«Dio che si mostra nella realtà della rivelazione, di fronte a Dio nascosto, per noi non
può essere un Dio. Qui non si tratta affatto di negare Dio (Gottesleugnung) o di andare
contro la fede in Dio, ma di Dio nascosto contro quello rivelato. Questa è la coscienza filosofica sulla Realtà (Wirklicheit) della trascendenza contro la realtà (Realität) della rivelazione»118 .
La filosofia, dunque, non può accettare, in modo unilaterale, né la religione né
la sua teologia a causa del loro legame con la rivelazione. In questo legame Jaspers vede, giustamente o non, la pietrificazione di una visione storica della presenza di ciò che è trascendente. La rivelazione fissa un momento della presenza
trascendente nella storia, immanentizzandolo e facendolo diventare universalmente valido, comune a tutti. Si perde la libertà del singolo esistente. Dunque,
secondo Jaspers, qualsiasi pretesa alla rivelazione universalmente valida è da sottoporre alla critica di ogni singola esistenza119. Dall’altra parte, invece, laddove è
rimasta presente la coscienza storica, laddove non ci sono le “fissazioni” estreme
della trascendenza per via di una rivelazione che esclude le altre possibilità, la filosofia si avvicina di nuovo alla religione. Per la filosofia dell’esistenza, la rivelazione deve diventare soltanto un’altra cifra. Perciò, l’annullamento della “rivelazione fissata” è una richiesta permanente che si fa alla religione, visto che alla filosofia risulta inaccessibile il concetto della rivelazione filosoficamente mediata.
Jaspers non trova, nella storia, una rivelazione universalmente valida per tutti.
Contrariamente alla fede rivelata, Dio si avvicina al singolo individuo in modo
particolare secondo Jaspers e senza la rivelazione che si potrebbe fissare in un
annuncio finito e auto-rivelante della trascendenza. Jaspers propone, perciò,
un’altra concezione della religione: la rivelazione non è un rivolgersi concluso di
Dio all’uomo, l’annuncio, dunque, diretto della trascendenza, ma è una di tante
cifre storicamente valide. Il Dio personale della religione, il Dio dunque che si rivela come persona, per la filosofia dell’esistenza è una cifra e, se viene concepita
come un qualcosa di più di questo, rischia di diventare la fonte dell’intolleranza.
Quando rinuncia alla “fissazione della rivelazione” e all’esclusività da ciò proveniente, la religione diventa, allora, per la filosofia, «la verità che si rivolge ad essa,
anche senza l’universalità»120.
Ibidem.
Ibidem.
119 Cfr. ivi, pp. 479-481.
120 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 26.
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Danijel Tolvajčić
Filosofia ha, dunque, un rapporto duplice con la religione – la accetta in quanto fonte delle “cifre” e della ricchezza dell’“oggettività metafisica”, la religione tiene la filosofia costantemente in una specie di “tensione”, ma non esita di rifiutarla nel momento in cui si cerca di “fissare” l’universalità di alcune cifre storiche. In
questo passaggio va vista la critica jaspersiana alla religione. La filosofia e la religione hanno un qualcosa in comune: esse rimandano a “ciò” che è al di là di loro
– alla trascendenza, dunque, ma la filosofia, a causa della sua natura e del suo
presupposto fondamentale, vale a dire, della libertà, deve fare resistenza alla religione nel suo intento di assolutizzarsi e di innalzarsi al di sopra di tutte le altre
forme dell’approccio alla realtà trascendente.
La religione, di certo, contrasta l’interpretazione che le toglie il valore assoluto.
Essa interpreta diversamente la verità della trascendenza. Qui incomincia la lotta
dei campi d'argomentazione, pretendenti di aver il diritto su ciò che intendiamo
metafisico. Paradossalmente, Jaspers pensa che la lotta, in quanto modello di
rapporto, sia necessaria, visto che il suo venir meno porterebbe ad una nuova fissazione di alcune forme storicamente determinate. Perciò, anche se questo rapporto risulta necessario, la lotta tra il pensiero filosofico e quello religioso non è
mai una lotta tra due nemici; la religione rimane ciò che «riguarda [la filosofia] e
non le permette di colmarsi»121. La loro lotta è sempre una “lotta nell’amore”. La
filosofia deve dialogare con la religione e non può definirla falsa, almeno finché la
religione rimane fedele alle sue origini, ovvero quando la filosofia si viene a trovare di fronte a ciò che nella religione risulta incompreso e incomprensibile, ma,
allo stesso tempo, di fondamentale importanza. Ed è proprio questo «incomprensibile, ma di fondamentale importanza» il terreno in comune della fede filosofica
e della fede rivelata – ciò per il quale ciascuna esistenza giunge a se stessa. La
fede filosofica e la religione sono alleate contro le forze intenzionate a ridurre
l’uomo alla mera immanenza; sono «alleate nella lotta contro le forze devastanti
e distruttive, contro le rappresentazioni razionalistiche e nichilistiche»122 e ciò
perché entrambe sono consapevoli che l’uomo può diventare se stesso soltanto in
rapporto con la trascendenza. Permane sempre la possibilità della comunicazione.
7. Conclusione: in che modo comprendere la metafisica di Jaspers?
Anche se, in Jaspers, non si può affatto parlare di una metafisica tradizionale,
la sua filosofia è comunque metafisicamente alquanto determinata. Si tratta di
una metafisica esistenziale; i suoi metodi non sono un qualcosa da “imparare” o
ereditare come, per es. quelli della fenomenologia. Tuttavia, la filosofia jaspersia 121
122
K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 71.
K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 778.
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na, nel suo insieme e secondo la nostra opinione, non è riconducibile soltanto a
ciò che di essa si oppone alla metafisica tradizionale (come, invece, pensa Danilo
Pejović123 ), ma dev'essere concepita come un intento di salvare la metafisica, un
intento che accetta il criticismo kantiano e, ancor di più, in esso vede il proprio
fondamento. Una “metafisica della conoscenza” dopo Kant non è più possibile. Al
posto di essa, Jaspers ha offerto una “metafisica esistenziale della fede”. Al posto
del sapere (che non è possibile) arriva, così, l’esperienza personale, ovvero – come lo chiama Jaspers – l’immersione speculativa nelle cifre, nelle quali “brilla” la
trascendenza. L’elemento razionale cade nel secondo piano e indica il nonpensabile, dunque l’irrazionale. L’irrazionalità è il campo dello svelamento della
trascendenza all’esistenza. Tuttavia, nemmeno in quel momento risulta possibile
esprimerci su di essa in modo compiuto, a causa del suo immediato nascondimento.
La metafisica deve essere salvata, vista la sua importanza per la vita dell’uomo,
e non abolita. In questo contesto Jaspers legge e comprende Kant. La metafisica
jaspersiana, nonostante la sua continua ricerca, non arriva mai ad un sapere certo e sicuro sul proprio “oggetto”. Nessun metodo, infine, induce al sapere definitivo sulla trascendenza. Non è possibile determinare la plurisignificatività delle
cifre in modo univoco. Nessuna cifra ammette degli enunciati obbliganti. Ciò che
rimane è “l’immersione speculativa” e soggettiva nella lettura cifrata, la quale, in
quanto tale, non è comunicabile all’altro e non è mantenibile come sistema. Non
è possibile determinare le modalità generali dell’applicazione del suo metodo.
Dopo Kant, ciò non è più possibile. La filosofia non deve limitarsi alla pretesa di
essere una scienza, il suo campo è molto più vasto, dal momento in cui – e qui
diamo a Jaspers la nostra assoluta approvazione – le domande fondamentali
dell’uomo non si possono appiattire a ciò che offrono le conclusioni scientifiche.
Tuttavia, la metafisica è, afferma Jaspers, necessaria a ciascun uomo, ma soltanto
in forma della fede filosofica. La filosofia diventa così il “compito” di ciascun individuo, scontento del mondo degli oggetti e intenzionato a riconoscerci la presenza della cifra. Non è possibile edificare un sistema, è possibile soltanto partire
per la propria strada del filosofare. In Jaspers, a quanto pare, la metafisica diventa una personale confessione filosofica. Secondo noi qui emerge l’importanza del
postulato più significativo del suo pensiero: la metafisica non cerca affatto di diventare un sistema compiuto; Jaspers non intende convincerci nelle validità delle
sue tesi, la sua filosofia è un invito a vivere la fede filosofica, un invito alla ricerca della propria strada. Essa diventa, così, la realtà in grado di dare la forma alla
D. Pejović, Suvremena filozofija Zapada, Zagreb 1999, p. 122. «Dal punto di vista rigorosamente filosofico, occorre dire che il suo pensiero, nel suo insieme, è un rifiuto categorico e
l’opposizione netta alla metafisica tradizionale».
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
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nostra vita. La filosofia assume, dunque, in Jaspers, il ruolo che prima ha avuto
la religione. Secondo la nostra opinione, questo è il senso della sua metafisica,
specialmente della fede filosofica. La filosofia nasce dall’intento di “salvare lo spirito”. La domanda su quanto Jaspers effettivamente ci riesca diventa, per così dire, ridicola, avendo già chiarito che la cifra dell’insuccesso «rimane l’ultima
istanza possibile».
Ciò non significa, affatto, che dobbiamo smettere di cercare le vie filosofiche
verso la realtà trascendente, anche se costantemente testimoniamo il loro fallimento. Proprio grazie all’impossibilità di una conoscenza compiuta nasce la
possibilità della libertà. La metafisica (assieme alla fede filosofica) rimane
nell’incertezza essendo l’oltrepassamento dell’oggettività molteplice nel pensiero
oggettivante verso ciò che è radicalmente non oggettivato e, in quanto tale, è un
appello alla libertà.
L’insuccesso diventa, così, “un salto verso la libertà” nella quale Dio ci si mostra in quanto cifra fondamentale senza la quale l’esistenza non si dà. Pensato
in questi termini, l’insuccesso implica, dunque, il rifiuto dell’unilateralità di quelle concezioni metafisiche e teologiche che si sono “pietrificate”, dal teismo (inteso
nel senso stretto, la fede in un Dio personale), passando per il pantesimo e arrivando all’ateismo (l’eliminazione della trascendenza e la “caduta”
nell’immanenza). Non sorprende, dunque, il rifiuto della filosofia jaspersiana da
parte dei molti teologi (cristiani), anche se Jaspers, come appunto afferma anche
Sreten Marić, «tutto il tempo parla di Dio»124.
La speculazione sulla trascendenza per il pensiero religioso e per la teologia
può rappresentare un certo stimolo, però, in misura ancor più significante, essa
incita alla polemica e al chiarimento. Secondo noi, Karl Barth ha chiarito al meglio le differenze tra la trascendenza religiosa (specialmente nella sua accezione
cristiana) e la trascendenza jaspersiana, eliminando l’ultima come vuota e, infine,
irrilevante per l’uomo religioso. Quest'affermazione è certamente vera, dal momento in cui la trascendenza, di cui parla Jaspers, risulta “pallida” di fronte alla
concezione religioso-salvifica di Dio.
Jaspers non cerca, affatto, di fare altrimenti; consapevole dei limiti della filosofia egli non cerca di offrire delle risposte definitive e dei metodi già verificati in
grado di generare diversi epigoni. Se lo teniamo ben presente, diventa chiaro che
non è possibile seguire Jaspers nello stesso modo in cui lo facciamo con le sue
due fonti speculative: Kierkegaard e Nietzsche. Egli stesso ne era consapevole;
Cfr. S. Marić, Povodom Jaspersa in (la traduzione serba dell’opera) Philosophie – Filozofija:
Filozofska orijentacija u svijetu, Rasvjetljavanje egzistencije, Metafizika, Sremski Karlovci 1989,
p. 20: «[...] anche se Jaspers continuamente tratta l’argomento “Dio” e anche se tutto il suo pensiero riguarda la divinità, esso tuttavia non risulta tanto attraente ai teologi cristiani».
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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”
Danijel Tolvajčić
non ha cercato, come Hegel, i seguaci del proprio filosofare. Non è possibile alcun
“jaspersismo”. Al posto di cercare delle scuole di pensiero o degli eredi, secondo
la nostra opinione, la metafisica di Jaspers, ma anche la sua intera filosofia, va
concepita come uno stimolo dei modi personali per la “chiarificazione
dell’esistenza” o, detto altrimenti, per la ricerca di un autentico “io”. Stare sulla
strada della “chiarificazione dell’esistenza” e riconoscere la trascendenza in quanto «il fondamento sul quale l’esistenza si radica e nel quale riconosce la propria
fonte», rimane sempre nella sfera del personale. Cercare di arrivare ad edificare,
partendo da questi stimoli jaspersiani, un sistema, significherebbe fraintenderlo
del tutto. Anzi, ciò indurrebbe, secondo la nostra opinione, ad una violenza
estrema nei confronti della sua filosofia. La metafisica, articolata nella fede filosofica e al di là sia di un certo teismo religioso sia dell’immanentizzazione voluta
dall’ateismo, è il percorso del singolo filosofante, e non un’imitazione di Jaspers o
una ripetizione delle sue conclusioni.
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Esistenza, identità, alterità
Furia Valori
Esistenza, alterità, identità in Pantaleo
Carabellese
Furia Valori
Existence, Otherness, Identity in Pantaleo Carabellese’s Thought
Abstract
This paper intends to investigate the relatioship between existence, identity and otherness in Pantaleo Carabellese’s thought. In particular the auctor focuses on the second part of the last systematic development of Carabellese’s work titled The Being and Its Manifestation, in which there is
a wide part dedicate to the “I”. Here, as Furia valori argues, it’s possible to find the deepest and
mature dissertation of Carabellese’s thought about the multiple subjectivity, within the horizon of
the theory of the “pure being of consciousness” which represents the most important element in
the philosophy of the Italian thinker.
Keywords: Existence, Otherness, Identity, Being, Subjectivity, God.
1. L’io, uno esistente
La filosofia ci indirizza a pensare l’alterità coniugandola in molti modi con
l’ontologia, spesso con l’onto-teologia. Infatti, Altro è il deus ora misteriosamente absconditus, ora «più interiore a me di me stesso», ora Essere come
fondamento dell’ente perché differente ontologicamente; oppure l’alterità viene
declinata ora con la “differenza”, il “margine”, ora con l’“evasione” all’interno di
un contesto argomentativo critico nei confronti dell’ontologia basata sulla
categoria dell’ identità, ora con l’altro visto nella dinamica sincronica e diacronica
del riconoscimento di sé come un altro. Si potrebbe continuare nell’elenco con
ulteriori esempi, e ogni interruzione sarebbe arbitraria. Qui intendiamo discutere criticamente la particolare riflessione riguardo all’alterità elaborata
dall’ontologismo critico del Carabellese.
La seconda parte del sistema L’Essere e la sua manifestazione è intitolata dal
Carabellese semplicemente e significativamente Io e costituisce la sua più ampia
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Esistenza, identità, alterità
Furia Valori
e matura trattazione della soggettività molteplice 1 . Qui è contenuto un
interessante sviluppo del concetto di alterità, secondo una particolare accezione
concettuale che riceve luce all’interno della concezione carabellesiana dell’“essere
di coscienza”. Ineludibile il riferimento anche alla prima parte del sistema,
dedicata allo sviluppo della dialettica interna, non oppositiva, dell’Oggetto puro,
espressione non felice per indicare Dio, o l’Essere in sé, o l’Unico, per restare nel
lessico carabellesiano.
Nella maturità del filosofo il nesso di Dio e molteplicità soggettiva, i due
“distinti”, costituisce la concretezza de “l’essere di coscienza” puro, apriori,
fondamento della manifestazione spazio-temporale, aposteriori. Per il
Carabellese il pensare che non sia anche essere sarebbe contraddittorio; l’essere
è del pensare, costituisce la sua essenza: da qui l’essere coscienziale di cui la
molteplicità dei pensanti e l’Oggetto puro, l’universale, costituiscono le
condizioni necessarie per esser tale.
In Io, dopo aver ripreso sinteticamente i concetti fondamentali dell’essere di
coscienza, il Carabellese sviluppa il discorso sull’io mettendo in discussione in
primo luogo “l’esclusione filosofica di me dall’essere”, sostenuta in maniera
diversa dall’eleatismo, dal realismo e dall’idealismo. Tali orientamenti filosofici
avrebbero concepito l’io come soggetto spirituale, contrapposto all’oggetto, essere
non spirituale, perciò estraneo e inconoscibile. Quindi, il Carabellese dibatte le
determinazioni ontologiche che ritiene proprie dell’io: esistenza, unità, interezza
e alterità, evidenziando i problemi inerenti alla concezione predicativa
dell’alterità, all’interno di una più ampia trattazione del concetto giudicativo
dell’essere.
L’essere di coscienza richiede, oltre all’universale, Dio, anche l’io come
soggetto esistente, molteplice: «Io, dunque, sono non la coscienza, ma bensì
soltanto una distinta esigenza della coscienza, o meglio un distinto dell’essere di
coscienza, uno esistente»2.
Nell’ontocoscienzialismo 3 l’esistenza, né pura, né empirica, appartiene
all’Oggetto puro, Dio, che, come universale qualità, sostanzia i pensanti ed è
caratterizzata dall’inseità; l’esistenza è dei soggetti, i chi in cui si individua, o
anche termina, il che, la qualità universale. La caratteristica del soggetto è quella
di essere singolare, perciò uno, esistente. L’essere di coscienza “esige” l’esistenza
pura, non empirica; come tale l’io, uno esistente, non è limitato né è limitante
1 P.
Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione, Parte I, Dialettica delle forme, ed. critica a cura
di F. Valori, ESI, Napoli, 2003; Parte II, Io, ed. critica a cura di F. Valori, ESI, Napoli, 1998.
D’ora innanzi verrà citata semplicemente come Io.
2 Ivi, p. 223.
3 Così il Carabellese definisce anche il suo ontologismo critico nell’articolo La coscienza, in
Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Marzorati, Como 1944, pp. 205 ss.
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Esistenza, identità, alterità
Furia Valori
l’essere coscienziale: «Questo mio essere uno esistente è certo un distinguere me
in tale essere, ma non per questo è limitarlo (negarlo con qualcosa): la
distinzione non significa limitazione, anzi è propria di quell’essere di coscienza
che non ha limiti: di tale essere io sono uno esistente»4.
Senza l’io singolare esistente non si dà essere coscienziale: «Se non ci sono io –
precisa il Carabellese – proprio come uno esistente dell’essere di coscienza, la
coscienza non c’è: ci sarà forse Dio, ci sarà forse la materia, ma non c’è la
coscienza pura dell’uno, la coscienza empirica dell’altra, non c’è l’attività
consapevole»5. Senza coscienza non sarebbero né Dio, né la natura.
Cartesio ha posto in evidenza che l’io, in quanto pensante, è innegabile; e per
pensare, esige di essere un ente pensante, in atto. Il merito del filosofo francese è
quello di aver scoperto la spiritualità della sostanza e di averla vista nell’io
pensante; da ciò è derivata sia la dimostrazione cartesiana circa l’esistenza dell’io
come sostanza pensante, spirituale e quindi immortale, sia il ricondurre la
“certezza” nella soggettività, radicando tuttavia, in definitiva, l’origine della verità
in Dio, non nell’autoevidenza del soggetto. Ma Cartesio non avrebbe sviluppato
la sua scoperta che richiede che nel pensare come tale ci sia la “sostanzialità”, in
quanto concepisce riduttivamente il singolo soggetto pensante/esistente come
portatore passivo di idee innate fatte da Dio, pensato a sua volta come altro del
soggetto, quindi come un altro soggetto, pur se infinito.
In Da Cartesio a Rosmini, rivendicando che la spiritualità della sostanza
comporta la sua attività, il Carabellese pone in evidenza la passività insita
nell’innatismo: «Se l’attività spirituale è fare o creare idee vere, e questa attività
risulta estranea al pensare del quale io sono certo, è chiaro che la scoperta
cartesiana è tolta in entrambi i suoi aspetti: il pensare, del quale ho certezza, non
ha sostanzialità spirituale» 6 . Perciò la sostanzialità ritorna ad avere quella
connotazione passiva e neutra della “cosa qualificata aristotelica” che il cogito
aveva posto in discussione.
All’incoerenza nella concezione della sostanzialità si unisce in Cartesio l’altra
incoerenza relativa al «realismo inconsapevolmente professato», riguardante da
un lato la res extensa che non appartiene alla coscienza, come del resto la stessa res cogitans infinita. L’esistenza in tal modo si coniuga anche e
inconseguentemente con la concezione della sostanza come indipendente dal
pensiero. Il Carabellese fa derivare dalle due incoerenze cartesiane il circolo
vizioso «tra me in quanto affermo la spiritualità in me e quindi mi pongo come la
sostanza unica» da cui viene a dipendere Dio e «Dio in quanto l’unica sostanza
Io, p. 223.
Ivi, p. 229.
6 P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini, Sansoni, Firenze 1946, p. 19.
4
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Esistenza, identità, alterità
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attiva spirituale, da cui dipende quella mia sostanzialità, dalla quale invece facevo
dipendere Dio»7. Al fine di annullare tale circolo vizioso fra io e Dio, Cartesio
avrebbe dovuto eliminare il residuo di realismo ancora presente nella concezione
della sostanza.
Il Carabellese non condivide la concezione realistica che vede il soggetto
contrapposto e passivo nei confronti dell’oggetto; soggetto che nello stesso tempo
è chiuso in se stesso e distinto dagli altri soggetti, con la difficoltà di pensare la
relazione e la comunicazione intersoggettiva. Al realismo consegue la passività e
quindi l’annullamento del soggetto rispetto all’oggetto. Invece l’idealismo postkantiano assolutizza il soggetto e concepisce l’oggetto come non-io, negazione;
non solo, ma trascina nella negazione anche l’altro soggetto; la soluzione
fichtiana del problema degli altri, o dell’altro, sfocia nella loro negazione.
Entrambe le concezioni non colgono la concretezza della coscienza e conservano
un dualismo che le rende astratte.
2. Alterità e non assolutezza dell’io
L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto
universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io
come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io,
sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella
coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta
così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io
fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza,
assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli
vede come una nuova forma di eleatismo8.
Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con
la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non
assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me
costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma
proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri “di” me,
esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me9.
Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il
Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo
trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come
innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo,
7 Ivi,
pp. 25-26.
Io, pp. 209 ss.
9 Ivi, p. 222.
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Esistenza, identità, alterità
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pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che
anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio
corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo»10. Il Carabellese rifiuta l’ipotesi materialistica,
perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la
propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si
identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si
realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come
uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il
nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere.
Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come
esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito
implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte
ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità
identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente
ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi,
ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto.
L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che
venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano
tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il
limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione
dell’altro, o degli altri,
«bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali,
escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare
proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e
cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non
coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la
quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo,
coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza»11.
Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica,
ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è
solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio12.
L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro:
Ivi, p. 224.
Ivi, pp. 229-230.
12 P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, rist. an. a cura e con Introduzione di E.
Mirri, ESI, Napoli, 1994, pp. 56 ss.
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«Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno,
unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno» 13 . E, ancora più
incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”»14.
L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è esteriore, né
eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto
realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei
soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno
dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente;
infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione,
come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma
all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un
altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo
l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo
muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo
fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è
terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto
non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.
L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce
singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia
ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di
ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità
e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese
invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé:
«Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe
essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io
veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio
divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba
riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere
l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto
amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi
costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla
sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15.
La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri
13 Io,
p. 230.
Ivi, p. 237.
15 Ivi, p. 231.
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termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a
dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma
e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri
riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la
mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso,
privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in
realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto.
Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere
più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di
moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e
interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si
comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico.
L’altro per il Carabellese è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il
riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e
altri. Per il Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non
si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia,
si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri
“me”.
Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza
nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio
l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla.
Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto.
L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale
relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il singolo
uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata
persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato
nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in
quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza”
e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane
Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora
riferimento alla volontà come principio metafisico17. Però proprio il pensare, da
lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano
nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come
abbiamo visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della
16
17
Ibidem.
Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma 1999.
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Esistenza, identità, alterità
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dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento
dell’attività spirituale umana.
Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a
quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando
una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si
arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza,
allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi
anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe
dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci
sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa:
«Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di
ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da
me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli
sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19.
Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano.
Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo
due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe
eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo
l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è
essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è
un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è
essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana.
«Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità,
nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha
nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova
precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità
pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone
viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io,
alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno,
18 Io,
p. 234.
Ibidem.
20 Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese, ESI, Napoli 1996, pp. 81 ss.
21 Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza, cit., pp. 221 ss.
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immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche
la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi,
ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22.
La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale
e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente
penetrativi24.
3. Critica dell’alterità come “esse in alio”
Nelle sue riflessioni sull’alterità il Carabellese affronta la questione per cui
l’alterità possa essere ancora concepita come “essere in altro”, ossia qualità,
“modo” della sostanza, intesa aristotelicamente o anche spinozianamente. A
questo proposito si chiede se possa ritenersi valido l’assioma di Spinoza secondo
il quale: «omnia quae sunt, vel in se vel in alio sunt». Se così fosse l’io sarebbe
modo, predicato, qualità della sostanza, e quindi quest’ultima sarebbe intesa
come altro, inerendo al quale l’io assumerebbe l’esistenza. Ma in tal modo per il
Carabellese l’io perderebbe l’esistenza che consiste, abbiamo visto, nell’intuirsi
insieme in Dio; inoltre l’alterità sarebbe della sostanza, di cui l’io costituirebbe
solo un’affezione. La concezione dell’altro come affezione, o modo, o qualità della
sostanza è alla base della concezione giudicativa dell’essere.
Nella concezione carabellesiana l’alterità dell’io non sta ad indicare che l’io
inerisce in altro: la concezione giudicativa dell’essere genera confusione riguardo
ai concetti di qualità, predicazione e alterità: «Io che sono altro, non posso essere
in altro»25.
Per superare gli errori della concezione giudicativa dell’essere è necessario,
secondo il Carabellese, abbandonare come punto di partenza il divenire per
approdare all’essere metafisico, in cui l’io molteplice non è espulso e in cui la
qualità infinita è caratterizzata dall’“inseità”.
L’alterità è esigenza insopprimibile dell’essere puro di coscienza:
«L’alterità dell’essere, per la quale io sono, non è l’essere in altro, a cui è stato ridotto
il predicato, essere in altro che sopprime me come uno e come ente a vantaggio di
quell’uno e di quell’ente, del quale dovrei ritrovarmi qualità predicativa, ma è, invece,
schiettamente, l’essere altro, quell’altro che sono io come uno di noi altri in rapporto
reciproco tra noi»26.
22 Io,
p. 235.
Ivi, p. 281 ss.
24 Ivi, p. 268 ss.
25 Ivi, p. 243.
26 Ivi, p. 245.
23
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Partendo dalla sua concezione dei distinti dell’essere puro di coscienza il
Carabellese sottolinea la contraddittorietà della concezione dell’alterità come
essere in altro, in quanto proprio l’essere in sé diventa l’altro: «Concludendo –
afferma il Carabellese – la sostanza non è soggetto ma qualità (oggetto, diremmo)
dell’essere di coscienza, nel quale io pure son presente come soggetto. E così
l’altro, che appunto sono io, non sono predicato ma soggetto di tale essere»27. Di
contro a Hegel che sostiene la soggettività della sostanza, il Carabellese ne
sottolinea la non soggettività, il suo essere essenza, qualità infinita che “si termina” – altra espressione che egli usa – nei soggetti. Ma, appunto, sorge il grave
problema di come il non-soggettivo possa principiare il soggettivo. Distinguendo
l’io dal qualitativo Unico, afferma: «Non per questo a) nego l’Unico o b) sono
l’altro dell’Unico»28; infatti, per il Carabellese «Io non sono l’altro di Dio, cioè
l’altro Dio», in quanto ponendo la diversità come alterità, Dio diventerebbe un
altro io. La relazione è fra i molti soggetti, non fra l’io e Dio che, se fosse
possibile, comporterebbe l’annullamento dell’essere di coscienza; la relazione è
alla base della concezione personale di Dio che il Carabellese vede viziata
dall’antropomorfismo.
Sulla base dell’essere di coscienza puro, che è in sé “diversità” e “alterità”, nel
senso prima illustrato, egli corregge l’assioma spinoziano in precedenza citato, in
modo da esprimere la concretezza dell’essere coscienziale: «Quod est, in se et
aliud est»29.
La concezione carabellesiana dei soggetti non è scevra di problemi, come del
resto la sua concezione di Dio o Oggetto puro. Qual è la consistenza ontologica
dei soggetti? Nella piena maturità del suo pensiero, a partire dalla seconda navigazione dalla fine degli anni Venti e quindi da Il problema teologico come
filosofia (1931), il Carabellese approda, dall’iniziale fenomenismo30, all’essere
coscienziale apriori; ciò comporta anche una mutazione nel rapporto fra i due
distinti, ossia fra l’Oggetto puro, universale e i molti soggetti; infatti l’Oggetto
puro viene concepito anche come Dio, Principio, fondamento dei molti soggetti; e
ancora egli concepisce l’Unico come attività che costituisce in una infinita
moltiplicazione-alterazione la molteplicità soggettiva. Ma questo comporta che i
soggetti non abbiano quella valenza e autonomia ontologica che la correzione
carabellesiana del detto spinoziano sottolinea. Nell’assioma proposto dal Cara Ivi, p. 246.
Ibidem.
29 Ivi, p. 248.
30 Per l’iniziale fenomenismo si vedano in particolare le opere P.
Carabellese, L’Essere e il
problema religioso. A proposito del Conosci te stesso del Varisco, Bari Laterza, 1914; Id., La
coscienza morale, I ed. Tip. Mod., La Spezia, 1914-15; II ed. con saggio introduttivo di F. Valori,
Carabba, Lanciano, 2014; Id., La critica del concreto, Pagnini, Pistoia 1921.
27
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bellese c’è la eco dell’impostazione gnoseologica iniziale dell’ontologismo critico,
in cui i due distinti erano pensati kantianamente come condizioni trascendentali
dell’essere coscienziale, ancora inteso fenomenisticamente, e quindi erano
ritenuti astratti in se stessi e concreti nella loro compattezza, comunque di pari
dignità. L’evoluzione in chiave metafisico-teologica 31 delle riflessioni carabellesiane ha portato a concepire come Dio, il distinto dell’universale Oggetto, pur
permanendo l’originale impianto trascendentale, che risulta perciò inadeguato; il
circolo vizioso fra Dio e io32, che abbiamo evidenziato, ne è testimonianza. Ma
nelle variazioni e nelle difficoltà teoretiche resta sempre potente il richiamo alla
dimensione intersoggettiva, comunitaria, del pensare come cum-sapere, che è
fondamentalmente sentire, intendere e volere Dio, un “indiarsi” 33 , da cui
scaturisce ciò che è perenne nell’attività spirituale umana, tutto il testo è
transeunte.
Sugli esiti del pensiero carabellesiano maturo cfr. E. Mirri, Considerazioni sul rapporto fra
filosofia, metafisica e teologia in Carabellese, in Pantaleo Carabellese, il “tarlo” del filosofare,
Dedalo, Bari 1979, pp.89 ss.; Id., Pantaleo Carabellese: l’ontologismo critico, in Filosofie
“minoritarie” in Italia tra le due guerre, Roma 1982, pp. 87-114.
32 Cfr. in proposito F. Valori, Saggio introduttivo in P. Carabellese, L’Essere e la sua
manifestazione, Parte II, Io, cit., pp. 147 ss.
33 Cfr. P. Carabellese, L’attività spirituale umana, a cura di E. Mirri, ESI, Napoli 1991, p. 213.
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