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Danno e responsabilità
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Sommario
OPINIONI
Responsabilità
del medico
COLPA E LINEE GUIDA
di Massimo Franzoni
801
LA RESPONSABILITÀ DELLA STRUTTURA SANITARIA
di Marilena Gorgoni
807
LA RESPONSABILITÀ MEDICA: DAL PRIMATO DELLA GIURISPRUDENZA ALLA DISCIPLINA
LEGISLATIVA
di Giulio Ponzanelli
816
CAUSALITÀ E RESPONSABILITÀ MEDICA: CINQUE VARIAZIONI DEL TEMA
di Roberto Pucella
821
GIURISPRUDENZA
Legittimità
Danni punitivi
LA DELIBABILITÀ DELLE SENTENZE STRANIERE COMMINATORIE DI DANNI PUNITIVI FINALMENTE
AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE
Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio 2016, n. 9978
Nota di Pier Giuseppe Monateri
Nota di Giulio Ponzanelli
827
831
836
Danni da eventi DANNI DA PIOGGIA INTENSA: RESPONSABILITÀ E CASO FORTUITO
atmosferici
Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n. 5877
Nota di Vera Vozza
839
841
Inadempimento LA RESPONSABILITÀ DELLE BANCHE TRA PRINCIPI GENERALI E NORME SPECIALI
contrattuale
Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 806
Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442
Nota di Martina Gerbi
844
846
849
Equa riparazione L’ENTE E IL PROCESSO ‘‘LUMACA’’: IL DANNO MORALE SOGGETTIVO ALLA VELOCITÀ
DELLA LUCE
Cassazione Civile, Sez. VI-2, 12 gennaio 2016, n. 322
Nota di Silvia Monti
855
857
Merito
Società
Cessione
di crediti
LA VALUTAZIONE DEL DANNO IN VIA EQUITATIVA, IL CRITERIO DELLA DIFFERENZA
DEI NETTI PATRIMONIALI E LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI
Tribunale di Ferrara 18 marzo 2016
Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016
Tribunale di Milano 7 ottobre 2015
Nota di Giovanni Facci
864
868
870
872
L’ABUSO DELLA CESSIONE DEL CREDITO RISARCITORIO
Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227
Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099
Nota di Stefano Argine e Giampaolo Miotto
884
885
887
Osservatorio di legittimità
a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito
898
Osservatorio di merito
a cura di Paolo Carbone
902
Osservatorio di giustizia penale
a cura di Carlo Piergallini
Danno e responsabilità 8-9/2016
909
799
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Numero Demo
Danno e responsabilità
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Sommario
Osservatorio sulla giustizia amministrativa
913
a cura di Gina Gioia
INDICI
917
INDICE AUTORI, CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI, ANALITICO
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Mario Barcellona, Giovanni Comandè, Marco De Cristofaro, Maria Vita de Giorgi, Antonio Iannarelli,Giorgio Lener, Francesco Macario, Maria Rosaria Marella, Giovanni Marini, Marisaria Maugeri, Daniela Memmo, Andrea Nicolussi, Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Giovanni Pascuzzi, Barbara Pozzo, Antonino Procida Mirabelli di Lauro, Alessandro Somma, Onofrio Troiano, Andrea Violante.
EDITRICE
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Opinioni
Responsabilità del medico
Soft Law e colpa medica
Colpa e linee guida
di Massimo Franzoni (*)
Lo studio vuole dimostrare che una parte importante delle attività umane è disciplinato da una
di regole concertate, ad esempio quelle contenute nei codici deontologici, oppure da regole la
cui legittimazione non poggia sull’esercizio della sovranità popolare tradizionalmente intesa. Le
linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica sono un esempio di un “diritto tecnocratico” che incomincia ad affiancarsi al diritto positivo tradizionale. La cogenza di
queste regole è diversa rispetto alle norme giuridiche in senso stretto. L’impiego di queste nuove regole rende più “trasparente e tracciabile” la perizia, la diligenza e la prudenza adoperate
dal professionista nell’adempimento dell’incarico.
La soft law come regola del rapporto
professionale
Il c.d. decreto Balduzzi è significativamente intervenuto nel regolare la responsabilità del medico (1), con l’art. 3, comma 1: “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria
attività si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del
codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente
conto della condotta di cui al primo periodo”.
L’accento è posto sulle linee guida e sulle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica; il
giurista tradizionale non è abituato né a questo linguaggio, né tantomeno alla comprensione di queste
regole tra le fonti del diritto. Ma il fenomeno non
riguarda esclusivamente.
L’attività dei professionisti è sempre più interessata
da una cospicua normativa di settore non riconducibile al diritto positivo propriamente inteso. Inco-
mincio questa riflessione segnalando la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”: la L. 31 dicembre 2012, n. 247, in 67 articoli
menziona la parola “deontologia” ben 21 volte.
L’entrata in scena di questo tipo di regolamentazione ha origini relativamente lontane; si può iniziare
dall’art. 12, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che, in
materia di privacy, replicando la precedente norma
del 1996, ha attribuito al Garante il compito di
promuove la sottoscrizione di codici di deontologia
e di buona condotta per determinati settori, nell’ambito delle categorie interessate, nell’osservanza
del principio di rappresentatività e tenendo conto
dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa sul trattamento di dati personali.
L’aspetto rilevante di questa nuova disciplina, che,
di fatto, ha esteso la sua portata anche a settori diversi da quello del trattamento dei dati personali, è
che questi “codici sono pubblicati nella G.U. della
Repubblica italiana a cura del Garante e, con decreto del Ministro della giustizia, sono riportati
nell’allegato A) del presente codice” (art. 12, comma 2, cit.) (2). “Il rispetto delle disposizioni conte-
(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi
venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”.
(1) Si tratta del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, pubblicato
nella G.U. 13 settembre 2012, n. 214, convertito dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, recante: “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”.
(2) Senza pretese di completezza ricordo:
Allegato A. 1. Codice di deontologia - Trattamento dei dati
personali nell’esercizio dell’attività giornalistica;
Allegato A. 2. Codici di deontologia - Trattamento dei dati
personali per scopi storici;
Allegato A. 3. Codice di deontologia - Trattamento dei dati
personali a scopi statistici in ambito Sistema statistico nazionale;
Allegato A. 4. Codice di deontologia e di buona condotta
per i trattamenti di dati personali per scopi statistici e scientifici;
Allegato A. 5. Codice di deontologia e di buona condotta
per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di
crediti al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti;
Allegato A. 6. Codice di deontologia e di buona condotta
per i trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investi-
Danno e responsabilità 8-9/2016
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Sinergie Grafiche srl
Opinioni
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Responsabilità del medico
nute nei codici di cui al comma 1° costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del
trattamento dei dati personali effettuato da soggetti
privati e pubblici”, così dispone l’art. 12, comma 3,
cit.
Tecnicamente le regole di deontologia appartengono al genere della normativa secondaria, diversa
anche dagli usi, che mal si coniuga con l’idea del
diritto positivo. Normalmente quei precetti non
sono il risultato dell’eteronomia, ma, seppure in
senso ampio, sono conseguenza dell’autonomia di
coloro che saranno destinatari di quelle stesse norme. Proprio per questo esse sono cogenti per la categoria che le ha volute e tale cogenza può essere
declinata pure nel giudizio che vede come parti il
titolare del dato personale che lamenti una lesione
e il titolare o il responsabile del trattamento di
quel dato.
Nel corso del tempo, sulla falsariga di queste regole, definite codice deontologico, sono state pubblicate diverse decine di altri codici con caratteri e finalità analoghi: tra i più significativi, ricordo il
Codice di deontologia medica, approvato il 18
maggio 2014, dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (3); il
Codice deontologico degli psicologi italiani, approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (4); il Codice deontologico dell’infermiere,
approvato dal Comitato centrale della Federazione
con deliberazione n. 1/09 del 10 gennaio 2009 e
dal Consiglio nazionale dei Collegi Ipasvi riunito a
Roma nella seduta del 17 gennaio 2009 e revisionato nel 2012 (5); il Codice deontologico degli ingegneri, approvato dal Consiglio Nazionale Ingegneri nella seduta del 9 aprile 2014 (6); il Codice
deontologico degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, approvato dal Consiglio
nazionale del relativo ordine, entrato in vigore il
1° gennaio 2014 (7); il Codice deontologico dei
Geologi, approvato dal Consiglio nazionale del relativo ordine con delibera n. 65 del 24 marzo
2010 (8).
Ancora, e senza pretese di completezza, ricordo il
Codice deontologico dei dottori commercialisti,
approvato dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili in data 9 aprile
2008, aggiornato al 1° settembre 2010 (9); il Codice deontologico dei notai, approvato con delibera
del Consiglio nazionale del notariato n. 2/56 del 5
aprile 2008; e il Codice deontologico forense, in
vigore dal 15 dicembre 2014, modificato dalla delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014 che lo adegua alle previsioni del nuovo
ordinamento forense (10). Alcune categorie professionali si sono riunite in ambito europeo come il
Consiglio degli Ordini Forensi Europei, associazione internazionale senza scopo di lucro, ed hanno
elaborato la Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo e il Codice deontologico degli
avvocati europei (11).
Altri professionisti, come gli amministratori o i
sindaci di società, sono sottoposti a regole emanate
da Consob, da Banca d’Italia S.p.a, da IVASS
(Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni), che
con D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla L. 7
agosto 2012, n. 135, ha sostituito l’Isvap (Istituto
per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di Interesse Collettivo), istituita con L. 12 agosto 1982,
n. 576. La prima autorità di controllo emana regolamenti, comunicazioni e raccomandazioni, con le
quali può vincolare l’attività degli amministratori,
come ad esempio il modo in cui redigere un prospetto informativo (12). A queste regole devono
assoggettarsi anche gli amministratori di società
gazioni difensive.
(3) Cfr. http://www.omco.pd.it/normativa-ordinistica/codicedeontologico.html.
(4) Cfr. http://www.psy.it/lo_psicologo/codice_deontologico.html; questo entra in vigore il trentesimo giorno successivo
alla proclamazione dei risultati del referendum di approvazione, ai sensi dell’art. 28, comma 6, lett. c), L. 18 febbraio 1989,
n. 56.
(5) Cfr. http://www.ipasvi.it/norme-e-codici/deontologia/ilcodice-deontologico.htm.
(6) Cfr. http:// www.tuttoingegnere.it/portalecni/resources/cms/documents/codice_deontologico_e_circolare_cni_n._375_del_14_maggio_2014.pdf.
(7) Cfr. http://www.architettibrescia.net/le-nuove-normedeontologiche-in-vigore-dal-1%C2%B0-gennaio-2014/.
(8) Cfr. http://geologilazio.it/public/file/2010/05/codice_deontologico_2010.pdf; in seguito al contraddittorio instaurato
con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust), nel nuovo testo risultano modificati gli artt. 17, 18, 19 e
26 di cui al Codice deontologico già approvato dal Consiglio
nazionale dei geologi con deliberazione n. 143 del 19 dicembre
2006.
(9) Cfr. http://www.commercialisti.it/portal/documenti/dettaglio.aspx?id=8a82fbfa-7a55-4c6b-8dd9-7a9123c852e1.
(10) Cfr. http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-avvocati/codice-deontologico-forense.html; anche
questo Codice è pubblicato sulla G.U. del 16 ottobre 2014, n.
241.
(11) Cfr. http://www.ccbe.eu/fileadmin/user_upload/ntcdocument/5761codicedeontologi6_1352191308.pdf.
(12) Cfr. Regolamento Consob 14 maggio 1999, n. 11971,
di attuazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 concernente
la disciplina degli emittenti, nel testo integrato e aggiornato al
20 marzo 2015, http://www.consob.it/documenti/Regolamentazione/normativa/regemit.htm; oppure come il “Manuale operativo per l’utilizzo della procedura telematica di raccolta delle informazioni”, versione 5.0, in http://www.consob.it/documents/10194/0/Manuale+Tecnico_SAIVIC/aec59520-d84e-489c92fd-6591df7f96a1.
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Opinioni
Responsabilità del medico
sottoposte al controllo di altre autorità, come le
banche, controllate dalla Banca d’Italia S.p.a., o le
assicurazioni controllate da IVASS.
Ulteriori regole sono emanate da Borsa italiana
s.p.a. che, occupandosi dell’organizzazione, della
gestione e del funzionamento della Borsa di Milano, detta norme cui non sono estranei gli amministratori delle società quotate nei mercati regolamentati.
Gli amministratori e i sindaci di società quotate sono, inoltre, sottoposti al Codice di autodisciplina delle società quotate (13), che funziona su base volontaria, e che detta regole di comportamento per amministratori e per sindaci e, più in generale, per il
sistema di controllo interno. L’accettazione dell’incarico comporta automaticamente l’assoggettamento anche a queste regole da parte degli organismi
gestori o di controllo, sempre che la società della
quale sono organi abbia aderito a quel codice. Il
predetto codice è approvato dal Comitato corporate
governance, istituito nel 1994, composto dai membri del consiglio direttivo Assogestioni (14), oltre
che dai delegati di banche e di imprese di assicurazione attive nella gestione individuale e collettiva
del risparmio che ne facciano richiesta. Il Comitato corporate governance ha la funzione di promuovere la diffusione della cultura della governance tra gli
operatori del mercato, attraverso il monitoraggio
dei comportamenti delle società quotate, l’elaborazione di codici di autodisciplina e la partecipazione
al dibattito politico e accademico.
Nello svolgimento del controllo e della vigilanza
di società di capitali è opportuno che i sindaci seguano i “Principi di comportamento del collegio
sindacale” del 1995 (15), condivise dalla Consob
nelle raccomandazioni del 20 febbraio 1997. Di seguito a queste, il Consiglio nazionale dell’ordine
dei commercialisti ha emanato “Norme di comportamento del collegio sindacale nelle società quotate” e anche quelle delle società non quotate (16).
L’efficacia di queste disposizioni può essere ricondotta a quella delle linee guida in ambito medico;
rispetto a queste, tuttavia, azzarderei a dire che è
molto più ristretto il margine di criticità che i sindaci devono adottare. In ambito medico è molto
verosimile che il caso di specie ponga una serie di
variabili tali da richiedere preliminarmente al medico una valutazione in merito all’opportunità di
adeguarsi o di discostarsi dalla norma di linea guida. Astrattamente questo ragionamento può essere
riprodotto anche per le Norme di comportamento
del collegio sindacale, anche se in questo ambito è
poco probabile che ci si debba discostare da certe
regole, quantomeno in modo corrispondente al settore medico.
(13) Cfr. http://www.borsaitaliana.it/comitato-corporate-governance/codice/2014clean.pdf.
(14) L’associazione italiana dei gestori del risparmio, rappresentante la maggior parte delle società di gestione del risparmio italiane e straniere operanti nel nostro Paese.
(15) In http://www.finanzaefisco.it/Articoli/1999/Principi%20contabili/PCB03-96.pdf.
(16) Per le società aperte, quelle quotate: http://media.di-
rectio.it/portale/altridoc/20150415-norme_collegio_sindacale_societ%c3%a0_quotate-cndcec.pdf; per le società chiuse, quelle non quotate: http://www.odcectivoli.it/documents/consultaz_norme_di_comportamento_per_so-ciet_.pdf.
(17) Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, in CED,
rv. 261764 (m); Cass. Pen., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289,
in CED, rv. 260739 (m), in motivazione la corte ha precisato
che la disciplina di cui all’art. 3, L. 8 novembre 2012, n. 189,
Danno e responsabilità 8-9/2016
La colpa grave nel decreto Balduzzi
e la soft law
Il c.d. decreto Balduzzi è significativamente intervenuto nel regolare la responsabilità del medico.
L’innovazione legislativa è caratterizzata dalla non
sistematicità, basti considerare:
- che il sistema penale non conosce la colpa lieve;
- che “l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.” non ha un
chiaro significato, giacché l’ormai consolidata prassi riconduce al contatto sociale la responsabilità
del medico per inadempimento al dovere di comportarsi con la diligenza da “valutarsi con riguardo
alla natura dell’attività esercitata”. È già stato osservato che una soluzione potrebbe essere quella di
considerare il riferimento all’art. 2043 c.c. come
una metonimia, ossia come un mero richiamo della
colpa, che, comunque, qui dovrebbe essere inteso
come colpa professionale, per le ragioni indicate
nel testo (art. 1176, comma 2, c.c.);
- che non si può prevedere in quale modo possa incidere sulla determinazione del risarcimento l’osservanza della condotta di cui al primo periodo, ossia l’adeguamento a “linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica”.
Diverso è il meccanismo predisposto dal comma
successivo con il quale si prevede l’ingresso dell’assicurazione in questo settore.
Tuttavia è positivo il riferimento alla c.d. normativa secondaria (la soft law) contenuta nelle linee
guida e nelle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Si tratta di disposizioni che possono integrare il precetto della norma primaria,
quindi il dovere di diligenza, di perizia e di prudenza (17), e che godono di un’elevata autorevolezza
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per via della fonte da cui provengono. Certo, per
quanto riguarda le linee guida, occorre di queste
valutare prevalentemente il fine per le quali sono
state predisposte e accertarne l’aggiornamento costante. Così, ad esempio, qualora queste linee guida fossero indirizzate soltanto a creare prassi finalizzate al risparmio di spesa o a seguire determinate
procedure amministrative, il loro impiego sarebbe
scarso. Al contrario, qualora il loro scopo sia quello
di concorrere a creare protocolli o comunque prassi
da seguire nella diagnosi, terapia o nelle dimissioni
del paziente, nella regolare tenuta della cartella clinica; nel creare una prassi da impiegare con il paziente ai fini della corretta informazione prima e
durante la terapia, sicuramente si tratta di una normativa utile della quale il giudice ordinario ben
può tener conto, nel giudizio di responsabilità (18).
Sulle linee guida i giudici penali si sono più volte
soffermati. In primo luogo hanno deciso che “le linee guida rappresentano un valido ausilio scientifico per il medico che con queste si deve confrontare, ma non fanno venir meno l’autonomia del professionista nelle scelte terapeutiche perché l’arte
medica, non basandosi su protocolli a base matematica, è suscettibile di accogliere diverse pratiche
o soluzioni efficaci, nel cui alveo scegliere in relazione alle varianti del caso specifico che solo il medico può apprezzare in concreto” (19). Senonché
hanno altresì ritenuto che “le linee guida assolvono solo allo scopo di orientare l’attività del medico, il quale però deve considerare sempre le esigenze del paziente, anche considerato che talvolta le
linee guida hanno matrice economico-gestionale e
si pongono in contrasto con le necessità del malato. L’osservanza o inosservanza delle linee guida
non determina (né esclude) automaticamente la
colpa nel sanitario” (20). Per poi concludere che
“dal punto di vista del giudizio sulla colpa del medico, il giudice resta libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se
le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida a disposizione
del medico, oppure una condotta diversa da quella
descritta in dette linee guida” (21). A questo riguardo si consideri che è stato giudicato in colpa
grave il medico che “si attiene a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico
diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate
linee guida” (22).
Le linee guida sono regole emanate dal ministero
della sanità con circolari o decreti (23); da organismi dotati di un certo grado di autorevolezza scientifica, come le Società di Medicina (24), talvolta
sono contenute in delibere di consigli regionali (25); talaltra in circolari, ordini interni di organi
in posizione apicale delle Aziende sanitarie. Il loro
accreditamento dipende dal modo in cui sono state
raccolte, ad esempio sono accreditate quelle raccolte dal Sistema nazionale per le linee guida
(SNLG), attivato con D.M. 30 giugno 2004 (26),
che aderisce al Guidelines International Network (GI-N) (27).
Le linee guida sono un paradosso, se si attribuisce
loro la precettività propria del diritto positivo. A
fatica, infatti, si riesce a spiegare il diverso grado di
vincolatività nei diversi settori specialistici. Si
pensi al geriatra: questi avrà difficoltà ad applicare
raccomandazioni standardizzate per la cura dei suoi
pazienti, usualmente affetti da plurime patologie,
soggetti a polifarmacoterapia. All’opposto, l’ostetri-
pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può
tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo
della condotta dell’agente sia quello della diligenza; contra
Cass. Pen., Sez. III, 4 dicembre 2013, n. 5460, in Riv. pen.,
2014, 489.
(18) Così Cass. Pen., Sez. IV, 5 novembre 2013, n. 18430,
in CED, rv. 261293 (m); Cass. Pen., Sez. IV, 15 ottobre 2013, n.
46753, in Giur. it., 2014, 156, con nota di Risicato.
(19) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, in
http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=40134&catid=103&Itemid=350&mese=09&anno=2012; Cass. Pen., Sez. IV, 8 febbraio 2001, Bizzarri, in Riv. pen., 2002, 353.
(20) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, cit.,
nota prec.
(21) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, cit.,
penult. nota.
(22) Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, in CED, rv.
261764 (m); evidenziano un indubbio paradosso, G. Federspil,
- C. Scandellari, Le linee guida nella pratica clinica: significato e
limiti, in Professione Sanità Pubblica e Medicina Pratica, 1996,
4, 1 ss.: “se le regole che costituiscono le linee guida sono generiche ed elastiche, allora possono essere rispettate, ma non
sono utili e non sono molto diverse dai capitoli di un trattato.
Se invece le regole sono specifiche e rigide, allora devono
spesso essere violate per il bene del paziente”.
(23) Ad es. “Aggiornamento delle Linee guida per la metodologia di certificazione degli adempimenti dei piani regionali
sui tempi d’attesa, di cui al punto 9 dell’Intesa StatoRegioni
sul PNGLA 2010-2012”: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1548_allegato.pdf; d.m. 21 luglio 2004, per la
procreazione medicalmente assistita.
(24) Ad es. “Linee guida donazione di gameti” nella stesura
aggiornata al 3 settembre 2014 che è stata sottoscritta, oltre
che da SIFES, AOGOI, CECOS, SIDR, SIERR e SIOS, anche
dalle società scientifiche AGUI, SIA, SIAMS, e SIFR: http://sifes.it/linee-guida-donazione-di-gameti/.
(25) Cfr. http://www.snlg-iss.it/lgr#.
(26) Rinvio al sito http://www.snlg-iss.it/, per la completa
descrizione del sistema articolato su più livelli, nazionale e regionale, per tipi di malattia.
(27) Rinvio al sito http://www.g-i-n.net/.
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co, per la conduzione del parto, si trova ad assistere
una popolazione di pazienti nella sua maggioranza
sufficientemente omogenea, cui possono essere ordinariamente applicate procedure uniformi (28).
Questa normativa secondaria, quindi, non può essere considerata come la legge del diritto positivo.
Il medico deve dimostrare di conoscere le linee
guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, deve dimostrare di averle criticamente esaminate all’atto della scelta diagnostica o terapeutica, ancorché quella regola non abbia trovato
applicazione; è in colpa grave chi non l’abbia considerata o l’abbia seguita acriticamente. Queste linee guida, in altri termini, indicano il modo per
rendere trasparente il contegno tenuto dal medico,
consentendo di spiegare la perizia impiegata nella
fase di esecuzione della prestazione sanitaria e non
a posteriori. Ciò non compromette la libertà di
scienza del medico, ma comporta una più oculata
prova in punto di diligenza, che dovrebbe risolversi
sul piano della procedimentalizzazione dell’attività
medica e che dovrebbe palesarsi in modo significativo nella cartella medica (29).
Le linee guida, altrimenti intese anche come regola
dell’arte medica, sono sempre entrate nel processo
civile o penale, attraverso il lavoro del consulente
tecnico d’ufficio; sebbene egli fosse libero di farvi o
di non farvi richiamo, nonostante la mancanza di
una precisa prova sulla loro esistenza fornita dalla
parte. Ora il giudice è chiamato a darvi applicazione poiché, con qualche approssimazione, si può dire iura novit curia. In concreto, il richiamo effettuato dalla legge ad una norma diversa da quella del
sistema delle fonti del diritto attrae quest’ultima e
la colloca ad un grado che non potrebbe avere. Per
effetto dell’art. 3 del decreto Balduzzi, la linea guida formalmente entra nel sistema delle fonti del diritto, sostanzialmente conserva una cogenza e
un’efficacia diversa da quella di qualsiasi altra norma di diritto positivo.
Le linee guida e le regole dell’arte
Le linee guida non hanno il carattere della norma
regolamentare, che specifica quella ordinaria, ma
non può derogarvi. Semmai si deve ritenere che
queste stigmatizzano un certo comportamento da
tenere in una data situazione, a condizione che
(28) Cfr. anche Domenici e Guidi, Linee guida e colpa medica: spunti di riflessione, in questa Rivista, 2014, 353.
(29) È questo il senso di massime come quella della Cass.
Pen., Sez. IV, 18 giugno 2013, n. 39165, in Riv. it. med. leg.,
2014, 221: “In tema di responsabilità medica, l’inosservanza
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non sussistano ulteriori variabili che, esterne alla
fattispecie, siano tali da mettere a repentaglio l’efficacia della regola. È proprio questa la ragione per
la quale, a certe condizioni, il medico è obbligato a
derogare a quelle stesse linee guida che, altrimenti,
limiterebbero la sua responsabilità penale e comporterebbero una riduzione del risarcimento del
danno. Del resto, il diritto positivo nel porre un
precetto prefigura un certo comportamento in vista
di un risultato che valuta socialmente utile o comunque conveniente. Di conseguenza, la violazione di quel precetto è condizione necessaria e sufficiente per far seguire la sanzione, poiché l’antigiuridicità della condotta è di per sé contraria al progetto di società che il diritto positivo disegna. Viceversa la norma di una linea guida stigmatizza una
situazione in astratto, alla quale collega un certo
comportamento da seguire, sulla base di una regola
dell’esperienza o della migliore scienza. Senonché
è normale che la situazione con la quale il medico
deve misurarsi in concreto non sia corrispondente
a quella del modello, che il caso concreto sia la risultante di più patologie, per ciascuna delle quali è
predisposta una linea guida o una buona pratica. In
situazioni come queste, dunque, non sarebbe possibile seguire acriticamente alcuna regola dell’arte o
di una linea guida. Proprio questo aspetto è caratteristico di queste regole.
Pertanto la vera funzione delle linee guida è quella
di garantire la trasparenza nelle decisioni prese in
sede di esecuzione della prestazione professionale
(durante il processo come suol dirsi), così da assicurare il grado di perizia richiesto e la diligenza da
“valutarsi con riguardo alla natura dell’attività
esercitata” (art. 1176, comma 2, c.c.). Tutto ciò
deve palesarsi nella scelta del medico che ha seguito o si è discostato dalla regola posta nella linea
guida; ciò che è antigiuridico, quindi fonte di responsabilità, è di aver ignorato completamente la
linea guida, sostanzialmente di averne ignorato l’esistenza.
Si potrebbe sostenere che le linee guida, poiché sono espressive delle regole dell’arte, sono sempre
esistite, sicché nulla ha innovato la previsione nella legge Balduzzi. A conferma di ciò si potrebbe pure ricordare che il riferimento ad una regola astratta di buona condotta è sempre esistita, come regola
dell’arte, e che nel processo è sempre entrata attradelle linee guida comunemente accettate dalla letteratura
scientifica non è in se stessa causa automatica di assoluzione
o condanna, in ragione della potenziale opinabilità anche delle
c.d. best practices”.
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verso l’attività del consulente tecnico. Mi sembra
più convincente concludere che la legge Balduzzi
abbia modificato sul piano delle fonti, sicché certe
regole che prima dovevano essere apprezzate nella
verifica della colpa in senso soggettivo, ora siano
diventate diritto positivo, a tutti gli effetti. Ciò
comporta che l’errata qualificazione di una norma
ivi contenuta o la sua inosservanza da parte del
giudice del merito, legittima il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., come se si
trattasse di una comune norma di diritto positivo.
Per il resto sono propenso a credere che, nel giudizio di responsabilità, l’impiego delle linee guida
non pregiudichi l’attività del medico, e non limiti
neppure la sua libertà di scientifica nella diagnosi
o nella terapia. Propenderei a credere che, laddove
sussistano e siano credibili linee guida, queste siano
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il presupposto per l’assolvimento dell’onere della
prova sul punto dell’adempimento esatto dell’obbligazione, tanto nell’ipotesi in cui siano state seguite pedissequamente, quanto nell’ipotesi in cui
siano state derogate.
Del resto se c’è una linea guida o una buona pratica accreditata dalla comunità scientifica significa
che una best practice è stata riconosciuta, sicché è
opportuno che sia il professionista a dover spiegare
perché non l’ha osservata, accollandosi così il rischio di non rispondere a quel canone di perizia e
di diligenza che l’esecuzione della sua prestazione
richiede. Qui si tratta di prova della perizia, della
diligenza e della prudenza richieste da parte del
professionista e non già applicazione di un evanescente principio di vicinanza della prova.
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Responsabilità nosocomiale
La responsabilità della struttura
sanitaria
di Marilena Gorgoni (*)
La responsabilità della struttura, riconosciuta per la prima volta dalla giurisprudenza negli anni
novanta, è divenuta un capitolo a sé della responsabilità sanitaria. Nel saggio si mettono in evidenza le incertezze relative alla sua qualificazione, al ruolo della colpa, alla distribuzione dell’onere della prova e al grado di autonomia rispetto alla responsabilità sanitaria per così dire in
senso stretto.
La responsabilità della struttura:
un capitolo della responsabilità sanitaria
Il capitolo della responsabilità nosocomiale costituisce, in un certo senso, il punto di approdo della
evoluzione della responsabilità in ambito sanitario
(segnata a livello giurisprudenziale principalmente
dalla sentenza della Cass., SS.UU, n. 577/2008 (1),
su cui cfr. amplius infra) (2).
Tale responsabilità si inserisce in una cornice di regole che col tempo è divenuta particolarmente
complessa e ricca di contraddizioni, ispirata da
un’esigenza equitativa di valorizzazione della centralità della persona (3): da un lato, ad esempio,
acquista nuova dimensione la colpa (4), dall’altro,
si invoca (fallito il tentativo di armonizzazione europeo per causa del mancato recepimento della direttiva sulla responsabilità del produttore di servizi (5)) la responsabilità oggettiva, suggerendo di
applicare la responsabilità del produttore (6) o
quella di cui all’art. 2050 c.c. (7). La pretesa che il
danno, anche quello destinato a restare anonimo,
venga allocato altrove attraverso il criterio della
deep pocket fa aumentare i casi in cui la struttura
viene chiamata in causa anche in ipotesi nelle quali la responsabilità sia imputabile esclusivamente al
sanitario (8). Nel corso del tempo, peraltro, è cresciuto il ricorso a meccanismi assicurativi, anche
obbligatori (9), aventi lo scopo di contribuire a co-
(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi
venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”.
(1) Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, in Foro it.,
2008, 2, I, 455; in Giur. it., 2008, III, 2197, con nota di M.G.
Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere
probatorio; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di
R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in questa Rivista, 2008, 788 e 871, rispettivamente, con note di G. Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica e di A. Nicolussi, Sezioni
sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato
e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; ibidem,
2009, 703, con nota di M. Paradiso, La responsabilità medica
tra conferme giurisprudenziali e nuove aperture; in Giur. it.,
2008, II, 1653, con nota di A. Ciatti, Crepuscolo della distinzione
tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato; in Giust.
civ., 2009, 11, I, 2532; in Resp. civ. prev., 2008, 4, 849, con nota di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità
nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra
obbligazioni di mezzo/di risultato.
(2) Un capitolo ulteriore ed a sé deve essere considerato
quello della responsabilità della ASL per l’illecito riferibile al
medico di base, su cui cfr. Cass. 27 marzo 2015, n. 6243, in
questa Rivista, 2015, 794, con nota di D. Zorzit, La Cassazione,
il fatto del medico di base e la responsabilità “contrattuale” della
Asl: nuove geometrie (e qualche perplessità); in Nuove leggi
civ., 2015, 10934 con nota di R. Pucella, La responsabilità dell’A.S.L. per l’illecito riferibile al medico di base; in Giorn. dir.
amm., 2015, 673, con nota di A. Morini, La responsabilità delle
Asl per errore del medico.
(3) M. Gorgoni, Il consolidamento di una generica esigenza
equitativa alla base dell’affermazione della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. prev., 2001, 1171.
(4) R. Blaiotta, La responsabilità medica: nuove prospettive
per la colpa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
(5) A. Somma, Diritto comunitario v. diritto europeo: il caso
della responsabilità medica, in Pol. diritto, 2000, 562-563.
(6) Corte di giustizia Ce 10 maggio 2001, in Resp. civ. prev.,
2001, 3065, con nota di S. Bastianon.
(7) G. Iudica, Danno alla persona per inefficienza della struttura sanitaria, in Resp. civ. prev., 2001, 3 ss.
(8) Le sentenze che condannano esclusivamente il sanitario
sono ben poche: cfr. Cass. 20 aprile 2004, n. 7494, App. Roma
23 gennaio 2006, in www.dejure.it.
(9) Cfr. art. 10 del testo contenente “Disposizioni in materia
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stituire una garanzia finanziaria a tutela (indiretta)
dei possibili danneggiati (10).
Meritano di essere segnalati anche l’evaporazione,
quasi la rarefazione del nesso causale, già declinato
all’insegna del più probabile che non (11); il rinnovato rigore in tema di distribuzione dell’onere della
prova (12), orientatasi, invece, negli ultimi anni in
direzione della facilitazione per il paziente; la spinta verso l’incentivazione della qualità e della quantità dei servizi che deve, però, fare i conti con la
medicina della parsimonia (13); con essa deve misurarsi anche la deriva soggettivistica, cioè un personalismo esasperato che riempie di nuovi contenuti il diritto di autodeterminazione sanitaria; l’aumento del rischio che paradossalmente accompagna i progressi della medicina e della tecnica (14);
infine il risk management (15) e la tendenza, mai
scemata, ad esigere la combinazione di schemi privatistici e pubblicistici (16).
Completano il quadro la medicina dell’obbedienza
giudiziale (17) e quella delle linee guida e dei protocolli accreditati dalla comunità scientifica (18).
Su tutti questi profili a sovrastare è però la medicalizzazione della vita, la medicina dei desideri - per
il cui soddisfacimento non basta più la professionalità del singolo, essendo necessaria l’integrazione di
più professionisti e/o di più competenze (19) - che
sfocia nella tendenza a fare della responsabilità risarcitoria una sorta di panacea di tutti i mali, di
convertitore universale del male in bene (20), un
varco surrettizio, cioè, attraverso cui consentire
l’ingresso al diritto alla felicità (21), costruito sull’i-
di responsabilità professionale del personale sanitario”, licenziato dalla Camera il 28 febbraio 2016, trasmesso al Senato il
29 febbraio 2016 ed assegnato alla XII Commissione permanente (Igiene e Sanità) in sede referente con il n. 2224/2016 (in
http://www.senato.it/service/pdf/pdfserver/df/318877.pdf).
(10) A. Gariglio, Responsabilità professionale sanitaria e ruolo
delle assicurazioni, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le
responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014, 541 ss.; M.
Gagliardi, Salute e assicurazione: il diritto delle assicurazioni in
campo sanitario, in Riv. it. med. leg., 2015, 1321 ss.
(11) M. Capecchi, Il nesso di causa nella responsabilità civile,
in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit.,
245 ss.
(12) Almeno in specifici ambiti: è il caso della recente decisione a sezioni unite in tema di danni derivanti da omessa o
inesatta diagnosi in gravidanza: Cass., SS.UU., 22 dicembre
2015, n. 2 5767, in Resp. civ. prev., 2016, con nota di M. Gorgoni, Una sobria decisione “di sistema” sul danno da nascita indesiderata.
(13) R. Nania, Il diritto alla salute tra attuazione e sostenibilità, in M. Sesta (a cura di), L’erogazione della prestazione medica tra diritto alla salute, principio di autodeterminazione e gestione ottimale delle risorse umane, Rimini, 2014, 33; C. Golino, I
vincoli al bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionale: le possibili ricadute sul welfare, ibidem, 641 ss. Per un approfondimento, si rinvia a E. Cavasino, La flessibilità del diritto
alla salute, Napoli, 2012; D. Morana, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, Torino, 2014; R. Balduzzi, Livelli essenziali
e risorse disponibili: la sanità come paradigma, in F. Roversi
Monaco - C. Bottari (a cura di), La tutela della salute tra garanzie degli utenti ed esigenze di bilancio, Rimini, 2012, 79 ss.; D.
Bonomo, Programmazione della spesa sanitaria e libertà di cura:
un delicato dilemma, in Foro amm., 2001, 1847.
(14) Rischi, danni e responsabilità aumentano con lo sviluppo tecnologico: F. Introna, Un paradosso: con il progresso della
medicina crescono i processi contro i medici, in Riv. it. med.
leg., 2001, 5; N. Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Napoli, 2007,
41.
(15) G. Turchetti, B.Labella, La gestione del rischio, in G. Comandè - G. Turchetti (a cura di), La responsabilità sanitaria, Padova, 2004.
(16) M. Zana, Responsabilità sanitaria e tutela del paziente,
Milano, 1993.
(17) A. Fiori, La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la medicina dell’obbedienza giurisprudenziale?,
in Riv. it. med. leg., 2007, 925; F. Buzzi - G.Tassi, La “ supremazia ” dei giudici, la sudditanza della scienza medica e la cedevolezza della governance amministrativa e politica in materia di
trattamenti sanitari, ibidem, 2014, 415 ss.
(18) All’art. 5 del ddl n. 2224/2016, cit., si dispone che gli
esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative e riabilitative, si attengano, salve le specificità
del caso concreto, alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida elaborate dalle
società scientifiche iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute. Non solo: aver
adeguato il proprio comportamento alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge esclude la colpa grave ove essa sia penalmente rilevante (art. 6).
Sul ruolo delle Linee Guida in materia sanitaria cfr. ex plurimis E. d’Aloja - M. Ciuffi - F. De Giorgio - R. De Montis - F. Paribello, Il valore medico-legale e giuridico delle linee guida, dei
protocolli e delle procedure in tema di responsabilità del professionista della salute: “alleati o nemici (friends or foes)”?, in S.
Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit., 982
ss.; G.Guerra, La rilevanza giuridica delle linee guida nella pratica medica: spunti di diritto americano, in Nuove leggi civ.,
2014, 377 ss.
(19) G. Vecchio, Diritto alla salute e ‘concezioni della complessità della prestazione’. ‘Istituzioni di mediazione’. Risoluzione
delle asimmetrie nel rapporto di cura e ricerca del regime di responsabilità, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio (a cura di),
Le responsabilità, cit., 61 ss.
(20) Sulla manipolazione dello strumento risarcitorio che,
appunto, finirebbe con l’essere percepito come convertitore
universale di male in bene cfr. V. Scalisi, Ingiustizia del danno e
responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 788 e da
una prospettiva diversa J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano, 1999, 28 ss. che avverte il rischio insito
nella tendenza a ricorrere alla responsabilità, erroneamente
convinti di poter rendere la nostra vita più sicura.
(21) Dimostrano preoccupazione per la giuridificazione dei
desideri e per le degenerazioni che ne conseguono: E. Navarretta, Ingiustizia del danno e nuovi interessi, in Diritto civile diretto da Lipari e Rescigno, IV. Attuazione e tutela dei diritti. III. La
responsabilità e il danno, Milano, 2009, spec. 166; G. Ferrando,
Nascita indesiderata, situazioni protette e danno risarcibile, in A.
D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999, 209; F.D. Busnelli, Il danno biologico. Dal
“diritto vivente” al “diritto vigente”, Torino, 2002, 224; F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv.,
1988, 663; F. Gazzoni, Osservazioni non solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in Dir. fam.
pers., 2005, 168 ss.; S. Amato, Caratteri del biodiritto, in Riv. fi-
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dea di potere avere, esternalizzando la sofferenza,
la delusione e l’insuccesso, un illimitato controllo
sulla vita e sulla morte (22).
Se questa, per grandi linee, è la cornice generale di
riferimento, nello specifico non sorprende che abbia assunto particolare rilievo, su impulso soprattutto della giurisprudenza di merito, la possibilità
di considerare quello della struttura sanitaria un
capitolo a sé nell’ambito della responsabilità medica: non proprio una novità se si pensa che a sua
volta della responsabilità medico/sanitaria si era
già parlato in termini di microcosmo (23) e di macrocosmo della responsabilità (24), di campo in cui
albergano regole transtipiche (25) e di metamorfosi
dell’inadempimento in illecito aquiliano (26).
La specificità della responsabilità nosocomiale sta
nel fatto che con essa si è al crocevia della dimensione strettamente terapeutica con il momento
propriamente organizzativo. Ciò ha sollevato, in effetti, interrogativi ulteriori e peculiari. In primo
luogo, ci si è chiesti se, posto che la completa professionalità dell’atto medico può realizzarsi solo
con certe garanzie strutturali, il sanitario che si trovi ad operare in una situazione di “consapevole”
carenza della compagine ospedaliera possa, al verificarsi di un danno interamente e certamente ascrivibile ad omissioni organizzativo-strutturali, andare
esente da responsabilità. La questione non si pone,
o comunque non può essere affrontata negli stessi
termini, quando il professionista abbia contribuito
al verificarsi del danno, lo abbia aggravato o non
ne abbia evitato il propagarsi. Rileva, invece, là
dove il sanitario non abbia neutralizzato il danno o
non ne abbia impedito l’insorgenza in vari modi (27): alcuni puntualmente stigmatizzati dai giudici: a) rendendo edotto il paziente dell’indisponibilità presso il nosocomio delle apparecchiature
idonee alla corretta esecuzione dell’intervento, sì
da permettergli di esercitare - salvo nei casi di intervento urgente - il diritto di scegliere con quale
struttura concludere il contratto di spedalità - (si
tratta di un’estensione del contenuto dell’obbligo
di informazione in ambito sanitario, su cfr. Cass.
27 ottobre 2015, n. 21782 (28); Cass. 27 agosto
2014, n. 18304 (29)); b) trasferendolo presso altro
nosocomio “più idoneo”, ove il trasporto sia possibile senza nocumento per il paziente e il trattamento non sia indifferibile (30); c) astenendosi
“dall’operare ove le strumentazioni, apparecchiature od attrezzature che siano in tutta e lampante
evidenza inadeguate alla cura dei pazienti e, dunque, potenzialmente pericolose per la loro salute”
(Corte Conti, Sez. giur. Puglia, 15 gennaio 2001,
n. 8); c) adottando soluzioni terapeutiche diverse
rispetto a quelle astrattamente suggerite dalle linee
guida e dalle buone prassi: disattendendole, dunque, sia pure con tutti i dubbi che derivano riguardo alla colpevolezza dal tenore letterale dell’art. 3
della legge Balduzzi in tema di colpa per (in)osservanza (31).
losofia diritto, 2013, 31 ss.
(22) Cfr. D. Carusi, Introduzione, in D. Carusi (a cura di), Davanti allo specchio. La persona, il diritto, la fine della vita, Torino,
2013, 13; G. Salito, Autodeterminazione e cure mediche. Il testamento biologico, Torino, 2012, 1-3 e passim.
(23) R. De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e
funzioni, in Manuale di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia diretto da Galgano, Padova, 2003, XVVI, 293 e
già Id., La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, 1.
(24) M. Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti
confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in
questa Rivista, 2001, 13, che ha definito la responsabilità medica un macrocosmo, all’interno del quale convivono tanti sottosistemi quante sono le specializzazioni dell’arte medica.
(25) U. Izzo, Il tramonto di un “sottosistema” della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in questa Rivista, 2005, 130.
(26) R. De Matteis, La responsabilità medica, cit., 8.
(27) Sul rischio che il fare affidamento sulla condotta correttiva del medico possa alleggerire o escludere la responsabilità della struttura cfr. M. Toscano, Il difetto di organizzazione:
una nuova ipotesi di responsabilità? Nota a Tribunale di Monza
del 7 giugno 1995, in Resp. civ. prev., 2005, 401.
(28) In CED, 2015.
(29) In Mass. Giust. civ.
(30) Cfr. Cass. 13 luglio 2011, n. 15386, in Giust. civ., 2012,
2, 1, 406, con nota di P.Valore; Cass. 22 ottobre 2014, n.
22338, in Guida dir., 2015, 3, 36; Cass. 8 marzo 2016, n. 4540,
in D&G, 2016, 9 marzo, con nota di R. Savoia, Non sussiste
colpa medica se i macchinari tecnici dell’epoca non fornivano
certezze. Per una ricostruzione più ampia cfr. E. Guerinoni, Attività sanitarie e responsabilità civile, in Corr. giur., 2013, All. 1, 3
ss.
(31) Su cui cfr. ex multis M. Gorgoni, Colpa lieve per osservanza delle linee guida e delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica e risarcimento del danno, in Resp. civ. prev., 2015,
173 ss., ove si sostiene che un comportamento diligente è
quello che induce ad accertare la ricorrenza di soluzioni terapeutiche diverse rispetto a quelle adottate o a condurre un’analisi costi/benefici il cui esito potrebbe suggerire di disattendere le linee guida o indirizzare verso una metodologia diversa
eseguibile con le dotazioni strumentali a propria disposizione o
persino di astenersi dall’esecuzione dell’intervento ove al di sopra delle propria preparazioneo ineseguibile per carenze di
mezzi tecnici.
Cfr. però Cass. 3 marzo 1995, n. 2466, in Giur. it., 1996, I, 1,
91 con nota di D. Carusi, Responsabilità del medico, diligenza
professionale, inadeguata dotazione della struttura ospedaliera,
secondo cui “il comportamento dello specialista ortopedico
che adotti pratiche terapeutiche diverse da quelle raccomandate dalla letteratura medica non è conforme al canone della
perizia del medico professionista e determina responsabilità
per inadempimento indipendentemente dalla circostanza che
il sanitario non disponesse, presso la sua struttura ospedaliera,
dei mezzi necessari per far ricorso alla migliore tecnica”.
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Natura complessa della prestazione
sanitaria
Il quadro operazionale nel quale si inserisce la responsabilità nosocomiale è quello determinato dalla c.d. “riforma della riforma” sanitaria (attuata col
D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502) che, imponendo
l’obbligo di controllo della qualità delle prestazioni, in relazione ai diritti degli utenti, testimonia
dell’avvenuto recepimento, a livello normativo,
dell’idea che la prestazione sanitaria abbia un contenuto complesso e articolato che va oltre la prestazione terapeutica (32) e che ha evidenti e immediate ricadute sul versante della responsabilità, talché l’ente risponderà in via diretta, per fatto proprio (33), di cattiva organizzazione (34) - cioè del
verificarsi di un danno, ascrivibile all’assenza di
presidi terapeutici o a carenze organizzative; il nosocomio ha l’obbligo di garantire, infatti, personale
medico, paramedico e ausiliario qualificato e in numero sufficiente e con una turnazione che sia in
grado di assicurarne la costante presenza; coordinamento tra servizi e reparti; locali idonei ed attrezzati; apparecchiature moderne, appropriate e funzionanti; somministrazione di farmaci, vaccini, sangue
ed emoderivati sicuri; assistenza post-ospedadaliera.
Significa che, giusta l’autonomia organizzativa, amministrativa, contabile, tecnica e patrimoniale dell’ente ospedaliero, eventuali danni dovrebbero essere imputati direttamente ai suoi organi di governo (35) - e per i fatti colposi e dolosi di coloro di
cui si avvale per svolgere le proprie prestazioni (36).
È accreditato e diffuso il convincimento che la responsabilità dell’ente si differenzi da quella del singolo professionista quanto al contenuto e, soprattutto, quanto al criterio di imputazione: più esteso
(32) Cass. 3 febbraio 2012, n. 1620, in Ragiusan, 2012, 8
febbraio.
(33) Cass. 10 settembre 2010, n. 19277, in Ragiusan, 2011,
323.
(34) E. Quadri, La responsabilità medica tra obbligazioni di
mezzi e di risultato, in questa Rivista, 1999, 1167.
(35) R. Cuccia, La responsabilità dell’azienda sanitaria da deficit organizzativo, in S. Aleo - D. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit., 1121 ss.
(36) Cass. 26 giugno 2012, n. 10616, in Guida dir., 2012,
32, 73; Cass. 1° febbraio 2011 n. 2334, in Ragiusan, 2011, 323.
(37) Negano che il nosocomio possa essere sottoposto alle
regole valevoli per i comuni debitori: F. Cafaggi, Responsabilità
del professionista, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, 1998, 192;
A. Gabrielli, La r.c. del professionista: generalità, in P. Cendon
(a cura di), La responsabilità civile, Torino, 1998, 305.
(38) Non si deve tacere, peraltro, il rischio, aumentato dall’introduzione normativa degli indicatori di qualità, che una
struttura possa dirottare altrove i casi clinici complessi, occupandosi, in tempi brevi e con buoni risultati, solo dei casi clini-
810
il primo, di carattere oggettivo il secondo. La conseguenza è che alla struttura è preclusa la possibilità di liberarsi provando di aver adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno, perché: a) su di
essa ricade anche l’obbligo di intervenire per correggere l’errore professionale; b) ammesso che possa configurarsi da parte sua l’assunzione di un’obbligazione ultra vires - cioè di una obbligazione che
non ha gli strumenti per adempiere (37) - la sua responsabilità sarà da accertare con criteri particolarmente rigorosi, in quanto si ritiene sia suo compito
quello di provvedere agli investimenti adeguati, in
termini di conoscenze ed apparati tecnologici, e
necessari a svolgere l’attività professionale. In verità, non le basterebbe neppure provare di aver adottato gli standard minimi di efficienza imposti ex lege (38), perché non sarebbe al riparo da una valutazione ex fide bona (39).
Per completare la descrizione del quadro regolamentare, occorre aggiungere che dall’inizio degli
anni novanta, in coincidenza, quindi, con la riforma della riforma sanitaria, la responsabilità nosocomiale è la stessa a prescindere dalla natura pubblica o privata della struttura che eroga il servizio.
Attraverso l’istituto dell’accreditamento, infatti, si
è introdotta una sorta di concorrenza amministrata
tra nosocomi pubblici e privati convenzionati, attuando, anche nel sistema sanitario, l’obiettivo dell’erogazione pluralistica dei servizi, votata astrattamente a consentire la libertà di scelta dell’utente.
Pubblico e privato convenzionato, accreditato previo accertamento del possesso di precisi standard di
qualificazione, si pongono tendenzialmente sullo
stesso piano quanto agli obblighi di prestazione e
di raggiungimento di standard di efficienza e di organizzazione (40): obblighi il cui adempimento doci semplici, soddisfacendo l’indicatore di qualità massimo rappresentato da una componente a fattori multipli, costituita dal
numero di guarigioni ottimali col minor costo e nel periodo più
breve: cfr. R Simone, La responsabilità della struttura sanitaria
pubblica e privata, in questa Rivista, 2003, 5 ss.
(39) M. Gorgoni, L’incidenza delle disfunzioni della struttura
ospedaliera sulla responsabilità “sanitaria”, in Resp. civ. prev.,
2000, 952 ss.
(40) D. Dalfino, Dal convenzionamento all’accreditamento
istituzionale, in Foro it., 1999, I, 2932; G. Barcellona, L’evoluzione dell’assetto organizzativo per l’erogazione delle prestazioni
assistenziali sanitarie: dal sistema delle convenzioni a quello dell’accreditamento, in Sanità pubblica, 1998, 113 ss.; E. Sticchi
Damiani, La concorrenza nell’erogazione dei servizi e le posizioni
delle imprese private, ibidem, 2003, 929 ss.; V. Molaschi, Tutela
della concorrenza, vincoli di spesa e rapporti tra Servizio sanitario nazionale e soggetti privati: una riflessione alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione. Nota a Tar Milano, 29 ottobre 2003, in Foro amm., 2004, 1271.
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Dalla prima decisione, quella del Tribunale di
Monza del 7 giugno 1995 (41), i passi fatti in direzione della affermazione della responsabilità della
struttura sanitaria sono stati numerosi; non si era
ancora arrivati, prima della evocata decisione del
2008, all’individuazione di un percorso condiviso
in merito alla natura della responsabilità; alla possibilità che essa si configurasse indipendentemente
da quella medica in senso stretto; alla distribuzione
dell’onere della prova.
A pesare erano due tesi. Da un lato, si credeva che
la responsabilità della struttura partecipasse della
natura “professionale” della responsabilità medica.
Alla responsabilità della struttura sanitaria si applicavano, infatti, analogicamente le regole proprie
della responsabilità del professionista (42). Dall’altro, l’orientamento più diffuso era che la struttura
sanitaria ed il medico dipendente rispondessero dei
danni occorsi al paziente a titolo diverso, rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale: tesi,
peraltro, tornata in auge dopo la riforma Balduzzi (43) e confermata dal DDl n. 2224/2016 sulla responsabilità professionale medica (cfr. sub nt.
18) (44); segno che dopo tutto l’evocazione dell’art. 2043 c.c. non era una svista, priva di rilevanza, come da molti sostenuto (45). Spesso, peraltro,
la condanna risarcitoria prescindeva dall’individuazione del titolo di responsabilità ed anche quando
esso appariva individuato, magari introducendo il
concorso di responsabilità, si faceva fatica a capire
se la responsabilità nosocomiale per i danni cagionati dai propri dipendenti fosse affermata sulla
scorta dell’art. 1228 c.c. o dell’art. 2049 c.c. (46),
in ossequio al principio, anch’esso in questo ambito largamente condiviso, che per assicurare un più
elevato grado di protezione all’avente diritto si potessero invocare il cumulo o il concorso di responsabilità.
Discusso era anche il criterio di imputazione della
responsabilità, benché re melius perpensa sia davvero difficile pensare che vi siano differenze secondo
che si invochi la responsabilità per colpa o quella
oggettiva. Nella misura in cui, infatti, ci si apre alla possibilità che la colpa professionale, tipicamente soggettiva, venga riferita ad un’organizzazione
(che certo non può essere considerata una sorta di
medico collettivo o macroiatra (47)), la violazione
degli obblighi non viene fatta dipendere dalla difformità della condotta rispetto a quella di un buon
professionista in relazione alla fattispecie concreta
(art. 1176, comma 2, c.c.), ma tende a coincidere
(41) In Riv. it. med. leg., 1997, 476; in Resp. civ. prev., 1996,
389, non nota di M. Toscano, cit.
(42) Cass. 5 gennaio 1979, n. 31, in Mass. Giust. civ., 1979;
Trib. Vicenza 27 gennaio 1990, in Foro it. Rep., 1991, voce Responsabilità civile, n. 81; Trib. Verona 4 marzo 1991, in Rep. Foro it., 1992, voce Responsabilità civile.
(43) In dottrina cfr. in tal senso G. Visintini, La colpa medica
nella responsabilità civile, in Contr. e impr., 2015, 530 che sottolinea la volontà della legge Balduzzi di non porre sullo stesso
piano la responsabilità della struttura e quella del singolo professionista. La prima risponde contrattualmente di tutte le disfunzioni; non così deve essere per il personale sanitario di cui
deve essere provata una negligenza o una incompetenza professionale e quindi un comportamento illecito e rilevante ai fini
dell’art. 2043.
(44) Cfr. art. 7 del ddl n. 2224/2016, cit., il quale, dopo aver
qualificato come contrattuale la responsabilità della struttura
sanitaria e sociosanitaria pubblica e privata (la struttura privata
non è quella accreditata, ma quella privata tout court) - la struttura risponde direttamente ai sensi dell’art. 1218 ed indirettamente, per fatto colposo o doloso degli esercenti la professione sanitaria, ai sensi dell’art. 1228 c.c. - chiarisce che l’esercente la professione sanitaria risponde ai sensi dell’art. 2043
c.c., anche se è stato scelto dal paziente ed anche se è dipendente dalla struttura (argomentando a contrario dal comma 1).
Tale previsione solo in parte può ritenersi confermativa della
scelta contenuta nella riforma sanitaria Balduzzi che stabilisce
che gli esercenti la professione sanitaria che si siano attenuti
alle linee guida e alle prassi scientifiche accreditate non sono
penalmente responsabili per colpa lieve, rispondono però del
risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c. La formulazione della disposizione ha fatto emergere subito la equivocità
del rapporto tra la responsabilità penale e quella risarcitoria;
nel senso che è apparso controverso se le ricadute risarcitorie
di cui si occupa la legge Balduzzi siano da mettere in relazione, in quanto ne rappresentino un pendant se non sostitutivo
almeno bilanciante, con il nuovo arretramento della punibilità
penale della colpa medica o se, avendo portata di carattere generale, ne prescindano. In sostanza, se il richiamo dell’art.
2043 c.c. è pertinente solo in caso di irresponsabilità penale
per colpa lieve, i casi in cui ricorra una colpa grave o una colpa
ordinaria a rigore dovrebbero essere sottratti all’art. 3, comma
1, della legge Balduzzi. Significa che possono essere regolati
diversamente. Ed non solo dal diritto penale - la colpa lieve per
osservanza esclude la punibilità, ma la colpa per inosservanza,
a prescindere dalla sua intensità, non incide sull’an, bensì sul
quantum - ma anche dal diritto civile, ove il diversamente rimanda al diritto vivente e quindi al contatto sociale qualificato
ed al relativo regime contrattuale. In sintesi, i danni derivanti
da colpa lieve cagionati dall’esercente la professione sanitaria
che si sia attenuto alle linee guida e alle pratiche avvalorate
dalla comunità scientifica sarebbero risarcibili solo alle condizioni di cui all’art. 2043 c.c., i danni cagionati con colpa grave
soggiacerebbero agli artt. 1218 ss., agli artt. 2236 e 1176 c.c.
Cfr. amplius M. Gorgoni, Colpa lieve, ult. loc. cit.
(45) Per un approfondimento cfr. M. Gorgoni, Colpa lieve,
ult. loc. cit.
(46) Trib. Napoli 13 febbraio 1997, in Nuova giur. civ.
comm., 1997, I, 984, con nota di A. Lepre; Cass. 13 luglio
2011, n. 15394, in Guida dir., 2011, 33-34, 21 ss.
(47) F. Galgano, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, 720; A.M.
Princigalli, Medici pubblici dipendenti responsabili come liberi
professionisti?, in Foro it., 2008, I, 2302.
vrebbe portare il servizio di qualità sanitaria alla
certificazione secondo la norma ISO 9000.
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con la cattiva organizzazione professionale, ossia
con una somma di anomalie di condotta tali che il
carattere impersonale dell’accertamento del criterio di imputazione elimina i dubbi e facilita la prova. D’altro canto, anche la colpa professionale è vistosamente erosa dalla tendenza a regolare l’attività
terapeutica secondo protocolli e linee guida che
hanno ridotto gli ambiti di discrezionalità, standardizzato le regole tecniche e trasformato la diligenza, da criterio di valutazione di ciò che è necessario
di volta in volta fare per soddisfare l’interesse creditorio, a misurazione oggettiva dello scostamento
da regole tecniche precise e vincolanti (48).
La prima tesi, quella della colpa riferibile anche alla struttura, era stata, peraltro, fonte di un’ulteriore
conseguenza: la mancanza di autonomia della responsabilità della struttura sanitaria rispetto alla responsabilità medica in senso stretto, sicché quest’ultima, rivelatasi il presupposto dell’altra, finiva
con l’assorbirla anche sotto il profilo del regime
normativo applicabile, soprattutto relativamente
alla distribuzione dell’onere della prova. La ricorrenza di un’obbligazione di natura professionale,
peraltro, costituiva terreno fertile per ridare forza
alla tralaticia distinzione obbligazioni di mezzo/obbligazioni di risultato, impiegata, soprattutto, in tema di ripartizione dell’onus probandi, per spostare
sul paziente che assumeva di essere stato danneggiato buona parte del carico probatorio (49).
La tendenza a considerare la responsabilità della
struttura di tipo contrattuale era insidiata da tentennamenti, incertezze, fughe all’indietro. La qualificazione tipologica del contratto tra paziente e
struttura era, difatti, incerta: talvolta, messane in
luce l’atipicità, se ne sosteneva la riconducibilità
allo schema generale della locatio operis più spesso
al contratto di prestazione d’opera intellettuale, rispettivamente secondo che vi si riconoscesse o meno la ricorrenza dell’intuitus personae.
L’alternativa - va da sé - non era esente da conseguenze, perché, in primo luogo, l’applicazione degli
artt. 2229 ss. importava anche l’impiego dell’art.
2236 c.c. per distinguere gli interventi di facile da
quelli di difficile esecuzione, ricorrendo i quali la
responsabilità, secondo il convincimento tradizionale, si ritiene possa essere invocata solo in caso di
dolo o colpa grave; in secondo luogo, la responsabilità della struttura non poteva essere affermata
indipendentemente da quella concorrente del sanitario (50). Non a caso, solo con il consolidamento
dell’orientamento che punta l’accento sulla natura
complessa della prestazione contrattuale gravante
sulla struttura - comprendente la fornitura di alloggio e di vitto, la disponibilità di attrezzature adeguate, la sicurezza degli impianti, l’organizzazione
di turni di assistenza adeguati, la custodia del paziente, la vigilanza del reparto - riconducibile al
contratto atipico di spedalità, diverrà possibile riconoscere la responsabilità autonoma dell’ente,
ex artt. 1218 e 1176 c.c., a prescindere da quella
terapeutica in senso stretto.
Benché risolto un profilo incerto, altri immediatamente sopravvengano. Primo su tutto quello dell’esatta individuazione di ciò che costituisce prestazione, in vista del soddisfacimento dell’interesse
creditorio (51), tenuto conto che la salute non è
più declinabile solo in senso medicale, ma sempre
più frequentemente in senso identitario (52).
(48) M. Gorgoni, Colpa lieve, op. ult. cit.
(49) M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale, op. ult. cit.
(50) Cass. 8 maggio 2001, n. 6386, in questa Rivista, 2001,
1045 ss. con commento di R. Breda, La responsabilità della
struttura sanitaria tra esigenze di tutela e difficoltà ricostruttive,
secondo cui la responsabilità del nosocomio postula sempre le
responsabilità del medico esecutore.
(51) L’art. 5 del ddl n. 2224/2016 in qualche modo sembra
accreditare tale distinzione, giacché sottopone ad un regime
diversificato “l’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative e riabilitative”. Si è voluto sottoporre ad un trattamento diverso l’esercizio della professione sanitaria quando la prestazione abbia finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative verosimilmente perché si è preso atto che l’attività sanitaria non
ha solo funzione salvifica e che solo quando ce l’ha è opportuno allargare gli spazi di irrilevanza penale della condotta.
(52) R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 69.
812
La sistemazione concettuale ed operativa
della responsabilità nosocomiale operta
dalle Sezioni unite nel 2008
Saranno le Sezioni Unite con la decisione (11 gennaio 2008, n. 577) a sottoporre a sistemazione l’intera materia; l’occasione fu la richiesta risarcitoria
di un paziente, che lamentava di aver contratto l’epatite C a seguito di una trasfusione di sangue infetto eseguita presso una clinica privata: richiesta
che in primo ed in secondo grado era stata respinta, sempre per la identica ragione, per il difetto di
prova dell’esistenza di un nesso di derivazione causale tra l’epatite C e la emotrasfusione. In particolare, i giudicanti lamentavano il fatto che l’attore
non avesse dimostrato di non essere affetto dalla
patologia prima del ricovero nella clinica ove fu
eseguita l’emotrasfusione e negavano che il parere
contrario, espresso, ex art. 4 della L. n. 210/1992,
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dalla Commissione medico-ospedaliera, avesse valore probatorio.
Il collegio di legittimità, aderendo all’opzione contrattualistica della responsabilità sanitaria, ne fece
derivare, in tema di onere della prova, la coerente
applicazione della regola per cui il paziente deve
solo allegare l’inadempimento, causa del danno, e
non provare, come invece preteso dai giudici di
merito, di non essere affetto dall’epatite C prima
dell’intervento. Al più, si precisò, l’allegazione dovrà riguardare non un generico inadempimento,
bensì un inadempimento qualificato, cioè avente,
sulla base di un giudizio prognostico astratto, apporto causale efficiente al verificarsi proprio del
danno lamentato. Occorre, perciò, “calibrare l’esatta definizione del concetto di inadempimento”,
giacché gli aspetti legati ai caratteri strutturali dell’ente in quanto tali non presuppongono, ma neppure escludono, la responsabilità del professionista,
del cui operato l’ente stesso sia chiamato a rispondere ex art. 1228 c.c., laddove lo si consideri inadempiente per fatto dei suoi ausiliari (in questo
senso cfr. art. 6 del DDL sulla responsabilità professionale sanitaria) (53), ovvero ex art. 2049 c.c.,
ove venga condannato in quanto committente (54).
C’è un altro dato che merita di essere segnalato, il
nosocomio risponderà sì per inadempimento, ma la
fonte dell’obbligo, almeno per la struttura pubblica
e per quella convenzionata accreditata, sarà il contatto sociale.
Da quando la Corte di cassazione ha accolto la tesi
del contatto sociale (Cass. 22 gennaio 1989, n.
589 (55)), contrattualizzando forzatamente il regime di responsabilità, la strada verso l’attrazione
della responsabilità entro i confini regolamentari
degli artt. 1218 ss. c.c. è stata tutta in discesa, parallelamente, quanto al tema che ci riguarda, la
giurisprudenza ha proceduto in direzione dell’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria per deficienze organizzative e di dotazioni tecniche (Trib. Milano 9 gennaio 1997 (56)), per il
malfunzionamento delle apparecchiature (Trib.
Genova 30 ottobre 1998 (57)), per la inappropriata
turnazione del personale (Trib. Varese 16 giugno
2003 (58)), per infezioni contratte durante la degenza nosocomiale (qui le condanne sono più numerose (59), dopo Cass. 18 aprile 1966, n.
972 (60), che ha fatto da apripista (61); soprattutto
se vi si ricomprendono i danni derivati dall’uso di
emoderivati infetti, per mancata vigilanza (62)). E
a mano a mano che cadevano gli ostacoli alla contrattualizzazione, la responsabilità della struttura
acquistava autonomia, si emancipava da quella medica, pur condividendo molte delle coordinate operazionali, fino a convergere, dal punto di vista giurisprudenziale, in un’unica regola: la struttura risponde a titolo contrattuale come il medico dipendente, in virtù della ricorrenza di un contatto sociale (63).
La tesi del contatto sociale ha persuaso la dottrina
e la giurisprudenza prevalenti, benché non siano
mancate ricostruzioni differenti: oltre a quelle che
ancora coinvolgono struttura e medico dipendente
a titolo diverso (contrattuale ed extracontrattuale),
tornata di attualità dopo la riforma Balduzzi, vi sono state decisioni che hanno escluso la possibilità
di applicare la tesi del contatto sociale al medico
fuori del caso che egli svolga attività libero-professionale intramuraria, differenziando i titoli di responsabilità (App. Venezia 16 giugno 2005 (64)),
altre che hanno invocato lo schema dell’obbliga-
(53) Trib. Napoli 14 gennaio 2016, Trib. Lucca 18 dicembre
2015, Trib. Bari 1° ottobre 2015, Trib. Bari 27 maggio 2015, in
www.dejure.it.
(54) Cass. 28 luglio 2015, n. 15860, in Mass. Giust. civ.
2015; Cass. 1° settembre 1999, n. 9198, in Mass. Giust. civ.,
1999; Trib. Napoli 15 febbraio 1995, in Foro nap., 1996, 76;
Trib. Milano 20 ottobre 1997, in Resp. civ. prev., 1998, 1144.
(55) In questa Rivista, 1999, 294 e 777, con note, rispettivamente, di V. Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero
come responsabilità da contatto e di R. De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; in Contratti, 1999, 441 e 999, con note, rispettivamente, di A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in
Cassazione e di E. Guerinoni, Obbligazione da “contatto sociale”
e responsabilità contrattuale nei confronti del terzo.
(56) Trib. Milano 9 gennaio 1997, in Resp. civ. prev., 1997,
1220, con nota di M. Toscano, Un nuovo passo verso il riconoscimento del difetto di organizzazione dell’ente ospedaliero come fonte autonoma di responsabilità.
(57) Trib. Genova 30 ottobre 1998, in Resp. civ. prev., 1999,
997, con nota di M. Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di organiz-
zazione sanitaria e responsabilità professionale medica.
(58) In questa Rivista, 2004, 891, con nota di Cr. Amato,
Note a margine di un caso di responsabilità (autonoma) della
struttura ospedaliera.
(59) Cfr. M. Sarra - L. Di Donna - F. Massoni - E. Onofri - S.
Ricci, La responsabilità professionale nelle infezioni nosocomiali,
in Corr. giur., 2012, 839 ss.; F. Donelli (a cura di), Responsabilità medica nelle infezioni nosocomiali, Rimini, 2014.
(60) In Resp. civ. prev., 1966, 60.
(61) Cfr. Cass. 1° dicembre 2010, n. 24401, in Ragiusan,
2011, 323.
(62) Trib. Bari 21 febbraio 2012 e Cass. 8 maggio 2012, n.
6914, in Riv. it. med. leg., 2013, 1056, con nota di I. Sardella,
Quale responsabilità della struttura per i gesti auto lesivi del paziente: giurisprudenza di merito e di legittimità a confronto.
(63) Cass. 13 aprile 2007, n. 8826, in Corr. giur., 2007, con
annotazione di V. Carbone, Responsabilità contrattuale del medico strutturato.
(64) In questa Rivista, 2006, 393, con nota di G. Guerra, Obbligazione da “contatto sociale” nell’attività del chirurgo subordinato: una prima smentita.
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zione soggettivamente complessa con prestazione
indivisibile ad attuazione congiunta (Trib. Firenze
10 marzo 2015, Trib. Roma 7 gennaio 2015 (65)).
Vi è un’altra possibilità però che è stata trascurata:
quella di considerare la legge tra le fonti di obbligazione. Lo ha fatto, indirettamente, la Corte di
cassazione quando, chiamata a decidere di un regolamento di competenza, nell’ordinanza n. 8093 del
2 aprile 2009 (66), ha affrontato la questione del se
il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria
pubblica possa essere considerato consumatore,
con tutti i corollari che ne derivano dal punto di
vista normativo: il cittadino, afferma la corte, che
chiede una prestazione in esenzione da ticket al
Servizio Sanitario Nazionale, esercita un diritto
soggettivo pubblico riconosciutogli direttamente
dalla legge e che la legge stessa prevede debba essere soddisfatto a richiesta dall’organizzazione del
Servizio Sanitario Nazionale o direttamente o attraverso la struttura in convenzione, imponendo
essa stessa la relativa prestazione. Il rapporto che si
instaura con la struttura sanitaria pubblica o convenzionata rappresenta l’attuazione di questo obbligo di prestazione e non suppone la stipula, nemmeno tacita, di un contratto. In altri termini, quando
il cittadino-utente si rivolge alla struttura sanitaria
pubblica o in convenzione, “la ricezione della sua
richiesta e la conseguente attivazione della struttura non danno luogo alla conclusione, nemmeno
per fatto concludente, di un contratto, ma realizzano l’attuazione dell’obbligazione della mano pubblica di fornire il servizio. Tale attuazione non avviene mediante la riconduzione del rapporto allo
schema del contratto, del quale non solo non vi
sono i presupposti giustificativi a livello normativo
(...), ma neppure vi sono i presupposti fattuali che
potrebbero comunque fare emergere la figura del
contratto (...)”.
L’assenza del contratto non impedisce, dunque,
l’applicazione della responsabilità contrattuale, po-
sto che tale responsabilità significa che l’inadempimento discende da un obbligo preesistente o dalla
sua cattiva esecuzione. L’espressione “responsabilità contrattuale” viene usata cioè per designare non
la responsabilità che presuppone un contratto, ma
la responsabilità che nasce dall’inadempimento di
un rapporto preesistente a carico del SSN. In altri
termini, si fa breccia la possibilità di aderire alla tesi secondo cui la responsabilità della struttura è
contrattuale in ragione del fatto che la legge pone
a carico del SSN un’obbligazione a favore dell’utente il cui inadempimento è sanzionato ex artt.
1218 ss. c.c. Si tratta di una conclusione in linea
con la tendenza a moltiplicare le obbligazioni di
fonte legale soprattutto nel campo vasto e variegato della responsabilità della P.A., dove sempre più
di frequentemente si invoca la violazione di obblighi, specie di quelli inerenti al procedimento e di
quelli desunti dalla buona fede, così da potere ricorrere alla disciplina degli artt. 1218 ss. c.c.
L’innesto della responsabilità contrattuale nell’obbligo rappresenta una scelta dogmatica più moderna e feconda, anche perché in grado di offrire una
giustificazione e una disciplina a fenomeni di incerta collocazione nell’ottica precedente, quali i
danni da violazione di obblighi ex lege e i danni da
vanificazione di un affidamento legittimo (67).
Una spinta ulteriore in tale direzione è stata impressa dalla più recente ordinanza della Corte di
cassazione, la n. 27391 del 24 dicembre 2014 (68).
La questione era ancora una volta quella del se il
paziente potesse essere considerato consumatore ai
fini della competenza territoriale. Tra le argomentazioni addotte a sostegno del dubbio che non lo
fosse vi era proprio quella relativa alla qualificazione in termini aquiliani della responsabilità medica,
introdotta ed avallata dalla riforma Balduzzi. La
Cassazione aderisce alla tesi contrattualistica, facendo proprio quell’atteggiamento riduzionististico
della portata innovativa della riforma Balduzzi (la
(65) In www.dejure.it. Si tratta di ipotesi nelle quali viene
configurato un concorso di responsabilità tra la struttura e il
medico e il rapporto tra i condebitori viene qualificato in termini di solidarietà senza specificazione delle rispettive quote di
responsabilità.
(66) In Foro it., 2009, 10, I, 2683 ss.; in Corr. giur., 2009, 5,
613 ss., con nota di V. Carbone, Servizio sanitario nazionale e
consumatore; in Resp. civ. prev., 2009, 1291 ss., con nota di D.
Chindemi, Il paziente di una struttura sanitaria pubblica non è
“consumatore” e l’azienda non è “professionista”; in Nuova giur.
civ. comm., 2009, 1069 ss. con nota di L. Klesta Dosi, Foro del
consumatore e relazione di assistenza sanitaria: una soluzione
equa nonostante tutto; in Resp. civ., 2009, 918 ss., con nota di
D. Nardi, Il foro competente per la lite tra struttura sanitaria e
paziente; in questa Rivista, 2010, 56 ss., con nota di A. M. Be-
nedetti - F. Bartolini, Utente vs servizio sanitario: il “no” della
Cassazione al foro del consumatore; in Giust. civ., 2010, I, 973
ss., con nota di A. Lamorgese, La tutela consumeristica dell’utente del S.S.N.
Nello stesso senso cfr. Trib. Lecce, Sez. dist. Tricase, 17
aprile 2008, in Giur. it., 2009, 601 ss., con nota di V. Lubelli,
Considerazioni sulla tutela del paziente come consumatore.
(67) Così S. Mazzamuto, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2014, 713 ss.
(68) In Resp. civ. prev., 2015, 836, con nota di M. della Corte, Foro del consumatore e responsabilità sanitaria: approcci applicativi, che sottolinea la preoccupazione pressoché esclusiva
della Corte di cassazione di liquidare la questione della natura
extracontrattuale della responsabilità del medico introdotta
dalla miniriforma sanitaria targata Balduzzi.
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quale sembra premiare il medico che si sia attenuto
alle linee guida e alle buone prassi garantendogli
l’immunità penale per colpa lieve, ma non esonerandolo affatto dall’obbligo risarcitorio; sul titolo
della responsabilità la legge Balduzzi sarebbe tamquam non esset (69)), ribadisce la propria posizione
riguardo alla possibilità di applicare la disciplina
consumeristica, ma nel caso di specie, ammette
che il paziente, avendo beneficiato a titolo oneroso
di servizi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal
SSN sopportandone i relativi costi, sia da considerarsi consumatore (70).
(69) Solo nella giurisprudenza di merito cfr.: Trib. Arezzo 14
febbraio 2013, in questa Rivista, 2013, 367 ss., con nota di V.
Carbone, La responsabilità del medico dopo la Legge Balduzzi,
Trib. Rovereto 29 dicembre 2013, ibidem, 378 ss.; Trib. Bari 18
marzo 2013, ibidem, 841 ss.; Trib. Caltanisetta 1° luglio 2013,
in Resp. civ. prev., 2013, 1980 ss., con nota di C. Scognamiglio, La natura della responsabilità del medico inserito un una
struttura ospedaliera nel vigore della l. n. 189/2012; Trib. Cremona 19 settembre 2013, n. 593, in Assicurazioni, 2013, 53
ss.; Trib. Brindisi 18 luglio 2014, in Guida dir., 2014, 44, 33 ss.;
Trib. Milano 20 febbraio 2015, n. 2336, in Resp. civ. prev.,
2015, 163-166.
(70) L’art. 7 del ddl n. 2224/2016, cit., qualificando come
contrattuale la responsabilità nosocomiale, non esclude tale
conclusione, perché non contiene alcun riferimento alla fonte
dell’obbligo da cui nasce la prestazione a carico della struttura.
In verità non si parla né del contratto atipico di spedalità, né di
contatto sociale. Che si interessi unicamente della disciplina
applicabile in caso di inadempimento è confermato altresì dall’aver posto sullo stesso piano strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private.
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Natura della responsabilità
La responsabilità medica:
dal primato della giurisprudenza
alla disciplina legislativa
di Giulio Ponzanelli (*)
L’A, ripercorre dapprima l’evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità medica e la
progressiva adozione di regole sempre più rigorose nei confronti della struttura sanitaria, analizzando poi le principali novità normative (legge Balduzzi e Disegno di legge Gelli-Bianco) volte a
introdurre un migliore equilibrio tra diritti del paziente e posizione degli esercenti la professione
sanitaria
La proposta di Direttiva sulla
responsabilità del prestatore di servizi
intellettuale
Uno sguardo al passato remoto, anche se sono passati poco più di venticinque anni.
Dopo l’approvazione della Direttiva, che aveva fissato una responsabilità uniforme a carico del produttore di beni di consumo (Dir. 25 luglio 1985, n.
374, poi implementata in Italia con il d.P.R. 22
maggio 1988, n. 224, e alla fine confluita nelle
norme dedicate al tema della Responsabilità del
produttore contenute nel Codice del Consumo), il
Consiglio di Europa (9 novembre 1990) propose di
ampliare la disciplina uniforme in tema di responsabilità civile estendendola anche alla categoria
del professionista intellettuale (1).
La proposta di Direttiva contemplava una responsabilità a carico del prestatore di servizi intellettuali, che poteva essere superata, se il prestatore di
opera fosse riuscito a provare che la sua condotta,
anche se fonte di pregiudizio, fosse stata rispettosa
delle regole dell’arte, applicabili a quella determinata professione. Una sorta di responsabilità oggettiva, quindi, con una sostanziale inversione dell’o(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi
venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”.
(1) Per un primo esame delle più importanti caratteristiche
della proposta di Direttive cfr. F.D. Busnelli - F. Giardina - G.
816
nere della prova, e tale trasferimento era giustificato dal generale principio della vicinanza della prova.
In sostanza: nella responsabilità da prodotto è il
consumatore a dover dimostrare il difetto del prodotto (2); nella responsabilità professionale è il
professionista a dover provare l’assenza di “difetto”
nella propria prestazione. Ad una analisi attenta,
quindi, si trattava di un regime di responsabilità
quasi più severo di quello introdotto a carico del
produttore di un bene di consumo.
Era un Consiglio di Europa molto attratto dal modello di responsabilità oggettiva, che, a torto o a
ragione, a quel tempo era considerato quale criterio di imputazione più idoneo sia a conseguire l’obiettivo della riparazione del danno sia a incidere
sul livello di condotta del potenziale danneggiante.
La proposta di Direttiva fu subito oggetto di pesanti attacchi da parte di tutte le categorie dei professionisti intellettuali, i quali fecero diffondere una
voce decisamente contraria all’introduzione di un
regime che fu considerato, quali che fossero le opinioni dissenzienti, troppo severo nei confronti del
professionista intellettuale.
Ponzanelli, Le responsabilità del prestatore di servizi nella proposta di direttiva comunitaria del 9 novembre 1990, in Quadr.,
1992, 426 ss.
(2) Cfr. da ultimo Cass. 19 febbraio 2016, n. 3258 che affronta il caso specifico di danni causati dal flacone di candeggina.
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In altri termini, la proposta disciplina avrebbe potuto creare una sorta di paralisi nel normale esercizio delle professioni intellettuali. Essa avrebbe inesorabilmente determinato l’insorgere di gravi inconvenienti già palesi nell’esperienza nordamericana di un ventennio precedente (e cioè, più distintamente: un eccessivo risarcimento a favore dei
clienti, soprattutto dei pazienti nel settore delle
prestazioni mediche; un’eccessiva pressione sulla
condotta esigibile da parte degli stessi professionisti, nonché, da ultimo, la fuga dal mercato delle
imprese di assicurazione, che, a causa dei costi eccessivi delle perdite (losses) ricollegabili ai sinistri
coperti dalla garanzia assicurativa a loro carico,
avrebbero conseguentemente incrementato i premi, con le inevitabili conseguenze negative derivanti dalle condizioni di non sostenibilità dei premi stessi).
Le “corporazioni” dei tanti professionisti (e non solo, quindi, dei medici), che erano contrarie alle regole di responsabilità di una tale linea normativa,
ebbero la meglio: la proposta non oltrepassò mai
un tale livello; e fu poi ritirata.
Ebbene, in Italia, la situazione attualmente esistente - quasi tutta elaborata a livello giurisprudenziale
- è esattamente identica a quella contenuta nella
proposta di Direttiva di quasi ventisei anni anni
orsono. Sebbene, in seguito al ritiro della proposta
di Direttiva, si fosse implicitamente rimasti fedeli
al principio jheringhiano “nessuna responsabilità
senza colpa”, il regime elaborato dalla giurisprudenza, soprattutto in tema di responsabilità medica (3), si è progressivamente avvicinato a quello
caratterizzato da un criterio di responsabilità che
nulla a più a che fare con il regime della colpa e
che presenta forte similarità con un regime di responsabilità oggettiva seppur relativo, o in ogni caso con un regime di responsabilità aggravato dall’evento.
Conferma, questa, se mai ce ne fosse stato bisogno,
che le regole della responsabilità civile sono fortemente allergiche alle determinazioni legislative e
presentano un’irrinunciabile vocazione giurisprudenziale.
Senonché, le regole che sono state elaborate per il
diritto particolare delle professioni intellettuali, e
che sono poi diventate il diritto generale delle obbligazioni, stanno creando molti problemi non so(3) Tanto che una delle più ricorrenti domande che si sollevano in questa materia è se lo “statuto” giurisprudenziale applicato al professionista medico possa essere esteso anche
agli altri professionisti intellettuali: cfr., per alcune condivisibili
osservazioni, P. Trimarchi, Responsabilità professionale dell’av-
Danno e responsabilità 8-9/2016
lamente alla classe medica ma anche alle imprese
di assicurazioni; e non è detto che abbiano contribuito al miglioramento delle condizioni dei pazienti. Come più chiaramente si avverte relativamente
al quantum del risarcimento, anche sotto il profilo
della responsabilità si conferma che le regole della
r.c. non possono non prestare attenzione anche ai
costi sociali: ogni aggravamento della responsabilità comporta infatti un maggior onere della garanzia
assicurativa e una conseguente maggiore difficoltà
per la classe medica di munirsi di una polizza assicurativa (4).
La più forte responsabilità provoca, inoltre, un atteggiamento di grande prudenza della classe medica
che poi sfocia e si concretizza in quella politica di
medicina difensiva (attiva o passiva) che ha raggiunto costi inusitati nel bilancio delle aziende sanitarie e che tutti vorrebbero ridurre e/o contenere, con la proposta, peraltro, di rimedi assai divergenti.
Come si è anticipato, lo stesso fenomeno si verifica
sotto il profilo del quantum del danno: che tutti
vogliono sempre più “giusto”; e che in una responsabilità civile - sempre più “assicurata” - non può
che essere “finanziato” dal livello dei premi assicurativi gravanti su tutti i possibili danneggianti.
Con la conseguenza che un livello più alto di risarcimento non potrà che determinare un livello più
alto di premi. E chi non si avvede di questo processo - o lo reputa non giuridicamente rilevante - fa
davvero un esercizio di miopia culturale.
Dal 1999 al 2012: le tappe di una escalation
in tema di responsabilità medica
Come si è premesso, in meno di venti anni il sottosistema di responsabilità civile del professionista
intellettuale medico si è mutato in un sistema cripticamente oggettivo, ovvero, in ogni caso, in un sistema di responsabilità con un’inversione dell’onere della prova (qualora in tal modo possa essere definita la responsabilità basata sull’art. 1218). Si è
applicato lo schema dell’art. 1218 ritenuto compatibile non solo in presenza di un vero e proprio
contratto, ma anche sussistendo un semplice contatto sociale tra medico e paziente (“responsabilità
da contatto sociale”) determinato dallo svolgimento dell’attività del medico all’interno delle struttuvocato: attuali prospettive, in Speciale Corr. giur., Suppl. n.
12/2014, 5.
(4) Indaga ora questi temi, M. Gazzara, L’assicurazione di
responsabilità civile professionale, Napoli, 2016.
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re sanitarie. In virtù del generale principio della vicinanza della prova, si è trasferito sulla struttura sanitaria e sul medico l’onere della prova di dimostrare il rispetto delle regole dell’ente e dei relativi
protocolli. E aver posto la vicinanza della prova sul
professionista e sulla struttura significa, evidentemente, estendere l’area di responsabilità del professionista anche nei casi spesso frequenti di causalità
incerta (5).
Allo stesso modo, la separazione tra il nesso di causalità civile e penale e l’applicazione in diritto civile del principio del “più possibile che non” ha
comportato l’allargarsi della regola generale di responsabilità, rispetto alla situazione pregressa dominata dal principio della causalità adeguata.
E lo stesso effetto si è poi prodotto anche in seguito al superamento della distinzione tra obbligazioni
di mezzi e di risultato, così come a causa del modo,
assai funzionale, con il quale è stata fissata la decorrenza del termine prescrizionale: non più da
quando è stato commesso il fatto, ma diversamente
da quando si è verificata la percezione del fatto da
parte del danneggiato, conoscenza basata più su basi soggettive tuttavia che non oggettive.
E si deve considerare, inoltre, l’incremento delle
singole voci del danno, soprattutto non patrimoniale.
Insomma, l’azione combinata di tutti questi fattori
(in particolare: la distribuzione di carichi probatori
sbilanciati in favore del paziente danneggiato; l’adozione di criteri assai generosi nell’accertamento
del nesso di causa, specialmente con riguardo al
settore della responsabilità, la condotta omissiva)
ha provocato la nascita di un regime di responsabilità completamente diverso da quello che esisteva
alla fine del secolo scorso. Ma la giurisprudenza,
che ha provocato questa trasformazione, non è stata capace di controllare e/o di riequilibrarne le
conseguenze ulteriori, e, quasi inesorabilmente, ha
provocato l’intervento legislativo.
Il “sottosistema” della responsabilità medica ha subito, quindi, iniziative dirette del legislatore che
sono state principalmente orientate alla tutela del
medico, con la previsione di speciali meccanismi
di esonero e di limitazione della responsabilità risarcitoria collegata alla commissione di una colpa
medica o sanitaria.
I primi interventi legislativi: la legge
Balduzzi del 2012
(5) Su cui vedi la bella monografia di R. Pucella, La causalità
“incerta”, Torino, 2007, nonché quella successiva di L. Nocco,
Il sincretismo causale e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria, Torino, 2010.
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I primi tentativi di intervento risalgono alla legge
c.d. Balduzzi (legge 2012, n. 189), che ha introdotto tre principali misure volte a rallentare l’impetuosa crescita della responsabilità civile nell’ambito
sanitario.
La prima esclude la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria nei casi in cui lo stesso abbia seguito e rispettato i protocolli e le linee
guida: non si è cioè responsabile penalmente in
presenza di una colpa lieve.
Si vuole, quindi, proteggere l’esercente la professione sanitaria, a livello penale, anche se la tripartizione del grado di colpa è propria del diritto civile
e non tanto del diritto penale.
Sono convinto che di responsabilità medica si parla soprattutto in sede civile, ma, se ancora fosse
presente un rilevante numero di casi sottoposto all’esame della magistratura penale, l’esercente la
professione sanitaria potrebbe godere, in quella sede, di un tale esonero dalla responsabilità.
L’esonero in quella sede, non potrà valere per la
responsabilità civile, in quanto per essa rimane applicabile l’art. 2043, anche se nella misura del risarcimento del danno si dovrà tener conto della
condotta del medico che ha comunque rispettato il
protocollo e le linee guida, in una prospettiva di riduzione del carico risarcitorio.
Questa seconda novità è stata quella sulla quale si
è avuto il più rilevante contributo giurisprudenziale: da una parte, le Corti italiane, come anche la
dottrina, hanno accolto letture interpretative confliggenti: favorevoli, da un lato, a modificare il regime di responsabilità gravante sull’esercente la
professione sanitaria da contrattuale ad extracontrattuale (basandosi sul riferimento testuale all’art.
2043); professando, dall’altro, la massima fedeltà al
modulo della responsabilità contrattuale basata sul
contratto sociale perché la lettera della legge non
poteva esser giudicata adeguata a un cambiamento
così importante in termini di tutela riconosciuta al
paziente.
Chi ha proposto una lettura coerente non solo con
la formulazione letterale dell’art. 3 della legge Balduzzi ma anche con la sua ratio sostanziale, volta
ad alleggerire la responsabilità dell’esercente la responsabilità sanitaria, è stato pesantemente censurato come sostenitore di un’interpretazione quasi
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Responsabilità del medico
abrogante dell’evoluzione giurisprudenziale, che
avrebbe inesorabilmente danneggiato il paziente.
Le critiche però, oltre che infondate (a una veloce
comparazione tra i due regimi di responsabilità,
quello contrattuale si fa preferire soprattutto per i
vantaggi collegati all’onere della prova, oltre che a
quello della prescrizione, ma il tutto si ridimensiona ricordando che nelle controversie di responsabilità medica è sempre imprescindibile la nomina del
consulente tecnico d’ufficio che dovrà accertare la
sussistenza della colpa del medico) dovranno cessare con l’introduzione della nuova disciplina in tema di responsabilità medica attualmente in fase di
approvazione nelle competenti sedi parlamentari.
La scelta legislativa sembra univoca: la responsabilità della struttura sanitaria rimarrà contrattuale,
mentre quella dell’esercente la responsabilità sanitaria, extracontrattuale. E le due responsabilità potranno concorrere ex art. 2055 c.c.
La terza novità della Balduzzi è stata di applicare al
risarcimento del danno causato da responsabilità
medica i criteri di determinazione previsti nel settore della circolazione auto (gli articoli 138 e 139
del Codice delle Assicurazioni). Chiaro l’intento
di limitare la responsabilità risarcitoria del medico,
ma dubbia pare la sua giustificazione: r.c. auto e
r.c. medica paiono infatti settori davvero poco
omogenei e troppo distanti reciprocamente. Non
solo: nella r.c. auto vige un sistema assicurativo obbligatoriamente bilaterale, che invece non è previsto nel sistema di r.c. medica. Soprattutto, però, l
‘intento di apprestare una migliore tutela al paziente si scontra con il fatto che, nonostante siano decorsi oltre dieci anni, la tabella unica nazionale
non è stata ancora implementata e per le lesioni di
maggiore entità, quelle, cioè, che comportano un
maggior carico risarcitorio, si applicano ancora le
tabelle milanesi che, a detta dei più, dovrebbero
realizzare il principio di integrale riparazione del
danno (6).
L’“aiuto” della Balduzzi è limitato quindi alle lesioni di lieve entità, dove, normalmente, il medico
medio dovrebbe essere in grado di fronteggiare il
carico risarcitorio, anche se non fosse provvisto di
una propria garanzia assicurativa.
L’insufficienza degli interventi attivati dalla legge
Balduzzi, la grande foga del mercato della medical
malpractice attuata dagli assicuratori (dopo che all’inizio degli anni novanta lo stesso mercato aveva
conosciuto la comparsa di tante imprese assicuratrici, soprattutto straniere) e gli enormi costi collegati all’introduzione della medicina difensiva attiva
e passiva hanno spinto il legislatore a cercare una
riforma più larga, tale da determinare un sempre
maggiore livello di protezione e di sicurezza della
cura. Le possibili soluzioni da adottare non sono
infinite e non è detto che esse possano realizzare
gli obiettivi di politica del diritto perseguiti, rappresentati sostanzialmente da una diminuzione della pressione sulla condotta dei medici, dalla maggiore disponibilità di garanzie assicurative per la
struttura e dai vantaggi di spesa causati dal dilagare
della medicina difensiva.
Intanto va detto che il fenomeno della medicina
difensiva e della maggiore disponibilità di garanzie
assicurative non si può certo risolvere con l’introduzione di una nuova normativa. Il processo legislativo non solo non è facile per la pluralità degli
interessi che deve necessariamente essere presa in
considerazione e che nel settore della responsabilità medica è più affollata di altri (medici, strutture,
Stato, paziente, assicurazioni), ma non può essere
dotato di capacità persuasiva risolutiva.
Il disegno di legge, a differenza di tutti quelli proposti nelle precedenti legislature, si muove da una
regola di responsabilità quasi oggettiva a carico
della struttura e dell’esercente la professione medica (poco cambia se contrattuale o extracontrattuale).
Si poteva perseguire delineando un quadro svincolato dalla regole di responsabilità civile e tendente
a identificarsi con un piano di sicurezza sociale
(c.d. “no fault”: il risarcimento integrale viene sostituito da un indennizzo, e il carico economico
imposto su tutti i consociati tramite un indifferenziato carico fiscale). Non si è voluto adottare quei
modelli, ma sono stati inseriti momenti non propri
del regime di responsabilità civile tradizionali.
In sintesi:
a) si prevede, conferendo la scelta già effettuata
con la legge Balduzzi, l’obbligo assicurativo a carico
della struttura e dell’esercente la professione sani-
(6) Sull’art. 138. non ancora implementato, si segnala l’interpretazione della Cass. 20 aprile 2016, n. 7766, con la quale
la III Sezione ritiene che la limitazione prevista nell’art. 138 ri-
guardi solo e unicamente il danno relazionale, mentre rimarrebbe libera la determinazione del danno morale, anche nella
sua concreta quantificazione.
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La riforma generale della responsabilità
medica
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taria. Non viene previsto un obbligo bilaterale a
carico dell’impresa di assicurazione, come accade
nel settore della r.c. auto;
b) si prevede, come nel sistema di r.c. auto, l’azione diretta verso la compagnia di assicurazione da
parte del danneggiato, così determinando una
omogeneità poco persuasiva di regole tra r.c. auto
e responsabilità medica;
c) si prevede l’istituzione di un fondo di garanzia,
evidentemente finanziato dalle strutture sanitarie e
dall’esercente la professione sanitaria tramite i contratti assicurativi, destinato a intervenire quando
l’impresa di assicurazione sia l.c.a. (chiara è l’influenza delle vicissitudini che hanno riguardato la
compagnia assicurativa “Il Faro”) o quando il danno subìto abbia superato il limite del massimale
previsto. Non si è cioè attuato completamente un
sistema no fault, ma la presenza di un obbligo assicurativo (anche se solo unilaterale), dell’azione diretta del danneggiato e dell’operatività del fondo
820
di garanzia indicano la presenza di elementi di un
sistema di sicurezza che in qualche modo rende
non omogenea la disciplina legislativa.
Più in generale, la capacità della nuova legislazione
di migliorare la situazione attuale sarà comunque
determinata dal funzionamento del risk management
al quale la legge attribuisce giustamente il massimo
rilievo (se ne parla diffusamente negli artt. 2 e 3) e
alla possibilità di coinvolgere il mercato assicurativo, sempre meno disposto ad assumere rischi collegati al settore della responsabilità professionale medica, tramite la predisposizione di una polizza modello per la copertura dei rischi. In un panorama
generale nel quale la responsabilità civile è sempre
più assicurata, non poter disporre di una garanzia
assicurativa significa riconoscere e ammettere l’impossibilità per il sistema di funzionare e non consente di far vedere la luce di un nuovo modello di
responsabilità civile, che, invece, è assolutamente
necessario ricreare.
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Responsabilità del medico
Nesso di causalità
Causalità e responsabilità medica:
cinque variazioni del tema
di Roberto Pucella (*)
L'approccio al problema causale nel contesto della responsabilità medica non si dimostra unitario: le nostre Corti percorrono vie non sempre omogenee per accertare la presenza del legame
eziologico; regole antiche e nuove e questioni di policy incidono sugli assetti attuali della responsabilità medica.
Il nesso e la colpa: l’inadempimento
qualificato
È il punto di arrivo di una rilettura degli assetti
probatori tra creditore e debitore che ha avuto inizio con Cass. n. 13533 del 2001. Quella pronuncia
ha ridisegnato il perimetro dello sforzo probatorio
del creditore in relazione all’altrui inadempimento
restringendolo alla allegazione della colpa, vale a dire ad una funzione circoscritta alla raffigurazione
delle modalità di accadimento della mancata o inesatta esecuzione della prestazione.
Limitando il campo al contesto che ci riguarda, la
colpa medica è allegata contestando al sanitario la
“adozione di tecniche non sperimentate in luogo
di protocolli ufficiali e collaudati, [o la] mancata
conoscenza dell’evoluzione, in una determinata
branca, della metodica interventistica nota invece
al constans atque diligens homo” o la violazione dei
classici criteri della prudenza, perizia e diligenza (1); o, ancora, la lamentata violazione di doveri
accessori, come quello di informazione (2).
Una volta allegata la colpa costituirà onere del debitore offrire la prova liberatoria, tradizionalmente
ricondotta alla dimostrazione che adempimento vi
è stato o, diversamente, che il mancato adempi(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi
venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”.
(1) Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, in questa Rivista, 2005,
30, con nota di R. De Matteis.
(2) Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847.
(3) Osservava di frequente la S.C. che “... consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente
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mento è riferibile a cause estranee alla sua sfera di
controllo.
In questo quadro di ridefinizione dei rispettivi carichi probatori non appariva di immediata evidenza,
dopo la pronuncia del 2001, se il ruolo sostanzialmente descrittivo riservato alla allegazione di inadempimento si estendesse sino a ricomprendere anche il momento del nesso di causa - con ciò esonerando il creditore dalla dimostrazione della derivazione eziologica del danno dalla condotta dell’obbligato - oppure no (3).
La giurisprudenza successiva all’intervento delle
Sezioni Unite, richiamato l’orientamento giurisprudenziale che pone l’onere di provare il nesso
eziologico in capo al danneggiato, ha osservato come “il tema non è quello della distribuzione tra le
parti del contratto della prova dell’inadempimento
o dell’inesatto adempimento. Ma è l’altro - diverso
dal primo - della prova del nesso di causalità tra la
patologia e l’azione o l’omissione imputabile all’ente ospedaliero” ed ha ritenuto che “questo principio non soffre deroga in materia di responsabilità
medica, restando a carico del paziente la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della
situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’azione o dell’omissione” (4).
dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della
situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente
ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata
eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano
stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”
(Cass. 28 maggio 2004, n. 10297).
(4) Cass. 11 novembre 2005, n. 22894, in Mass. Giust.
civ., 2005.
821
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La soluzione più di recente elaborata dalle pronunce a Sezioni Unite del gennaio 2008 (5) rimodella
il carico probatorio gravante sul danneggiato con
l’introduzione del criterio del c.d. inadempimento
qualificato (Cass. n. 577 del 2008).
Osservano le Sezioni Unite che “l’inadempimento
rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità
per risarcimento del danno nelle obbligazioni così
dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o
concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che
l’allegazione del creditore non può attenere ad un
inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che,
pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa
del danno”.
La Corte opera così una sorta di “crasi logica” tra
dimostrazione processuale della colpa e della catena causale: l’allegazione di una condotta colposa
idonea a generare un danno del tipo di quello realmente verificatosi esaurisce l’onere probatorio del
creditore danneggiato; l’attitudine delle circostanze
a provocare il danno lamentato esonera il danneggiato dalla necessità di dover dimostrare in altro
modo la connessione causale.
Ne consegue che la dimostrazione che un (certo)
fatto è idoneo a determinare un (certo) effetto tiene
luogo della concreta dimostrazione che quel fatto
ha prodotto quell’effetto.
Il debitore a quel punto si libera provando, alternativamente: che nessun rimprovero può essergli
mosso (cfr. ad es., Cass. n. 2185/2014); che la sua
condotta è priva di valenza eziologica (cfr. ad es.,
Cass. n. 27855/2013).
L’impatto della regola nella decisione dei casi della
vita sottoposti al vaglio dei giudici appare di non
poco conto: così il paziente che affermi che l’infezione causativa di danno è nosocomiale - ed alleghi
la circostanza (colposa) che gli ambienti ospedalie(5) Cass. 11 gennaio 2008, nn. 576-584.
(6) In Cass. n. 577/2008, ad esempio, la Corte ha ritenuto
che “avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria ... ed il danno assunto (epatite), allegando che i
convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la
prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non
era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure
che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica
già in atto al momento del ricovero”.
822
ri non erano asettici - è esonerato, avendo rappresentato un inadempimento qualificato, dalla prova
dell’effettivo legame causale tra ricovero e patologia (6).
Il nesso, il danno e la regolarità causale
Un diverso approccio al problema causale, in grado
di esaltare ancor più gli obblighi di protezione ed il
diritto a una buona cura in una logica di tutela
della salute, può essere ricondotto a Cass., n.
8826/2007 (7) (ma anche, di recente, a Cass. n.
19213/2015 (8)).
Qui il ragionamento prende le mosse dall’idea di
un risultato atteso che il medico deve garantire al
paziente (analogamente a quanto richiesto, in distinto contesto, nell’ambito degli interventi di routine sin dalla nota pronuncia n. 6141 del 1978).
La questione del nesso viene risolta attraverso l’indagine della corrispondenza del risultato effettivo a
quello atteso.
La determinazione di quale risultato ci si debba attendere da un certo atto terapeutico viene dalla
Corte rimessa alla valutazione delle circostanze del
caso, in ragione delle caratteristiche che lo contraddistinguono (stadio della malattia; qualità della
struttura ove la prestazione viene erogata; livello
delle conoscenze scientifiche del momento, etc.).
Ma sono le scorciatoie probatorie - ed in particolare il ricorso allo strumento della presunzione - a
destare interesse: se a seguito della prestazione terapeutica le condizioni di salute del paziente subiscono un aggravamento o, più semplicemente, rimangono inalterate o se compare una nuova patologia, allora si presume la difformità del risultato
ottenuto rispetto a quello atteso (9), alla luce di un
principio di regolarità causale che vuole l’atto medico sostanzialmente ad esito positivo.
L’obbligazione medica diviene allora, nei fatti, di
risultato, con conseguente superamento della colpa
quale principio generale di imputazione della responsabilità.
(7) Cass. 13 aprile 2007, n. 8826, in Nuova giur. civ. comm.,
2007, I, 1428.
(8) Cass. 29 settembre 2015, n. 19213.
(9) Questa determinazione “presuntiva” del risultato “anomalo” - costituente deviazione rispetto al “normale” esito dell’intervento o della cura - deve ravvisarsi, secondo la Corte,
non solo quando “alla prestazione medica consegua l’aggravamento dello stato morboso o l’insorgenza di nuova patologia” ma anche “quando l’esito risulti ... caratterizzato da inalterazione rispetto alla situazione che l’intervento medico-chirurgico ha appunto reso necessario”.
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Il collegamento tra nesso di causa e colpa si fa più
stretto perché il mancato risultato atteso lascia presumere l’inadeguatezza dell’atto terapeutico mentre
la derivazione diacronica del risultato anomalo dall’atto medico fonda, ancora una volta in via presuntiva, la connessione causale tra la condotta del
sanitario e l’inadeguatezza dell’esito derivatone.
Il ricorso all’uno o all’altro percorso ricostruttivo
della catena causale fonda distinti carichi probatori: l’allegazione di inadempimento qualificato può essere vinta, in un quadro di obbligazioni di mezzi, dalla dimostrazione della diligenza dell’atto medico,
da accertarsi alla luce della teoria normativa della
colpa sulla scorta dei canoni della letteratura scientifica; non appare invero sufficiente - secondo i più
recenti approdi della Cassazione - il rispetto delle
c.d. linee guida (cfr. ad esempio, Cass. n.
24455/2015 (10)).
La difformità del risultato atteso può invece essere
vinta, in un quadro di obbligazioni di risultato, solo
dalla prova del fatto interruttivo, estraneo alla sfera di controllo del medico.
Ne consegue che la causa ignota grava sul paziente,
se l’obbligazione è di mezzi (Cass. n. 21025/2014);
grava invece sul medico, se di risultato (Cass. n.
19213/2015).
Il nesso, il danno-conseguenza
e le massime di esperienza
Il recente intervento delle Sezioni Unite in materia di danno da nascita indesiderata (Cass. 22 dicembre 2015, n. 25767 (11)) ha toccato, oltre alla
delicata questione della legittimazione iure proprio
del minore, la diversa questione della prova del
nesso causale tra errore professionale e mancato
esercizio dell’interruzione di gravidanza.
In particolare, se la madre lamenta che l’omessa
informazione non l’ha messa in condizione di abortire, ricorrendone i presupposti, in tanto può invocare un danno risarcibile in quanto dimostri che
quel diritto ella avrebbe esercitato in assenza di
colpa medica.
In difetto mancherebbe la prova del nesso causale
tra illecito professionale e danno invocato.
Analogo processo argomentativo è stato applicato
con riguardo all’esercizio del diritto all’autodeterminazione terapeutica: il paziente cui il medico ab(10) Cass. 2015, n. 24455.
(11) In questa Rivista, 2016, 349, con nota di S. Cacace.
(12) Cass. 10 novembre 2010, n. 22837, in questa Rivista,
2011, 382, con nota di R. Simone.
(13) Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in questa Rivista, 2013,
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bia fornito un’informazione imprecisa o incompleta
circa i rischi per la salute connessi ad un determinato trattamento, assolve il proprio onere probatorio solo dimostrando, oltre al danno, l’incidenza
causale della condotta negligente - sul piano del
consenso - nella verificazione dello stesso; e perché
ciò accada va dimostrato che la decisione di sottoporsi al trattamento terapeutico da cui ha avuto
origine la lesione è stata condizionata dall’informazione (erronea, lacunosa o assente) ricevuta.
In entrambe le fattispecie la costruzione del legame
eziologico appare influenzata dal ricorso a massime
di esperienza o a generalizzazioni del senso comune
(la donna che venga informata del rischio - o della
concreta presenza - di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro normalmente abortisce; il paziente cui vengano rappresentati rischi per la salute
collegati ad una pratica terapeutica normalmente non si espone).
La dimostrazione della volontà di interrompere la
gravidanza è stata in passato ritenuta assolta per il
semplice fatto che la donna si fosse sottoposta in
gravidanza ad indagini mediche finalizzate ad accertare la presenza di eventuali anomalie o malformazioni del feto.
Sino a Cass. n. 16754/2012 il fatto che la donna si
limitasse ad asserire che avrebbe deciso di interrompere la gravidanza se informata, presupponeva
l’implicita sussistenza del grave pericolo per la sua
salute e costituiva, se non contestato, elemento di
prova sufficiente alla dimostrazione del nesso, alla
stregua di una sorta di autocertificazione dotata di
valore legale (Cass. n. 22837/2010) (12).
I più recenti arresti della Cassazione, una volta
escluso qualsiasi automatismo probatorio, richiedono ulteriori elementi che “colorino” la presunzione, quali ad esempio l’espressa manifestazione, al
momento della richiesta diagnostica, della volontà
della gestante di interrompere la gravidanza in caso
di diagnosi infausta (Cass. n. 16754/2012) (13); od
ogni altro indizio da cui ricostruire in via presuntiva l’intenzione della donna di abortire (Cass. n.
7269/2013) (14).
La recente decisione delle Sezioni Unite in tema
di nascita indesiderata valorizza le correlazioni statisticamente ricorrenti ed ogni circostanza contingente emergente dai dati istruttori raccolti: quale,
“ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio
492 con nota di A. Mastrorilli; in Nuova giur. civ. comm., 2013,
I, 175, con nota di E. Palmerini.
(14) Cass. 22 marzo 2013, n. 7269, in Nuova giur. civ.
comm., 2013, I, 1082, ed ivi, II, 653, con rilievi di R. Pucella.
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per conoscere le condizioni di salute del nascituro,
le precarie condizioni psico-fisiche della gestante,
eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero,
in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del
feto”.
Nell’ambito dell’autodeterminazione al trattamento sanitario operano principi analoghi: al paziente
è fatto carico di provare che ove correttamente informato non avrebbe rilasciato il consenso al trattamento sanitario (15). Tale volontà può essere ricostruita ex post anche a mezzo di presunzioni: così
dimostrando l’assenza di una necessità attuale all’intervento terapeutico o valorizzando la massima
di esperienza che associa in misura proporzionalmente inversa il rischio di danno connesso al trattamento e la volontà del paziente di accettarne le
conseguenze (a maggior rischio minore propensione).
Il riparto dei carichi probatori deve tenere di conto, per l’autodeterminazione come pure per l’esercizio dell’aborto, che il thema probandum è costituito
da un fatto complesso, come correttamente osserva
la Cassazione; e la ricostruzione del nesso causale,
implicante un giudizio controfattuale che indaghi,
ex post, le determinazioni volitive del danneggiato,
fa leva sull’id quod plerumque accidit e sulla sua capacità di integrare gli elementi della gravità e della
precisione che l’art. 2729 c.c. pone a fondamento
della presunzione semplice.
La svolta attuale - pienamente condivisibile - ritiene soddisfatti tali elementi attraverso la “personalizzazione” della regola di esperienza che trasformi
la causalità “generale” in causalità “particolare”.
Infine qualche parola sul danno.
La violazione del diritto ad interrompere la gravidanza, come pure del diritto all’autodeterminazione
terapeutica si traduce nell’aggressione a valori fondamentali della persona.
Nella prassi giurisprudenziale e negli orientamenti
della dottrina gli anelli che compongono la catena
causale della fattispecie di responsabilità si identificano nell’atto medico, da un lato, e nelle conse(15) Cfr., da ultimo, App. Milano, 5 marzo 2015, in questa
Rivista, 2016, 382, con nota di D. Farace.
(16) Su questi temi sia consentito il rinvio a R. Pucella,
Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, spec. 199 ss. e, da ultimo, Id., Lesione del valore-persona e danno-conseguenza: un’architettura da rimodernare, in
Riv. crit. dir. priv., 2015, 55 ss.
(17) Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619, in questa Rivista, 2008, 43 ss., con nota di R. Pucella.
824
guenze ritenute dannose, dall’altro (wrongful birth,
lesione alla salute del paziente non informato).
La brevità di questo intervento non consente di affrontare adeguatamente i profili problematici che
ne derivano, riconducibili al timore che sia, altrimenti, impropriamente superata la distinzione concettuale tra lesione dell’interesse e danno.
Ma così non è, a mio avviso, perché se è vero che
il danno va dimostrato, anche a mezzo di presunzioni, e se è vero che la violazione dell’interesse
protetto potrebbe essere, in sé, priva di disvalore,
ciò che fonda il danno risarcibile non si esaurisce
necessariamente in un evento pregiudizievole conseguente al fatto illecito ben potendo sostanziarsi
nella lesione che la persona patisce per la degradazione di una valore che la forma (16).
Il nesso, la probabilità relativa
e le chances
Un’altra via per dare prova del rapporto di causaeffetto utilizza il registro della certezza probatoria.
Con sent. n. 21619/2007 (17) la Cassazione ha formalmente virato verso la regola del più probabile
che non, abbandonando così il parametro dell’elevato grado di credibilità, declinato negli anni attraverso una molteplicità di formule espressive, ma
tutte tese a garantire il massimo convincimento
del giudice (si pensi a quella richiesta certezza “morale” del giudice che certa giurisprudenza ha posto
a fondamento della sussistenza del legame eziologico (18)).
Ritenere sussistente un legame causale perché più
probabile non equivale a garantire il convincimento
del giudice, soprattutto quando la sostanziale equivalenza dell’ipotesi maggioritaria alla sua contraria
può lasciare margini di incertezza in ordine al reale
accadimento degli eventi.
Il principio del più probabile che non risolve, ciononostante, un problema sostanziale - l’incertezza
causale - con una regola processuale che quell’incertezza elimina attraverso la scelta dell’ipotesi più
plausibile.
È possibile che in questo modo si sacrifichi l’accertamento della verità sostanziale e che ciò determi(18) Cass. 28 aprile 1994, n. 4044, in Resp. civ. prev., 1994,
635 con nota di Ruta, in tema di responsabilità professionale
dell’avvocato; cfr. anche Cass. 5 giugno 1996, n. 5264, in
Mass. Foro. it., 1996, che ha subordinato la responsabilità per
danni di un dottore commercialista al conseguimento della
certezza morale che una sua diversa condotta professionale, in
realtà non tenuta, avrebbe invece giovato all’interesse del
cliente.
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ni un maggiore accoglimento di domande basate su
nessi incerti, in ragione del fatto che la maggiore
probabilità risulta processualmente sufficiente.
L’adattamento dei principi causali alle esigenze del
diritto trova, d’altronde, altre vie di sfogo nell’utilizzo del principio di vicinanza della prova o nell’applicazione della teoria dello scopo della norma
violata (19).
Interessante appare la ripercussione della regola del
più probabile che non sul risarcimento del danno da
perdita di chances.
Tradizionalmente la difficoltà di prova della connessione eziologica tra atto medico e lesione della
salute del paziente giustificava un’indagine causale
di secondo livello tra errore professionale e perdita
delle possibilità di guarigione (le chances, appunto (20)); vedere risarcite le perdute chances di sopravvivenza a fronte dell’impossibilità di dimostrare che la condotta del sanitario è stata causa della
morte del paziente costituiva una soluzione di compromesso idonea a legittimare la richiesta di ristoro
del danneggiato in un quadro di accertato errore
professionale (di per sé non bastevole) e di tenue
forza del legame causale.
Ora la regola della probabilità relativa risolve alternativamente in un senso o nell’altro l’incertezza
causale, nel senso dell’integrale riconoscimento
dell’esistenza del nesso (se, semplificando, vi è probabilità del 51%) o, all’opposto, dell’integrale sua
negazione (se l’ipotesi al vaglio risulta meno probabile che non), con ciò facendo scomparire quella
terra di incertezza sinora coperta dalle chances.
Ma la Cassazione lavora a volte per scomparti stagni e la risarcibilità delle chances perdute rimane
ancora terreno di elezione in specifici contesti risarcitori (in tal senso si muove, ad esempio, la Sezione lavoro con riguardo alla perdita delle proba(19) Rimane insuperato, sul tema, il saggio di m. Barcellona, “Scopo della norma violata”, interpretazione teleologica e
tecniche di attribuzione della tutela aquiliana, in Riv. dir. civ.,
1973, I, 311 ss.
(20) Già da Chaplin v. Hichs (1911).
(21) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. lav., 14 gennaio 2016, n.
495, in: “Il lavoratore che lamenti la violazione, da parte del datore di lavoro dell’obbligo di osservare la ‘par condicio’ fra gli
aspiranti alla promozione e chieda il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di ‘chance’ deve fornire gli elementi atti a
dimostrare, seppure in modo presuntivo, e sulla base di un calcolo delle probabilità, la possibilità che egli avrebbe avuto di
conseguire la promozione, che non può derivare dal calcolo
matematico tra numero dei concorrenti e funzioni da assegnare, dovendo essere comparati titoli e requisiti posseduti dai
candidati. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di
rigetto della domanda risarcitoria per perdita di ‘chance’ di un
docente, al quale era stata negata l’assegnazione della ‘funzio-
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bilità di assunzione o di avanzamento di carriera
del lavoratore (21)).
Il nesso, la multifattorietà e le preexisting
conditions
Sovente l’evento dannoso è l’esito dell’intreccio di
fattori causali il cui interferire l’uno con l’altro rende impossibile la scomposizione dei rispettivi contributi.
Quando ciò accade si determina una serie di articolate relazioni di causa-effetto ove la complessità
può essere data, a volte, dal verificarsi di un danno
che l’atto illecito in sé non è idoneo a provocare
(l’errata ingessatura di un arto che conduce il paziente al suicidio); a volte dal verificarsi di lesioni
più gravi di quelle che sarebbe lecito attendersi, secondo un principio di regolarità, da quel genere di
causa (il modesto incidente stradale che scatena
nel danneggiato un grave trauma psichico non ancora esauritosi a distanza di molti anni dal fatto).
L’errore medico - in particolare - si presta per sua
natura ad inserirsi in un contesto di multifattorietà
in cui il processo dal quale origina la patologia può
presentare uno schema non solo a pluralità di cause ma, ancor più, in successione nel tempo, secondo un modello a più stadi (22).
V’è, dunque, un passaggio da una concezione monocausale e deterministica dell’insorgenza della
malattia ad una concezione probabilistica, attenta
alla combinazione della molteplicità dei fattori che
possono intervenire a determinarla.
Nel diritto penale la questione è risolta dall’art. 41
c.p. (il concorso di cause non esclude il rapporto di
causalità).
Nel diritto civile - che segue logiche distinte - si
pongono due rilevanti questioni, cui in questo breve intervento è consentito solamente fare cenno:
anzitutto quella del possibile apporzionamento delne obiettivo’ di cui all’art. 28 del C.C.N.L. comparto scuola del
26 maggio 1999, che a detto fine prevede la valutazione comparativa delle esperienze professionali e culturali e la frequenza di corsi di formazione, non avendo il ricorrente allegato elementi, neppure di carattere presuntivo, idonei ad avvalorare l’ipotesi di sua prevalenza sugli altri concorrenti)”; analogamente si vedano Cass., Sez. lav., 1° marzo 2016, n. 4031, in Mass.
Giust. civ., 2016; Cass. 9 dicembre 2015, n. 24833, ivi, 2015;
Cass. 20 ottobre 2015, n. 20829, ibidem.
(22) P. Vineis, Modelli di rischio, Torino, 1990. Dell’Erba - Fineschi, La tutela della salute, Milano, 1993, 44, osservano come sia “... in pratica pressoché impossibile determinare con
certezza se una neoplasia polmonare dipende dall’abitudine al
fumo, dalla polluzione ambientale, dalle condizioni di lavoro o
dalla ereditarietà (o dalle combinazioni di queste), anche se vi
è una netta evidenza, statistica, che il fumo di sigaretta può
causare il cancro polmonare”.
825
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l’evento di danno tra i vari fattori che hanno concorso a determinarlo (con possibile assorbimento sul piano del giudizio di responsabilità - di una parte del danno a carico dello stesso soggetto danneggiato, ex art. 1227 c.c.).
Questo tema è controverso tra dottrina e giurisprudenza in merito al percorso argomentativo da seguire.
Per parte della prima è configurabile un frazionamento della responsabilità in ragione del diverso
apporto causale: si risponde di ciò che si è causato (23).
La giurisprudenza che aveva, per lungo tempo, fatto valere il principio dell’impossibilità di concorso
tra causa naturale non imputabile e causa umana
imputabile - con addebito all’autore di quest’ultima
della integrale responsabilità del fatto (24) - ha poi
adottato un modello di causalità proporzionale nella nota pronuncia n. 975 del 2009 (25) pervenendo, da ultimo, ad un assetto che prevede l’integralità della responsabilità in capo all’autore della causa
umana, secondo il principio dell’all or nothing, con
possibile regolazione del registro del danno risarcibile sul piano della regola di c.d. causalità giuridica (26).
La seconda rilevante questione cui sopra si faceva
richiamo si risolve, invece, in un tipico problema
di policy.
(23) Sia consentito il rinvio a R. Pucella, Concorso di cause
umane e naturali: la via impervia tentata dalla Cassazione, nota
a Ca s s . 2 1 l u g l i o 2 0 1 1 , n . 1 5 9 9 1 , i n N uo va g i ur. c i v.
comm., 2012, I, 180; si vedano altresì M. Capecchi, Il nesso di
causalità, Padova, 2002, 132 ss.; B. Tassone, La ripartizione di
responsabilità nell’illecito civile, Napoli, spec. 210 ss.; Id., Note
minime in punto di ripartizione di responsabilità, perdita di chances e protezione della vittima, postilla a Trib. Terni 2 luglio
2010, in questa Rivista, 2011, 419 ss.
(24) Si veda, ad esempio, Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335,
in Mass. Giust. civ.
(25) Cass. 16 gennaio 2009, n. 975 è pubblicata in questa
826
L’intreccio di cause imputabili e cause naturali tra le quali spiccano, per frequenza statistica, le
condizioni di salute preesistenti del danneggiato determina infatti una delicata questione connessa
al contemperamento di equilibrio tra regole di responsabilità e tutela dei soggetti vulnerabili.
In altri Ordinamenti questa esigenza è risolta con
l’adozione del principio operativo del take your
plaintiff as you find him o della responsabilità per rischio prodotto (si pensi ai farmaci difettosi (27));
nel nostro sistema la giurisprudenza preferisce ricorrere alla (controversa) categoria della causalità
giuridica.
In conclusione
Ad un’accentuata attenzione di dottrina e giurisprudenza per i problemi della causalità sembra fare
riscontro una progressiva perdita di interesse per il
suo accertamento effettivo, sostituito da criteri tesi
a sfrondare il “cespuglio spinoso”, come si è detto (28), della causalità con regole alternative.
È consentito? A condizione che non si frantumino
principi causali non rinunciabili e non si alimenti
una giurisprudenza contraddittoria.
Rivista, 2010, 376, con nota di Capecchi, e in Corr. giur., 2009,
1653 ss., con nota di M. Bona.
(26) Cass. 21 luglio 2011, n. 15991, cit.; da ultimo Cass. 29
febbraio 2016, n. 3893.
(27) Pietra miliare sul tema è il saggio, oramai risalente, di
D. Rosenberg, The Causal Connection in Mass Exposure Cases:
A “Public Law” Vision of the Tort System, 97 Harvard Law Review 851 (1984).
(28) R. Wright, Causation, Responsibility Risk, Probability,
Naked Statistics, and Proof: Pruning the Bramble Bush by Clarifying the Concepts, [1988] 73 Iowa Law Review.
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Giurisprudenza
Danni non risarcitori
Danni punitivi
La delibabilità delle sentenze
straniere comminatorie di danni
punitivi finalmente al vaglio
delle Sezioni Unite
Cassazione Civile, Sez. I, 16 maggio 2016, ord., (ud. 16 febbraio 2016), n. 9978 - Pres. S. Di
Palma - Est. A.P. Lamorgese - AXO SPORT S.P.A. c. NOSA INC.
Non deve considerarsi pregiudizialmente contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi,
all’ordine pubblico internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo: una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto, che tenga conto delle “circostanze del caso di specie e dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito”
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non constano precedenti conformi.
Difforme
Cass. n. 1183/2007; Cass. n. 15814/2008; Cass. n. 1781/2012.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64, lett. b)
e g), nonché vizio di motivazione, per avere la sentenza
impugnata escluso la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza straniera che aveva condannato AXO a pagare a NOSA l’importo corrispondente alla transazione
stipulata da quest’ultima con il danneggiato, ancorché
tale condanna fosse stata emessa in applicazione dell’istituto del potential liability test, cioè sulla base della
mera constatazione che OXA avesse rifiutato di assumere la difesa di NOSA nei confronti del danneggiato e
che la transazione apparisse equa, in considerazione della possibilità di successo della domanda del danneggiato
contro NOSA per un importo superiore, ma senza alcuna verifica circa il plausibile fondamento della domanda
di garanzia proposta da NOSA verso AXO. Con il secondo motivo è denunciata la violazione della L. n. 218
del 1995, art. 64, lett. b) e g), nonché vizio di motivazione, per avere ritenuto che AXO avesse profittato ex
art. 1304 c.c. dell’accordo stipulato da NOSA con il
danneggiato; l’istituto del potential liability test violerebbe il principio di ordine pubblico, in base al quale il
garantito (NOSA), per essere rimborsato dell’importo
corrisposto in forza di una transazione stipulata con il
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danneggiato, dovrebbe risultare vittorioso in un giudizio
avente ad oggetto l’accertamento in concreto (che non
v’era stato) della responsabilità del garante (AXO).
Con il terzo motivo è denunciata la violazione della L.
n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), nonché vizio di motivazione, per avere la Corte veneziana trascurato che la
sentenza americana aveva condannato AXO a reintegrare NOSA per un indennizzo corrisposto al danneggiato a titolo di danni punitivi, come risultava dal fatto
che la somma posta a carico di AXO corrispondeva a
quella indicata nella proposta transattiva del danneggiato, a composizione integrale della pretesa risarcitoria,
compresi i punitive damages; per non avere valutato la
totale omissione di motivazione della sentenza americana, quanto ai criteri seguiti per la determinazione del
danno:
ciò non consentiva (e, quindi, secondo la giurisprudenza di questa Corte, impediva) di riconoscerla nell’ordinamento italiano, in quanto contraria al principio di ordine pubblico circa la natura esclusivamente compensatoria del rimedio risarcitorio, in presenza di un quantum
abnorme rispetto ai parametri italiani, che ne evidenziava la natura punitiva e sanzionatoria; tanto più che
l’importo si aggiungeva a quello corrisposto al danneggiato dall’importatrice del casco (la Helmet) e che si
trattava di un transazione (settlement) necessariamente
inclusiva della componente punitiva, incorporando un
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aliquid datum e un aliquid retentum che rivelava una stima del danno ancora maggiore.
2.- Il terzo motivo implica l’esame di una questione, di
massima di particolare importanza, che va rimessa all’esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione,
perché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, per le ragioni di seguito esposte.
3.- L’orientamento contrario alla riconoscibilità delle
sentenze straniere di condanna al pagamento di somme
a titolo di danni punitivi (espresso da Cass. n. 1183 del
2007) è rinforzato dall’affermazione secondo cui a giustificare il diniego di riconoscimento è sufficiente, in sostanza, anche solo il dubbio dell’esistenza di una condanna ai punitive damages, non essendo “sintomatica
l’assenza nella pronuncia straniera di esplicito rinvio all’istituto” in esame (in tal senso Cass. n. 1781 del
2012). Secondo quest’ultima sentenza, “la mancanza di
motivazione nella sentenza straniera, che in linea di
principio non integra in sé una violazione dell’ordine
pubblico (cfr. Cass. n. 9247 del 2002, n. 3365 del
2000), non può mantenere un significato neutro ai fini
del riconoscimento in Italia”, nel caso in cui manchi
“qualsiasi indicazione positiva circa la causa giustificativa della statuita attribuzione patrimoniale e sia Li omesso il richiamo in essa e nella impugnata sentenza a regole legali e/o criteri esteri propri della liquidazione del
danno in questione e nella specie applicabili”. Al giudice della delibazione, ai fini della verifica di compatibilità con l’ordine pubblico (inteso come) interno, si chiede di “conoscere i criteri legali in concreto applicati dal
giudice straniero nell’adozione della pronuncia, e segnatamente, con riferimento al tema controverso, quelli seguiti per qualificare la responsabilità e le conseguenti
voci di danno ristorabili, onde evincere la causa giustificatrice dell’attribuzione” e, in sostanza, di controllare la
“ragionevolezza e proporzionalità del liquidato in sede
estera in rapporto non solo alle specificità dell’illecito
ed alle patite conseguenze, ma anche ai criteri risarcitori interni”.
A questa metodologia decisoria si è sottratta la Corte
veneziana, la quale ha escluso che la sentenza straniera
contenesse una statuizione di danni punitivi, senza verificare la causa dell’attribuzione patrimoniale, le regole
legali e/o i criteri applicati dal giudice americano nella
liquidazione delle diverse voci di danno (neppure esplicitate) e, in definitiva, la ragionevolezza e proporzionalità del risarcimento. E ciò, nonostante che l’importo liquidato fosse elevato, si aggiungesse ad un altro dovuto
dall’importatrice del casco e fosse il risultato di una proposta transattiva del danneggiato che conteneva i danni
punitivi.
La Corte, in tal modo, non ha fatto applicazione di un
principio - della non delibabilità, per contrasto con l’ordine pubblico, della sentenza straniera che riconosca
danni punitivi - la cui attuale vigenza nell’ordinamento
suscita, in effetti, perplessità.
4.- È necessaria una premessa sull’ambito applicativo
del principio di ordine pubblico, a norma della L. n.
218 del 1995, artt. 16, 64 e 65.
828
La giurisprudenza di legittimità ha compiuto una progressiva evoluzione nell’interpretazione del principio di
ordine pubblico (cui si aggiungeva, nell’abrogato art. 31
disp. gen., il richiamo al buon costume), inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, costituito dal complesso
dei principi che, tradotti in norme inderogabili o da
queste desumibili, informano l’ordinamento giuridico e
concorrono a caratterizzare la struttura etico-sociale della società nazionale in un determinato momento storico
(vd. Cass. n. 3881 del 1969 e n. 818 del 1962, quest’ultima escludeva che il principio andasse inteso in senso
internazionale, astratto o universale); successivamente,
si è ritenuto che l’indagine sulla conformità all’ordine
pubblico andasse riferita all’ordine pubblico interno se
la sentenza da riconoscere riguardava cittadini italiani e
all’ordine pubblico internazionale se riguardava (soltanto) cittadini stranieri (vd. Cass. n. 228 del 1982); nella
giurisprudenza più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma
fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (vd., tra
le tante, Cass. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del
2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002, n. 2788
del 1995).
Questa evoluzione del concetto di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori
estranei, purché compatibili con i principi fondamentali
desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, indirettamente, dalla
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (si è osservato, in dottrina, che il nostro ordinamento si propone, in
tal modo, di salvaguardare la stessa comunità internazionale che trova la sua difesa anche negli ordinamenti
interni dei vari Stati).
Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che
esclude il riconoscimento (ora previsto come automatico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine
pubblico (vd., ad es., l’art. 34 del regol. CE 22 dicembre
2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale,
il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del regol. CE 11 luglio
2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali;
l’art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201,
in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni
in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009,
in materia di obbligazioni alimentari);
nella giurisprudenza comunitaria, dove il ricorso alla
nozione di ordine pubblico presuppone l’esistenza di
una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un
interesse fondamentale della società (vd. Corte giust.
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VE, 4 ottobre 2012, C-249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri) e nella giurisprudenza di legittimità.
Quest’ultima ha evidenziato come il rispetto dell’ordine
pubblico debba essere garantito, in sede di controllo
della legittimità dei provvedimenti giudiziari e degli atti
stranieri, avendo riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della
soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero
o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti” (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento (nel senso che le norme espressive dell’ordine
pubblico sono quelle fondamentali e non coincidono
con quelle, di genere più ampio, imperative o inderogabili, vd. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n.
2215 del 1984, sicché il contrasto con queste ultime
non costituisce, di per sé solo, impedimento all’ingresso
del provvedimento straniero).
In altri termini, l’ordine pubblico non si identifica con
quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le
norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità
tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato (è chiara in tal senso Cass.
n. 10215 del 2007).
Se è acquisito che l’ordine pubblico è costituito non
dalle singole norme del nostro ordinamento, ma dai
principi fondamentali di esso (vd., in linea di principio,
già Cass. n. 543 del 1980), non è chiaro come individuare l’esistenza di tali principi e, in particolare, se sia
possibile individuarli immediatamente nelle norme di
legge ordinarie (come sembra ricavarsi da Cass. n. 2215
del 1984), ipotizzando, ad esempio, un collegamento
funzionale con disposizioni costituzionali.
In realtà, non può essere indicativo dell’esistenza di un
principio di ordine pubblico il solo fatto che il legislatore ordinario abbia esercitato la propria discrezionalità,
in una determinata direzione, con riferimento a materie
e istituti giuridici la cui regolamentazione non sia data
direttamente dalla Costituzione, ma sia rimessa allo
stesso legislatore (in presenza di una riserva di legge o,
entro certi limiti, di norme costituzionali programmatiche). Come efficacemente rilevato in dottrina, se il legislatore è libero di atteggiarsi come meglio ritiene, allora potranno avere libero ingresso prodotti giudiziali
stranieri applicativi di regole diverse, ma comunque
non contrastanti con i valori costituzionali essenziali o
non incidenti su materie disciplinate direttamente dalla
Costituzione. Non è conforme a questa impostazione,
ad esempio, l’orientamento che, in passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perché la
legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’indissolubilità del matrimonio (vd. Cass. n. 3444/1968), sebbene
detta indissolubilità non esprimesse alcun principio o
valore costituzionale essenziale.
La progressiva riduzione della portata del principio di
ordine pubblico, tradizionalmente inteso come clausola
di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici - cui
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tende, invece, il sistema del diritto internazionale privato - è coerente con la storicità della nozione e trova un
limite soltanto nella potenziale aggressione del prodotto
giuridico straniero ai valori essenziali dell’ordinamento
interno, da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale.
Il giudice della delibazione, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della
norma straniera con tali valori, desumibili direttamente
da norme e principi sovraordinati (costituzionali e internazionali), dovrà negare il contrasto in presenza di
una mera incompatibilità (temporanea) della norma
straniera con l’assetto normativo interno, quando questo rappresenti una delle diverse modalità di attuazione
del programma costituzionale, quale risulti dall’esercizio
della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Si tratta di un giudizio simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine
pubblico soltanto nel caso in cui al legislatore ordinario
sia precluso di introdurre, nell’ordinamento interno,
una ipotetica norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari (già
secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale costituisce un “passaggio obbligato della tematica
dell’ordine pubblico”).
5.- In questa prospettiva, non dovrebbe considerarsi
pregiudizialmente contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi, all’ordine pubblico internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei
danni non risarcitori, aventi carattere punitivo: una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo
quando la liquidazione sia giudicata effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto,
che tenga conto delle “circostanze del caso di specie e
dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito” (è in tal senso il Considerando 32 del regol.
CE 11 luglio 2007, n. 864, sulla legge applicabile alle
obbligazioni extracontrattuali). Analoghe indicazioni
provengono dal diritto comparato: la Corte costituzionale federale tedesca (24 gennaio 2007, in JZ, 2007,
1046) e il Tribunale Supremo spagnolo (13 novembre
2001, n. 2039/1999) hanno ritenuto che le pronunce
contenenti statuizioni di condanna ai danni punitivi
non siano automaticamente contrarie all’ordine pubblico; analogamente, la Corte di cassazione francese (7 novembre 2012, n. 11-23871, e 1 dicembre 2010 n. 9013303) ha ritenuto i danni punitivi contrari all’ordine
pubblico solo se liquidati in misura realmente eccessiva.
6.- Venendo alle ragioni che hanno indotto questa Corte a negare l’ingresso, nel nostro ordinamento, di sentenze straniere contenenti statuizioni di condanna ai
danni punitivi, il leading case è la sentenza di questa
Corte n. 1183 del 2007, che ha riguardato un caso, analogo a quello in esame, di responsabilità da prodotto difettoso per i vizi di un casco da motociclista. Ne è stata
tratta la seguente massima: “Nel vigente ordinamento
alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo
di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha
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subito la lesione, anche mediante l’attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda a eliminare
le conseguenze del danno subito mentre rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del
responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal
fine della sua condotta. È quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi che, per
altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei
danni non patrimoniali o morali.
Tale risarcibilità è sempre condizionata all’accertamento della sofferenza o della lesione determinata dall’illecito e non può considerarsi provata in re ipsa. È inoltre
esclusa la possibilità di pervenire alla liquidazione dei
danni in base alla considerazione dello stato di bisogno
del danneggiato o della capacità patrimoniale dell’obbligato”. In senso analogo si è espressa la già citata Cass.
n. 1781 del 2012, la quale ha precisato che, altrimenti,
vi sarebbe un arricchimento senza una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro (anche secondo Cass. n. 15814/2008, in linea generale, “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto
soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una
causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da
un soggetto ad un altro”). Secondo Cass., sez. un., n.
15350 del 2015, in tema di risarcibilità del cd. danno
tanatologico, “i danni risarcibili sono solo quelli che
consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli
consistenti nell’evento lesivo, in sé considerato”; pertanto, “la progressiva autonomia della disciplina della
responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza
(v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del
1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n.
6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e
riparatoria (oltre che consolatoria)”.
7.- È dubbio, tuttavia, se la funzione riparatoria-compensativa, seppur prevalente nel nostro ordinamento,
sia davvero l’unica attribuibile al rimedio risarcitorio e
se sia condivisibile la tesi che ne esclude, in radice,
qualsiasi sfumatura punitiva-deterrente (una parte della
dottrina, infatti, auspica un parziale recupero della categoria dell’”illecito civile”, cui si connette la funzione
preventiva o deterrente del rimedio risarcitorio, quale
strumento più adeguato per la tutela dei diritti fondamentali della persona);
è anche dubbio se al riconoscimento di statuizioni risarcitorie straniere, con funzione sanzionatoria, possa opporsi un principio di ordine pubblico desumibile da categorie e concetti di diritto interno, finendo, in tal modo, per trattare la sentenza straniera come se fosse una
sentenza di merito emessa da un giudice italiano (come
rilevato dalla dottrina, espressasi in senso prevalentemente critico rispetto ai precedenti di questa Corte del
2007 e del 2012).
830
E soprattutto, si dovrebbe dimostrare che la funzione
del rimedio risarcitorio, attualmente configurato in termini esclusivamente compensatori, assurga al rango di
un valore costituzionale essenziale e imprescindibile del
nostro ordinamento, rispetto al quale (secondo la proposta metodologica delineata sub p. 4) non sarebbe
consentito neppure al legislatore ordinario di derogarvi,
conclusione questa cui, però, non si spinge neppure la
citata Cass., sez. un., n. 15350 del 2015.
In realtà, si deve tenere conto sia dello scopo del giudizio delibatorio - che è di dare ingresso nell’ordinamento
interno non alla legge straniera, ma ad una sentenza o
ad un atto, nell’ambito di uno specifico rapporto giuridico, con limitata incidenza sul piano del diritto interno
- sia della “evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente” (come rilevato da Cass. n. 7613 del
2015 - che, nonostante le differenze, ha evidenziato i
“tratti comuni” tra i punitive damages e le astraintes,
queste ultime non implicanti alcuna incompatibilità
con l’ordine pubblico - e da una parte della dottrina, la
quale ha osservato che la funzione anche afflittiva del
risarcimento del danno non patrimoniale non era estranea ai lavori preparatori del codice civile, nei casi di
particolare intensità dell’offesa all’ordine giuridico).
È il segno della dinamicità o polifunzionalità del sistema della responsabilità civile, nella prospettiva della
globalizzazione degli ordinamenti giuridici in senso
transnazionale, che invoca la circolazione delle regole
giuridiche, non la loro frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali.
8.- Tale evoluzione è testimoniata da numerosi indici
normativi che segnalano la già avvenuta introduzione,
nel nostro ordinamento, di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria, ma sostanzialmente sanzionatoria. Si
possono segnalare, a titolo solo esemplificativo, i seguenti:
- la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che, in materia di
diffamazione a mezzo stampa, prevede il pagamento di
una somma “in relazione alla gravità dell’offesa ed alla
diffusione dello stampato”;
- l’art. 96 c.p.c., comma 3 (aggiunto dalla L. 18 giugno
2009, n. 69, art. 45), che prevede la condanna della
parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (nel processo amministrativo vd. il
D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 26, comma 2,);
- l’art. 709 ter c.p.c. (inserito dalla L. 8 febbraio 2006,
n. 54, art. 2), in base al quale, nelle controversie tra i
genitori circa l’esercizio della responsabilità genitoriale
o le modalità di affidamento della prole, il giudice ha il
potere di emettere pronunce di condanna al risarcimento dei danni, la cui natura assume sembianze punitive;
- la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158 e, soprattutto,
D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 125 (proprietà industriale), che riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e deterrente,
laddove l’agente abbia lucrato un profitto di maggiore
entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato, seb-
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bene il cons. 26 della direttiva CE (cd. Enforcement)
29 aprile 2004, n. 48 (sul rispetto dei diritti di proprietà
intellettuale), attuata dal D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140
(v. art. 158), abbia precisato che “il fine non è quello di
introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo” (Cass. n. 8730 del 2011 ne ammette la “funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche
ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i
vantaggi”);
- il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 undecies,
comma 2, (in tema di intermediazione finanziaria), che
prevede, nei procedimenti penali per i reati di abuso di
informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, che la Consob possa costituirsi parte civile e “richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, una somma determinata dal
giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque
conto dell’offensività del fatto, delle qualità del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito
dal reato”;
- il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt. 3 - 5), che ha
abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della
fede pubblica, dell’onore e del patrimonio e, se i fatti
sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo
di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva
che repressiva (il cui importo è determinato dal giudice
sulla base dei seguenti criteri: gravità della violazione,
reiterazione dell’illecito, arricchimento del soggetto responsabile, opera svolta dall’agente per l’eliminazione o
attenuazione delle conseguenze dell’illecito, personalità
dell’agente, condizioni economiche dell’agente).
Un’ultima notazione: quando l’illecito incide sui beni
della persona, il confine tra compensazione e sanzione
sbiadisce, in quanto la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte giudiziali equitative, che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggiato. La recente Cass. n. 1126
del 2015 ha visto nella “gravità dell’offesa” un “requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del
danno non patrimoniale”.
9.- Queste le ragioni che inducono il Collegio a giudicare opportuno un intervento delle Sezioni Unite sul
tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi.
P.Q.M.
La Corte, visto l’art. 374 c.p.c., comma 2, rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del
ricorso alle Sezioni Unite, in quanto implicante la soluzione di una questione di massima di particolare importanza.
IL COMMENTO
di Pier Giuseppe Monateri
Nel commento alla sentenza in esame, l’A. ripercorre le funzioni della RC così come mostrate
dalla migliore dottrina italiana ed internazionale relativamente allo specifico problema dei “punitive damages”, dimostrando l’ormai insostenibile perorazione della teoria della monofunzionalità
della RC. Dopo una breve ricapitolazione dei fondamentali insegnamenti provenienti dall’analisi
economica del diritto, l’A. dimostra infatti che, soprattutto nei casi di illeciti commessi dolosamente, i danni punitivi si configurano quale logica conseguenza degli stessi principi che portano
all’equivalenza tra risarcimento e danno della vittima nei casi di illeciti colposi. Ne conseguono
un giudizio a favore di un ripensamento circa la delibabilità delle sentenze straniere di condanna
ai danni punitivi, ma una sospensione del giudizio per quanto concerne la trapiantabilità sic et
simpliciter delle soluzioni americane.
Tre questioni differenti
Ci sono tre questioni che devono essere affrontate.
La prima è quella della monofunzionalità della responsabilità civile: se cioè essa abbia un’unica funzione, quella risarcitoria, o molteplici funzioni, non
solo quella punitiva, ma anche ad esempio quella
preventiva.
La seconda questione è quella strettamente legata
alla delibabilità delle sentenze straniere che riconoscono i punitive damages.
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Questi due problemi sono collegati ma non strettamente interdipendenti. Infatti, si potrebbe ben
pensare che la RC abbia più funzioni, ma concludere comunque per il rigetto della delibazione.
Vi è infine una terza questione che concerne le
norme positive del nostro ordinamento, e cioè se
esse non permettano già, o addirittura richiedano,
indipendentemente da ogni teoria sulle funzioni
della RC, una graduazione del risarcimento in base
alla condotta del danneggiante.
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Danni non risarcitori
Le funzioni della RC
Garanzie processuali e “pene private”?
In fondo la risposta alla prima questione è la più
semplice. A parte la Corte di cassazione nessuno
più ritiene, almeno a partire dal celebre articolo di
Calabresi del 1972 (1), che la RC abbia una sola
funzione: quella risarcitoria.
Questo non è neanche più un problema discusso in
dottrina, e avevano già indicato nel nostro trattato
della fine degli anni ’90 (2), e prima di noi già
Bianca nel suo diffusissimo trattato (3), come la
RC abbia più funzioni, e sicuramente quella preventiva.
Perché concediamo dei risarcimenti, e perché mettiamo in moto un meccanismo così costoso come
quello della giustizia civile per arrivare a concederli? Il vero motivo non è un’ansia risarcitoria, di assicurare comunque alla vittima un ristoro. Un sistema di first party insurance sarebbe probabilmente
molto meno costoso per la società. Il vero motivo
è quello di rendere costoso per l’agente la produzione del danno. Cioè di far internalizzare all’agente i
costi delle sue azioni. In questo senso il risarcimento ha necessariamente, anche quando il suo contenuto sia semplicemente quello di compensare il
danno subito, la funzione di prevenire il costo sociale degli incidenti. Questa verità è stata resa lampante da Rodotà e da Alpa fin dagli anni ’70, ed
era anche alla base della impostazione di Trimarchi
risalente fino agli inizi degli anni ’60. È rendendo
costose le azioni colpose o dolose che provocano
un danno ingiusto che la RC produce un ordine
spontaneo delle attività umane: cioè che consente
determinate attività purché si prendano le precauzioni necessarie a minimizzarne i costi sociali. Se
vogliamo proibire determinate attività non bisogna
ricorrere alla RC ma ad altri strumenti come la regolazione amministrativa (4).
Non vi è quindi in realtà molto da aggiungere, visto che la voce della Cassazione è sul punto una
voce del tutto isolata, e finisce per essere nient’altro che un arroccamento tecnico sorto sul terreno
della delibazione delle sentenze di condanna ai punitive damages. Occorre allora vedere come questo
arroccamento si sia prodotto in un campo ristretto
per tentare di divenire una doctrine generale di cui
oggi, insospettatamente, si deve tornare a discutere.
La questione tecnica della delibazione di tali sentenze trae invero la sua forza, più che da una insostenibile monofunzionalità della RC, dall’avversione dell’ordinamento italiano per le pene private, e
le sanzioni che si sottraggano al regime loro proprio che non può, se non in ristrettissimi ambiti
del contratto o del testamento, essere quello del diritto privato.
Questa posizione merita una certa considerazione.
Soprattutto rispetto al problema della garanzia del
convenuto.
Da questo punto di vista la nostra Corte Suprema
tenta di evitare che il convenuto si ritrovi a pagare
una somma che supera il danno subito dalla vittima, in ragione della gravità della sua condotta,
senza le dovute garanzie, ed anche che lo stesso sia
tenuto a pagare una somma di cui non possa controllare la motivazione logica che ha condotto a
concederla.
Si vede bene, allora, come il problema della delibazione non dipenda tanto dalla questione della monofunzionalità, ma da quella delle garanzie per il
convenuto.
Ovvero ben si potrebbe ammettere, per me si dovrebbe, che la RC ha più funzioni, ma comunque
rifiutare la delibazione perché vengono violati diritti importantissimi della difesa.
Due sono quindi le questioni: se la somma del risarcimento possa superare il danno subito dalla vittima, e se le sue garanzie vengano meno nel caso,
soprattutto, dei processi americani che concedono
dei punitive damages.
Occupiamoci per il momento di questa seconda
questione.
Nel processo americano questi danni sono assegnati dalla giuria, la quale è stata prevista in tali casi
proprio a garanzia del convenuto, nel senso di sottrarlo all’arbitrio del giudice per affidarlo ad un
giudizio dei suoi pari. Quindi, semmai, il problema
si pone in modo invertito rispetto alle idee della
Cassazione, invero apparentemente basate su comparazioni piuttosto approssimative. Cioè è il processo italiano, in caso di ammissione dei punitive
damages a porre il convenuto nel possibile arbitrio
del giudice, onde ne seguirebbe che a) le sentenze
americane sono delibabili, proprio perché rese dalla
giuria - anche perché altrimenti non si capisce co-
(1) Calabresi, Guido and Melamed, A. Douglas, Property
Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of the Cathedral, in Harvard Law Review, 1972, 1089.
(2) P.G. Monateri, La responsabilità civile, Torino, 1998, 3
ss.
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(3) M. Bianca, La responsabilità, Milano, 1994, 5 ss.
(4) A.M. Polinsky - S. Shavell, The Uneasy Case for Product
Liability, in Harvard Law Review, 2010, 1437.
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me siano accettabili nel nostro ordinamento le
sentenze penali americane basate su un verdetto
immotivato per definizione della giuria; mentre invece b) i punitive damages non sono trapiantabili perché il processo italiano - privo di giuria - è meno
garantista di quello americano.
Secondo me è naturale che la Cassazione confonda
la garanzia con la controllabilità della decisione,
dal momento che questo è il suo lavoro quotidiano, onde delle decisioni immotivate significano essenzialmente una impossibilità per la Cassazione di
controllare quel particolare sviluppo del diritto.
Ma questo è infine un modo di sovvertire il sostanziale col formale. La controllabilità della motivazione della decisione - come peraltro ben si osserva
- non assicura affatto una maggiore tutela dei diritti, tant’è che proprio nel campo delle sanzioni i
nostri diritti sono decisamente inferiori a quelli degli americani, e non valgono a salvare questo dato
chissà quali arzigogolati ragionamentini: nessuno
nel mondo preferirebbe la giustizia penale italiana
a quella americana, checché si voglia dire e cammuffar le carte.
Per altro verso è proprio la mancanza di punitive
damages che permette a determinati convenuti seriali, come i giornali o le compagnie di assicurazione, o le banche, a poter tenere condotte che spesso
irridono agli stessi principi posti dalla nostra S.C.
Basti qui far riferimento al “decalogo del giornalista”. Ovvero è la mancanza dei danni punitivi a
permette condotte, talvolta ben apprezzabili sul
piano del dolo, che sicuramente sono antisociali,
dacché distribuiscono sui più deboli costi rilevanti,
e che non appaiono tali solo perché non possono
adeguatamente venire represse dagli strumenti del
diritto italiano.
In estrema sintesi, per ovvie ragioni di spazio, risulta che a) i danni punitivi tornano a vantaggio della parte debole contro condotte volontarie dei soggetti forti; b) il convenuto è comunque tutelato,
negli ordinamenti di common law, dalla presenza
della giuria.
A questo punto, però, tra il problema della non delibabilità delle sentenze straniere che accordano i
danni punitivi e la loro ricezione si apre uno iato,
cioè la soluzione dell’una questione può non incidere sull’altra, ma se si apre uno iato può darsi che
si apra anche una via mediana che vale la pena di
investigare.
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L’efficienza sociale dei danni punitivi
in caso di dolo
Da un punto di vista generale non è difficile dimostrare che il risarcimento ottimale (R*) e i risarcimenti attuali (R) convergono nell’uguagliare i costi sociali (C). Il costo individuale (Ci) di un incidente tende infatti ad essere uguale al suo costo sociale. Quindi se viene ripianato il costo individuale
-10 con un risarcimento equivalente di 10 il costo
sociale diventa nullo: se R=Ci allora C=0, e naturalmente R=R*.
Ciò avviene perché il danneggiante potenziale investe positivamente in misure di cautela per evitare di pagare il risarcimento. Queste equazioni però
non tengono nel caso in cui il danneggiante non
solo non investa in misure di sicurezza, ma addirittura investa negativamente in prevenzione, ovvero
cominci ad investire positivamente in produzione
del danno.
Normalmente il danneggiante potenziale adottando cautela impiega parte del proprio tempo e delle
proprie risorse nel prevenire il danno, quindi il suo
investimento in sicurezza (S) è positivo: +1, +2
...+x e dovrebbe equivalere, trascurando per semplicità i costi di detection e supponendo che i tribunali siano corretti nell’individuare i valori dei danni, alla probabilità dell’occorrenza del danno, e
quindi del risarcimento, per il suo ammontare:
S=p(R).
Ne segue che per un danno di 10 con la probabilità di prodursi del 50% l’investimento ottimale in
sicurezza dovrebbe essere di 5: 5=1/2(10).
Nel caso di dolo però non ci troviamo in questa situazione. Il dolo può infatti essere descritto come
un investimento positivo nella produzione del danno, ovvero come l’impiego delle proprie risorse, del
proprio tempo, ed eventualmente anche del proprio denaro, per produrre il danno conseguente. Il
ché equivale ad un investimento negativo in sicurezza. In questo caso non avremo un investimento
di +1,+2...+x in misure preventive, ma un disinvestimento di -1, -2...-x, equivalente ad un investimento di +1,+2...+x nel produrre il danno stesso.
Questi investimenti in produzione del danno sono
ovviamente un costo sociale perché di indirizzano
ad attività antisociali. Ne segue che a fronte del
danno di 10 ipotizzato avremo un costo sociale pari
al disinvestimento in sicurezza + il danno prodotto,
cioè:
-1 + -10 = -11
In questo caso se il risarcimento accordato è di 10,
ovvero eguaglia il costo per la vittima, residua un
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costo sociale ulteriore di -1; ovvero la società nel
suo complesso ci rimette.
Il danno per la società differisce, in questi casi, dal
danno individuale; questo rimane di -10, ma il
danno sociale è di -11. Perciò è pacifico che, se
R=Ci, cioè se il risarcimento attuale rimane 10,
R<C, la società nel suo complesso perde comunque
un -1, e quindi che nei casi di dolo il risarcimento
deve essere superiore al costo individuale per evitare un costo sociale positivo per C>Ci, e quindi che
per aversi R=R* allora deve essere R*>Ci.
Ovvero che nei casi di dolo lo stesso principio del
risarcimento ottimale che porta a farlo coincidere
con la riparazione del danno individuale in quanto
misura del costo sociale deve invece superarlo per
la buona ragione che il costo sociale in questi casi
è superiore al costo individuale.
Ne consegue, pertanto, che i danni punitivi, in caso di dolo, sono la logica conseguenza degli stessi
principi che portano all’equivalenza tra risarcimento e danno della vittima nei casi di colpa.
L’evidente implicazione è che se taluno ritiene che
in caso di colpa il giusto risarcimento equivale alla
perdita subita (ed al mancato guadagno) deve ammettere che in caso di dolo questo non sarebbe un
risarcimento sufficiente a ripianare il costo sociale
degli incidenti. Se non lo fa è perché scarta dai
propri principi, per ragioni varie, oppure che la sua
logica è difettosa.
Questa dimostrazione è importante perché risolve
anche de plano la questione della colpa grave e del
limite tra la colpa grave e il dolo eventuale.
Infatti se, come abbiamo visto, esiste una scala che
va dall’investimento massimo in produzione del
danno (dolo pravo, premeditato) alla prevenzione
massima (ultra-cautela), quindi esiste una scala da
-x...-2-1, 0, +1,+2...+x allora, per definizione, esiste un punto 0.
Cioè esiste un punto in cui non vi sono più investimenti in sicurezza e non vi sono ancora investimenti attivi nella produzione del danno. Il ché significa che la soglia tra colpa grave e dolo eventuale non è affatto meramente linguistica o categoriale, ma è ontologica.
A questo punto mi pare facile dedurne che se si
può far coincidere la colpa grave, che non è ancora
dolo, con l’assoluta mancanza di precauzioni, essa
corrisponde precisamente a tale punto 0.
Viceversa il dolo eventuale, per essere dolo, deve
già corrispondere ad un qualche investimento positivo nella produzione del danno, sia pure dello 0,1,
ma, insomma, può cominciare a parlarsi di dolo
eventuale solo quando sia S<0, cioè solo quando
834
l’investimento in sicurezza cominci a diventare negativo.
Ciò significa che in situazioni di colpa grave R* rimane =Ci, ovvero che i danni punitivi non sono
socialmente giustificati, perché siamo ancora in situazioni in cui C=Ci, in cui il costo sociale è pari
al costo individuale. Ciò smette di avvenire solo a
partire da un S negativo, ovvero in casi di dolo in
quanto diverso dal caso di colpa sia pure grave.
Pertanto se il compito della RC deve essere la minimizzazione del costo sociale atteso degli incidenti, ne segue che il risarcimento socialmente ottimale coincide con il danno individuale in tutti i casi
di colpa, e che invece deve reagire alla condotta del
danneggiante nei casi di dolo, perché il costo sociale aumenta con l’intensità con cui il danneggiante ha perseguito la produzione del danno a partire da -1...fino a -x, con x eventualmente tendente a infinito.
Conclusione: i danni aggravati
dalla condotta
Vediamo, allora, di giungere ad una conclusione
quanto alla delibazione, al trapianto dei danni punitivi, ed anche alle possibilità autonome già offerte dal nostro ordinamento.
Quanto alla delibazione le ragione addotte a favore
di un ripensamento mi paiono stringenti.
Infatti, siccome i danni punitivi risultano razionalmente giustificabili non risulta ipso facto contrario
all’ordine pubblico interno l’accogliento di un
provvedimento straniero che li conceda, essendosi
il legislatore estero attenuto a criteri di ragionevolezza che gli spettano nel permettere tali risarcimenti. Se ci si appunta sulle garanzie e sul meccanismo della giuria, in quanto verdetto non motivato, ne deriva che simile ragionamento debba, allora, essere seguito per tutti i provvedimenti, specie
in materia penale, che derivano dall’adozione del
meccanismo della giuria. Risulterebbe però internazionalmente un po’ strano che da un lato si guardi al trial by jury come ad una delle grandi conquiste della Magna Charta e dall’altro si bolli tale meccanismo come addirittura contrario all’ordine pubblico.
Questa stessa rilevanza della giuria pone però in serio dubbio che si possa trapiantare nel nostro ordinamento sic et simpliciter la soluzione dei danni punitivi, soluzione che non può viaggiare agevolmente
senza un complesso di norme che è comunque connesso al processo di common law e che non trovano
equivalenti nelle nostre dinamiche processuali.
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Pare, quindi, difficile perorare la causa di una trapiantabilità delle soluzioni americane.
Lasciamo qui, volutamente, nell’ombra il problema
del transplant di alcune soluzioni inglesi, o di altri
ordinamenti, difformi nei dettagli da quelle americane.
Tuttavia la questione non può fermarsi a questi
due soli punti. Infatti se risulta razionale trattare in
modo difforme i casi di dolo da quelli di colpa (incluso quelli di colpa grave), con conseguente grave
problema di equiparare situazioni difformi dal punto di vista della ragionevolezza e dell’uguaglianza, è
mai possibile che il nostro legislatore non se ne sia
accorto, e che la nostra secolare tradizione giuridica non abbia provveduto a differenziare questi due
casi ?
A ben vedere, infatti, non è così.
Basti in primis ricordare la norma del 1225 c.c. dettata in sede di parte generale delle obbligazioni, e
concernente il dolo del debitore. Ora qui è evidente che il legislatore ha trattato in modo del tutto
difforme l’ipotesi della colpa e del dolo nell’inadempimento, tanto che se esso dipende da colpa il
debitore è tenuto ai soli danni prevedibili, mentre
se dipende da dolo egli è tenuto anche ai danni
imprevedibili.
Siamo qui di fronte ad una palese manifestazione
del principio per cui i casi di dolo vanno trattati
diversamente da quelli di colpa, e che deriva da
una plurisecolare elaborazione intellettuale che rimonta a Donello, a Louis des Moulins, a Pothier,
ed ovviamente anche a ben prima ed affonda addirittura nella tradizione romanista che infatti considerava centrale la distinzione tra delitto, recato con
dolo, e quasi-delitto, recato con colpa, come asse
portante della stessa teoria delle fonti dell’obbligazione.
Tutto ciò è puntualmente confermato da una norma dettata in modo diretto, e peculiare, per ciò
che attiene alla responsabilità civile extra-contrattuale, l’art. 2056 c.c.
Secondo tale articolo, infatti, il risarcimento deve
essere determinato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c., ma il lucro cessante
deve essere valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.
Orbene siamo qui di fronte ad una norma interessante. Essa è dettata nella parte speciale delle obbligazioni, nel titolo dei fatti illeciti, che bisogno
aveva quindi la norma di dichiarare applicabili gli
artt. 1223, 1226 e 1227, visto che essi sono dettati
in sede di parte generale delle obbligazioni? Siccome noi dobbiamo fare riferimento al criterio del legislatore razionale e non ridondante è chiaro che
l’unico motivo per tale richiamo è quello che si appoggia alla sua aggiunta sulle circostanze del caso.
La formulazione del 2056 c.c. infatti differisce ampiamente da quella del 1226 c.c.
Per il 1226 l’intervento equitativo del giudice dipende da una questione epistemologica: se il danno
non può essere provato nel suo preciso ammontare, è
liquidato dal giudice con valutazione equitativa.
Questo problema della difficoltà della prova rispetto al vero non è il problema posto dal 2056. Peraltro, siccome il 1226 risulta applicabile per espressa
previsione del 2056, rimane vero che in caso di
difficoltà di prova si deve far ricorso ad una valutazione equitativa, ma risulta allora anche vero e palese che la valutazione equitativa di cui al 2056
non è la stessa di cui al 1226 e che vi possono nel
caso di specie essere due rimandi all’equità: uno
che concerne la difficoltà della prova, e l’altro che
riguarda le circostanze del caso.
Ora la presenza del dolo non è appunto una circostanza del caso?
Certo che lo è, in particolare con riferimento proprio al 1225, il quale parlerà pure il linguaggio del
contratto quanto a esplicazione della fattispecie,
ma non è dettato in tema di contratto, bensì di parte generale delle obbligazioni, onde il principio
che esso incorpora prescinde dall’esemplificazione
della fattispecie. Esso non sarà applicabile quanto
alla prevedibilità dei danni al campo della RC, per
ovvie ragioni, e infatti non risulta richiamato dal
2056, ma rimarrà un’esemplificazione di principio
valido per l’intera area delle obbligazioni.
Comunque sia già da sé il 2056 c.c. è perfettamente chiaro, proprio nella misura in cui lessicalmente
differisce dal 1226 che esso stesso richiama. Quindi
richiama e innova in modo speciale per il campo
dei fatti illeciti.
In questo modo il giudice italiano è già dotato degli strumenti legislativi per valutare la presenza del
dolo, e si badi della sua intensità, come circostanza
del caso che incide per espressa previsione normativa sull’ammontare della liquidazione.
Poiché parliamo di circostanze siamo quindi qui in
presenza di danni che potremmo chiamare danni
aggravati dalla condotta (5).
(5) Cfr. G. Arnone - N. Calcagno - P.G. Monateri, Il dolo, la
colpa e i risarcimenti aggravati dalla condotta, Torino, 2014.
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Questa categoria, congruente alle fonti legislative,
può forse riuscire a risolvere l’empasse e le nostre
conclusioni finali possono quindi essere le seguenti: a favore di un ripensamento della questione della delibabilità delle sentenze straniere di condanna
ai danni punitivi - specie dal punto di vista della
ormai insostenibile teoria della monofunzionalità
della RC -; una sospensione del giudizio per quanto
concerne la trapiantabilità delle soluzioni americane, questione che però perde molto del suo appeal
se si considerano le potenzialità interne al sistema
legislativo italiano - peraltro qui solo sommariamente considerate, e molto più ampie, a partire dal
96 c.p.c. fino all’art. 18 della legge sull’ambiente, e
quant’altro -.
Tali conclusioni sono avvalorate sia dal ragionamento razionale che da quello esegetico. Perciò
quando esegesi e ragione coincidono, come in Maimonide, si può dire che la soluzione su cui convergono è quella verso la quale occorre cercare di progredire.
Conclusioni
Delibabili come e allo stesso modo di una sentenza
penale americana.
Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi
di Giulio Ponzanelli
Con l’ordinanza in questione si chiede l’intervento delle Sezioni Unite sul riconoscimento delle
decisioni straniere di condanna a danni punitivi, sul quale la giurisprudenza di Cassazione aveva
assunto una costante posizione negativa . Un diverso modo di concepire la categoria dell’ordine
pubblico, elementi desumibili da una prospettiva comparatistica e infine la nuova attenzione rivolta alla condotta del danneggiante sollecitano oggi una diversa risposta da parte dell’ordinamento anche alla luce di un istituto, quale quello della responsabilità civile, che si presenta polifunzionale.
L’ordinanza della prima sezione del 16
maggio: non esistenza di un contrasto
interno
La prima Sezione (cui spetta, come è noto, decidere i casi di riconoscimento di sentenze straniere all’interno dell’ordinamento italiano) chiede l’intervento delle Sezioni Unite sul problema specifico
della contrarietà all’ordine pubblico di sentenze
straniere di condanna ai danni punitivi.
L’intervento è chiesto non tanto per la presenza di
un conflitto di opinioni all’interno della Cassazione tale da richiedere l’intervento nomofilattico
delle Sezioni Unite, quanto perché si tratta di questione di massima importanza.
In effetti, nelle due volte in cui la Prima Sezione
aveva affrontato la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale di decisioni americane di condanna a danni punitivi (anche se si trattava di
provvedimenti emessi da giurie, privi, come tali, di
(1) Si tratta rispettivamente di Cass. 19 febbraio 2007, n.
1183, in Foro it., 2007, I, c. 1461, con mio commento, Danni
punitivi? No grazie; in questa Rivista, 2007, 1125, con commento di P. Pardolesi, Danni punitivi all’indice? e in Nuova giur.
civ. comm., 2007, I, 981, con commento di S. Oliari, I danni
836
qualsiasi motivazione e indicanti la sola somma di
condanna), non si avevano avuti molti dubbi nel
giudicare non delibabili tali decisioni, sull’assunto
che la riparazione rappresenta l’unico fine della responsabilità civile e che altri compiti, quali ad
esempio la punizione e/o la deterrenza, sono estranei al corpo della responsabilità civile (1). Tali decisioni non avevano convinto del tutto perché: a)
limitavano e condizionavano la circolazione delle
decisioni straniere in un quadro sempre più dinamico di globalizzazione dei rapporti; b) trascuravano che, oltre alla riparazione del danno, l’imponente lettura formatasi in tema di compiti e finalità della RC aveva segnalato l’esistenza di altre,
possibili funzioni della responsabilità civile.
Proprio per questa ragione forte è stata la sorpresa
nel leggere l’assai articolata ordinanza della prima
sezione; anche perché il caso presentato all’esame
dei giudici di appello veneti era specularmente similare a quello deciso dalla Cassazione nel suo pripunitivi bussano alla porta: la Cassazione non apre, e di Cass. 8
febbraio 2012, n. 1781, in questa Rivista, 2012, 608 con mia
nota, La Cassazione bloccata dalla paura di un risarcimento non
riparatorio.
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mo intervento del febbraio 2007: responsabilità del
produttore italiano (anche in questo caso di un casco di protezione rivelatasi poi difettoso), causa intentata dagli eredi del motociclista deceduto contro il rivenditore nordamericano e successiva domanda di manleva chiesta nei confronti del produttore italiano, rimasto ovviamente contumace
nel giudizio americano.
L’ordinanza si pone in una posizione di sostanziale
discontinuità con i precedenti arresti in tema di
danni punitivi e, invece, di completa coerenza con
la decisione della Cassazione dell’aprile 2015 ove,
pur decidendo il caso delle astreintes, assai meno
complicato dei danni punitivi per la forte vicinanza individuata tra le astreintes e il rimedio di cui all’art. 614 bis c.p.c., erano stati usati argomenti di
grande apertura verso le finalità non riparatorie
della RC (2). L’ordinanza è quindi particolarmente
interessante proprio perché oltre a offrire una nuova lettura della nozione di un ordine pubblico (interno o internazionale è qui irrilevante), si è interrogata sulle finalità della responsabilità civile, alla
luce di una variegata gamma di novità legislative e
ci si chiede se il risarcimento collegato alla sussistenza di un’ipotesi di RC possa presentare una
identità diversa da quella riparatoria.
Analizziamo allora separatamente le due questioni,
cominciando da quella che ha a che fare con l’ordine pubblico.
La diversa nozione di ordine pubblico
La Cassazione dedica la maggior pare della motivazione a fissare l’evoluzione del concetto di ordine
pubblico che viene letto accostandolo singolarmente al contenuto del giudizio di costituzionalità:
in altri termini, la norma straniera che è alla base
della decisione di cui si chiede la delibabilità, non
solo non deve essere vista in contrasto con la Costituzione, ma deve esistere una precisa preclusione
a che il legislatore possa introdurre “un’ipotetica
norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari”.
Quindi, una nozione di ordine pubblico molto più
duttile di quella sperimentata in precedenza, che
deve però essere applicata sempre tenendo in mente che ciò che si discute nel caso di riconoscimento
sono sentenze e non norme.
Questo approccio metodico è il prius logico necessario per esaminare il tema specifico: esistono norme in Italia che in qualche modo sono avvicinabili
a una funzione non riparatoria ma punitiva dell’illecito civile? E se il legislatore volesse introdurne
altre potrebbero esse essere tacciate di incostituzionalità?
Così ricostruito il quadro di assieme, diventa più
agevole il compito di valutare se, nel caso concreto, una decisione di condanna ai danni punitivi sia
o meno in contrasto con l’ordine pubblico.
L’interesse verso la figura dei danni punitivi
in particolare e verso la funzione
di deterrenza svolta dalle regole
di responsabilità civile in generale
Come anticipato, da anni la letteratura, e non solo
quella giuseconomica, ha indagato come il risarcimento non dovrebbe presentare una sola identità
riparatoria.
Queste considerazioni crescevano mano a mano
che il perimetro del danno risarcibile veniva allargato in una prospettiva sempre più panriparatoria,
tanto che qualcuno ha voluto drasticamente celebrare questa stagione come caratterizzata da una
sorta di “imperialismo disciplinare”:risarcire sempre
più i danni, infatti, non può essere il solo ed esclusivo fine della responsabilità civile e rischiapoi di
stravolgere gli equilibri del sistema. La bilateralità
del rapporto danneggiante-danneggiato esige che
possa essere presa in considerazione anche la posizione del danneggiante, anche se la norma generale, fissando la sostanziale equivalenza tra dolo e
colpa, pare non escludere questi perimetri.
Il risarcimento deve cioè riparare il danneggiato,
ma anche incidere sulla condotta del danneggiante.
In termini generali, non si può non incidere sul livello di attività del danneggiante, evitando la ripetizione di quelle condotte antigiuridiche alla base
del danno che sarà risarcito (paradigmatica in questa prospettiva è la situazione della responsabilità
medica).
Quando, però, bisogna allora alzare il livello dell’integrale riparazione del danno perché possa essere efficacemente realizzata l’obiettivo di deterrenza
e ,soprattutto , quanto. Due, infatti, sono i piani
del discorso che devono essere analizzati: a) le si-
(2) Cass. 15 aprile 2015, n. 7613, in Danno e Resp. 2015,
1155, con nota di G. Corsi, Il sì della Suprema Corte all’astreinte straniera.
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tuazioni concrete che possono legittimare l’applicazione di un rimedio ultracompensativo; b) il concreto divario rispetto all’integrale riparazione.
Le scelte nell’ordinamento italiano sono evidentemente diverse da quelle proprie di quello americano, dove il ruolo decisivo spetta alla giuria, la cui
incondizionata libertà è stata però sempre più progressivamente limitata dagli interventi della Corte
Suprema (3). Nell’ordinamento italiano, non credo
che una misura non riparatoria possa essere fissata
dal giudice secondo il suo esclusivo e incondizionato apprezzamento equitativo: essa necessita di una
intermediazione legislativa (4). Del resto, la linea
più favorevole nella valutazione positiva sulla delibabilità delle decisioni straniere ,recanti condanne
ai danni punitivi, prende le proprie mosse dagli interventi legislativi ,che negli ultimi dieci anni hanno previsto misure non riparatorie a maggiore presidio dell’effettività di alcuni diritti o per contrastare comportamenti abusivi e ostruzionistici. Misure non strettamente legate alla materiale esistenza di un danno e che dovranno essere poi implementate nella loro concreta quantificazione da parte del singolo giudice. Proprio l’esistenza di tali misure conduce a ritenere non in contrasto con l’ordine pubblico la decisione straniera di condanna a
danni punitivi.
Spetta quindi al legislatore fissare i settori e le situazioni, mentre, per ciò che riguarda la determinazione del danno, il potere rimane al giudice che
lo eserciterà secondo il suo apprezzamento discrezionale, anche se non è impossibile immaginare
Un’ultima annotazione, sull’ultima parte della decisione della Corte, ove la stessa fa riferimento al
fatto che nel settore del danno alla persona “... il
confine tra compensazione e sanzione sbiadisce in
quanto la determinazione del quantum è rimessa a
valori percentuali”. Non pare che ci possa essere
spazio, salvo una diversa valutazione da parte del
legislatore, per l’applicazione di rimedi non compensativi nel settore del danno alla persona. Qui,
la valutazione del danno, anche per i suoi immediati riflessi assicurativi, è infatti determinata da
misure convenzionali di tipo collettivo: le tabelle,
frutto di un lavoro congiunto di tutti i più importanti operatori (medici legali, giudici, assicuratori
etc.), non permettono l’azione di misure non riparatorie. Non si può certo dire che, siccome il principio di integrale riparazione del danno trova serie
difficoltà nel campo del danno non patrimoniale
(essendo impossibile in rerum natura quantificare
un pregiudizio non patrimoniale), allora conseguentemente il giudice sarebbe libero di determinarne la misura, superando, se del caso, i limiti tabellari. La difficoltà di tradurre in denaro le lesioni
alla persona infatti non può certo portare l’interprete verso livelli che, alla fine, superano quanto
previsto dalle tabelle, mettendone in discussione la
loro posizione di insostituibile strumento di equità
collettiva.
(3) Per una indagine completa F. Benatti, Correggere e punire. Dalla law of torts all’inadempimento del contratto, Milano,
2008 e ora anche in Danni punitivi e abuso del diritto, in Con-
tratto e impresa, 2015, 861.
(4) Cfr. G. Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contratto e impresa, 2015, 1195.
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che lo stesso legislatore stabilisca lui criteri specifici per la quantificazione del danno.
Il danno alla persona
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Giurisprudenza
Danni da eventi atmosferici
Caso fortuito
Danni da pioggia intensa:
responsabilità e caso fortuito
Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n. 5877 - Pres. Vivaldi - Rel. Travaglino - P.M. Patrone - La Chiocciola di Iseo S.r.l. c Comune di Lissone - Condominio (omissis) - Helvetia S.p.a.
Posto che è dato invocare il caso fortuito solo laddove il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante
abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo,
di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento,
una pioggia intensa e persistente, dal carattere eccezionale, può integrarne gli estremi, salva l’ipotesi (ricorrente nella specie) in cui si accerti l’esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una responsabilità del soggetto che invoca l’esimente in questione.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. III, 11 maggio 1991, n. 5267; Cass., Sez. III, 9 ottobre 2003, n. 15061; Cass., Sez. III, 8 maggio 2008, n.
11227; Cass., Sez. III, 9 marzo 2010, n. 5658; Cass., Sez. III, 11 novembre 2011, n. 23562; Cass., Sez. III, 17 dicembre 2014, n. 26545; Cass.,Sez. III, 24 settembre 2015, n. 18877.
Difforme
Cass.,Sez. III, 22 maggio 1998, n. 5133; Cass., Sez. II, 8 maggio 2013, n. 10898.
La Corte (omissis).
Svolgimento del processo
Omissis.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - responsabilità del comune di Lissone.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento agli artt. 2043, 2051 e 2729 c.c. - responsabilità del
condominio.
Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - responsabilità del comune di Lissone.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento agli artt. 2043, 2051 e 2729 c.c. - responsabilità del
condominio.
Di qui, la riconduzione dell’evento di danno al caso fortuito.
La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, pertanto, nello stabilire se
un fenomeno di pioggia intensa e persistente, tale da as-
Danno e responsabilità 8-9/2016
sumere i connotati di una pioggia definita dalla Corte
d’appello come di eccezionale intensità, alla luce degli
acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno un
evento riconducibile alla fattispecie del fortuito, idoneo
di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in considerazione del suo carattere di straordinarietà ed imprevedibilità - quesito al quale la Corte d’appello ha dato
risposta affermativa.
La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa
Corte.
La sentenza 11 maggio 1991, n. 5267, relativa alla diversa fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini generali, ebbe già ad affrontare il problema della possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in riferimento ad un allagamento provocato da intense precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi processo, questa Corte osservò che “per caso fortuito deve
intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di
imponderabile che si inserisce improvvisamente nella
serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell’evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria
anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di
per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non
ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza”.
La successiva sentenza 22 maggio 1998, n. 5133, emessa
in un giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni
per allagamento di un negozio conseguente all’invasione delle acque a seguito di abbondanti piogge, affermò
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Danni da eventi atmosferici
che “possono integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di eccezionale entità”, rilevando che l’evento imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina responsabilità.
In tempi più recenti, la sentenza 9 marzo 2010, n. 5658
(...omissis...) ha affermato che è certamente vero “che
una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno come
quello in questione; ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso
fortuito”.
Con quest’ultima pronuncia, in particolare, è stato precisato che, per potersi condividere la decisione del giudice di merito che in quell’occasione aveva respinto la
domanda di risarcimento dei danni, l’ANAS “avrebbe
dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più
scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle
opere di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in sostanza a dimostrare che le piogge in questione
erano state così intense (e quindi così eccezionali) che
gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura
pure essendovi stata detta scrupolosa manutenzione e
pulizia”. La sentenza in esame ha poi aggiunto che, ove
fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia sarebbero state idonee almeno a ridurre l’entità degli allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della previsione di cui all’art. 1227 c.c., comma 1.
Ritiene questo Collegio che vada confermato tale, più
recente orientamento, con le necessarie precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame.
La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui
il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout
court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, di
tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. È evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed
intensità, protrattesi nel tempo e con modalità tali da
uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può,
in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della
forza maggiore, salva l’ipotesi - predicabile nel caso di
specie - in cui sia stata accertata l’esistenza di condotte
astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l’esimente in questione.
Applicando tale principio al caso di specie, è evidente
l’errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale,
trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al
funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta
dell’erronea considerazione della loro insufficienza a
smaltire l’intero flusso delle acque (senza interrogarsi né
sulla possibilità e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo parziale, né su eventuali responsabilità amministrative circa le caratteristiche stesse delle
pompe di filtraggio), ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il carattere del fortuito determinante alla pioggia
torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo
altresì di considerare le rilevanti perplessità espresse dal
840
ctu circa il reale stato di manutenzione della fognatura
(...omissis...).
La Corte d’appello, di converso, ha ritenuto - sulla base
di un sillogismo evidentemente privo delle necessarie
premesse - che anche un sistema di deflusso che fosse
stato realizzato e avesse funzionato nel pieno rispetto di
tutte le norme tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a contenere la furia delle acque e ad
evitare il danno.
È tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita
di motivazione, mentre è evidente che l’accertamento
di una sicura responsabilità in capo all’ente tenuto alla
manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato
esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come
ed in quale percentuale l’esecuzione dei lavori a regola
d’arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l’entità dei danni.
Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti
sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e
dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un’opera
pubblica trova un limite nell’obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni
norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che
dall’inosservanza di queste disposizioni e di dette norme
deriva la configurabilità della responsabilità della stessa
pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi
(tra le altre, Cass. 9 ottobre 2003, n. 15061 e 11 novembre 2011, n. 23562).
È appena il caso di aggiungere, infine, che ogni riflessione, declinata in termini di attualità, sulla prevedibilità
maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei noti
dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese,
criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore,
poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici
che stanno diventando sempre più frequenti e, ormai,
tutt’altro che imprevedibili.
La responsabilità del condominio.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’esimente del caso
fortuito predicata con riferimento alla responsabilità del
comune giustificasse ipso facto una pronuncia di assoluzione da responsabilità anche per il condominio - così
immotivatamente rigettando l’istanza di ammissione di
prove per testi sulla circostanza che l’allagamento verificatosi al piano terra dei locali condotti in locazione dalla ricorrente fosse stato determinato anche da acque
provenienti da un tubo di scarico pluviale rotto o disconnesso, in relazione al quale lo stesso tecnico della
compagnia assicuratrice Helvetia aveva formulato un’offerta risarcitoria,- limitandosi sotto altro profilo a riportare un’affermazione del CTU che, peraltro, faceva acriticamente propria una circostanza contenuta nel fascicolo di parte del condominio (f. 15 della relazione, riportato al folio 31 del ricorso).
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Danni da eventi atmosferici
La responsabilità della compagnia Helvetia.
Osserva correttamente la società ricorrente che la Corte
d’appello ha erroneamente escluso dall’operatività della
garanzia assicurativa non soltanto i danni al seminterrato, ma anche quelli al piano terra (la cui risarcibilità
era stata negata in prime cure non per inoperatività della garanzia stessa - la cui validità, sia pur parziale, era
stata viceversa riconosciuta -, ma per carenza di elementi probatori, pur in assenza di appello incidentale
da parte della compagnia), ed ha, altrettanto erroneamente, omesso del tutto di valutare la doglianza relativa
al comportamento concludente dell’Helvetia, volto al
sostanziale riconoscimento dell’operatività in parte qua
di tale garanzia, corrispondendo un indennizzo, sia pur
“per spirito conciliativo”. Anche tale profilo della controversia dovrà pertanto costituire oggetto di riesame da
parte del giudice del rinvio.
(...omissis...).
Il ricorso è pertanto accolto, e il procedimento rinviato
alla Corte di appello di che, in diversa composizione, si
atterrà ai principi di diritto sopra esposti.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata
e rinvia (...omissis...) alla Corte di appello di Milano in
altra composizione.
IL COMMENTO
di Vera Vozza
L’orientamento prevalente in tema di danni da eventi atmosferici stabilisce che il caso fortuito
può essere invocato solo nell’ipotesi in cui il fattore causale sia di intensità tale da interrompere
il nesso esistente tra la cosa e l’evento lesivo. La Corte, inoltre, invita a riflettere sul concetto di
discrezionalità della P.A. nella manutenzione dei beni demaniali e di eccezionalità degli eventi atmosferici.
Il caso
A seguito di un forte temporale, sia per l’esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni
da un tubo pluviale del condominio, una società
subisce diversi danni in due locali condotti in locazione. Pertanto, cita in giudizio il Comune di Lissone, il condominio e le relative compagnie assicuratrici.
L’attrice ritiene che tra le cause dall’allagamento
abbia avuto, però, un particolare rilievo il mancato
funzionamento delle elettropompe che il Comune
aveva installato proprio per evitare danni di questo
genere.
I giudici di primo e di secondo grado respingono la
domanda. Secondo la Corte d’Appello, in particolare, sarebbe stato inutile ogni accertamento sul
mancato funzionamento delle elettropompe poiché, anche se funzionanti, non sarebbero state sufficienti a smaltire la copiosa pioggia caduta.
Proposto ricorso per cassazione, però, la società vede accolte le proprie doglianze. La corte di legittimità ritiene che i giudici di merito avrebbero dovuto accertare il reale stato di funzionamento delle
(1) A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art. 2051
c.c.: verso un tertium genus di responsabilità?, in Resp. civ.
prev., 2014, 6, 1958.
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elettropompe poiché, se è vero che la P.A. gode di
ampi poteri discrezionali nel realizzare e manutenere un’opera pubblica, è anche vero che deve applicare la dovuta diligenza e prudenza al fine di tutelare l’incolumità pubblica e privata e il patrimonio
dei cittadini.
La Pubblica Amministrazione e il regime
di responsabilità applicabile: breve
excursus storico
Per comprendere al meglio le diverse posizioni assunte dai giudici dei tre gradi di giudizio nella sentenza in commento, occorre chiarire l’annoso dibattito sorto sulla questione dell’applicabilità o meno dell’art. 2051 c.c. in capo alla P.A., la quale risulta probabilmente una delle più controverse nell’ambito del diritto civile (1).
Fino alla fine degli anni Novanta, la scienza giuridica e la giurisprudenza osteggiavano l’operatività
dell’art. 2051 c.c. in capo alla P.A., riconoscendo
semmai applicabile il principio del neminem laedere
di cui all’art. 2043 c.c. (2). Questo indirizzo, tuttavia, è stato da più parti aspramente criticato poi(2) Tra le tante, Cass. 4 aprile 1985, n. 2318, in Nuova giur.
civ. comm., 1985, 560, con nota di Cabella Pisu. In dottrina,
sostengono l’applicabilità in capo alla P.A. del solo art. 2043
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Danni da eventi atmosferici
ché incentrato su uno sproporzionato trattamento
di favore concesso alla P.A. rispetto al privato cittadino (3).
Sul finire del secolo scorso, nasce e si consolida un
orientamento più elastico, basato essenzialmente
sull’applicabilità attenuata dell’art. 2051 c.c. alla
P.A., limitatamente ai beni demaniali di non notevole estensione, destinati ad un uso moderato e
non generalizzato da parte della collettività (4).
La S.C., tuttavia, più volte sollecitata dai continui
ricorsi promossi dalle parti lese, ha posto un deciso
revirement giurisprudenziale a partire dalle sentt.
nn. 3651 e 5445 del 2006 (5). In base a questa terza corrente di pensiero, alla P.A. non viene più accordato alcun “privilegio”, ben potendosi applicare
in ogni circostanza il regime di responsabilità di
cui all’art. 2051 c.c., nella sua veste di responsabilità aggravata con conseguente inversione dell’onere
probatorio nei confronti del custode (6).
Infine, la Cassazione è approdata in questi ultimi
anni all’orientamento certamente più severo e intransigente per il soggetto pubblico custode di beni
demaniali, rivisitando la responsabilità de qua in
termini oggettivi (7). Sulla scorta di questo indirizzo, l’interprete sarebbe tenuto a tralasciare l’esame
di qualunque fattore soggettivo legato all’evento,
concentrando la propria attenzione sul solo rapporto eziologico che collega la cosa oggetto di custodia
al danno lamentato (8).
Danni da eventi atmosferici e caso fortuito
Una pioggia intensa e persistente, anche dal carattere eccezionale, che provoca l’allagamento dei locali condominiali, quando può essere considerata
caso fortuito?
c.c. molti autori dell’indirizzo soggettivistico, tra cui G. Gentile,
La responsabilità per le cose in custodia del nuovo codice delle
obbligazioni, in Resp. civ. prev., 1941, 169; D.R. Peretti Griva,
Sul fondamento colposo della responsabilità di cui all’art. 2051
cod. civ., in Foro pad., 1952, I, 1063.
(3) A tale proposito la dottrina più critica, favorevole alla
qualificazione oggettiva della responsabilità da cose in custodia non ha esitato a parlare di vero e proprio “privilegio” accordato alla Pubblica Amministrazione: cfr. M. Comporti, Presunzioni di responsabilità e pubblica amministrazione: verso l’eliminazione di privilegi ingiustificati, in Foro it., 1985, I, 1497.
(4) Orientamento che pare riproposto, in sede tanto di merito quanto di legittimità, anche dalla giurisprudenza di questi
ultimi anni: vedasi ex aliis Cass. 1° dicembre 2004, n. 22592 e
Cass. 23 febbraio 2005, n. 3745, entrambe con nota di M. Bona, Buche sulle strade urbane: spunti per un nuovo modello di
responsabilità dei Comuni, in Responsabilità Civile e Previdenza,
2005, 390-43.
(5) Cass. 20 febbraio 2006, n. 3651, Resp. civ. prev., 2006,
1502; A tale pronuncia fa seguito Cass. 14 marzo 2006, n.
842
Nella sentenza de qua la S.C. scandisce i presupposti per invocare la predetta esimente: occorre che
il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante
abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere
il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento.
La giurisprudenza ha più volte affermato come il
caso fortuito, in relazione all’art. 2051 c.c., si ponga quale fattore eccezionale, estraneo alla sfera soggettiva del custode, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa e l’evento lesivo (9). Giova
ricordare come la dottrina abbia distinto varie tipologie di fortuito: 1) il fortuito c.d. autonomo,
che rileva nel caso in cui il danno risulta prodotto
esclusivo del fattore esterno; 2) il fortuito c.d. incidente, in cui la res - pur contribuendo al processo
eziologico dell’evento - si pone alla stregua di mera
occasione assorbita interamente dal fattore esterno;
3) il fortuito c.d. concorrente, in cui l’azione del
fattore esterno non esclude l’efficienza causale del
bene nella determinazione dell’evento.
L’interruzione del nesso di causa comporta, quindi,
che l’elemento estraneo si sia posto quale causa diretta ed esclusiva del danno, con relativa esclusione della potenziale pericolosità della res nel processo fenomenico dell’evento. Siffatto elemento - per
pacifica e consolidata giurisprudenza di merito e legittimità - ben può essere rappresentato dal fatto
del terzo o da quello dello stesso danneggiato, oltre
che da eventi eccezionali ed imprevedibili (10).
Come ha osservato la Cassazione con la sent. n.
5267/1991 (11), il caso fortuito deve consistere in
un avvenimento imprevedibile, imponderabile ed
improvviso, determinante in maniera autonoma
dell’evento; l’eccezionalità di un fenomeno naturale, saltuario e dunque non frequente, non è suffi5445, in Arch. giur. circ. sin., 2006, 1034.
(6) Cosi, A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art.
2051 c.c.: verso un tertiumgenus di responsabilità?, cit., 1958.
(7) Tra le tante, Cass. 20 maggio 2003, n. 12219, in Foro it.,
2004, I, 511.
(8) Ancora, A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art.
2051 c.c.: verso un tertiumgenus di responsabilità?, cit., 1958.
(9) Ex aliis, Cass. 8 aprile 1997, n. 3041; e Cass. 13 maggio
1997, n. 4196, entrambe in Giur. it., 1998, 1382, con nota di
F.G. Pizzetti, Nuovi profili della responsabilità per danno da cose
in custodia ex art. 2051 c.c.
(10) È il caso, ad esempio, di fenomeni climatici assolutamente eccezionali per gravità ed imprevedibilità, di fronte ai
quali si presume che una attività manutentiva pur diligente e
perita da parte della Pubblica Amministrazione non avrebbe
comunque potuto impedire l’insorgenza di situazioni pericolose per gli utenti del demanio: da ultimo Cass. 18 febbraio
2014, n. 3767, in www.altalex.com.
(11) In Mass. Giust. civ., 1991, 5.
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Danni da eventi atmosferici
ciente a configurare tale esimente poiché non ne
sarebbe esclusa la prevedibilità.
Infatti, i cambiamenti climatici e l’espansione dei
centri urbani che si è avuta negli ultimi 30 anni,
hanno variato i dati alla base del dimensionamento
di molte opere idrauliche: si è determinata una
maggiore estensione del bacino di drenaggio per
continuo sviluppo e impermeabilizzazione dei centri abitati, e la diminuzione del tempo di ritorno in
seguito alle variazioni climatiche. Questo ha determinato di fatto una riduzione del tempo di vita utile a questi manufatti, che quindi in molti casi oggi
sono obsoleti. Ad aggravare ulteriormente la situazione i problemi economici che affliggono gli enti
locali e le aziende di gestione che spesso hanno loro impedito di effettuare i necessari adeguamenti
degli impianti. Le conseguenze gravose di un nubifragio sono quindi spesso da ricercare in problemi
strutturali degli impianti di raccolta e smaltimento
delle acque meteoriche: l’estensione e l’entità dei
danni è la manifestazione di un sintomo patologico
delle strutture, non l’evidenza di un fatto eccezionale (12).
La corretta analisi di questi elementi dovrà essere
sempre alla base di ogni valutazione sulla responsabilità: la pioggia intensa e persistente, come nel caso di specie, tale da assumere i caratteri della eccezionale intensità, non costituisce un evento tale da
rientrare nel caso fortuito specie in epoche, come
quella attuale, in cui i dissesti idrogeologici (13)
che attanagliano il nostro Paese sono sempre più
frequenti e non consentono di considerare una
pioggia a carattere alluvionale un evento imprevedibile e imponderabile.
La sentenza impugnata ha, dunque, sbagliato nel
trascurare del tutto ogni accertamento in ordine al
funzionamento delle pompe di smaltimento sulla
scorta dell’erronea considerazione della loro insufficienza a smaltire l’intero flusso delle acque, senza
però interrogarsi né sulla possibilità e sulla efficacia
causale di uno smaltimento anche solo parziale, né
su eventuali responsabilità amministrative circa le
caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio; in
tal modo il giudice ha attribuito, sic et simpliciter, il
carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di considerare le rilevanti perplessità
espresse dal CTU circa il reale stato di manutenzione della fognatura (14).
La Cassazione, infine, ha stabilito che la discrezionalità dell’ente pubblico nella manutenzione dei
propri beni non vuol dire impunità. Se le sentenze
di primo e secondo grado avevano escluso la responsabilità del Comune (e, per gli stessi motivi,
del condominio) la S.C. ha riaperto i giochi, ricordandoci che le norme poste a tutela dei diritti soggettivi possono fungere da parametro di condotta
dell’ente pubblico (15).
(12) P. Bera, Eventi atmosferici: caso di forza maggiore o
no?, in http://aipai.org/eventi-atmosferici-caso-di-forza-maggiore-o-no/.
(13) Con l’espressione “ dissesto idrogeologico ”, oggi, si
suole indicare un fenomeno o una serie di fenomeni (generalmente frane, alluvioni, valanghe e fenomeni ad esse associati)
che compromettono l’assetto del territorio ai fini di un suo
sfruttamento da parte dell’uomo. Dal punto di vista geologico,
invece, le frane e le alluvioni sono gli eventi attraverso i quali
la superficie terrestre “ evolve ” fin dalla sua formazione: ne discende che ciò che l’uomo considera dissesto, per la natura
non è altro che un altro assetto, che comporta generalmente
nuove condizioni di equilibrio. L’Italia è un Paese in cui l’esposizione al rischio di frane e alluvioni è particolarmente elevata
e costituisce, pertanto, un problema di grande rilevanza sociale, sia per il numero di vittime che per i danni prodotti alle abitazioni, alle industrie e alle infrastrutture. Questo si deve al suo
assetto geologico e alla morfologia spesso accidentata del nostro territorio: vanno però assumendo un peso sempre più rilevante le cause di origine antropica, legate ad un uso del territorio non attento (per usare un eufemismo) alle caratteristiche
e ai delicati equilibri idrogeologici dei suoli italiani. Così, F. Di
Dio, Frane e dissesto idrogeologico: verso una strategia di
adattamento ai cambiamenti climatici, in Riv. giur. ambiente,
2011, 3-4, 463.
(14) L. Izzo, La pioggia intensa non giustifica l’incuria, Condominio e comune responsabili per i danni da allagamento, in
http://www.studiocataldi.it/articoli/21559-la-pioggia-intensanon-giustifica-l-incuria-condominio-e-comune-responsabili-peri-danni-da-allagamento.asp.
(15) In tal senso, A Gallucci, Pioggia e infiltrazioni: riconosciuto il caso fortuito se i danni sono causati da un prolungato
acquazzone, in D&G, 2013, 554.
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Risarcimento del danno
Inadempimento contrattuale
La responsabilità delle banche
tra principi generali e norme
speciali
Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 806 - Pres. S. Di Palma - Est. M. Acierno - P.M.
M. Velardi
Ai fini della valutazione della responsabilità della banca per il caso di utilizzazione illecita da parte di terzi di
carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante la condotta imprudente del cliente e l’intempestività della sua denuncia, poiché la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere (massima non ufficiale).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. III, 20 marzo 2014, n. 21613, in Corr. giur., 2014, 906; Cass., Sez. III, 20 settembre 2013, n. 21613, in
CED; Cass., Sez. III, 24 settembre 2009, n. 20543, in Guida dir., 2009, 48, 56; Trib. Milano 16 marzo 2009, in
www.ilcaso.it; Cass. 12 giugno 2007, n. 13777, in Giur. it., 2008, 319 e in Guida dir., 2007, 27, 30.
Difforme
Corte App. Cagliari n. 213/2008, inedita.
La Corte (omissis).
Svolgimento del processo
A ha convenuto in giudizio la X - Cassa di Risparmio
di X, attualmente C, deducendo di essere correntista
della banca; di aver tentato di eseguire un prelievo bancomat presso di essa il 9/9/1999 senza riuscirci perché
l’apparecchio, dopo aver trattenuto la carta, visualizzava
la scritta “carta illeggibile” e successivamente “sportello
fuori servizio”; di aver immediatamente segnalato l’inconveniente al vicedirettore della filiale che si trovava
presso l’istituto e di aver ricevuto l’indicazione di tornare il giorno dopo; di averlo fatto e di aver constatato il
mancato rinvenimento della carta predetta. I giorni 9 e
10 settembre ignoti effettuavano consistenti prelievi per
oltre 7000 Euro. L’attore affermava di aver comunicato
per iscritto l’evento al vice direttore e di aver sporto denuncia all’autorità giudiziaria il successivo 13 settembre.
La banca deduceva la tardività della segnalazione e della denuncia del fatto. Il Tribunale rigettava la domanda
rilevando che non era stata eseguita regolare comunicazione entro 48 ore dall’accaduto così come prescritto
nell’art. 14 delle condizioni generali di contratto.
La Corte d’Appello ha confermato il rigetto sulla base
delle seguenti argomentazioni:
l’indebito prelievo è ascrivibile in via esclusiva alla responsabilità dell’appellante. Le riprese video della fase
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del prelievo hanno evidenziato che il A è stato vittima
di una truffa da parte di persona ignota che si è avvicinato a lui e, con il pretesto di volerlo aiutare nell’operazione, ha evidentemente visto e memorizzato il PIN,
avendo in precedenza manomesso il funzionamento dell’apparecchio in modo da poter recuperare la disponibilità della carta rimasta al suo interno.
L’appellante ha commesso l’imprudenza di digitare il
PIN sotto gli occhi del truffatore, senza aver tempestivamente attivato il blocco, mediante numero verde così
come sollecitato dal funzionario, limitandosi ad allertare
il direttore della filiale della mancata restituzione della
carta ma omettendo di far menzione della presenza di
un terzo. Così facendo l’appellante ha violato in particolare la disposizione contrattuale che impone la segretezza del PIN. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il A affidandosi a due motivi.
Motivi della decisione
Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione
e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., per avere la corte
territoriale individuato nell’esclusiva responsabilità del
ricorrente la causa del danno patrimoniale dal medesimo subito. La decisione assunta si è posta in contrasto
con il canone di buona fede dal momento che il A aveva immediatamente avvisato la banca del cattivo funzionamento dello sportello Bancomat e del trattenimen-
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Giurisprudenza
Risarcimento del danno
to della carta. Non è stato, di conseguenza, preso in
considerazione il grave difetto di diligenza dell’istituto
all’esito di tale segnalazione in quanto non è stata posta
in essere nessuna cautela atta ad evitare il danno a fronte della segnalazione dello spossessamento. Da parte
della banca è stata attuata una condotta radicalmente
omissiva in violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2.
Lo sportello era costantemente ripreso da una telecamera e conseguentemente poteva essere verificato agevolmente come si era svolta effettivamente l’operazione.
L’istituto poteva essere a conoscenza delle truffe ma
nulla aveva posto in essere. Secondo quanto stabilito
dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 13777 del
2007) banca avrebbe dovuto porre in essere strumenti
idonei a garantire gli impianti da manomissione, rispondendo in mancanza dei relativi rischi.
Il motivo si chiude con rituale quesito di diritto.
Nel secondo motivo viene dedotta l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia consistente
nel fatto che la corte territoriale non ha considerato le
contestazioni specifiche in ordine all’ammontare dei
prelievi effettuati da ignoti in misura ben superiore ai limiti giornalieri (2500 Euro) e la previsione contrattuale
secondo la quale in caso di mancata comunicazione
tempestiva dell’indebito od illecito uso della carta restano a carico del titolare le conseguenze pregiudizievoli fino ad un massimo di 300 Euro.
In particolare l’art. 34, delle Condizioni generali di contratto prevede che in caso di smarrimento, furto o sottrazione della carta o del PIN, il titolare deve darne immediata comunicazione alla X con qualsiasi mezzo. Entro le 48 ore deve seguire conferma scritta da presentare
direttamente o mediante lettera raccomandata, corredata da copia conforme della denuncia sporta alle autorità
competenti. Ove la comunicazione avvenga dopo l’uso
indebito od illecito le conseguenze pregiudizievoli rimangono a carico del cliente fino a 300 Euro. Il titolare
risponde di tutti gli utilizzi se ha agito con dolo o colpa
grave, ovvero in conseguenza di quanto previsto nel
presente articolo nonché nel precedente art. 31.
Il ricorrente tuttavia ha immediatamente informato la
banca dell’avvenuta sottrazione della carta e della presenza di un terzo, constatando la mattina successiva che
il bancomat non era stato rinvenuto ma ricevendo assicurazioni in ordine alla circostanza giustificata dal funzionario della banca come temporaneo blocco o malfunzionamento.
Il primo motivo è fondato. La Corte d’Appello nel riconoscere l’esclusiva responsabilità del ricorrente per aver
consentito l’individuazione del PIN ad un terzo e non
aver provveduto all’immediato blocco della carta, non
ha svolto uno scrutinio effettivo del comportamento
contrattuale della banca secondo il parametro della diligenza professionale ex art. 1176 c.c., comma 2. A tale
verifica invece la Corte territoriale era tenuta sotto due
profili. Il primo consistente nell’indagine della condotta
del funzionario che ha raccolto la denuncia immediata
del malfunzionamento del bancomat il quale invece di
mettersi in allarme per la sottrazione della carta da parte dello sportello ha differito il controllo al giorno suc-
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cessivo; il secondo consistente nell’omessa verifica mediante il sistema di telecamere incontestatamente attivato (ed assolutamente necessario al fine d’integrare
l’obbligo di diligenza specifica) dell’avvenuta manomissione del medesimo da parte di terzi. Omettendo l’esecuzione di tale indagine la Corte d’Appello ha sostanzialmente non applicato il parametro della diligenza
specifica posta a carico della banca nonostante il chiaro
orientamento espresso dalla prima sezione di questa
Corte in una fattispecie del tutto analogo secondo il
quale:
“Ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione illecita da
parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la verifica dell’adozione da
parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni,
nonostante l’intempestività della denuncia dell’avvenuta sottrazione da parte del cliente e le contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza posta a carico
del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere”. (Cass. 13777 del
2007).
Nel presente giudizio il ricorrente ha espressamente affermato (e provato con la riproduzione delle conclusioni dei due gradi di merito) di aver contestato puntualmente e tempestivamente la violazione dell’art. 1176,
secondo comma, cod. civ. La manomissione dello sportello costituisce una circostanza incontestatamente derivante dal mancato rinvenimento della carta al suo interno e dalla sua sottrazione ed utilizzazione da parte di
terzi. Risulta pertanto evidente l’omesso accertamento
della violazione del dovere di diligenza specifica derivante dal rapporto contrattuale e dalla peculiarità degli
obblighi di custodia dello sportello bancomat.
Come precisato nella sentenza sopra citata la diligenza
professionale nella specie deve valutarsi non solo con
riferimento all’attività di esecuzione contrattuale in senso stretto ma anche in relazione ad ogni tipo di atto e
operazione oggettivamente riferibile ai servizi contrattualmente forniti. Nella specie, è stata del tutto elusa
dalla corte d’Appello l’indagine volta a verificare se la
banca sia tenuta a garantire la sicurezza del servizio bancomat dalle manomissioni di terzi anche quando il titolare della carta non abbia rispettato l’obbligo di chiedere immediatamente il blocco della medesima o abbia favorito la conoscenza del PIN da parte di terzi.
L’art. 1176 secondo comma, cod. civ. lascia imprecisata
la questione della misura della diligenza nelle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale ma
la sua valutazione di carattere tecnico deve essere commisurata alla natura dell’attività ed in particolare alla
specificità dell’obbligo di custodia di uno strumento
esposto al pubblico avente ad oggetto l’erogazione di
denaro. Ad integrare l’indagine non eseguita dalla corte
territoriale devono essere inclusi non solo i comportamenti omissivi della banca (l’omessa verifica continua-
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Risarcimento del danno
tiva della manutenzione dello sportello mediante le telecamere in uso) ma anche quelli commissivi consistenti nella specie nell’ambigua indicazione, sollecitata dall’immediata lamentela del cliente relativa alla sottrazione della carta, di tornare il giorno dopo per la riconsegna, sulla base di un ragionevole affidamento della sua
insottraibilità unita al suggerimento non univoco del
blocco.
Del tutto ignorata, infine anche la circostanza del prelievo in misura molto superiore al plafond contrattuale
da ritenersi un ulteriore profilo di malfunzionamento
del sistema da valutare ai fini di un esame complessivo
della diligenza professionale posta a carico della banca.
L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo e la cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Il giudice del rinvio dovrà valutare se
il comportamento della banca sia in ordine al riscontrato difetto di manutenzione e custodia, sia in ordine alla
condotta accertata del responsabile presente nella sede
della medesima, sia in ordine al prelievo largamente eccedente il plafond giornaliero possano integrare il difetto di diligenza e art. 1176 c.c., comma 2, anche a fronte
del comportamento non osservante dell’obbligo contrattuale di non favorire la lettura del PIN e di provvedere
al blocco immediato.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito
il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche
per le spese del presente procedimento alla Corte d’Appello di Cagliari in diversa composizione.
Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442 - Pres. Dott. L. Russo - Est. Dott. M.
Chiarini - P.M. Dott. R. Fuzio
L’intermediario finanziario risponde delle conseguenze civilistiche dell’appropriazione indebita compiuta dal
suo promotore in danno di terzi, essendo sufficiente a tal fine il nesso di occasionalità tra l’illecito ed il conferimento dell’incarico di promuovere affari, il cui espletamento abbia reso possibile o anche solo agevolato la
condotta illecita. Ciò in base all’art. 31, comma 3, D.Lgs. n. 58/1998, ma tanto più se al fatto dannoso l’intermediario finanziario abbia concorso con un comportamento colpevole, omettendo di osservare i doveri che
gli sono prescritti dalla legge e senza che possa valere ad interrompere il nesso di causalità tra lo svolgimento
dell’attività e la consumazione dell’illecito la circostanza che la consegna al promotore finanziario delle somme di denaro da investire da parte del risparmiatore sia avvenuta con modalità difformi da quelle previste
dalla legge.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18613, in CED, n. 636983; Trib. Milano, Sez. VIII, 13 dicembre 2011, in Società, 2012, 2, 223; Cass., Sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1471, in questa Rivista, 2011, 7, 727.
Difforme
Cass., Sez. I, 10 novembre 2015, n. 22956, in CED, n. 637646, Trib. Milano 23 gennaio 2003.
La Corte (omissis).
In fatto
A convenne dinanzi al Tribunale di Milano C1 e s.p.a.
C2, incorporante X Investimenti, già X Investimenti
Sim, deducendo di aver consegnato al C1, promotore finanziario di X dal 1992 ed iscritto all’albo a norma del
D. Lgs. n. 31 del 1998, Euro 284.000 in contanti nel luglio del 2003 per prenotare - come da modulo del 23 luglio 2003 che produceva, sottoscritto dal C1 per ricevuta e dalla A - un’obbligazione Y su carta intestata X Investimenti S.I.M. s.p.a. per un valore nominale di Euro
301.040, autorizzandone l’addebito sul c/c n. (omissis)
intrattenuto con X. Precisò poi che in data 18 gennaio
2004 ricevette dalla banca X una lettera su cui erano
manoscritti appunti e confermato il prestito obbligazionario Y, con dichiarazione di immissione in un deposito
titoli cumulativo ad essa sottorubricato per sottoscrizione nominale di Euro 315.950 di obbligazioni scadenti il
846
31 luglio 2004, con sottoscrizione illeggibile “Banca Investimenti X. A maggio 2004 l’avvocato del C1 la informò che questi non aveva provveduto ad investire la
somma ricevuta avendola sottratta e che non era più in
condizioni di restituirla. Pertanto la A chiese la condanna in solido dei convenuti, a norma dell’art. 31,
comma 3, TUF, non avendo la banca esercitato alcun
controllo sul suo promotore esclusivo, al pagamento di
Euro 315.950, oltre interessi convenzionali e legali, rivalutazione e danno morale per la condotta illecita.
La convenuta s.p.a. C2, incorporante X investimenti,
contestò la domanda deducendo che la A aveva consegnato la cospicua somma al più in esecuzione di un rapporto personale con il C1, poi giustificato dai moduli
prodotti, privi di data certa, di cui il secondo ideologicamente falso e in relazione al quale ne disconosceva la
sottoscrizione, e per un tasso dell’11,25%, incredibile
per un investimento obbligazionario. Inoltre il primo
modulo era intestato “Investimenti Sim S.p.A.”, mentre
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Risarcimento del danno
da novembre 2002 la denominazione era cambiata in
Banca X Investimenti s.p.a.; la corresponsione in contanti era anche in violazione della normativa antiriciclaggio, e la a non era cliente X, né vi erano investimenti a suo nome.
Il Tribunale accolse la domanda sulle seguenti considerazioni: 1) ai sensi del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 13,
comma 2, i documenti, in particolare quello del 2003
sottoscritto dal C1, con il codice (...) quale promotore
finanziario della X, dovevano ritenersi veri poiché non
contestati, e riconosciuti dal C1 a norma dell’art. 215
c.p.c.; 2) il documento del 18 gennaio 2004 provava il
rapporto con costui ed era irrilevante che non provenisse da funzionari della banca perché la A1 aveva agito ai
sensi dell’art. 31, comma 3, TUF; 3) i documenti trasmessi all’investitrice avevano un contenuto minimo tale da ritener possibile fossero obblighi della banca e l’affidamento sul promotore era stato da questa ingenerato;
4) avendo la A riscosso Euro 15.000 per cedole maturate, essi dovevano esser decurtati da Euro 284.000, mentre non spettavano gli interessi riconosciuti nel documento 3 perché nessun reale investimento era stato effettuato; 5) a norma dell’art. 31, comma 3, TUF, in linea con la L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4, la banca
doveva rispondere in solido per la condotta illecita del
suo promotore, e a tal fine era irrilevante che costui
avesse il potere di rappresentanza della banca non avendo questa dimostrato la collusione tra investitore e promotore, mentre le incongruenze tra i documenti - come
quella tra il riconoscimento del C1 del versamento della somma di Euro 284.000, mentre nel modulo di prenotazione era previsto l’addebito di tale importo sul
conto della risparmiatrice - “erano tipiche” del dolo del
promotore; 6) le norme della L. n. 197 del 1991, sull’antiriciclaggio non erano volte ad impedire il rischio
del danno verificatosi e dunque non avevano influenza
nella fattispecie; 7) il concorso causale - art. 1227 c.c.,
comma 1, della A per aver con estrema imprudenza
consegnato in contanti la rilevante somma di danaro,
era riconoscibile nella misura del 30%; 8) il danno morale per l’appropriazione indebita era riconoscibile nella
somma di Euro 700.
Con sentenza del 15 febbraio 2011 la Corte di appello
di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale sulle
seguenti ragioni: 1) la consegna del danaro nella somma
allegata dalla A, avvenuta con più versamenti al C1,
nella qualità di promotore finanziario di X Investimenti
s.p.a. a scopo di investimento, come provato dal suo numero di codice apposto nell’apposito spazio, era provata
dal modulo, con duplice sottoscrizione del C1 “per ricevuta 23 luglio 2003 Euro 284.000” la cui firma la banca
non ha contestato - ed infatti ne ha sostenuto la falsità
ideologica, non materiale, ed in relazione ad esso ha
astrattamente ipotizzato, non allegando alcun riscontro
concreto, un accordo fraudolento tra il suo promotore e
la A - con cui era stato formalizzato l’ordine, e dall’estratto conto, in relazione al quale l’istanza di C.T.U.
grafologica era esplorativa e non sorretta da alcun motivo di impugnazione; 2) le incongruenze tra i due documenti, concernenti la denominazione della banca e la
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misura dei prospettati interessi, non incidevano sulla
valenza probatoria della consegna del danaro, ma rilevano per il concorso di colpa della A e poiché, comunque,
il modulo era proveniente dalla banca, erano irrilevanti;
3) decine di investitori truffati dal C1 per milioni di
Euro, gran parte in contanti, rendevano ancor più verosimile l’assunto della A; 4) pertanto i moduli di consegna del danaro e di conferma dell’ordine erano riconducibili all’attività di promotore finanziario del C1 per
conto della C2 che l’investitrice aveva percepito come
veritieri e perciò sussisteva la speciale responsabilità di
cui all’art. 31 TUF, prevalente su quella della A attesa
l’attività professionalmente qualificata del promotore.
Ricorre per cassazione la C2 s.p.a. cui resiste A1. Le
parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo la ricorrente lamenta: “Art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, - artt. 2049 e
2697 c.c.; artt. 1175 e 1375 c.c., art. 116 c.p.c., anche
in coordinata lettura con gli artt. 2731 e 1309 c.c., per
avere il collegio dato per accertato senza prova oggettiva l’avvenuto versamento di Euro 284.000.000 dalla A
al C1. Art. 360 c.p.c., comma, n. 5. Contraddittoria ed
insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia, consistente nella mancata prova oggettiva
dell’avvenuto versamento di Euro 284.000 dalla A al
C1, il tutto in relazione all’affermazione della responsabilità di C2”, non avendo la A provato di aver consegnato al T. la rilevante somma in contanti, sostenendo
dapprima di averla corrisposta in unica soluzione, in
violazione della normativa antiriciclaggio - ed infatti
nei confronti della A era stato aperto dal dipartimento
del Tesoro un procedimento per l’abnorme modalità del
versamento di somma la cui provenienza era ignota, ma
l’esito era sconosciuto - poi in versamenti ripetuti, infine in somme inferiori ai 12.500 Euro.
Gli argomenti posti a fondamento della decisione potevano valere nei confronti del C1, ma non della banca,
nei cui confronti opera la responsabilità ai sensi dell’art.
31 TUF previo accertamento dell’effettiva dazione,
mentre al più vi erano indizi, ed il silenzio della A era
da valutare ai sensi dell’art. 116 c.p.c., e artt. 1375 e
1175 c.c., anche perché è inusuale che una banca fornisca rendiconti manoscritti e non è verosimile l’interesse
dell’11,25% annuo su un investimento obbligazionario
per un periodo breve, a meno che la A conoscesse la
reale destinazione del danaro consegnato in violazione
delle modalità prescritte dal D. Lgs. n. 58 del 1998, e
dal reg. Consob: assegni bancari o circolari intestati al
soggetto abilitato all’offerta fuori sede per conto del
quale agisce il promotore, con clausola non trasferibile;
ordine di bonifico e documenti similari a favore del beneficiario e conferma tramite posta indirizzata al cliente.
In difetto vi era soltanto un rapporto fiduciario con il
T.
Il motivo è infondato.
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1.1- La Corte di merito ha correttamente applicato i
principi secondo i quali l’intermediario finanziario abilitato - quale era X Investimenti Sim - risponde di un illecito compiuto in danno di terzi - D.Lgs. n. 58 del
1998, art. 31, comma 3, - dal suo promotore che lo abbia commesso in tale veste, con conseguente responsabilità dell’intermediario per effetto della correlazione essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito e il conferimento dell’incarico di promuovere affari, il cui espletamento abbia reso possibile o anche solo agevolato la condotta illecita, tanto più se al
fatto dannoso abbia concorso un comportamento colpevole dell’intermediario, che abbia omesso di osservare i
doveri prescritti dalla legge - D.Lgs. n. 58 del 1998, ratione temporis applicabile, secondo i quali: (art. 21, comma 1) “Nella prestazione dei servizi di investimento e
accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con
diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei
clienti e per l’integrità dei mercati (profilo privatistico
e pubblicistico); d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; e) svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a
salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati” - ovvero di adottare cautele efficaci e di vigilare e controllare l’attività del suo collaboratore, in violazione sia dei
generali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto instauratosi con l’investitore, sia degli specifici obblighi richiesti dalla particolare natura
dell’attività imprenditoriale e professionale esercitata servizio di investimento - e sul cui corretto esercizio,
tramite il suo preposto, il consumatore di prodotti finanziari confida (ex multis Cass. 6033 del 2008), sia della normativa comunitaria di protezione del medesimo e
dell’integrità dei mercati, e costituzionale di tutela del
risparmio (art. 47).
Infatti nella specie i giudici di merito hanno evidenziato, a prova del collegamento tra il comportamento del
T. e la sua veste di promotore della X Investimenti e a
fondamento della corresponsabilità di quest’ultima: a) il
C1, nel periodo in cui ha ricevuto i versamenti dalla A,
era validamente investito della qualità di promotore di
X; 2) il modulo di investimento del 23 luglio 2003,
consegnato alla A per l’obbligazione Y per un complessivo valore nominale di 301.040,00 Euro, era intestato
a X Investimenti, con conseguente rilevanza esterna del
rapporto tra promotore e preponente a cui apparteneva
il prodotto finanziario, ed era sottoscritto dalla investitrice e dal promotore, che aveva riempito l’apposita casella indicando il suo codice (...) secondo la procedura
stabilita dalla normativa applicabile (precitato D.Lgs. n.
58 del 1998, art. 23, comma 1, art. 36 della delibera
Consob del primo luglio 1998 e 96 della delibera Consob n. 12409/del 2000); 2) la X Investimenti, su carta
alla stessa intestata, in data 18 gennaio 2004 ha inviato
alla A la conferma e il rendiconto degli interessi maturati sul suddetto investimento; 3) l’incarico affidato da
detta Banca al C1 ha agevolato la condotta criminosa
di costui - senza che perciò sia elisa la corresponsabilità
dell’intermediario (art. 31.3 del precitato D. Lgs.) - non
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avendo questi assolto l’onere non soltanto di provare di
aver agito con la circostanziata, specifica diligenza richiesta (art. 23, comma 6 stesso D.Lgs.), ma altresì
avendo denotato, nell’omettere reiteratamente di effettuare i dovuti controlli - tanto che, evidenzia la Corte
di merito, decine di investitori erano stati truffati per
svariati milioni di Euro - di riporre una fiducia assoluta
nel suo promotore, che aveva continuato a disporre della modulistica di investimento dell’intermediario, in
modo che l’investitore non potesse dubitare del suo potere di raccogliere ordini e di riceverne il pagamento,
avallati dal rendiconto proveniente dall’intermediario.
1.2- Altrettanto correttamente i giudici di merito hanno applicato il principio secondo il quale la circostanza
che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario
somme di denaro con modalità difformi da quelle con
cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle - assegni
bancari o circolari intrasferibili, ordini di bonifico o documenti similari, strumenti finanziari nominativi o all’ordine, intestati o girati al soggetto abilitato per conto
del quale opera (artt. 81 precitata delibera Consob e 94,
comma 6 del regolamento intermediari Consob del
1998 n. 11522, applicabile ratione temporis, e della cui
violazione risponde l’intermediario che abbia accettato
modalità di pagamento difformi da quelle prescritte, come nel caso in esame alla luce del rendiconto sull’andamento dell’investimento) - non vale, in caso di indebita
appropriazione di dette somme da parte del promotore,
ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo
svolgimento dell’attività dello stesso e la consumazione
dell’illecito, e non interrompe la corresponsabilità solidale dell’intermediario preponente (...).
3.- Concludendo il ricorso va respinto. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso (...).
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Risarcimento del danno
IL COMMENTO
di Martina Gerbi (*)
Attraverso le due pronunce della S.C. prese in esame, l’A. si interroga sul tema dell’inadempimento contrattuale e dei danni risarcibili ad esso conseguenti con riferimento, in particolare, a
due peculiari fattispecie, entrambe coinvolgenti la figura dell’istituto di credito, verificando le
specificità della risposta normativa e giurisprudenziale alle esigenze di tutela dei soggetti più deboli nei rapporti presi in esame.
Introduzione
Le sentenze in esame
Le due pronunce in commento, depositate da due
diverse sezioni della Corte di cassazione nell’arco
di poco meno di un mese l’una dall’altra, tra la fine
del 2015 e l’inizio del 2016, offrono l’occasione per
una breve riflessione in ordine ai confini del danno
risarcibile in ipotesi di responsabilità da inadempimento contrattuale degli istituti di credito.
All’interno del presente commento si prenderà
spunto dalle fattispecie sottoposte all’esame della I
e della III Sezione della S.C. (rispettivamente, con
la sent. 19 gennaio 2016, n. 806 e con la sent. 18
dicembre 2015, n. 25442), per verificare quali siano i principi di diritto di volta in volta individuati
dai giudici di legittimità come parametro per addivenire all’affermazione o alla negazione della responsabilità degli istituti di credito per i danni lamentati dai loro clienti a fronte delle peculiari fattispecie concrete dalle stesse affrontate, nonché se
ed in che termini essi si coniughino con i principi
generali in tema di causalità e danni risarcibili nell’inadempimento contrattuale, così come da ultimo
riaffermati anche recentemente dalla Corte di cassazione (1).
Cass. 18 dicembre 2015, n. 25442 affronta il caso
della risparmiatrice che, dopo avere consegnato ingenti capitali in contanti ad un promotore finanziario affinché li investisse per il tramite di una società di intermediazione mobiliare collegata e poi
incorporata ad un noto istituto di credito (convenuto in giudizio) e dopo essersi vista consegnare
della corrispondenza manoscritta su carta intestata
della medesima società, attestante l’avvenuto investimento, era poi venuta a conoscenza dal legale
del promotore finanziario, che questi aveva in verità sottratto la somma a lui affidata e non era ormai
più in grado di restituirla.
In prima istanza il Tribunale di Milano, ai sensi
dell’art. 31, comma 3, TUIF aveva riconosciuto la
responsabilità, oltre che del promotore finanziario,
anche della banca per la quale costui aveva svolto
la propria attività, ma aveva ritenuto anche che,
nel caso di specie, sussistessero gli estremi per l’affermazione di un concorso della responsabilità della stessa cliente nella causazione del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c.
In particolare, il giudice di primo grado aveva giudicato rilevante l’imprudenza con la quale la donna
aveva consegnato brevi manu al promotore una così
rilevante somma di denaro in contanti (oltre euro
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) In particolare, la seconda sezione civile della S.C. è tornata recentemente a pronunciarsi sul tema del danno risarcibile in caso di inadempimento contrattuale con la sent. 9 dicembre 2015, n. 24850 (reperibile nella banca dati Lex 24), coeva,
dunque, alle pronunce qui prese in esame. Mediante tale provvedimento, la Corte di cassazione, con riferimento al mancato
adempimento di un contratto preliminare di compravendita
immobiliare, cui era seguita la domanda della parte adempiente volta ad ottenere anche il risarcimento del danno da ritardata apertura di un hotel e di quello rappresentato dai costi sostenuti per dare esecuzione ad un lodo arbitrale ottenuto nei
confronti di terzi soggetti (entrambi ritenuti dalla parte adempiente conseguenza appunto dell’altrui inadempimento), ha
riaffermato che, in tema di inadempimento contrattuale, l’ambito del danno risarcibile deve essere circoscritto mediante il
ricorso alla regola della c.d. regolarità causale. Deve, cioè, essere risarcito solo il danno che sia diretta ed immediata conseguenza dell’inadempimento o quello che, pur essendo solo
una sua conseguenza mediata ed indiretta, rientri comunque
nelle conseguenze normali dell’inadempimento, in base ad un
giudizio di probabile verificazione, rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza (l’id quod plerumque accidit). Unica fondamentale eccezione a tale regola - continua la
sentenza- è quella per la quale, qualora tra tutte le possibili
cause di un danno (e tra le quali si colloca anche l’inadempimento contrattuale), ve ne sia una ad esso più prossima, da
sola sufficiente a produrre l’evento, essa deve escludere tutte
le altre antecedenti. Proprio in applicazione di tali principi, atteso che la sentenza d’appello era stata coerentemente con essi
motivata, la sentenza in parola respingeva il ricorso per cassazione.
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Risarcimento del danno
280.000), invece che per mezzo di assegno bancario o circolare non trasferibile o comunque altro
mezzo comunque idoneo a consentire la tracciabilità del pagamento ed aveva, dunque, condannato
sia il promotore sia la banca per la quale il primo
aveva svolto la propria attività di promozione al
pagamento, in favore dell’attrice, di un danno patrimoniale (2) e di un danno morale (3) decurtati
però del 30%.
La sentenza era stata, quindi, confermata dalla
Corte d’Appello di Milano, la quale, a fronte dell’impugnazione della banca appellante, aveva ribadito la condanna delle convenute, “attesa l’attività
professionalmente qualificata del promotore”.
Chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità
della decisione di secondo grado, con la pronuncia
in esame, la Corte di cassazione conferma la decisione, concludendo che la condotta di parte attrice, per quanto imprudente, non era stata sufficiente ad elidere il nesso causale sussistente tra l’attività del promotore e la consumazione dell’illecito.
Nella motivazione, la S.C. specifica come le ragioni della responsabilità dell’istituto di credito convenuto fossero da individuare, oltre che nel disposto dell’art. 31, comma 3, TUIF (4), anche nel livello di attenzione particolarmente basso tenuto
dallo stesso verso il proprio promotore, circostanza
desumibile dal fatto che una grande quantità di
clienti, come parte attrice, in quello stesso periodo,
era stata parimenti truffata dal medesimo soggetto.
Con la seconda pronuncia presa in esame (Cass.
19 gennaio 2016, n. 806), invece, la S.C. affronta
il caso del correntista che aveva citato in giudizio
la propria banca, assumendone la responsabilità
per l’illegittimo prelievo di denari avvenuti dal
proprio conto corrente, posto in essere da terzi rimasti ignoti, dopo che lo sportello dell’istituto aveva trattenuto la sua carta bancomat (5).
Uscito sconfitto in primo grado a motivo della ritenuta tardività della denuncia dell’accaduto rispetto
ai termini contrattualmente previsti (6), anche in
grado d’appello il correntista aveva visto rigettare
la sua domanda.
Proprio nel corso del giudizio di appello, in particolare dall’esame delle riprese video della banca,
era emerso come il correntista fosse stato vittima
di una vera e propria truffa ad opera di un ignoto,
il quale, dopo avere manomesso lo sportello bancomat affinché trattenesse la carta del malcapitato
avventore, lo aveva avvicinato e, con la scusa di
prestargli aiuto, gli aveva invece carpito il codice
della sicurezza.
Con il ricorso in cassazione, veniva denunciato un
errore della Corte d’Appello, nella valutazione dell’adeguatezza della condotta posta in essere dalla
(2) Il danno patrimoniale viene quantificato in misura pari
alla somma consegnata dalla risparmiatrice al promotore finanziario, decurtata di euro 15.000, che erano stati medio tempore alla stessa corrisposti da quest’ultimo a titolo di “cedole
maturate”. La sentenza non riconosceva, invece, la spettanza
degli interessi promessi, in quanto “nessun reale investimento
era stato effettuato”.
(3) Il risarcimento del danno morale veniva dal Tribunale di
Milano specificamente motivato alla luce della rilevanza penale della condotta illecita del promotore finanziario e veniva in
definitiva quantificato nella misura equitativamente determinata di euro 700. Sul tema del danno morale si rinvia, in primiis,
alle pronunce a Sezioni Unite della Cass. 11 novembre 2008,
nn. 26972-26975 pubblicate, tra le altre, in Foro it., 2009, 1,
120, con commenti di G. Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo
statuto” del danno non patrimoniale e E. Navarretta, Il valore
della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali, ibidem, F.D. Busnelli, Le Sezioni unite e il danno non
patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, 97, e, in questa Rivista
2009, 19, A. Procida Mirabelli di Lauro, Il danno non patrimoniale secondo le Sezioni unite. Un “de profundis” per il danno
esistenziale, S. Landini, Danno biologico e danno morale soggettivo nelle sentenze della Cass. SS.UU. 26972, 26973, 26974,
26975/2008 e C. Sganga, Le Sezioni unite e l’art. 2059 c.c.;
censure, riordini, ed innovazioni del dopo principio. Sulle stesse
pronunce anche Cendon P. L’urlo e la furia, in Nuova giur. civ.
comm., 2009, 2, 71 e AA.VV. Il danno non patrimoniale. Guida
commentata alle SS.UU. 11.11.2008 nn. 26972-26975, Milano,
2009. Per un’antologia ragionata della giurisprudenza di merito
successiva a tali pronunce, tra gli altri, A. D’Angelo - G. Comandé - D. Amram (a cura di), La liquidazione del danno alla
persona, Milano, Lex 24, 2010, l’inserto Il danno alla persona a
due anni dalle Sezioni Unite del 2008 allegato a questa Rivista,
2011, 6, e L. Nocco (a cura di) Osservatorio della giurisprudenza in materia di danno alla persona, in questa Rivista, 2013, 12.
Sul tema del danno morale da reato nell’inadempimento contrattuale si veda anche Il danno non patrimoniale e la responsabilità contrattuale, di E. Navarretta - D. Poletti, in E. Navarretta
(a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle
per la liquidazione, Milano, 2010. Sul danno non patrimoniale
in generale, si vedano E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996 e G. Comandé, Risarcimento
del danno alla persona e alternative istituzionali. Studio di diritto
comparato, Torino, 1999.
(4) Si tratta, più precisamente, del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli
artt. 8 e 21 della L. 6 febbraio 1996, n. 52, pubblicato in G.U. Il
26 marzo 1998, n. 71, il quale, all’art. 31, comma 3, stabilisce,
infatti, che il soggetto che conferisce l’incarico è responsabile
in solido dei danni arrecati a terzi dal promotore finanziario
abilitato all’offerta fuori sede e ciò “anche se tali danni siano
conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”. Sull’argomento si rinvia a E. Galanti, Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008.
(5) Nel caso di specie il malcapitato cliente lamentava anche che le somme prelevate dai malviventi risultavano essere
superiori ai plafond giornalieri di prelievo contrattualmente pattuiti.
(6) Il ricorrente aveva, in particolare, sostenuto di avere subito denunciato l’accaduto alla banca, ma verbalmente e di
avere reiterato la denuncia scritta solo in un secondo momento, quando ormai erano in effetti decorse le 48 ore dagli accadimenti de quo (termine massimo per la denuncia, previsto a
pena di decadenza in base alle previsioni del contratto).
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Risarcimento del danno
La responsabilità della banca per il fatto illecito
commesso dal promotore finanziario affonda le proprie radici nel rapporto di preposizione sussistente
tra l’autore della condotta ed il soggetto preponente chiamato a risponderne, nonché nel nesso di
causalità tra l’esercizio delle incombenze affidate al
primo ed il danno dallo stesso cagionato.
Tale schema, riconducibile in prima istanza al paradigma generale della responsabilità per fatto altrui di cui agli artt. 1228 e 2049 c.c. (7), con specifico riferimento al rapporto di preposizione sussi-
stente tra il promotore finanziario e la banca, trova
nell’art. 31 TUIF la propria definitiva affermazione (8).
Nell’interpretazione della norma, tesa a garantire
una sempre maggiore tutela al contraente debole
del rapporto, in linea con l’evolversi generale di
una normativa sempre più rivolta alla maggior tutela dei consumatori, spesso in esecuzione di input comunitari, si è affermata la tendenza ad indagare in maniera progressivamente meno restrittiva
il nesso di causalità sussistente tra le incombenze
svolte dal promotore per conto dell’istituto di credito suo preponente ed il danno cagionato dal preposto ai risparmiatori (9).
La giurisprudenza ha elaborato a questo riguardo il
concetto di occasionalità necessaria (10), riconoscendo la responsabilità della banca preponente in
tutti i casi in cui l’agire del promotore sia uno degli
strumenti attraverso i quali essa organizza la sua attività di impresa, traendone benefici, cui vanno
collegati anche i relativi rischi (11).
Esteso così fino ai suoi massimi confini il concetto
di nesso di causalità, il preponente può andare
esente da responsabilità solo dimostrando l’esistenza di circostanze atte ad interrompere questo nesso
funzionale.
Tuttavia, l’ipotesi che si potrebbe formulare sulla
base di tale assunto, per la quale l’avere, allora, del
promotore finanziario perseguito esclusivamente fini di profitto personali dovrebbe elidere il legame
che inchioda il suo preponente alla responsabilità
patrimoniale dei danni che sono conseguiti alla
condotta del primo, viene smentita dagli orientamenti più recenti della giurisprudenza.
(7) A questo proposito si ricordano M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive artt. 2049-2053), in Commentario
al codice civile, Schlesinger - Busnelli, Milano, 2009 e, più risalenti, S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano,
1964, 176, M Franzoni, Fatti illeciti, Bologna, 1993, 424 e U.
Ruffolo in La responsabilità vicaria, Milano, 1976, per il quale
sussiste una preposizione rilevante ai sensi dell’art 2049 c.c.
“in ogni ipotesi di potere giuridico in ordine all’utilizzazione di
quel particolare tipo d’altrui attività latamente definibile lavoro e
caratterizzata da subordinazione tale da presentarsi come compatibile, anche se non coincidente, rispetto allo schema del lavoro subordinato”. Tra le pronunce che espressamente sanciscono la responsabilità della banca con rinvio alla norma dell’art.
2049 c.c., si segnalano Trib. Biella 5 giugno 2007, di cui si dà
conto in Come difendersi dalle banche, R. Cafaro, Sant’Arcangelo di Romagna, 2011, nonché Cass., Sez. III, 29 settembre
2005, n. 19166, in questa Rivista, 2006, 2, 141. Sulla natura
contrattuale della responsabilità per fatto altrui delle cc.dd.
SIM si rinvia a F. Greco, La natura contrattuale della responsabilità della SIM per fatto illecito del promotore finanziario, in
Resp. civ. prev., 2016, 6, 1963. Riconduce, invece, la responsabilità della banca alla norma generale dell’art. 2049 c.c. Cass.,
Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18612, in D&G, 2015, 33, 102,
con nota di A Paganini, La responsabilità della banca per il fatto
del proprio promotore finanziario non esclude il concorso di colpa del danneggiato.
(8) Sul rapporto tra norma generale di cui all’art. 2049 c.c.
e la previsione di carattere speciale qui richiamata si segnala,
all’indomani dell’entrata in vigore della normativa, E. Roppo in
P.G. Alpa - P.M.S. Caprioglio (a cura di), Commentario al Testo
Unico Finanza, Milano, 1998, 331.
(9) Per un’analisi accurata del fenomeno giurisprudenziale
evolutivo in parola si rinvia a F. Bartolini, L’occasionalità necessaria non tramonta mai: una conferma sulla responsabilità della
Sim per gli illeciti del promotore, in questa Rivista, 2011, 7, 727,
nota a Cass., Sez. III. 25 gennaio 2011, n. 1741.
(10) Sul concetto di occasionalità necessaria si vedano Trib.
Prato 23 gennaio 2011, n. 211, in Guida dir., 2011, 24, 50, Corte App. L’Aquila 21 gennaio 2010, in Foro it., 2010, I, 1946, V
Cass., Sez. III, 12 marzo 2008, n. 6602, in Mass. Giust. civ.,
2008, 3, 409.
(11) È un’epifania del principio di diritto cuius commoda
eius et incommoda, riaffermato dalla S.C. con sent. n. 11590
del 26 maggio 2011 e che secondo una certa dottrina condurrebbe all’affermazione della natura oggettiva della responsabilità conseguente all’assunzione del rischio di impresa. In tal
senso V. Cuffaro (a cura di), Il codice di consumo, Milano,
2012, 1168.
banca, in esito alla denuncia del proprio correntista.
Assumeva, in particolare, il ricorrente che, se la
banca avesse visionato i filmati delle telecamere di
sicurezza subito dopo la sua denuncia, essa avrebbe
immediatamente compreso la reale natura dell’accaduto ed avrebbe potuto così bloccare la carta,
prima che terzi potessero portare a compimento i
loro intenti criminosi.
In accoglimento del ricorso, la S.C. cassa la sentenza della Corte d’Appello con rinvio al giudice
di secondo grado, per rimettere allo stesso la valutazione della correttezza della condotta della banca
secondo il parametro non applicato in occasione
della sua prima pronuncia, cioè, avendo riguardo
alla diligenza specifica esigibile dalla banca, che si legge in sentenza - è chiamata ad adottare misure
sicure idonee a prevenire eventuali manomissioni,
“nonostante l’intempestività della denuncia”.
L’occasionalità necessaria: un limite non
limite alla responsabilità della banca
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La sent. della Cass. n. 25442/2015 in commento
costituisce un chiaro esempio degli approdi di questo filone interpretativo (12).
Neppure la circostanza che, mediante il suo comportamento, espressione tipica di una ben precisa
fattispecie di reato (l’appropriazione indebita), il
preposto abbia inteso procurare solo a se stesso uno
specifico profitto economico è sufficiente per mandare esente la banca dalla co-responsabilità patrimoniale che le ascrive la previsione dell’art. 31
TUIF, se l’espletamento da parte del preposto dell’incarico affidatogli dalla banca abbia reso possibile o anche solo agevolato la condotta illecita.
Evidente la deriva verso un sistema di responsabilità oggettiva della banca per le conseguenze pregiudizievoli della condotta - anche se dolosa - del preposto all’esercizio dell’attività finanziaria.
Movimento che, con riferimento al caso preso in
esame, viene solo molto limitatamente ridimensionato dall’accenno della sentenza in commento alla
mancata adeguata vigilanza della banca sul suo preposto (13).
Ma vi è di più.
La pronuncia in parola sancisce, infatti, il principio
per il quale neppure il fatto proprio del cliente
danneggiato è sempre sufficiente ad elidere quel
nesso di occasionalità necessaria che costituisce la
matrice propria della responsabilità della banca per
i fatti del suo promotore.
Se quest’ultimo accetta la consegna di denaro in
contanti da parte della cliente, afferma la pronuncia in commento, egli commette senz’altro una
violazione della normativa di settore e ne risponderà nelle sedi opportune e di fronte alle autorità
competenti, ma per ciò solo il cliente incauto che
sia stato truffato non può rimanere privo di tutela.
Se è vero che senza la condotta imprudente del risparmiatore il promotore non si sarebbe potuto trovare nelle condizioni di fatto idonee a consentirgli
di portare a termine l’appropriazione indebita, sembra suggerire la Corte di cassazione, non sarebbe
però coerente con i principi dell’ordinamento immaginare di sollevare il responsabile dell’azione de-
littuosa dall’obbligo di rispondere delle conseguenze che da essa derivano, per il fatto di avere agito
in danno di un risparmiatore non sufficientemente
avveduto ed in violazione della normativa antiriciclaggio.
La soluzione rinvenuta dalla giurisprudenza di merito e confermata dalla pronuncia in commento all’esigenza di tutelare un soggetto così debole, tenendo comunque in debita considerazione della
sua condotta attiva che è evidentemente non irrilevante rispetto alla concatenazione causale dei
fatti che conduce all’appropriazione indebita del
promotore, è quella del riconoscimento del concorso del fatto colposo del danneggiato e della riduzione del risarcimento allo stesso spettante in maniera
proporzionale all’incidenza della sua imprudenza
nell’evolversi generale della vicenda.
Guardando ai principi generali in tema di responsabilità conseguente ad un inadempimento contrattuale, sembrano potersi esprimere almeno due
considerazioni a proposito della sentenza in commento.
La prima è che la norma speciale dettata dall’art.
31 TUIF sembra quanto mai lontana dal criterio
per l’individuazione del danno risarcibile nell’inadempimento contrattuale che - come riaffermato
anche recentemente dalla Corte di cassazione nella
pronuncia richiamata supra - resta quello della regolarità causale rapportato al principio di causalità
efficiente ed in applicazione del quale si sarebbe
dovuta rinvenire una causa prossima da sola sufficiente a produrre l’evento del depauperamento del
patrimonio del risparmiatore, se non già nella condotta imprudente del risparmiatore, quantomeno
nel comportamento del preposto dolosamente finalizzato a commettere il reato di appropriazione indebita ai danni dei malcapitati di turno.
La seconda, invece, è che il risultato della suddetta
deroga normativa ai principi generali, unitamente
all’interpretazione estensiva della previsione dell’art. 31 TUF posta in essere dalla giurisprudenza,
sono evidentemente rispondenti a contingenti ragioni di politica del diritto nelle scelte allocative
(12) Sul tema si rinvia anche a A. Stabilini, La responsabilità
solidale della banca per gli illeciti compiuti dall’intermediario finanziario, in Società, 2012, 2, 223, nota a Trib. Milano, Sez.
VIII, 13 dicembre 2011.
(13) Ad un’attenta lettura, la sentenza in parola non manca,
infatti, di sottolineare anche che la condotta della banca, nel
caso di specie, era stata particolarmente negligente rispetto ai
doveri di vigilanza che le competevano sui propri preposti (circostanza dimostrata dal fatto che molti risparmiatori, nello
stesso periodo, erano stati truffati alla medesima maniera). Tali
considerazioni non costituiscono però il fulcro della decisione
e sono semmai solo argomentazioni ad adiuvandum. A questo
proposito si osserva, peraltro, che, come statuito dalla Corte di
cassazione sin dalla sentenza della sua III Sezione del 28 agosto 1995, n. 9100, “la responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito
e il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell’illecito
stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del
tutto da una culpa in vigilando o in eligendo del datore di lavoro
ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza
di colpa”.
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Risarcimento del danno
dei danni, ma sono rese possibili grazie all’assenza,
nel diritto civile, contrariamente a quanto si verifica con l’art. 41 c.p., di una nozione generale del
“nesso causale” (14).
Così, in un contesto quale è quello del mercato
mobiliare degli investimenti, connotato per sua natura da tecnicismi spesso davvero incomprensibili
per il quisque de populo, si allargano le maglie del
danno risarcibile, garantendo un ristoro alle vittime di determinate condotte, anche delittuose, ricorrendo, tra l’altro, al concetto di occasionalità
necessaria (15).
La diligenza dell’accorto banchiere
Leitmotiv che accomuna le due decisioni è proprio
l’attenzione posta sulla posizione del soggetto più
debole del rapporto contrattuale.
In questo caso, tuttavia, la chiave di volta che serve a dare risposta a tale esigenza di tutela in concreto non è rappresentata da una norma speciale
che imponga alla banca di rispondere del fatto altrui, come accade, invece, in tema di intermediazione finanziaria e creditizia.
Fulcro del percorso argomentativo, in questo caso,
è ipotizzare l’innalzamento del livello di diligenza
esigibile in concreto dal professionista, attraverso
l’elaborazione della figura dell’accorto banchiere (16) e rimettere al giudice di merito il compito
di verificare se la banca convenuta, nel caso sotto(14) Per un’analisi sistematica del tema si rinvia a L. Berti, Il
nesso di causalità in responsabilità civile, Milano, 2013, M. Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, III ed., Padova, 2012 e M. Infantino,
La causalità nella responsabilità extracontrattuale. Studio di diritto comparato, Napoli, 2012 e, più risalenti, P. Forchielli, Il rapporto di causalità nell’illecito civile, Padova, 1960, F. Realmonte,
Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno,
Milano, 1967 e P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1967.
Sul rapporto tra la nozione di nesso di causalità e la politica
del diritto, poco più risalente, a L. Nocco Il sincretismo causale
e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria, Torino, 2010. L’assenza di una nozione unitaria di nesso di causalità ha favorito l’affermarsi di contrapposte teorie giurisprudenziali in ordine alla rilevanza giuridica delle concause naturali
nelle ipotesi di responsabilità contrattuale da esercizio delle
professioni mediche e sanitarie. Su questo tema, in particolare, si segnalano Cass., Sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975, in
Corr. giur., 2009, 12, 1653 con nota di B. Tassone, Concause,
orientamenti recenti e teorie sulla causalità, in Corr. giur., 2009,
12, 1653 con nota di M. Bona, Più probabile che non e concause naturali: se, quando ed in quale misura possono rilevare gli
stati patologici pregressi della vittima e in questa Rivista 2012,
II, 149 con nota di L. Nocco, Rilevanza delle concause naturali
e responsabilità proporzionale: un discutibile revirement della
Cassazione e Zorzit Il problema del concorso di fattori naturali e
condotte umane - Il nuovo orientamento della cassazione, nonché Cass., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991, in Corr. giur.,
2011, 1672 con nota di M. Bona, La Cassazione rigetta il modello della causalità proporzionale con un decalogo impeccabile
Danno e responsabilità 8-9/2016
posto al suo esame, abbia adottato tutte le misure
idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l’intempestività
della denuncia.
Uscito sconfitto nei due gradi di giudizio con sentenze che, in definitiva, avevano ascritto alla sua
incauta condotta l’intera responsabilità della disavventura nella quale era incorso, per avere egli con
ritardo denunciato alla banca il trattenimento della sua carta da parte dello sportello bancomat, per
essersi egli fatto carpire da terzi il codice di sicurezza della carta di debito e per avere infine anche taciuto tale circostanza all’atto della tardiva denuncia dell’accaduto, l’anziano risparmiatore di cui alla
pronuncia in parola vede così riaccendersi le speranze di un possibile accoglimento della sua domanda.
Non sempre, statuisce in sostanza la S.C., la condotta criminosa del terzo costituisce antecedente
logico da se solo sufficiente ad interrompere la catena causale che dall’assunzione da parte della banca dell’obbligo di rendere il servizio bancomat porta all’evento dannoso (il prelievo illegittimo e non
autorizzato di somme dal conto corrente del cliente).
Né per la pronuncia in commento può dirsi sempre
sufficiente ad interrompere tale connessione la circostanza che il correntista stesso, con la propria
condotta, abbia in qualche modo facilitato il terzo
sulla valutazione degli stati pregressi, in Nuova giur. civ. comm.,
2012, I, 180 con nota di R. Pucella, Concorso di cause umane e
naturali: la via impervia tentata dalla Cassazione.
(15) È il c.d. deeper pocket argument. Sul tema della rilevanza della condotta del risparmiatore ai fini dell’accertamento
della responsabilità dell’intermediario si rimanda, molto recentemente, a Cass., Sez. I, 13 maggio 2016, n. 9892, per la quale
qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad
alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei
confronti del cliente, e questi non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla
normativa di settore, non è configurabile un concorso di colpa
del medesimo cliente nella produzione del danno, neppure per
non essersi egli stesso informato della rischiosità dei titoli acquistati. La pronuncia è pubblicata in D&G, 2016, 23, 38, con
nota di G. Tarantino, Investimento in fumo: responsabilità esclusiva dell’intermediario per mancata acquisizione degli obiettivi di
rischio del cliente.
(16) In tema di diligenza della banca si rimanda a Cass.,
Sez. III, 24 settembre 2009, n. 20543, in Guida dir., 2009, 48,
56 e Cass., Sez. III, 20 marzo 2014, n. 21613, in Corr. giur.,
2014, 906 secondo le quali la diligenza di tale soggetto deve
essere “qualificata dal maggior grado di prudenza ed attenzione che la connotazione professionale dell’agente consente di
richiedere”. Conforme anche Cass., Sez. III, 20 settembre
2013, n. 21613, in CED. Per un’analisi della giurisprudenza dell’ABF si rimanda a V. Sangiovanni, Bancomat, carte di credito e
responsabilità civile nella giurisprudenza dell’ABF, in La resp.
civ., 2012, 697.
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nel raggiungimento del proprio fine illecito (facendosi ingenuamente carpire il codice di sicurezza
della propria carta).
Occorre verificare se fosse esigibile dalla banca, sia
con riferimento alle attività nelle quali essa estrinseca l’esecuzione di propri impegni contrattuali in
senso stretto, sia con riferimento ad ogni ulteriore
atto o operazione oggettivamente riferibile ai servizi contrattualmente forniti, una condotta di diligenza tale da comprendere anche la specifica vigilanza sulle truffe condotte mediante l’alterazione
degli sportelli bancomat, a danno dei propri clienti.
Se si dovesse astrarre da questo principio una norma di carattere generale, quella che più e prima di
ogni altra sembrerebbe adattarsi alla suddetta massima sarebbe quella dettata dall’art. 2050 c.c. in tema però di responsabilità extracontrattuale.
Eppure la giurisprudenza, che a lungo ha dibattuto
in ordine alla possibilità di qualificare l’attività della banca come un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. e, conseguentemente, sulla stessa
applicabilità della disposizione in parola ad ipotesi
come quelle del pishing o con riferimento alle problematiche connesse all’uso dell’home banking (17),
ha infine dato risposta, giustamente negativa, a
questo interrogativo (18).
La sentenza in parola, del resto, è chiara nel qualificare come di natura contrattuale l’eventuale responsabilità della banca nel caso sottoposto al suo
esame (19) e conferma al di là di ogni possibile
dubbio l’irriducibilità del caso de quo allo schema
della responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa.
Ciò nonostante è impossibile non percepire come
l’esigenza di tutelare i soggetti più deboli del sinallagma contrattuale esaminato conduca di fatto all’affermazione, in via giurisprudenziale, di una forma di responsabilità quasi oggettiva a carico del
contraente più forte, che si spinge fino a suggerire
l’idea di una banca che deve garantire “la sicurezza
del servizio da manomissioni” e che rimane responsabile anche laddove l’altro contraente tenga una
condotta tutt’altro che parimenti ispirata alla buona fede nell’esecuzione del contratto, ritardando
nella denuncia dell’accaduto o omettendo di riferire di avere consentito a terzi di venire a conoscenza del codice di sicurezza della carta che gli è stata
sottratta (20).
(17) Cfr. Trib. Palermo 20 dicembre 2009, in Resp. civ.,
2011, 1, con nota di C. Iurilli, Conto corrente on line e furto di
identità. La controversa applicazione dell’art. 2050 c.c. Si segnala a questo proposito però anche la più recente Trib. Firenze
20 maggio 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 2, 10137,
con nota di A. Salomoni, Responsabilità dell’operatore bancario
nei confronti del cliente in caso di addebito non autorizzato su
conto corrente on line. Quest’ultima pronuncia riconduce la
fattispecie nell’alveo della responsabilità contrattuale, attraverso il richiamo al D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 di recepimento
della Dir. comunitaria CE 64/2002 sulla disciplina dei servizi di
pagamento nel mercato interno, per quanto, ratione temporis,
non applicabile al caso sub judice.
(18) Così, Cass. 11 febbraio 2009, n. 3350, in questa Rivista,
2009, 448 e in Resp. civ., 2009, 806.
(19) Eventuale in quanto l’accertamento in concreto dell’avere la banca rispettato gli standard di diligenza che le sono richiesti è rimesso al giudice di merito.
(20) Sulla responsabilità del titolare della carta bancomat si
rinvia a M. Sella, Commento sub Art. 1322, in P. Cendon (a cura di), Commentario al codice civile, Milano, 2009, 270.
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Danno e responsabilità 8-9/2016
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Giurisprudenza
Danno non patrimoniale
Equa riparazione
L’ente e il processo “lumaca”:
il danno morale soggettivo
alla velocità della luce
Cassazione Civile, Sez. VI - 2, 12 gennaio 2016, n. 322 - Pres. Petitti - Est. Petitti - C.D. Trade
S.r.l. c. Ministero della Giustizia
In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89/2001, anche
per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è - tenuto conto dell’orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza
della Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria della violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo avviene perché la lesione del menzionato diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente e ai suoi membri disagi e turbamenti di carattere
psicologico non diversi dal danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone
fisiche. Ne consegue il carattere superfluo della valutazione concernente la concreta e puntuale sofferenza di
amministratori e preposti: una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere il danno non patrimoniale esistente, sempre che non risulti la
sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno
sia stato patito dalla persona giuridica.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass. 4 giugno 2013, n. 13986; Cass. 1° dicembre 2011, n. 25730; Cass. 18 febbraio 2011, n. 3993; Cass. 10 gennaio 2008, n. 337; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2246; Cass. 29 marzo 2006, n. 7145; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094;
Cass. 30 agosto 2005, n. 17500; Cass. 8 giugno 2005, n. 12015; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3396; Cass. 21 luglio
2004, n. 13504; Cass. 16 luglio 2004, n. 13163.
Difformi
Cass. 30 settembre 2004, n. 19647; Cass. 2 luglio 2004, n. 12110; Cass. 2 luglio 2004, n. 12112; Cass. 10 aprile
2003, n. 5664; Cass. 2 agosto 2002, n. 11600; Cass. 2 agosto 2002, n. 11573.
La Corte (omissis).
Ritenuto in fatto
che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di
Campobasso il 20 luglio 2012, la C.D. TRADE s.r.l.
chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al
pagamento del danno sofferto a causa della irragionevole durata di una controversia di lavoro, proposta nei
suoi confronti nel 2001, definita con sentenza del maggio 2012, dopo undici anni;
che l’adita Corte d’appello rigettava la domanda, rilevando che:
parte del giudizio presupposto era un’altra società; la ricorrente aveva semplicemente dichiarato che la identità
tra essa e l’altra società, senza tuttavia dare alcuna significazione delle modalità del mutamento; la ricorrente,
pur sollecitando il riconoscimento del danno morale,
non aveva allegato la sussistenza di una sofferenza psichica derivante dalla durata del processo;
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che per la cassazione di questo decreto C.D. TRADE
s.r.l. ha proposto ricorso, affidato a due motivi;
che l’intimato Ministero della giustizia non si costituiva;
che essendosi rilevata la nullità della notificazione del
ricorso perché effettuata presso l’Avvocatura distrettuale, all’udienza del 17 febbraio 2015 è stata disposta la
rinnovazione della notificazione del ricorso presso l’Avvocatura generale dello Stato;
che il ricorrente ha tempestivamente adempiuto, provvedendo altresì a depositare tempestivamente l’atto notificato;
che il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.
Considerato in diritto
che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;
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Danno non patrimoniale
che con il primo motivo la ricorrente deduce violazione/falsa applicazione degli artt. 100, 115, 116 e 167
c.p.c., nonché omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti,
sostenendo che nel giudizio dinnanzi alla Corte d’appello aveva prodotto la visura camerale dalla quale emergeva la identità di essa ricorrente con la CD Informatica s.r.l., che era stata parte del giudizio presupposto;
che da tale visura emergeva la identità tra le due società, avendo la CD TRADE mantenuto la partita IVA e
il codice fiscale della precedente società, la quale aveva
sostanzialmente mutato denominazione;
che, d’altra parte, nel mentre non vi era alcun onere di
giustificazione del mutamento, come invece ritenuto
dalla Corte d’appello, la circostanza non aveva formato
oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa
erariale;
che con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione/falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e
degli artt. 6, 32 e 41 della CEDU, anche in rapporto
agli artt. 10 e 11 Cost., oltre che alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, nonché violazione/falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 1223,
1226, 1227, 2056, 2059 e 2697 c.c., ricordando che nella giurisprudenza di questa Corte, conformemente a
quella della Corte europea, si è affermato il principio
per cui il danno non patrimoniale costituisce conseguenza normale della violazione del termine di durata
ragionevole, salvi i casi in cui emerga positivamente
l’assenza di pregiudizio; principio, questo, che nella giurisprudenza europea e in quella di legittimità si ritiene
applicabile anche alle persone giuridiche e agli enti collettivi;
che, prosegue la ricorrente, per la persona giuridica la
questione della allegazione del pregiudizio e del danno
non patrimoniale si pone nei medesimi termini che per
le persone fisiche; e ciò tanto più in un caso, come
quello di specie, in cui la società di capitali è a socio
unico che ne è anche l’amministratore;
che deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di
inammissibilità del controricorso, formulata dalla difesa
del ricorrente in pubblica udienza, atteso che il controricorso è stato notificato nel domicilio eletto in ricorso;
che il primo motivo di ricorso è fondato;
che, invero, deve escludersi che vi sia per la società
che, assuma di identificarsi con una precedente società
un onere di motivazione sulle ragioni del mutamento
della denominazione, atteso che ciò che rileva sono gli
elementi che consentano di affermare la identità dei
due soggetti;
che, nella specie, dalla visura camerale prodotta dalla
ricorrente emerge la identità di partita IVA e di codice
fiscale tra CD Informatica e CD TRADE s.r.l., sicché
appare evidente l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello nel ritenere che non fosse stata documentata la
identità tra la società che era stata parte del giudizio
presupposto e quella che ha agito per l’equa riparazione;
che il secondo motivo è del pari fondato;
che, invero, questa Corte ha affermato che, in tema di
equa riparazione per irragionevole durata del processo ai
856
sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, anche per le
persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso
come danno morale soggettivo correlato a turbamenti
di carattere psicologico, è - tenuto conto dell’orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della
Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorché
non automatica e necessaria, della violazione del diritto
alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia del diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa del disagi e del turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto, solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, e ciò non
diversamente da quanto avviene per il danno morale da
lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui
persone fisiche (cfr., fra le altre, Cass. n. 25730 del
2011; Cass. n. 13986 del 2013);
che ciò rende superflua la valutazione circa la concreta
e puntuale sofferenza di amministratori e preposti nel
corso del giudizio presupposto perché tali soggetti non
potevano che essere interessati, in quanto organi rappresentativi ed esecutivi della società, alla sollecita trattazione del giudizio di cui la CD Informatica s.r.l. era
parte sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità
di un danno in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della
violazione -, una volta accertata e determinata l’entità
della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di
circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla società ricorrente;
che, dunque, il ricorso deve essere accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato;
che la causa va rinviata per nuovo esame alla Corte
d’appello di Campobasso, in diversa composizione, la
quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato
e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Campobasso, in diversa
composizione.
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Giurisprudenza
Danno non patrimoniale
IL COMMENTO
di Silvia Monti (*)
Se viene superato il termine di ragionevole durata del processo, si presume il danno morale soggettivo in capo all’ente, imputandogli la sofferenza di amministratori e membri.
Con la pronuncia in commento, la Cassazione si conforma con eccessiva leggerezza a un orientamento consolidato, senza valutarne i profili di criticità.
Una controversia di lavoro durata la bellezza di undici anni. Un classico italiano verrebbe da dire.
La ricorrente, C.D. Trade S.r.l., però, non vuole
adeguarsi alla patologia temporale del sistema: decide di sfruttare le opportunità concesse dalla L. 24
marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”) (1) e, decorsi due mesi dalla definitività della decisione (2),
conviene il Ministero della Giustizia dinanzi alla
Corte d’Appello di Campobasso (3) per sentirlo
condannare al “pagamento del danno” (4) da irragionevole durata del processo (5).
Coraggio premiato? Assolutamente, no.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Si noti che la L. 24 marzo 2001, n. 89, comunemente
denominata “legge Pinto” dal nome del senatore primo firmatario del disegno, non è stata elaborata con il precipuo intento
di tutelare il diritto alla ragionevole durata del processo, diritto
sancito dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e - a seguito della novellazione operata dalla L. Cost. 23 novembre 1999,
n. 2 - dall’art. 111 Cost. Il vero motivo che ha portato al varo
del menzionato provvedimento normativo consiste nel desiderio di porre un argine rispetto ai numerosissimi ricorsi di cittadini italiani al Tribunale Europeo dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo con richiesta di condanna del nostro Stato al risarcimento dei danni subiti per l’eccessiva durata dei procedimenti
giudiziari.
Sul punto, ampiamente condiviso in dottrina, si vedano, ex
multis: G. Ponzanelli, “Equa riparazione” per i processi troppo
lenti, in questa Rivista, 2001, 569; C. Consolo, Disciplina “municipale” della violazione del termine di ragionevole durata del
processo: strategie e profili critici, in Corr. giur., 2001, 569; E.
Benigni, Il diritto all’equa riparazione nel “giusto” processo italiano, in Riv. dir. proc., 2004, 630; G. Visintini, La responsabilità
dello Stato da ingiusto processo, in Contr. e impr., 2008, 111; V.
Loccisano, Equa riparazione per irragionevole durata del giudizio ed illecito civile, in Resp. civ., 2008, 251; A. Venturelli, La responsabilità dello Stato per irragionevole durata del processo, in
Resp. civ., 2009, 249; F.R. Fantetti, Il danno non patrimoniale
per irragionevole durata del processo, in Resp. civ., 2009, 506.
Peraltro, un’accurata analisi degli effetti negativi prodotti
dalla c.d. “legge Pinto”, trascorsi undici anni dalla sua entrata
in vigore, è svolta da L. Salvato, La disciplina dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo nella morsa della
giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle specificità del
nostro ordinamento, in Corr. giur., 2012, 993.
(2) Si osservi che l’art. 4, L. 24 marzo 2001, n. 89 prevede:
“La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di
decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che
conclude il procedimento è divenuta definitiva”.
(3) Si ricordi che l’art. 3, comma 1, L. 24 marzo 2001, n. 89,
dispone: “La domanda di equa riparazione si propone dinanzi
alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale a
giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pendente il procedimento nel cui ambito la violazione si
assume verificata”.
Per un’accurata analisi delle questioni giurisprudenziali relative al comma primo dell’art. 3 della c.d. “legge Pinto”, si veda
L. Salvato, Profili controversi dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo: il punto sulla giurisprudenza, in
Corr. giur., 2010, 881.
Inoltre, per completezza, si noti che il D.L. 22 giugno 2012,
n. 83 e la relativa legge di conversione, nel rimodellare il procedimento ex lege Pinto, hanno modificato l’art. 3 della L. 24
marzo 2001, n. 89. Tuttavia, hanno lasciato invariato il profilo
attinente alla competenza per territorio. Sul punto, si consideri
M. Mazzeo, Risarcimento per irragionevole durata dei processi:
cambia la legge Pinto, in Resp. civ., 2012, 634.
(4) L’espressione “pagamento del danno” è contenuta proprio nella sentenza oggetto di commento. In tal modo, la Corte
di Cassazione dimostra di avallare la posizione della dottrina
maggioritaria che, già all’indomani della pubblicazione della
c.d. “legge Pinto”, aveva riconosciuto natura risarcitoria all’equa riparazione. Sul punto, si vedano: G. Ponzanelli, “Equa riparazione”, cit., 569; E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione
per l’eccessiva durata del processo, in S. Chiarloni (a cura di),
Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata
dei processi, Torino, 2002, 81 ss.; F. Petrolati, I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d.
“legge Pinto”), Milano, 2005, 15; R. Partisani, L’irragionevole
durata del processo nel pluralismo delle fonti e nel sistema delle
tutele, in Resp. civ. prev., 2011, 480.
Contra G. Tarzia, Sul procedimento di equa riparazione per
violazione del termine ragionevole del processo, in Giust. civ.,
2001, 2431; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata
del giusto processo, Milano, 2002, 39; D. Chindemi, Legge Pinto: questioni processuali, sostanziali e di “etica del diritto”, in
Resp. civ. prev., 2008, 690.
(5) Per quanto concerne la durata ragionevole del processo,
funzione dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi legittimi (cfr. Corte cost. 22 ottobre 1999, in
Giur. it., 2000, 1127), si ricordi che il D.L. 22 giugno 2012, n.
83 ha legificato, in linea di massima, gli standard fissati dalla
giurisprudenza. Così facendo, da un lato, ha escluso la possibilità di considerare irragionevole il processo protrattosi per un
periodo non superiore a quello indicato; dall’altro, ha mantenuto correttamente ferma la possibilità di ritenere ragionevole
un giudizio dalla durata maggiore rispetto a quella normativamente prevista.
Infatti, l’art. 55, comma 1, lett. a) ha inserito nell’art. 2 della
c.d. “legge Pinto”: i) il comma secondo bis, sulla cui base “si
considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1
se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado,
Il caso
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Danno non patrimoniale
Vengono rigettate le domande proposte, sul presupposto che la società: a) si era limitata a dichiarare la propria identità rispetto a C.D. Informatica
S.r.l., parte del giudizio presupposto, senza fornirne
alcuna evidenza; b) aveva sollecitato il riconoscimento del danno morale, ma non aveva allegato la
sussistenza di una sofferenza psichica derivante dalla durata del processo.
Non finisce qui, però.
Persa la prima battaglia, C.D. Trade S.r.l. non si
arrende: ancora fiduciosa nella vittoria della guerra, propone ricorso in Cassazione, formulando due
motivi di censura rispetto alla pronuncia emanata.
Nello specifico, la società deduce che la Corte
d’Appello molisana: a) non aveva tenuto conto
della produzione della visura camerale, da cui risultava la completa identità tra la C.D. Informatica
S.r.l. e la C.D. Trade S.r.l.; b) aveva omesso di
considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità e quella europea, il danno non patrimoniale
costituisce - anche per le persone giuridiche e gli
enti collettivi - una conseguenza normale della
violazione del termine di durata ragionevole del
processo, tanto da essere sempre riconosciuto, salvo
che ne emerga positivamente l’assenza.
La Suprema Corte avalla in toto le prospettazioni
della ricorrente. Ribadisce il proprio orientamento
in materia di danno non patrimoniale da violazione del diritto inviolabile a una durata ragionevole
del processo e ne esplicita la ragione: il superamento del termine di ragionevole durata provoca alle
persone preposte alla gestione dell’ente e ai suoi
membri disagi e turbamenti di carattere psicologico
analoghi al danno morale da lunghezza eccessiva
del processo subito dagli individui persone fisiche.
Il decreto impugnato viene, quindi, cassato e la
causa rinviata alla Corte d’Appello di Campobasso
in diversa composizione, per la relativa determinazione del danno.
di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera
iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione. Si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni.(...)”; ii) il comma secondo ter, ai
sensi del quale “si considera comunque rispettato il termine
ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in
un tempo non superiore a sei anni”. Inoltre, ha modificato l’art.
2, comma 2, che ora stabilisce: “Nell’accertare la violazione il
giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il
procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato
a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”.
(6) Si veda, in particolare, A. De Cupis, Il danno, Milano,
1966, 51: “Danno non patrimoniale, conformemente alla sua
negativa espressione letterale, è ogni danno privato che non
rientra nel danno patrimoniale, avendo per oggetto un interesse non patrimoniale, vale a dire relativo a un bene non patrimoniale. (...) se si vuole dare dei danni non patrimoniali una
nozione logica e completa non bisogna limitarli al campo delle
sofferenze fisiche o morali; ma concepirli invece in modo da
comprendere tutti i danni che non rientrano nell’altro gruppo,
quello dei danni patrimoniali”.
(7) Si noti che il danno non patrimoniale, già sotto il vigore
del Codice civile del 1865 - unico a contemplarlo, data la mancata configurazione della figura nell’allora vigente codice pe-
nale - era identificato con il danno morale soggettivo di tradizione romanistica, comprensivo del dolore e delle sofferenze
conseguenti a un comportamento altrui. Sul punto, si vedano:
F. Carnelutti, Il danno e il reato, Padova, 1926, 38; C.F. Gabba,
Ancora sul risarcimento dei danni cosiddetti morali, in Giur. it.,
1912, I, 837; G. Pacchioni, Del risarcimento dei danni morali, in
Riv. dir. comm., 1911, 241; C. Grassetti, In tema di risarcibilità
del danno non patrimoniale, in G. Pacchioni (a cura di), Corso
di diritto civile - Delle leggi in generale, Torino, 1933, 296.
Peraltro, molti Autori hanno considerato favorevolmente - fino a tempi relativamente recenti - l’identificazione del danno
non patrimoniale con il mero danno morale soggettivo. Ad
esempio, si considerino: M. Paradiso, Il danno alla persona, Milano, 1981, 135; G. Visintini, Intervento, in Dir. Inf., 1986, 766;
Ead., I fatti illeciti, Padova, 1997, I, 533.
(8) Come ha osservato Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, in
Foro it., 1986, 2053, il fatto che - nelle intenzioni del legislatore
penale del 1930 - il danno non patrimoniale ex art. 185, comma secondo, c.p. costituisse l’equivalente del danno morale
soggettivo è reso evidente dalla Relazione ministeriale al progetto definitivo del codice. Del resto, ivi si afferma: “Quanto alla designazione del concetto, ho creduto che la locuzione danno non patrimoniale sia preferibile a quella di danno morale,
tenuto conto che spesso nella terminologia corrente la locuzione danno morale ha un valore equivoco e non riesce a differenziare il danno morale puro da quei danni che, sebbene abbiano radice in offese alla personalità morale, direttamente o
indirettamente menomano il patrimonio” (cfr. A. Rocco, Rela-
858
Il danno non patrimoniale “scorre come
un fiume”: dalla persona fisica all’ente
La sentenza in commento rende necessarie alcune
preliminari considerazioni sulla natura del danno
non patrimoniale e, quindi, sui soggetti che possono ottenerne il ristoro.
Nonostante qualche autorevole voce dottrinale,
fin dalla metà degli anni Sessanta, avesse sottolineato la necessità di configurare il danno non patrimoniale in termini residuali rispetto a quello patrimoniale (6), la giurisprudenza ha fatto coincidere per molto tempo il pregiudizio risarcibile ex art.
2059 c.c. soltanto con il danno non patrimoniale
menzionato dall’art. 185, comma 2, c.p.: esso era
identificato con il c.d. “danno morale soggettivo”,
ossia con il patema d’animo, la sofferenza interiore,
il perturbamento psichico di natura meramente
emotiva cagionato da un illecito penale. Tale concezione - certamente conforme alla tradizione (7) e
agli intenti del legislatore penale del 1930 (8) - implicava una logica conseguenza: soltanto le persone
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Danno non patrimoniale
fisiche potevano patire il nocumento indicato dall’art. 2059 c.c. e, di conseguenza, ottenerne il risarcimento (9).
Ma, per dirla con Eraclito, “tutto scorre come un
fiume” e anche la concezione di danno non patrimoniale non fa eccezioni (10).
Una delle tappe più importanti in materia è, senza
dubbio, costituita da Cass. 10 luglio 1991, n.
7642 (11).
Tale pronuncia, emessa in esito alla controversia
che contrapponeva lo Stato italiano a una serie di
soggetti coinvolti nella ben nota vicenda delle tangenti corruttive del c.d. “Scandalo Lockheed” (12),
si è occupata ex professo proprio del “profilo problematico, di configurabilità (...) di un danno non patrimoniale nei confronti della persona giuridica” (13). In proposito, ha affermato che il danno
non patrimoniale comprende tutte le conseguenze
pregiudizievoli di un illecito non valutabili in termini monetari, ivi inclusi alcuni effetti lesivi che
prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato. Dunque, anche gli enti personificati, in
quanto titolari di diritti non patrimoniali (come
quelli a tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale), possono subire un pregiudizio
non patrimoniale dalla loro aggressione.
La sentenza ha avuto un immediato seguito.
Basti pensare che Cass. 5 dicembre 1992, n.
12951, riprendendo persino il linguaggio della decisione appena citata, ha fissato il concetto di danno non patrimoniale come comprensivo di ogni tipo di pregiudizio di matrice non economica riferibile alla persona o, meglio, al soggetto di diritto (14).
zione ministeriale al progetto definitivo di un nuovo codice penale, Roma, 1929, 203).
(9) Giova rilevare che il diretto e pressoché esclusivo collegamento tra il danno non patrimoniale e il reato faceva sì che
il risarcimento del pregiudizio in questione assumesse una funzione sanzionatoria prima che riparatoria (cfr., ex plurimis, M.
Astone, Danni non patrimoniali: art. 2059 c.c., in Commentario
al codice civile Schlesinger - Busnelli, Milano, 2012, 239).
La prospettiva è completamente cambiata a seguito della
reinterpretazione in chiave costituzionale dell’art. 2059 c.c.
chiaramente sancita - a partire dal 2003 - dalla Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (v. infra).
Del resto, l’applicazione del principio di integrale riparazione
al risarcimento del danno alla persona ha portato autorevoli
esponenti dottrinali a ritenere che il risarcimento del danno
non patrimoniale avesse una funzione esclusivamente riparatoria: nessuna funzione deterrente, nemmeno ancillare (cfr., ex
multis: G. Miotto, La funzione del risarcimento dei danni non patrimoniali nel sistema della responsabilità civile, in Resp. civ.
prev., 2008, 188; C. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano:
danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni
punitivi, danno c.d. esistenziale, in Eur. e dir. priv., 2008, 315;
Id., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 283; P. Fava,
Funzione sanzionatoria dell’illecito civile? Una decisione costituzionalmente orientata sul principio compensativo conferma il
contrasto tra danni punitivi e ordine pubblico, in Corr. giur.,
2009, 525). In senso contrario, altri Autori hanno sottolineato
che una funzione di general deterrence è naturalmente propria
del risarcimento dei danni non patrimoniali: ferma la principale
funzione riparatoria del risarcimento, l’elemento sanzionatorio
può essere preso in considerazione in via sussidiaria in sede di
determinazione del quantum (cfr., a titolo meramente esemplificativo: G. Ponzanelli, L’attualità del pensiero di Guido Calabresi: un ritorno alla deterrenza, in Nuova giur. civ. comm., 2006,
295; E. Navarretta, Funzioni del risarcimento e quantificazione
dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. prev., 2008, 505).
A fronte di una dottrina divisa, il sistema giurisprudenziale
italiano ha preferito tendenzialmente privilegiare il momento
soltanto riparatorio del risarcimento del danno non patrimoniale, accantonando quasi completamente - almeno a parole - la
funzione preventivo-sanzionatoria della responsabilità civile.
Sul punto, si veda, da ultimo, Trib. Milano 10 luglio 2015, in
questa Rivista, 2015, 1029: “Non sussiste, accanto alla tipica
funzione reintegratrice, una funzione di general deterrence della tutela risarcitoria, che abbia ricadute pratico-applicative in
punto di quantificazione della somma riparatoria. La tutela rimediale ha infatti carattere compensativo (e non punitivo) in
quanto tende a reintegrare il danno provocato, e di conseguenza la quantificazione del danno non può fare riferimento a
dati che si collochino fuori dalla lesione”.
(10) Per approfondimenti sul ristoro del danno non patrimoniale agli enti, si vedano: A. Fusaro, I diritti della personalità dei
soggetti collettivi, Padova, 2002; C. Perlingieri, I diritti della personalità nel fenomeno associativo, Napoli, 2002; P. Perlingieri,
La persona e i suoi diritti, Napoli, 2005.
(11) La pronuncia si legge in: Giust. civ., 1991, 1955; Resp.
civ. prev., 1992, 89, con nota di A. Guiotto, Configurabilità e
quantificazione della riparazione del danno non patrimoniale allo
Stato; in Giur. it., con nota di L. Caso, Lo Stato come soggetto
passivo dei danni non patrimoniali.
(12) In questa sede, basti ricordare che il c.d. “Scandalo
Lockheed” riguardava gravi casi di corruzione avvenuti negli
anni settanta in diversi Stati, quali Paesi Bassi, Germania,
Giappone e Italia.
Nel 1976 l’azienda statunitense Lockheed ammise di aver
pagato tangenti a politici e militari stranieri per vendere in altri
Paesi i propri aerei militari. Nei Paesi Bassi fu coinvolta la monarchia, mentre in Germania, Giappone e Italia i corrotti risultarono essere le strutture preposte alle valutazioni tecnico-militari dei ministeri della difesa, i ministri della difesa e, soltanto
negli ultimi due Stati, anche i primi ministri.
(13) Così, Cass. 10 luglio 1991, n. 7642, cit.
(14) Del resto, Cass. 5 dicembre 1992, n. 12951, in Foro it.,
1994, 561 ha affermato: “Affrontando il problema del risarcimento del danno non patrimoniale subito da una persona giuridica (in concreto, dallo Stato) questa Corte, con sent. 10 luglio 1991, n. 7642 ha affermato che non può condividersi l’equazione fra danno non patrimoniale e danno morale (c.d.
“pecunia doloris”; e su questo punto la ricorrente concorda),
perché il danno non patrimoniale comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad
una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non
possa essere oggetto di risarcimento, sebbene di riparazione,
di guisa che, comprendendo il danno non patrimoniale anche
gli effetti lesivi che, prescindendo dalla personalità psicologica
del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità. Se egli enti personificati sono titolari di diritti non
patrimoniali (quali quelli alla tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale) anch’essi possono subire un pregiudizio non patrimoniale dalla correlativa aggressione, ed ottenerne la riparazione anche attraverso l’attribuzione di una
somma di denaro, secondo un giudizio per sua natura equitativo, affidato all’apprezzamento del giudice del merito”.
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Danno non patrimoniale
Di tappa in tappa (15), si arriva agli albori del ventunesimo secolo.
Ecco allora le sentenze gemelle di fine maggio
2003 (nn. 8827 e 8828) (16), definite poco dopo
dalla Corte Costituzionale come “due recentissime
pronunce che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo
della tutela risarcitoria del danno alla persona” (17). Esse hanno ribadito che il danno non patrimoniale è il pregiudizio da lesione di valori di rilevanza costituzionale inerenti alla persona (non
solo fisica) e, pertanto, è ben lungi dal coincidere
con il solo danno morale soggettivo. A riprova dell’assunto, hanno ricordato l’orientamento di legittimità che aveva riconosciuto il ristoro del danno
non patrimoniale anche agli enti, ossia a soggetti
per i quali non è ontologicamente configurabile un
coinvolgimento psicologico in termini di patemi
d’animo (18).
Qualche anno dopo lo stesso principio è stato confermato con vigore dalle Sezioni Unite della Corte
di cassazione con le cc.dd. sentenze di San Martino (19) ed è stato acquisito da tutta la giurisprudenza successiva.
È evidente che alla base del percorso che ha condotto al riconoscimento del ristoro danno non patrimoniale anche a entità diverse dalle persone fisiche si pone la mutata concezione del pregiudizio di
cui si discute.
Insomma, in termini matematici, l’equazione è: il
danno morale soggettivo sta alla sola persona fisica
come il danno non patrimoniale in senso lato sta a
ogni soggetto di diritto (persona fisica e non) (20).
(15) Si noti che, nel frattempo, anche alcune pronunce di
merito avevano riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche. Ex
multis, a titolo meramente esemplificativo, si considerino: Trib.
Genova 29 giugno 1994, in Giur. it., 1995, 275; Trib. Roma 24
gennaio 1994, in Dir. Inf., 1994, 725; Trib. Milano 9 novembre
1992, in Giur. it., 1993, 747; Trib. Roma 16 aprile 1991, in Nuova giur. civ. comm., 1992, 143.
(16) Si veda Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827-8828, in questa Rivista, 2003, 816.
(17) Così, Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, in questa Rivista, 2003, 939.
(18) In proposito, è interessante riportare integralmente un
passo di Cass. 31 maggio 2003, n. 8828, cit.: “Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 e il danno morale soggettivo va altresì ricordato che questa S.C. ha ritenuto risarcibile il danno
non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal
danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile
un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo
(v., da ultimo, sent. n. 2367-00). Si deve quindi ritenere ormai
acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata
estensione della nozione di ‘danno non patrimoniale’, inteso
come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non
più solo come “danno morale soggettivo’”.
(19) Il riferimento è a Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n.
29672, in questa Rivista, 2009, 19; n. 26973, in Foro it., 2009,
120; n. 26974, in DeJure; n. 26975, ivi.
(20) Sul punto, particolarmente incisivo è F. Morozzo Della
Rocca, L. 24 marzo 2001, n. 89: anche alla persona giuridica
spetta la pecunia doloris, in Giust. civ., 2005, 1585: “Nel nostro
ordinamento l’ammissione che la persona giuridica (o, più generalmente il soggetto diverso dalla persona fisica) possa patire danno non patrimoniale è un’acquisizione relativamente recente, legata alla distinzione, nell’ambito della più ampia categoria di danno non patrimoniale, fra danno morale soggettivo
e danno per la lesione dei diritti non patrimoniali: il primo, consistente nel patimento psichico per la patita lesione di un diritto, non era ritenuto configurabile per la persona giuridica, non
in grado naturalisticamente di provare patemi e non avente
perciò titolo per ottenere una pecunia doloris; il secondo, non
legato a considerazioni di ordine naturalistico, configurabile
anche per la persona giuridica sulla sola base del diritto positivo, in quanto ne preveda espressamente il risarcimento o il relativo diritto discenda dalla tutela particolarmente forte garantita all’interesse leso da una norma di rango costituzionale”.
(21) Sul punto, si veda Cass. 2 agosto 2002, n. 11573, in
Giur. it., 2003, 25: “(...) il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla
persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare,
può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un
effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei diritti della personalità di cui anch’essa è portatrice, come il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione”.
Nello stesso senso, ex plurimis: Cass. 2 agosto 2002, n. 11600,
in Foro it., 2003, 838; Cass. 10 aprile 2003, n. 5664, in Foro it.,
2004, 191; Cass. 2 luglio 2004, n. 12110, in Giust. civ., 2005,
1042; Cass. 2 luglio 2004, n. 12112, in Dir. e Giust., 2004, 113;
Cass. 30 settembre 2004, n. 19647, in Giust. civ., 2005, 59.
860
L’ente e il danno non patrimoniale
da eccessiva durata del processo
Richiamato il percorso che ha condotto al risarcimento del danno non patrimoniale anche a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, si pone
ora l’attenzione sul pregiudizio non economico derivante dal processo “lumaca” e sulle condizioni richieste per il suo ristoro all’ente.
In un primo tempo, la giurisprudenza, partendo dal
presupposto che la sofferenza contingente e il turbamento d’animo transeunte fossero tipici soltanto
della persona fisica, ha escluso la presunzione di un
danno morale soggettivo per l’irragionevole durata
del processo in capo agli enti. In tali casi, il danno
non patrimoniale non poteva derivare ex se dallo
stato di ansia o di preoccupazione che l’eccessiva
durata del procedimento normalmente ingenerava
nelle parti: quel nocumento (tutto da provare) poteva, al più, dipendere dalla lesione di diritti immateriali della personalità ritenuti compatibili con
la naturale assenza di fisicità, come quello all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine e alla reputazione (21).
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Danno non patrimoniale
A partire dalla seconda metà del 2004, invece, i
Giudici nazionali hanno cambiato posizione, con
l’intento di conformarsi agli influssi della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sul punto, è rilevante ricordare che, con una pronuncia del 6 aprile 2000, la Corte di Strasburgo ha
sostenuto che: a) il diritto di ottenere, ai sensi dell’art. 41 della Convenzione (22), una riparazione
pecuniaria del danno non patrimoniale causato
dalla durata irragionevole di un processo compete
pure a soggetti diversi dalle persone fisiche; b) in
tale ipotesi, l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere ravvisata pure nello stato di incertezza e di disagio che la durata eccessiva del processo determina nei membri e nelle persone fisiche
preposte alla gestione (23).
Di qui, varie pronunce di legittimità hanno assicurato un trattamento garantista ai soggetti di diritto
diversi dalle persone fisiche, equiparandoli a queste
ultime in pressoché tutti gli aspetti del risarcimento del danno non patrimoniale (24): si ritiene,
cioè, che siano state pregiudicate dall’eccessiva durata del processo anche delle persone fisiche che ricoprono degli uffici negli enti ovvero ne sono
membri, per poi imputare la loro presunta sofferen-
za al soggetto di diritto, privo del carattere della fisicità.
Costituisce una prima espressione di questo orientamento Cass. 16 luglio 2004, n. 13163 (25).
Secondo questa pronuncia: a) alle persone giuridiche possono essere imputati stati soggettivi legati
al possesso di qualità psichiche tipicamente umane,
dati la loro soggettività meramente transitoria e
strumentale e il carattere in linea di principio vincolante delle decisioni della Corte Europea; b) non
esistono ostacoli insuperabili al riconoscimento del
diritto delle persone giuridiche di ottenere la riparazione del danno non patrimoniale secondo i criteri stabiliti dalla Cedu e, quindi, anche nell’ipotesi in cui tale danno sia correlato a turbamenti di
carattere psichico. Da queste premesse, deriva l’applicabilità anche alle persone giuridiche del principio, in base a cui “la durata irragionevole del processo arreca, normalmente, alle parti sofferenze di
carattere psicologico sufficienti a giustificare la liquidazione di un danno non patrimoniale e che,
conseguentemente, una volta accertata e determinata l’entità della violazione (...) il giudice deve ritenere tale danno esistente” (26).
Il descritto orientamento, dotato di una significativa forza espansiva (27), nonostante le perplessità
(22) L’art. 41 Cedu tratta della c.d. “Equa soddisfazione” e
dispone: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della
Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta
Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di
rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda,
se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.
(23) Il riferimento è a Cedu 6 aprile 2000, Comingersoll s.a.
c. Portugal, in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, 2007,
185. In senso analogo, ex plurimis: Cedu 9 novembre 2002,
Tor di Valle Costruzioni S.p.A. c. Italie, in www.echr.coe.int;
Cedu 20 marzo 2002, L.s.i. Information Tecnologies c. Grece,
ivi; Cedu 15 febbraio 2003, Oval s.p.r.l. c. Belgique, ivi; Cedu
31 luglio 2003, Sociedade Agricola do Peral s.a. c. Portugal,
ivi.
(24) Per quanto concerne il risarcimento del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo alle persone fisiche, è imprescindibile il riferimento a Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, nn. 1338-1341, in Giust. civ., 2004, I, 910, con nota
di P. Morozzo Della Rocca, Durata irragionevole del processo e
presunzione di danno non patrimoniale; in Giur. it., 2004, 944,
con nota di A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte
europea dei diritti dell’uomo: sepolti i contrasti; in Guida dir.,
2004, 16, con nota di E. Sacchettini, Un’attività di difficile realizzazione pratica che mette a repentaglio le casse dello Stato; in
D&G, 2004, 12, con nota di M. De Stefano, È finita la guerra
delle Corti: la Cassazione si adegua alla CEDU.
Le Sezioni Unite, attraverso le quattro menzionate pronunce, si sono distanziate sia dalla tesi del c.d. danno non patrimoniale in re ipsa (tesi a cui, subito dopo l’entrata in vigore
della c.d. “legge Pinto”, aveva aderito, richiamando le pronunce della Corte di Strasburgo, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) sia dall’orientamento della necessaria allegazione e prova del danno non patrimoniale (orientamento seguito, sino alla fine del 2003, dalla prima sezione della Corte di
cassazione). Esse hanno optato per una soluzione compromissoria, affermando che il pregiudizio in questione si presume iuris tantum: il nocumento è ritenuto sussistente ogni volta, in
cui, accertata la durata irragionevole del procedimento, non ricorrono, nel caso concreto, circostanze particolari, atte a
escludere che il medesimo sia stato subito dalla persona fisica
che ne fosse parte.
Per completezza, si osservi come la soluzione, adottata dalle Sezioni Unite nel 2004, sia stata riproposta da tutta la giurisprudenza di legittimità e di merito successiva. In proposito, a
titolo esemplificativo, si vedano: Cass. 11 maggio 2004, n.
8896, in Resp. civ., 2004, 21, 84; App. Bari 9 luglio 2004, in Foro it., 2005, I, 200; Cass. 30 marzo 2005, n. 6714, in Giur. it.,
2005, 1721; Cass. 5 aprile 2005, n. 7088, in Rep. Foro it.,
2005, Diritti politici e civili, 258; Cass. 7 aprile 2005, n. 7297, in
Giust. civ., 2006, 1818; Cass. 3 novembre 2005, n. 21318, in
Giur. it., 2007, 617; Cass. 11 marzo 2006, n. 5386, in Resp. civ,
2006, 244; Cass. 28 marzo 2006, n. 6998, in Resp. civ., 2006,
242; Cass. 13 settembre 2006, n. 19666, in Resp. civ., 2006,
251; Cass 7 luglio 2006, n. 15588, in Resp. civ., 2006, 947;
Cass. 16 marzo 2007, n. 6294, in Resp. civ., 2007, 172; Cass. 6
settembre 2007, n. 18719, in Resp. civ., 2007, 179.
(25) Cass. 16 luglio 2004, n. 13163, in Giust. civ., 2005,
1583.
(26) Così, Cass. 16 luglio 2004, n. 13163, cit.
(27) Si ricordi che, proprio prendendo le mosse dal descritto orientamento affermatosi in punto di irragionevole durata
del processo, la Suprema Corte è arrivata a riconoscere all’ente leso nell’immagine da un’erronea segnalazione alla Centrale
Rischi di Banca d’Italia il ristoro di ogni voce di danno non patrimoniale, ivi incluso il danno morale soggettivo. Sul punto, si
consideri Cass. 4 giugno 2007, n. 12929, in questa Rivista,
2007, 1236: la pronuncia afferma che, in caso di lesione di un
diritto costituzionalmente garantito, il danno morale soggettivo
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espresse in ambito dottrinale (28), si è diffuso velocemente negli anni a venire, sino a configurarsi come dominante, se non assoluto (29).
La sentenza in commento è ben lungi dal discostarsi dalla posizione consolidata: presume il danno
morale soggettivo in capo all’ente, partendo dalla
considerazione delle sofferenze che la violazione
del termine di ragionevole durata del processo ha
probabilmente provocato al suo unico socio e amministratore.
L’orientamento della Cassazione in materia di danno non patrimoniale da durata irragionevole del
processo si fonda sull’assunto che “nella personalità
giuridica non deve essere ravvisato lo statuto di
un’entità diversa dalle persone fisiche, ma una particolare normativa avente sempre ad oggetto le relazioni tra uomini”. Dunque, anche alle persone
giuridiche “possono essere imputati stati soggettivi
legati al processo di qualità psichiche tipicamente
umane” (30).
Tale posizione, pur richiamando alla mente le teorie di illustri giuristi del Novecento (31), presenta
due profili di criticità.
Anzitutto, liquida sbrigativamente le norme codicistiche che chiariscono come un ente collettivo,
riconosciuto o meno, sia un soggetto nuovo, distinto dai componenti. E, infatti, fa emergere sul piano
dei rapporti di diritto la realtà soggettiva dei membri, arrivando persino a imputare alla realtà impersonale sentimenti tipici delle persone fisiche (32).
si produce indirettamente sull’ente, per l’effetto della lesione
sulle persone fisiche che compongono il soggetto collettivo e
agiscono per suo conto; di qui, sostiene che l’ente può chiedere iure proprio i danni lamentati da soggetti che compongono i
suoi organi.
(28) La migliore dottrina ha sottolineato l’estrema difficoltà
di poter anche solo immaginare un danno morale soggettivo
in capo alla persona giuridica. In proposito, si confrontino:
G.F. Basini, I soggetti legittimati in ordine alla riparazione del
danno non patrimoniale, in Resp. civ. prev., 1998, 942; E. Palmerini, I diritti della personalità e il danno agli enti collettivi, in E.
Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali, Milano, 2004,
253; G. Pedrazzi, Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti
inviolabili, in G. Ponzanelli (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004, 126; C. Poncibò, Gli enti: dal danno
morale al “nuovo” danno non patrimoniale, in questa Rivista,
2009, 237; T. Bonamini, Gli enti e il danno non patrimoniale, in
Fam. Persone e Successioni, 2012, 517; C. Pasquinelli, Legge
Pinto ed irragionevole durata del processo. La Cassazione ammette il danno morale per gli enti collettivi, in Resp. civ. prev.,
2006, 281. Peraltro, per un approfondimento sulle varie posizioni assunte dalla dottrina in materia, si veda T. Mauceri, Enti
collettivi e danno non patrimoniale, Torino, 2013, 33.
(29) Sul punto, a titolo meramente esemplificativo, si vedano: Cass. 4 giugno 2013, n. 13986, in Rep. Foro it., 2013, voce
Diritti politici e civili, 252; Cass. 1° dicembre 2011, n. 25730, in
Rep. Foro it., 2012, voce Diritti politici e civili, 236; Cass. 18 febbraio 2011, n. 3993, in Il civilista, 2011, 18; Cass. 10 gennaio
2008, n. 337, in Resp. civ. prev., 2008, 1916; Cass. 2 febbraio
2007, n. 2246, in Rep. Foro. it., 2007, voce Diritti politici e civili, 236; Cass. 29 marzo 2006, n. 7145, in Rep. Foro it., 2006,
voce Diritti politici e civili, 253; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094,
in Rep. Foro it., 2005, voce Diritti politici e civili, 269; Cass. 30
agosto 2005, n. 17500, in Resp. civ. prev., 2006, 345; Cass. 8
giugno 2005, n. 12015, in Rep. Foro it., 2005, voce Diritti politici e civili, 270; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3396, in Giust. civ.,
2006, I, 2913; Cass. 21 luglio 2004, n. 13504, in Rep. Foro it.,
2004, voce Diritti politici e civili, 182.
(30) Così, espressamente Cass. 30 agosto 2005, n. 17500,
cit.
(31) Il riferimento è, anzitutto, ad Hans Kelsen, la cui concezione costituisce certamente la pietra miliare del processo di
revisione critica della persona giuridica: la persona giuridica altro non è se non un modo sintetico di regolare determinati
gruppi di uomini, ma non è ascrivibile alla categoria dei soggetti di diritto. In proposito, si veda H. Kelsen, Lineamenti di
dottrina pura del diritto, Torino, 2000, 89: “Come la persona fi-
sica così anche la così detta persona giuridica è soltanto l’espressione unitaria di un complesso di norme, cioè di un ordinamento che regola il comportamento d’una pluralità di uomini. A volte essa è la personificazione di un ordinamento parziale come sarebbe lo statuto di una società che costituisce una
comunità parziale, la persona giuridica della società, a volte è
la personificazione d’un ordinamento giuridico totale che costituisce una comunità giuridica comprensiva di tutte le comunità parziali e che di solito è rappresentata dalla persona dello
stato. (...) Come la persona fisica non è un uomo, così la persona giuridica non è un superuomo. Gli obblighi e i diritti di
una persona giuridica debbono risolversi in obblighi e diritti
dell’uomo, cioè in comportamenti umani regolati da norme, in
comportamenti che le norme statuiscono come obblighi e diritti”. Per analoghe considerazioni, Id. Teoria del diritto e dello
Stato, Milano, 1952, 98.
Nella letteratura sulle persone giuridiche, l’intuizione di
Hans Kelsen è stata poi sviluppata dal compianto Francesco
Galgano. Per una forte critica dell’affezione dei giudici italiani
all’astratta figura della “persona giuridica” si veda F. Galgano,
Persona giuridica e no, in Riv. Società, 1971, 50: “Il punto è che
la persona giuridica non si tocca. Essa rende servizi inestimabili; tant’è vero che se ne fabbricano, ogni giorno, a centinaia: le
si tiene nel cassetto (tanto costano poco: appena cinquemila
lire), pronte per ogni possibile, e tempestivo, impiego. Altre
vengono fabbricate all’estero e, quindi, introdotte nel territorio
italiano (o si deve dire che se ne fa la ‘tratta’, con antropomorfico rigore scientifico?). Vaduz è la capitale di un Paese favoloso, nel quale tutte le metafore sono realtà: il ‘legislatore’ è, o è
stato fino a qualche tempo fa, una persona fisica (il Dr. Wilhelm Beck); i cittadini sono, nella stragrande maggioranza,
persone giuridiche. Ci si guardi dall’insegnare ai giudici italiani
la tecnica del ‘perforare i veli’ della persona giuridica: essi potrebbero cessare di decidere, come hanno deciso finora, che
la questione delle Anstalten di Vaduz è una questione da risolvere in termini di ‘capacità delle persone’; potrebbero ricredersi sulla massima, alla quale sono ora ancorati, secondo la quale ‘a norma dell’art. 17 disp. prel. lo stato e la capacità delle
persone giuridiche, oltre che di quelle fisiche, sono regolate
dalla legge dello Stato al quale esse appartengono’”. Nello
stesso senso: Id., Lex Mercatoria, Bologna, 1993, 76; Id., Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto,
Bologna, 2010, 25; Id. Dogmi e dogmatica nel diritto, Padova,
2010, 25.
(32) In proposito, è interessante notare che la dottrina più
recente, negando che l’imputazione soggettiva della persona
giuridica possa risolversi nei termini di un regime speciale del-
Alcuni rilievi sulla soluzione adottata dalla
Suprema Corte: il fine non giustifica i mezzi
862
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Danno non patrimoniale
In secondo luogo, identificando il danno non patrimoniale con il solo danno morale soggettivo, ne
adotta una nozione alquanto ristretta, oltre che
confliggente con le acquisizioni della giurisprudenza in materia.
Come si è detto, il riconoscimento del danno non
patrimoniale agli enti è passato attraverso la considerazione che una realtà impersonale non potesse
soffrire e, quindi, attraverso la mutata concezione
del nocumento descritto all’art. 2059 c.c.: esso è
ora inteso non più quale danno morale soggettivo,
ma quale danno non patrimoniale in senso lato,
comprensivo di tutte le conseguenze non patrimoniali della lesione dei diritti della personalità.
Ciò posto, occorre chiedersi se i menzionati rilievi
possano dirsi in qualche misura giustificati dallo
scopo perseguito Cassazione, ossia dall’esigenza di
conformarsi alla posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La risposta è negativa.
È vero che le Sezioni Unite, con le famose pronunce del 2004 (33), sulla scia della decisione Scordino
c. Italia (34), hanno sostanzialmente riconosciuto il
dovere del giudice interno di applicare la c.d. “legge Pinto” conformemente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo (35).
Tuttavia, la Cassazione avrebbe potuto riconoscere
agli enti il danno non patrimoniale da violazione
del diritto alla ragionevole durata del processo per
una via diversa, piana e più conforme all’assetto
interno: le sarebbe bastato constatare che la lesione del diritto di cui si discute è inquadrabile nella
violazione del più ampio diritto al “giusto processo”, espressamente sancito per la persona (fisica e
non) dall’art. 111 Cost.
Del resto, analoga soluzione è stata adottata dal
Tribunale di Milano con riferimento al diritto a un
giudizio imparziale nella nota sentenza c.d. “Mondadori”: la Corte meneghina ha riconosciuto il
danno non patrimoniale alla società di capitali
CIR per lesione del diritto inviolabile a ottenere
una sentenza non viziata da corruzione, dopo aver
qualificato tale lesione come una violazione dell’art. 111 Cost. (36).
Alla luce di quanto esposto, pare che il ristoro del
danno non patrimoniale a un ente non richieda la
distruzione del concetto di personalità giuridica né,
tanto meno, il riferimento all’artificioso patema
d’animo di soggetti che, per propria natura, non
soffrono e non gioiscono.
Eppure, la S.C. è ben lungi dall’accennare a ripensamenti: mentre i processi continuano a essere “lumaca”, il danno morale soggettivo si fa avanti,
sprezzante, alla velocità della luce, sino a raggiungere realtà inanimate.
la persona fisica, ha ribadito che le situazioni soggettive che si
appuntano all’ente sono diverse da quelle che si appuntano ai
singoli membri. Si vedano, ex multis: M. Basile, Le persone giuridiche, Milano, 2003, 146; A. Zoppini, I diritti della personalità
delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in Riv. dir.
civ., 2002, 872.
(33) Il riferimento è a Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, nn.
1338-1341, cit.
(34) Si veda Corte dir. uomo, 27 marzo 2003, Scordino c.
Italia, in Guida dir., 2003, 106.
(35) Per approfondimenti sul punto, si veda R. Conti, CEDU
e diritto interno: le Sezioni Unite si avvicinano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi, in Corr. giur., 2004, 609.
(36) Si veda Trib. Milano 10 luglio 2015, cit.
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Responsabilità di amministratori e sindaci
La valutazione del danno in via
equitativa, il criterio della differenza
dei netti patrimoniali e la
responsabilità degli amministratori
Tribunale di Ferrara 1° marzo 2016 - Pres. Vignati - Rel. Arcani
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore nei confronti degli amministratori il pregiudizio risarcibile
non può essere automaticamente identificato nella differenza fra passivo ed attivo accertati in sede fallimentare. La mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale non sono, infatti, legate da alcun potenziale nesso
eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032.
Difforme
Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 4 aprile 2011, n. 7606; Cass. 8 luglio 2009, n. 16050; Cass. 23 luglio 2007, n.
16211.
Il Tribunale (omissis).
... Tanto premesso, occorre in primo luogo soffermarsi
sulla questione relativa all’efficacia del giudizio penale
sul presente giudizio civile.
Il procedimento penale nei confronti dei due convenuti
T.V. e T.V. si è esaurito in fase di appello con pronuncia che ha dichiarato la prescrizione del reato ed accertato l’insussistenza di elementi che consentano assoluzione degli imputati.
La difesa dei convenuti insiste sulla erroneità di tale
pronuncia, che tace sui capi civili della pronuncia di
primo grado n. 1341/07, sottolineando come pertanto
gli esiti del processo penale non possano essere in questa sede utilizzati.
Tale argomento non risulta convincente.
Ed invero sul punto deve constatarsi come il silenzio
della sentenza d’appello sulle statuizioni civili della pronuncia di primo grado dipende dal fatto che l’appello
dei due imputati V.T. e V.T. investiva solo la condanna
penale: rispetto a tale motivo d’appello la Corte si è
pronunciata con dichiarazione di prescrizione del reato.
L’omissione di pronuncia si sarebbe avuta laddove gli
imputati avessero anche impugnato la condanna generica al risarcimento del danno e la Corte nulla avesse
pronunciato sul punto.
In ogni caso, poi, anche laddove si voglia ritenere che
la Corte fosse tenuta comunque a pronunciarsi sul capo
relativo alla condanna al risarcimento del danno, l’e-
864
ventuale vizio derivante dall’omessa pronuncia avrebbe
dovuto essere fatto valere dalle parti interessate mediante ricorso per cassazione. E le parti interessate devono
necessariamente individuarsi nei due imputati, posto
che solo i due imputati avevano interesse ad ottenere
una pronuncia che riformasse la statuizione contenuta
nella sentenza di primo grado, che li condannava al risarcimento del danno provocato alla società con il loro
comportamento.
In difetto di impugnazione, il capo civile della sentenza
n. 1341/07 deve ritenersi coperto dal giudicato.
Per tale motivo non possono essere riproposte in questo
giudizio questioni relative alla condotta dei due convenuti.
Anche poi laddove si volesse escludere l’efficacia di giudicato della sentenza penale nel giudizio civile, gli elementi emersi dalle indagini e dal processo penale, come
acquisiti a questo processo per effetto delle produzioni
documentali di parte attrice, conducono, comunque, all’affermazione della responsabilità dei due convenuti
per i danni provocati al Fallimento della società.
Precisamente in questo giudizio sono stati riprodotti la
relazione ex art. 33 l.f. depositata dal curatore (doc.3),
la relazione della guardia di Finanza del 3.5.2004
(doc.4), oltre alla sentenza penale del Tribunale di Ferrara n. 1341-2007 (doc.27).
Da tali documenti si evince in primo luogo conferma
della tenuta incompleta dei libri contabili, che risultano
scritturati solo fino al 12.11.97; risultano, poi, omesse le
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dichiarazioni fiscali relative al 1997; il bilancio al
31.12.1997 non è presentato come prescritto dalla legge, con conseguente impossibilità di ricostruire il patrimonio della società alla data della sentenza dichiarativa
di fallimento intervenuta il 22.1.99(così nella relazione
del curatore ex art. 33 LF).
Dai documenti emerge, poi, come in data 24.2.97 la T.
s.r.l. avesse concluso un appalto del valore di oltre 10
miliardi di lire per la costruzione di un villaggio turistico di 170 unità immobiliari e di un centro commerciale
di Lido delle Nazioni, con committente C. s.r.l. La T.
aveva provveduto a costruire le prime 52 unità immobiliari ed il contratto era stato poi risolto il 24.2.98 con
atto di transazione a seguito di non precisate contestazioni sull’ammontare dei corrispettivi dovuti. L’appalto
per l’edificazione delle restanti villette era passato in
pari data in capo alla società I.M. sas di T.V., la cui
compagine sociale risultava suddivisa tra T.V. ( che era
divenuta accomandataria della società pochi giorni dopo avere lasciato la carica di amministratore unico di T.
s.r.l., della quale rimaneva socia) e la convivente di
T.V.F.B.; la società I.M. sas era stata costituita nel dicembre 1997, con sede identica a quella della fallita.
Nella relazione ex art. 33 LF il Curatore rileva l’esistenza di pesanti debiti soprattutto nei confronti di enti previdenziali.
Questo dato, unito alla sostituzione nell’appalto della
M. sas alla T. s.r.l., che creava la parvenza di una cessione d’azienda a titolo gratuito, induceva il curatore
dott.ssa S. ad ipotizzare che il fallimento fosse stato volontariamente preordinato dai T. per evitare il pagamento delle ingenti somme dovute allo Stato ed agli
enti di previdenza, salvando al contempo i profitti relativi all’appalto.
Ancora, il curatore evidenziava la grave anomalia della
contabilità di T. s.r.l., rappresentata da un conto cassa
con saldo superiore ai 700 milioni di lire alla data dell’ultima scritturazione, cioè al 12.11.97: saldo che si era
formato a far data dal 2.6.97 tramite una serie di prelievi- assegni e giroconti dal c/c bancario, contanti- ingiustificati dai due conti della società fallita, che poi apparivano messi in cassa come contropartita contabile per
far quadrare i conti. Il curatore evidenziava come il denaro non fosse stato rinvenuto e non vi fosse alcuna
prova che il denaro fosse stato utilizzato per pagamenti
a fornitori o dipendenti.
L’istruttoria svolta nel giudizio penale ed in particolare
la deposizione del teste B., socio di minoranza, aveva
messo in rilievo che la gestione e le scelte rilevanti nella società erano effettuate da T.V.
Ancora dalle dichiarazioni rese in sede penale dall’avv.
Mingolla, legale di T., era emerso che la risoluzione del
contratto d’appalto era avvenuta con la stipula di un atto di transazione concordato tra T.V. e il Bocchi, per
conto della parte committente, anche se poi era stata
sottoscritta dal legale rappresentante della T., all’epoca
C.. Il medesimo teste confermava che le decisioni rilevanti sulla gestione sociale venivano prese da T.V.
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All’esito di tale disposizioni i giudici penali sono pervenuti alla conclusione della responsabilità degli imputati
per i fatti loro ascritti.
Si legge a pag.11 della sentenza “deve anzitutto affermarsi al di là di ogni dubbio che l’amministratore di fatto della società fallita-quantomeno a far data dalla stipulazione del contratto di appalto con la C. s.r.l. nel
febbraio 1997- è stato T.V. e che tutti i testimoni, nonché il coimputato C. ed il defunto C. nelle sue dichiarazioni al Curatore da costui puntualmente ricordate, indicano espressamente o implicitamente sulla base di
una serie di fattori oggettivi di seguo univoco, come dominus della situazione, padrone di fare e disfare, referente in prima persona della T. con operai ( che provvedeva direttamente ad assumere a seconda delle necessità), fornitori, soci e consulente legale della società”.
Ed ancora a pag.13 della decisione “Per T.V. è emerso
del pari un suo pieno coinvolgimento- in stretta collaborazione col padre V.- nella gestione della T. e nella
tempestiva e sempre coordinata creazione della I.M. sas
per raccoglierne l’eredità positiva e la capacità di produrre utile, abbandonando la indebitata- e priva di credibilità verso i terzi- T. al suo destino di fallimento.
D’altronde la T. pur negandolo, risultava oggettivamente dotata del potere di operare sul c/c societario presso
la Banca Commerciale Italiana già molti mesi prima di
diventare ufficialmente amministratore unico della fallita. Successivamente continua ad operare con le banche,
a sottoscrivere e ritirare assegni (ivi compresi quelli in
deposito presso l’avv. Mingolla per complessivi 50 milioni di lire, da lei personalmente prelevati per non precisate necessità societarie in data 24.10.97)”.
Alla luce di tali considerazioni i giudici hanno ritenuto
sussistere in capo a tutti e due gli imputati (V. e V.T.)
gli elementi costituitivi dei reati loro ascritti e precisamente:
quanto al delitto di bancarotta patrimoniale documentale si legge nella sentenza: “i documenti contabili della
società furono scritturati soltanto fino al 12.11.1997,
mentre nessuno -e in primo luogo l’allora amministratore T.V.- si curò di aggiornare le annotazioni per il periodo successivo perdurante almeno sino al febbraio
1998, nel corso del quale la T. s.r.l. continuò l’attività
(il curatore ha rinvenuto varie fatture successive al
12/11/97) e proseguì a mantenere un buon numero di
dipendenti ( che furono licenziati e migrarono verso la
I.M. sas solo nel febbraio 1998)”.
Quanto all’altro capo di imputazione relativo al reato di
cui all’art. 223 comma 2 n. 2 LF, che si riferisce all’accusa di avere cagionato dolosamente ed in concorso tra
loro il fallimento della T., allo scopo di evitare il pagamento dei pesanti debiti societari con la creazione della
nuova società I.M. sas e proseguendo con la stessa l’esecuzione dell’appalto a suo tempo ottenuto dalla T. s.r.l.,
i giudici penali, traendo convincimento dalle risultanze
dell’istruttoria, ritengono sussistenti gli elementi costitutivi del reato in capo ad entrambi gli imputati.
La sentenza mette in luce come la consistenza economica dell’appalto era tale da consentire di escludere che,
in caso di regolare esecuzione del contratto, la società
865
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sarebbe fallita. Quali elementi di prova della colpevolezza si sofferma sul ruolo dominante assunto da T.V.
nella trattativa per la risoluzione del contratto tra T. e
C., sull’opposizione da parte dei soci C. e C., sulla stipula contestuale alla risoluzione del primo contratto di
nuovo contratto con la società I.M. s.a.s., della quale è
amministratore di diritto proprio T.V.; ed ancora la sentenza penale convincentemente sottolinea la coincidenza dei tempi tra la cessazione da parte di V.T. dalla carica di amministrare la T. e la assunzione di analogo ruolo nella società I.M. sas; la consapevolezza in capo a
V.T. dei debiti contributivi della società, che a maggior
ragione non poteva ignorare il padre, dominus della vicenda; la mancanza di ragione giustificante la risoluzione del contratto di appalto nei confronti della T., salvo
poi la prosecuzione dell’appalto con soggetto solo formalmente diverso.
Tali emergenze processuali non sono efficacemente contrastate dalle difese dei convenuti e consentono di affermare la responsabilità dei due convenuti per i danni cagionati dal loro comportamento.
Si analizzerà quindi, a questo punto, il profilo relativo
alla individuazione del danno risarcibile.
Occorre premettere che nella individuazione del danno
deve essere rispettato rigorosamente il principio che limita il danno risarcibile a quello causalmente riconducibile all’inadempimento contestato, non potendo semplicisticamente il danno essere individuato nella differenza fra passivo ed attivo come accertata in sede fallimentare.
Tale principio è affermato chiaramente dalla sentenza
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.
9100/2015, che perviene alla conclusione che nella
azione di responsabilità promossa dal curatore nei confronti degli amministratori il pregiudizio risarcibile non
possa essere automaticamente identificato nella differenza fra passivo ed attivo accertati in sede fallimentare.
L’insegnamento della pronuncia va qui richiamato in
quanto essa contiene alcuni interessanti spunti in punto
di individuazione del danno risarcibile.
La Corte, premessa una sintetica ricapitolazione degli
sviluppi della giurisprudenza di legittimità negli ultimi
decenni, ha ricordato in primo luogo che gli illeciti
ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno, consistono in una pluralità di comportamenti: ed infatti i doveri imposti dalla
legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società sono variegati. In parte, tali doveri sono puntualmente specificati e si identificano in ben determinati comportamenti, quali, ad esempio, la tenuta
delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci e
i prescritti adempimenti fiscali e previdenziali, il divieto
di concorrenza. Per il resto, si tratta di doveri il cui preciso contenuto non è sempre facile da specificare a priori, in quanto essi comprendono l’obbligo in capo all’amministratore di compiere con la necessaria diligenza tutto ciò che occorre per la corretta gestione di essa. Conseguentemente, gli effetti dannosi per la società e per i
suoi creditori che possono eventualmente scaturire dalla
violazione dei suddetti doveri non sono suscettibili di
866
una considerazione unitaria, ma appaiono destinati a
variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in
volta violato.
Da tali premesse la sentenza desume che non tutti gli
inadempimenti degli amministratori determinino quale
danno risarcibile la differenza fra passivo ed attivo patrimoniale.
Il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in
fallimento non può essere, cioè, automaticamente addebitato all’amministratore che abbia violato obblighi
connessi al suo mandato: in primo luogo perché il fallimento della società può dipendere da circostanze esterne che prescindono dal comportamento degli amministratori, ma poi anche perché vi sono ipotesi di inadempimento addebitato all’amministratore che si riferisca
alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono a
carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto
specifici e ben delimitati.
Ciò premesso, occorre soffermarsi sulle risultanze della
CTU a firma del Dott. Andrea Ranieri, cui si è dato
corso su sollecitazione di parte attrice, ai fini della individuazione del danno risarcibile alla luce della documentazione versata in atti.
Il CTU ha analizzato le varie condotte addebitate ai
convenuti da parte attrice e messo in relazione tali condotte con le voci di danno delle quali il fallimento attore invoca il risarcimento.
In primo luogo il CTU ha constatato come, alla luce
della documentazione prodotta in giudizio da parte attrice, risulti effettivamente che la contabilità della società è aggiornata solo fino al 12.11.97, momento nel
quale V.T. risultava amministratrice di diritto della società.
Con riferimento alle violazioni all’obbligazione di regolare tenuta delle scritture contabili, la Corte nell’autorevole pronuncia sopra ricordata ha chiarito che la
mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale non
sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il
danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in
sede fallimentare. Postulare che l’amministratore debba
rispondere dello sbilancio patrimoniale della società solo perché non ha correttamente adempiuto l’obbligo di
conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò
più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione sanzionatoria.
Coerentemente con tali conclusioni, in punto di difetto
di regolare tenuta delle scritture contabili da parte degli
amministratori della società fallita, il CTU Dott. Ranieri, ha correttamente stigmatizzato che tale omissione
comporta quale conseguenza la impossibilità di una ricostruzione del patrimonio sociale, ma non si traduce
immediatamente in un pregiudizio economico per la società.
Per quanto riguarda l’addebito relativo allo svuotamento della cassa, il CTU evidenzia che la modalità operativa della T. consisteva nell’annotare aumenti nel conto
cassa a seguito di prelievi di analogo importo dai conti
bancari, cui seguiva il decremento della cassa quando le
somme prelevate venivano destinate ai pagamenti.
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Per effetto delle movimentazioni di segno opposto - entrate ed uscite- risultava un saldo attivo di cassa alla data dell’ultima registrazione contabile il 12.11.97 di Euro
367.888,60 ( L. 712.331.650,00): le corrispondenti somme non sono, però state reperite dal curatore.
Secondo il CTU tanto comporta l’insorgenza in capo al
fallimento di un danno di pari importo, non essendovi
documenti che consentano di comprovare l’eventuale
destinazione di tale saldo di cassa a fini societari.
Sul punto deve, tuttavia, constatarsi come la stessa sentenza penale, nell’assolvere T.V., unico incolpato a tale
titolo, dall’accusa di bancarotta per distrazione, abbia
accertato come non sia stata raggiunta la prova che
l’ammanco di cassa sia allo stesso imputabile. Né alcuna
evidenza circa la responsabilità per l’ammanco di cassa
è stata raggiunta in questo giudizio a carico dei due convenuti.
Proseguendo la propria indagine, con riguardo alla anticipata risoluzione del contratto d’appalto, il CTU evidenzia come dagli atti prodotti in giudizio non possa ritenersi derivato alcun danno risarcibile a carico della
società quale conseguenza derivante dallo scioglimento
di tale rapporto negoziale, non essendovi elementi dai
quali poter desumere con certezza che i crediti derivanti
dall’appalto, ove portato alla sua naturale conclusione,
sarebbero stati onorari dalla debitrice committente. Tale conclusione va sicuramente condivisa. Del resto la
parte attrice non invoca alcuna pretesa risarcitoria a tale specifico titolo.
L’individuazione del danno risarcibile è data, piuttosto,
dagli ingenti debiti esistenti a carico della società al
momento del fallimento.
Al riguardo, sulla base del doc.20 prodotto da parte attrice recante lo stato passivo dichiarato esecutivo il
12.08.99 e delle successive insinuazioni vengono in rilievo: l’insinuazione di S. s.p.a. alla data del
21.10.2003,che ha comportato la ammissione al passivo
di un credito per Euro 531.304,01 ( di cui Euro
115.609,39 in privilegio ex artt. 2752/2778 n.19 c.c. ed
Euro 415.694,92 in chirografo); l’insinuazione di S.
s . p . a . i n d at a 1 7 . 7 . 2 0 0 2 p e r l’ i m p o r t o d i E u r o
214.333,85 (di cui Euro 213.510,10 in privilegio ex art.
2752/2778 n. 19 c.c. ed Euro 823,75 in chirografo).
Con riguardo a tale insinuazione sono allegati gli estratti del suolo da cui si evince che il credito azionato è
correlato per il modesto importo di Euro 200,90 ad Irpeg anno 1995, quindi non di immediata rilevanza per i
fatti oggetto di questo giudizio e per il restante ad IVA
per l’anno 1997, quindi correlato alle contestazioni
mosse a T. s.r.l. dalla Guardia di Finanza; insinuazione
di S. s.p.a. del 19.4.2006, con conseguente ammissione
al passivo del credito di Euro 2.606.183,27 ( ripartito in
Euro 1299.184,14 per imposte sul reddito in privilegio
ex art.2759/2778 n.7 c.c.; Euro 16.481, 64 -imposte -imposte sul reddito- in privilegio ex art. 2752/2778 n.18
c.c.; Euro 156.253,99-IVA- in privilegio ex art.
2752/2778 n.19; Euro 1.134.263,50 in chirografo).
Il CTU ha affermato, alla luce dei documenti prodotti,
che risulta possibile rinvenire una diretta correlazione
tra la passività per IVA di Euro 213.510,00 di cui all’in-
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sinuazione in data 17.7.2002 e le contestazioni mosse
dalla Guardia di Finanza agli amministratori di T. s.r.l.
Con riguardo agli altri due crediti ammessi al passivo
della società, il CTU evidenzia come l’assenza dei relativi estratti di molo non consenta di accertare in modo
incontrovertibile la correlazione fra il credito insinuato
e le violazioni fiscali contestate dalla Guardia di Finanza, in quanto non sono individuabili le annualità delle
omissioni riscontrate dagli uffici fiscali preposti. Precisa,
comunque, di ritenere che anche le altre insinuazioni,
alla luce della natura dei privilegi riconosciuti, debbano
ritenersi ricorresse alle violazioni contestate agli amministratori relative a violazioni della disciplina fiscale.
Proprio il richiamo alla necessità di una rigorosa ricostruzione della causalità fra condotta contestata all’amministratore infedele e danno risarcibile impone di riconoscere la sussistenza di nesso eziologico solo con riguardo al credito di cui all’insinuazione S. del
17.7.2002 e per il solo importo di Euro 213.510,00, ammesso con il privilegio ex art. 2752/2778 c.c.: credito
relativo cioè a mancato versamento dell’IVA. Solo per
questo credito risulta prodotto in atti, infatti, il relativo
estratto di molo, che consente di collocare temporalmente la violazione nell’anno 1997.
In questo anno si sono verificati i comportamenti accertati in sede penale a carico di entrambi i convenuti
consistenti nella irregolare tenuta della contabilità e
nelle conseguenti omissioni nelle dichiarazioni fiscali ai
fini dell’applicazione dell’IVA, violazioni dalle quali sono derivati i crediti tributati insinuati al passivo del fallimento. Con riferimento agli altri crediti S. non vi è la
prova della sussistenza di analogo nesso causale.
L’onere di fornire la relativa dimostrazione gravava in
capo al Fallimento attore, che avrebbe dovuto produrre
in giudizio non solo le istanze di ammissione al passivo
del fallimento dei vari crediti ed il relativo provvedimento di ammissione, ma anche documentazione specifica idonea a far luce sulla fonte delle varie ragioni di
credito ammesse al passivo.
In conclusione il danno risarcibile deve essere quantificato nella somma di Euro 213.510,00. Su tale somma,
trattandosi di debito di valore, deve applicarsi la rivalutazione monetaria a partire dalla data del fallimento (
22.1.1999) e fino all’attualità, oltre agli interessi compensativi, al tasso legale, sulla somma anno per anno rivalutata, secondo l’insegnamento della sentenza n.
1712 del 17.2.1995 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
I convenuti sono pertanto tenuti in solido a corrispondere al fallimento attore a titolo di risarcimento del
danno la somma di Euro 390.038,18.
Su tale somma devono, poi, applicarsi gli interessi legali
dalla pubblicazione della sentenza al saldo.
All’esito della lite, merita accoglimento l’istanza revoca
parziale del sequestro conservativo disposto con Provv.
8 ottobre 2013 per la somma che supera l’importo riconosciuto a titolo di risarcimento del danno con questa
sentenza.
Le spese di lite e di CTU seguono la soccombenza...
Omissis.
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Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016 - Pres. Amato - Rel. Garofalo
Nei giudizi di responsabilità promossi dalla curatela fallimentare nei confronti degli amministratori debbono
bandirsi criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali
siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti.
Per questa ragione, nel caso in cui sia lamentata la violazione dell’art. 2486 c.c., deve essere respinta la domanda se l’attrice non assolve all’onere di allegazione degli atti gestori adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa e non allega e prova il danno derivante da tali atti.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Venezia 19 maggio 2015; Trib. Prato 14 settembre 2012; Trib. Padova 24 giugno 2009; Trib. Lecce 3 novembre 2009.
Difforme
Trib. Bologna 3 novembre 2014; Trib. Vicenza 20 ottobre 2014; Trib. Milano 20 aprile 2009; Trib. Torino 10 febbraio
1995.
Il Tribunale (omissis).
“... Ciò premesso si deve subito rilevare una carenza di
allegazione dei fatti fondanti, in ipotesi, la responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. A tal proposito
giova richiamare il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento dei danni nelle obbligazioni cosidette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o
concausa) efficiente del danno” sicché “l’allegazione del
creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire
qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno” (Cass. SS.UU. n. 577/2008). Tale principio - espresso in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria - è stato ritenuto dalle SS.UU. della Corte di Cassazione (sent. 9100 del 6/5/2015) applicabile anche all’azione sociale di responsabilità degli
amministratori proposta dal curatore del fallimento in
quanto avente pacificamente natura contrattuale. Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza
da ultimo citata, hanno sottolineato che l’onere gravante sul curatore del fallimento di allegare e provare i fatti
costitutivi della domanda risarcitoria proposta nei confronti degli amministratori (danno e nesso di causalità)
imponga, come necessario antecedente logico, l’allegazione di un inadempimento qualificato e cioè di un inadempimento che sia astrattamente idoneo a provocare
il dedotto danno. Orbene, nel caso in esame, parte attrice ha lamentato la prosecuzione dell’attività di impresa, e comportamento di per sé non vietato, senza
precisare quali sarebbero stati gli atti di mala gestio e
cioè le condotte poste in essere dagli amministratori in
violazione del divieto di cui all’art. 2486 c.c. perché
consistenti, ad esempio, in assunzione di nuovi impegni
od obbligazioni. Né è convincente l’assunto attoreo secondo cui l’incremento del passivo societario dopo il
2005 proverebbe la condotta illecita e cioè una gestione
non finalizzata alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. L’argomentazione, sebbene
868
suggestiva, finisce per far coincidere la condotta illecita
con quella di prosecuzione dell’attività di impresa con
esiti economicamente sfavorevoli sovrapponendo, così,
il piano della condotta a quello dell’evento. Il risultato
di esercizio sfavorevole di per sé non integra responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. salvo che sia
conseguenza di atti di gestione volontariamente (o colposamente) finalizzati a incidere negativamente sull’integrità e sul valore del patrimonio sociale. Giova richiamare sul punto l’argomentazione svolta nella sent. n.
9100/2015 secondo cui l’attività di impresa è “intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite il cui
verificarsi non può quindi essere considerato di per sé
solo un sintomo significativo della violazione dei doveri
gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui
venga addebitato di essere venuto meno al suo dovere
di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta
la gestione diligente dell’impresa a garantire i risultati
positivi”. Muovendo dalle considerazioni che l’art. 2486
c.c. non vieta, al verificarsi di una causa di scioglimento, la prosecuzione dell’attività di impresa e che tale attività può ben determinare un incremento del passivo,
senza che ciò implichi necessariamente responsabilità
degli amministratori, deve giungersi alla necessaria conclusione che l’allegazione di un inadempimento qualificato presupponga l’individuazione degli specifici atti di
gestione che costituiscono causa del lamentato danno
(e cioè idonei a provocare la lesione dell’integrità e del
valore del patrimonio sociale).
Giova precisare che le considerazioni sopra esposte, riferite all’azione sociale di responsabilità di natura contrattuale, valgono a maggior ragione per l’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali che ha natura extracontrattuale poiché il curatore che agisce per far valere la responsabilità aquiliana deve non solo allegare
ma anche provare il comportamento dei convenuti in
violazione del dovere del neminem laedere. Parte attrice non ha specificamente allegato, né tanto meno provato, il compimento da parte degli amministratori degli
atti di gestione non finalizzati alla conservazione del patrimonio della società.
Danno e responsabilità 8-9/2016
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La carente allegazione della condotta, integrante la responsabilità degli amministratori, si ripercuote sull’allegazione e prova del lamentato danno. Anche a tal proposito è utile richiamare i principi espressi dalle sezioni
unite della Corte di Cassazione nella sentenza n.
9100/2015. In tale pronuncia la Corte ha sottolineato
che, stante l’ampiezza e variabilità dei doveri imposti all’amministratore di società, “le conseguenze dannose per la società e per i suoi creditori - che possano eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri,
dovendo essere in rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore. In tanto, allora ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima
ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima
ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i
molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato”. Il principio
espresso dalla Corte di Cassazione è che nei giudizi di
responsabilità promossi dalla curatela fallimentare nei
confronti degli amministratori debbano bandirsi criteri
di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e
ritenute sussistenti. Ha, infatti, affermato la Corte di
Cassazione che il protrarsi della gestione dell’impresa in
assenza delle condizioni economiche e giuridiche che
giustificano la continuità aziendale non può valere di
per sé quale fonte di danno in quanto “anche in questo
caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali
che potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la
sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo
di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi
sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque
accumula pur nella fase di liquidazione”, concludendo
quindi che “nell’azione di responsabilità promossa dal
curatore del fallimento di una società di capitali nei
confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di
causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si
pretende il risarcimento”.
La richiamata pronuncia delle SS.UU. del Supremo
Collegio conferma, invero, il prevalente orientamento
giurisprudenziale secondo cui compete al curatore, il
quale eserciti l’azioni di responsabilità contro gli organi
di una società fallita, dare la prova dell’esistenza del
danno, del suo ammontare e del nesso di causalità con
il comportamento illecito di determinati soggetti (negli
Danno e responsabilità 8-9/2016
stessi termini v. anche Cass. sez. I, sentenza n. 7606 del
04/04/2011).
Poiché, per i motivi sopra esposti, l’art. 2486 c.c. non
vieta la prosecuzione dell’attività ma solo il compimento di atti gestione non conservativi, il danno che consegue alla violazione della detta norma dovrà individuarsi
nelle perdite causate, in maniera immediata e diretta,
dal compimento degli atti vietati e cioè dagli atti che
comportino, ad esempio, l’assunzione di nuovi impegni
o di nuove obbligazioni, o che comunque siano stati
adottati per una finalità diversa da quella di conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.
L’assunto di parte attrice, secondo cui il danno è individuabile nella “perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività al netto dei costi che la società
avrebbe comunque sostenuto anche se fosse rimasta
inattiva”, si fonda sulla implicita ed errata premessa che
sia la prosecuzione dell’attività in sé ad essere vietata,
mentre l’art. 2486 c.c. consente il compimento di atti
di gestione della società, anche di atti nuovi, di talché
l’accertamento del danno passa attraverso la necessaria
individuazione delle operazioni tenute in contrasto con
la finalità conservativa e l’accertamento delle conseguenze immediate e dirette di tali determinate operazioni. A ragionare diversamente, seguendo cioè la tesi di
parte attrice, si riesumerebbe il divieto di nuove operazioni di cui al previgente art. 2449 c.c. individuando
cioè il fatto illecito nella mera prosecuzione dell’esercizio attivo ed il danno nella perdita incrementale riferita
alla detta prosecuzione.
In definitiva è onere della curatela che agisca per il risarcimento del danno ex art. 2486 c. 2 c.c. individuare
gli specifici atti compiuti dagli amministratori in violazione della norma e provare il conseguente danno.
(Omissis).
Nel caso in esame parte attrice, come già esposto, non
ha assolto all’onere di allegazione degli atti gestori adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa e non ha allegato e provato il danno derivante da tali atti. Tale carenza si ripercuote, ovviamente, sulla domanda proposta nei confronti dei sindaci cui si addebita una responsabilità, solidale con gli
amministratori, per non aver vigilato sull’operato degli
stessi e quindi per non aver impedito la prosecuzione
dell’attività e la produzione del danno.
Giova, peraltro, precisare che la curatela ha depositato
tutte le scritture contabili senza allegare una loro incompletezza o infedeltà (ad eccezione del profilo relativo alla contabilizzazione dei contributi ministeriali e dei
costi concernenti le immobilizzazioni materiali ed immateriali), di talché aveva la concreta possibilità di individuare gli atti di gestione non conservativa posti in
essere dagli amministratori e di allegare e di provare il
danno direttamente connesso a tali atti.
Ciò non è avvenuto e non può il Tribunale espletare le
richieste di consulenza tecnica di ufficio al fine di superare il deficit di allegazione e prova imputabile a parte
attrice. La consulenza tecnica d’ufficio, lungi dall’integrare un mezzo istruttorio in senso proprio, assolve, in
via esclusiva, la funzione di fornire al giudice una valu-
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tazione tecnicamente qualificata di dati già regolarmente acquisiti agli atti di causa. Ne consegue che detto
mezzo d’indagine giammai può essere utilizzato al fine di
esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume,
ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. tra le ultime Cass. Ord.
8.2.2011, n. 3130 e Cass. sez. III, sent. 2072 del
30.1.2014). Né appare pertinente il richiamo di parte
attrice al principio di riferibilità o vicinanza dei mezzi
di prova atteso che detto principio potrebbe, in ipotesi,
rilevare nelle azioni di risarcimento del danno promosse
dal fallimento nei confronti di amministratori e sindaci
solo qualora la mancanza o la irregolare tenuta delle
scritture contabili impedisca al curatore di individuare
le condotte illecite e provare il danno sofferto (v. Cass.
SS. UU. Sent. 9100/2015, par. 3.5.). Nel caso in esame,
invece, le scritture contabili sono state rinvenute (e
prodotte) e parte attrice non ha allegato la loro incompletezza o comunque l’impossibilità di ricavare dalla
contabilità le principali vicende della società.
In ragione delle lacune assertive e probatorie di cui sopra la domanda deve essere respinta.
Le considerazioni sin qui svolte appaiono assorbenti, in
base al principio della ragione più liquida (v. Cass. Sez.
6 - L, Sentenza n. 12022 del 28/05/2014 secondo cui “Il
principio della ragione più liquida, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul
piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello
della coerenza logico sistematica, consente di sostituire
il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni
da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva
aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost.,
con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla
base della questione ritenuta di più agevole soluzione anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare preventivamente le altre”; negli stessi
termini Cass. Sezioni Unite, Sentenza n. 26242 del
12/12/2014), di talché non occorre valutare né la fondatezza dell’allegazione attorea circa la perdita del patrimonio della società sin dal 2005 né le altre eccezioni di
merito svolte dalle parti convenute e dai terzi chiamati.
Il rigetto delle domande risarcitorie formulate dal fallimento R. s.p.a. comporta l’assorbimento delle subordinate domande di garanzia proposte dai convenuti contro i terzi chiamati in causa.
Omissis. ...
Tribunale di Milano 7 ottobre 2015 - Pres. Crugnola - Rel. Mambriani
In caso di illegittima prosecuzione dell’attività sociale certamente generativa di danno per la società, allorché
la complessità dell’attività aziendale e il rilevante numero di nuove operazioni di rischio rendano oltremodo
difficoltosa la ricostruzione analitica delle conseguenze dannose di ogni singola operazione posta illecitamente in essere in ottica non conservativa, è legittima l’utilizzazione - ai fini della quantificazione del danno - del
criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali.
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Conforme
Trib. Bologna 22 ottobre 2015; Trib. Prato 30 giugno 2015; Trib. Lucca 29 aprile 2015, n. 814; Trib. Perugia 25 febbraio 2015; Trib. Milano 18 gennaio 2011; Trib. Genova 24 novembre 1997.
Difforme
Cass. 23 giugno 2008, n. 17033; Trib. Milano 1° aprile 2011.
Il Tribunale (omissis).
“... Ad avviso del Tribunale, la riduzione del capitale
sociale al di sotto del minimo legale, occultata mediante le predette irregolarità contabili, era - o avrebbe dovuto essere - nota al L. - socio e storico amministratore
unico, oltre che protagonista delle valutazioni contabili
di cui si discute, macroscopicamente erronee - sin dal
momento in cui ebbe a verificarsi (31.12.2004).
In tale contesto, tuttavia, il L. ometteva di convocare
l’assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2447 e in violazione dell’art. 2485 c.c. non accertava la causa di scioglimento di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4) e non procedeva all’iscrizione della medesima presso il Registro delle Imprese; al contrario, il convenuto proseguiva l’atti-
870
vità sociale con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale, come reso evidente dalla disamina anche superficiale dei più significativi indici di bilancio: risultano
rimasti costanti sia l’ammontare dei ricavi da vendite e
prestazioni, sia i costi di produzione per materie prime,
con aumento di costi per il personale, nell’anno 2005,
con successivo decremento indicativo di una progressiva
contrazione dell’attività in un contesto in cui non risulta adottata alcuna misura o strategia gestionale volta alla salvaguardia del valore e dell’integrità del patrimonio
sociale.
Tali considerazioni risultano altresì documentalmente
confermate dall’assunzione, da parte della Società di
nuove obbligazioni nel corso degli anni 2005-2007: dalle numerose fatture allegate dal Fallimento sub doc. 68
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emerge che diversi appalti e lavori hanno avuto origine
dopo il 2004 (cfr. anche il prospetto sub doc. 69 att.).
Inoltre, dalle risultanze dello stato passivo figurano ammessi diversi creditori per ragioni formatesi successivamente al 2004 (sub doc. 66 att.).
Tutto ciò integra una palese violazione dell’art. 2486
c.c.
L’illegittima prosecuzione dell’attività sociale è stata
certamente generativa di danno per la Società, che al
31.10.2007 presentava, già sulla base delle risultanze
della situazione patrimoniale redatta in occasione della
presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, un patrimonio netto negativo per euro
1.710.500,00 (allegato 5 Rel. Ctu).
Tuttavia, per effetto della già descritta ricostruzione
contabile operata dal Ctu, anche tale valore ha subito
delle rettifiche ed è risultato pari a euro 4.294.778,50 riportando pertanto un decremento nel corso del biennio
2005-2007 ancor più consistente.
Dalle superiori consideraizoni la responsabilità dell’amministratore unico L. per i danni subiti dalla Società e
dai creditori sociali per effetto dell’illegittima prosecuzione dell’attività sociale, risulta completamente acclarata.
In punto di quantificazione del danno, la complessità
dell’attività aziendale e il rilevante numero di nuove
operazioni di rischio rendono oltremodo difficoltosa la
ricostruzione analitica delle conseguenze dannose di
ogni singola operazione posta illecitamente in essere in
ottica non conservativa. Pertanto risulta legittima l’utilizzazione del criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali (Cass., n. 2538 del 2005).
Il quantum del danno può pertanto determinarsi come
differenza tra i patrimoni netti al momento della perdita
del capitale e alla data del fallimento (rectius: data di
deposito della domanda di ammissione al concordato
preventivo, dovendosi ritenere non illegittima la porzione di attività svoltasi da quel momento alla dichiarazione di fallimento (cfr. Trib. Milano, ord. n. 45542 del
18.3.2012 Fall.to Club Air c. Conti ed altri), con l’espunzione dell’abbattimento che il patrimonio netto
avrebbe comunque subito se la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione.
A tal fine il Ctu ha provveduto a rettificare ulteriormente i bilanci della Società secondo i criteri di liquidazione (cfr. pp. 9-10 Rel. Ctu), giungendo a formulare
due diverse ipotesi di danno come differenza tra “netti
patrimoniali”: 1) euro 3.942.524,79 nel caso in cui si
anticipi la rivalutazione dell’immobile sociale, operata
nel bilancio al 31.12.2005 già al 31.12.2004; 2) euro
2.463.524,79 nel caso in cui non si anticipi al
31.12.2004 la rivalutazione dell’immobile.
A seguito del deposito dell’elaborato peritale il Fallimento attore, pur adducendo di ritenere corretta l’ipotesi n. 1), in sede di conclusioni, sulla base di una valutazione sulla solvibilità del convenuto, dichiarava di
adeguare la domanda risarcitoria alla seconda delle due
ipotesi suddette (danno = ad euro 2.463.524,79).
Infine, per quantificare il danno ascrivibile al convenuto L. per i fatti di cui sopra, è necessario scomputare dal
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danno così come calcolato in sede di Ctu e posto da
parte attrice a fondamento della sua domanda risarcitoria, la quota di responsabilità del Collegio Sindacale, in
carica per parte del periodo in contestazione (cfr. visura
storica della Società, doc. 5 att.).
A tal fine il Tribunale ritiene corretto utilizzare l’indicazione contenuta nelle premesse degli accordi transattivi conclusi tra il Fallimento e i sindaci convenuti, dove la quota di responsabilità addebitata in via solidale
ai sindaci da parte del Fallimento è calcolata come
28,29% delle domanda risarcitoria complessivamente
azionata. Sebbene non vincolante per il Tribunale, infatti, in relazione allo sviluppo delle vicende societarie
ed imprenditoriali della Società fallita, tale percentuale
di riparto deve ritenersi senz’altro congrua e rispondente
ad una corretta ripartizione delle responsabilità tra amministratore unico e Collegio sindacale.
Ne consegue che, per determinare il danno ascrivibile
al convenuto L., dall’intero come sopra quantificato
(euro 2.463.524,79) deve essere detratto il 28,29% dell’ammontare del danno causato in solido dal predetto e
dal Collegio sindacale. Quest’ultimo danno è relativo al
periodo in cui il Collegio sindacale è rimasto in carica
(21.3.2005/29.11.2006), danno da quantificare equitativamente in misura proporzionale rispetto al periodo di
tempo in cui l’intero danno si è prodotto (1.1.200513.11.2007), e dunque in euro 1.376.675. Ne discende
che il danno imputabile al L. è pari ad euro 2.074.064
(euro 2.463.524 - euro 389.461)...
Omissis”.
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IL COMMENTO
di Giovanni Facci (*)
Le azioni di responsabilità contro amministratori e controllori di società di capitali dichiarate insolventi sono spesso vanificate a causa delle difficoltà di dimostrare un pregiudizio in rapporto
di causalità giuridicamente rilevante rispetto alla condotta della parte convenuta.
Per questa ragione, davanti alla difficoltà di separare la singola operazioni o le singole operazioni
gestionali produttive di danno - in considerazione del sistema dinamico e complesso di operazioni della realtà d’impresa - sono state prospettate valutazioni di carattere prettamente equitativo, giustificate dall’impossibilità concreta di determinare il danno nel suo preciso ammontare. In
particolare, in caso di illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, ha trovato applicazione il
criterio della c.d. differenza dei netti patrimoniali.
Premessa
Le pronunce sopra riportate sono ben esemplificative delle problematiche spesso sottese alle azioni
di responsabilità esercitate dal curatore, ai sensi
dell’art. 146 l.fall., nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società dichiarate fallite.
In particolare, il Tribunale estense ribadisce il
principio - evidenziato dal noto arresto delle Sezioni Unite del maggio 2015 (1) - secondo il quale il
danno risarcibile non può essere individuato semplicisticamente nella differenza fra passivo ed attivo accertata in sede fallimentare. Per questa ragione, in considerazione della necessaria e rigorosa ricostruzione del rapporto causale fra condotta contestata all’amministratore infedele e danno risarcibile, i giudici ferraresi riconoscono - ai fini risarcitori - la sussistenza di un nesso eziologico soltanto
con riguardo ad un debito della società per un
mancato versamento dell’IVA.
Nel caso sottoposto all’esame del Tribunale toscano - riguardante l’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, in violazione dell’art. 2486 c.c. - la
domanda risarcitoria viene respinta non essendo
stato assolto da parte attrice l’onere di allegazione
di singoli atti di gestione non conservativi e conte(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, in Corr. giur.,
2015, 1568, con nota di Ferraro; Dir. fall., 2015, 509, in Giur.
it., 2015, 1413 con nota di Spiotta.
(2) Il tema si è posto da tempo all’attenzione degli interpreti; sull’argomento, tra i tanti, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporti di causalità fra atti di mala gestio e danni.
Lo stato della giurisprudenza, in Giust. civ., 1989, II, 86; P.G.
Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle
procedure concorsuali: una valutazione critica, in Fall., 1989,
969; R. Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Società, 1993, 617; A. Patti,
Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità
contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 96; S. Patti,
La responsabilità degli amministratori, in Resp. civ. prev., 2002,
872
stualmente non essendo stato provato il danno derivante da tali atti.
In una vicenda analoga, invece, il Tribunale di Milano evidenzia come la complessità dell’attività
aziendale ed il rilevante numero di “nuove operazioni di rischio” abbiano reso oltremodo difficoltosa la ricostruzione analitica delle conseguenze dannose “di ogni singola operazione posta illecitamente in essere in ottica non conservativa”. Per questa
ragione il danno viene quantificato in via equitativa, attraverso l’impiego del criterio presuntivo e
sintetico della differenza dei netti patrimoniali.
Nelle pronunce sopra riportate, viene così in rilievo il tema della liquidazione del danno che rappresenta verosimilmente l’aspetto maggiormente critico del contenzioso contro amministratori e sindaci,
a causa della difficoltà spesso riscontrata di dimostrare la sussistenza di un pregiudizio risarcibile (2).
Non è infrequente, pertanto, che le predette azioni
di responsabilità siano vanificate - come nel caso
del Tribunale di Pistoia - in assenza di un valido riscontro probatorio circa la sussistenza di un pregiudizio causalmente riconducibile alla condotta della
parte convenuta.
601; E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, in
Riv. dir. priv., 2004, 7; Signorelli, Azione di responsabilità ex art.
146 l. fall. e determinazione del danno, in Società, 2007, 1127;
Zampretti, La mala gestio degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la quantificazione del danno risarcibile, in
Giust. civ., 2009, 2441; Galletti, Brevi note sulla prova del danno
nelle azioni di responsabilità, in Giur. mer., 2010, 2505; Iorio, La
determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, 149; Vitiello, Il danno risarcibile nelle
azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 1, 2013,
163; Lamponi - Barbini, L’aggravamento del dissesto e la quantificazione del danno riconducibile alla responsabilità dei sindaci:
i criteri di liquidazione di natura equitativa, in Resp. civ. prev.,
2014, 1254.
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La responsabilità degli amministratori
e sindaci e risarcimento del danno
È indubbio che il solo accertamento di una condotta illecita in capo agli amministratori o ai controllori non è di per sé idonea ad integrare la fattispecie risarcitoria, se non viene fornita la prova di
un deterioramento del patrimonio sociale, che si
ponga in rapporto di conseguenzialità immediata e
diretta rispetto al comportamento antidoveroso oggetto di contestazione (3).
Al contempo, non tutti gli inadempimenti degli
amministratori o degli organi di controllo sono forieri di pregiudizio, come ad esempio nell’ipotesi di
irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili.
È innegabile, infatti, che tale condotta rappresenta
sicuramente l’inosservanza di un preciso obbligo di
fonte legale gravante sugli amministratori; tuttavia,
è altrettanto certo che le mere irregolarità contabili non sono di per sé idonee a cagionare un pregiudizio alla società (4).
Ai fini del risarcimento è necessario, invece, dimostrare che le irregolarità contabili hanno depauperato il patrimonio sociale (5), mentre la presunzione di responsabilità derivante dal disordine contabile non può portare anche ad una equivalente
presunzione di danno (6).
Allo stesso modo, un difetto di informazione circa
la situazione patrimoniale della società (7) oppure
l’omessa astensione dell’amministratore dalla deliberazione di un’operazione in una situazione di
conflitto d’interessi integrano la violazione di specifici obblighi di legge; tuttavia, tali condotte non
(3) Secondo i principi generali fissati dall’art. 2697 c.c., infatti, incombe sul danneggiato l’onere di provare le circostanze
che, sul piano della causalità giuridica, rendono determinato,
esistente o certo il danno; al contempo, la parte istante deve
dimostrare anche l’ammontare del pregiudizio e così quantificare il danno di cui chiede il ristoro; al riguardo, tra gli altri,
Franzoni, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2004, 149; Bianca, Diritto civile, La responsabilità, V,
Milano, 2012, 185; più in generale sulle funzioni ed ambito di
applicazione dell’art. 2697 c.c., S. Patti, Delle prove, in Commentario Cod. civ. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova,
sub art. 2697-2739, Bologna-Roma, 2015.
(4) Cass. 25 luglio 1979, n. 4415, in Giur. comm., 1980, II,
325, secondo la quale “L’omissione di una registrazione contabile meramente formale (nella specie di un incasso relativo ad
una vendita simulata) non comporta di per sé responsabilità
per “mala gestio” se non in quanto abbia arrecato un danno
alla società ed ai creditori sociali”.
(5) Sul punto, Trib. Milano 3 giugno 1988, in Giur. comm.,
1989, II, 945, che evidenzia come “Non sussiste responsabilità
degli amministratori per irregolarità contabili se dalla irregolarità non venga depauperato il patrimonio sociale”.
(6) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del
controllo, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2015, 298. Sull’utilizzo delle presunzioni nelle
azioni di responsabilità degli amministratori, S. Patti, La responsabilità degli amministratori: il nesso causale, in Resp. civ. prev.,
Danno e responsabilità 8-9/2016
sono rilevanti sul piano risarcitorio se contestualmente non viene fornita la prova del pregiudizio
economico subito dal patrimonio sociale a causa
delle predette violazioni (8).
Ugualmente significativa è l’ipotesi di violazione
del divieto di agire in concorrenza con la società
amministrata: il pregiudizio per il patrimonio della
società non è in re ipsa nella situazione concorrenziale, ma è meramente potenziale, potendo anche
non divenire mai attuale (9).
Più in generale, è difficilmente contestabile che,
nell’ambito della responsabilità civile, la sola dimostrazione dell’inadempimento dell’obbligazione, oppure (a seconda dell’inquadramento della
fattispecie di responsabilità) della violazione del
dovere del neminem laedere, non può determinare
un obbligo risarcitorio, essendo necessario anche
il riscontro probatorio del pregiudizio effettivo,
cagionato nella sfera patrimoniale o non patrimoniale della parte che si assume danneggiata (10).
(Segue) La funzione del risarcimento
del danno patrimoniale
Se si ragionasse diversamente in punto di necessaria dimostrazione del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno, si giungerebbe a conclusioni in contrasto con la funzione prevalentemente
riparatoria riconosciuta al risarcimento e più in generale alla responsabilità civile (11).
In particolare, mentre al danno non patrimoniale
sono tradizionalmente attribuite anche altre finali2002, 602; Platania, La responsabilità degli amministratori tra presunzioni ed onere della prova, in Società, 2015, 324.
(7) Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, secondo la quale “In tema
di responsabilità degli amministratori di società per azioni ex
art. 2392 c.c., l’eventuale esistenza di una denunciata violazione di legge (nella specie, consistente nell’avere presentato all’assemblea una relazione non rispondente alla situazione patrimoniale della società, così evitando l’adozione dei provvedimenti richiesti dagli art. 2446 e 2447 c.c. in caso di più gravi
perdite di capitale) non è di per sé sola sufficiente a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori
nei confronti delle società, ove non si dimostri che, a causa di
quella violazione, la società medesima ha subito un danno”.
(8) Al riguardo, A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur.
comm., 1997, I, 85.
(9) Trib. Milano 25 febbraio 1982, in Società, 1982, 784.
(10) Di recente, Cass. 3 dicembre 2015, n. 24632, in Banca
Dati pluris, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato
la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno per erronea inserzione del nominativo della
ditta ricorrente sull’elenco telefonico, in assenza della prova di
uno sviamento di clientela per tale disguido, tanto più che il recapito telefonico della ditta risultava, chiaramente, in altra parte dello stesso elenco cartaceo e in quello “on line”. Nella giurisprudenza meno recente, Cass. 5 marzo 1973, n. 608.
(11) Sulle funzioni attribuite alla responsabilità civile, le pa-
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tà accanto a quella riparatoria (12), invero, al danno patrimoniale - che rappresenta l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria nelle azioni previste dall’art.
146 l.fall. - è assegnata una finalità eminentemente
compensativa; per questa ragione, il risarcimento
del danno patrimoniale è strettamente ancorato all’entità del pregiudizio concretamente patito dal
soggetto danneggiato ed è incentrato così sul principio dell’equivalenza tra danno subito ed ammontare del danno risarcibile (13).
In altre parole, se nell’ambito del danno non patrimoniale sono riscontrabili - in chiave punitivo
sanzionatoria - ipotesi di cc.dd. danni aggravati
dalla condotta (14), tale impostazione - che tra
l’altro costituisce eccezione alla regola anche per il
danno non patrimoniale - non è proponibile per il
danno patrimoniale.
Il risarcimento del danno patrimoniale, infatti, è
volto a ripristinare per equivalente il deterioramento subito dal patrimonio del danneggiato, con
la conseguenza che il risarcimento non può superare l’entità del pregiudizio patito (15).
Solo in ipotesi tassative di legge sono stati
espressamente previsti criteri risarcitori del danno patrimoniale disancorati dalla commisurazione del pregiudizio subito dal danneggiato, come
ad esempio nella fattispecie dell’art. 125 del Codice della Proprietà industriale (come sostituito
dal D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140) (16) e dell’art.
158, L. 22 aprile 1941, n. 633 (come sostituito
dall’art. 5, D.Lgs. n. 140 del 2006) oppure del
comma 2, dell’art. 187 undecies del T.U. della finanza (17).
È evidente, però, che le predette ipotesi legislative - previste anche per evitare che le difficoltà
probatorie in punto di danno subito determinino
un indebito arricchimento del danneggiante (18)
- rappresentano eccezioni rispetto al principio generale. Al di fuori di espresse previsioni di legge,
quindi, non è consentito introdurre misure risarcitorie che si distacchino dal paradigma riparatorio (19). Per questo motivo, anche nella prospettiva di una liquidazione prettamente equitativa ai
sensi dell’art. 1226 c.c., l’oggetto dell’obbligazione
gine di Alpa, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile,
Milano, 1999, 131; più di recente, Perlingieri, Le funzioni della
responsabilità civile, in Rass. dir. civ., 2011, 115. Per una lettura
della responsabilità civile in prospettiva anche di deterrenza,
Busnelli - Patti, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 219.
(12) Sulle diverse funzioni attribuite al danno non patrimoniale, Salvi, La responsabilità civile, Milano, 2005, 64; Id., Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione
impossibile. Osservazione sui criteri per la liquidazione del danno
non patrimoniale, in Europa e dir. Priv., 2014, 517; Navarretta,
Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, 354.
Sul numero crescente di fattispecie legislativamente contemplate che travalicano la mera prospettiva riparatoria, Vincieri, I danni alla persona del discriminato, in La resp. civ., 2009,
840; Venchiarutti, Condotta discriminatoria nei confronti di persona disabile per mancanza sui marciapiedi delle piattaforme di
accesso ai mezzi di trasporto, in Nuova giur. civ., 2012, II, 967;
Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla
luce degli artt. 43 e 44 del T.U. sull’immigrazione, in Dir. fam. e
pers., 2002, 112. Al riguardo anche, S. Patti, Il risarcimento del
danno e il concetto di prevenzione, in La responsabilità civile,
2009, 165.
(13) Tra gli altri di recente, Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, in Riv. dir. civ., 2015, 95.
(14) Al riguardo, Monateri, I danni aggravati dalla condotta e
le circostanze del caso di cui all’art. 2056 c.c., in questa Rivista,
2015, 740; l’impiego di tale criterio, pertanto, denota una risalente propensione del diritto vivente a valorizzare il profilo della
condotta dell’autore dell’illecito, in una prospettiva indubbiamente sanzionatoria deterrente. Sull’incidenza del carattere
doloso del fatto, ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale, Bianca, Diritto civile, La responsabilità, V, Milano,
2012, 207.
Sulla funzione anche deterrente della riparazione del danno
non patrimoniale, tra gli altri, Cendon, Responsabilità per dolo
e prevenzione del danno, in Resp. civ. prev., 2009, 4; Scognamiglio, Danno morale e funzione deterrente della responsabilità
civile, ivi, 2007, 2485; Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile,
fatto illecito, danni punitivi, in Eur. e dir. priv., 2009, 909. Per
una ricostruzione delle funzioni attribuite al risarcimento del
danno non patrimoniale, Astone, Danni non patrimoniali, nel
Commentario Schlesinger, Milano, 2012, 242.
(15) Lo evidenzia Franzoni, Il danno patrimoniale, Convegno
La quantificazione del danno patrimoniale, in questa Rivista,
2010, supplemento al fasc. XI, 23, il quale sottolinea come nella valutazione del danno non patrimoniale, in caso di illecito
doloso, non si tratta di punire di più il responsabile ma di riparare alle conseguenze prodotte dal fatto che sono più avvertite
dalla vittima quanto maggiore è l’intensità della condotta del
responsabile o il lucro conseguitone.
(16) Sull’art. 125 c.p.i., tra gli altri Pardolesi, Riflessioni in tema di retroversione degli utili, in Riv. dir. priv., 2014, 217 - 236;
Galli, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Il Diritto industriale, 2012, 2, 109 - 120;
Spolidoro, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà
industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., in Rivista di diritto industriale, 2009, 3, 149 - 204; Martorana, Sulla retroversione degli
utili, in Dir. Ind., 2013, 6, 568 - 571.
(17) Al riguardo, Trib. Milano 21 dicembre 2006, in Giur.
comm., 2007, 6, II, 1291; in dottrina sull’art. 187 undecies T.u.f.,
si segnala Granelli, In tema di “danni punitivi”, in Resp. civ.
prev., 2014, 1760 - 1769; Mauceri, Abusi di mercato e responsabilità civile: danni all’integrità del mercato e danni non patrimoniali agli enti lucrativi lesi dal reato, in Nuova giur. civ.comm.,
2010, 10, 1, 1001 - 1009; Toschi Vespasiani, Il danno all’integrità del mercato finanziario: vanno risarciti alla Consob i danni
patrimoniali e non patrimoniali causati dal reato di aggiotaggio,
in Resp. civ., 2007, 726.
(18) Sul punto, Sirena, Il risarcimento dei c.d. danni punitivi
e la restituzione dell’arricchimento senza causa, in Riv. dir. civ.,
2006, 352. Un criterio simile era già stato adottato da Trib.
Monza 26 marzo 1990, in Foro it., 1991, I, 2863, al fine di liquidare il danno conseguente all’appropriazione non autorizzata
di una prestazione artistica (nella specie, pubblicazioni di immagini, di nudo); il danno è stato quantificato, in mancanza di
prova certa, “con riguardo all’illecito guadagno percepito dalla
rivista, consistente sia nell’aumento della tiratura determinato
dalla pubblicazione illecita, sia nella mancata erogazione del
compenso che sarebbe stato presumibilmente richiesto alla
persona ritratta”.
(19) Di recente, in argomento, Ponzanelli, Novità per i danni
esemplari?, in Contr. e impr., 2015, 1203, il quale evidenzia che
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risarcitoria del danno patrimoniale deve essere
strettamente commisurata all’entità del pregiudizio verificatosi.
La valutazione equitativa dell’ammontare del risarcimento, infatti, è solo un modo di determinazione e liquidazione giudiziale di ripercussioni patrimoniali sfavorevoli che sicuramente si sono
verificate ma che è impossibile provare nel loro
preciso ammontare. Per la liquidazione, pertanto,
è necessaria la certezza sull’an ossia sull’esistenza
del danno, in quanto il giudizio equitativo non è
un mezzo di prova, come invece le presunzioni
semplici o le nozioni di comune esperienza dell’art. 115 c.p.c., ma una tecnica che consente di
raggiungere la decisione a dispetto della mancanza di una prova precisa sul quantum del danno (20).
Ciò comporta che il danneggiato non è esonerato
dall’onere probatorio, essendo necessario che egli
fornisca la prova della concreta esistenza - e quindi
della certezza - del pregiudizio patrimoniale.
Al riguardo, il criterio per poter attribuire certezza
all’esistenza del danno e poterlo successivamente
misurare e stimare, anche in via equitativa, è
quello della causalità: un danno è risarcibile quando è in rapporto di causalità con il suo fatto produttivo e soltanto a questa condizione esso è certo (21).
Il requisito della certezza è assente, invece, quando
si tratta di un pregiudizio soltanto meramente po-
tenziale, come ad esempio nell’ipotesi già citate di
irregolarità contabili, di operazioni in conflitto di
interessi oppure di violazione del divieto di agire
in concorrenza con la società.
L’accertamento di tali irregolarità ed il riscontro di
un danno soltanto potenziale consente l’adozione
dei provvedimenti di cui all’art. 2409 c.c. (22), ma
non è di per sé sufficiente per una condanna al risarcimento del danno (23). Il danno meramente
potenziale è, infatti, di norma irrisarcibile salvo
che non assuma le forme della perdita di chance (24).
soltanto al legislatore spetta il compito di introdurre misure risarcitorie che si distaccano dal modulo riparatorio.
(20) Lo ricorda, tra gli altri, Franzoni, Strage del 2 agosto
1980 e risarcimento allo Stato, in questa Rivista, 2015, 713; in
argomento anche Rossetti, Dei fatti illeciti, II, in Commentario
del codice civile, diretto da Gabrielli, Torino, 2011, 470; Bianca,
Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, 187; Carbone,
La quantificazione del danno, in Convegno La quantificazione
del danno patrimoniale, in questa Rivista, 2010, supplemento al
fasc. XI, 15. In giurisprudenza, sulla necessità che il danno sia
certo per la liquidazione in via equitativa, tra le tante, Cass. 16
maggio 2013, n. 11968; Cass. 20 maggio 2011, n. 11254;
Cass. 15 febbraio 2008, n. 3794; Cass. 8 novembre 2007, n.
23304; Cass. 15 marzo 2007, n. 5997.
(21) Tra gli altri, Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano,
1996, 210; Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto
civile, diretto da Sacco, Torino, 1998, 281.
(22) Sull’adozione dei provvedimenti dell’art. 2409 c.c. in
caso di omessa o irregolare tenuta della contabilità sociale, in
specie quando reca grave turbamento alla attività sociale, si
veda App. Bologna 19 marzo 1988 e Trib. Monza 17 maggio
2001; in caso di violazione del divieto di agire in concorrenza
con la società, Trib. Napoli 9 ottobre 1986, in Banca dati Pluris.
(23) Franzoni, Società per azioni, Dell’Amministrazione e del
controllo, II, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca,
Bologna-Roma, 2015, sub. art. 2407 c.c., 297; sul danno potenziale che consente l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2409 c.c., Zanardo, Denuncia al tribunale per gravi irregolarità: il requisito del danno potenziale alla società, in Società,
2013, 914; Sangiovanni, Il controllo giudiziario nella società per
azioni, in Giur. mer., 2010, 1893; Sega, Il controllo giudiziale
nella s.r.l.: orientamenti giurisprudenziali, in Nuova giur. civ.
comm., 2007, 139; Mainetti, sub art. 2409 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino ed al., I, Bologna, 2004, 936;
Speranzin, Denunzia al tribunale, stato di liquidazione della società e riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2004, II,
547, nt. 21. In giurisprudenza, tra le altre, App. Salerno 8 novembre 2012, in Foro it., 2012, I, 3489; Trib. Napoli 22 giugno
2004, in Giur. comm., 2006, II, 949.
(24) Lo evidenzia Travaglino, Il danno patrimoniale extracontrattuale, in questa Rivista, 2010, 11S, 48; Monateri, La responsabilità civile, cit., 281, distingue invece tra “danno meramente
eventuale” o “mero pericolo di danno” che non sono risarcibili
e danno da pericolo in cui, invece, il pregiudizio è certo ed attuale ed influisce negativamente sul bene minacciato, diminuendone il valore economico.
(25) Sull’art. 1223 c.c., quale norma finalizzata a contenere
l’estensione dell’obbligazione risarcitoria, sulla base di un indagine causale sul rapporto tra l’evento di danno e le conseguenze dannose, che presuppone quindi già risolta la questione
della causalità materiale, di recente Cass. 17 settembre 2013,
n. 21255, in Corr. giur., 2014, con nota di Bona, Tortious interference with buisness relationships, rimedio effettivo, “nuova”
(ulteriormente affinata) causalità civile e danni punitivi, di Scognamiglio, Ancora sul caso Cir c. Fininvest: brevissime note sull’interpretazione del contratto di transazione e sulla delimitazione
del suo oggetto, di Boccagna, Corruzione di un componente del
collegio, mancata impugnazione della sentenza e risarcimento
del danno: riflessioni in margine alla sentenza della Cassazione
sul “Lodo Mondadori”; in Resp. civ. prev., 2014, 143; in Europa
e dir. Priv., 2013, 1097, con nota di Di Majo; in Foro it., 2013, I,
3121, con note di Costantino - Palmieri - Pardolesi.
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Le condotte oggetto di contestazione
e le regole della causalità giuridica
Nelle azioni esercitate dal curatore ai sensi dell’art.
146 l.fall., il danno - in assenza di norme speciali deve essere stimato secondo le regole generali sulla
causalità giuridica, di cui agli artt. 1223 ss. c.c.
La finalità della predetta disciplina è quella di delimitare le conseguenze dannose risarcibili, in modo
da circoscrivere la responsabilità del danneggiante
alle conseguenze immediate e dirette della sua condotta ed evitare che egli possa essere chiamato a rispondere di qualsiasi conseguenza remota, improbabile o indiretta che possa discendere dall’inadempimento (25).
Alla luce di tali criteri generali, appare quindi indubbio che la quantificazione dei danni deve ne-
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cessariamente muovere dalla condotta oggetto di
contestazione.
In altre parole, la vexata quaestio della quantificazione del danno risarcibile non può essere esaminata in termini “generici”, come se “gli illeciti eventualmente ascrivibili” ai gestori e controllori “idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno”, si
traducessero sempre “in un’unica e ben determinata tipologia di comportamenti” (26).
A questo proposito, si è già evidenziato che non
tutti gli inadempimenti sono idonei a deteriorare il
patrimonio della società e così a disperdere quella
ricchezza che, invece, avrebbe dovuto essere conservata ed aumentata (27).
La questione, pertanto, deve essere impostata valutando in primo luogo quale specifico inadempimento è oggetto di contestazione, rispetto al quale
incombe sull’attore un preciso onere di allegazione (28). Al contempo, l’istante deve provare il collegamento causale tra il predetto inadempimento e
l’evento di danno lamentato.
In particolare, in alcune ipotesi può essere più
agevole dimostrare il rapporto di consequenzialità tra la condotta ed il pregiudizio, come ad
esempio nell’ipotesi di condotte di natura distrattiva (29).
In questo caso, appare evidente che il pregiudizio
risarcibile è rappresentato sotto il profilo del danno
emergente dall’ammontare dell’importo dissipato oppure dal valore del bene distratto (30); ugualmente, allorché oggetto dell’attività distrattiva sia
stato un bene aziendale produttivo la cui distrazione abbia impedito in concreto l’esercizio della normale attività d’impresa, può profilarsi un danno da
lucro cessante da mancata utilizzazione del bene,
da stimarsi secondo i tradizionali criteri della regolarità statistica e della normalità, ferma restando
quindi la ragionevole certezza in ordine all’esistenza del pregiudizio (31).
In ipotesi, invece, di violazione di norme tributarie
o previdenziali, è necessario dimostrare quanto meno l’insorgenza di passività per sanzioni, oneri ed
interessi maturati, non trovando applicazione alcun criterio presuntivo circa il pregiudizio subito
dal patrimonio della società a causa della riscontrata irregolarità (32).
Allo stesso modo, in caso di violazioni nella redazione del bilancio che determinano sopravvalutazioni del patrimonio sociale, con conseguente sovratassazione per utili non conseguiti, il pregiudizio per il patrimonio sociale può essere rappresentato dal maggior onere fiscale (33) oppure dalla ri-
(26) Lo evidenzia Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100,
in relazione all’uso del criterio della differenza tra il passivo e
l’attivo accertati in sede fallimentare. Dubbi circa l’esistenza di
un criterio univoco e risolutivo per stimare i danni risarcibili sono segnalati anche da A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale
sociale: quale criterio?, in Fall., 2013, 176.
(27) In questo senso, tra gli altri, A. Patti, Il danno e la sua
quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 85.
(28) Sotto questo profilo viene in rilievo l’allegazione della
condotta antidoverosa, in funzione della corretta delimitazione del dibattito processuale, nel rispetto dei principi della
domanda, della corrispondenza ad essa della pronuncia e
dell’instaurazione di un pieno e leale contraddittorio tra le
parti; così A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, in Fall.,
2013, 173.
L’onere di allegazione incombente all’attore nelle azioni di
responsabilità promosse dalla curatela è stato valorizzato
anche da Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, cit., la
quale ha anche rimarcato la distinzione tra allegazione e prova. Sulla distinzione tra allegazione e prova, tra gli altri, Cordopatri, Appunti in tema di allegazione, di prova e di presunzione, in Giust. civ., 2007, 679. Sull’inquadramento generale
dell’allegazione, come atto e come onere della parte, Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987,
272.
(29) Su ipotesi di responsabilità per atti di natura distrattiva,
di recente Cass. 11 aprile 2014, n. 8591; App. Potenza 23 gennaio 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Bologna, Sez. spec., 29 dicembre 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Milano 6 marzo 2013,
in Banca dati Pluris; Trib. Roma 3 novembre 2011, in Banca dati Pluris.
(30) Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità
della curatela, in Giur. comm., 2013, 163. Al riguardo, Cass.
28 aprile 1997, n. 3652, la quale evidenzia che “ la conservazione del patrimonio sociale costituisce uno dei doveri principali facenti capo agli amministratori, e la distrazione a proprio favore di somme appartenenti alla società costituisce,
con ogni evidenza, un comportamento contrario a tale dovere. Comportamento che - è quasi superfluo dirlo - si pone in
immediato rapporto di causalità con il danno consistente,
per la società, nella perdita della disponibilità dell’indicata
somma”. In argomento, anche Trib. Milano 8 maggio 2006,
in Giur. it., 2006, 11., 2087.
(31) Sui criteri di stima del danno da lucro cessante, tra gli
altri Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012,
134.
(32) Si esclude, comunque, la risarcibilità di danni provocati dall’irrogazione di sanzioni amministrative determinate
dal disordine contabile, nel caso in cui la società non si sia
avvalsa di fatti sopravvenuti estintivi dell’obbligazione sanzionatoria Cass. 2 dicembre 2011, n. 25854, in Nuova giur.
civ. comm., 2012, I, 417, con nota di Piacentini, che ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva accertato
che la società aveva erroneamente pagato la sanzione amministrativa in misura ridotta quando in realtà l’obbligazione
si era estinta. In questo caso, infatti, che il pregiudizio derivante dall’irrogazione della sanzione non è più conseguenza
immediata e diretta del fatto dell’amministratore, in quanto
il creditore avrebbe potuto evitare il pregiudizio con l’uso
dell’ordinaria diligenza.
(33) Cass. 6 marzo 1970, n. 558, in Foro it., 1970, I, 1728;
in argomento, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, il quale evidenzia che il danno non
deriva dall’irregolare tenuta della contabilità o dall’illegittima
redazione del bilancio, ma da altri fatti, rispetto ai quali le
omissioni formali operano talvolta come concause e soprattut-
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partizione fra i soci di utili fittizi e non realizzati (34).
Significativa ad esempio è anche l’ipotesi di vicende riguardanti l’accantonamento di liquidità monetaria extrabilancio (cc.dd. fondi neri), talvolta impiegate per procurare vantaggi alla società attraverso, però, operazioni illecite, come ad esempio nell’ipotesi di acquisizione di commesse importanti,
attraverso il pagamenti di tangenti o regalie.
A questo riguardo, si può osservare che la costituzione di riserve extracontabili è generalmente idonea a procurare un pregiudizio, coincidente in primo luogo con il valore delle risorse distratte ed allocate al di fuori del patrimonio ufficiale della società; così ad esempio, in caso di mancata contabilizzazione o iscrizione in bilancio di beni o denaro
della società che sono poi trasferiti ad altri soggetti, il danno è rappresentato dall’entità delle somme
stornate dal patrimonio sociale ed attribuite ingiustificatamente ad altri soggetti.
Allo stesso modo, se le riserve vengono costituite
tramite la stipula di contratti per prestazioni fittizie
oppure per prestazioni effettive ma con maggiorazione di prezzo, il pregiudizio immediato e diretto è
rappresentato dalla perdita economica patita dal
patrimonio sociale per effetto delle operazioni
sprovviste di giustificazione ed in violazione dell’obbligo di agire nell’interesse della società (35).
Una costituzione di riserve extracontabili, invece,
non cagiona conseguenze immediate sul piano risarcitorio - ferme restando in ogni caso quelle
eventuali derivanti dall’irregolarità contabile - nell’ipotesi in cui gli amministratori riescano a provare che non vi è stata una lesione concreta del patrimonio sociale, ad esempio perché le riserve seppur intestate fittiziamente a terzi - non sono state utilizzate e sono ancora nella disponibilità della
società, oppure allorché le predette somme sono
state utilizzate per il perseguimento dell’oggetto sociale e dell’interesse sociale (36).
In questo caso, la prova riguarda così la destinazione attribuita dagli amministratori alle somme occultate, se pertinente o meno con l’oggetto sociale.
Si esclude, tuttavia, che possa essere considerato in
rapporto di strumentalità con l’oggetto sociale il
compimento di un atto illecito, anche se effettuato
allo scopo di procurare vantaggi alla società, come
ad esempio nell’ipotesi di occultamento di riserve
volto al pagamento di tangenti o regalie (37).
Allo stesso modo, non possono essere tenuti in
considerazione, ai fini della quantificazione del
pregiudizio risarcibile, gli eventuali vantaggi ricevuti dalla società da operazioni illecite realizzate
to come circostanze che incidono sulla valutazione della colpa
nel comportamento tenuto dagli amministratori; secondo l’a.
non potrà andare indenne da censura l’amministratore che
proceda al compimento di nuove operazioni dopo la perdita
del capitale sociale, se egli non abbia potuto rilevare tale perdita per via del disordine contabile in cui versava la società, a lui
stesso imputabile.
In giurisprudenza, anche App. Milano 9 ottobre 1984, in Società, 1985, 177, secondo la quale “Benché non possa dubitarsi che la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili
costituisce fonte di responsabilità per gli amministratori di una
società di capitali, la domanda di risarcimento del danno, conseguente alle predette omissioni, proposta contro gli amministratori dal curatore del fallimento della società, può essere accolta solo se l’attore prova la relazione esistente fra le predette
inadempienze e il danno”.
(34) Sul punto, ancora Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato
della giurisprudenza, in Fall., 1989: “... le illegittime sopravvalutazioni del patrimonio sociale operate in bilancio possono essere fonte diretta di responsabilità degli amministratori verso i
terzi (ad esempio per sottoscrizione di azioni o per erogazione
di credito alla società cui altrimenti il terzo non si sarebbe risolto), ma che di regola non sono fonte di danno per la società,
ma semmai il mezzo per occultare ulteriori e diversi inadempimenti agli obblighi legali e statutari, causa - questi sì - di danno (come nel caso in cui l’illegittima sopravvalutazione sia servita ad occultare la perdita del capitale sociale, consentendo la
prosecuzione dell’attività della società, altrimenti impossibile).
Nello stesso modo la sottovalutazione in bilancio di determinati cespiti o la tenuta di una contabilità falsa od irregolare
può consentire gestioni extra contabili che di per sé stesse
non sono fonte di danno per la società, perché non influiscono
sulla consistenza patrimoniale, ma possono costituire il mezzo
per il compimento di operazioni in conflitto d’interessi o al di
fuori dell’oggetto sociale o ancora per veri e propri atti distrattivi”. In giurisprudenza, Trib. Milano 15 novembre 1973, in
Giur. comm., 1974, II, 67.
(35) In questo senso Trib. Milano 21 aprile 2005, in Giur.
comm., 2007, 675, con nota di Nocella, Creazione e gestione di
fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta.
(36) Trib. Milano 21 aprile 2005, cit., secondo la quale pertanto la costituzione di una contabilità occulta farebbe presumere la sussistenza di un danno per il patrimonio sociale, fatta
salva la prova contraria da parte degli amministratori. In questo senso anche Trib. Torino 27 febbraio 2015, cit.; in senso diverso, circa il fatto che la gestione extra contabile non è di per
sé fonte di danno per la società, perché non influiscono sulla
consistenza patrimoniale, ma possono costituire il mezzo per il
compimento di operazioni in conflitto d’interessi o al di fuori
dell’oggetto sociale o ancora per veri e propri atti distrattivi,
Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza,
in Fall., 1989, 973; Bonelli, Violazioni in tema di bilancio e responsabilità degli amministratori, in Giur. comm., 1975, I, 321.
In questo senso anche Campana, La responsabilità civile degli
amministratori delle società di capitali, in Nuova giur. civ.
comm., 2000, II, 253. In giurisprudenza, sulla responsabilità
per costituzione di cc.dd. fondi neri, App. Genova 5 luglio
1986, in Giur. comm., 1988, II, 730.
(37) Lo evidenzia Trib. Milano 21 aprile 2005, cit., secondo
il quale vi è un’esigenza di affidamento dei terzi, i quali non potrebbero, in caso contrario, fare affidamento sulle statuizioni
del legislatore nella valutazione degli atti degli amministratori.
Nello stesso senso, Trib. Torino, 27 febbraio 2015, cit.; al riguardo, si segnalano le considerazioni svolte da Nocella, Creazione e gestione di fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta, cit.
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Sono assai frequenti le ipotesi - come nelle vicende
esaminate dal Tribunale di Pistoia e dal Tribunale
di Milano - in cui la condotta oggetto di contestazione è rappresentata dall’omessa tempestiva assunzione delle iniziative disposte dalla legge in caso di
riduzione del capitale sociale, al di sotto del minimo legale previsto dall’art. 2484, comma 1, n. 4,
c.c., ed in caso di insolvenza.
Ai fini del risarcimento, quindi, si deve stimare
l’aggravamento del dissesto e più in generale il pregiudizio patito dal patrimonio della società, a causa
del ritardo nell’ottemperare alle prescrizioni dell’art. 2485 c.c.; a questo proposito, va tenuto in
considerazione che - a differenza del regime previgente, in cui l’art. 2449 c.c. sanciva il divieto di
intraprendere nuove operazioni - il comma 1 dell’art. 2486 c.c. consente, al verificarsi di una causa
di scioglimento, il potere di gestire la società ai soli
fini della conservazione dell’integrità e del valore
del patrimonio sociale (41).
Dopo il verificarsi della causa di scioglimento, pertanto, la gestione deve essere finalizzata alla conservazione del valore e dell’integrità del patrimonio, sia a tutela dei soci che non hanno più interesse all’incremento del patrimonio, ma alla sua liquidazione, sia a tutela di coloro che sono già creditori, che hanno interesse a conservare integra la
garanzia generica costituita dal patrimonio della
società (42).
La responsabilità è così collegata al discostamento
da uno standard di gestione conservativa, che, se
meglio si adatta alla variabilità delle situazioni
conseguenti allo scioglimento della società, impegna l’interprete in un più approfondito esame dei
singoli casi (43).
Anche per questa ragione, rappresentata dalle peculiarità delle situazioni conseguenti allo scioglimento della società, sono stati prospettati diversi
criteri al fine di determinare e liquidare il pregiudizio cagionato dall’illegittima prosecuzione dell’attività: dal criterio del deficit fallimentare (44), a
quello puramente equitativo (45), al criterio del-
(38) Lo evidenzia Nocella, Creazione e gestione di fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta, cit.
(39) Sui rapporti tra violazione di norma penale ed invalidità
del contratto, Grasso, Illiceità penale e invalidità del contratto,
Milano, 2002; Rabbiti, Contratto illecito e norma penale, contributo allo studio della nullità, Milano, 2000.
(40) Al riguardo, Trib. Torino 27 febbraio 2015, cit.
(41) Sulla responsabilità al verificarsi dello scioglimento della società, Fabiani, L’azione di responsabilità per le operazioni
successive allo scioglimento nel passaggio tra vecchio e nuovo
diritto societario, in Fall., 2004, 297; E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, cit., 11; Ambrosini, Le azioni di
responsabilità, in Ambrosini - Cavalli - Jorio, Il fallimento, in
Trattato di diritto commerciale, (n. 5), Padova, 2009, 759; Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, in Società, 2009, 282;
Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa
nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009,
571; Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale, in
Società, 2011, 43. Per una sostanziale equivalenza tra il precedente divieto di nuove operazioni, dopo il verificarsi di una
causa di scioglimento, e l’attuale obbligo di gestire la società
per finalità conservativa del patrimonio sociale, Franzoni, Società per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, Bologna-Roma,
2008, 431.
(42) Proto, L’azione dei creditori sociali nella società
a responsabilità limitata e la determinazione del danno, in Fall.,
2010, 737, il quale evidenzia altresì che la società ha interesse
al rispetto dell’obbligo della gestione conservativa, anche nel
caso in cui il patrimonio sia già integralmente perduto; in questa particolare ipotesi, i creditori anteriori e i soci avrebbero
perso ogni interesse alla gestione conservativa, posto che non
avrebbero più nulla da preservare, ma non si può negare che
la società mantenga un interesse a non vedere incrementato
l’ammontare dei suoi debiti ai quali essa dovrebbe comunque
far fronte in caso di ricapitalizzazione e che in ogni caso possono pregiudicarla nella possibilità di accedere ad un concordato fallimentare.
(43) Lo evidenzia A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale
sociale: quale criterio?, in Fall., 2013, 175; Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla
perdita del capitale, cit., 282. Al riguardo, anche Zamperetti, La
prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009, 571, il quale si
sofferma ampiamente sul passaggio - operato dalla riforma dal divieto di “nuove operazioni” (contenuto nell’art. 2449 c.c.)
al più ampio criterio di gestione conservativa dell’impresa.
(44) Al riguardo, Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Foro
it., 2000, I, 243, con nota di Delle Vergini.
(45) Trib. Genova 6 aprile 1993, in Fall., 1993, 1263, con nota di Naldini; Trib. Napoli 4 aprile 2000, in Società, 2000, 1243,
con nota di Fabrizio, secondo la quale “nell’ipotesi in cui l’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. viene proposta in danno
per mezzo della contabilità separata. Appare evidente, infatti, non solo la diversa fonte del danno
rispetto a quella dei vantaggi, ma anche la circostanza che le utilità, ai fini della c.d. compensatio
lucri cum damno, debbono essere effettivamente entrate nel patrimonio della società, in modo che
quest’ultima ne possa disporre legittimamente (38).
È indubbio, invece, che la stipula di contratti a seguito di corrutela determina l’invalidità degli stessi,
con conseguente ripetizione delle prestazioni (39);
al contempo, la società potrebbe essere esposta ad
ulteriori conseguenze assai pregiudizievoli, come ad
esempio, le azioni risarcitorie da parte delle imprese concorrenti danneggiate, la confisca del profitto
del reato, la responsabilità ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (40).
La prosecuzione non consentita dell’attività
d’impresa
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l’aggravamento del passivo, inteso come aumento
della massa debitoria (46), a quello incentrato su
una minuziosa ricostruzione delle singole operazioni e sui singoli pregiudizi cagionati da ogni singola
violazione (47).
In particolare, il criterio del c.d. deficit fallimentare - utilizzato soprattutto nell’ipotesi di mancanza
o di irregolarità nella tenuta della contabilità sociale, ostativa ad una ricostruzione delle vicende
della gestione della società (48) - è stato al centro
di un interessante dibattito, culminato con l’arresto delle Sezioni Unite n. 9100 del maggio
2015 (49). Queste ultime, come già ricordato, hanno censurato l’impiego del criterio liquidativo incentrato sulla differenza tra il passivo e l’attivo, come accertati in sede fallimentare, in quanto non rispondente all’esigenza di una rigorosa verifica della
sussistenza di un rapporto di conseguenzialità causale tra la condotta illecita ed il danno.
Tale metodo di quantificazione del danno, infatti,
può risultare approssimativo ed erroneo sia per difetto, sia per eccesso. Può accadere, ad esempio,
che alcuni creditori possano aver rinunziato ad insinuarsi nel fallimento, con la conseguenza che il
deficit fallimentare risulta inferiore rispetto alla perdita derivante dalla condotta illecita; in tal modo,
il rapporto tra attivo e passivo fallimentare potrebbe addirittura risolversi a favore degli amministratori e dei sindaci che, a causa della loro cattiva gestione, siano stati responsabili del dissesto (50).
Al contempo, una liquidazione basata sul criterio
del deficit fallimentare risulta sovente errata per
eccesso, con conseguente allocazione ai convenuti
di un danno che non è conseguenza immediata e
diretta della loro condotta. Questo, ad esempio, accade quando la società è fallita anche a causa dell’andamento sfavorevole del mercato, mentre ai
convenuti sono imputati fatti inidonei di per sé
stessi a determinare il dissesto (51).
Ugualmente, il criterio può risultare erroneo per
eccesso, poiché attivo e passivo vengono determinati in modo ben differente da quanto avviene per
un’impresa in attività; così, ad esempio, l’attivo
sconta la svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa (come l’avviamento od i
marchi) (52), mentre il passivo potrebbe aumentare per effetto delle sanzioni connesse ai debiti d’im-
degli amministratori essenzialmente in ragione della violazione
del divieto di cui all’art. 2449 c.c. di compiere nuove operazioni dopo che si è verificato un fatto che ha determinato lo scioglimento della società, è inaccettabile la soluzione di identificare automaticamente il danno nella differenza fra il passivo e
l’attivo del fallimento. Pertanto, qualora risulta difficile identificare e/o quantificare il pregiudizio sulla base della comparazione dei netti patrimoniali individuati nei diversi momenti dell’attività sociale vietata con detrazione del più lontano dal più vicino nel tempo, è preferibile far riferimento ad una valutazione
equitativa”.
(46) Trib. Torino 10 febbraio 1995, in Fall., 1995, 1150. Al riguardo, Proto, L’azione dei creditori sociali nella società a responsabilità limitata e la determinazione del danno, cit., 738,
una volta provato che nonostante il sopraggiungere una causa
di scioglimento la gestione non è stata finalizzata alla conservazione del patrimonio sociale, che al contrario è stato esposto
al rischio tipico d’impresa, l’amministratore dovrebbe essere
ritenuto responsabile per tutta la perdita verificatasi nel corso
della gestione non conservativa, salvo la possibilità di dimostrare che la gestione “conservativa” avrebbe provocato a sua
volta delle perdite che dovranno essere detratte dal complessivo ammontare del danno risarcibile.
(47) In particolare, alla stregua di quest’ultima impostazione, si tratta di individuare quali operazioni, quali contratti, quali
attività gestorie hanno determinato un maggior indebitamento
per la società, attività che invece non sarebbero state svolte
ove il fallimento fosse stato dichiarato tempestivamente, con
conseguente consolidamento del patrimonio sociale e della relativa esposizione debitoria; sul punto, Trib. Venezia 19 maggio
2015, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/cri.php?id_cont=14012.php; Trib. Pistoia 19 gennaio 2016, Pres.
Amato, rel. Garofalo, inedita; Trib. Prato 14 settembre 2012, in
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7838.pdf; Trib. Torre Annunziata 14 dicembre 2011, in Dir. fall., 2012, 372, con
nota di Pannella; Trib. Padova 24 giugno 2009, in Fall., 2010,
729; Trib. Milano 10 maggio 2001, in Giur. it., 2001, 1898, con
nota di Spiotta; significativa la motivazione di Trib. Lecce 3 no-
vembre 2009, in Dir. fall., 2010, II, 430, con nota di Restuccia.
(48) Si è, così, introdotto un criterio presuntivo in virtù del
quale l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili, tale
da impedire in via assoluta la ricostruzione delle vicende societarie, vale a fondare ex se la responsabilità ed il conseguente
risarcimento dell’intero deficit fallimentare. In questo senso,
Cass. 8 luglio 2009, n. 16050, in Società, 2010, 407, con nota
di Cassani; Cass. 23 luglio 2007, n. 16211, in Società, 2008,
1364; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. 4 aprile 1998, n.
3483; Cass. 17 settembre 1997, n. 9252. Al riguardo, anche
Trib. Milano 27 aprile 2009, in Giur. it., 2009, 2466; Trib. Milano 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864, con nota di Leone; Trib. Milano 30 ottobre 2003, in Fall., 2005, 45, con nota di
Rondinone.
(49) In particolare, Cass. 3 giugno 2014, n. 12366, la quale
ha rimesso al Primo Presidente della Corte di cassazione per
valutare l’opportunità dell’assegnazione del ricorso alle Sezioni
Unite, in considerazione della divergenza tra le pronuncia sulla
questione dell’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e della liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità del dato costituito dalla differenza tra attivo e passivo fallimentare.
(50) Al riguardo, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della
giurisprudenza, in Fall., 1989, 980; Badini Confalonieri, Determinazioni del danno risarcibile nell’azione di responsabilità: note
a margine di due interventi giurisprudenziali, in Fall., 1999,
1079; A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I,
95. Di recente anche Franzoni, Società per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in De Nova (a cura di), Commentario
del Codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma,
2015, 298.
(51) Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di
causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza,
in Fall., 1989, 980.
(52) Al riguardo, Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall.,
2009, 565.
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posta e previdenziali che la società in esercizio potrebbe sovente evitare (53). In applicazione del criterio del deficit fallimentare, quindi, anche pregiudizi non causalmente ricollegabili alla condotta oggetto di contestazione sarebbero imputati ai gestori
ed ai controllori.
Il criterio della differenza dei netti patrimoniali
Davanti alla difficoltà di separare la singola operazione o le singole operazioni gestionali produttive
di danno (54) - in considerazione del sistema dinamico e complesso di operazioni della realtà d’impresa (55) - ha trovato particolare applicazione, al
fine di determinare il pregiudizio cagionato dall’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, il criterio della c.d. differenza dei netti patrimoniali (56).
L’applicazione del predetto criterio presuppone, in
prima battuta, che si determini il momento a partire dal quale l’attività d’impresa è proseguita indebitamente, individuato nel momento in cui l’amministratore o il sindaco convenuto ha acquisito consapevolezza dello stato di dissesto o di insolvenza (57). La seconda operazione consiste nel determinare il momento della dichiarazione di fallimento o, se c’è stata, della messa in liquidazione, antecedente alla dichiarazione di fallimento, oppure il
(53) E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di
responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita,
cit., 21.
(54) Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, cit., 573;
Proto, L’azione dei creditori sociali nella società a responsabilità
limitata e la determinazione del danno, cit., 738.
(55) Sulle difficoltà di operazione di “parcellizzazione” delle
operazioni, tra gli altri, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato
della giurisprudenza, cit., 980; Spiotta, L’atteso chiarimento delle Sezioni Unite sull’utilizzabilità del criterio del deficit., cit.,
1413; Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale,
cit., 42, il quale evidenzia l’impossibilità di una ricerca dei nocumenti causati da singole operazioni, stante l’interdipendenza
generalmente esistente tra tutte le operazioni aziendali e quindi la pressoché impossibilità di una loro separata misurazione.
(56) Sull’impiego di tale criterio, Cass. 8 febbraio 2005, n.
2538; Trib. Bologna 22 ottobre 2015, in Banca dati Pluris; Trib.
Prato 30 giugno 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Lucca 29 aprile 2015, n. 814, in Banca dati Dejure; Trib. Perugia 25 febbraio
2015, in Banca dati Pluris; Trib. Milano 22 gennaio 2015, in
Fall., 2015, 615; Trib. Bologna 3 novembre 2014, in Banca dati
Pluris; Trib. Vicenza 20 ottobre 2014, in Banca dati Pluris; Trib.
Taranto 5 febbraio 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Lucca 9 novembre 2012, in Banca dati Dejure; Trib. Lecce 11 novembre
2011, in Banca dati Dejure; Trib. Milano 20 aprile 2009, in Giustizia a Milano, 2009, 29; Trib. Trani 14 aprile 2005, in Banca
dati Dejure; Trib. Genova 24 novembre 1997, in Fall., 1998,
843, con nota di Massaro; Trib. Bologna 30 marzo 2004, in
http://www.giuraemilia.it/wfcBancaDati/wfProvvedimentoSele-
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momento in cui il gestore od il controllore è stato
sostituito.
Rispetto a tali momenti viene così calcolata la differenza tra il valore del patrimonio netto alla data
iniziale (opportunamente rettificato in considerazione dello svilimento che il patrimonio avrebbe
comunque subito), in cui l’attività di gestione caratteristica avrebbe dovuto cessare, ed il valore del
patrimonio netto al momento finale in cui, per il
fallimento (o per l’anteriore messa in stato di liquidazione), la gestione caratteristica è effettivamente
cessata oppure il convenuto viene sostituito.
Dalla comparazione tra l’esito di una liquidazione
anticipata e quella che si verifica a seguito del ritardato procedimento liquidatorio (volontario o
concorsuale), emerge, quindi, il pregiudizio risarcibile, in quanto i saldi di periodo misurano proprio
l’evoluzione negativa del patrimonio netto della
società nel periodo - preso in considerazione - di illegittima prosecuzione dell’attività (58).
(Segue) Le criticità nell’impiego del criterio
dei netti patrimoniali di periodo
Il criterio dei netti patrimoniali di periodo - rispetto al criterio del c.d. deficit fallimentare - segue un
procedimento più conforme ai principi della causalità giuridica - volti a delimitare il danno alle sole
conseguenze immediate e dirette dell’inadempizionato.aspx?ID=s516_98BO&; Trib. Milano 7 febbraio 2003, in
Società, 2003, 1385, con nota di Redeghieri Baroni; Trib. Milano 8 ottobre 2001, in Giur. it., 2002, 795.
Tale criterio è stato prospettato da A. Patti, Il danno e la sua
quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 96; Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno.
Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 973. Più di recente, E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita,
cit., 25; Galletti, Brevi note sull’uso dei criteri dei netti patrimoniali di periodo nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it.
(57) Al riguardo, Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, 163, il quale
evidenzia come tale momento possa coincidere con la diminuzione del capitale sociale al di sotto dei limiti di legge (art.
2447 c.c.) o, in alternativa, con il determinarsi dello stato di insolvenza, che impone all’organo gestorio di presentare il ricorso diretto ad ottenere la dichiarazione del proprio fallimento. I
due momenti possono non coincidere, ben potendo l’uno precedere l’altro.
In argomento, anche A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, cit.,
177; Ferrari, Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività sociale, in Società, 2012, 274; Franzoni, Società
per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in De Nova (a
cura di), Commentario del Codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2015, 303; Verna, La determinazione del
danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa
dopo la perdita del capitale sociale, in Società, 2011, 41.
(58) Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, 149.
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mento - e così è più rispondente alla finalità compensativa propria della teoria differenziale del danno patrimoniale (59).
Per questa ragione, la metodica è stata impiegata
talvolta con “motivata convinzione” (60), mentre
in altri casi è stata utilizzata - come nella vicenda
sottesa al giudizio del Trib. di Milano sopra riportato - come criterio residuale, applicabile ex art.
1226 c.c., nell’impossibilità (ad esempio per l’ampiezza del decorso temporale tra il momento di integrale erosione del capitale sociale e la data di dichiarazione di fallimento) di ricostruire gli effetti
dannosi delle singole condotte contestate, della cui
specifica allegazione e della conseguente prova del
relativo danno è onerato il curatore (61).
È evidente, tuttavia, che il criterio - comunque
presuntivo - presenta criticità in relazione alla non
automatica riferibilità dell’intera perdita incrementale al compimento di nuove operazioni e così pure
alla prosecuzione dell’attività. Non tutta la perdita
riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento, infatti, è sempre riferibile alla prosecuzione
dell’attività medesima, potendo in parte prodursi
anche in pendenza della liquidazione o durante il
fallimento (62).
Allo stesso modo, una maggior perdita di gestione
può essere frutto dell’esito del tutto incolpevole
della condotta degli amministratori, i quali anche
in una situazione di liquidazione ed, anzi, proprio
al fine di liquidare il patrimonio conservandone il
valore, possono essere costretti a mantenere costi
fissi, e talvolta ad affrontarne di nuovi per evitare
pregiudizi maggiori (63).
In considerazione di tali rilievi, l’impiego del predetto criterio è stato, in alcuni precedenti, ritenuto
inadeguato, salva la dimostrazione che l’aggravamento del dissesto non si sarebbe verificato qualora
gli amministratori avessero operato correttamente (64).
In altre parole, alcune decisioni sminuiscono il valore del ragionamento presuntivo basato sul criterio della perdita di periodo, richiedendo - ai fini
della quantificazione del danno - la prova che l’incremento delle perdite, successivo al verificarsi della causa di scioglimento, sia stato interamente conseguenza delle nuove operazioni e che tale incremento sarebbe stato assente (o comunque minore),
a seguito di una tempestiva messa in liquidazione
della società o sottoposizione alla procedura fallimentare (65).
Al contempo, è del tutto significativa la motivazione della sentenza del Tribunale di Pistoia del gennaio 2016 sopra riportata, la quale - nel respingere
la domanda di risarcimento - evidenzia come l’attore abbia “lamentato la prosecuzione dell’attività
d’impresa, comportamento di per sé non vietato, senza
precisare quali sarebbero stati gli atti di mala gestio e
cioè le condotte poste in essere dagli amministratori in
(59) Lo sottolinea Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, cit., 303.
(60) Lo rileva A. Patti, Azione di responsabilità e danno per
prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, cit., 177, in
relazione al precedente di Trib. Genova 24 novembre 1997, in
Fall., 1998, 843, il quale fa riferimento ad un criterio basato
sulla comparazione dei netti patrimoniali (ovvero dei valori risultanti dal computo algebrico delle sottovoci tutte precedute
da numero romano di cui all’art. 2424, “Passivo”, voce “Patrimonio netto”) individuati nei diversi momenti dell’attività sociale vietata, con detrazione del più lontano dal più vicino nel
tempo. Al riguardo anche Trib. Torino 10 febbraio 1995, in
Fall., 1995, 1151.
(61) Al riguardo, Trib. Milano 18 gennaio 2011, in Fall.,
2011, 589; evidenzia che il metodo dei netti patrimoniali è utilizzabile solo se non è possibile “ricostruire gli effetti pregiudizievoli conseguenti a ciascuna delle “condotte di mala gestio
accertate”, Trib. Prato 14 settembre 2012, cit.; applica il criterio dei cc.dd. netti differenziali, evidenziando come il “tempo
trascorso tra il momento di integrale erosione del capitale sociale e la data della dichiarazione di fallimento pari a circa due
anni, l’assenza di una contabilità di magazzino, l’anomalo incremento delle rimanenze negli anni 2006 e 2007 rilevato dal
ctu, pur in presenza di un importante calo di fatturato, costituiscono fattori ostativi ad una minuziosa ricostruzione ex
post delle singole operazioni vietate”, Trib. Prato 30 giugno
2015, cit.
(62) Sul punto, Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall.
2009, 565, con nota di Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale: “ne deriva che il danno va dimostrato in concreto come
conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio e non
può essere determinato in via presuntiva con riferimento alla
perdita di periodo, salvo che si possa dimostrare che quella
perdita non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato”.
(63) Lo evidenzia Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, in Società, 2012, 268, il quale pone ad esempio il caso dell’acquisto
della materia prima necessaria alla conclusione di un appalto,
la cui interruzione comporterebbe gravose penali oppure dei
canoni di locazione dell’immobile che funge da sede oppure
da magazzino.
(64) Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, cit., la quale sottolinea che il danno deve essere dimostrato in concreto come
conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio, non
potendo essere determinato in via presuntiva.
(65) Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, in Società, 2012,
268, secondo la quale “ ... la curatela ... avrebbe dovuto anzitutto verificare (per poi allegarlo) se dopo la perdita del capitale non sufficientemente ripianata, erano state intraprese iniziative imprenditoriali al di fuori di una logica meramente conservativa, individuare per quanto possibile siffatte iniziative e indicare quali conseguenze negative sul piano del depauperamento del patrimonio sociale ne fossero derivate ... Oppure avrebbe dovuto dedurre e spiegare le ragioni che, impedendo di cogliere nell’ambito di un’attività dinamica e complessa singole
operazioni dannose e le loro specifiche conseguenze, giustificavano nella fattispecie il ricorso ad un criterio presuntivo di
individuazione e prova di tale attività (quello appunto dell’aggravamento del risultato negativo di esercizio al netto di costi
fissi o di falcidie frutto del mutamento dei criteri contabili) nonché di individuazione e liquidazione del danno (quello della
c.d. perdita differenziale)”.
Danno e responsabilità 8-9/2016
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È innegabile che le predette censure abbiano il
pregio di evidenziare che la metodica incentrata
sui cc.dd. “netti patrimoniali di periodo” - alla stregua di ogni criterio di semplificazione dell’accertamento del danno risarcibile, basato su una valutazione equitativa da parte del giudice ex art. 1226
c.c. (66) - non possa essere adottata in modo automatico.
Il criterio, invece, deve costituire la premessa per
la quantificazione del danno, che deve essere stimato tenendo in considerazione tutte le peculiarità
che si accompagnano all’attività d’impresa.
Per questa ragione, alla metodica vengono spesso
apportati correttivi, al fine di consentire di misurare in modo più attendibile l’incremento del deficit
patrimoniale imputabile all’illecita continuazione
dell’esercizio dell’impresa ed all’impiego non conservativo del patrimonio sociale (67). Di recente, è
stata proposta anche l’applicazione del principio
contabile OIC 5, Bilanci di liquidazione, il quale sulla base delle più recenti acquisizioni dell’economia aziendale - permette di valutare il patrimonio
netto alla data iniziale ed a quella finale dello stato
di liquidazione con criteri omogenei di liquidazione (68).
Le predette rettifiche alla procedura basata sui netti di periodo rendono, pertanto, più adeguato il criterio rispetto alle circostanze rilevanti nel caso di
specie; al contempo, esse rispondono ad una regola
di portata generale nella stima e nella liquidazione
del danno che deve essere applicata ogni qualvolta,
successivamente all’evento dannoso, accadano
nuovi eventi capaci di modificare l’entità del pregiudizio (69).
Non va dimenticato, tuttavia, che il criterio di accertamento del danno rimane comunque presuntivo e, come tale, alla stessa stregua di ogni presunzione semplice, consente la prova contraria (70).
Al contempo, l’aspetto maggiormente di rilievo è
che la metodica rappresenta comunque un criterio
di semplificazione basato su una valutazione equitativa da parte del giudice ex art. 1226 c.c. e come
tale applicabile “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare”.
In altre parole, la vexata quaestio circa la quantificazione dei danni nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore deve essere risolta, in primo
luogo, alla luce della disciplina generale degli artt.
1223 e ss., che presuppone - al di fuori di qualsiasi
automatismo di calcolo - una precisa verifica del
rapporto di conseguenzialità immediata e diretta
tra il comportamento oggetto di contestazione ed
il pregiudizio lamentato.
È pertanto onere di parte attrice allegare gli atti di
mala gestio degli amministratori nonché allegare e
provare il danno derivante da tali condotte. La
metodica dei cc.dd. netti di periodo - alla stessa
stregua di ogni altro criterio di quantificazione presuntiva del danno - può, invece, trovare applicazione soltanto attraverso lo schermo normativo dell’art. 1226 c.c.” (71) ossia sulla base di una liquidazione equitativa.
Alla liquidazione equitativa si può fare ricorso - come anche di recente sottolineato dai giudici di legittimità - “a condizione che la sussistenza di un
danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi
in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed
immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossi-
(66) Di recente sulla liquidazione in via equitativa ex art.
1226 c.c., Cass. 7 marzo 2016, n. 4377, la quale in modo incisivo evidenzia che “la liquidazione equitativa ai sensi dell’art.
1226 c.c. non può sbiadirsi in un responso oracolare, né svilirsi
al livello di un frettoloso calcolo ragionieristico del tutto sganciato dalle specificità del caso concreto”.
(67) Così ad esempio, vengono esclusi dal saldo differenziale i costi che sarebbero stati ugualmente sostenuti oppure gli
effetti di operazioni non imputabili ai convenuti, come ad
esempio la svalutazione di partecipazioni conseguente all’approvazione dei bilanci delle controllate e\o di crediti (al riguardo, Trib. Milano 22 gennaio 2015, cit.; Trib. Milano 1° aprile
2011, n. 4480, cit., 268). Più in generale sulle rettifiche, Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo,
cit., 305; Galletti, Brevi note sull’uso dei criteri dei netti patrimoniali di periodo nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it.,
17.
(68) Sul principio contabile OIC 5 Bilanci di liquidazione, utilizzato per misurare l’incremento del deficit imputabile agli amministratori che hanno colpevolmente ritardato la liquidazione
stessa, Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale sociale, in Società, 2011, 37; sull’impiego di tale principio anche A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione
non consentita dell’attività di impresa, cit., 178.
(69) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e
del controllo, cit., 305.
(70) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e
del controllo, cit., 304.
(71) Lo sottolinea E. Gabrielli, La quantificazione del danno
nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della
società fallita, cit., 28.
violazione del divieto di cui all’art. 2486 c.c. perché
consistenti, ad esempio, in assunzione di nuovi impegni
od obbligazioni”.
Viene così sottolineata la necessità di un “rigoroso
accertamento” degli atti adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa nonché delle “conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate”.
(Segue) La liquidazione in via equitativa
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bilità o particolare difficoltà di fornire la prova del
quantum debeatur” (72).
È quindi evidente che in caso di assenza dei presupposti appena richiamati, l’applicazione della
metodica della c.d. differenza dei netti patrimoniali
rappresenterebbe non già un mezzo di liquidazione
del danno in funzione equitativa, ma uno strumento che verrebbe a determinare, di fatto, una semplificazione eccessiva degli oneri probatori facenti
capo alla curatela fallimentare (73), con conseguente criticità rispetto alla natura meramente sussidiaria del rimedio equitativo ai fini risarcitori.
Non va dimenticato, infine, che questa appare la
soluzione individuata dalle Sezioni Unite del maggio 2015 (74), volta a contemperare le opposte esigenze, rappresentate da una parte dalla necessità di
impedire indebite estensioni della responsabilità
degli amministratori, dall’altro evitare che la difficoltà di quantificare il danno, a causa della mancanza delle scritture contabili, si risolva in vantaggio per chi è responsabile della sottrazione, distruzione od omessa redazione delle stesse (75). I giudici di legittimità, infatti, riconoscono che il c.d. deficit patrimoniale possa essere impiegato, anche
parzialmente, nell’ambito di una liquidazione equitativa, solo se - non essendo stato possibile accertare per circostanze oggettive, ovviamente non imputabili all’inerzia della parte istante, gli specifici
effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili
alla condotta del convenuto - l’impiego di tale criterio presuntivo appaia logicamente sostenibile, in
relazione alle circostanze del caso concreto (76).
(72) Cass. 31 marzo 2016, n. 6218, la quale evidenzia che
“grava, pertanto, sulla parte interessata dimostrare, secondo
la regola generale posta dall’art. 2697 c.c., ogni elemento di
fatto, di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l’apprezzamento
equitativo esplichi la sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione della misura del danno stesso”.
(73) Lo pone in evidenza, Trib. Prato 14 settembre 2012, in
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7838.pdf.
(74) Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, cit.
(75) Lo evidenzia Spiotta, L’atteso chiarimento delle Sezioni
Unite sull’utilizzabilità del criterio del deficit, in Giur. it., 2015,
1413. Sulla necessità di un contemperamento tra indebite
estensioni della responsabilità degli amministratori e controllo-
ri e quella di evitare che la difficoltà di quantificare il danno si
risolva a vantaggio di chi lo ha cagionato, anche Ferrari, Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività
sociale, in Società, 2012, 277, la quale sottolinea che molto
spesso le domande risarcitorie sono respinte, per il mancato
accertamento del nesso di causalità tra gli atti posti oggetto di
contestazione e le passività accertate.
(76) Questo, ad esempio, è l’ipotesi in cui l’inadempimento
allegato dal curatore sia idoneo a cagionare il deficit fallimentare, così che - ferma restando comunque la possibilità per i
convenuti di fornire la prova contraria volta a superare la presunzione di danno - l’utilizzo della metodica consente comunque una verifica circa la sussistenza di un rapporto di consequenzialità causale tra la condotta ed il danno.
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Abuso del diritto
Cessione di crediti
L’abuso della cessione
del credito risarcitorio
Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227 - Giud. Lombroso - A. S.r.l. c. Zurich Insurance Public Limited Company
La duplicazione di richieste derivanti da un unico fatto lesivo si traduce in una condotta contraria al dovere di
correttezza e buona fede.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Giud. pace Perugia 12 gennaio 2010, n. 45; Giud. pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162; Giud. pace Massa 16 ottobre 2011, n. 319; Giud. pace Torino 11 marzo 2014, n. 1375; Giud. pace Roma 20 ottobre 2014, n. 29219; Trib. Milano 14 ottobre 2015, n. 6099.
Difforme
Giud. pace Milano 1° giugno 2011, n. 6999; Giud. pace Torino 11 giugno 2012; Giud. pace Milano 19 febbraio
2015, n. 2149.
Il Giudice di Pace (omissis).
Svolgimento del processo e motivi della sentenza
Con l’atto di citazione sopra indicato la A. S.r.l. ha
convenuto in giudizio la Zurich Insurance Plc per sentirla condannare al pagamento dell’importo di euro
292,00, oltre ad euro 73,78 per spese stragiudiziali, con
gli interessi e le spese del presente giudizio.
Assumeva l’attrice che il 30.07.14 in **, il veicolo Citroen C3 tg. **, di proprietà di A. V., e assicurato presso la Zurich Insurance Plc, veniva urtato dalla vettura
tg. ** di proprietà della **, assicurata con Axa Ass.ni.
Nell’immediatezza del sinistro le parti avevano provveduto a redigere modulo di constatazione amichevole di
incidente, nel quale il conducente del veicolo di proprietà della ** riconosceva la propria esclusiva responsabilità.
Il signor V., nelle more della riparazione della propria
vettura, aveva provveduto a prendere a noleggio dalla
A. S.r.l. un veicolo di cortesia e, al momento della riconsegna del suddetto, aveva ceduto alla A. S.r.l. il credito vantato per il fermo tecnico conseguente ai danni
subiti, quantificato in euro 292,00, come da fattura prodotta.
L’odierna attrice aveva pertanto inoltrato alla Zurich richiesta di risarcimento dell’importo alla stessa ceduto.
La Zurich Insurance Plc aveva rifiutato tuttavia di procedere al pagamento di quanto richiesto, per cui l’attrice si era vista costretta ad adire le vie legali.
Si costituiva regolarmente in giudizio la Zurich Insurance Plc eccependo preliminarmente di aver già provveduto, a seguito di notifica di atto di citazione, al pagamento del fermo tecnico, avendo concordato con il si-
884
gnor V. il versamento in suo favore di euro 619,00 onnicomprensive, precisando inoltre che euro 1475,00
erano già stati pagati prima della notifica della citazione.
In subordine eccepiva comunque la improcedibilità del
presente giudizio per l’illegittimo frazionamento giudiziale di un credito unitario.
Poiché l’attrice, dopo la prima costituzione, non compariva né alla prima udienza del 09.11.15, né a quella successiva del 16.12.15, la Zurich Insurance Plc precisava
le proprie conclusioni e la causa era assegnata a sentenza.
La convenuta ha correttamente documentato che nell’atto di citazione notificatole dal signor A. V. erano
stati richiesti sia i danni riportati dal veicolo dello stesso, sia i danni da fermo tecnico. Dopo la notifica dell’atto il signor V. aveva accettato l’importo di euro
619,00 (oltre ad euro 1475,00 già versatigli ante causam) a saldo e stralcio per tutti i danni dallo stesso subiti (comprensivi evidentemente anche del danno da fermo tecnico).
E poiché, dopo la notificazione della citazione con cui
si è instaurata la presente causa, l’attrice ha rinunciato
a coltivare questo giudizio non replicando così a quanto
eccepito dalla Zurich, la sua domanda appare del tutto
infondata.
Risulta infatti sufficientemente documentato dalla convenuta che gli importi versati al V. fossero comprensivi
di tutti i danni subiti dallo stesso in relazione all’incidente sopra descritto.
La circostanza che l’attrice non sia mai comparsa nel
presente giudizio, nulla eccependo così in contrario a
quanto sostenuto dalla convenuta avvalora la fondatezza
di quanto eccepito dalla Zurich Insurance Plc.
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Abuso del diritto
Ogni altra eccezione sollevata dalla convenuta, a parere
di questo Giudice, rimane perciò assorbita da quanto sopra esposto.
Ad abundantiam si evidenzia comunque che la cessione
dell’importo relativo al costo del noleggio da parte del
signor V. all’odierna attrice si concreta in un frazionamento del credito che, a parere di questo Giudice, non
è proponibile. “Una duplicazione di richieste derivanti da
un unico fatto lesivo si traduce in una condotta contraria al
dovere di correttezza e buona fede” (Trib. Milano sent. n.
6099 del 14.10.15).
La Corte di Cassazione, con le recenti sentenze n. 8576
del 09.04.13 e n. 5491 del 19.03.15 ha confermato che
“la condotta del creditore che procede a frazionare il proprio
credito avanzando diverse domande giudiziali volte ad ottenere la condanna del debitore al pagamento di quanto dovutogli costituisce una condotta contraria ai canoni di buona
fede e correttezza” (Cass. n. 23726/07).
In tal senso si vedano anche le sentenze del Giudice di
Pace di Milano n. 6539/15 e n. 6532/15.
La domanda della A. S.r.l. deve pertanto essere rigettata.
Le spese di lite seguono la soccombenza e, tenuto conto
del valore e della natura della presente controversia,
vengono liquidate come in dispositivo.
(omissis).
Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099 - Est. Ilarietti - N. G. S.r.l. c. Zuritel S.p.a.
Non è consentito al danneggiato in presenza di un unico fatto illecito frazionare la tutela giurisdizionale e ciò
neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale
disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva
del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale. La parcellizzazione del credito è condotta contraria a buona fede non solo quando sfocia in una duplicazione di azione giudiziarie, ma altresì quando fonda
una duplicazione di richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta
idonea a sorprendere la buona fede del debitore (fattispecie in tema di cessione parziale del credito risarcitorio relativa al costo per il noleggio di una vettura sostitutiva utilizzata dal danneggiato-cedente durante il ricovero del mezzo incidentato a seguito di un sinistro stradale)
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286.
Difforme
Cass., SS.UU., 10 aprile 2000, n. 108.
Il Tribunale (omissis).
Fatto e diritto
Con atto di citazione in appello ritualmente notificato
come in epigrafe, l’odierna appellante proponeva appello avverso la sentenza del Giudice di Pace n. 118004/11
con cui era stata rigettata la pretesa risarcitoria svolta
in primo grado da N. G., cessionaria del relativo credito
risarcitorio, volta ad ottenere dalla compagnia assicuratrice convenuta in primo grado, sulla base della procedura di cui agli artt. 149 e 150 D. Lvo 7.9.2005, n. 209
(indennizzo diretto) in favore di N. G. il risarcimento
del danno pari ad Euro 216,00, corrispondente al corrispettivo del noleggio dell’auto sostitutiva utilizzata dal
M. M. durante il periodo strettamente necessario alla riparazione dei danni riportati al proprio mezzo, quale
danno derivato dal sinistro occorso in data 16.9.2010.
Contestava la motivazione della sentenza del Giudice
di pace che aveva deciso la sentenza concludendo per la
improponibilità della azione, sulla base dei motivi di appello che si andranno a considerare.
Costituendosi nel presente grado di Giudizio Zuritel
supportava le argomentazione svolte dal Giudice di Pa-
Danno e responsabilità 8-9/2016
ce, richiamava le argomentazioni già svolte in primo
grado e chiedeva la conferma della sentenza impugnata.
L’appello è infondato.
Deve intanto premettersi che le questioni circa la completezza della richiesta risarcitoria che deve essere svolta
alla compagnia assicuratrice in regime di indennizzo diretto e la questione della parcellizzazione del credito sono state poste all’attenzione del giudicante in primo
grado sono state ampiamente dibattute (cfr. al riguardo
la comparsa di costituzione in primo grado pag. 6 e pag.
32, trattato anche da parte convenuta in primo grado
nelle note finali pag. 14) sicché non è dato comprendere su che cosa si fondi la dedotta violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa allegata da
parte appellante come motivo di appello enucleato a
pag. 2 dell’atto di citazione in appello.
Ugualmente in nessun modo il Giudice di pace ha fondato la sua decisione negando la libera circolazione del
credito; il medesimo ha, per contro, incentrato la propria motivazione sulle norme relative al sistema di indennizzo diretto previsto dal disposto di cui agli artt.
149 e 150 Codice delle Assicurazioni e sulle disposizioni
dettate per l’incentivazione della definizione stragiudi-
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ziale delle richieste risarcitorie che costituiscono condizioni di proponibilità dell’azione in sede giudiziaria; in
particolare il Giudice di Pace ha sottolineato che corollario di tali previsioni è il carattere di completezza della
richiesta risarcitoria e di definitività della stessa nell’ambito del rapporto di collaborazione e buona fede
che deve caratterizzare i rapporti fra le parti.
Sul punto le censure mosse dall’appellante non colgono
nel segno e devono essere rigettate.
Il Giudice di Pace ha argomentato che si pone in contrasto con le finalità perseguite dal legislatore e poste
alla base della normativa specifica oltre che con le norme del principio di correttezza e buona fede, la condotta
del danneggiato che, come nel caso di specie, ha operato, in relazione alle richieste risarcitorie nascenti dallo
stesso sinistro, due cessioni di credito, una avente ad
oggetto i costi delle riparazioni che è stata definita con
il pagamento da parte della Zuritel e l’altra avente ad
oggetto il credito risarcitorio relativo al noleggio della
autovettura sostitutiva.
Si consideri che parte attrice in primo grado ha esplicitamente riconosciuto che il credito risarcitorio fu frazionato, allegando che la cessione rilasciata in favore della
carrozzeria L. e documentata dal doc. 1 fascicolo Zuritel
“ebbe ad oggetto unicamente il credito relativo alle sole riparazioni effettuate al mezzo del Sig. M.” (cfr. doc. 1 fascicolo Zuritel), dando atto altresì che a tale cessione fece
seguito il pagamento effettuato da Zuritel per la somma
di Euro ** corrispondente esattamente all’importo della
fattura fiscale emessa per la riparazione, laddove la cessione di credito effettuata in favore di N. G. atteneva
esclusivamente al danno derivante dal noleggio di auto
sostitutiva durante il periodo della riparazione (cfr. le
deduzioni svolte a pag. 3 della comparsa conclusionale
in primo grado).
Sul punto la decisione del Giudice di pace, ampiamente
argomentata, deve essere interamente richiamata e condivisa.
Va solo ulteriormente valorizzata a sostegno delle argomentazioni svolte dal giudice di prime cure la considerazione che il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che può opporre al cedente, così
come osservato da Zuritel già in primo grado e che la ritenuta necessità della completezza della richiesta risarcitoria va di pari passo con la illegittimità della frazionabilità del credito derivante da un unico rapporto obbligatorio, secondo le considerazioni che seguono.
Al riguardo il giudice di legittimità ha con più di una
pronuncia statuito che “non è consentito al danneggiato in
presenza di un unico fatto illecito … frazionare la tutela giurisdizionale … e ciò neppure mediante riserva di far valere
ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento in
quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale
nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del
generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante debitore, si risolve
anche in un abuso dello strumento processuale” (sentenza
28286/2011).
Le argomentazioni al riguardo, ampiamente trattate da
Cass. 15476/2008 e SU 23726/2007 in materia contrat-
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tuale, si fondano sull’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto che si protrae anche nelle richieste
di adempimento e quindi anche nella fase processuale;
le medesime argomentazioni sono state valorizzate in
materia extracontrattuale da Cass. 28286/2011 che ha
argomentato nel senso che “i principi di buona fede e correttezza per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in
rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà ex art. 2 Costituzione costituiscono un canone oggettivo ed una clausola
generale che attiene non solo al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma anche alla fase processuale”.
La parcellizzazione del credito è condotta contraria a
buona fede non solo quando sfocia in una duplicazione
di azioni giudiziarie, ma altresì quando fonda una duplicazione di richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta idonea a
sorprendere la buona fede del debitore.
Posto che il debitore può opporre al cessionario tutte le
eccezioni che poteva opporre al creditore originario tali
considerazioni devono essere confermate anche nel caso
che ci occupa, ove all’originario creditore è subentrato
il cessionario.
L’appello va pertanto rigettato.
Parte appellante dovrà essere condannata al pagamento
delle spese di lite sostenute nel presente grado di giudizio che si liquidano, ex DM 55/2014, come da dispositivo.
(omissis).
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Abuso del diritto
IL COMMENTO
di Stefano Argine e Giampaolo Miotto (*)
Nel commentare le pronunce milanesi in rassegna, gli autori colgono l’occasione per esaminare
il meccanismo negoziale incentrato sulla cessione dei crediti risarcitori, di cui si fa largo uso in
ambito r.c. auto. Il sempre più diffuso utilizzo di tale strumento contrattuale suscita attente riflessioni in tema di abuso del diritto, categoria dogmatica sempre più presente nella normale
dialettica degli affari e del contenzioso civile.
Il dibattito scientifico relativo alla configurabilità
giuridica del contratto di cessione del credito applicato all’ambito dei sinistri stradali pare ormai
aver raggiunto un punto senza ritorno (1).
Non vi è dubbio, infatti, che la cessione del credito
risarcitorio abbia conosciuto in questi ultimi anni
uno sviluppo senza precedenti nella normale prassi
liquidativa susseguente a un incidente stradale,
specie per quanto attiene al risarcimento del danno
a cose (2). Un tale fenomeno, del resto, non è affatto casuale: in ragione della perdurante crisi economica in cui versa il nostro Paese e del relativo
impoverimento di famiglie e consumatori, per molti danneggiati da sinistri stradali anticipare spese
(non previste nei propri bilanci) per riparazione
del mezzo incidentato, noleggio di un veicolo sostitutivo o spese sanitarie e di cura rappresenta sicuramente una grave difficoltà. Di qui l’affermazione
di strumenti giuridici e negoziali - quali appunto la
cessione del credito - atti ad impedire un immediato esborso di somme di denaro a carico del danneggiato, allocando piuttosto l’onere di recuperare la
posta risarcitoria in capo a carrozzieri, noleggiatori
di auto, medici, tecnici della riabilitazione e persi-
no avvocati che, divenuti titolari del credito, formuleranno nei confronti degli istituti assicurativi
tenuti ex lege alla liquidazione del danno le richieste di pagamento diretto delle prestazioni fornite.
Inutile dire come un tale meccanismo negoziale di per sé legittimo e immune da espliciti divieti
normativi - abbia ingenerato nel volgere di poco
tempo un vero e proprio “mercato” (3) dei crediti
risarcitori, gestito da operatori professionali dediti
perlopiù alla gestione della contrattualistica di cessione legata ai servizi offerti al pubblico. Alla liquidazione dei danni derivanti da un sinistro stradale,
quindi, spesso partecipa una vasta congerie di soggetti cessionari, ognuno portatore di un proprio
specifico interesse patrimoniale.
Questa situazione, tra l’altro, crea non poche difficoltà da parte degli istituti assicurativi obbligati,
sia ai fini di definire il risarcimento del danno in
tempi rapidi e certi (come previsto dal legislatore),
sia in termini di aggravio del costo dei sinistri.
In questo quadro non pare azzardato rilevare come
la sottoscrizione di un contratto di cessione del
credito sia divenuto - nel settore dell’infortunistica
stradale - un vero e proprio mezzo di pagamento (4), al pari di quella di un assegno.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Cfr. in argomento, per tutti, Argine, Cessione del credito
risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva: profili interpretativi,
in Resp. civ. prev., 2011, 2462 ss.; Fraschina, La cessione del
credito risarcitorio derivante da fatto illecito (da sinistro stradale),
in Riv. giur. circ. trasp., 2013 (edizione online); e, con accurato
spirito comparativo, Violante, La circolazione del credito tra favor per il cessionario e tutela del debitore ceduto, in questa Rivista, 2012, 1023 ss.
(2) È diffusissima, infatti, la prassi di cedere le poste risarcitorie relative al danno materiale dell’autoveicolo e ai suoi accessori (fermo tecnico, noleggio, spese di soccorso stradale).
Nondimeno, la S.C. è recentemente intervenuta nel senso di
consentire la libera cedibilità del credito risarcito anche con riferimento a pregiudizi di natura non patrimoniale (lesioni, danno morale): Cass. 3 ottobre 2013, n. 22601, in Nel diritto,
2014, 43, con commento di Maffei, Sulla trasmissibilità inter vivos del credito al risarcimento del danno non patrimoniale; in
www.altalex.it, con nota di Buffoni, Danno non patrimoniale da
sinistro: i magici effetti della cessione del credito; in Resp. civ.
prev., 2014, 539, con nota di Argine, Alla ricerca dei giusti confini della cessione del credito; in Arch. giur. circ. sin., 2014, 637,
con nota di Senzacqua, Sì alla cessione del credito al risarcimento del danno, anche non patrimoniale e 733, con nota di Ritunno, La cessione del credito e il sistema del risarcimento diretto del codice delle assicurazioni. Leggasi in argomento Violante, Danno non patrimoniale e cessione del credito risarcitorio, in
questa Rivista, 2015, 114 ss.
(3) Miotto, Cessione di crediti risarcitori e disciplina delle attività finanziarie, in Resp. civ. prev., 2013, 553; Argine, Alla ricerca dei giusti confini della cessione del credito, cit., 555.
(4) L’ordinamento, come noto, consente la cessione di un
credito in luogo dell’adempimento (art. 1198 c.c.), ma le ipotesi che ci interessano appaiono ontologicamente diverse nei
presupposti applicativi. Infatti, nel caso di cui alla norma codicistica citata, il debitore cede un proprio credito che vanta nei
confronti di terzi al fine di adempiere ad una ulteriore obbligazione assunta verso il creditore-cessionario: quest’ultimo, tuttavia, non partecipa alla formazione del credito oggetto del ne-
Premessa: il caso di specie
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Sulla base di tali presupposti - fermo restando che
la Suprema Corte ha sancito in alcune sue note
pronunce la legittimità della cessione del credito
risarcitorio nel settore r.c. auto (5) - non è certo
un caso che la giurisprudenza di merito abbia rilevato alcuni profili critici in questo strumento negoziale, impedendone un utilizzo abnorme o abusivo.
Così è accaduto, ad esempio, allorquando la gestione seriale delle cessioni dei crediti risarcitori ad
opera di carrozzieri o società di rent auto è stata ricondotta allo schema tipico dell’attività di finanziamento secondo le leggi dettate in materia bancaria e creditizia, con relativa declaratoria di nullità dei suddetti contratti poiché stipulati da soggetti
privi dei necessari requisiti autorizzativi (6).
Le due sentenze milanesi in commento, che possono senz’altro annoverarsi a questa famiglia di giudicati scettici, si sono occupate invece di un fenomeno che non di rado si accompagna a quello della
cessione del credito risarcitorio, cioè quello inerente al suo frazionamento.
In entrambi i casi si trattava, infatti, della richiesta
di rimborso della spesa di noleggio di un veicolo
sostitutivo utilizzato dal danneggiato-cedente nelle
more delle riparazioni del proprio, rimasto incidentato a seguito del sinistro. In ambedue le ipotesi il
danneggiato aveva inizialmente incaricato il pro-
prio carrozziere di fiducia di riparare il mezzo di sua
proprietà, sottoscrivendo in suo favore una prima
cessione del credito. Il riparatore aveva quindi rivolto la propria richiesta risarcitoria all’assicuratore
tenuto al risarcimento del danno, limitandola alla
frazione di credito cedutagli, e aveva celermente
ottenuto il pagamento del corrispettivo delle proprie prestazioni, oggetto di cessione, rilasciando
quietanza liberatoria a definizione della pratica risarcitoria.
Solo successivamente il danneggiato aveva sottoscritto una seconda ed ulteriore cessione di credito
in favore di una società di rent, che gli aveva fornito un veicolo sostitutivo nel tempo necessario ad
eseguire gli interventi riparativi del caso. Alla richiesta di risarcimento del corrispettivo della fattura di noleggio, l’assicuratore aveva opposto la già
raggiunta definizione transattiva della controversia,
rifiutando il risarcimento richiestogli.
Ne seguivano due distinti contenziosi giudiziari,
che vedevano soccombere le società di noleggio
cessionarie del credito in virtù di due principali
motivazioni, afferenti l’una all’illegittimità del frazionamento del credito risarcitorio azionato in giudizio, e l’altra all’incompletezza della richiesta risarcitoria, ritenuta imprescindibile in ambito r.c.
auto.
gozio di cessione, ma si limita ad accettare la titolarità del credito, accollandosi l’onere del suo recupero. Nelle fattispecie in
esame, invece, il soggetto cessionario partecipa attivamente
nella determinazione del credito, in quanto è esso stesso che
emette la fattura per la riparazione (carrozziere), il noleggio del
veicolo sostitutivo (società di rent), le terapie sanitarie (medico
curante), le prestazioni professionali forensi (avvocato patrocinatore): non vi è chi non veda profili di rischio legati alla unilaterale ed arbitraria quantificazione del credito da parte dello
stesso cessionario in conflitto di interessi, con relativa ipotesi
di nullità del negozio per indeterminatezza dell’oggetto. Sul
punto cfr. in giurisprudenza ex multis Giud. pace Perugia 12
gennaio 2010, n. 45; Giud. pace Milano 4 febbraio 2010, n.
2070; Giud. pace Brescia 8 febbraio 2010, n. 237; Giud. pace
Milano 9 maggio 2012, n. 106489; Giud. pace Roma 22 dicembre 2014, n. 42596; Giud. pace Milano 30 dicembre 2014,
n. 14854. Esplicitamente, infine, Giud. pace Roma 3 agosto
2012, n. 36981, inedita, sostiene che “la presenza del cessionario … sostituisce il connotato risarcitorio e reintegratore dell’azione con quello speculativo proprio di chi con la cessione
vuol realizzare un vantaggio economico ulteriore, i cui limiti
quantitativi e qualitativi sono da lui stesso posti e definiti”.
(5) Ci riferiamo a Cass. 5 novembre 2004, n. 21192, in
Resp. civ., 2005, 172; a Cass. 13 maggio 2009, n. 11095, in
Mass. Giust. civ., 2011, 525; e, specialmente, alle sentenze gemelle Cass. 10 gennaio 2012, nn. 51 e 52, variamente pubblicate in svariate riviste di settore, tra cui in Arch. giur. circ. sin.,
2012, 319; in Giud. pace, 2012, 207, con commento di Palmieri
- Casoria, Il placet della Cassazione sulla cedibilità del credito risarcitorio da sinistro stradale e sulla legittimazione attiva del relativo cessionario; in Resp. civ. prev., 2012, 1217, con nota di Argine, Il (precario) principio di libera cedibilità dei crediti cristallizzato da due sentenze gemelle della Cassazione del 2012; in Dir.
fisc. ass., 2013, 253, con nota di Vai, Cessione del credito derivante da sinistro stradale. La posizione della Suprema Corte. In
senso conforme Cass. 13 marzo 2012, n. 3965, in Guida dir.,
2012, 27, 56.
(6) Cfr. Trib. Venezia 8 novembre 2012, n. 2094, in Resp. civ.
prev., 2013, 550, con nota di Miotto, Cessione di crediti risarcitori e disciplina delle attività finanziarie cit. secondo cui “l’esercizio professionale, in modo organizzato e sistematico, di attività di cessione di crediti risarcitori correlata all’assunzione dell’obbligazione di anticipare le spese di riparazione di veicoli
danneggiati, anche in assenza della corresponsione di somme
di denaro o di interessi da parte del cedente al cessionario, costituisce attività finanziaria ai sensi dell’art. 106 TUB e dell’art.
3, D.M. 17 febbraio 2009, n. 29, come tale riservata ai soli intermediari iscritti nell’apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia
e da questa autorizzati, ed implica, pertanto, la nullità dei contratti di cessione di credito stipulati da un soggetto che non
sia in possesso di tale requisito, per contrarietà a norme imperative”. In senso conforme già Giud. pace Milano 15 marzo
2010, n. 6162, in Foro pad., 2010, 649, con nota di Costa; e in
Giud. pace, 2012, 57, con commento di Argine, Noleggio di
auto sostitutiva e cessione del credito risarcitorio derivante da sinistro stradale: fra prassi commerciale e orientamenti interpretativi; Trib. Venezia 13 febbraio 2013, n. 316; Trib. Venezia 2 settembre 2014, n. 1758; Giud. pace Roma 1° ottobre 2014, tutte
in questa Rivista, 2015, 393, con commento di Miotto, Cessione di crediti risarcitori, attività finanziaria e nullità ex art. 1418
c.c.; Giud. pace Palermo 24 dicembre 2013, n. 4714, in Arch.
giur. circ. sin., 2014, 343; da ultimo Giud. pace Prato 1° febbraio 2016, n. 80; Contra Giud. pace Caltanissetta 4 aprile
2012, n. 188; Giud. pace Bologna 13 gennaio 2014, n. 70;
Giud. pace Milano 22 gennaio 2016, n. 786, inedite.
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Entrambi gli aspetti interpretativi summenzionati per quanto avremo modo di osservare - paiono meritevoli di un attento approfondimento.
Il Giudice di Pace (in primo grado) e il Tribunale
di Milano (in sede di appello) rilevano - al fine di
fondare le proprie decisioni - una circostanza pacifica e incontroversa tra le parti: il frazionamento
del credito risarcitorio derivante dall’evento lesivo
in plurime poste di danno, separatamente azionate
da differenti cessionari. Il danneggiato-cedente
aveva infatti stipulato due contratti di cessione del
credito: il primo inerente alle riparazioni meccaniche e di carrozzeria sul veicolo incidentato; il secondo inerente al nolo della vettura sostitutiva o
di cortesia.
Le sentenze annotate si sono interrogate in merito
alla liceità della parcellizzazione di un credito originariamente unitario secondo i principi posti dall’ordinamento giuridico.
Il fenomeno del frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario rappresenta - come noto - una problematica particolarmente dibattuta in dottrina e giurisprudenza. Attorno alla vexata quaestio, sorta principalmente in
procedimenti monitori promossi dal creditore nei
confronti dello stesso debitore per l’adempimento
di prestazioni non onorate, si sono affermati nel
tempo due principali orientamenti interpretativi.
Un primo risalente indirizzo - avallato dalle Sezioni Unite (7) all’inizio del nuovo millennio e ormai
minoritario - ammetteva l’attività di parcellizzazione, ritenendo che al creditore competesse il potere
di chiedere un adempimento parziale del credito,
in quanto speculare alla facoltà di accettarlo attribuitagli dall’art. 1181 c.c. Sulla scorta di ciò si riteneva che la posizione del debitore, esposto a una
pluralità di ingiunzioni e di procedimenti pendenti,
fosse pienamente tutelata, in ragione della sua facoltà di mettere in mora il creditore offrendogli l’adempimento dell’intero, oppure di chiedere l’accertamento negativo di questo (8).
Tale indirizzo è stato superato da una successiva
pronuncia delle Sezioni Unite (9), che ha ispirato
un diverso orientamento, oggi senz’altro prevalente.
Secondo SS.UU. n. 23276/2007, infatti, la facoltà
concessa al creditore di accettare l’adempimento
parziale non implica affatto quella di frazionare egli
stesso il proprio credito, poiché tale disarticolazione della pretesa creditoria appare, in realtà, “contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.”, stante l’evidente ed ingiustificato aggravio recato al debitore.
Per un altro aspetto, il frazionamento del credito sul piano processuale - “contraddice il canone del
giusto processo, di cui al novellato art. 111 Cost.”,
integrando piuttosto un abuso del processo stesso,
ed implica l’evidente rischio della “formazione di
giudicati (praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie
collegate allo stesso rapporto”.
Si noti, in particolare, come tale nuovo indirizzo
giurisprudenziale ponga l’accento sulla posizione
del debitore, che dall’anzidetta disarticolazione del
credito viene indubbiamente aggravato, costringendolo a difendersi in molteplici giudizi anziché
in uno soltanto (10) ed assoggettandolo ad una
(7) Cass., SS.UU., 10 aprile 2000, n. 108, in Arch. civ.,
2000, 991; in Giust. civ., 2000, 2265, con nota di Marengo,
Parcellizzazione della domanda e nullità dell’atto; in Corr. giur.,
2000, 1618, con nota di Dalla Massara, Tra res iudicata e bona
fides: le sezioni unite accolgono la frazionabilità nel quantum
della domanda di condanna pecuniaria; in Giur. it., 2001, 1143,
con nota di Carratta, Ammissibilità della domanda giudiziale frazionata in più processi?; in Nuova giur. civ. comm., 2001, 502,
con nota di Ansanelli, Rilievi minimi in tema di abuso del processo; in Dir. giur., 2002, 443, con nota di Sena, Richiesta di
adempimento parziale e riserva di azione per il residuo: l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione.
(8) Cfr. ex multis Cass. 15 aprile 1998, n. 3814; Cass. 19 ottobre 1998, n. 10326, in Giur. it., 1999, 1372, con nota di Forchino; Cass. 5 novembre 1998, n. 11114; Cass. 9 novembre
1998, n. 11265.
(9) Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726, in Guida
dir., 2007, 28, con commento di Finocchiaro, Una soluzione
difficile da applicare nei futuri procedimenti di merito; in Inf.
prev., 2007, 642, con nota di Laganà, Il frazionamento giudiziale del credito come ipotesi di abuso del processo; in questa Rivi-
sta, 2008, 996, con commento di Festi, Buona fede e frazionamento del credito in più azioni giudiziarie; in Resp. civ. prev.,
2008, 1183; in Corr. giur., 2008, 745, con nota di Rescigno,
L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni
Unite); in Giust. civ., 2008, 641, con nota di Fico, La tormentata
vicenda del frazionamento della tutela giudiziaria del credito; in
Nuova giur. civ. comm., 2008, 458, con note di Finessi, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle sezioni unite e di Cossignani, Credito unitario, unica azione; in Obbl.
contr., 2008, 800, con nota di Veronese, Domanda frazionata:
rigetto per contrarietà ai principi di buona fede e correttezza; in
Foro it., 2008, I, 1514, con note di Palmieri-Pardolesi, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile e di Caponi, Divieto
di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio
di proporzionalità nella giustizia civile?. Cfr. altresì in dottrina
Buffone, Frazionamento giudiziale, contestuale (o sequenziale)
di un credito unitario. Parcellizzazione in plurime e distinte domande dell’azione giudiziaria per l’adempimento di una obbligazione pecuniaria: per la Cassazione è un abuso del processo, in
Il Civilista, 2008, 34 ss.
(10) “Ciò che, infatti, unicamente rileva, ai fini di una corret-
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moltiplicazione delle condanne alle spese di lite (11).
Ponendosi in questa prospettiva, il Tribunale di
Milano - nell’ottica di una valorizzazione dei principi di buona fede e correttezza in capo alle parti
coinvolte nella vicenda risarcitoria - accoglie il
principio dell’infrazionabilità della pretesa creditoria, facendo insistente riferimento nel proprio percorso motivazionale a quanto affermato dalla Suprema Corte nella nota pronuncia n.
28286/2011 (12).
Nel caso allora esaminato dai giudici di legittimità,
infatti, il danneggiato da un sinistro stradale aveva
promosso due distinte azioni risarcitorie procrastinate nel tempo: la prima (di modesto valore) per il
solo danno materiale al mezzo incidentato; la seconda (assai più importante in termini economici)
avente ad oggetto il danno non patrimoniale deri-
vante dalle lesioni patite. La Cassazione - in linea
col succitato precedente delle Sezioni Unite del
2007 in tema di illegittimo frazionamento giudiziale del credito - aveva quindi dichiarato l’improcedibilità del secondo giudizio, respingendo le richieste risarcitorie relative al danno alla persona.
Ancor meno giustificabile ai fini dei ricordati principi di buona fede e correttezza, rispetto alla parcellizzazione del credito risarcitorio per danni a cose e per danni alla persona appena ricordata, appare indubbiamente la scissione della specifica pretesa creditoria attinente ai danni materiali in una
frazione riguardante le spese di riparazione del veicolo e in un’altra concernente le spese di noleggio
di un mezzo sostitutivo (spesso ricondotte alla controversa figura del fermo tecnico) (13).
Anche in questo caso, infatti, il danneggiato che
cede tali sottocategorie di danno (non di rado per
ta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del
principio di buona fede, è l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio - meritevole di tutela - per il creditore”: Cass. 23 luglio
1997, n. 6900 e Cass. 8 agosto 1997, n. 7400, entrambe in
Giur. it., 1998, 889, con nota di Ronco, Azione e frazione: scindibilità in più processi del petitum di condanna fondato su un’unica causa petendi o su causae petendi dal nucleo comune,
ammissibilità delle domande successive alla prima e riflessi oggettivi della cosa giudicata. Cfr. in senso conforme, più recentemente, Cass. 27 maggio 2008, n. 13791 e Cass. 11 giugno
2008, n. 15476, entrambe in questa Rivista, 518-519, con commento di Rossi, Il principio della contrarietà del frazionamento
giudiziale del credito alla clausola generale di buon fede: prime
applicazioni giurisprudenziali; Cass. 20 novembre 2009, n.
24539, in Guida dir., 2010, 42; Cass. 27 gennaio 2010, n.
1706, ivi, 2010, 100. Di recente, in senso parzialmente critico
rispetto a quanto appena precisato, Cass. 15 marzo 2013, n.
6663 e Cass. 9 aprile 2013, n. 8576, entrambe in Foro it.,
2014, I, 916, con nota di Brunialti, La Cassazione apre al frazionamento giudiziale motivato del credito?, pur confermando il divieto di parcellizzazione del credito quale regola generale anche nell’ambito del processo esecutivo, hanno ammesso la
possibilità residuale che emergano “particolari elementi che
giustifichino tale scelta del creditore in relazione alla straordinaria difficoltà di agire per l’intero”: è evidente, quindi, come
nel rapporto tra creditore (frazionante) e debitore debba essere
svolta in sede di merito una attenta ponderazione tra diritti ed
interessi contrastanti, con onere della prova in merito alla necessità della parcellizzazione a carico del creditore.
(11) Con particolare riferimento ai crediti risarcitori attinenti
alla r.c. auto, poi, si consideri come la sovrapposizione di frazionamento e cessione implichi immancabilmente un incremento del costo del sinistro, sia per le spese aggiuntive (stragiudiziali e/o di lite) che ne conseguono, sia per l’eliminazione
della funzione equilibratrice che il corretto rapporto di mercato
tra danneggiato e prestatori d’opera (riparatori, noleggiatori ed
altri ancora) esercita sull’ammontare dei corrispettivi richiesti
da questi ultimi: l’interlocutore di chi fornisce i propri servizi al
danneggiato non è più il suo cliente, ma un terzo estraneo
(l’assicuratore) privo di qualsiasi potere contrattuale.
(12) Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286, in Ass., 2012, 167;
in Giud. pace, 2012, 68; in Arch. giur. circ. sin., 2012, 321; in
Foro it., 2012, I, 2813, con nota di Graziosi, Neppure i crediti risarcitori possono più essere frazionati giudizialmente; in Giust.
civ., 2012, 2641, con nota di Troncone.
(13) Capita sovente, infatti, che il credito consistente nella
spesa per noleggiare il veicolo sostitutivo utilizzato dal danneggiato nel periodo in cui il mezzo incidentato sia fermo in officina per le riparazioni sia ricondotto al pregiudizio da fermo
tecnico. Un espediente non certo casuale, dal momento che in
base ad un non trascurabile orientamento giurisprudenziale tale voce risarcitoria sarebbe dovuta in re ipsa, anche in assenza
di prova specifica, rilevando la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo (cfr. ex
aliis Cass. 14 dicembre 2002, n. 17963, in Mass. Giust. civ.,
2002, 2202; Cass. 9 novembre 2006, n. 23916, in Resp. civ.
prev., 2007, 1471; Cass. 27 gennaio 2010, n. 1688, in Resp.
civ., 2010, 841, con nota di Primiceri, Il danno da fermo tecnico; Cass. 8 maggio 2012, n. 6907, in questa Rivista, 2013, 284,
con commento di Grasselli, Risarcibilità del danno da fermo
tecnico; e in Resp. civ., 2012, 853, con nota di Miotto, Il danno
da fermo tecnico e la genesi del danno risarcibile nella giurisprudenza; da ultimo Cass. 26 giugno 2015, n. 13215, inedita). Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, al contrario,
ha rilevato la “distinzione ontologica” tra noleggio e fermo tecnico di autoveicolo, in quanto quest’ultimo sarebbe riferito ai
soli costi gestionali dell’auto in sosta forzata (bollo di circolazione, premio assicurativo e deprezzamento di valore nel tempo di fermo) e non a pregiudizi ulteriori, che quindi dovrebbero
essere oggetto di accurato esame probatorio (così Argine,
Cessione del credito risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva
cit., 2464-2468; Id., La Suprema Corte e la reale nozione del
danno da fermo tecnico, in Resp. civ. prev., 2014, 852; Giud.
pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162 cit.; Giud. pace Torino 21
settembre 2012, n. 6950; Giud. pace Milano 7 novembre
2012; Giud. pace Torino 11 marzo 2014, n. 1375; Giud. pace
Roma 22 dicembre 2014, n. 42596; Giud. pace Roma 23 luglio
2015, n. 31999, inedita). Recentemente la S.C. - in una importante pronuncia interpretativa - sembra fare il punto della situazione, non soltanto rifiutando l’incongruo concetto di danno in re ipsa, ma anche sostenendo che il fermo tecnico “può
essere risarcito soltanto al cospetto di esplicita prova non solo
del fatto che il mezzo non potesse essere utilizzato, ma anche
del fatto che il proprietario avesse davvero necessità di servirsene, e sia perciò dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi, ovvero
abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo” (Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620, inedita). Accurati rilievi
dogmatici in ordine alla configurabilità giuridica del danno da
fermo tecnico sono possibili nel noto scritto di Cavallaro, Il
danno da fermo tecnico: fondamento e limiti della sua risarcibilità, in Riv. dir. civ., 2002, 79 ss.
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esservi stato sollecitato dai cessionari che ne beneficiano) causa un aggravamento della situazione
del danneggiante che, in quanto debitore ceduto,
non ha alcuna possibilità di opporsi a tale unilaterale decisione del proprio creditore, e (a ben guardare) dello stesso sistema giudiziario (14).
E ciò per almeno due ragioni.
In primo luogo, in tal caso il debitore ceduto diviene destinatario di plurime richieste risarcitorie procrastinate nel tempo e riguardanti le più diverse tipologie di danno, da lui non conoscibili a priori.
Per di più, poiché il principale debitore del risarcimento nell’ambito dei sinistri r.c. auto è un istituto
assicurativo, occorre considerare come questi rimanga esposto ad una perdurante quanto inaccettabile (15) incertezza in ordine alla definizione della pratica liquidativa inerente a un dato sinistro,
con tutte le conseguenze che ne derivano per ciò
che attiene agli obblighi di riservazione che la legge gli impone.
In questi casi l’assicuratore obbligato, dopo aver risarcito il danneggiato o il cessionario di questi, rimarrebbe esposto sino allo spirare del termine di
prescrizione ad una indefinita quantità di nuove richieste risarcitorie per ulteriori, diverse voci di
danno mai palesate in precedenza e provenienti da
soggetti diversi dal danneggiato, in quanto cessionari delle relative frazioni del credito risarcitorio.
Per fare un’ipotesi estrema, ma tutt’altro che inverosimile, l’assicuratore potrebbe dapprima ricevere
e soddisfare la richiesta di risarcimento del riparatore del veicolo incidentato (quale cessionario della frazione di credito riguardante il corrispettivo
dovutogli per la riparazione del mezzo) e poi, via
via, col passar del tempo, quelle del noleggiatore
del veicolo sostitutivo e del centro medico cessionari rispettivamente del prezzo del noleggio e del
compenso per le cure fisiatriche prestate, per vedersi infine recapitare quella del danneggiato che
agisca - questa volta in proprio - per il danno alla
persona subito in occasione dell’incidente.
Non a caso, peraltro, in molte fattispecie analoghe
a quelle affrontate nelle sentenze in analisi, la sussistenza del frazionamento del credito risarcitorio è
legata a doppio filo con l’exceptio rei transactae, in
forza della quale la pratica risarcitoria viene considerata definita nel momento in cui il danneggiatocedente (ovvero un riparatore-cessionario) dichiara
di non avere altro a pretendere in relazione al credito riguardante tutti i danni derivati dal sinistro
(quantomeno quelli materiali), sottoscrivendo un
atto di transazione e quietanza, e, dunque, senza ab
origine alcuna riserva esplicita in ordine alla sussistenza di ulteriori voci di danno (16).
In secondo luogo, si consideri la dilatazione del
contenzioso (stragiudiziale e soprattutto giudiziale)
legato ad un solo sinistro, allorquando questo viene
(14) Presso i Tribunali, infatti, nella non infrequente ipotesi
di contestazione di alcune voci di danno richieste dal danneggiato o dai vari soggetti cessionari, si trovano spesso incardinate plurime vertenze inerenti alla medesima causa petendi
(ovvero lo stesso sinistro), con conseguente appesantimento
del carico di lavoro per la risoluzione di liti non raramente bagatellari: cfr. Argine, Il risarcimento del danno nelle liti bagatellari: profili interpretativi, in Foro pad., 2013, 257 ss.
(15) È noto che nel settore r.c. auto l’assicuratore tenuto al
risarcimento del danno è sottoposto allo spatium deliberandi di
cui all’art. 148 cod. ass. per la formulazione dell’offerta o l’illustrazione delle ragioni ostative alla liquidazione. Negli intenti
del legislatore, peraltro, specialmente per la trattazione dei sinistri di più facile gestione (ovvero quelli fondati sul modulo di
constatazione amichevole firmato da entrambi i conducenti
dei mezzi coinvolti, dal quale non emergano contestazioni in
ordine alla dinamica dell’evento e al conseguente riparto di responsabilità), il breve spatium deliberandi concesso è finalizzato proprio all’impostazione di processi rapidi e funzionali, atti a
risolvere bonariamente la vicenda risarcitoria in poco tempo.
Inoltre, allorquando una posizione di sinistro viene aperta, la
compagnia assicuratrice accantona risorse disponibili a riserva, sottraendole da attività lucrative o di investimento. È evidente che - nel dubbio che per ogni posizione di semplice gestione giungano scaglionate nel tempo le più disparate richieste risarcitorie da parte di questo o quel soggetto cessionario
del credito - lasciare le posizioni di sinistro aperte a scopo cautelativo corrisponde, sul piano macroeconomico e a fini di bilancio, a un serio danno.
(16) Cfr. ex multis, specialmente presso la giurisprudenza
onoraria ambrosiana, Giud. pace Milano 14 ottobre 2011, n.
115065; Giud. pace Milano 7 febbraio 2012, n. 101796; Giud.
pace Milano 19 marzo 2012, n. 104251; Giud. pace Milano 28
maggio 2012, n. 107682; Giud. pace Milano 12 giugno 2013,
n. 108597; Giud. pace Milano 28 maggio 2014, n. 7445; Giud.
pace Milano 17 luglio 2014, n. 9652; Giud. pace Milano 2
maggio 2015, n. 6539; Giud. pace Milano 16 settembre 2015,
n. 12143; Giud. pace Milano 24 dicembre 2015, n. 17320;
Giud. pace Milano 28 gennaio 2016, n. 975. In senso conforme Giud. pace Roma 19 maggio 2016, n. 17628; Giud. pace
Roma 4 febbraio 2016, n. 3705; Giud. pace Roma 26 gennaio
2016, n. 2663; Giud. pace Roma 10 dicembre 2015, n. 47309,
tutte inedite; Giud. pace Roma 20 ottobre 2014, n. 29219;
Giud. pace Tivoli 6 ottobre 2015, n. 644; Giud. pace Tivoli 19
ottobre 2015, n. 694. Giud. pace Roma 3 gennaio 2012, n. 29,
in Foro pad., 2013, 123, con nota di Argine, Le nuove frontiere
del frazionamento giudiziale dei crediti ha precisato che, normalmente, la definizione transattiva del danno con l’assicuratore è da intendersi definitiva e tombale in relazione a tutte le
voci di danno sussumibili, “a meno che non risulti esclusa a
priori la sua idoneità a ricomprenderle tutte attraverso una riserva significativamente esplicita ed espressa di rinviare ad altro procedimento il soddisfacimento delle ulteriori ragioni di
credito temporaneamente accantonate”. In tal senso vedasi altresì, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 29 gennaio
2008, n. 1985, in Resp. civ. prev., 2008, 1591, con nota di Bertoncini, Parcellizzazione del credito: le Sezioni Unite e le Sezioni
semplici a confronto. Interessante è - sotto questo profilo di
analisi - il giudicato in commento reso dal Giudice di pace di
Milano: nel caso specifico, infatti, lo stesso danneggiato-cedente aveva incardinato una prima lite nei confronti dell’assicuratore-debitore ceduto, ottenendo un accordo transattivo
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promosso da una vasta congerie di soggetti interessati al rimborso della singola prestazione fornita in
favore dell’unico danneggiato (carrozzieri, società
di noleggio, centri medici …).
Un fenomeno del genere implica un potenziale lesivo enorme anzitutto per il debitore ceduto, costretto a fronteggiare una molteplicità di richieste
e a difendersi da esse in una pluralità di giudizi diversi, con conseguente grave moltiplicazione delle
spese legali di resistenza, col risultato che queste
non di rado risultino sproporzionate rispetto alla
reale entità del petitum.
Ma non meno gravi sono le sue ricadute sia sul sistema giudiziario, per l’inutile aumento del carico
di lavoro degli uffici che ne consegue, sia ai fini
processuali, e cioè relativamente al corretto accertamento dei fatti che stanno alla base delle istanze
risarcitorie oggetto della frantumazione della pretesa creditoria.
Una simile disseminazione di domande giudiziali
in relazione alla medesima causa petendi, infatti,
implica un palese rischio di contrasto di giudicati,
poiché il diverso sviluppo delle singole vicende
processuali ed il libero convincimento dei vari giudici aditi potrebbe condurre a differenti accertamenti dei fatti azionati (si pensi solo a una contrastante ricostruzione della dinamica del sinistro, se
oggetto di contestazione, o ad una sua differente
interpretazione da parte dei diversi magistrati chiamati a conoscerne).
Tale rischio non può certo essere escluso dalla connessione oggettiva che caratterizza simili giudizi,
trattandosi di un caso di litisconsorzio facoltativo
per il quale la riunione delle relative cause non è
obbligatoria, non essendo infrequente che queste
vengano promosse in tempo.
A questo proposito vi è stato chi ha osservato come non si verifichi un frazionamento della tutela
giurisdizionale nel caso in cui il credito venga parcellizzato e parzialmente ceduto nella sola fase stragiudiziale della lite, soprattutto allorquando i vari
soggetti cessionari non promuovano separatamente
distinti giudizi per farlo valere nei riguardi del debitore. L’art. 1262, comma 2, c.c., infatti, ammette
la cessione parziale del credito e, comunque, i soggetti istanti sarebbero portatori di differenti interessi meritevoli di tutela (17).
Risalendo a questi presupposti parte della dottrina
e della giurisprudenza si è posta in una posizione
sostanzialmente intermedia tra i due differenti indirizzi interpretativi dianzi citati, da un lato riconoscendo la legittimità della cessione parziale del
credito risarcitorio, ma dall’altro ritenendo che
l’attività di parcellizzazione del credito - nell’ipotesi in cui essa concreti un abuso - debba incidere
soltanto sul regime delle spese di lite (18).
Alla medesima soluzione pratica era pervenuta la
Cassazione in un precedente (19) relativo ad un
caso molto particolare ed affatto diverso da quelli
in esame, trattandosi in realtà di più crediti analoghi, ma distinti, vantati ciascuno da un diverso
soggetto verso un unico debitore: più persone, che
avevano congiuntamente agito per la tutela di posizioni giuridiche analoghe in un processo irragionevolmente protrattosi, salvo poi agire separatamente, ciascuno per proprio conto, nei confronti
del Ministero della Giustizia per ottenere l’equo indennizzo previsto dalla L. n. 89/2001.
tombale per ogni voce di danno relativa all’evento dannoso.
L’exceptio rei transactae sollevata in riferimento alla seconda lite appare, quindi, in tutta la sua chiarezza: non casualmente,
peraltro, lo stesso cessionario (che pure aveva notificato l’atto
di citazione) ha ritenuto di non dover partecipare alla causa
(iscritta a ruolo dall’assicuratore convenuto).
(17) Così ex aliis Giud. pace Milano 1° giugno 2011, n.
6099; Trib. Trento 19 marzo 2013, n. 251 e Trib. Milano 7 agosto 2013, n. 10786, entrambe in www.unarca.it; Giud. pace
Milano 19 febbraio 2015, n. 2149; Giud. pace Milano 14 aprile
2016, n. 3676, inedita.
(18) Cfr. Giud. pace Torino 11 giugno 2012, in Giud. pace,
2012, 338, con commento di Scarpa, Cessione del credito risarcitorio e possibile abuso da frazionamento delle domande. Anche Miserendino, La pretesa unicità della richiesta risarcitoria
stragiudiziale in materia r.c. auto alla luce delle recenti pronunce
sul giusto processo, in www.unarca.it, pur essendo favorevole
all’operazione di cessione parziale dei crediti risarcitori derivanti da sinistro stradale, sostiene come sia “maggiormente
condivisibile, al fine di garantire la tutela sostanziale del diritto
… quell’orientamento della Suprema Corte che, in caso di proposizione di plurime domande risarcitorie in sede giudiziale,
statuisce che le uniche conseguenze sanzionatorie possano at-
tenere al solo piano delle spese processuali, dovendo essere
sempre fatto salvo il principio della tutela sostanziale del diritto”.
(19) Cass. 3 maggio 2010, n. 10634, in Corr. giur., 2011,
369, con nota di Fin, Una coraggiosa pronuncia della corte di legittimità: l’onere delle spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale, che sostiene: “Integra un
abuso del processo la condotta di più parti che, senza aver interesse alla diversificazione delle rispettive posizioni, agendo
contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati, destinati inevitabilmente alla riunione”. Nel caso allora esaminato dalla S.C.
vari soggetti, che erano state parti in un giudizio il cui giudicato si era protratto oltre i termini stabiliti dalla legge Pinto, avevano richiesto in sedi separate il risarcimento del danno per
l’eccessiva durata del processo mediante il patrocinio del medesimo avvocato: lo scopo era, evidentemente, quello di ottenere da ogni singola posizione la rifusione degli onorari di soccombenza, di entità ben maggiore in plurimi giudizi di valore
contenuto piuttosto che in un unico giudizio di valore più elevato.
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e frazionamento della tutela giurisdizionale, in base
alla quale solo la seconda costituirebbe oggetto di
sindacato da parte del giudice. Entrambe queste attività si inseriscono uniformemente in quella famiglia, sempre più numerosa, di operazioni abusive
intese in senso lato, ove abuso del diritto e abuso
del processo paiono fondersi sino a formare un unicum concettuale dal quale non è più possibile prescindere.
Sicché, in quel caso, l’aver invocato i principi di
buona fede e correttezza per limitare la condanna
alle spese del Ministero fu, piuttosto, una forzatura,
non trattandosi del frazionamento di un unico credito, ma di danneggiati diversi, ciascuno dei quali
faceva valere separatamente il proprio credito nei
riguardi di un unico debitore (20).
In questo filone si è collocata pure un’altra decisione di legittimità, pertinente invece ai casi considerati, che ha ravvisato nella riunione e nella “liquidazione delle spese di lite come se il procedimento
fosse stato unico sin dall’origine” la sanzione del
frazionamento del credito (21).
Ciò nondimeno, appare prevalente nella giurisprudenza di legittimità il ricordato orientamento per
cui il “frazionamento dell’azione extracontrattuale
per i danni materiali e personali da circolazione
stradale, ancorché effettuato con riserva espressa di
far valere ulteriori e diverse voci di danno in un altro procedimento, costituisce una forma di abuso
del processo ostativo all’esame della seconda domanda” (22), come anche di recente confermato (23).
In quest’ultimo indirizzo interpretativo si inscrivono senz’altro le pronunce in epigrafe, che - nell’accentuare al massimo livello il principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. e la circostanza secondo
cui al debitore ceduto è fatta salva la possibilità di
sollevare nei confronti del cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’originario
creditore - affermano: “la parcellizzazione del credito è condotta contraria a buona fede non solo
quando sfocia in una duplicazione di azioni giudiziarie, ma altresì quando fonda una duplicazione di
richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta idonea a
sorprendere la buona fede del debitore” (24).
Sembra quindi venire meno - a nostro giudizio in
maniera del tutto condivisibile - quella scissione
tra parcellizzazione sostanziale del diritto di credito
Pur concentrando la propria analisi della fattispecie sulla questione relativa all’illegittimo frazionamento del credito risarcitorio, il Tribunale di Milano non manca di cogliere un altro aspetto che riveste un’importanza fondamentale sotto il profilo
interpretativo.
Si tratta della completezza della richiesta di risarcimento, imposta dalle norme vigenti in materia di
danni derivati da sinistri r.c. auto.
Infatti, facendo leva sulle domande di risarcimento
procrastinate nel tempo da parte dei soggetti cessionari, il giudice di prime cure aveva ritenuto
inammissibile la richiesta di rimborso della fattura
di noleggio, ricevuta dalla compagnia assicuratrice
solo in un secondo tempo rispetto a quella relativa
alle spese necessarie per il ripristino del veicolo incidentato (che essa aveva già liquidato e pagato).
Sul punto la sentenza del Giudice di Pace, appellata dal cessionario, aveva infatti osservato che si sarebbe dovuta presumere la completezza delle istanze risarcitorie precedentemente avanzate dal primo
cessionario, per le quali il danneggiato-cedente
non aveva espresso alcuna esplicita riserva di danno.
Ebbene, che la completezza della messa in mora in
ambito r.c. auto integri - secondo la vigente disciplina di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e a
(20) Si noti quanto risulta al riguardo dalla motivazione della sent. n. 10634/2010 in merito al fatto che “evento causativo
del danno e quindi giustificativo della pretesa sia identico come unico sia il soggetto che ne deve rispondere e plurimi soli i
danneggiati i quali, dopo aver agito unitariamente nel processo presupposto così dimostrando la carenza di interesse alla
diversificazione delle posizioni ed avere sostanzialmente tenuto la stessa condotta in fase di richiesta di indennizzo agendo
contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati pur destinati inevitabilmente (come puntualmente avvenuto nella fattispecie)
alla riunione”.
(21) Cass. 19 marzo 2015, n. 5491, in www.ridare.it, con
nota di Cataliotti - Simonini, È possibile frazionare la pretesa risarcitoria?: “ferma restando la natura abusiva della parcellizza-
zione giudiziale del credito, la sanzione di tale comportamento
non può consistere nella inammissibilità delle relative domande giudiziali, essendo illegittimo non lo strumento adottato,
ma la modalità della sua utilizzazione. Ne consegue che il rimedio agli effetti distorsivi del fenomeno della fittizia proliferazione delle cause autonomamente introdotte dal creditore deve individuarsi in applicazione di istituti processuali ordinari,
vuoi nella riunione delle medesime, vuoi sul piano della liquidazione delle spese di lite, da riguardarsi come se il procedimento fosse stato unico sin dall’origine”.
(22) Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286, cit.
(23) Cass. 21 ottobre 2015, n. 21318, in www.personaedanno.it.
(24) Leggasi supra il testo della pronuncia del Tribunale di
Milano, fatto proprio anche dal Giudice di Pace nella successiva sentenza annotata.
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Parcellizzazione del credito e procedibilità
in ambito r.c. auto
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differenza di quanto era stato stabilito nell’antiquata normativa di cui alla L. 24 dicembre 1969, n.
990 (25) - un vizio di procedibilità del giudizio promosso in assenza delle dovute integrazioni documentali o informative da parte del soggetto leso è
oggigiorno circostanza fuori di discussione (26).
La novella, non casualmente, ha un chiaro intento
deflattivo del contenzioso giudiziario in materia di
incidenti stradali, essendo diretta ad incentivare le
parti a una reciproca collaborazione: scopo del legislatore è, infatti, quello di favorire la composizione
delle vertenze sin dalla fase stragiudiziale.
Valorizzando i principi testé ricordati e la circostanza per cui l’assicuratore aveva già risarcito il
carrozziere (primo cessionario del credito), è stato
coerentemente osservato nel caso concreto come
“corollario della completezza della richiesta di risarcimento del danno è la definitività della stessa,
nel senso che, accertati e periziati i danni subiti in
seguito al sinistro, non è più possibile accampare
ulteriori pretese e richieste di danno relative allo
stesso sinistro, e riguardanti il bene già oggetto di
perizia e di accordo sulle somme da erogare o già
versate”. Pertanto “dal momento che una richiesta
risarcitoria non completa di tutti gli elementi indicati comporta la declaratoria di improponibilità,
allo stesso modo una ulteriore domanda di risarcimento, avanzata anche a titolo diverso, ma riguardante lo stesso sinistro si ritiene che comporti la
declaratoria di inammissibilità della ulteriore domanda” (27).
(25) Secondo un orientamento teleologico o finalistico - affermatosi specialmente nella vigenza della precedente normativa di cui alla L. n. 990/1969 - occorrerebbe valutare se, nonostante la mancanza nella richiesta risarcitoria di tutti i requisiti
formali o contenutistici, l’assicuratore fosse in grado di valutare adeguatamente il caso secondo ordinaria diligenza. In questa ipotesi, pertanto, fermo restando il rispetto dello spatium
deliberandi previsto dalla normativa speciale, la missiva di
messa in mora non comprometterebbe il giudizio successivamente promosso dal danneggiato con l’improponibilità della
domanda: cfr. in particolare la nota Cass. 9 agosto 1988, n.
4898, in Riv. giur. circ. trasp., 1989, 54; e in Arch. giur. circ.
sin., 1989, 29; Giud. pace Ancona 30 luglio 1997, in Giur. mer.,
1999, 469. Con l’introduzione della novella disciplina, più severa e rigorosa sotto tale aspetto, questo indirizzo interpretativo
pare essere stato sostanzialmente abbandonato, anche se non
mancano isolate resistenze di alcuni magistrati di merito, tra
cui Giud. Pace Bari 13 ottobre 2011, n. 5662, in www.giurisprudenzabarese.it; Trib. Palermo, Sez. dist. Bagheria, 23 aprile
2012; Trib. Palermo 7 maggio 2013.
(26) Cfr. ex multis Giud. pace Milano 9 aprile 2008, n.
14161, in Giustizia a Milano, 2008, 5, 37; Giud. pace Milano 5
febbraio 2009, n. 1933, in Guida dir., 2009, 22, 67; Giud. pace
Augusta 27 marzo 2009, n. 153, in Arch. giur. circ. sin., 2009,
742; Trib. Roma 15 luglio 2010 e Trib. Roma 16 dicembre
2010, entrambe in www.altalex.it; Giud. pace Bari 20 settembre 2010, n. 7061, in www.giurisprudenzabarese.it; Trib. S. Maria Capua Vetere 12 ottobre 2010; Trib. Alessandria 18 gennaio
2011; Trib. Genova 18 gennaio 2011; Giud. pace Mestre 14 luglio 2011, in Arch. giur. circ. sin., 2012, 40; Giud. pace Roma
14 novembre 2012, n. 50441, in Resp. civ. prev., 2013, 2035,
con nota di Argine, L’auspicio di maggiore collaborazione fra
danneggiato e assicuratore in ambito r.c. auto, che precisa come l’incompletezza della richiesta risarcitoria può integrare un
vizio di procedibilità della domanda giudiziale solo a condizione che sia rilevata su eccezione di parte; Trib. Roma 2 ottobre
2013, n. 19503, in Ass., 2014, 159, con nota di Losco, secondo
cui l’improponibilità per incompletezza della richiesta risarcitoria “è posta a presidio della migliore e corretta gestione da
parte degli enti assicuratori della gran massa di sinistri stradali
ed è funzionale anche al raggiungimento dell’interesse pubblico a che non vengano instaurati processi civili che le parti,
comportandosi con lealtà e correttezza nella fase stragiudiziale, ben potrebbero evitare”; Trib. Milano 23 ottobre 2013, inedita. L’orientamento qui brevemente ricordato - definito da
parte della dottrina formalista o rigoroso - è stato ritenuto conforme ai principi costituzionali da Corte cost. 18 aprile 2012, n.
111, in Ass., 2012, 516; in Resp. civ. prev., 2013, 79, con nota
di Bugiolacchi, Art. 148 cod. ass. e conseguenze sulla proponibilità della domanda dopo la Consulta: forma e sostanza nella tutela del danneggiato; in Giur. it., 2013, 609, con commento di
Carretto; in Dir. fisc. ass., 2013, 399, con nota di Martini, La legittimità costituzionale degli oneri di allegazione del danneggiato ex art. 145 e 148 Codice delle Assicurazioni: la Consulta, infatti, individua “un nesso funzionale che lega le prescrizioni
formali, a carico del richiedente, all’offerta congrua che, sulla
base della richiesta così formulata, è fatto obbligo all’assicuratore di presentare al danneggiato … le formalità di cui all’art.
148 cod. ass. non sono volte ad avvantaggiare l’impresa assicuratrice del responsabile nei confronti del danneggiato, bensì
al contrario a realizzare una più tempestiva ed efficace tutela
di quest’ultimo”. Cfr. in dottrina, su tutti, Mariotti, Lesioni con
danni micropermanenti. Il risarcimento, i nuovi obblighi per offerte, le liquidazioni dei danni, Milano, 2001, 8; Toninelli, Ancora sull’onere del danneggiato di cooperare all’accertamento del
danno, e sulle conseguenze di tale inadempimento, in Arch.
giur. circ. sin., 2002, 813; Hazan-Zorzit, Ancora sulla condizione
di proponibilità dell’azione diretta nei confronti dell’istituto assicuratore: disarmonie di sistema e dubbi forse risolti, in Giud. pace, 2005, 50; Rossetti, L’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’impresa assicuratrice per la r.c.a. e di altri soggetti legittimati. La procedura stragiudiziale per la liquidazione dell’indennizzo, in Ass., 2007, 437; Zardo, La richiesta di risarcimento
danni nell’assicurazione r.c.a., ivi, 2008, 417; Losco, Ancora sui
doveri di collaborazione del danneggiato in materia di assicurazione di responsabilità civile e risarcimento del danno, ivi, 2014,
50; Zardo, Le modifiche normative sinora intervenute sugli artt.
148-149 cod. ass., ivi, 2014, specialmente 73-81.
(27) Così, con ampiezza di argomenti, il giudice di primo
grado nel caso esaminato dal Tribunale: Giud. pace Milano 5
dicembre 2011, n. 118004. In senso pienamente conforme
Giud. pace Milano 23 marzo 2011, n. 105521; Giud. pace Milano 17 ottobre 2013, n. 112488, inedita. Le affermazioni del
giudice onorario appaiono pienamente condivise dal magistrato d’appello in commento: “il Giudice di Pace ha argomentato
che si pone in contrasto con le finalità perseguite dal legislatore e poste alla base della normativa specifica oltre che con le
norme del principio di correttezza e buona fede la condotta del
danneggiato che, come nel caso di specie, ha operato, in relazione alle richieste risarcitorie nascenti dallo stesso sinistro,
due cessioni di credito, una avente ad oggetto i costi delle riparazioni che è stata definita con il pagamento … e l’altra
avente ad oggetto il credito risarcitorio relativo al noleggio della autovettura sostitutiva”: cfr. supra il testo della pronuncia in
epigrafe.
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È evidente, quindi, come il carattere strutturalmente unitario del diritto al risarcimento del danno, che sta alla base del giudicato in analisi, sia destinato ad esplicare i suoi effetti non soltanto in relazione all’aspetto sostanziale dell’illegittimità del
frazionamento del credito risarcitorio, ma anche a
quelli di natura più squisitamente procedurale, in
applicazione del combinato disposto di cui agli
artt. 145, 148 e 149 c. ass.
Un approccio interpretativo - quest’ultimo - che
può dirsi tanto coraggioso dal punto di vista ermeneutico (28), quanto coerente e condivisibile, soprattutto alla luce del recente orientamento assunto dalla Suprema Corte con la sent. n.
11154/2015 (29).
In quel caso il soggetto danneggiato richiedeva il
rimborso delle spese di assistenza legale sostenute
per la coltivazione delle trattative con l’assicuratore tenuto alla liquidazione dei danni. Era emerso in sede di merito - che nella formale richiesta risarcitoria ex art. 145 c. ass. non era stata formulata
esplicita domanda di ripetizione di tale voce di spesa, che la compagnia assicuratrice solvente aveva
quindi omesso di pagare.
Nel valorizzare i requisiti contenutistici della messa
in mora nel settore r.c. auto, i giudici di legittimità
rilevano che “se tale richiesta non contenga tutte
le voci di danno, ma ne escluda alcuna, la domanda è improponibile limitatamente a tale voce
esclusa dalla richiesta”. Infatti “non è l’assicuratore
tenuto a compulsare il danneggiato in merito ad
eventuali spese legali stragiudiziali necessarie nel
caso concreto, ma deve essere questi che ne faccia
richiesta ex art. 145 c. ass.” (30).
La lettura delle pronunce in commento suscita
considerazioni di non poco momento.
I magistrati milanesi hanno inteso sindacare con
rigore la prassi di cedere parzialmente plurime voci
di danno costituenti il credito risarcitorio, che osta
indubbiamente ad una pacifica, bonaria e (soprattutto) sicura definizione della pratica liquidativa
dei danni derivanti dagli incidenti stradali.
Nel fare ciò, essi hanno incentrato il proprio percorso motivazionale sulla figura dell’abuso del diritto e dello strumento processuale.
Questa posizione appare, a ben vedere, tutt’altro
che isolata.
La categoria dogmatica dell’abuso del diritto è contigua, per non dire complementare, a quella dell’abuso del processo: infatti, se da un lato essa non ha
ancora effettiva residenza in alcuna norma di legge (31), dall’altro lato viene considerata sempre
più utile argomento (32) per il ragionare del giudice in sede decisionale.
Ciò, del resto, non è affatto casuale: sdoganato dal
settore del divieto degli atti emulativi, ove pure ha
tratto per lungo tempo linfa vitale (33), l’abuso del
(28) A tale proposito, seppur negli effetti la decisione riferita
appaia pienamente coerente con lo spirito e la ratio della novella, sul piano dogmatico sembra claudicante e necessita di
maggiori approfondimenti. Infatti, nel caso esaminato dal magistrato milanese, sarebbe semmai la prima richiesta risarcitoria ad essere incompleta (poiché non faceva espressa menzione della voce inerente al nolo), e non la seconda. Quest’ultima,
secondo una lettura criticamente più rigorosa, ben poteva dirsi
formalmente completa, ancorché fondante una richiesta risarcitoria illegittimamente frazionata per scopi non meritevoli di
tutela giuridica.
(29) Cass. 29 maggio 2015, n. 11154, in Arch. giur. circ.
sin., 2015, 696; e in Foro it., 2015, I, 3624. In senso conforme,
quanto ai principi espressi, Cass. civ. 19 febbraio 2016, n.
3266, inedita.
(30) Cfr. il testo di Cass. 29 maggio 2015, n. 11154 cit.
(31) È noto come nell’ordinamento italiano, similmente a
quello francese dove pure sono sorti i primi studi sull’abuso
del diritto ad opera della scuola dell’Esegesi, non esista una
norma giuridica che disciplini in via generale le pratiche abusive, costringendo l’interprete a costruire la categoria dell’abuso
avvalendosi di principi generali sanciti dalla legge, quali la
buona fede e correttezza, il principio di socialità, il concetto di
elusione e frode alla legge, il principio di ragionevolezza. In ciò
si evidenzia una sensibile differenza con altri ordinamenti, i
quali al contrario accolgono a livello normativo la figura dell’abuso del diritto: in Portogallo (art. 334 c.c. del 1966); in Spagna (art. 7, comma 2, c.c. inserito nel 1974); nei Paesi Bassi
(art. 13 c.c.); in Grecia (art. 248 c.c.); su tutti esemplare l’art. 2
cod. civ. svizzero per cui “il manifesto abuso del proprio diritto
non è protetto dalla legge”.
(32) In termini Gentili, L’abuso del diritto come argomento,
in Riv. dir. civ., 2012, 297; Id., Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. prev., 2010, 345 (in nota alla celebre
Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, che ha ridisegnato i contorni della figura dell’abuso del diritto).
(33) Sul legame tra concetto di abuso del diritto e divieto di
atti emulativi al solo scopo di recare danno a terzi ex art. 833
c.c. insiste copiosa dottrina. Si rinvia ai contributi più chiari e
autorevoli: Groppali, Atto emulativo, abuso del diritto, sviamento di potere e abuso di potere, in Riv. dir. priv., 1940, I, 23; Mazzoni, Atti emulativi, utilità sociale e abuso del diritto, in Riv. dir.
civ., 1969, 601; Ruffolo, Atti emulativi, abuso del diritto e “interesse” nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, 23; da ultimo Caringella,
L’atto emulativo e l’abuso del diritto, in Studi di diritto civile, Milano, 2005, II, 1975 ss.
Danno e responsabilità 8-9/2016
Rapportando il dictum della Cassazione all’ipotesi
affrontata dal Tribunale ambrosiano, è palese il parallelismo tra la mancata specificazione nella messa
in mora relativamente alle spese legali stragiudiziali
e l’omessa richiesta risarcitoria del costo per il noleggio di una vettura sostitutiva, di cui non era stata fatta alcuna menzione nella prima richiesta risarcitoria.
Conclusioni: uso (non abuso) della cessione
del credito
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Abuso del diritto
diritto e del processo sembra attualmente affermarsi nel diritto vivente con energia sempre maggiore (34), condizionando l’operato delle parti in innumerevoli relazioni giuridiche intersoggettive, di
natura contrattuale o legale che siano. Così è accaduto, in particolar modo, per il divieto di illegittima parcellizzazione del credito, che (nel suo impiego sinergico con il negozio di cessione) ha costituito il principale argomento di analisi da parte dei
giudici de quibus.
In questa prospettiva l’abuso del diritto pare inevitabilmente destinato a giocare un ruolo essenziale
proprio nel caso della cessione seriale dei crediti risarcitori, derivanti specialmente da incidenti stradali: complice la crisi economica, infatti, si è progressivamente formata una fitta rete di imprese e
professionisti operanti nel settore (carrozzieri, società di rent, medici, avvocati e patrocinatori) che
impiegano in modo seriale frazionamento e cessione dei crediti per incrementare la propria clientela
ed i relativi ricavi, prospettando i servizi offerti come “gratuiti” (35) a fronte della semplice sottoscrizione di un contratto di cessione di una frazione
del credito risarcitorio (36).
Nell’esaminare il costante sviluppo di questa proliferazione dei contratti di cessione assumono un sapore quasi profetico le parole di Pietro Rescigno,
che già in anni lontani e non sospetti rilevava acutamente: “il creditore, in virtù di una norma vigen-
te in tutti i sistemi (nel nostro codice civile dettata
all’art. 1260), può cedere ad un terzo il credito che
gli spetta contro il debitore. A costui, si dice, è indifferente pagare ad una persona piuttosto che a
un’altra. Ma l’esercizio di questo diritto (la cessione del credito) deve ammettersi senza limiti, e senza considerare l’aggravio che può risultare al debitore?” (37).
Ebbene, l’aggravio che deriva (non solo al debitore
ceduto, ma anche al sistema giudiziario) dallo
sfruttamento intensivo e seriale di siffatto strumento negoziale appare particolarmente evidente proprio nel settore dei danni r.c. auto.
In primo luogo, nei confronti dei debitori ceduti,
ovvero le compagnie assicuratrici tenute ex lege alla
liquidazione dei danni. Accantonare riserve nell’attesa di ricevere per ogni posizione di sinistro future ed imprevedibili istanze risarcitorie da parte di
questo o quel cessionario equivale - quantomeno
entro il limite prescrizionale di cui all’art. 2947,
comma 2, c.c. - a una importante perdita economica su vasta scala. Non è un caso, peraltro, che svariati istituti assicurativi abbiano recentemente introdotto nelle proprie polizze, sulla scorta della previsione di cui all’art. 1260, comma 2, c.c., una
clausola comportante il divieto di cessione del credito risarcitorio a terzi (38). Moltiplicare le spese
di lite prodotte da questa proliferazione di contenzioso significa, inoltre, gravare il costo dei sinistri,
(34) Dossetti, Orientamenti giurisprudenziali in tema di abuso
del diritto, in Giur. it., 1969, 1573; Pino, L’abuso del diritto tra
teoria e dogmatica, in Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano, 2006, 115 ss.; Martines, Teorie e prassi sull’abuso
del diritto, Padova, 2006, passim; Falco, La buona fede e l’abuso del diritto. Principi, fattispecie e casistica, Milano, 2010, 377
ss. Utile a tale riguardo la lettura del recente contributo di
Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di
abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2015, 445 ss. Sia concesso, infine, il rinvio a Argine, Il fenomeno del frazionamento quale manifestazione abusiva del diritto, in Foro pad., 2015, 17 ss.
(35) Non a caso, peraltro, sulla base della prospettata natura gratuita e dell’indeterminatezza della prestazione al momento della sottoscrizione del contratto, parte della giurisprudenza
adita sull’argomento ha qualificato il meccanismo negoziale
incentrato sulla cessione del credito risarcitorio alla stregua di
una donazione di bene futuro, nulla a mente dell’art. 771 c.c.:
il cedente, infatti, “lungi dal dimostrare alcuna necessità, ha
semplicemente accettato la donazione consistente nell’uso di
una vettura sostitutiva, senza neppure averla sollecitata e quindi senza che esistesse il di lui credito verso il danneggiante e
la di lui compagnia assicuratrice” (così Giud. pace Milano 15
marzo 2010, n. 6162 cit.; in senso sostanzialmente conforme
già Giud. pace Pescara 21 giugno 2007, n. 857, in Arch. giur.
circ. sin., 2008, 763).
(36) Una condotta, quella di prospettare al danneggiato il
meccanismo della cessione del credito risarcitorio, figlia (non
unica) della crisi: cfr. Bussani, La responsabilità civile al tempo
della crisi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 567-581. Per quanto
di nostro interesse, essa non manca di essere analizzata da attenti magistrati, i quali hanno sostenuto come “l’interpretazio-
ne dell’istituto vada riveduta e corretta, alla luce della proliferazione abnorme del contenzioso avente ad oggetto la cessione
del credito … elevato pressoché a sistema generale e patologico di contenuto chiaramente speculativo, che confligge sotto
molteplici profili con l’ordinamento giuridico dello Stato” (così
Giud. pace Milano 4 novembre 2011, n. 116382; nel senso di
affermare una pratica abusiva legata alle cessioni parziali di
crediti risarcitori, in diversi e più pacati termini, cfr. altresì
Giud. pace Milano 1° marzo 2011, n. 3914; Giud. pace Milano
27 maggio 2011, n. 108871).
(37) Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, 208.
L’interrogativo dell’insigne giurista era sorto esaminando una
prassi particolarmente diffusa nell’ordinamento tedesco in relazione all’abitudine di molti lavoratori di cedere a terzi il credito alla retribuzione, costringendo il datore di lavoro ad organizzare, con aggravio di spese a proprio carico, un apposito ufficio di contabilità interna che gestisse su vasta scala i pagamenti relativi alle cessioni: questa prassi viene sindacata in
una nota sentenza del Bundesgericht del 20 dicembre 1956,
analizzata anche dalla dottrina italiana dell’epoca in Bianca, Il
debitore e i mutamenti del destinatario del pagamento, Milano,
1963, 313, che rinviene in tal senso una insufficiente tutela
giuridica del debitore ceduto.
(38) Si pensi, a solo titolo esemplificativo, alla clausola contrattuale comportante il divieto di cessione del credito applicata da Vittoria Assicurazioni nei confronti dei propri assicurati
per la gestione delle pratiche liquidative nell’ambito dell’azione
di risarcimento diretto ex art. 149 c. ass. La clausola in menzione è stata ritenuta non vessatoria da parte dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato con provvedimento n.
24268/2013 (pubblicato in Dir. fisc. ass., 2013, 205-209). Nel
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Abuso del diritto
con inevitabili riflessi sull’entità dei premi e quindi
con sicuro pregiudizio per la massa degli assicurati
r.c. auto.
Ecco allora che “il diritto del singolo durante l’esercizio può trovare ostacolo nell’eguale o simile
diritto di uno o più altri consociati. L’esercizio del
diritto non deve mai nuocere ad altri. La società
esige questo temperamento nella affermazione del
diritto come facoltà di agire riconosciuta dalla legge. All’ombra di un mezzo lecito potrebbero commettersi i più deplorabili atti lesivi dell’ordine e
del tranquillo vivere civile” (39).
In proposito si è recentemente e ripetutamente
espressa la stessa Consulta, laddove - con riferimento al disposto di cui all’art. 139, comma 2, ultima parte del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 - ha
osservato che “in un sistema, come quello vigente,
di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di
garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, l’interesse risarcitorio partico-
lare del danneggiato deve comunque misurarsi con
quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere
un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi” (40).
In secondo luogo, nei confronti della collettività.
Disarticolare il credito risarcitorio in una serie indefinita di frazioni, cedendole in tutto o in parte a
terzi, significa infatti provocare un’indebita moltiplicazione del contenzioso giudiziario, a volte per
somme di denaro davvero assai modeste, che grava
poi sul lavoro delle Corti e dei Tribunali, contribuendo ad allungare i tempi dell’amministrazione
della giustizia, con sicuro pregiudizio per il servizio
offerto ai cittadini.
Le pronunce in commento - prendendo atto di ciò
- rappresentano indubbiamente dei precedenti
quanto mai utili ad evitare che l’impiego su vasta
scala di condotte opportunistiche vadano a gravare
in maniera significativa, ad un tempo, sui singoli
debitori, sulla massa degli assicurati r.c. auto e sulla
collettività.
provvedimento si legge: “La ratio della disposizione contrattuale, secondo Vittoria, risiede nella necessità di arginare comportamenti opportunistici e fraudolenti da parte delle autofficine o
dei riparatori non convenzionati con la compagnia che, divenuti titolari (cessionari) del diritto al risarcimento loro ceduto dall’assicurato, possono incrementare l’ammontare del quantum
spettante per il danno subito dal veicolo, tra l’altro, aggiungendo altre voci di costo (es. spese legali, danno da fermo tecnico, auto sostitutiva) che l’assicuratore è tenuto a risarcire, con
conseguente pregiudizio economico per l’impresa di assicurazioni e recupero - in termini di aumento - dei maggiori costi
con l’aumento del premio delle polizze per gli assicurati”. Ebbene, i casi affrontati dai giudici milanesi in commento appaiono del tutto analoghi a quanto prospettato dalla compagnia
assicuratrice citata.
(39) Così, in uno dei primi scritti che la dottrina italiana ricordi in materia di abuso del diritto, Noto Sardegna, L’abuso
del diritto, Palermo, 1907, 9.
(40) In termini Corte cost. 16 ottobre 2014, n. 235, in Foro
it., 2014, I, 3345, con note di Palmieri - Cuocci; in Resp. civ.
prev., 2014, 1826, con note di Scognamiglio, Il danno da micropermanenti: la giurisprudenza della Corte costituzionale, la
funzione della responsabilità civile ed una condivisibile concretizzazione del principio di irrisarcibilità del danno non eccedente il
livello della tollerabilità e di Ziviz, Prima furon le cose, e poi i nomi; in Arch. giur. circ. sin., 2014, 979; in Guida dir., 2014, 44,
14, con nota di Martini; in Giur. cost., 2014, 3805, con nota di
Gagliardi, Legittimo l’art. 139 cod. ass. per la liquidazione dei
danni alla persona di lieve entità. Il valore del sistema r.c. auto
ed il rischio di non chiarire quale sia; in Europa e dir. privato,
2014, 1389, con nota di Guffanti Pesenti, La Corte costituzionale e l’inedita funzione sociale del diritto alla salute; in Riv. it. medicina legale, 2015, 295, con nota di Parziale; in senso conforme Corte cost. 21 ottobre 2015, n. 242, in www.ridare.it.
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Sintesi
Osservatorio di legittimità
a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito
RISARCIMENTO DEL DANNO
PERDITA DELLA CAPACITÀ DI GUADAGNO
Cassazione Civile, Sez. III, 4 maggio 2016, n. 8896 Pres. Armano - Est. Rossetti
Il danno da perdita della capacità di guadagno va liquidato sulla base del reddito da lavoro, nel caso in cui la
vittima svolga effettivamente un lavoro. Mentre, la base di calcolo è il triplo della pensione sociale nell’ipotesi
in cui la vittima non abbia un reddito da lavoro.
Il caso
La vittima di un incidente stradale si vede liquidare dal giudice di merito il danno da perdita della capacità di guadagno sulla base del reddito più alto da lui percepito nei tre
anni precedenti il sinistro, ai sensi dell’art. 137, comma 1,
cod. ass.
Propone ricorso per cassazione, sostenendo che il danno
da riduzione della capacità di guadagno debba essere liquidato in base al triplo della pensione sociale (oggi “assegno
sociale”) tutte le volte che il danneggiato abbia un reddito a
questa inferiore.
La decisione
La sentenza in commento rigetta la tesi del ricorrente, spiegando che si tratta di una interpretazione inammissibile,
che trasformerebbe il risarcimento in un indennizzo. Infatti,
il sistema previsto dall’art. 137 cod. ass. alla luce della costante giurisprudenza, si compendia nelle tre seguenti possibilità:
(a) se la vittima ha un reddito da lavoro, è quest’ultimo che
va posto a base del calcolo;
(b) se la vittima non ha un reddito da lavoro, è il triplo della
pensione sociale che va posto a base del calcolo;
(c) se la vittima ha un reddito da lavoro saltuario, è il triplo
della pensione sociale che va posto a base del calcolo.
In questo caso ricorre l’ipotesi sub (a), sicché correttamente il giudice del merito ha liquidato il danno in base al reddito effettivo della vittima. La conclusione non è inficiata
dal solo fatto che la vittima, essendo un lavoratore ancor
giovane, avrebbe potuto legittimamente attendersi, se fosse rimasta sana, un incremento del reddito de die in diem.
La circostanza che il reddito goduto dalla vittima al momento dell’infortunio sarebbe potuto aumentare in futuro,
se non si fosse verificato il sinistro, va infatti tenuta presente dal giudice al momento della liquidazione del danno, opportunamente aumentando il reddito da porre a base del
calcolo.
La suddetta circostanza, quindi potrebbe giustificare un aumento equitativo del reddito reale da porre a base della liquidazione, ma non la pretesa che questa avvenga sulla
base del triplo della pensione sociale.
I precedenti
Per il costante principio secondo cui la circostanza che il
reddito goduto dalla vittima al momento dell’infortunio sarebbe potuto aumentare in futuro, se non si fosse verificato
898
il sinistro, va tenuta presente dal giudice al momento della
liquidazione del danno, opportunamente aumentando il
reddito da porre a base del calcolo, cfr. Cass. 6 ottobre
1994, n. 8177, secondo cui, nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire
ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve
tenere conto non solo del reddito della vittima al momento
del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno
dovuti, per gli impiegati, ad eventuali immissioni in ruolo,
allo sviluppo della carriera ed ad altri consimili eventi che
con prudente apprezzamento e sulla base dell’“id quod plerumque accidit” si sarebbero verificati.
La dottrina
S. Viciani, Il danno potenziale ovvero patrimoniale futuro, in
Giust. civ., 2012, II, 69.
RESPONSABILITÀ CIVILE
RESPONSABILITÀ DEI MAESTRI E PRECETTORI
Cassazione Civile, Sez. III, 9 maggio 2016, n. 9337 Pres. Salvago - Est. Valitutti
In tema di responsabilità civile dei maestri e dei precettori, il superamento della presunzione di responsabilità
gravante, ex art. 2048 c.c., sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, postula la dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o
repressivo dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, e di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di quella serie, commisurate
all’età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi
in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo
la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e
continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età,
sicché, con riguardo ad uno stato dei luoghi connotato
dalla presenza di un manufatto in grado di ostacolare la
piena e totale visibilità dello spazio da controllare, non
costituiscono idonee misure organizzative la mera presenza delle insegnanti in loco, se non disposte in prossimità del manufatto stesso, e l’avere le medesime impartito agli alunni la generica raccomandazione “di non
correre troppo durante la ricreazione” senza l’adozione
di interventi correttivi immediati, diretti a prevenire e
ad evitare il verificarsi di eventi dannosi.
Il caso
Una bambina della prima elementare, durante l’ora di ricreazione, è investita da un ragazzo di quarta elementare
che, sbucando di corsa, inseguito da un altro ragazzo di
quinta, da dietro un muretto, la travolge. La piccola cade e
si procura lesioni. I suoi genitori citano in giudizio risarcitorio l’istituto scolastico, che viene assolto dal giudice di merito per avere offerto la prova liberatoria, ai sensi dell’art.
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Sintesi
2048, comma 3, c.c. in ordine all’imprevedibilità dell’evento lesivo in questione ed alla concreta adozione, da parte
della scuola, di misure organizzative e disciplinari idonee a
prevenire l’insorgenza di situazioni di pericolo per l’incolumità degli allievi.
I genitori della piccola vittima propongono ricorso per cassazione, sostenendo che la sorveglianza esercitata dalle insegnanti non era adeguata, in relazione al luogo (cortile interno alla scuola connotato dalla presenza di un muretto),
al momento (ricreazione) nel quale l’incidente ebbe a verificarsi, nonché alla diversa fascia di età degli alunni appartenenti alle diverse classi che si trovavano insieme nel medesimo cortile.
La decisione
La sentenza in commento accoglie il ricorso, spiegando
che la fattispecie in esame deve essere inquadrata nel disposto dell’art. 2048 c.c., trattandosi di danno cagionato
ad un terzo dal fatto illecito dell’allievo.
Orbene, in tema di responsabilità civile dei maestri e dei
precettori, per superare la presunzione di responsabilità
che, ex art. 2048 c.c., grava sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di
non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, dopo l’inizio della serie causale sfociante
nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una
situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale. Tali misure vanno, peraltro, commisurate all’età
ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, essendo del tutto
evidente che la sorveglianza dei minori dovrà essere tanto
più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in
tenera età.
Tanto premesso, i giudici di legittimità spiegano che nel
giudizio del merito non è stata fatta corretta applicazione
di questi principi, laddove, dopo avere ritenuto del tutto
prevedibile e “normale” che, nel corso della ricreazione, i
ragazzi possano giocare rincorrendosi, è stato poi considerato sufficiente il mero fatto della presenza in loco delle insegnanti (una per classe), nonché la circostanza che queste avessero più volte raccomandato agli alunni “di non
correre troppo”. La decisione di appello ha, inoltre, valorizzato, del pari in maniera non convincente, ai fini di pervenire alla conclusione che l’evento dannoso non poteva essere impedito dalle insegnanti, ai sensi dell’art. 2048, comma
3, c.c. la circostanza in sé, costituita dal fatto che l’incidente si fosse verificato in modo improvviso e repentino, tale
da non poter essere in alcun modo previsto e dunque materialmente impedito, senza porla in alcun modo in relazione alle altre circostanze emerse dagli atti processuali.
Siffatto modus operandi del giudice di seconde cure - per
quanto concerne la pretesa imprevedibilità ed inevitabilità
dell’evento - non gli ha, peraltro, consentito di dare il giusto
rilievo, ai fini dell’accertamento della sussistenza di una
adeguata prova liberatoria da parte della scuola, al fatto,
pure riportato dallo stesso giudicante, che il ragazzo investitore era sbucato correndo velocemente, inseguito da un
altro ragazzo di quinta, da dietro un muretto ubicato nel
cortile nel quale si stava svolgendo la ricreazione. Tale circostanza evidenzia, invero, senza ombra di dubbio, che nonostante la presenza delle insegnanti e di un’operatrice
scolastica - la situazione all’interno del cortile della scuola
era tutt’altro che sotto controllo. Ed è evidente che, in presenza di un volgere di eventi di tal fatta, il rischio che qual-
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cuno dei bambini - soprattutto se più piccolo e fragile, come gli alunni di prima - potesse restare travolto dai più
grandi, costituiva un fatto tutt’altro che imprevedibile.
I precedenti
Sul tema, cfr. la fondamentale Cass. SU n. 9346 del 2002.
In conformità al principio espresso dalla sentenza impugnata, cfr. Cass. n. 6937 del 1993; n. 12424 del 1998; n.
2272 del 2005.
La dottrina
V. Vozza, La responsabilità degli insegnanti: prova liberatoria
e misure disciplinari, in questa Rivista 2016, 131. F. Piaia,
La responsabilità per condotta auto lesiva dell’allievo: tra risarcimento del danno e onere della prova, in questa Rivista,
2016, 271.
RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO
Cassazione Civile, Sez. II, 11 maggio 2016, n. 9660 Pres. Bucciante - Est. Scarpa
Il notaio che inserisca, nella redazione dell’atto pubblico
di trasferimento immobiliare, la dichiarazione della parte venditrice, accettata dall’acquirente, di estinzione del
debito garantito da ipoteca sull’immobile, con impegno
a provvedere alla cancellazione di quest’ultima a propria cura e spese, non risponde per la mancata veridicità della dichiarazione, poiché non è tenuto ad alcuna attività accertativa a fronte di un’espressione del potere
valutativo del contraente, al quale solo spetta apprezzare il rischio di quella operazione negoziale.
Il caso
Due coniugi acquistano un appartamento mediante atto
pubblico, pagandone il relativo prezzo. Nell’atto è scritto
che il bene è gravato d’ipoteca a favore di una banca e che
il venditore avrebbe provveduto all’estinzione dell’ipoteca a
sue spese, nei tempi strettamente necessari all’adempimento. Dopo sette anni dall’acquisto i coniugi apprendono
che l’immobile è ancora gravato d’ipoteca e che l’esposizione debitoria ammonta ad una consistente somma di danaro. Ne consegue precetto e pignoramento.
Allora, gli acquirenti citano in giudizio il notaio rogante per
il risarcimento del danno. Il professionista contesta che nell’atto erano ben indicati sia l’esistenza dell’ipoteca, sia l’impegno del venditore ad estinguerla a sue cure e spese e
che, semmai, era verso quest’ultimo che doveva essere rivolta la domanda risarcitoria.
Il primo giudice condanna il notaio per negligente esecuzione dell’incarico professionale svolto, sotto il profilo di un
omesso dovere d’informazione e di dissuasione. Il giudice
d’appello l’assolve, essendo stata indicata nell’atto stesso
l’esistenza dell’ipoteca, e non risultando nel rogito formule
recanti connotati di ingannevolezza o scarsa chiarezza.
Propongono ricorso per cassazione i coniugi acquirenti, insistendo intorno alla tesi della negligenza professionale.
La decisione
La sentenza impugnata respinge il ricorso, spiegando che
il notaio richiesto della redazione di un atto pubblico di trasferimento immobiliare ha certamente l’obbligo di compiere le attività preparatorie e successive necessarie per il
conseguimento del risultato voluto dalle parti e, in particolare, è tenuto ad effettuare le visure catastali e ipotecarie,
la cui eventuale omissione è fonte di responsabilità per violazione della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, com-
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ma 2, c.c. Il notaio che ometta di accertarsi dell’esistenza
di iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli sull’immobile, risponde, perciò, del danno patito dall’acquirente, a nulla rilevando se sia configurabile anche una responsabilità del venditore che abbia garantito la libertà del bene da ipoteca, vincoli o pesi di altra natura. L’opera professionale di cui è richiesto il notaio non si riduce, perciò, al mero compito di
accertamento della volontà delle parti e di direzione nella
compilazione dell’atto, ma si estende ad ogni attività volta
ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell’atto e del risultato pratico perseguito dalle parti; pertanto,
il notaio che abbia la conoscenza o anche il solo sospetto
di un’iscrizione pregiudizievole gravante sull’immobile oggetto della compravendita, deve informarne le parti, quando anche egli sia stato esonerato dalle visure.
Nel caso in esame, tuttavia, il giudice del merito ha convincentemente negato la responsabilità professionale del notaio nei confronti degli acquirenti, avendo egli inserito nel
rogito una clausola che asseverava l’esistenza di un’ipoteca gravante sull’immobile venduto e recava l’assunzione
da parte del venditore dell’obbligo di procedere alla cancellazione della garanzia “nei tempi tecnici necessari”.
Il compratore non può pretendere di riversare sul notaio rogante le conseguenze dell’inadempimento del venditore rispetto all’obbligo assunto di procedere alla cancellazione
dell’ipoteca pregiudizievole esistente sul bene e verificata
dal notaio stesso. Né può sostenersi che l’obbligo per il notaio di dissuasione del cliente dalla stipula dell’atto sussista
non soltanto nell’ipotesi di constatazione della presenza di
iscrizioni pregiudizievoli, ma anche nel senso di indurre il
compratore a non confidare nell’adempimento del venditore rispetto agli impegni presi di estinguere tali iscrizioni: il
cd. “dovere di consiglio”, deontologicamente imposto al
notaio, investe solo le conseguenze giuridiche della prestazione a lui richiesta, e non pure le circostanze di fatto dell’affare concluso, tra le quali rientrano i rischi economici
dello stesso, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva al
prudente apprezzamento delle parti.
In definitiva, l’inadempimento del venditore all’obbligo di
provvedere alla cancellazione di un’ipoteca iscritta sull’immobile alienato a garanzia di un mutuo e portata a conoscenza dell’acquirente, obbligo assunto nell’atto di compravendita dai contraenti nell’ambito della loro autonomia
negoziale, non comporta affatto l’inadempimento dell’obbligazione assunta dal notaio rogante di verificare le iscrizioni ipotecarie relative all’immobile compravenduto, risultato poi tuttora gravato da ipoteca e sottoposto a procedura esecutiva.
I precedenti
Il principio di cui in massima trova il suo recente predente
in Cass. 27 ottobre 2015, n. 21792. Quanto al mancato accertamento di iscrizioni pregiudizievoli, cfr. Cass. 19 giugno
2013, n. 15305. Sul “dovere di consiglio” imposto al notaio,
cfr. Cass. 5 giugno 2015, n. 11665.
La dottrina
Tra le più recenti pubblicazioni in argomento, cfr. G. Musolino, Responsabilità del notaio. Ritardo nella trascrizione giustificato dall’attesa della liquidità dell’assegno del cliente, in
Riv. not. 2016, II, 76. E. Bucciante, Notaio, responsabilità
professionale, visure ipocatastali, omissione o negligente
compimento, in Foro it., 2015, I, 1018.
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RISARCIMENTO DEL DANNO
VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI AVVIAMENTO
Cassazione Civile, Sez. II, 12 maggio 2016, n. 9758 Pres. Napoletano - Est. Boghetich
Il datore di lavoro, inadempiente all’obbligo di assunzione del lavoratore avviato ai sensi della L. n. 482 del
1968, è tenuto, per responsabilità contrattuale, a risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale che il lavoratore ha
consequenzialmente subito durante tutto il periodo in
cui si è protratta l’inadempienza del datore di lavoro
medesimo.
Il caso
Un lavoratore, premesso di aver ottenuto, da parte del
Consiglio di Stato, l’annullamento dell’atto di avviamento
dell’Ufficio di collocamento che lo aveva pretermesso per
una assunzione presso l’Enel con contratto di formazione e
lavoro, propone azione risarcitoria per il periodo 1987 2002 (data di avviamento al lavoro presso l’Enel). I giudici
del merito condannano il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al pagamento dei danni liquidati equitativamente, tenendo conto della cd. perdita di chance.
Propone ricorso per cassazione il Ministero deducendo la
mancata allegazione, da parte del lavoratore, di uno stato
di disoccupazione protratto per il periodo in atti (19872002), elemento necessario per consentire la liquidazione
del danno patrimoniale e, prima ancora, per far sorgere l’onere di specifica contestazione della controparte, anche a
fronte della circostanza (emersa da una verifica previdenziale) dello svolgimento di lavoro subordinato da parte del
lavoratore per altre aziende sin dal 1990. Aggiunge pure
che, non essendo previsto alcun obbligo a carico del datore di lavoro, alla scadenza del termine del contratto, di stipulare un contratto a tempo indeterminato e mancando
ogni motivazione circa la “rilevante” probabilità dell’interessato di trasformare il contratto di formazione e lavoro in
rapporto a tempo indeterminato e, di conseguenza, non
potendosi valutare alcuna perdita di chance in relazione alla suddetta opportunità.
La decisione
La sentenza in commento respinge il ricorso del Ministero
spiegando che il datore di lavoro, inadempiente all’obbligo
di assunzione del lavoratore avviato ai sensi della L. n. 482
del 1968, (ma il principio è analogamente applicabile alla
controversia che ci occupa), è tenuto, per responsabilità
contrattuale, a risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale
che il lavoratore ha consequenzialmente subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza del datore
di lavoro medesimo; pregiudizio che può essere in concreto determinato, senza bisogno di una specifica prova del
lavoratore, sulla base del complesso delle utilità (salari e
stipendi) che il lavoratore avrebbe potuto conseguire, ove
tempestivamente assunto, mentre spetta al datore di lavoro provare l’aliunde perceptum, oppure la negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione.
Nella specie la Corte di legittimità osserva che il giudice
del merito, dopo aver rilevato la formazione del giudicato
interno con riguardo alla sussistenza di un “vero e proprio
diritto soggettivo all’avviamento in esecuzione della richiesta
effettuata dall’Enel”, ha evidenziato che i lavoratori illegittimamente avviati nel 1987 al posto dell’interessato hanno
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Sintesi
stipulato un contratto di formazione e lavoro e, alla scadenza, sono stati tutti assunti con rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. Il giudice di merito, pertanto, traendo l’inferenza presuntiva dagli elementi raccolti, ha fatto corretta
applicazione dei principi innanzi richiamati, ritenendo che
“l’aspettativa dell’interessato, che era utilmente collocato
nella graduatoria in vigore al momento della richiesta dell’imprenditore, di essere avviato al lavoro presso l’Enel con
un contratto di formazione e lavoro fosse concreta”.
488 del 2009; n. 2402 del 2004; n. 1085 del 1994; n. 10851
del 1990; n. 5793 del 1990; n. 2465 del 1988; n. 5262 del
1987.
La dottrina
M. Bellina, Mancata assunzione e responsabilità precontrattuale, in Dir. prat. trib. 2012, 873. S. Assennato, Quando il
collocamento sbaglia mira: sulla risarcibilità del danno da
mancata assunzione di soggetti obbligatoriamente avviati, in
Riv. giur. lav., 2012, II, 487.
I precedenti
Sul pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo d’assunzione del lavoratore avviato, cfr., tra le altre, Cass. n.
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Osservatorio di merito
a cura di Paolo L. Carbone (*)
PROMESSA DI MATRIMONIO
ROTTURA DEL FIDANZAMENTO PER GIUSTO MOTIVO
Tribunale di Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016 - Giudice Dott.ssa Valeria Pirari
L’annullamento della promessa di matrimonio causata
dalla intollerabilità della convivenza, intrapresa dalle
parti prima di contrarre le nozze, rappresenta un giusto
motivo per la rottura del fidanzamento.
L’onere di provare la sussistenza del giustificato motivo, quale fatto costitutivo negativo della pretesa dell’altra parte, incombe al recedente, qualora voglia sottrarsi
a siffatta obbligazione riparatoria.
Il caso
Con atto di citazione, ritualmente notificato in data 8 settembre 2004, VA.EM. conveniva in giudizio PI.FA., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per la ingiustificata rottura della promessa di matrimonio.
L’attrice esponeva di aver intrattenuto da circa sette anni
una relazione sentimentale col convenuto, col quale era intercorsa vicendevole promessa di sposarsi, tanto che, nel
periodo 15 marzo 2004 - 23 marzo 2004, l’ufficiale dello
stato civile del Comune di San Sperate aveva proceduto alla pubblicazione del matrimonio, così come avvenne anche
nel Comune di Ussana per il periodo 15 marzo 2004 - 23
marzo 2004. Il contegno del convenuto, durante il rapporto
sentimentale, aveva determinato, in capo all’attrice, una situazione di affidamento sulla conclusione del contratto di
matrimonio, cui era seguito l’acquisto di vari arredi (con
versamento dell’acconto di euro 500,00) e dell’abito da
sposa, per un totale di euro 12.208,14, oltre che la fissazione della data delle nozze per il 15 maggio 2004, preceduta,
nel mese di agosto 2003, dalla convivenza presso un immobile messo a disposizione dalla madre dello sposo. Nonostante ciò, il convenuto, in data 9 aprile 2004, aveva immotivatamente rifiutato di sposarsi e anzi, dopo aver percosso e minacciato l’attrice, aveva invitato i genitori della
stessa a portarla via.
In data 3 novembre 2004, si costituiva in giudizio PI.FA.,
chiedendo il rigetto della domanda, in quanto il rifiuto di
eseguire la promessa di matrimonio era giustificato dalla
sussistenza di incompatibilità caratteriali tra i due promessi
sposi, emerse durante la convivenza, ed altresì dal comportamento invadente dei genitori della sposa, sempre presenti nella casa dei fidanzati, oltreché ad usi ed a comportamenti insolenti nei confronti dei suoi amici che frequentavano l’abitazione. Esponeva, inoltre, che, nella mattina del
9 aprile 2004, si era verificato un litigio e, durante la serata,
VA.EM. aveva lasciato l’abitazione in compagnia del padre,
il quale aveva detto al convenuto che non ci sarebbe stato
alcun matrimonio. Per di più, nel corso delle successive
settimane, i genitori dell’attrice gli avevano altresì impedito
di avere un chiarimento con la figlia.
Esponeva, inoltre come l’acquisto rateale dei mobili fosse
avvenuto sin dal 2000 e dunque molto tempo prima della
promessa di matrimonio e che avesse versato euro 250,00
per l’acquisto della camera da letto e la metà dell’importo
per le bomboniere e delle partecipazioni, mentre l’acconto
per l’abito da sposa era stato perso dall’attrice per il suo disinteresse, essendole stato offerto di sostituire l’abito nuziale con altra merce di pari importo.
La decisione
Il Tribunale di Cagliari ha ritenuto la domanda attorea infondata e, per l’effetto, l’ha rigettata.
Il giudicante ha evidenziato innanzitutto come, a mente
dell’art. 81 c.c., la promessa di matrimonio fatta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata oppure risultante dalla richiesta della pubblicazione, obblighi il promettente a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le
spese sostenute e per le obbligazioni contratte in ragione
di quella promessa, entro il limite in cui le spese e le obbligazioni corrispondano alla condizione delle parti, qualora
egli rifiuti di eseguirla senza giusto motivo.
La giurisprudenza della S.C. è concorde nel qualificare l’obbligazione relativa al rimborso delle spese affrontate e delle
obbligazioni contratte in vista del matrimonio come una
speciale responsabilità conseguente, ex lege, all’esercizio
di recesso, non riconducibile a quella aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c., essendo la scelta di non contrarre matrimonio un atto di libertà incoercibile (Cass. 2 gennaio 2012, n.
9), e neppure a quella precontrattuale o contrattuale, non
essendo la promessa di matrimonio un contratto e non costituendo essa un vincolo giuridico tra le parti, la quale presuppone che la rottura del fidanzamento avvenga “senza
giusto motivo” (Cass. 15 aprile 2010, n. 9052).
Ebbene, nel caso di specie, pur essendo stato documentalmente comprovato come le parti avessero deciso di contrarre matrimonio, provvedendo alle relative pubblicazioni
presso la casa comunale dei rispettivi comuni di residenza
nel periodo 15 marzo 2004 - 23 marzo 2004, è rimasto altrettanto provato come la rottura del fidanzamento non
fosse avvenuta “senza giusto motivo”, essendo essa frutto
di una decisione sostanzialmente concorde delle parti sia
pure indotta da un aspro litigio intercorso a circa un mese
dalla data fissata per la celebrazione del matrimonio.
Infatti, se anche il convenuto, dopo il litigio, avesse dunque
manifestato la sua intenzione di non sposarsi (come riferito
dal futuro suocero), il Giudice ha evidenziato come sia stata la stessa attrice a interrompere il rapporto, mostrandosi
oppositiva rispetto a qualsiasi dialogo nei giorni successivi.
Il Tribunale ha, dunque, concluso ritenendo che la rottura
del matrimonio sia stata causata da intollerabilità della convivenza, intrapresa dalle parti prima di contrarre le nozze e,
alla luce di ciò, in presenza di un giusto motivo.
(*) Con la collaborazione di: Tania Bortolu, Chiara Cadoni,
Samanta Midori Takahashi.
902
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Giurisprudenza
Sintesi
Pertanto, avendo il convenuto dimostrato il fatto costitutivo
negativo della pretesa dell’attrice, della cui prova era onerato, la domanda proposta è stata rigettata.
I pecedenti
Cass., Sez. VI, 2 gennaio 2012, n. 9; Cass., Sez. III, 15 aprile 2010, n. 9052; Cass., Sez. I, 8 febbraio 1994, n. 1260;
Cass., Sez. III, 10 agosto 1991, n. 8733; Trib. Monza 6 giugno 2006; Trib. Genova, Sez. IV, 17 gennaio 2004; Trib.
Reggio Calabria 12 agosto 2003; Trib. Verona 29 gennaio
1982.
La dottrina
Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 1992, 23; Bucelli, Mutamento sociale e donazioni prematrimoniali, in Giur. it., 1995,
I, 1, 684; Loi, Promessa di matrimonio, in Enc. dir., XXXVII,
Milano, 1988, 95; Taratano, La promessa di matrimonio, in
Trattato dir. Priv., diretto da Rescigno, 2, Persone e Famiglia, I, Torino, 1982, 527; Trabucchi, La promessa di matrimonio, Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto
da Cian - Oppo - Trabucchi, Padova, 1992, 14.
RISARCIMENTO DEL DANNO
DANNI DERIVANTI DALLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI
D’AUTORE
Tribunale di Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016 - Giud. Marvasi
L’hosting c.d. “attivo” che distribuisce contenuto digitale e sfrutta commercialmente i video caricati dagli
utenti a fini pubblicitari, anche se non è soggetto ad un
obbligo generale di sorveglianza e di controllo preventivo, ha la responsabilità di rimuovere prontamente il
contenuto illecito appena prenda conoscenza, mediante
un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro
modo, della natura illecita di tali dati o attività, di cui
agli artt. 78 ter, 79, 156 e 158 della L. 22 aprile 1941, n.
633 (Legge sul diritto d’autore - Lda).
Il caso
R.T.I Reti Televisive Italiane S.p.a., società del gruppo Mediaset concessionaria per l’esercizio delle emittenti televisive “Canale 5”, “Italia 1” e “Retequattro” rilevava in data 14
luglio 2011 la presenza non autorizzata sul Portale Break di
sequenze e frammenti dei suoi programmi trasmessi in
modalità “streaming” sul sito www.break.com.
R.T.I. in un primo momento inviava una diffida stragiudiziale intimando l’immediata cessazione dell’attività illecita, rimasta però senza alcun esito. Proponeva, successivamente, domanda giudiziale perché fosse accertata l’illegittimità
del comportamento tenuto da Break media con risarcimento del danno. Break media, costituitosi ritualmente, chiedeva il rigetto della domanda.
La decisione
In via preliminare Il Giudice ha riconosciuto la giurisdizione
italiana. Anche se la società Break media ha sede legale
negli Stati Uniti - ove si trovano i server di sua proprietà sui
quali sono caricati i contenuti contestati - trattandosi di violazione di diritti connessi ex art. 79 Lda è competente il giudice del luogo dove l’evento dannoso è avvenuto. Nel caso
di specie il danno si è verificato nel momento in cui le trasmissioni sono state visionate dall’utente italiano (principio
Danno e responsabilità 8-9/2016
del locus commissi delicti). La competenza territoriale, in
particolare, viene individuata in Roma, dove ha sede RTI,
luogo in cui ha subito gli effetti pregiudizievoli della condotta della convenuta. La legittimazione attiva, a sua volta,
deriva dalla titolarità dei diritti di sfruttamento economico
dei programmi elencati in citazione.
Quanto al merito, il giudice ha individuato la responsabilità
della convenuta, in quanto: a) l’attività da lei svolta non si
limita a quella di “social network”, come una semplice
piattaforma di condivisione o hosting c.d. “passivo”, trattandosi invece di “una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento pubblicitario dei contenuti immessi in
rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati
ad altri arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità dotato di una sua precisa e
specifica autonomia”, ragione per cui inapplicabile in relazione a questo business l’art. 16 D.Lgs. n. 70/2003 e art. 15
della Dir. CE 311/2000, con la correlativa esenzione da responsabilità, che dev’essere accertata in base alle norme
comuni; b) sebbene l’hosting c.d. “attivo” non possa essere soggetto ad un obbligo generale di sorveglianza e controllo preventivo del materiale immesso in rete dagli utenti,
in quanto comprometterebbe il diritto di informazione e
della libertà di espressione (Corte di Giustizia UE 24 novembre 2011, n. 70/10, caso Scarlet Extended S A c. Société belge auteurs), la responsabilità sussiste allorché il
prestatore “dopo aver preso lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detto destinatari abbia
omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare
l’accesso agli stessi” (Corte di Giustizia, decisione 23 marzo 2010, Punto I 09). Insostenibile la tesi della parte convenuta sull’irrilevanza delle due diffide inviate da RTI in quanto non sufficientemente specifiche nell’indicare i contenuti
illeciti, per mancati indirizzi compendiati in singoli URL. Prima perché gli URL non sono i contenuti ma la loro “localizzazione” e inoltre perché pur affermando l’insussistenza di
un obbligo generale di sorveglianza la normativa a tutela
del diritto d’autore viene applicata laddove la “conoscenza
effettiva” dell’illecito determina il momento dell’insorgenza
della responsabilità. Si ritiene sufficiente l’indicazione specifica dei files illeciti (video, programmi etc.) tramite diffida
o al mezzo (precedente del Tribunale nell’ordinanza RTIGOOGLE), c.c. Trib. Milano 29 gennaio 2011 RTI - Italia on
line). Sostiene il Giudice che l’indicazione precisa dei programmi individuati (“grande fratello” - diffide 14 luglio
2011 e 31 agosto 2011 e “striscia la notizia” “zelig” - diffida 28 settembre 2011) è sufficiente ed idonea ad attivare
la necessaria attività di verifica e controllo, peraltro attraverso gli stessi strumenti informatici messi a disposizione
dagli utenti per la ricerca delle trasmissioni attraverso le
parole chiave, sistema peraltro che la stessa Break Media
mette a disposizione di coloro che vogliono segnalare la
presenza di video illecitamente trasmessi. Il Tribunale non
ha ritenuto, altresì, che la fattispecie integri l’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria ex art. 2598, n. 3, c.c. né di violazione dei marchi di parte attrice (i programmi riportavano
solo il logo dei canali di titolarità di RTI). Il Giudice ha inoltre esclusa l’ipotesi di violazione di un diritto morale d’autore, riservato dalla legge all’autore del format dei programmi
ed ai singoli partecipanti. Conclude, pertanto, che la condotta illecita della convenuta si è esaurita nella violazione
del diritto d’autore. Da qui la condanna della Break media
al pagamento in favore della RTI di euro 115.000,00 (in base alla valutazione del C.T.U.) a titolo di risarcimento del
danno, somma maggiorata degli interessi di mora al sag-
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gio legale oltre alle spese di lite. Il Giudice, inoltre, ha fissato a titolo di penale per ogni violazione e/o inosservanza
successivamente constatata ed ogni giorno di permanenza
la somma di euro 1.000,00, oltre alla pubblicazione della
sentenza nelle edizioni cartacee e on line per due volte consecutive a cura di RTI ed a spese della convenuta sui quotidiani “Il Sole 24 Ore” e “Il Corriere della Sera” nonché nella
home page del portale Break, di proprietà della convenuta.
I precedenti
Il precedente specifico, che ha affrontato la differenza tra
l’hosting “attivo” e quello “passivo” o hosting “puro”, riguarda una vicenda che coinvolge lo stesso attore, stavolta
nelle vesti di Mediaset, contro Yahoo!. Il caso è stato di recente deciso in modo differente dalla sentenza in esame
da App. Milano 7 gennaio 2015, n. 29 che ha considerato
Yahoo! un hosting “puro” che si limita ad offrire servizi di
accesso ad Internet e di ospitalità di dati (hosting) senza
proporre altri servizi di elaborazione dei dati, travolgendo
così quella posizione di equilibrio tra dottrina e giurisprudenza - volta a conciliare un disciplina tra direttiva europea
(quella sul commercio elettronico 2000/31/CE), recepita in
Italia con il D.Lgs. n. 70/2003, ed una realtà quotidiana che
si evolve rapidamente - che era stata recepita dal giudice
di prime cure del medesimo caso (Trib. Milano 9 settembre
2011, n. 10893, in Riv. dir. ind., 2011, 375) e ribadita dal
Tribunale di Roma qui annotato.
Il tema inoltre, si confronta anche con diversi precedenti
della Corte di Giustizia tra cui sentenza C-291/13 dell’11
settembre 2014 (Papasavvas c. Fileleftheros), che ha ribadito la responsabilità dell’hosting che svolga un’attività non
“neutra”. In tal senso anche la citata Corte di Giustizia UE
24 novembre 2011, n. 70/10, caso Scarlet Extended S A c.
Société belge auteurs, in Foro it., 2012, IV, 297, n. Granieri;
in Giornale dir. amm., 2012, 632 (m), n. Melis; in Nuova
giur. civ. comm., 2012, I, 571, n. Colangelo; in Dir. inf.,
2012, 260, n. Sammarco, nonché, in materia di marchi v.
anche Corte di Giustizia UE 23 marzo 2010; n. 236/08238/08, caso Google France Sarl c. Louis Vuitton Malletier
S A, in Foro it., 2010, IV, 458; in Giur. it., 2010, 1603 (m), n.
Ricolfi; in Giur. amm., 2010, III, 341; in Dir. ind., 2010, 429,
n. Tavella, Bonavita, in Dir. informazione e informatica,
2010, 707, n. Spedicato; in Dir. comm. internaz., 2011, 507,
n. Montanari.
La dottrina
L. Chimienti, Lineamenti del nuovo diritto d’autore, direttive
comunitarie e normativa interna, Milano, 2001; S. Sarti, I
soggetti di Internet, in AIDA, 1996; B. Donato, La responsabilità dell’operatore di sistemi telematici, in Dir. inf., 1996,
135 ss.; S. Magli - M. Saverio Spolidoro, La responsabilità
degli operatori in Internet: profili interni e internazionali, in
Dir. inf., 1997, 61 ss.; M. De Cata, La responsabilità civile
dell’internet service provider, Milano, 2010; L. Bugiolacchi,
La responsabilità dell’host provider alla luce del d.Isg. n.
70/2003: esegesi di una disciplina “dimezzata”, in Resp. civ.
prev., 199 M. Tescaro, La responsabilità dell’internet provider nel d.lg. n. 70/2003, in Resp. civ., 2010, 3, 177; G. Cassano - I.P. Cimino, La responsabilità del content provider per
la diffusione di materiale protetto dal diritto d’autore, in
Resp. civ., 2005, 435; A. Stazi, La tutela del diritto d’autore
in rete: bilanciamento degli interessi, opzioni regolatorie europee e modello italiano, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, A. 31 n. 1 (2015: gen-feb), 89-110; S. Longhini A. Izzo, Tutela del diritto d’autore e internet in Il diritto di
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autore: rivista giuridica trimestrale della Società italiana degli
autori ed editori A. 83, n. 3
DANNI SUBITI PER IL RITARDO DI TRENITALIA DI 99
MINUTI NONCHÉ PER IL FURTO SUBITO NEL VAGONE LETTO
Tribunale di Venezia 17 marzo 2016 - dott. Sabina Rubini – C.A. c. Trenitalia S.p.a. e C.I.CLT. Compagnia Internazionale delle Carrozze Letti del Turismo S.A.
I danni subiti per il cospicuo ritardo del treno espresso
nonché per il furto durante la notte nel vagone letto sono risarcibili.
Il caso
Con atto di citazione ritualmente notificato il sig. C.A. evoca in giudizio Trenitalia Spa per sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti a causa del ritardo del treno espresso n. 1931 del 25 maggio
2007, nonché del furto subito ad opera di ignoti durante la
notte in cui viaggiava nei convoglio ferroviario.
Con riferimento all’inadempimento di Trenitalia relativo al
ritardo, l’attore chiedeva la condanna della convenuta, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 e 1681 c.c.,
ai pagamento della somma di euro 130,50 pari all’importo
del prezzo dei biglietto; inoltre, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2059 c.c. chiedeva la condanna della
convenuta al risarcimento del danno morale, quantificato
in via equitativa in euro 2.000,00 e di quello biologico per
inabilità temporanea parziale, quantificato in via equitativa
in euro 5.000,00, nonché del danno esistenziale, che quantificava in euro 2.500,00, oltre ai rimborso delle spese mediche sostenute pari ad euro 100,35.
Con riferimento, invece, al furto subito nel treno, il C.A.
chiedeva la condanna di Trenitalia al pagamento di euro
550,00, per responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 1681
c.c., a titolo di danno patrimoniale costituito dalla somma
di euro 250,00, che il medesimo teneva in contanti nel portafogli, ed euro 300,00 per il disagio patito in conseguenza
del furto della carta di credito; l’attore chiedeva, inoltre, il
risarcimento del danno, che quantificava in euro 2.000,00,
per responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 conseguente alla lesione del diritto di proprietà dei beni personali; il risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c., che
quantificava in euro 2.500,00; il risarcimento del danno biologico, che quantifica in euro 3.500,00 ed infine, il risarcimento dei danno esistenziale, che quantificava in euro
2.000,00.
Nel costituirsi in giudizio Trenitalia S.p.A. contestava le allegazioni attorce e chiedeva, in via preliminare, che l’azione
fosse dichiarata improcedibile per la mancata attivazione
della procedura di cui all’art. 15 delle Condizioni Generali
regolanti il trasporto ferroviario, come previsto dal RDL 11
ottobre 1934, n.1948 conv. in L. 4 aprile 1935, e successive
modifiche. Rilevava nel merito la convenuta che, in relazione alla domanda relativa al risarcimento del danno per ritardo del treno, Trenitalia aveva già provveduto all’emissione di un bonus pari al 20% dei valore del biglietto, così come previsto dalla L. n. 911/1935, che deroga la disposizione di cui all’art. 1680 c.c., e chiedeva, quindi, che fosse accertato l’adempimento dell’obbligazione risarcitoria e, in
via subordinata, che fosse dichiarata la cessazione della
materia del contendere sul punto per intervenuta transazione. In ordine alla domanda di risarcimento del danno da
furto, Trenitalia chiedeva che la domanda fosse rigettata
per assenza di responsabilità ex d.P.R. 30 marzo 1961, n.
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Sintesi
197 par. 5, e, nel contempo, chiedeva ritualmente il differimento della prima udienza per poter chiamare in causa
C.I.C.L.T. S.A. - Compagnia Internazionale Carrozze Letti
del Turismo - soggetto che contrattualmente si era obbligato a provvedere e garantire la sicurezza dei clienti nelle vetture letto, affinché la manlevasse e la tenesse indenne dall’eventuale accertata responsabilità per il furto subito dall’attore.
La decisione
Il Tribunale ha respinto l’eccezione preliminare della parte
convenuta relativa all’improcedibilità della domanda attorea, avendo la Corte costituzionale, con sent. 25 luglio
2008, n. 296, dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, R.D.L. 11 ottobre 1934, n. 1948 che
condizionava l’esercizio dell’azione giudiziaria al preventivo
reclamo in via amministrativa, eliminando così la necessità
di agire in sede amministrativa prima di adire le vie giudiziarie.
Nel merito, con riferimento alla domanda diretta ad ottenere il rimborso integrale del prezzo del biglietto, si osserva
che la responsabilità di Trenitalia nei confronti del passeggero ha natura contrattuale, in quanto l’acquisto del biglietto determina la nascita di un rapporto sinallagmatico nell’ambito del quale l’utente si obbliga a pagare il prezzo per
l’utilizzo del servizio e Trenitalia si impegna ad eseguire la
controprestazione consistente nel portare il passeggero a
destinazione. Nel caso in cui la prestazione oggetto del
contratto di viaggio non venga eseguita l’utente ha, quindi,
diritto a vedersi riconosciuto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Trenitalia ha eseguito la propria obbligazione, relativa al trasporto del sig. C.A. dalla
stazione di Padova a quella di Siracusa con un notevole ritardo; risulta, invero, accertato, anche a seguito della mancata contestazione di Trenitalia, che il treno espresso n.
1931, proveniente da Venezia - Mestre è partito dalla stazione di Padova il 25 maggio 2007 con un ritardo di 77 minuti rispetto all’orario previsto e che il ritardo è dipeso da
un problema al funzionamento dell’impianto di condizionamento di una carrozza; nel corso del viaggio il ritardo si è
aggravato, anche a causa della necessità di far scendere
un disabile alla stazione di Gioia Tauro, e il treno ha raggiunto la destinazione finale di Siracusa con un ritardo di
99 minuti.
Risulta, pertanto, accertato che vi è stato un inesatto inadempimento colposo dei vettore, atteso che il mancato
funzionamento dell’impianto dell’aria condizionata non è
motivo sufficiente per giustificare un ritardo rilevante fin
dall’inizio del viaggio; Trenitalia, quale vettore professionale
avrebbe dovuto porre rimedio all’inconveniente, peraltro
del tutto prevedibile, in tempi ben più brevi di quelli occorsi, così come non è giustificabile un tempo di 25 minuti per
consentire l’uscita di una persona affetta da disabilità, la
cui presenza era peraltro prevista, come risulta dalla documentazione in atti.
Trenitalia ha eccepito l’intervenuta transazione o la cessazione della materia dei contendere a seguito dell’emissione
del bonus in favore dell’attore, nonché la possibilità di risarcire ii danno solo nei limiti di quanto stabilito dal R.D.L. n.
1948/1934 convertito in L. n. 911/1935, che all’art. 11, prescrive che il viaggiatore ha diritto al risarcimento del danno
derivatogli dal ritardo, dalla soppressione del treno, da
mancata coincidenza, da interruzioni esclusivamente nei
casi e nei limiti previsti dagli arti 9 e 10, qualunque sia la
causa e l’inconveniente che dà luogo alla domanda di indennizzo. Dette norme limitano il risarcimento, in favore
Danno e responsabilità 8-9/2016
del viaggiatore, al rimborso del biglietto, qualora non sia
sfato effettuato il viaggio, o al riconoscimento di una percentuale sul costo dei biglietto a seconda della durata del
ritardo, percentuale che viene indicata nelle condizioni generali di contratto predisposte da Trenitalia.
Quanto alla prima eccezione non si può ritenere conclusa
alcuna transazione con il C.A., il quale si è limitato a richiedere l’emissione dei bonus, ma non lo ha utilizzato in quanto, evidentemente, non soddisfatto dell’offerta di Trenitalia.
Quanto alla limitazione di responsabilità invocata da Trenitalia ritiene questo Giudice che la disciplina applicabile sia
quella contenuta nei principi generali dettati dagli artt.
1218 e 1681 c.c., che in caso di inadempimento, legittimano ii passeggero al risarcimento del danno, mentre non
può trovare applicazione la legge speciale ed in particolare
le norme che prevedono il rimborso totale o parziale del biglietto - in caso soppressione del servizio o di ritardo - in
quanto illegittime. Infatti, dopo la trasformazione dell’ente
F.S. in società per azioni Trenitalia S.p.A., non vi è motivo
per non applicare la disciplina generale dei codice civile e
conseguentemente le Condizioni Generali di Trenitalia debbono ritenersi inefficaci con riferimento alla limitazione di
responsabilità trattandosi di clausole vessatorie contenute
in contratti standard per adesione ai sensi dell’art. 1342
c.c. e non specificatamente approvate per iscritto dall’aderente. Inoltre, devesi ricordare che l’introduzione del Codice
del Consumo ha rafforzato ulteriormente la tutela dei consumatori, stabilendo all’art. 36 la nullità delle clausole contrattuali di cui sia accertata la vessatorietà in materia di
contratti conclusi tra il professionista e la persona fisica.
Ne discende, pertanto, che essendo indubbio che l’attore
debba essere qualificato come consumatore e Trenitalia e
CICLI come professionisti, il richiamo alla regolamentazione delia citata legge (R.D.L. 11 ottobre 1934, n. 1948) appare del tutto inconferente, dovendosi ritenere tali norme illegittime. In favore della derogabilità delle norme su condizioni e tariffe per il trasporto di persone contenute nel
R.D.L. 11 ottobre 1934 n. 1948 anche la Corte costituzionale (sent. n. 28 luglio 1999, n. 372) ha affermato - seppure
incidentalmente - che queste ultime non possono essere
interpretate nel senso che i ritardi non possano dar diritto
al risarcimento del danno secondo le norme civilistiche.
A fronte, quindi, dell’inesatto adempimento colposo di Trenitalia il signor C.A. ha diritto al risarcimento del danno,
che appare equo liquidare in misura pari al 50% dei valore
del biglietto - e quindi pari ad euro 65,25 maggiorata della
rivalutazione e degli interessi legali sulla somma rivalutata tenuto conto che l’attore ha, comunque, utilizzato il mezzo
ferroviario per raggiungere Siracusa. Non può essere riconosciuto, invece, alcun danno per la perdita della coincidenza con il treno diretto a Modica, atteso che l’attore ben
avrebbe potuto prendere il treno successivo a quello inizialmente previsto delle 14.20, che partiva da Siracusa alle ore
16.30 (vedi doc. 3 di parte attrice) senza farsi dare alcun
passaggio dalla cognata; né consegue che qualsivoglia
danno riconducibile a tale fatto non può essere riconosciuto.
Con riferimento alla domanda di risarcimento dei danno
biologico per inabilità temporanea e al rimborso delle spese mediche, del danno esistenziale e del danno morale
conseguenti allo stazionamento forzato in piedi causato dal
ritardo del treno, si rileva che, in forza dell’evoluzione giurisprudenziale, si ritiene ormai superata la figura del danno
morale transeunte così come quella di danno esistenziale
(Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973,
905
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26974 e 26975) con conseguente assorbimento nel concetto di danno biologico di ogni sofferenza fisica o psichica
provata dalla vittima. Peraltro, fatte tali premesse, si osserva che, anche qualora si volesse ritenere distinta la voce
relativa ai danni non patrimoniali lamentati dall’attore, gli
stessi non sono supportati da prova alcuna.
Non risulta, invero, provato il nesso causale tra l’evento - ritardo del Treno espresso n.1931 del 25-26 maggio 2007 ed
il lamentato danno fisico patito dall’attore riconducibile allo
stazionamento in piedi, essendo peraltro provata dall’audizione testimoniale la presenza di spazi atti ad ospitare i
passeggeri in stazione.
Venendo, infine, ad esaminare la domanda di risarcimento
dei danni azionata per l’evento furto, si evidenzia che il contratto di trasporto ferroviario in carrozza letto è un servizio
aggiuntivo offerto da Trenitalia, che obbliga detta società ad
adempiere alla relativa prestazione accessoria di custodia
del bagaglio che il viaggiatore porta con sé, con la diligenza
qualificata dalla qualità dell’offerente - imprenditore, che costituisce il criterio per la valutazione della sua responsabilità
(art. 47 disposizioni speciali Allegato A della L. n. 976 del
1984, richiamato nell’art. 33, comma 2, Allegato 1, appendice A, capo 3, sez. 1). Anche in questo caso, come affermato
di recente dalla S.C. (Cass., Sez. III, sent., 19 dicembre
2014, n. 26887) in un caso analogo, trova applicazione l’art.
1786 c.c., che espressamente estende la responsabilità dell’albergatore all’imprenditore del servizio di carrozza letto,
sulla considerazione che, come l’albergatore esso è tenuto a
garantire, quale l’obbligazione accessoria, il cliente contro i
furti delle cose che egli porta nella camera d’albergo. L’organizzatore del trasporto ferroviario in carrozza Ietto deve, pertanto, predisporre analoghi accorgimenti e cautele per la sicurezza del viaggio - anche di concerto con la polizia ferroviaria - che devono essere ancor più rigorose se non è offerto un autonomo servizio di custodia dei valori e preziosi, non
potendo imporre ai viaggiatore il medesimo onere dì custodia di quello richiesto per il viaggio diurno in un ordinario
scompartimento aperto ai pubblico.
Si rileva che l’aver affidato il servizio ad una società esterna, la CICLI SA, non esime Trenitalia dalla propria responsabilità nei confronti dei contraenti per il comportamento
colposo della terza chiamata, che non ha adempiuto a
quanto stabilito dall’art. 5.1 del contratto intervenuto tra le
predette parti (doc. 10 di parte convenuta) che prevede
l’obbligo per CICLI di “svolgere il servizio di sorveglianza a
bordo dei treni notte e nelle stazioni durante tutto il percorso”, sorveglianza che deve essere adeguata e non limitata
all’invito ai viaggiatori di accertarsi che la porta delia cabina sia chiusa, cautela che peraltro nel caso in esame non
ha evitato il furto. Tenuto conto che risulta che in quella
notte ben 8 passeggeri hanno lamentato di avere subito
furti, come emerge dai doc. 8) prodotto da Trenitalia, e
considerato che il teste Cozzupoli ha affermato di essersi
accertato che la porta della cabina fosse chiusa, è evidente
che, né Trenitalia, che rimane responsabile del convoglio,
né CICLI hanno sorvegliato in modo adeguato sulla sicurezza delle carrozze, consentendo così agli autori dei furti
di agire indisturbati.
Alla luce di quanto sopra esposto, Trenitalia va condannata
in solido con la terza chiamata CICLI a risarcire l’attore del
danno subito per il furto di danaro pari ad euro 250,00, circostanza che la convenute non hanno contestato limitandosi a contestare la responsabilità a loro carico, ma non il
fatto delittuoso, né l’ammontare dell’importo. Non può, invece, essere riconosciuta la maggior somma di euro
906
300,00 che l’attore chiede a titolo di danno conseguente al
furto della carta di credito non avendo il C.A. dimostrato di
avere subito alcun danno conseguente al furto e nemmeno
allegato e precisato in cosa sarebbe consistito il relativo
pregiudizio. Analoghe considerazioni devono essere svolte
in merito alla domanda di risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale che il C.A. afferma di avere patito, stante la totale assenza di prova del reale pregiudizio
subito e del nesso causale con il furto subito.
I precedenti
Autorità garante della concorrenza, 16 ottobre 2008, n.
18997, in Foro it., 2010, III, 47, Il riconoscimento e la corresponsione di un bonus da parte del vettore ferroviario in
caso di ritardi dei treni, con modalità tali da rendere disagevole o impossibile l’erogazione ai consumatori della
somma corrispondente ad una parte del prezzo del biglietto, configura un’ipotesi di pratica commerciale scorretta;
Cass., Sez. III, 25 gennaio 2012, n. 1024, in Rep. Foro it.,
2012, Procedimento civile davanti al giudice di pace, n. 16:
La controversia relativa al riconoscimento di un danno esistenziale per inadempimento derivante al contraente di un
contratto di massa (nella specie, sottoscrittore di un abbonamento ferroviario che si duole dei continui ritardi accumulati dai treni percorrenti una tratta fissa interregionale),
benché rientrante nella competenza per valore del giudice
di pace, resta sottratta al potere di quest’ultimo di decidere
secondo equità, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c., nel
testo sostituito dal D.L. 8 febbraio 2003, n. 18, conv. con
modif. dalla L. 7 aprile 2003, n. 63; pertanto la relativa pronuncia non è impugnabile mediante ricorso per cassazione, anche nel regime ratione temporis applicabile, ma
esclusivamente con l’appello.
La dottrina
Claroni, Sull’“indennizzo” dovuto al passeggero in caso di
ritardo del trasporto ferroviario dipeso da forza maggiore,
in Riv. dir. navigaz., 2014, 362; Vernizzi, Ritardo nel trasporto ferroviario: la responsabilità dell’impresa tra rimedi restitutori e forza maggiore, in Resp. civ., 2014, 84; Scarpa, Il risarcimento del danno non patrimoniale da ritardo ferroviario, in
Giudice di pace, 2011, 162.
DANNI SUBITI DALL’AUTO ACCETTATA NEL PARCHEGGIO
MA NON QUELLI DELLE ATTREZZATURE FOTOGRAFICHE
LASCIATE IN MACCHNA E SOTTRATTE
Tribunale di Roma, Sez. XI, 24 febbraio 2016 - dott.
Massimo Corrias - Tizio, fotografo del banchetto nunziale c. Società organizzatrice del banchetto nunziale in località Pratica di mare
Il danno subito per aver lasciato attrezzatture che sono
state sottratte dalla macchina parcheggiata all’interno
della villa dov’è stato organizzato il banchetto nuziale
con servizio fotografico, non sono risarcibili ai sensi dell’art. 1785 quinquies, c.c. relativo alla responsabilità delle cose portate in albergo che esclude espressamente la
responsabilità dell’albergatore “per i veicoli e per le cose lasciate negli stessi” Sussiste invece la responsabilità della società per il solo danneggiamento dell’auto accettata in custodia e parcheggiata.
Il caso
Con atto di citazione ritualmente notificato Tizio ha convenuto la società che, nella villa di Pratica di mare, aveva or-
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ganizzato il banchetto nunziale dopo le nozze che era state
celebrate con l’intervento del fotografo. Precisa che aveva
parcheggiato la propria autovettura nell’area di parcheggio
all’interno della recinzione della villa; che nel sito internet
della convenuta era menzionata la presenza di un ampio
parcheggio custodito; che inoltre aveva personalmente
constatato che il varco di accesso alla villa era munito di
cancello elettrico, con videocitofono e personale addetto
alla custodia e alla sorveglianza.
Ciò nonostante al termine della cerimonia aveva ritrovato
la propria macchina danneggiata e dalla stessa a erano
state rubate le attrezzatture fotografiche relative ad altro
matrimonio, a causa della mancata sorveglianza del parcheggio da parte degli addetti della società convenuta.
Il fotografo si duole del danno subito pari ai costi di riparazione dell’auto ed al valore delle attrezzature sottrattegli,
nonché danni da lucro cessante e d’immagine, non avendo
potuto portare a termine il servizio fotografico che si era
impegnato a realizzare.
Sulla base di tali prospettazioni Tizio ha chiesto la condanna della società convenuta al pagamento di euro 10.000,00
a titolo di risarcimento dei danni ex art. 1766 c.c. relativo al
contratto di deposito in generale.
La società convenuta ha chiesto il rigetto della domanda
avversaria con condanna dell’attore ex art. 96 c.p.c. assumendo: che l’art. 1785 quinquies c.c. escludeva qualsiasi
responsabilità di albergatori e ristoratori in caso di furto di
autovetture; che il proprio sito web non pubblicizzava la disponibilità di un parcheggio custodito; che nessun contratto di parcheggio era stato stipulato; che il parcheggio di
Villa Grant non era custodito; che in ogni caso la responsabilità del depositario o posteggiatore non si estendeva al
furto degli oggetti lasciati all’interno delle auto; che infine
non era stata fornita alcuna prova del furto né di quali oggetti fossero stati sottratti.
La decisione
La richiesta di risarcimento danni, avanzata dal fotografo al
quale era stata danneggiata l’auto, legittimante parcheggiata all’interno della villa, dove si svolgeva il banchetto
nunziale ed inoltre erano state sottratte dall’autovettura le
attrezzatture fotografiche di altro matrimonio sono state respinte dal Tribunale sulla base del principio che i gestori di
locali assimilabili agli alberghi e ai ristoranti, come la società convenuta, che gestisce pranzi e banchetti dopo le nozze rispondono dei danni arrecati alle vetture parcheggiate
all’interno delle loro strutture unicamente in caso di stipulazione di un distinto contratto di parcheggio.
Richiamando Cass., Sez. III, 22 settembre 2006, n. 20642,
si è preliminarmente osservato che, a norma dell’art. 1785
quinquies c.c., le disposizioni attinenti alla responsabilità
dell’albergatore, per cose portate in albergo, a norma dell’art. 1783 c.c., non si estendono ai veicoli. Perché l’albergatore sia responsabile per i danni o per il furto subiti dal
veicolo, è necessario che tra questi ed il cliente si sia concluso un contratto accessorio, ma autonomo, di deposito.
Il contratto di deposito è un contratto reale, per cui la consegna della cosa è necessaria per il perfezionamento del
contratto. Da ciò consegue che è ultronea ogni questione
se nella specie vi sia stato un consenso da parte dei commessi dell’albergatore (a norma dell’art. 2210 c.c.) per la
conclusione di tale contratto, in quanto mancò la consegna
dell’auto.
Tuttavia, come nella fattispecie, la consegna, ai fini del deposito, può realizzarsi con una ficta traditio attraverso la ritenzione della cosa da parte del depositario (Cass. 25 set-
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tembre 1998, n. 9596) ovvero attraverso l’affidamento della
cosa al depositario. Ciò può avvenire in qualsiasi modo idoneo a produrre l’effetto reale voluto dalla legge e non necessariamente mediante consegna delle chiavi e del documento di circolazione, non essendo siffatta formalità necessaria per l’attribuzione al depositario della detenzione
del veicolo, con l’obbligo di custodirlo e di restituirlo nello
stato in cui è stato consegnato, ed il conseguente obbligo,
se la cosa stessa venga sottratta, al risarcimento del danno, ove il depositario non fornisca la prova, su di lui incombente, dell’inevitabilità dell’evento nonostante l’uso della
diligenza del buon padre di famiglia (Cass. 22 dicembre
1983, n. 7557; Cass. 2 marzo 1985, n. 1787).
I precedenti
Cass. 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. 9 maggio 2012, n.
7037; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2741; Cass. 28 aprile
2010, n. 10190; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27001; Cass. 20
giugno 2002, n. 10638.
La dottrina
M. Franzoni, L’illecito, Milano, 2010; M. Sella, I danni non
patrimoniali, Milano, 2010; C. Salvi, La responsabilità civile,
in Tr. Iudica-Zatti, Milano, 1998; M. C. Bianca, Diritto civile,
V, La responsabilità, Milano, 2012.
DANNI CAUSATI DA CANI RANDAGI
Tribunale di Cagliari 10 febbraio 2016 - dott. E. Murru Tizia c. Comune Beta e ASL Gamma
Il danno cagionato da cani randagi non può essere risarcito in forza della presunzione stabilita dall’art. 2052
c.c. - inapplicabile per la natura stessa degli animali in
questione - ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.
Il caso
Con atto di citazione ritualmente notificato, Tizia conveniva
in giudizio il Comune Beta e la A.S.L. Gamma competente
per territorio, chiedendone la condanna al pagamento dei
danni subiti a causa delle lesioni riportate in seguito all’aggressione da parte di un cane randagio.
Il Comune Beta, regolarmente costituitosi, eccepiva preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva, per
aver la L. n. 218/1991 attribuito alle ASL i compiti di igiene
e sanità pubblica, ivi inclusi quelli di accalappiamento dei
cani randagi. Nel merito, contestava la fondatezza della domanda per difetto di profili di responsabilità in capo all’ente.
Gamma restava contumace.
La decisione
La domanda avanzata da Tizia viene reputata infondata.
La legge statale n. 281/1991, nell’individuare gli strumenti
rivolti ad arginare il fenomeno del randagismo, ripartisce le
competenze tra i comuni ed i servizi veterinari delle ASL. In
particolare, attribuisce ai comuni la costruzione, sistemazione e gestione dei canili e rifugi per cani; alle ASL competono invece le attività di profilassi e controllo igienico sanitario e di polizia veterinaria. In attuazione della delega
contenuta all’art. 3 della medesima legge, la Sardegna ha
emanato la L. R. n. 21 del 18 maggio 1994, la quale pone a
carico dei servizi veterinari delle ASL il compito di provvedere sia alla cattura dei cani vaganti non identificati (art. 9)
che alla tenuta e all’aggiornamento dell’anagrafe canina;
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grava sui comuni l’obbligo il compito di risanare e gestire i
canili comunali (art. 3).
Dal combinato disposto delle citate norme emerge come il
controllo del fenomeno del randagismo sia demandato
esclusivamente al servizio veterinario delle Aziende Sanitarie. Né in senso contrario rileva il richiamo ai principi enunciati dalla Corte di cass. nella sent. n. 17528/2011, che ha
individuato il comune quale soggetto titolare degli obblighi
di organizzazione, prevenzione e controllo dei cani vaganti.
Detta decisione è stata resa con riferimento alla disciplina
applicabile nella Regione Campania, disciplina che, a differenza di quella adottata dalla Regione Sardegna, pone precisi obblighi di vigilanza in capo alla regione e ai comuni, in
collaborazione con le ASL.
Per quanto attiene alla natura della responsabilità, si esclude che il danno cagionato da cani randagi possa essere risarcito in forza della presunzione stabilita dall’art. 2052
c.c., ritenuto inapplicabile per la natura stessa degli animali
in questione.
La fattispecie concreta viene dunque ascritta all’ambito di
operatività dell’art. 2043 c.c., che presuppone, oltre all’accertamento del danno ingiusto e del nesso di causalità rispetto ad una condotta omissiva o commissiva, la dimostrazione dell’elemento psicologico in capo al danneggiante.
Non viene tuttavia rilevata la sussistenza di un comportamento colposo ascrivibile all’ente sanitario, stante l’assenza di prove circa eventuali precedenti avvistamenti di cani
randagi nella zona in cui è avvenuta l’aggressione, tali da
costituire un pericolo per gli utenti della strada e da allertare le autorità preposte.
I precedenti
Cass. 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. 9 maggio 2012, n.
7037; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2741; Cass. 28 aprile
2010, n. 10190; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27001; Cass. 20
giugno 2002, n. 10638.
La dottrina
M. Franzoni, L’illecito, Milano, 2010; M. Sella, I danni non
patrimoniali, Milano, 2010; C. Salvi, La responsabilità civile,
in Tr. Iudica-Zatti, Milano, 1998; M. C. Bianca, Diritto civile,
V, La responsabilità, Milano, 2012.
DANNI PROCURATI CON CONDOTTA COLPOSA
Tribunale di Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016 Giud. Scalera
In tema di risarcimento del danno, il danneggiato non
può addebitare ad altri le conseguenze pregiudizievoli
che abbia contribuito ad autoprocurarsi con la sua condotta colposa.
Il caso
Con atto di citazione ritualmente notificato, la Società Poste Italiane S.p.a. conveniva in giudizio P.C., impugnando
la sentenza del Giudice di Pace di Chiaravalle Centrale, con
la quale era stata condannata al risarcimento dei danni per
il deterioramento del contenuto di un pacco spedito a mezzo del servizio postale.
L’appellante lamentava la mancata applicazione da parte
del giudice di prime cure delle condizioni contrattuali e della normativa speciale in tema di servizio pubblico postale;
lamentava altresì la liquidazione del danno in mancanza di
prova del pregiudizio effettivamente subito.
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Si costituiva in giudizio il convenuto, il quale resisteva al
gravame e chiedeva l’integrale conferma della sentenza di
primo grado.
La decisione
Il Tribunale di Catanzaro ha accolto il gravame sul presupposto che l’art. 8 delle Condizioni di Trasporto Paccocelere
prevede che “Poste Italiane è liberata da ogni responsabilità per ritardo, perdita, danneggiamento totale o parziale,
manomissione dei pacchi con contenuto non ammesso e
per ogni altro fatto imputabile al mittente o per causa di
forza maggiore”.
Tale clausola è applicabile alla fattispecie in esame per via
del contenuto del pacco celere, costituito da salumi, formaggi e altri generi alimentari. Di talché, lo stesso non
rientra tra gli oggetti consentiti dall’art. 3 delle Condizioni
di Trasporto (trattandosi di prodotti deperibili); clausola
specificamente approvata per iscritto ai sensi e per gli effetti degli artt. 1341 e 1342 c.c.
Detta clausola non può essere, peraltro, considerata vessatoria ai sensi degli artt. 33 e 34 del D.Lgs. 6 settembre
2005, n. 206, in quanto non ricade in alcuna delle ipotesi
espressamente elencate dall’art. 33, comma 2 del medesimo decreto e, più in generale, non determina a carico dell’utente “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi
derivanti dal contratto”.
La clausola, infatti, si limita ad esplicitare un principio, già
presente nell’ordinamento (art. 1227 c.c.), per cui il danneggiato non può addebitare ad altri le conseguenze pregiudizievoli che abbia contribuito ad autoprocurarsi con la
sua condotta colposa.
Pertanto, nel caso di specie, P.C. ha spedito, tramite il servizio postale, dei beni deperibili che, in base al regolamento contrattuale, non poteva spedire.
Tale condotta si pone, dunque, all’origine della serie causale che ha portato all’avaria dei generi alimentari; infatti, se
l’appellato avesse spedito beni contrattualmente ammessi,
quali alimenti a lunga conservazione, egli non avrebbe subito alcun danno da ammaloramento quale conseguenza
del mero disservizio postale.
Il Giudicante ha, inoltre, precisato che nella fattispecie in
esame non può dirsi neppure raggiunto l’accordo contrattuale in relazione alla spedizione del pacco contenente i beni in questione, essendo essi espressamente esclusi dal citato art. 3 delle Condizioni Generali.
Né può attribuirsi valenza di manifestazione tacita di volontà al comportamento del dipendente delle Poste Italiane
S.p.a. che aveva, comunque, ricevuto il pacco consegnatogli da P.C. recante la scritta “alimenti”.
E ciò per l’assorbente ragione che l’addetto alla ricezione
dei pacchi non era titolare di alcun potere rappresentativo
della Società e non era, perciò, legittimato a stipulare contratti in nome e per conto della stessa.
I precedenti
Cass., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23148; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22514.
La dottrina
C.M. Bianca, Diritto Civile, La responsabilità, V, Milano,
2012; P. Stanzione, Trattato della responsabilità civile. Responsabilità contrattuale. Responsabilità extracontrattuale,
Padova, 2012; P.G. Monateri, La responsabilità civile, in
Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998.
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Osservatorio di giustizia penale
a cura di Carlo Piergallini (*)
CIRCOLAZIONE STRADALE
OMISSIONE DI SOCCORSO E FUGA
Cassazione Penale, Sez. IV, 6 maggio 2016 (30 maggio
2016), n. 22718 - Pres. Blaiotta - Rel. Menichetti - Ric.
M.N.
Nel reato di “fuga” previsto dai commi 6 e 7 dell’art.
189 c. str. il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alla persona e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione di punibilità. La consapevolezza
che la persona coinvolta nel sinistro ha bisogno di soccorso, in ogni modo, può sussistere anche nella forma
del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso la relativa esistenza.
Il caso
La Corte d’Appello di Firenze condanna un imputato ai
sensi dell’art. 189, commi 6 e 7, c. str. giacché questi, alla
guida di autoveicolo, dopo aver tagliato la strada ad un
motociclista, provocandone la caduta a terra, aveva omesso di arrestare la marcia e di prestare soccorso al medesimo.
Due gli elementi probatori ritenuti decisivi dal giudice di
merito: l’entità dell’impatto tra auto e motociclo, documentata dai danni riportati dalla vettura, nonché il momentaneo
arrestarsi dell’imputato subito dopo l’urto. Elementi che dimostrerebbero quanto meno il dolo eventuale del reato,
potendo ragionevolmente sostenersi che l’imputato si fosse prospettato di aver provocato un incidente e, decidendo
di allontanarsi, avesse accettato il rischio che vi fossero
persone lese bisognose di assistenza.
Nel ricorrere per Cassazione, l’imputato deduce la inosservanza e/o l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’elemento soggettivo del dolo eventuale - che deve
investire ogni componente del fatto tipico ex art. 189 c. str.
e, segnatamente, la causazione dell’incidente, il danno alle
persone e la presenza di feriti cui prestare assistenza - nonché il difetto e/o la manifesta illogicità della motivazione
sulla consapevolezza dell’imputato circa la causazione del
sinistro stradale.
La decisione
Il ricorso viene accolto dalla Cassazione, la quale rammenta come, nel reato di “fuga” ex art. 189 c. str., punito solo
a titolo di dolo, l’accertamento dell’elemento psicologico
debba essere compiuto in relazione al momento in cui l’a-
gente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze
dal medesimo concretamente rappresentate e percepite.
Tali circostanze devono essere univocamente indicative
della sua consapevolezza di aver provocato un incidente
idoneo ad arrecare danno alle persone.
Resta confermata, in ogni modo, la sufficienza del dolo
eventuale, che però “deve investire non solo l’evento dell’incidente ma anche il danno alle persone e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una
condizione di punibilità”; forma di dolo che “può attenere
anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in
presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato,
accettandone per ciò stesso l’esistenza”.
Nel caso di specie, nota la Cassazione, “può parlarsi di dolo eventuale solo con riferimento alle conseguenze dell’incidente, nel senso della condotta di chi - certo di aver provocato un sinistro - si allontani senza fermarsi pur nella
prospettiva della presenza di feriti da soccorrere ed accettando quindi come possibile risultato di incorrere nelle
omissioni penalmente rilevanti”. La Corte territoriale, tuttavia, non offre adeguata motivazione sulla prova certa del
fatto che l’imputato “si fosse reso realmente conto di aver
provocato un sinistro, ed ancor più che avesse assunto su
di sé il dubbio in ordine all’esistenza di conseguenze lesive
che esigessero soccorso”. Difetto motivazionale che la
Cassazione ritiene ragguardevole, anche alla luce delle circostanze di fatto poste in luce dal ricorrente (sinistro accaduto di sera, mentre pioveva, con imputato non sceso dall’auto per verificare eventuali danni).
L’esaustività delle indagini in fatto già esperite, peraltro,
conduce la S.C. a ritenere inutili ulteriori approfondimenti;
da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
I precedenti
In senso analogo, cfr. Cass., Sez. IV, 6 settembre 2007, n.
34134, in CED, rv. 237239. Vedasi anche Cass., Sez. IV, 4
febbraio 2013, n. 5510, in CED, rv. 254667; Cass., Sez. IV,
9 maggio 2012, n. 17220, in CED, rv. 252374.
La dottrina
F. Basile, Note sul dolo nei reati omissivi propri, con particolare riguardo al reato di omissione di soccorso, in Dir. pen.
cont., n. 2/2014, 108 ss.; Id., Art. 189 C.d.S., in E. Dolcini G. L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, III, Milano, 2015, 2553 ss. ed ivi per ulteriori richiami.
COOPERAZIONE NEI DELITTI COLPOSI
Cassazione Penale, Sez. IV, 4 febbraio 2016 (13 aprile
2016), n. 15324 - Pres. Blaiotta - Rel. Pavich - Ric. S. I.
Per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’al-
(*) La prima e la seconda nota sono state redatte dal dott.
Manuel Formica, la terza e la quarta dal dott. Alessio Matarazzi.
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trui condotta né la conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come
consapevolezza, da parte dell’agente, del fatto che altri
soggetti - in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio o anche
solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente
condivisa - sono investiti di una determinata attività,
con una conseguente interazione rilevante anche sul
piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti.
Il caso
Il conducente di una Volkswagen Polo e quello di una Lancia Y percorrono una strada di notte, a velocità molto elevata e con identica direzione. La distanza tra loro è ravvicinata ed, in alcuni tratti, le due autovetture si appaiano, occupando l’intera carreggiata, all’evidente fine di superarsi a
vicenda.
Dopo aver invaso l’opposta corsia di marcia, la Volkswagen Polo collide con una Alfa Romeo che sopraggiunge in
senso opposto, conseguendo la morte del conducente di
quest’ultima e del passeggero a bordo della Polo.
Del duplice omicidio il Tribunale di L’Aquila ritiene responsabile (anche) il conducente delle Lancia Y, con sentenza
confermata in appello.
Innanzi alla Cassazione, detto imputato lamenta di non
aver fornito alcun contributo causale all’evento, da addebitare alla sola condotta colposa del conducente della Polo
(la cui posizione è stata definita separatamente).
La decisione
La S.C. respinge l’impugnazione.
Per quanto non sia stata accertata una vera e propria gara
in velocità (art. 9 ter, comma 2, c. str.) tra il conducente
della Volkswagen Polo e quello della Lancia Y, la condotta
sopra menzionata, “comune ad entrambi, era gravemente
imprudente e inosservante quanto meno del disposto di
cui all’art. 141 C.d.S., nonché necessariamente improntata
alla reciproca consapevolezza che, procedendo in tal modo, essi creavano elevato pericolo per la circolazione delle
altre autovetture”. E sebbene l’invasione di corsia, che ha
cagionato il tragico sinistro, abbia riguardato la sola Volkswagen Polo, per la Cassazione è parimenti vero che detta
condotta sia stata “necessariamente e consapevolmente
‘indotta’ e ‘stimolata’” dal ricorrente, al volante della Lancia Y.
La posizione di quest’ultimo viene apprezzata dalla S.C. in
chiave di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., previa rassegna della relativa giurisprudenza di legittimità.
Per aversi cooperazione colposa, “non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, né la
conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, ma
è sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello
stesso reato, intesa come consapevolezza da parte dell’agente che dello svolgimento di una determinata attività anche altri sono investiti”, sempre che “la mera conoscenza
dell’altrui partecipazione a condizione che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o,
almeno, sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza”.
Quando viene in essere una situazione di tal fatta, si impone “a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla
910
condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto”; e “tale
pretesa d’interazione prudente individua il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione”,
con deviazione dal principio di affidamento e di autoresponsabilità.
Nel caso di specie, il ricorrente, “incurante dell’altrui comportamento (a fronte del detto dovere d’“interazione prudente”, che gli avrebbe imposto di desistere dalla propria
guida spericolata), proseguiva nell’ingaggio” con la Volkswagen Polo. Il che assumeva rilevanza causale ai fini del
successivo evento mortale, sia sotto il profilo della causalità della condotta, sia sul piano della causalità della colpa,
“atteso che, violando le generali regole di prudenza e quelle stabilite dal Codice della Strada”, il ricorrente determinava, assieme al conducente della Polo, “una condizione di
rischio che quelle regole miravano a prevenire e che rendevano evitabile”. Rischio che nell’occasione, purtroppo, si è
concretizzato.
Da qui la conferma della condanna pronunciata dal giudice
di merito.
I precedenti
In senso analogo, cfr. Cass., Sez. IV, 2 dicembre 2008, n.
1786, in CED, rv. 242566; Cass., Sez. IV, 2 novembre 2011,
n. 1428, in CED, rv. 252940; Cass., Sez. IV, 18 settembre
2014, n. 14053, in CED, rv. 263202; Cass., Sez. IV, 13 novembre 2014, n. 49735, in CED, rv. 261183; Cass., SS.UU.,
24 aprile 2014, n. 38343, in CED, rv. 261105, 140 ss. della
motivazione.
La dottrina
G. Grasso, Art. 113, in M. Romano - G. Grasso, Commentario sistematico del Codice penale. II. Art. 85-149, IV ed., Milano, 2012; S. Corbetta, Art. 113, in E. Dolcini - G. L. Gatta
(diretto da), Codice penale commentato, I, Milano, 2015,
1806 ss. ed ivi per ulteriori richiami.
ARCHIVIAZIONE
AVVISO ALLA PERSONA OFFESA
Cassazione Penale, Sez. III, 18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432 - Pres. Amoresano - Rel. Liberati P.M. Di Nardo (diff.) - Ric. F.N.
Là dove la notizia di reato, iscritta nel relativo registro,
contempli una fattispecie delittuosa, astrattamente
commessa con violenza alla persona, l’avviso conseguente la richiesta di archiviazione deve essere in ogni
caso notificato alla persona offesa, a prescindere dalle
determinazioni dell’accusa circa l’effettività della condotta “violenta” e dalla mancata istanza del querelante
ex art. 408, comma 2, c.p.p.
Il caso
Con decreto dell’11 marzo 2014, il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Ravenna accoglieva la richiesta
di archiviazione del P.M. nel procedimento, iscritto nei confronti di Z.A., per il reato di cui all’art. 609 bis c.p.
Avverso tale provvedimento, emesso de plano, propone ricorso per Cassazione la persona, lamentando l’omessa notifica della richiesta di archiviazione, sebbene l’art. 408,
comma 3 bis, c.p.p. preveda espressamente che “per i delitti commessi con violenza alla persona, l’avviso della ri-
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chiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del
pubblico ministero, alla persona offesa”.
Il Procuratore Generale conclude per il rigetto del ricorso,
evidenziando la non necessarietà della notificazione rispetto al caso di specie, posto che, essendo la richiesta di archiviazione fondata proprio sulla accertata mancanza di costrizione al rapporto sessuale della persona offesa, risulterebbe, in concreto, mancante il necessario presupposto
della violenza.
La decisione
Come correttamente rappresentato nel ricorso, il comma 3
bis dell’art. 408 c.p.p., introdotto dall’art. 2, comma 1, lett.
g), D.L. 14 agosto 2013, n. 93, impone al P.M. di effettuare
“in ogni caso” la notifica della richiesta di archiviazione nei
procedimenti, aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona offesa, la quale ultima ha diritto di presentare opposizione, non già nel termine ordinario di dieci
giorni, ma in quello speciale di venti.
Ciò posto, la giurisprudenza di legittimità ha, di recente,
chiarito che la nozione di “violenza alla persona” deve intendersi alla luce dell’ampio concetto di “violenza di genere”, risultante dalle disposizioni di diritto internazionale, ed
ha ulteriormente precisato che la comunicazione alla persona offesa della richiesta di archiviazione prescinde da
ogni eventuale richiesta dell’interessato e la sua omissione
è causa di nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto
di archiviazione emesso de plano.
Ebbene, nel caso in esame, l’indagato risultava incolpato
del reato previsto e punito dall’art. 609 bis c.p., delitto,
questo, che, per definizione normativa, è commesso con
violenza o minaccia alla persona; ciononostante, il P.M.
procedente, avanzando richiesta di archiviazione, ometteva
il previo e necessario avviso alla persona offesa.
Il decreto, emesso de plano dal Giudice per le indagini preliminari, risulta, pertanto, affetto da nullità e non appare, in
questo senso, rilevante la circostanza, evidenziata dal medesimo pubblico ministero con la richiesta di archiviazione
e, successivamente, ribadita nella presente sede dal Procuratore Generale, per cui l’avviso alla querelante non sarebbe stato dovuto, attesa l’esclusione, da parte della medesima persona offesa, della violenza.
Ciò attiene, infatti, al merito della vicenda ed all’eventuale
archiviazione per infondatezza della notitia criminis e non
anche alle forme da osservare per la procedura di archiviazione, per le quali si deve tenere esclusivamente in considerazione il titolo di reato per cui si procede.
I precedenti
Cassazione Penale, SS.UU., 29 gennaio 2016, n. 10959, in
Dir. pen. proc., 2016, 455.
La dottrina
C. Bressanelli, La “violenza di genere” fa il suo ingresso nella
giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono
l’ambito di applicazione dell’art. 408 co. 3 bis c.p.p., in Dir.
pen. cont., 21 giugno 2016; P. Tonini, Manuale di procedura
penale, 2014, Milano, 600 ss.; C. Iasevoli, Pluralismo delle
fonti e modifiche al codice di procedura penale per i delitti
commessi con violenza alla persona, in Dir. pen. proc., 2013,
1396 ss.
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PRESCRIZIONE
STATUIZIONI CIVILI
Cassazione Penale, Sez. II, 27 maggio 2016 (7 giugno
2016), n. 23579 - Pres. Gallo - Rel. Carrelli Palombi di
Montrone - P.M. Cetrangolo (diff.) - Ric. D.B.
Il giudice di secondo grado, che rilevi l’estinzione del
reato per intervenuta prescrizione, non può limitarsi a
rinviare alle argomentazioni di cui alla sentenza di primo grado circa la conferma delle statuizioni civili ma
deve, a questo proposito, effettuare un esame completo del materiale probatorio e, quindi, pronunciarsi sulle
doglianze di cui all’atto di gravame.
Il caso
Con sentenza del 18 luglio 2013, il Tribunale di Foggia condannava D.B. alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso tale provvedimento, proponeva appello l’imputato;
con sentenza del 3 febbraio 2015 la Corte d’Appello di Bari,
rilevata l’intervenuta prescrizione del reato contestato,
emetteva sentenza di non doversi procedere, revocando la
confisca dei beni e confermando le statuizioni in ordine agli
interessi civili, con la condanna dell’imputato alla rifusione
delle spese legali.
Nella specie, pur in presenza di puntuali doglianze nel merito da parte dell’imputato attinenti la condanna ex art. 539
c.p.p., la Corte territoriale si limitava ad accertare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, rinviando, per il resto, alle determinazioni civili contenute nella sentenza di
primo grado.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo l’assoluta mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. e), c.p.p., nella parte relativa alla pronunciata conferma delle statuizioni civili.
La decisione
La sentenza impugnata non ha, in alcun modo, preso in
considerazione i motivi di gravame, avanzati dall’imputato
con riferimento al merito della vicenda, oggetto di contestazione, essendosi, di contro ed esclusivamente, soffermata sulle censure attinenti la questione relativa all’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Ora, al di là del dato normativo, che prevede, in presenza
di una causa di estinzione del reato, di valutare, comunque, le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e
la sua rilevanza penale (art. 129 c.p.p.), la declaratoria di
non doversi procedere per intervenuta prescrizione non determina l’automatica conferma delle statuizioni civili, ma,
anzi, impone al giudicante di procedere a rigorosa verifica
dei presupposti per l’affermazione della responsabilità civile.
È indubbio, infatti, che la decisione di conferma della responsabilità dell’imputato, sia pure ai soli fini civili, presuppone un esame completo del materiale probatorio, acquisito nel grado di giudizio precedente, sulla base dei punti
della decisione devoluti con l’atto di impugnazione.
Invero, nel ribadire la legittimità della motivazione per relationem, non può farsi a meno di evidenziare che, per costante giurisprudenza, il giudicante, che intenda uniformarsi, sia per la ratio decidendi sia per gli elementi di prova, alla motivazione del provvedimento impugnato, deve assicurarsi della sua consistenza, come nelle ipotesi in cui siano
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dedotte questioni già esaminate e compiutamente disattese ovvero doglianze generiche, superflue o palesemente inconsistenti; solo in questo caso il giudice dell’impugnazione può legittimamente motivare per relationem.
In difetto, deve, pertanto, considerarsi viziata da mancanza
di motivazione la sentenza di appello che, in presenza di
specifiche e puntuali censure su uno o più punti della decisione, si limiti a richiamare le argomentazioni di quest’ultima in termini apodittici e stereotipati.
A fronte di quanto sopra, potendosi affermare che sussiste
vizio di motivazione, non soltanto là dove vi sia un difetto
grafico, ma anche quando le argomentazioni elaborate dal
giudicante, a dimostrazione del proprio convincimento, siano prive completezza in relazione a specifiche doglianze
formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate di
decisività.
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I precedenti
Cass. Pen., Sez. VI, 20 marzo 2013, n. 16155, in CED, n.
255667; Cass. Pen., Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49754,
ivi, n. 254102; Cass. Pen., Sez. 3, 13 maggio 2010, n.
24252, ivi, n. 247287; Cass. Pen., Sez. VI, 25 novembre
2009, n. 3284, in Cass. Pen., 2011, 2306; Cass Pen.,
SS.UU., 28 maggio 2009, n. 35490, in Dir. pen. proc.,
2009, 1354; Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2008, n. 33309, in
CED, n. 241962.
La dottrina
A. Anceschi, L’azione civile nel processo penale, Milano,
2012, 381 ss.; A. Natalini, Il richiamo al canone dell’economia processuale tiene conto del bilanciamento tra opposte esigenze, in Guida dir., 2009, 39, 82 ss.; A. Chiliberti,
Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, 918
ss.
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Osservatorio sulla giustizia
amministrativa
a cura di Gina Gioia
DANNO ERARIALE DEL MEDICO
L’ONERE DELLA PROVA DEL DANNO MEDICO
Corte dei Conti, Sez. giur. regione Emilia Romagna sent. 7 aprile 2016, n. 49 - Pres. F.F. M. Pieroni - Rel. A.
Rigoni - Procura regionale c/ XX (Avv. Bernardini e Priolo) - P.M. Q. Lorelli
Spetta alla parte pubblica nel processo contabile l’onere di dimostrare la responsabilità del convenuto provando, punto per punto, tutti gli elementi della responsabilità amministrativa, ovverosia il rapporto di servizio, la condotta dannosa, l’elemento soggettivo e il nesso causale.
Ai fini della valutazione del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno indiretto per malpractice medica, non è sufficiente contestare una condotta difforme
dalle linee guida prodotte in giudizio dalla parte pubblica (nel caso in cui si dimostri che le stesse sono accreditate presso la comunità scientifica), ma spetta al P.M.
contabile la dimostrazione positiva che le scelte diagnostiche e chirurgiche operate nel caso concreto si sono
poste quale causa efficiente diretta del disagio arrecato
al paziente, o ai pazienti, che ha portato alla richiesta di
risarcimento del danno liquidato dalla struttura aziendale pubblica.
Il caso
La Procura Regionale ha citato in giudizio il Dirigente Medico presso il reparto di Ortopedia e la Dirigente Medico
presso il reparto di Radiologia di un Ospedale per ottenere
la condanna, a titolo di responsabilità amministrativa, al risarcimento del danno erariale. Il fatto per il quale si reclamava il danno erariale era seguito a un incidente domestico occorso ad una donna che per tale motivo si era recata
al pronto soccorso dell’Ospedale nel quale lavoravano i
due convenuti dove venne sottoposta ad esami radiologici
il cui referto escluse la presenza di segni di fratture e la
successiva visita ortopedica si concluse con la diagnosi di
trauma distorsivo e la paziente venne dimessa con prognosi di dieci giorni. A causa del perdurare di disturbi, la paziente fu ricoverata presso un altro Ospedale, dove le veniva diagnosticata una frattura del femore sinistro che richiese un intervento di artroprotesi cervico-diafisaria. A seguito
di denuncia per il reato di cui all’art. 590 c.p., P.M. ordinario aveva disposto una consulenza tecnica di parte, da cui
emerse una responsabilità dei convenuti per la mancata
diagnosi di frattura del femore sinistro. Una transazione
con gli eredi della paziente, nel frattempo deceduta, per
euro 20.000, ne poneva la metà a carico dell’Azienda.
La decisione
Sull’utilizzabilità della consulenza ordinata dal P.M. penale,
o giudici hanno ritenuto non equiparabile alla consulenza
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tecnica d’ufficio, perché si tratta di una consulenza di parte, elaborata in assenza di qualsivoglia contraddittorio proprio in virtù della connotazione di parte (pubblica, ma sempre parte) del P.M. Tuttavia, secondo il Collegio, la consulenza, potrebbe comunque essere liberamente valutata, secondo prudente apprezzamento ai sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.c., quale allegazione probatoria di parte da cui
poter trarre elementi di giudizio. L’inutilizzabilità è una sanzione che colpisce le prove acquisite in violazione di uno
specifico divieto probatorio, che nel diritto processuale penale trova una specifica disciplina nell’art. 191 c.p.p., mentre nel diritto processuale civile consegue a gravi condotte
della parte che l’allega, come ad esempio la tardiva produzione. Nel caso specifico si è inteso consentirne la valutazione, secondo il principio del libero convincimento, quale
prova atipica, atteso che la stessa non consente l’ingresso
illegittimo nel processo di elementi di prova non altrimenti
ammessi.
Entrambi i medici non avevano preso parte alle trattative
intervenute tra la compagnia assicuratrice (che agiva in nome e per conto dell’azienda sanitaria riminese) e i beneficiari del risarcimento civile, né di essere mai stati sentiti
per esporre le proprie ragioni. La giurisprudenza ritiene che
la transazione tra l’ente o l’amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico e i terzi danneggiati sia idonea
a costituire il fondamento di un’azione di danno erariale nei
confronti del dipendente che, con la sua condotta, abbia
generato il presupposto di fatto che ha portato alla transazione medesima, anche se sia rimasto estraneo alla fase
delle trattative o ad un eventuale processo civile tra il danneggiato e l’amministrazione pubblica. La fattispecie costituisce una tipica ipotesi di responsabilità per danno indiretto, che nasce dal risarcimento di un danno patito da un terzo per il quale la P.A. abbia provveduto al risarcimento in
osservanza dei presupposti di cui all’art. 28 Cost. Secondo
il Collegio l’eventuale assenza dei convenuti alla fase procedimentale, durante la quale l’amministrazione di appartenenza, sia pure attraverso la compagnia di assicurazione, è
giunta a un accordo transattivo, non può, di per sé, generare l’inammissibilità dell’azione della Procura Regionale,
posto che in questa sede ai convenuti sono riconosciute
tutte le garanzie di natura processuale per assicurare un
perfetto contraddittorio con la parte pubblica nel rispetto
dei principi costituzionali della difesa in giudizio.
Nel merito, i giudici hanno ritenuto che la Procura regionale non abbia dimostrato l’esistenza della responsabilità amministrativa dei convenuti sia sotto il profilo dell’elemento
soggettivo della colpa grave, sia sotto il profilo del nesso
causale. Secondo i giudici, l’art. 3, comma 1, L. n.
189/2012 introduce un’esimente che vale solamente nell’ambito della responsabilità penale e unicamente per le
fattispecie colpose (tra le altre quelle previste dagli artt.
589 e 590 c.p.), maggiormente frequenti nella professione
sanitaria. In questo senso spetta al medico cui sia attribuita
una responsabilità penale colposa allegare le linee guida al-
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le quali la sua condotta si sarebbe conformata, al fine di
consentire al giudice nel processo penale di verificare la
correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa, e l’effettiva
conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel
caso di specie.
I giudici contabili affermano che spetta alla parte che le allega dimostrare che le linee guida di cui si chiede la valutazione e l’applicazione alla fattispecie concreta siano accreditate presso la comunità scientifica, e, nel caso in cui sia il
P.M. contabile ad allegarle al fascicolo del procedimento,
questi deve necessariamente dimostrare, già in citazione,
che le guidelines che ritiene siano state violate appartengano effettivamente alla categoria di quelle accreditate
presso la comunità scientifica, che siano provenienti da
fonti autorevoli, che siano conformi alle regole della migliore scienza medica e che non siano ispirate ad esclusiva logica commerciale (Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2012, n.
35922).
È la parte pubblica nel processo contabile tenuta a dimostrare la responsabilità del convenuto provando, punto per
punto, tutti gli elementi della responsabilità amministrativa,
ovverosia il rapporto di servizio, la condotta dannosa, l’elemento soggettivo e il nesso causale. L’esistenza di particolari linee guida che si pongono, in astratto, in contrasto
con la condotta del medico nel fatto che ha determinato
una lesione al paziente non è di per sé sufficiente a dimostrare che la condotta del sanitario sia stata sicuramente
connotata da colpa grave. Il concetto di colpa grave si differenzia tra l’ambito penalistico (dove per l’esimente in parola viene in rilievo la sola imperizia, non estendendosi anche ad errori diagnostici per negligenza o imprudenza; e
l’ambito giuscontabile (dove la colpa grave del medico sussiste per errori non scusabili per la loro grossolanità o l’assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione o il difetto di un minimo di perizia tecnica e ogni altra
imprudenza che dimostri superficialità; con ciò introducendo una valutazione ad ampio spettro dell’elemento soggettivo nella responsabilità medica sul piano erariale. Ai fini
della valutazione del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno indiretto per malpractice medica, non è sufficiente contestare una condotta difforme dalle linee guida
prodotte in giudizio dalla parte pubblica (nel caso in cui si
dimostri che le stesse sono accreditate presso la comunità
scientifica), ma spetta al P.M. contabile la dimostrazione
positiva che le scelte diagnostiche e chirurgiche operate
nel caso concreto si sono poste quale causa efficiente diretta del disagio arrecato al paziente, o ai pazienti, che ha
portato alla richiesta di risarcimento del danno liquidato
dalla struttura aziendale pubblica.
Infatti, si riconosce al medico un ruolo primario nella scelta
delle modalità di approccio alla patologia evidenziata dallo
stato clinico a lui sottoposto, nonché la facoltà di effettuare
l’intervento farmacologico o chirurgico che ritiene necessario per la risoluzione dello stato patologico, anche mediante condotte che si pongono in antitesi con linee guida o
protocolli di orientamento terapeutico, proprio per la caratteristica spiccatamente relativistica delle stesse, tanto che
l’accreditamento presso le migliore dottrina scientifica deve essere dimostrato da chi intende valersene per ottenere
l’esimente di cui all’art. 3, comma 1, L. n. 189/2012. In altri
termini, la sola condotta difforme alle linee guida che il
P.M. indica come violate o non rispettate appieno, non è
sufficiente per sostenere che vi sia nesso causale tra il loro
mancato rispetto e l’evento dannoso. Tale dimostrazione,
914
invece, deve essere calata nel caso concreto di cui si discute, ove la semplice difformità tra linee guida allegate in atto
di citazione e la condotta tenuta dal medico o dai suoi collaboratori non basta a ritenere sussistente un valido nesso
causale ma può, al più, ritenersi un indice rivelatore che va
corroborato con altre risultanze di fatto da verificarsi nell’evento storico che ha determinato la fattispecie dannosa.
Il Collegio non ha ravvisato la dimostrazione di tutti gli elementi della responsabilità amministrativa, per danno indiretto in ambito medico-sanitario. Ha concordato con le difese dei convenuti secondo cui la lettura di una lastra radiografica per individuare una frattura ossea rientra in
un’attività diagnostica particolarmente complessa che dipende da molteplici fattori (età del paziente, nitidezza dell’immagine, algia persistente, ecc....) che incidono sulla valutazione della gravità della colpa. La valutazione della consulente del P.M. contabile ha ammesso la possibilità che il
dolore potesse indurre l’ortopedico, sulla base del referto
radiologico negativo proprio per la sua difficile intelligibilità,
a consigliare un periodo di riposo e una terapia prettamente medica, con una diagnosi di stiramento degli adduttori
del tutto compatibile con l’infortunio domestico riferito dalla paziente, nonché ritiene possibile che la frattura si sia
scomposta in un periodo successivo al ricovero.
I Precedenti
Cass., Sez. II, n. 5440/2010; Corte dei conti, Sez. Calabria,
n. 111/2015; Sez. Emilia Romagna, n. 124/2014; Corte dei
conti, Sez. Emilia Romagna, n. 114/2015; Cass. Pen. 27
aprile 2015, n. 26996; Corte dei conti, Sez. III App., n.
601/2004; Cass. Pen., 18 dicembre 2014, n. 21243; Corte
dei conti, Sez. Valle d’Aosta, sent. 10 settembre 2015, n.
11.
La dottrina
M.S. Bonomi, La responsabilità amministrativo-contabile del
medico, in www.federalismi.it. A. Gorgoni, Il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2011, D. Zorzit, La responsabilita’ del
medico alla luce del “decreto balduzzi”: un viaggio tra nuovi
e vecchi scenari, in questa Rivista 2014, 74. A. Roiati, Linee
guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero
placebo?, in Dir. pen. proc., 2013, 216. B. Tassone, Concause, orientamenti recenti e teorie sulla causalità, in questa Rivista, 2013, 633; M. Mazzola, Appunti in tema di responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Nuova giur.
civ. comm., 2016, 799.
RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE P.A.
FACOLTÀ DI AVVIARE LE TRATTATIVE PER UNA PROROGA
CONTRATTUALE
Consiglio di Stato, Sez. III - sent. 15 aprile 2016, n.
1532 - Pres. Lipari - Est. Ungari - Cofely Italia S.p.a.
(Avv.ti Varrone e Migliarotti) c. Azienda Ospedaliera
Universitaria Federico II (Avv. Contieri)
La violazione delle regole di correttezza, che presiedono
alla formazione del contratto, può assumere rilevanza
solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo
che tali effetti siano venuti meno nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla parte interessata.
Danno e responsabilità 8-9/2016
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Giurisprudenza
Sintesi
Il caso
Una S.p.a., mandataria del r.t.i. affidatario dell’appalto per
la realizzazione di un impianto di cogenerazione e di riqualificazione delle centrali di produzione di energia e di gestione dei servizi tecnologici integrati e /o multi global service
presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Napoli Federico II, sulla base di contratto del 22 luglio 2003 (rep. 150)
della durata di 10 anni, nel 2011, aveva chiesto all’Azienda
la proroga del rapporto, in applicazione di quanto disposto
dall’allegato II art. 6, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 115/2008
(recante attuazione della dir. 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali di energia e i servizi energetici e abrogazione della Dir. 93/76/CEE). L’Azienda aveva acquisito il
parere legale sull’applicabilità del D.Lgs. n. 115/2008 al
rapporto contrattuale in questione e aveva chiesto al r.t.i.
di formulare le proprie proposte progettuali dirette all’efficientamento energetico e al contenimento dei consumi,
successivamente presentate e positivamente valutate dall’incaricato dipartimento di ingegneria industriale della medesima Università, il quale ultimo aveva proposto dei miglioramenti progettuali, prontamente apportati dalla SPA.
Tuttavia, l’Azienda, sulla base di un altro parere legale i e
della decisione dell’AVCP, AG n. 18/13 in data 4 luglio
2013, che hanno affermato l’inapplicabilità dell’art. 6, comma. 2, lett. b), cit., ai contratti antecedenti al D.Lgs. n.
115/2008, con deliberazione n. 482 in data 18 novembre
2013, ha deciso di indire una nuova gara d’appalto, a tal fine, prorogando ulteriormente fino al marzo 2014 il contratto in essere.
La SPA ha impugnato la delibera dinanzi al T.A.R. Campania, chiedendone l’annullamento e chiedendo altresì la
condanna dell’Azienda al risarcimento dei danni subiti, a
causa dell’ingiustificata interruzione delle trattative e della
violazione del dovere di correttezza nella fase precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c., riguardo alle spese sostenute
per la redazione della proposta progettuale, alla mancata
partecipazione per oltre due anni ad altre gare d’appalto ed
al danno curriculare. Il T.A.R. ha respinto il ricorso, affermando che la proroga contrattuale, ai sensi dell’allegato II
art. 6, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 115/2008, è ammissibile
esclusivamente nei confronti dei contratti di servizio energia stipulati dopo l’entrata in vigore del predetto decreto legislativo ed in conformità ai requisiti tecnici stabiliti dall’art.
4.
La decisione
I giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che la norma invocata prevede univocamente una rinegoziazione del contratto di servizio energia, con modifica delle condizioni ai fini del conseguimento di una maggiore efficienza energetica, ed allungamento (in questo senso, proroga) della durata originaria. Tuttavia nella sentenza appellata, la qualificazione di detta tipologia contrattuale non costituisce, a ben
vedere, una premessa che condiziona le successive statuizioni, non essendo contestato che la proroga (la novazione
oggettiva) dei contratti in essere sia in linea di principio vietata dalla normativa e che la predetta disposizione costituisca una deroga al divieto, ed essendo invece controversa
l’applicabilità della disposizione al contratto stipulato tra le
parti nel 2003. La norma mira alla tutela dell’ambiente ed
al miglioramento dell’efficienza negli usi finali dell’energia
ed è legata all’opportunità di conseguire un più rapido adeguamento dei servizi energia ai sopravvenuti parametri di
efficienza energetica, senza attendere la naturale scadenza
dei contratti e consentendone la rinegoziazione anticipata,
Danno e responsabilità 8-9/2016
incentivandola mediante l’allungamento della durata, con
possibilità quindi di spalmare su un periodo più lungo i corrispettivi a fronte degli investimenti necessari per far fronte
agli interventi volti al conseguimento dell’efficienza energetica. Una simile finalità riguarda anzitutto i contratti in essere all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 115/2008, per i quali
l’opportunità di un efficientamento è maggiore di quelli stipulati in conformità alle previsioni della normativa sopravvenuta, che presuppongono livelli di efficienza superiori. La
possibilità di rinegoziazione e di allungamento della durata
non va tuttavia collegato alla rispondenza dei contenuti del
contratto in essere alle previsioni minime del D.Lgs. n.
115/2008, essendo la deroga al divieto di rinnovazione senza gara giustificabile al solo fine di conseguire migliori risultati ambientali, attraverso l’applicazione dei requisiti di
cui all’Allegato II, altrimenti da rinviare alla naturale scadenza contrattuale Specificano i giudici che non sussisteva
un impedimento giuridico all’applicazione dell’art. 6, comma 2, lett. b), dell’Allegato II del D.Lgs. n. 115/2008, ma
non per questo l’Azienda era obbligata a farlo. Infatti, anche quando una disposizione normativa o una previsione
dei precedenti atti di gara consentano la proroga o rinnovazione del contratto con il contraente originario, proprio in
quanto possibilità derogatoria di un divieto generale, si
tratta di mera facoltà.
Sulla domanda di risarcimento del danno il Collegio osserva che la violazione delle regole di correttezza, che presiedono alla formazione del contratto, può assumere rilevanza
solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo che
tali effetti siano venuti meno nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla parte interessata, come nel caso di
annullamento per illegittimità degli atti della sequenza procedimentale, ovvero di revoca della gara o dell’aggiudicazione, o di rifiuto a stipulare il contratto con l’aggiudicataria. Nel caso in esame, tuttavia, l’individuazione del contraente potrebbe forse ritenersi implicita nella decisione di
coltivare la rinegoziazione del contratto in essere. Nei confronti della P.A., se non è ipotizzabile una responsabilità
precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di
cui all’art. 1337 c.c. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è ammissibile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative da parte della P.A. è sindacabile sotto
il profilo della violazione del dovere del neminem laedere,
ove lo stessa sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all’affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto.
Nel caso in esame non può invece ritenersi maturato un legittimo affidamento in ordine alla conclusione del contratto. Infatti, restavano da concordare gli aspetti economici
della rinnovazione contrattuale conseguente alla proposta
progettuale presentata dall’appellante. Conseguentemente
l’alea che non si addivenisse alla condivisione degli oneri
economici era ancora significativamente alta, se si considera l’entità dell’investimento (che ammonta, nell’ultima
proposta, a 4.742.296,93 euro al netto dell’IVA) ed i condizionamenti derivanti all’Azienda dalle limitate disponibilità
finanziarie - elemento che emerge dalle stesse argomentazioni delle parti.
I Precedenti
C a s s . , S e z . I I I , n . 7 7 6 8 / 2 0 0 7 ; C a s s . , S e z . l a v. , n .
11438/2004; cfr. Cass., Sez. II, n. 477/2013; Cass., Sez. III,
n. 12313/2005; Cons. Stato, Sez. VI, n. 816/2005.
915
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Sintesi
La dottrina
A. Perini, La responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione e la tutela dell’affidamento, in questa Rivista 2009, 819; E. Brugnoli, La responsabilità precontrattuale
della pubblica amministrazione si configura solo dopo l’aggiudicazione, in Giornale dir. amm., 2009, 499.
DANNO DA PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO
ELEMENTO SOGGETTIVO E DANNO
T.A.R. Piemonte, Sez. II - sent. 6 maggio 2016, n. 118 Pres. Testori - Est. Malanetto - Spataro Vincenza e Società V&V S.a.s. ed altro (Avv.ti Tabellini, Benelli, Domenicali e Giacovelli) c. Comune di Verbania (Avv. Simone), Ministero dell’Interno (Avv.ra Stato)
Il Comune che si trovi ad intervenire per far fronte all’allarme sociale riscontrato sul territorio rispetto a nuovi
fenomeni patologici, quale la ludopatia, e che per questo si trovi in evidente difficoltà di scelta degli strumenti da adottare non può essere imputata la colpa per
aver adottato un provvedimento successivamente dichiarato illegittimo.
Il caso
Due esercenti che avevano installato degli apparecchi da
gioco d’azzardosi sono rivolte al T.A.R. per chiedere la condanna del Comune di Verbania al risarcimento del danno
dovuto per l’adozione del regolamento per la disciplina delle sale da giochi, che regolava l’orario di accensione degli
apparecchi di cui all’art. 110, commi 6 e 7, lett c), t.u.l.p.s.,
limitandolo alle ore comprese tra le 15.00 e le 22.00, approvato dal Consiglio comunale e successivamente annullato dal medesimo T.A.R., sul presupposto che la disciplina
degli orari di esercizio dei giochi afferisse alla materia “ordine pubblico e sicurezza” di pertinenza dello Stato e non
fosse di competenza dell’amministrazione comunale.
Nel successivo giudizio, le società reclamano i danni derivati dal rispetto della restrizione oraria loro imposta nel periodo compreso dalla data di deposito presso il T.A.R. del
ricorso per l’annullamento del regolamento comunale e la
data di deposito della sentenza del medesimo T.A.R. Il Comune avrebbe colpevolmente esorbitato dalle proprie prerogative, come acclarato dalla sentenza di annullamento
del regolamento comunale provocando alle ricorrenti un
danno da perdita di introiti. In una relazione contabile le ricorrenti hanno individuato la media degli incassi orari, che
moltiplicata per le ore della giornata di necessaria disattivazione degli apparecchi, avrebbero subito un danno pari a
euro 62.271,52 l’una, e a euro 1.350.174,48 l’altra, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché un importo equitativamente determinato a titolo di sviamento di clientela,
posto che negli orari di obbligatorio spegnimento gli utenti
si sarebbero verosimilmente indirizzati altrove.
La decisione
Il Collegio ha rigettato l’eccezione di prescrizione proposta
dal Comune poiché il danno lamentato non è un danno
istantaneo, connesso all’adozione in sé del regolamento,
bensì un danno derivante dall’effetto continuato dell’atto
su un rapporto di durata, vale a dire l’esercizio della sala da
giochi. I giudici hanno richiamato l’art. 2935 c.c. e afferma-
916
to che nessuna pretesa risarcitoria poteva essere avanzata
dalla ricorrenti per l’astratta adozione del regolamento e
sinché il danno non si fosse effettivamente realizzato nella
loro sfera giuridica.
Circa gli elementi costitutivi della fattispecie di danno e, in
particolare quello soggettivo, i giudici amministrativi hanno
fatto riferimento all’ampio dibattito che si è sviluppato circa
la diffusione, gravità e rilevanza di fenomeni sociali di cosiddetta “ludopatia”, ossia dipendenza da gioco, particolarmente pericolosi per alcune fasce sensibili di popolazione e
alla complessa presa di coscienza del fenomeno, che ha fisiologicamente preso le mosse dagli enti locali, più vicini al
fenomeno sociale, da cui è derivata una esplicita disciplina
nell’art. 7 del D.L. n. 158/2012, “Disposizioni in materia di
vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per
contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica”, con particolare riferimento ai minori, ai limiti ed alle
modalità di pubblicità di queste attività, alla loro dislocazione sul territorio.
Sulla questione è intervenuta anche la Corte costituzionale
- interpellata dallo stesso T.A.R. Piemonte - è intervenuta in
materia con la sentenza interpretativa di rigetto n.
220/2014.
La Corte ha ascritto la problematica della ludopatia anche
a più generali aspetti di tutela della salute, della quiete pubblica e della circolazione stradale, possibili oggetto di regolamentazione da parte dell’ente locale e non solo alla già riconosciuta tutela dell’ordine pubblico, intesa come prevenzione di fenomeni criminali.
Il Comune si era determinato ad intervenire proprio per l’allarme sociale riscontrato sul territorio rispetto ai nuovi fenomeni patologici, ha dovuto affrontare un delicato fenomeno nuovo, con connessa evidente difficoltà di scelta degli strumenti. La complessità della problematica si riverbera necessariamente anche sul grado e sulla configurabilità
della colpa richiesto, art. 1176 c.c. e art. 2236 c.c., norme
che la giurisprudenza ritiene applicabili anche alla responsabilità extracontrattuale. In definitiva, il Comune è pervenuto ad una soluzione che è poi risultata coerente con l’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema, come esplicitata dal giudice delle leggi.
In tale contesto, il collegio ha ritenuto mancante l’elemento
soggettivo.
Anche in ipotesi di risarcimento del danno da interesse oppositivo (quale si configura l’azione proposta dalla ricorrenti avverso la limitazione oraria subita) non appare sufficiente, dal punto di vista della configurazione dello stesso elemento oggettivo, il mero annullamento dell’atto incidente
sulle prerogative del privato, dovendosi comunque riscontrare una complessiva illiceità della condotta dell’amministrazione in rapporto al bene sostanziale presunto leso.
I giudici hanno poi ritenuto che il danno non fosse provato.
I Precedenti
Cons. Stato, Sez. V, n. 2187/2014; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 17 novembre 2015, n. 2411; T.A.R. Liguria sent. n. 18 9 del 2 014; Corte cost. nn. 3 00/2011 e
220/2014.
La dottrina
A. Senatore, Lotta alla ludopatia e potere amministrativo, in
Urb. e app., 2015, 625; A. Moliterni, Alla ricerca della risarcibilità degli interessi pretensivi: il nodo dei vizi procedimentali, in Giornale dir. amm., 2015, 817.
Danno e responsabilità 8-9/2016
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Danno e responsabilità
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Indici
INDICE DEGLI AUTORI
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Argine Stefano
L’abuso della cessione del credito risarcitorio.........
887
Batà Antonella
Osservatorio di legittimità ................................
Cassazione civile
898
902
11 maggio 2016, n. 9660, Sez. II........................
9 maggio 2016, n. 9337, Sez. III.........................
Facci Giovanni
La valutazione del danno in via equitativa, il criterio
della differenza dei netti patrimoniali e la responsabilità degli amministratori ...................................
16 maggio 2016, n. 9978, Sez. I ........................
12 maggio 2016, n. 9758, Sez. II........................
Carbone Paolo
Osservatorio di merito ....................................
Giurisprudenza
4 maggio 2016, n. 8896, Sez. III.........................
24 marzo 2016, n. 5877, Sez. III.........................
872
19 gennaio 2016, n. 806, Sez. I .........................
12 gennaio 2016, n. 322, Sez. VI-2 .....................
Franzoni Massimo
Colpa e linee guida.........................................
18 dicembre 2015, n. 25442, Sez. III ...................
801
Cassazione penale
Gerbi Martina
27 maggio 2016 (7 giugno 2016), n. 23579, Sez. II ..
La responsabilità delle banche tra principi generali e
norme speciali ..............................................
6 maggio 2016 (30 maggio 2016), n. 22718, Sez. IV
849
Osservatorio sulla giustizia amministrativa ............
913
807
831
Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099..............
Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016 ...........................
Venezia 17 marzo 2016 ...................................
Ferrara 18 marzo 2016.....................................
857
Roma, Sez. XI, 24 febbraio 2016 ........................
Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016.....................
Miotto Giampaolo
L’abuso della cessione del credito risarcitorio.........
887
Cagliari 10 febbraio 2016 .................................
Pistoia 19 gennaio 2016 ..................................
Piergallini Carlo
Osservatorio di giustizia penale..........................
Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016 .................
909
Milano 7 ottobre 2015 ....................................
Ponzanelli Giulio
T.A.R.
La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa ...........................
Piemonte, Sez. II, 6 maggio 2016, n. 118 .............
816
Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi ..........................................................
836
Pucella Roberto
Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni
del tema .....................................................
Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227 .............
916
884
INDICE ANALITICO
Archiviazione
898
Avviso alla persona offesa (Cassazione Penale, Sez.
III, 18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432) in
Osservatorio di giustizia penale .........................
Vozza Vera
Cessione di crediti
Danni da pioggia intensa: responsabilità e caso fortuito ..........................................................
841
L’abuso della cessione del credito risarcitorio (Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n.
Spirito Angelo
Danno e responsabilità 8-9/2016
885
903
904
864
906
902
907
868
908
870
Giudice di pace
821
Osservatorio di legittimità ................................
913
Tribunale civile
Monti Silvia
L’ente e il processo ‘‘lumaca’’: il danno morale soggettivo alla velocità della luce ............................
914
Corte dei Conti
Sez. giur. regione Emilia Romagna, 7 aprile 2016, n.
49.............................................................
Monateri Pier Giuseppe
La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie
di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni
unite ..........................................................
911
909
910
909
Consiglio di Stato
15 aprile 2016, n. 1532, Sez. III .........................
Gorgoni Marilena
La responsabilità della struttura sanitaria ..............
18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432, Sez. III
4 febbraio 2016 (13 aprile 2016), n. 15324, Sez. IV ..
Gioia Gina
827
900
899
898
898
839
844
855
846
910
917
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Danno e responsabilità
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Indici
227; Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n.
6099) nota di Stefano Argine e Giampaolo Miotto ...
884
Circolazione stradale
Omissione di soccorso e fuga (Cassazione Penale,
Sez. IV, 6 maggio 2016 (30 maggio 2016), n. 22718)
in Osservatorio di giustizia penale.......................
Cooperazione nei delitti colposi (Cassazione Penale,
Sez. IV, 4 febbraio 2016 (13 aprile 2016), n. 15324)
in Osservatorio di giustizia penale.......................
909
Responsabilità del medico
909
Colpa e linee guida, di Massimo Franzoni .............
La responsabilità della struttura sanitaria, di Marilena
Gorgoni ......................................................
La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, di Giulio Ponzanelli ..
Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni
del tema, di Roberto Pucella .............................
Danni punitivi
La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie
di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni
unite (Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio
2016, n. 9978) Nota di Pier Giuseppe Monateri ......
Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi (Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio
2016, n. 9978) nota di Giulio Ponzanelli ................
827
Responsabilità dell’albergatore
836
Danni subiti dall’auto accettata nel parcheggio ma
non quelli delle attrezzature fotografiche lasciate in
macchina e sottratte (Tribunale di Roma, Sez. XI, 24
febbraio 2016) in Osservatorio di merito...............
Danno da eventi atmosferici
Danni da pioggia intensa: responsabilità e caso fortuito (Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n.
5877), nota di Vera Vozza .................................
839
Danni subiti per il ritardo di Trenitalia di 99 minuti
nonché per il furto subito nel vagone letto (Tribunale
di Venezia 17 marzo 2016) in Osservatorio di merito
916
Danno erariale del medico
Responsabilità precontrattuale P.A.
L’onere della prova del danno medico (Corte dei
Conti, Sez. giur. regione Emilia Romagna - sent. 7
aprile 2016, n. 49) in Osservatorio sulla giustizia amministrativa ..................................................
913
Facoltà di avviare le trattative per una proroga contrattuale (Consiglio di Stato, Sez. III - sent. 15 aprile
2016, n. 1532) in Osservatorio sulla giustizia amministrativa.....................................................
Diritto d’autore
Risarcimento del danno
Danni derivanti dalla violazione dei diritti d’autore
(Tribunale di Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016) in Osservatorio di merito ............................................
Danni procurati con condotta colposa (Tribunale di
Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016) in Osservatorio di merito .................................................
903
Equa riparazione
855
Perdita della capacità di guadagno (Cassazione Civile, Sez. III, 4 maggio 2016, n. 8896) in Osservatorio
di legittimità.................................................
Violazione dell’obbligo di avviamento (Cassazione Civile, Sez. II, 12 maggio 2016, n. 9758) in Osservatorio di legittimità .............................................
Inadempimento contrattuale
Società
La responsabilità delle banche tra principi generali e
norme speciali (Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio
2016, n. 806; Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442) nota di Martina Gerbi .............
La valutazione del danno in via equitativa, il criterio
della differenza dei netti patrimoniali e la responsabilità degli amministratori (Tribunale di Ferrara 18 marzo 2016; Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016; Tribunale di Milano 7 ottobre 2015) nota di Giovanni Facci..............................................................
844
Prescrizione
Statuizioni civili (Cassazione Penale, Sez. II, 27 maggio 2016 (7 giugno 2016), n. 23579) in Osservatorio
di giustizia penale ..........................................
899
801
807
816
821
906
904
Responsabilità extracontrattuale
Danni causati da cani randagi (Tribunale di Cagliari
10 febbraio 2016) in Osservatorio di merito ...........
L’ente e il processo ‘‘lumaca’’: il danno morale soggettivo alla velocità della luce (Cassazione Civile,
Sez. VI-2, 12 gennaio 2016, n. 322) nota di Silvia
Monti.........................................................
898
Responsabilità del vettore feroviario
Danno da provvedimento illegittimo
Elemento soggettivo e danno (T.A.R. Piemonte,
Sez. II - sent. 6 maggio 2016, n. 118) in Osservatorio
sulla giustizia amministrativa .............................
Civile, Sez. III, 9 maggio 2016, n. 9337) in Osservatorio di legittimità ..........................................
Responsabilità del notaio (Cassazione Civile, Sez. II,
11 maggio 2016, n. 9660) in Osservatorio di legittimità ..........................................................
907
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898
900
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Promessa di matrimonio
Rottura del fidanzamento per giusto motivo (Tribunale di Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016) in Osservatorio di merito...............................................
902
Responsabilità civile
Responsabilità dei maestri e precettori (Cassazione
918
Danno e responsabilità 8-9/2016
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