Capitolo 1
Problemi di macroeconomia
Nella macroeconomia si studiano i problemi di un sistema economico
a livello aggregato; nell’ambito del corso si evidenziano, in
particolare, le cause che possono influenzare l’andamento del reddito,
il pieno impiego delle risorse e la determinazione del livello generale
dei prezzi. A seconda delle diverse interpretazioni teoriche è possibile
ipotizzare interventi diretti a modificare l’andamento previsto e a
migliorare le performance del sistema e, possibilmente, la situazione
economica degli operatori.
1.1 PIL e tasso di crescita.
Il PIL, Prodotto Interno Lordo , misura l’insieme dei beni e servizi
finali, prodotti da un sistema economico in un determinato periodo di
tempo . Si tratta di una misura di flusso che indica la variazione di
valore nel tempo, in genere nell’anno solare; il sistema economico si
riferisce ovviamente all’ambito territoriale che può essere più o
meno ampio , la regione Calabria – il Mezzogiorno – l’Italia – i paesi
dell’Unione Europea etc.; si considerano solo beni e servizi finali per
evitare sopravvalutazioni che si potrebbero verificare considerando
prodotti che entrano nella produzione di altri beni , come ad es. il
frumento la farina e la pasta; si misura in termini di valore cioè di
quantità per i relativi prezzi; per evitare che la crescita del PIL
nominale, determinata da un eccessivo aumento dei prezzi, possa
Mario Oteri
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essere scambiata per una crescita reale della quantità dei beni prodotti,
si fa riferimento a serie misurate a prezzi costanti.
1.1.1 Il PIL nel lungo periodo.
Il PIL, e specificamente il suo tasso di crescita, è considerato un
indicatore del livello di benessere di un sistema economico, visto che
misura un aumento della quantità di beni e servizi a disposizione dei
consumatori per soddisfare i loro bisogni. Ad esempio in Italia il PIL
reale è aumentato di oltre quattro volte fra il 1960 e il 2001, passando
da circa 250.000,00 miliardi di euro a più di un 1.000.000,00 di
miliardi di euro; un incremento notevole che dà una misura sintetica,
anche se molto approssimativa, della grande trasformazione che il
paese ha avuto in questo periodo. Crescita evidenziata dall’aumento di
tre volte della produttività del lavoro ( da 15.000 a 45.000 euro)
nonostante una consistente contrazione dell’orario di lavoro, e da un
analogo aumento del prodotto pro-capite (da 5.000 a 15.000 euro).
Tab.1.1.1 Prodotto Interno Lordo. Italia
(Composizione percentuale. Vari Anni)
Settore
1960
1971
2001
2008
Agricoltura
Silvicoltura
12,5
6
3
2
Industria e
costruzioni
38,6
34
29
27
Servizi e P.A.
48,9
60
68
71
Totale
100
100
100
100
Problemi di macroeconomia
3
Ovviamente l’aumento non è solo quantitativo ma è anche qualitativo,
pensiamo all’insieme dei beni che oggi esistono e che quarant’anni fa ,
nel 1960, non esistevano come il personal computer ed internet, ma
anche la grande disponibilità di prodotti alimentari, di abitazioni, di
servizi sanitari, scolastici etc..
Nel complesso una grande trasformazione del sistema economico che
si è attuato in un arco temporale che possiamo chiamare lungo
periodo. Questo grande incremento della quantità prodotta si è basato
su profonde trasformazioni del sistema produttivo. Per limitarci alla
composizione del Pil si può osservare che è sensibilmente cambiato il
peso dei diversi settori produttivi, agricoltura industria e servizi.
Ancora nel 1960 il 12,50% del prodotto era realizzato dal settore
dell’agricoltura, il 38% dal settore industriale, e il 48% dal settore dei
servizi e della pubblica amministrazione. Una struttura produttiva in
via di trasformazione che ha visto il settore agricolo pesare sempre
meno: dal 12,50% nel 1960, al 6% nel 1971, al 3% del Pil nel 2001,
al 2% nel 2008. Questo non significa che la produzione del settore
agricolo si sia ridotta, al contrario la produzione agricola è cresciuta in
valore assoluto così come è aumentato l’insieme delle produzioni degli
altri settori , e soddisfa ampiamente le esigenze di alimentazione della
popolazione nazionale. Anche il settore industriale pesa sempre meno,
la produzione di beni manufatti è andata riducendosi in termini
percentuali sulla produzione nazionale, passando dal 38,6% nel 1960
al 34% nel 1971 al 29% nel 2001, al 27% nel 2008, mentre è
aumentata la produzione di servizi, che comprende anche la pubblica
amministrazione, i servizi bancari e assicurativi, che sono passati dal
48,9% nel 1960 al 60% nel 1971, al 68% nel 2001, al 71% nel 2008.
Una grande trasformazione del nostro paese che è passato da una
struttura produttiva
basata sull’agricoltura, ad una incentrata
sull’industria per arrivare infine ad una struttura produttiva
essenzialmente di servizi.
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Mario Oteri
Se in cinquant’anni l’economia italiana ha fatto registrare nel
complesso una crescita consistente del PIL, con un’analisi più attenta
si possono evidenziare andamenti diversi nei vari periodi. Infatti se,
pur nell’ambito dello stesso lungo periodo, si considerano periodi di
tempo più brevi si può notare una costante diminuzione dei tassi medi
di crescita del PIL sino ad un livello prossimo alla stagnazione.
Consideriamo in particolare quattro periodi : il primo 1951 – 1972
rappresenta il periodo della ricostruzione e del boom dell’economia
italiana; il secondo 1973 – 1982 rappresenta il periodo della grande
crisi internazionale determinata dall’aumento del prezzo del petrolio; il
terzo periodo 1983 – 2000 rappresenta un periodo di grande
trasformazione nell’economia internazionale con la crescente
integrazione dei mercati, la liberalizzazione dei mercati finanziari e
monetari,
la ricerca di nuovi assetti nel sistema monetario
internazionale; l’ultimo periodo 2001 – 2007 si riferisce alla
attivazione dell’Unione Economica e Monetaria fra i paesi europei,
alla globalizzazione dei mercati e al sorgere della Cina e dell’India
come nuove potenze economiche.
Nel primo periodo, 1951 – 1972, il tasso medio annuo di crescita è
stato del 5,3%; nel periodo 1973 - 1982 ha sempre continuato a
crescere ma in misura inferiore pari al 3,2%. Fra il 1983 e il 2000, il
tasso di crescita è ulteriormente diminuito e si è collocato in media al
1,6%. Tra il 2001 e il 2008 del tasso di crescita del PIL in Italia è stato
in media dello 0,94%.
L’incremento del prodotto che è stato particolarmente rilevante
nell’arco di quarant’anni, ha fatto registrare in effetti, nel tempo, tassi
medi di crescita sempre più bassi. Anzi alcuni autori hanno parlato
con riferimento agli anni più recenti, dagli anni '90 in poi, di declino
dell’economia italiana, che non avrebbe più la forza di crescere e di
tenere il passo con gli altri paesi industriali.Il fatto che il tasso di
crescita del PIL in Italia sia andato diminuendo, ha anche delle
spiegazioni ovvie, sia con riferimento al periodo che nel confronto con
gli altri paesi. Infatti se consideriamo il tasso di crescita medio dal
1951, il primo anno che segna la ripresa dopo la fine della seconda
Problemi di macroeconomia
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guerra mondiale, al 1972 possiamo notare che i tassi di crescita più
elevati si sono verificati proprio nei paesi che hanno perso la guerra, il
tasso più elevato è quello del Giappone 9,4% e subito dopo quello
della Germania 5,7%, l’Italia 5,3%, la Francia 5%, gli Stati uniti 3,9%
e il Regno unito il 2,8%.
PIL Italia 1951-2008
6
5
tassi medi
4
3
2
1
0
1951-1972
1973-1982
1983-2000
2001-2008
periodi
Come mai questi paesi hanno avuto i tassi d’incremento dal reddito più
elevati? Una prima spiegazione è meramente quantitativa. Questi
paesi che per motivi bellici hanno subito distruzioni rilevanti ed
hanno avuto un crollo dell’attività produttiva sono partiti da zero o da
valori negativi del tasso di crescita, di conseguenza un piccolo
aumento di produzione ha significato un incremento particolarmente
rilevante in termini percentuali; mentre economie come quelle degli
Stati Uniti, che alla fine della seconda guerra mondiale erano
economie dal punto di vista produttivo non solo integre ma a pieno
regime, avevano il problema della riconversione, cioè di passare da
una economia di guerra a una economia di pace. Gli Stati Uniti
producevano infatti armi, materiale bellico, viveri e mezzi, sostenendo
anche lo sforzo bellico dei loro alleati, con un grande impegno
Mario Oteri
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produttivo: per essi il problema era quello di tornare ad un’economia
di pace senza fare crollare l’attività produttiva.
L’altra spiegazione, che non va dimenticata, è che in questo
secondo dopoguerra la scelta economica del paese vincitore, del paese
economicamente dominante che erano ovviamente gli Stati Uniti, fu
una scelta opposta a quella dei paesi vincitori del primo conflitto
mondiale. Nel primo dopoguerra i paesi vincitori imposero alla
Germania il pagamento in oro delle sanzioni di guerra, cioè il
pagamento delle spese di guerra, contribuendo, da un lato, al
depauperamento economico del paese, alla grande inflazione e al
sorgere del nazismo in Germania e ponendo , allo stesso tempo, grossi
limiti alla riconversione produttiva e alla ripresa dei paesi vincitori.
Nel secondo dopoguerra la posizione degli Stati Uniti,invece, fu quella
di sostenere il reddito dei paesi che avevano partecipato alla guerra,
compresi quelli che l’avevano persa. Si mise in piedi un piano di aiuti
internazionali, per quanto riguarda l’Europa il Piano Marshall, che,
nella logica delle teorie keynesiane, si basava sui crediti che gli Stati
Uniti facevano agli altri paesi per acquistare prodotti americani.
Quindi, allo stesso tempo gli Stati Uniti prestavano i fondi e
vendevano i prodotti, cioè mettevano a disposizione i mezzi per
acquistare i loro prodotti. Questo meccanismo ha permesso agli altri
paesi di ricostruire le loro economie e di rimettere in moto l’attività
economica, portando ad un periodo di grande crescita per l’economia
mondiale, o perlomeno una parte dell’economia mondiale.
Va anche precisato che chi costruisce nuove attività, nuovi
impianti, può adottare le tecniche più produttive, i ritrovati e i prodotti
più recenti, e quindi può avere tassi di crescita iniziali molto elevati,
produttività molto elevata. Questo può contribuire a spiegare il forte
incremento del tasso di produzione dell’Italia e degli altri paesi che
avevano perso la guerra o che, come la Francia, erano stati territorio
di belligeranza.
Negli anni seguenti a partire dal 1973 i tassi di crescita del PIL
cominciano a diminuire. In quell’anno si verifica la prima crisi
Problemi di macroeconomia
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petrolifera: il prezzo del petrolio cresce bruscamente mettendo in crisi
l’economia dei paesi industriali che utilizzavano, e continuano a
utilizzare, il petrolio come materia prima; questi paesi si trovano
improvvisamente a pagare una tassa petrolifera, una tassa che va al di
fuori del paese verso i paesi produttori. Questi paesi produttori, come
l’Arabia Saudita o gli emirati arabi, possono spendere solo una parte di
questi fondi per acquistare prodotti dai paesi industriali, perché sono
piccoli paesi, con livelli di popolazione poco consistenti, strutture
sociali ed economiche poco sviluppate. Questa grande ricchezza, che si
trasferisce dai paesi industriali ai paesi produttori di petrolio, non
ritorna in termini di domanda di prodotti, ma piuttosto in termini di
strumenti finanziari, di capitali che a livello internazionale cominciano
a muoversi, a fare prestiti, ad acquistare imprese, cambia la
distribuzione della ricchezza e la sua utilizzazione a livello
internazionale. La prima reazione dei paesi industriali alla crisi
petrolifera è quella di far pagare gli altri, cercando di esportare di più
per pagare le importazioni di petrolio; ma non è possibile esportare
tutti di più!! Alla fine nessuno riesce a farlo e i prezzi dei prodotti in
competizione finiscono con il crollare con danno per tutti. In questo
periodo i tassi di crescita del PIL dei paesi industriali diminuiscono
rapidamente e arrivano anche per alcuni di essi, fra i quali l’Italia, a
valori negativi.
Dopo il secondo shock petrolifero del 1980, la situazione
cambia. Negli Stati Uniti c’è la presidenza Reagan, il dollaro è forte, il
prezzo del petrolio cala, si cominciano a globalizzare i mercati , si
determina una consistente liberalizzazione nel movimento dei capitali.
In questo periodo si rimette in moto l’economia americana mentre il
tasso di crescita del PIL in Italia si riduce ulteriormente.
Negli anni novanta l’andamento dell’economia degli Stati Uniti e del
Regno Unito comincia a differenziarsi rispetto a quello dell’economia
tedesca, dei paesi europei e del Giappone. Il tasso di crescita degli
Stati Uniti segna una media annua del 3,2% e nel Regno unito del
2,7% media annua, mentre in Italia è dell’1,6%, in Germania
dell’1,3% e in Giappone dell’1% . In questi anni gli Stati Uniti vivono
Mario Oteri
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una grande trasformazione legata
alla “nuova” economia
dell’informazione: l’informatica che agli inizi degli anni 80 era usata
principalmente per scopi bellici, viene applicata alla produzione civile,
viene utilizzata dalle famiglie. Allo stesso tempo negli Stati Uniti e
nel Regno Unito si realizza una forte liberalizzazione dei mercati, e
specificamente del mercato del lavoro.
I paesi europei, e specificamente l'economia tedesca ( che deve
affrontare il costo della riunificazione), e l'economia giapponese fanno
registrare invece in questi anni tassi di crescita più bassi. Le
spiegazioni del rallentamento nei tassi di crescita sono diverse per i
singoli paesi, ma hanno in comune una scarsa flessibilità del mercato
del lavoro che, per garantire lo stato sociale, finirebbe con il sacrificare
la crescita economica e l'occupazione.
In questo contesto di rallentamento dei tassi di crescita del PIL che
interessa tutti i paesi dell'Unione, l'Italia si distingue per avere avuto a
partire dal 1992 tassi di crescita inferiori alla media europea. In effetti
il tasso di crescita dell'economia italiana si presenta inferiore non solo
rispetto a quelli di paesi come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, che
partendo da livelli di reddito bassi hanno avuto in questi anni grandi
incrementi nei tassi di crescita, ma anche nei confronti di paesi come la
Germania e la Francia che dopo anni di crisi, sembrano avere
imboccato la via della ripresa. L'andamento degli anni novanta
dipende innanzitutto dalle scelte e dagli impegni assunti dai singoli
paesi europei per aderire all'Unione Economica e Monetaria, che
hanno portato all'adozione di politiche restrittive necessarie per
rientrare nei parametri di Maastricht. Allo stesso tempo i paesi europei
si sono trovati a competere in un mondo globalizzato dove stanno
emergendo nuove realtà economiche, come la Cina e l'India, che hanno
un costo del lavoro molto minore. In questo contesto le economie più
dinamiche competono in termini di produttività, in termini di qualità
dei servizi, quindi si spostano in settori all’avanguardia, realizzano
grandi innovazioni nei processi produttivi, adottano tecniche nuove per
poter competere. L'economia italiana, invece, stenta ad abbandonare i
"vecchi" modelli di produzione basati su tecnologie intermedie e bassi
Problemi di macroeconomia
9
costi del lavoro e ad inoltrarsi nei nuovi settori produttivi. Da ciò
l'ipotesi di un "declino" dell'economia italiana che alcuni economisti
hanno sostenuto in questi anni.
1.1.2 Il PIL nel breve periodo.
Mentre nel lungo periodo il PIL si presenta nel complesso
crescente, quando consideriamo periodi di tempo più brevi
l'andamento economico si presenta molto più articolato: a fasi di
ripresa e di boom si susseguono fasi di recessione e di crisi che
possono essere più o meno accentuate e avere una durata più o meno
ampia. Questo susseguirsi di fasi di espansione e recessione è noto
come ciclo economico che viene descritto in modo stilizzato in
relazione all’andamento del tasso di crescita (g) :
A) si ha una fase di ripresa quando l’economia inizia a riprendersi
dopo una fase di stagnazione e il tasso di crescita , che ha fatto
registrare valori negativi, comincia a crescere;
B) si determina una fase di boom , o di espansione, quando si verifica
un’utilizzazione molto accentuata delle risorse e il sistema si avvicina
al pieno impiego. Il tasso di crescita aumenta a tassi crescenti .
Figura 1.1.1 Andamento congiunturale
g
g potenziale
C
D
g effettivo
B
A
Tempo
10
Mario Oteri
C) quando le risorse sono pienamente impiegate e il livello di reddito
raggiunge il massimo, l’attività produttiva comincia a rallentare e il
tasso di crescita aumenta a tassi decrescenti e tende a zero . Siamo in
fase di rallentamento: il livello di produzione ha raggiunto
l’espansione massima.
D)
con la recessione e la crisi il tasso di crescita del PIL diventa
negativo: le imprese cominciano a ridurre la produzione e
l’utilizzazione delle risorse fermando gli impianti e licenziando
lavoratori
Nella realtà le fasi del ciclo economico sono molto diverse per durata e
dimensioni. Come si può vedere dalla figura 1 .1.2 il tasso di crescita
del PIL in Italia, fra il 1983 e il 2009, presenta un andamento
discontinuo con fasi di ampiezza più o meno grande e con tassi di
crescita che possono variare sostanzialmente raggiungendo anche
livelli negativi. In particolare il tasso di crescita si presenta prossimo
allo zero nel 1997 e nel 2002 e negativo nel 1983 e, specialmente, nel
1993 quando la lira fu sottoposta a un forte attacco speculativo. Ma il
crollo più rilevante si registra a partire dal 2008, con una caduta
prossima al 6%.
Questo andamento fluttuante è l’andamento normale del ciclo
economico, che può avere punte di crisi particolarmente rilevanti e
avvitarsi su se stesso, come è successo con la grande depressione del
1929. In un contesto di crisi si riduce la produzione, aumenta la
disoccupazione e si creano tensioni sociali. Nel boom si possono
avere altri tipi di tensione, come un forte aumento del livello generale
dei prezzi, l'inflazione, che può generare distorsioni nel funzionamento
del sistema dei prezzi e nella distribuzione dei redditi. Gli economisti
ritengono che l'andamento del tasso di crescita della produzione, nel
breve periodo, dipenda essenzialmente da variazioni nella crescita
Problemi di macroeconomia
11
della domanda aggregata, cioè della spesa che gli operatori fanno per
acquisire beni e servizi sul mercato. Se infatti si determina un
aumento della spesa le imprese saranno indotte ad accrescere la
produzione e, quindi , l'impiego delle risorse.
(Figura 1 .1.2)
Tasso di crescita del PIL in Italia
Analogamente se si verifica un calo della domanda aggregata le
imprese si troveranno con un aumento nella quantità di prodotti
invenduti, il c.d. aumento delle scorte, e sono indotte a ridurre
l'impiego delle risorse per ridimensionare la produzione in eccesso.
Nel breve periodo, quindi, il livello di produzione si muove nella
stessa direzione della domanda aggregata. Tuttavia un continuo
incremento della domanda aggregata non può portare ad un aumento
continuo della produzione: se non si accresce la capacità produttiva del
Mario Oteri
12
sistema, aumentando le risorse impiegate o accrescendo la produttività
di quelle esistenti, il sistema economico non sarà in grado di
accrescere il prodotto in termini reali oltre un certo limite, definito
prodotto potenziale, che indica la capacità massima di produzione
realizzabile con l'impiego delle risorse disponibili.
Gli economisti distinguono fra crescita effettiva e crescita potenziale
indicando, con la prima, il tasso di crescita effettivamente realizzato in
un sistema economico e, con la seconda definizione, il tasso di crescita
massimo che si può ottenere con il pieno impiego delle risorse
esistenti. Se il tasso di crescita effettivo è al di sotto di quello
potenziale è chiaro che nel sistema economico vi saranno risorse
produttive non utilizzate è sarà, quindi, possibile accrescere il loro
impiego con un incremento della domanda aggregata. Al contrario se il
tasso di crescita effettivo è uguale al tasso potenziale tutte le risorse
produttive saranno impiegate e si potrà accrescere la produzione
soltanto accrescendo la capacità produttiva. Un aumento della capacità
produttiva dipende da un aumento nella dotazione delle risorse
disponibili o da un aumento della loro produttività.
Il livello di produzione dipende innanzitutto dallo stock di capitale
esistente, cioè dalla quantità di beni ( impianti, macchinari etc. ) che
servono a produrre altri beni e servizi.
In effetti nelle moderne economie industriali esiste un rapporto
abbastanza stabile fra capitale e prodotto ( k = K/Y ): in genere la
quantità di capitale necessaria, in media, a produrre una unità di
prodotto è pari a 4. Questo vuol dire che occorrono quattro unità di
nuovo capitale per ottenere un’unità aggiuntiva di prodotto. Per
accrescere il capitale occorre, d’altra parte, destinare una parte del
reddito agli investimenti piuttosto che ai consumi; se si dovesse
investire il 20% del PIL (i) per accrescere lo stock di capitale si
potrebbe avere una crescita percentuale del prodotto finale molto
inferiore.
Con un rapporto capitale/prodotto (k) pari a 4 si
determinerebbe una crescita pari al 5% del PIL e valori di crescita
tanto minori quanto maggiore è il rapporto (k) . In simboli
Problemi di macroeconomia
13
g = i/k
Ferma restando la produttività del lavoro è chiaro che occorre un
aumento di occupazione per accrescere la capacità produttiva. Una
volta raggiunto il pieno impiego un aumento di occupazione dipende
essenzialmente dall’accrescimento dell’offerta di lavoro che può essere
conseguenza di un aumento della popolazione attiva, cioè della
popolazione che, avendo i requisiti di età, è disposta a lavorare, come
accade ad es. quando anche le donne con figli si presentano sul
mercato del lavoro ovvero quando si verificano consistenti afflussi di
immigrati. Al contrario un aumento della popolazione totale è
ininfluente sull’offerta attuale di lavoro quando è costituita da nuove
nascite, mentre può avere effetti negativi quando è determinata da una
maggiore longevità.
La disponibilità di risorse naturali può avere un’influenza relativa
sull’aumento del prodotto potenziale di un paese sviluppato. Il peso
molto ridotto della produzione agricola renderebbe, infatti, poco
rilevante l’aumento della superficie coltivabile, mentre la scoperta di
nuovi giacimenti, ad es. fonti energetiche, può portare ad un
incremento del prodotto potenziale sino a quando il tasso di estrazione
cresce. Quando il tasso di estrazione raggiunge il livello massimo la
crescita economica cessa.
In effetti i maggiori incrementi nel tasso di crescita dei paesi sviluppati
sono legati sia agli incrementi di produttività del capitale che il
progresso tecnico, cioè l’applicazione della ricerca scientifica ai
processi produttivi, ha permesso di incorporare nei nuovi beni capitali,
sia agli incrementi di produttività del lavoro che l’organizzazione del
lavoro più efficiente e lo sviluppo di nuove abilità dei lavoratori, in
seguito ai cambiamenti nel settore dell’istruzione e della formazione
oltre che al sostanziale miglioramento delle condizioni sanitarie, hanno
permesso di realizzare .
L'andamento economico congiunturale è al centro dell'analisi
economica di breve periodo: semplificando si possono evidenziare
due impostazioni teoriche contrapposte che danno spiegazioni diverse
Mario Oteri
14
sul funzionamento del sistema economico e indicazioni diverse
sull'opportunità di intervenire nell'economia di mercato.
Un'impostazione ritiene che il mercato non sia in grado di evitare
l’andamento ciclico del sistema, che può portare a situazioni di
depressione e di crisi o coinvolgere in una spirale inflazionistica, ed è
pertanto necessario l'intervento del governo o dell'autorità monetaria
per evitare gli eccessi del ciclo economico e garantire una crescita
stabile. Per l'altra impostazione, invece, il mercato lasciato a se stesso
è in grado di assicurare sempre un equilibrio di pieno impiego mentre
le distorsioni del mercato e l'andamento ciclico della produzione
dipendono essenzialmente dall'intervento del governo: la migliore
ricetta di politica economica è quella di "lasciar fare" al mercato.
Problemi di macroeconomia
1.2
15
Disoccupazione e mercato del lavoro
1.2.1 Alcune definizioni.
La disoccupazione è uno dei problemi economici più rilevanti non solo
dal punto di vista economico ma anche sociale, per le conseguenze che
comporta sul piano personale e collettivo. Occorre innanzi tutto
precisare il significato di disoccupazione e delle altre grandezze che
interessano il mercato del lavoro. Come si evidenzia nella tabella 1 .
2.1 la popolazione totale di un sistema economico, come quello
italiano, è suddivisa in popolazione attiva , che rappresenta le persone
occupate e quelle in cerca di occupazione, e popolazione non attiva ,
costituita da quanti per età o per scelta non sono in cerca di
occupazione. Di norma nelle economie più avanzate la legislazione a
tutela dell’infanzia vieta il lavoro a quanti hanno meno di quindici
anni, mentre i sistemi di sicurezza sociale garantiscono la pensione a
quanti hanno compiuto sessantacinque anni; per convenzione fa parte
della popolazione attiva solo chi ha più di 15 anni . D’altra parte fra le
persone che hanno l’età richiesta non tutti vogliono lavorare, ovvero
cercano attivamente un lavoro, come ad esempio gli studenti
universitari che hanno scelto di approfondire la loro formazione prima
di presentarsi sul mercato del lavoro, ovvero i frati e le monache che
hanno compiuto una diversa scelta di vita , o ancora quelli che hanno
tanti soldi e si possono permettere di non lavorare per vivere. Bisogna
tuttavia evidenziare che alcuni non si presentano sul mercato del
lavoro perché non trovano lavoro, è la cosiddetta occupazione
scoraggiata: la mancanza di opportunità di lavoro riduce l’offerta di
lavoro facendo diminuire paradossalmente anche il tasso di
disoccupazione. Coloro che formano la popolazione attiva, possono
essere occupati o in cerca di occupazione, ovvero persone che pur
cercando attivamente un lavoro ed essendo disposte a lavorare al
salario di mercato sono disoccupate; sono compresi sia coloro che
sono in cerca di prima occupazione che quanti invece, pur avendo già
lavorato, stanno cercando una nuova occupazione.
16
Mario Oteri
Tabella 1.2.1
Popolazione attiva = persone con più di 15 anni che
risultano occupate , disoccupate, in cerca di
1^occupazione, momentaneamente impedite a lavorare
Popolazione non attiva = persone con più di 15
anni che non cercano attivamente un lavoro o che
sono impedite a lavorare
Tasso di occupazione = occupati / popolazione
Tasso specifico di occupazione = occupati 15-64 anni /
Popolazione15-64 anni
Tasso di disoccupazione = persone in cerca di lavoro/
popolazione
Tasso di attività = popolazione attiva / popolazione con
più di 15 anni
Si fa poi riferimento a una serie di rapporti, cioè di tassi, indicativi
della situazione economica: il tasso di attività, che misura il rapporto
fra popolazione attiva e popolazione con più di 15 anni, indica quante
persone sarebbero disposte a lavorare sulla popolazione in età da
lavoro. Il tasso di occupazione che misura il rapporto fra occupati e
popolazione indipendentemente dal fatto che lavorino o siano
disoccupati per scelta o per mancanza di opportunità. . Si considera
anche il tasso specifico di occupazione che si limita a confrontare
occupati e popolazione da 15 a 64 anni. Il tasso di disoccupazione,
che misura il rapporto fra disoccupati e popolazione, cioè indica
Problemi di macroeconomia
17
quante persone non trovano occupazione pur essendo attivamente alla
ricerca di un posto di lavoro
Nella Tabella 1.2.2 si evidenzia che il tasso di disoccupazione in
Italia ha raggiunto il punto di minimo nel 1963 e si è mantenuto
intorno al 4%, che può essere considerato un livello molto basso, sino
alla crisi del 1973. Si tratta di un periodo di crescita del sistema
economico italiano, quando lo sviluppo industriale ha attirato nelle
grandi città del nord milioni di lavoratori che hanno abbandonato le
campagne, in specie meridionali, per trovare occupazione nelle
fabbriche e nel settore dei servizi del triangolo industriale. Con la crisi
petrolifera il tasso di disoccupazione è cominciato ad aumentare e si è
attestato al di sopra del 10% fra la fine degli anni ottanta e gli anni
novanta. Dopo una prima fase, nella quale avevano cercato di far
fronte alla crescente stagnazione legata all’aumento dei costi delle
materie prime, di fronte ad un tasso di inflazione sempre più elevato, i
governi avevano dovuto abbandonare le politiche dirette al sostegno
dell’occupazione lasciando alle imprese e al mercato il compito di
affrontare la crisi.
La risposta delle imprese fu legata essenzialmente alla
riorganizzazione produttiva che portò ad un ridimensionamento
dell’occupazione nelle grandi imprese e a un forte decentramento della
produzione verso le piccole imprese o nei paesi con costi del lavoro
minori. Con la fine degli anni ottanta il tasso di disoccupazione ritorna
per un breve periodo al di sotto del 10% , ma ricomincia a crescere per
tutto il decennio in concomitanza al periodo di sensibile stagnazione
delle principali economie europee, Germania e Francia in primo luogo,
ed alle politiche decisamente deflazionistiche adottate dai governi
italiani per abbattere l’inflazione e pilotare il paese nell’Unione
Economica e Monetaria.
18
Mario Oteri
Tabella 1.2.2.
. Dalla fine degli anni novanta con l'approvazione di alcune riforme del
mercato del lavoro, che hanno accresciuto la flessibilità nella utilizzazione della forza lavoro, come il lavoro a tempo determinato, i contratti di formazione etc, il tasso di disoccupazione si è ridotto mantenendosi attorno all'8% . La crisi attuale si è abbattuta sul mercato del lavoro facendo crescere il tasso di disoccupazione oltre il 10% e , specialmente, accrescendo enormemente la precarietà del lavoro.
1.2.2 Mercato del lavoro e disoccupazione nel breve periodo.
Problemi di macroeconomia
19
Il mercato del lavoro a livello aggregato si può rappresentare
indicando il livello del salario in ordinata e il numero di lavoratori
impiegati in ascissa; in genere si fa riferimento al salario reale
piuttosto che al salario nominale , visto che ai lavoratori interessa il
potere d'acquisto del loro reddito piuttosto che il suo valore nominale.
Di norma le imprese concordano con i lavoratori un salario nominale
per un determinato periodo di tempo: quando i lavoratori andranno ad
acquistare beni e servizi sul mercato per soddisfare i loro bisogni, in
relazione all'andamento dei prezzi si renderanno conto se il potere
d'acquisto del loro reddito si è mantenuto costante o è diminuito. Dato
un certo salario nominale se il livello dei prezzi aumenta il salario
reale, cioè il potere d’acquisto, diminuisce e viceversa.
Figura 1.2.1 Equilibrio sul mercato del lavoro
W/p
S
W1/p
W*/p
E
D
L1
L*
L2
20
Mario Oteri
La domanda di lavoro si presenta decrescente da sinistra verso
destra ad indicare che le imprese assumono un maggior numero di
lavoratori al diminuire del salario reale. Alle imprese, infatti, non
interessa sapere quanto pagano ciascun lavoratore ma quanto viene a
costare la singola unità di prodotto, perciò devono ripartire il costo
per lavoratore sulle unità di prodotto realizzato. La spesa sostenuta per
assumere lavoratori deve essere, quindi, commisurata alla produttività
marginale del lavoro: poiché la produttività marginale decresce mano a
mano che si assume un maggior numero di lavoratori, siamo nel breve
periodo, l’impresa potrà assumere un maggior numero di lavoratori
solo se il salario diminuisce.
L’offerta di lavoro ha un andamento crescente ad indicare che i
lavoratori sono disposti a lavorare di più solo se il reddito percepito,
cioè il salario, aumenta. Dato un vincolo temporale determinato dalla
necessità di soddisfare le esigenze primarie (dormire, mangiare etc.)
l'offerta di lavoro deriva dalla scelta che gli operatori compiono fra
tempo da impegnare in attività lavorativa e tempo da dedicare allo
svago ("tempo libero") : il "tempo libero" è piacevole e dà
soddisfazione mentre il "lavoro" comporta penosità, sacrifici. Gli
operatori sono disposti a lavorare, e a rinunziare al "tempo libero",
solo se possono ottenere in cambio un reddito che gli permette di
soddisfare i loro bisogni. Quanto maggiore il reddito che si può
percepire tanto più grande sarà l’impegno lavorativo. Il concetto è
evidente per i lavoratori autonomi, come i professionisti, che possono
commisurare la loro attività lavorativa ad un maggiore guadagno; ma
anche i lavoratori dipendenti quando accettano il lavoro "straordinario"
si dimostrano disponibili a lavorare oltre il "normale" orario se
percepiscono una remunerazione maggiore. Ovviamente sull'offerta di
lavoro gioca anche una sorta di utilità marginale decrescente: a un
certo punto l'operatore considera l'ulteriore incremento di reddito
insufficiente a compensarlo per la rinunzia al "tempo libero" e
comincia a ridurre l'offerta di lavoro.
Problemi di macroeconomia
21
In un mercato di tipo concorrenziale l'incontro fra curva di
domanda (D) e curva di offerta (S) determina il salario di equilibrio
(W*\p) e il livello di "pieno impiego" della forza lavoro (L*); al
salario di equilibrio tutti coloro che sono disposti a lavorare possono
trovare occupazione, non lavorano soltanto coloro che richiedono un
salario superiore.
I sostenitori del libero mercato (liberisti) ritengono che la
flessibilità dei salari sia sempre in grado di assicurare il pieno impiego
sul mercato del lavoro; l'esistenza di disoccupazione può essere
spiegata solo da rigidità che impediscono la diminuzione dei salario o
la flessibilità nell'uso della forza lavoro. Ad esempio si sostiene che
un sussidio di disoccupazione elevato possa rappresentare una causa di
disoccupazione, perché spingerebbe i lavoratori a scegliere il sussidio
di disoccupazione piuttosto che accettare livelli di salario più bassi.
Semplificando l'analisi liberista si può dire che la disoccupazione
dipenda dalla rigidità dei salari: i salari sono particolarmente elevati,
non diminuiscono e quindi sul mercato del lavoro non tutti riescono a
trovare occupazione. Se i salari potessero diminuire, se fossero più
flessibili, si potrebbe accrescere il livello di occupazione. La rigidità
dei salari è imputata alla presenza dei sindacati che si comportano da
monopolisti sul mercato del lavoro ed impediscono quella riduzione
dei salari che potrebbe portare ad un aumento della domanda di lavoro,
da parte delle imprese, e ad una maggiore occupazione. Si tratta di una
visione di tipo "liberista" che vede nella "libertà" dei mercati e nella
flessibilità dei prezzi la migliore ricetta per il funzionamento del
sistema economico.
I critici di questa impostazione, facendo riferimento sia al
comportamento dei lavoratori che alle scelte economiche delle
imprese, sostengono che nella realtà il mercato del lavoro non
funziona come un mercato di concorrenza perfetta e i salari non sono
flessibili come può accadere con prodotti perfettamente omogenei. Si
ipotizza innanzitutto che il livello di qualificazione dell’impiego possa
influenzare la forza contrattuale dei lavoratori, ovvero il loro potere di
mercato: è chiaro che tanto più l’attività lavorativa è qualificata tanto
Mario Oteri
22
maggiore è la forza contrattuale del lavoratore, il grande architetto e il
manager hanno un contratto personale, il commesso di un
supermercato ha un contratto che non è personale ma redatto dalle
associazioni di categoria, quindi un contratto generale. Anche le
condizioni del mercato, e specificamente i livelli di disoccupazione,
possono incidere sul potere di mercato dei lavoratori: la possibilità di
trovare con facilità un'altra occupazione fa aumentare la forza
contrattuale del lavoratore che può scegliere con tranquillità. Un basso
livello di disoccupazione accresce, quindi, il potere contrattuale dei
lavoratori che, avendo una maggiore possibilità di scelta, possono
ottenere livelli di salario più elevati. D’altra parte, in una situazione di
bassa disoccupazione, le imprese hanno difficoltà a trovare lavoratori
disponibili e sono perciò disposte a pagare livelli di salario più elevati.
L’impostazione liberista è messa in discussione anche da quanti
ritengono che le imprese non sono avvantaggiate dalla flessibilità dei
salari ma possono avere convenienza a pagare salari che sono
superiori al minino. Com'é noto, poiché il costo per unità di prodotto
dipende dalla produttività del fattore, le imprese devono considerare il
salario pagato a ciascun lavoratore in rapporto alla quantità di prodotto
che questi realizza: hanno perciò convenienza economica ad avere i
lavoratori più produttivi. La teoria dei salari di efficienza sostiene che
uno dei modi per accrescere la produttività del lavoro è quello di
pagare salari più elevati, perché il lavoratore che riceve un salario
elevato è disponibile a un impegno maggiore; inoltre se le imprese
tendono a pagare salari minimi, e quindi a sostituire i lavoratori per
portare il livello del salario al minimo, finiscono per determinare una
selezione avversa, visto che i lavoratori più efficienti, in grado di
trovare facilmente un’occupazione alternativa, se ne andranno e alla
fine resteranno quelli che hanno meno voglia di lavorare. D’altra parte
per istruire i lavoratori, e quindi determinare una produttività elevata,
occorre tempo che rappresenta un costo per le imprese: sostituire
lavoratori per pagare salari minori significa perdere capitale umano
accumulato, in termini di professionalità, di fiducia e così via. Anche
in quest’ottica sono importanti la natura del lavoro e le condizioni di
Problemi di macroeconomia
23
disoccupazione esistenti sul mercato del lavoro. E’ evidente che un
operaio specializzato e più difficile da sostituire di un operaio generico
e pertanto potrà ottenere un salario più elevato. Allo stesso tempo se vi
sono livelli di disoccupazione elevata le imprese possono trovare con
maggiore facilità lavoratori per un determinato impiego e riescono,
pertanto, a pagare salari in media più bassi.
Con una impostazione alternativa a quella liberista, gli
economisti keynesiani sostengono che, in una moderna economia di
mercato, la causa principale della disoccupazione sia una domanda
insufficiente sul mercato dei beni : se nel sistema economico vi è una
domanda insufficiente, come succede in periodo di recessione , le
imprese non riescono a vendere i loro prodotti, e quindi tendono a
diminuire la produzione e, di conseguenza, il livello di occupazione.
Questo tipo di disoccupazione è caratteristica delle economie di
mercato dove la produzione è finalizzata alla realizzazione di profitti:
se le imprese hanno prospettive negative sulla possibilità di vendere i
loro prodotti , preferiranno ridurre la produzione e licenziare lavoratori
piuttosto che restare con merci invendute e ridurre i prezzi. E' una
situazione tipica di economie avanzate dove la disoccupazione non
dipende dalla scarsità delle risorse, dalla mancanza di impianti di
fabbriche etc., ma si hanno allo stesso tempo fabbriche chiuse e operai
disoccupati.
Si può avere disoccupazione anche quando si verifica un eccesso
di offerta sul mercato del lavoro. L'aumento nell'offerta di lavoro è in
genere legata a fatti eccezionali come ad esempio lo spostamento di
popolazione determinato da avvenimenti bellici o da altre cause.
Pensiamo alla riunificazione tedesca quando un gran numero di
lavoratori della Germania orientale sono stati inseriti nella Repubblica
Federale Tedesca determinando un elevato livello di disoccupazione;
pensiamo al passaggio della forza lavoro dall’agricoltura, dove
costituiva occupazione nascosta, al settore industriale che ha
comportato un forte aumento dell’offerta di lavoro, naturalmente
limitato nel tempo.
Mario Oteri
24
1.2.3 Disoccupazione di non equilibrio e disoccupazione di
equilibrio.
Occorre in effetti distinguere fra disoccupazione di non equilibrio e
disoccupazione di equilibrio.
La disoccupazione di non equilibrio si verifica quando il salario
corrente è al di sopra di quello di equilibrio e l’offerta di lavoro supera
la domanda: ad esempio nella figura 1.2.1 al livello di salario (W1\p)
la quantità di lavoro che richiedono le imprese è L 1, mentre la quantità
che offrono sul mercato i lavoratori corrisponde a L2 . La quantità L2L1 rappresenta l’eccesso di offerta sulla domanda di lavoro, cioè il
livello di disoccupazione.
Gli economisti liberisti ritengono che questa disoccupazione dipenda
dal fatto che il salario (W1\p) si mantiene al di sopra del livello di
equilibrio, ad esempio, per la presenza dei Sindacati o per altri fattori
che determinano una rigidità dei salari. Se i salari fossero flessibili, se i
lavoratori accettassero riduzioni dei salari nominali, e quindi di quelli
reali, si potrebbe raggiungere una situazione di pieno impiego.
Gli economisti keynesiani, invece, ritengono che questa
disoccupazione sia dovuta ad una domanda di prodotti insufficiente a
garantire l'occupazione di pieno impiego. Essi ritengono che il livello
della domanda aggregata sia in grado di assorbire sul mercato dei beni
una quantità di prodotto che può essere realizzata con un livello di
occupazione pari ad L1 e che, di conseguenza, le imprese
domanderanno una quantità di lavoro, inferiore al pieno impiego L*, e
la pagheranno sulla base della loro curva di domanda al salario W1\p.
Nei casi appena esposti si parla di disoccupazione di non equilibrio
ad indicare che sul mercato del lavoro al livello corrente del salario vi
è un eccesso di offerta sulla domanda. Ma gli economisti ritengono
che vi possa essere disoccupazione anche nel caso in cui sul mercato
del lavoro vi sia eguaglianza fra domanda ed offerta. Si tratta della
disoccupazione di equilibrio come ad esempio quando la
disoccupazione è determinata
dal progresso tecnico, quando settori
produttivi che hanno avuto grande sviluppo nel passato diventano
Problemi di macroeconomia
25
obsoleti, superati, perché nuovi metodi di produzione o nuovi prodotti
si sono affermati sul mercato.
W/p
Figura 1.2.2 Disoccupazione di equilibrio
S
S
W*/p
E
L*
S1
E1
L1
Lavoro
Con la chiusura di queste attività produttive i lavoratori si trovano
disoccupati e incontrano notevoli difficoltà a trovare occupazione nei
nuovi settori: la lotta dei minatori inglesi contro la signora Thatcher,
il primo ministro inglese detta la Lady di ferro, che ha chiuso le
miniere di carbone dopo una lunga vertenza con i sindacati, può essere
considerata un esempio di disoccupazione determinata dal progresso
tecnico.
Può rientrare in questa tipologia anche la disoccupazione legata
alle attività cosiddette stagionali: chi lavora in un centro vacanze
lavora nei mesi estivi ma non nei mesi invernali, chi lavora nel settore
alberghiero in genere lavora di più nei mesi estivi se è a mare, nei mesi
invernali se è in montagna, ma sarà soggetto a periodi di minore
Mario Oteri
26
lavoro. In quest'ambito rientra anche la disoccupazione legata alla
struttura produttiva delle diverse regioni: il Mezzogiorno ad es. ha
livelli di disoccupazione superiore a quelli di altre zone del paese, e
presenta, ancora oggi, fenomeni di emigrazione rilevanti, pure se
cambiati nella forma e nei modi .In ogni caso gli economisti ritengono
che esista sempre un livello minimo di disoccupazione, la c.d.
disoccupazione frizionale, determinata dal fatto che il mercato del
lavoro non funziona perfettamente: possono in effetti coesistere
operatori che offrono lavoro in un certo settore e imprese che
domandano lavoro in altri settori, oppure lavoratori disoccupati al sud
e imprese che cercano lavoro nel nord-est, ovvero lavoratori che hanno
lasciato posti di lavoro e stanno scegliendo fra varie opportunità di
lavoro. In conclusione si può dire che anche se il mercato del lavoro è
in equilibrio vi può essere, comunque, un certo livello di
disoccupazione più o meno elevata a seconda del paese e della
situazione complessiva.
La disoccupazione di equilibrio può essere rappresentata nella figura
1.2.2 considerando due curve di offerta di lavoro: la prima S' indica la
popolazione che, avendo i requisiti di età, è disposta a lavorare e si
presenta attivamente sul mercato del lavoro; la seconda curva S indica
invece coloro che trovano occupazione al salario corrente. La
differenza fra L* ed L1 indica il livello di disoccupazione di equilibrio
cioè i lavoratori che, pur essendo disposti a lavorare al salario di
equilibrio, sono attualmente disoccupati perché il settore dove
lavorano è in crisi, ovvero sono impiegati in attività stagionali o,
ancora, il cattivo funzionamento del mercato determina difficoltà di
incontro fra domanda e offerta.
Problemi di macroeconomia
27
1. 3 Inflazione
L’inflazione è un aumento del livello generale dei prezzi, il termine
"inflation" rimanda all'idea di gonfiare i prezzi delle merci come i
palloncini. Se i prezzi aumentano la stessa unità di moneta può
acquistare una minore quantità di prodotti: il valore reale dei redditi
nominali diminuisce, il loro potere di acquisto si riduce.
1.3.1 Come si misura l'inflazione ?
L’inflazione è misurata in termini di variazione del livello generale
dei prezzi nel tempo, in genere su base annua, utilizzando numeri
indici che rappresentano il rapporto fra due valori.
Uno di questi numeri indici è il deflatore del PIL che misura il
rapporto fra reddito nominale e reddito reale di un sistema economico
nello stesso periodo di tempo. Il reddito nominale non è altro che il
valore del reddito di un certo anno misurato a prezzi correnti, mentre
il reddito reale è il reddito dello stesso anno misurato a prezzi costanti.
Deflatore = PIL nominale \ PIL reale
Pt = pt Yt \p t-1 Yt
Quindi il reddito nominale fa riferimento al livello dei prezzi dell'anno
in corso, mentre il reddito reale fa riferimento ai prezzi di un anno
base. Ad esempio se consideriamo il livello dei prezzi nel 2000 come
anno base, il rapporto fra reddito nominale del 2000 e reddito reale
dello stesso anno darà un indice uguale ad 1, dato che le due misure
sono uguali. Nel 2001, invece, se si è verificato un aumento del livello
generale dei prezzi il rapporto fra il reddito nominale di quell'anno,
misurato a prezzi correnti, e il reddito dello stesso anno misurato a
prezzi costanti, cioè con i prezzi dell’anno base, risulterà maggiore di
1. Ad esempio un aumento del livello generale dei prezzi del 5% darà
un rapporto uguale a 1,05 ad indicare che il tasso di inflazione è stato
del 5%; per un tasso d'inflazione del 10%, cioè un aumento del livello
Mario Oteri
28
generale dei prezzi del 10%, il rapporto fra reddito a prezzi correnti e
reddito a prezzi costanti darà un deflatore del PIL pari a 1,10. Il
deflatore del PIL permette alcune semplici relazioni fra variabili:
innanzi tutto abbiamo che il PIL nominale è uguale al PIL reale per il
deflatore;
pt Yt = p t-1Yt x Pt
ovvero, in termini di tassi di variazione, il tasso di variazione del PIL
nominale è uguale al tasso di variazione del PIL reale più il tasso
d’inflazione.
Altra misura dell’inflazione che si usa normalmente è l’indice dei
prezzi al consumo, che misura la variazione dei prezzi dei beni che
una famiglia tipo consuma in un determinato periodo di tempo.
Quest'indice misura la capacità di acquisto della famiglia tipo di un
determinato sistema economico. I due indici non sono uguali, il
deflatore del PIL rappresenta l’insieme del valore di tutti i beni
prodotti nel paese, mentre l’indice dei prezzi al consumo si riferisce al
valore dei prezzi dei beni consumati dalle famiglie che possono essere
sia beni prodotti nel paese che beni di importazione. Anche l’indice dei
prezzi al consumo è rappresentato da un valore che misura la
variazione dei prezzi dei beni considerati in un determinato periodo di
tempo ed è ottenuto dal rapporto fra valore dei prodotti misurato a
prezzi correnti e valore degli stessi prodotti misurati a prezzi dell’anno
base. Quanto più ci allontaniamo dall’anno base tanto più il consumo
delle famiglie tende a essere diverso dai beni che vengono inseriti nel
paniere che fa da riferimento: diventa perciò necessario rivedere
questi panieri nel tempo e cercare di adeguare il modello di riferimento
alla spesa corrente delle famiglie. Basta, ad esempio, pensare alla
spesa per la telefonia mobile che oggi rappresenta un valore
significativo e che era, invece, inesistente venti anni fa.
1.3.2 L'inflazione in Italia
Problemi di macroeconomia
29
L'andamento del tasso d'inflazione di un paese come l'Italia è
influenzato non solo da cause interne ma dipende anche dalla
situazione internazionale, esterna al paese. E' perciò opportuno
accennare al sistema monetario internazionale, cioè ai rapporti
monetari e finanziari a livello internazionale. Dal secondo dopoguerra
il sistema monetario internazionale si basava sugli accordi firmati a
Bretton Woods, una località degli Stati Uniti, che hanno configurato il
nuovo sistema dei pagamenti internazionali fondato sul dollaro. Nel
sistema di Bretton Woods l’unica valuta legata all’oro era il dollaro,
esisteva una parità fissa fra dollaro e oro, mentre le altre valute
nazionali si scambiavano con il dollaro ma non si scambiavano con
l'oro. Fra le singole valute nazionali e il dollaro esisteva un rapporto di
cambio fisso, anche se era consentita una banda di oscillazione,
movimenti in più o in meno, del 2,5%, dalle parità centrali. Un’altra
caratteristica del sistema di Bretton Woods era il rigido controllo della
mobilità dei capitali finanziari, nel senso che non era consentito ai
singoli esportare o importare liberamente capitali. Questo sistema si è
basato inizialmente sul predominio dell’economia americana e sulla
forza del dollaro, che rappresentava il mezzo di pagamento negli
scambi internazionali. Con la ripresa degli altri paesi industriali, gli
Stati Uniti hanno cominciato ad acquistare dall'estero (importazioni)
più beni di quanti non vendevano (esportazioni) creando una quantità
di dollari particolarmente elevata per pagare il deficit della loro
Bilancia dei Pagamenti. La quantità di dollari che circolava fuori degli
Stati Uniti e che era detenuta nelle casseforti delle banche centrali
degli altri paesi, è progressivamente aumentata diventando molto
superiore alle riserve auree della Riserva Federale. Nessun paese
aveva, in effetti, convenienza a chiedere la conversione dei dollari che
possedeva con l’oro conservato negli Stati Uniti, per non mettere in
crisi il sistema dei pagamenti internazionali, ma è chiaro che già agli
inizi degli anni sessanta il sistema di Bretton Woods cominciava a
mostrare le prime crepe. Un altro colpo venne, in quegli anni, dalle
spese crescenti che gli Stati Uniti furono costretti a sostenere per la
guerra del Vietnam: la continua creazione di moneta indeboliva
Mario Oteri
30
progressivamente il potere d'acquisto del dollaro determinando un
rilevante processo inflazionistico a livello internazionale. Anche se gli
Stati Uniti non hanno mai svalutato ufficialmente il dollaro, le parità
stabilite a Bretton Woods cominciarono a modificarsi con
l'apprezzamento delle monete "forti", come il marco tedesco, e il
deprezzamento di quelle più "deboli", come la sterlina inglese. La crisi
del sistema divenne evidente nell'agosto del 1971, quando l'allora
Presidente degli Stati Uniti, Robert Nixon, dichiarò l'inconvertibilità
del dollaro in oro: il dollaro divenne una moneta "fiduciaria" come
tutte le altre e il suo "valore" venne a dipendere esclusivamente dal
fatto che fosse accettata sul mercato internazionale.
Finchè il sistema di Bretton Woods rimase in vigore anche in Italia
l'andamento del livello generale dei prezzi è stato essenzialmente
determinato da cause interne. Agli inizi degli anni sessanta il tasso
d'inflazione presentava livelli relativamente bassi (2,7% nel 1960)
anche se crescenti sino al 1963, quando raggiunse il "picco" del 7,5%;
questo andamento può collegarsi alla rapida crescita dell'economia
italiana ( il miracolo economico) che porta in quegli anni ad una
domanda crescente delle risorse disponibili con conseguenti pressioni
inflazionistiche. La Banca Centrale, ritenendo l’economia prossima al
"pieno impiego", attuò una politica monetaria restrittiva , la gelata di
primavera, tagliando il credito alle imprese e ponendo un freno alla
crescita economica: l’inflazione si ridusse velocemente, ritornando già
nel 1966 al 2% e raggiungendo il picco minimo dell’1,3% nel 1968.
Ma due anni dopo, nel 1970, il tasso d’inflazione crebbe rapidamente
sino al 9,8% in risposta alla grande stagione di lotte sindacali del 1969,
il c.d. autunno caldo, quando i sindacati, compattando i lavoratori
meridionali immigrati con gli altri lavoratori della grande impresa,
riuscirono ad ottenere sostanziali miglioramenti nelle condizioni di
lavoro e nei livelli salariali. Si trattava chiaramente di un’inflazione da
costi determinata dal tentativo delle imprese di scaricare sui prezzi
l’aumento del costo del lavoro. Dopo il rallentamento del 1971 e del
1972, l’inflazione ricomincia a crescere ed arriva nel 1973 al 19,4% a
seguito dell’aumento improvviso del prezzo del petrolio, lo shock
Problemi di macroeconomia
31
petrolifero. L’inflazione non è più determinata da cause interne ma è
un avvenimento internazionale accelerato dalla “fine” del sistema di
Bretton Woods. A fronte del continuo aumento dei prezzi dei prodotti
manufatti espresso in dollari, i paesi produttori di petrolio cercarono di
ripristinare il rapporto di scambio con i prodotti industriali e di
rivalutare i loro redditi reali aumentando improvvisamente il prezzo
del petrolio, che passò da circa $ 7 al barile a $ 40 al barile. Poiché il
petrolio rappresenta una fonte di energia primaria utilizzata
direttamente ed indirettamente nel processo produttivo dei paesi
industriali, l’aumento del prezzo del petrolio rappresenta un aumento
netto dei costi di produzione che colpisce tutti i paesi industriali. La
prima risposta dei paesi industriali fu quella di cercare di scaricare
sugli altri il costo della bolletta petrolifera, producendo di più e
cercando di vendere all’estero.
Ma è chiaro che se tutti i paesi industriali vogliono vendere di più
hanno difficoltà a trovare acquirenti: infatti i paesi esportatori di
petrolio, che divennero i “nuovi ricchi”, non erano paesi con grandi
Mario Oteri
32
sistemi economici, con popolazioni numerose in grado di assorbire i
prodotti dei paesi industriali, ma erano piccole economie, come
l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi, che non potevano esprimere una
domanda di beni di consumo in grado di assorbire la maggiore offerta
dei paesi industriali. Alla fine i costi si scaricarono all’interno dei
paesi industriali determinando un periodo di elevati tassi di inflazione
e allo stesso tempo una riduzione dei tassi di crescita del PIL, che
furono in alcuni anni anche negativi. Sono anni di crisi con
stagnazione e inflazione, stagflazione, il prodotto si riduce e i prezzi
aumentano. Dopo il livello minimo del 12,4%, raggiunto nel 1978, il
tasso d’inflazione continuò a crescere sino al 1980 quando, in seguito
al secondo shock petrolifero, determinato dalla caduta del governo
iraniano filoccidentale, raggiunse il tasso di crescita annuo del
21,1% .Ma ormai la situazione era cambiata: a livello di singoli paesi
si erano cominciate ad adottare tecniche di produzione che riducevano
il consumo di petrolio, ricorrendo anche a fonti di energia alternative;
allo stesso tempo si era abbandonato il tentativo di sostenere i livelli di
produzione e di occupazione con politiche fiscali espansive, lasciando
crescere sia l’inflazione che la disoccupazione. Anche lo scenario
internazionale era cambiato significativamente: negli Stati Uniti il
presidente Ronald Reagan, dopo aver tagliato le imposte, rilanciava la
spesa pubblica per la realizzazione del c.d. scudo stellare, la
realizzazione di missili antimissili ( i patriot) che avrebbero dovuto
proteggere il territorio americano dai missili intercontinentali sovietici.
Questo aumento delle spese militari ebbe il duplice effetto di rilanciare
l’economia e la ricerca negli Stati Uniti e, al tempo stesso di riportare
in auge il dollaro che si apprezzò sostanzialmente. Infatti la spesa
pubblica in deficit fu finanziata con l’afflusso di capitali dal resto del
mondo che, attratti dagli alti tassi d’interesse, cominciarono ad arrivare
negli Stati Uniti per sottoscrivere titoli del debito pubblico. Il deficit
della Bilancia dei pagamenti degli Satti Uniti divenne cronico ma il
dollaro forte permise di rilanciare il sistema monetario internazionale
con l’abbandono del sistema dei cambi fissi e con la progressiva
liberalizzazione dei mercati delle merci e dei mercati dei capitali.
Problemi di macroeconomia
33
Negli anni ottanta con il rilancio dell’economia americana il prezzo del
petrolio espresso in dollari diminuì sensibilmente e i tassi d’inflazione
si ridussero rapidamente.
Per far fronte alla crisi del sistema di Bretton Woods, i paesi aderenti
all’Unione Europea avevano cercato di creare un sistema di cambi
stabili, ancorato sostanzialmente al marco tedesco, che si era
concretizzato nel 1979 nel Sistema Monetario Europeo. Lo SME era
un sistema di cambi manovrati attorno a una moneta contabile, lo
scudo europeo o ECU, composta dall’insieme delle valute europeo
ciascuna con il peso corrispondente al proprio valore. Erano previsti
anche in questo sistema tassi di cambio fissi fra le singole valute
nazionali e l’ECU, con la possibilità di una banda di oscillazione
attorno alle parità centrali. Erano anche previste delle regole che
impegnavano i paesi interessati a intervenire per sostenere le parità dei
tassi di cambio, ma nella realtà questo sistema si è basato
essenzialmente sul marco tedesco, che ha rappresentato la valuta forte,
mentre le altre valute nazionali sono state costrette a svalutare
progressivamente modificando i tassi di cambio concordati. Le valute
più deboli come la lira, compresse fra il marco e il dollaro, si
trovavano in una situazione particolarmente delicata che divenne
praticamente insostenibile con la liberalizzazione del movimento dei
capitali quando, sotto i pesanti attacchi speculativi, la Lira fu costretta
nel 1993 ad abbandonare lo SME. Ma già alla fine degli anni ottanta i
paesi dell’Unione Europea avevano cominciato ad attrezzarsi per far
fronte alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla crescente
integrazione dei mercati delle merci, con la firma del Trattato di
Maastricht che prevedeva la creazione di una moneta unica .
L’adozione di una moneta unica ha obbligato i paesi aderenti ad
uniformare i loro sistemi economici adeguando i tassi d’inflazione, i
tassi d’interesse, la stabilità del cambio e i livelli della spesa pubblica
in deficit e del debito pubblico (i parametri di Maastricht), rinunziando
definitivamente alla gestione nazionale della politica monetaria e
vincolando le politiche fiscali al Patto di stabilità e di sviluppo.
L’adesione all’Unione Economica e Monetaria ha comportato per il
Mario Oteri
34
nostro paese la necessità di scelte severe che hanno, tuttavia, permesso
di ancorare il nostro paese ad una moneta stabile nel contesto
internazionale ed ottenere una drastica riduzione del tasso d’inflazione
e una sostanziale stabilità del tasso di cambio.
Non mancano tuttavia coloro che ritengono che la condizione di
ristagno dell’Italia sia dovuta oltre che alla sua struttura
socioeconomica, anche alla politica monetaria seguita nell’Eurozona,
lontana dalle necessità specifiche delle condizioni economiche di base
(i cosiddetti “fondamentali”) italiane. Questa politica ha come
obiettivo il mantenimento dell’inflazione media dei Paesi dell’UEM
sotto il 2% annuo; per raggiungerlo la Banca centrale europea (BCE)
muove il tasso di interesse di riferimento in relazione all’inflazione
(media dell’UEM) che essa prevede dopo 4-6 trimestri; questa è
funzione del reddito potenziale, in pratica del PIL, di 4-6 mesi prima,
per cui il tasso di riferimento è variato in funzione del prodotto
dell’Eurozona al tempo corrente. Tale politica monetaria è
doppiamente restrittiva per l’Italia: in primo luogo perché l’obiettivo
del 2% annuo può andare bene per la Germania (che lo ha imposto),
che preferisce una crescita del PIL reale bassa a patto che sia
accompagnata da un’inflazione altrettanto bassa, ma non per la
popolazione italiana, che si ritiene avrebbe bisogno di una crescita del
prodotto reale più alta anche se associata ad una modesta inflazione. In
secondo luogo perché il livello del tasso di interesse di riferimento è
funzione di una crescita del PIL ben superiore a quella dell’Italia. Di
qui un tasso più alto di quello che sarebbe conveniente per il Paese, la
compressione dei consumi e degli investimenti, e la stagnazione
dell’attività economica. L’effetto negativo per l’economia italiana
dell’adattamento della politica monetaria della BCE alle preferenze
tedesche è evidenziato dalla figura 1.3.2., che riporta le serie dei prezzi
al consumo (indici armonizzati), nell’Eurozona e nei suoi quattro Paesi
più grandi: l’inflazione della Germania ha un andamento molto basso,
ed anche la crescita economica è fievole. In Italia, viceversa, si ha sia
bassa crescita ma alta inflazione .
Problemi di macroeconomia
35
Tabella 1.3.2 Andamento Tassi d'inflazione nell'Eurozona
Gli altri andamenti in questa figura indicano due fatti del pari
interessanti: a) l’inflazione francese è stata sostanzialmente
equivalente a quella media dell’UEM, proprio come si è osservato per
l’andamento del prodotto; b) la politica monetaria della BCE non è
riuscita,invece, a contrastare l’inflazione della Spagna determinata
dalla forte crescita economica di quel paese; il grafico indica, infatti,
un andamento dei prezzi al consumo del 50% superiore a quello medio
dell’UEM (il 30,9% contro il 20,3% di aumento nel periodo fino al
terzo trimestre del 2009).
Il sistema monetario internazionale appare agli inizi del nuovo secolo
profondamente trasformato: il sistema di cambi fissi è stato sostituito
da cambi flessibili, almeno fra le principali valute; i vincoli e i
Mario Oteri
36
controlli ai movimenti dei capitali sono stati smantellati e si può dire
che si è realizzata una completa integrazione dei mercati finanziari e
una perfetta mobilità nel movimento dei capitali; anche per quanto
riguarda le merci si è enormemente accresciuta l'integrazione dei
mercati e lo scambio di beni e servizi. Tuttavia il dollaro è rimasto
l'unico mezzo di pagamento internazionale, solo parzialmente
insediato dall'euro come moneta di riserva internazionale, e gli Stati
Uniti sono diventati l'unico paese che può permettersi di pagare, le
merci che importa e gli interessi sui finanziamenti che ottiene dal resto
del mondo, semplicemente stampando moneta. Questo sistema ,
basato su principi rigidamente liberisti , è stato messo in discussione
dalla grande crisi che, partita dai mercati finanziari, sta interessando in
questo periodo l'economia mondiale.
1.3.3
Da cosa dipende l'inflazione?.
Diverse sono le cause che possono mettere in moto un processo
inflazionistico. A parte i casi di grandi inflazioni determinate da
avvenimenti straordinari, come le guerre o la disgregazione di Stati,
l’aumento del livello generale dei prezzi può dipendere da cause
legate alle componenti della domanda o da cause legate ai costi di
produzione. L’inflazione da domanda si determina quando il sistema
economico è sotto pressione e le imprese trovano difficoltà ad
adeguare la produzione all’aumento della domanda: rispondono
dunque con un aumento dei prezzi. Quanto più il sistema produttivo si
avvicina al pieno impiego delle risorse tanto maggiore sarà l’aumento
dei prezzi in risposta ad aumenti della spesa. In situazione di pieno
impiego delle risorse qualunque aumento di spesa si risolve
esclusivamente in un aumento dei prezzi, mentre il reddito reale
rimane invariato. Parliamo di aumento della spesa a livello aggregato,
cioè spesa per consumi effettuata dalle famiglie, spesa delle imprese
per investimenti, spesa del settore pubblico per acquistare beni e
servizi sul mercato e domanda estera di prodotti nazionali
(esportazioni).
Problemi di macroeconomia
37
Figura 1 .3.1 Inflazione da domanda
P
AS
E1
P’
P
E
AD1
AD
Y
Y1
Y2
Gli economisti liberisti ritengono che, per determinare inflazione,
l’incremento di spesa debba essere finanziato con la creazione di
nuova moneta altrimenti finirebbe per sostituirsi ad altre spese.
L’inflazione sarebbe, perciò, esclusivamente un fenomeno monetario
legato essenzialmente all’incremento dell’offerta di moneta
L’inflazione si può analizzare in un semplice grafico che rappresenta
il mercato delle merci a livello aggregato, cioè l’insieme della
domanda e dell’offerta di un sistema economico a livello aggregato; P
in ordinata indica il livello generale dei prezzi mentre Y, in ascissa,
indica il prodotto aggregato. L’offerta aggregata, che indica l’insieme
Mario Oteri
38
dei beni e servizi prodotti nel sistema economico, può essere
rappresentata come una curva crescente (AS), ad indicare una
relazione diretta fra quantità offerta e livello generale dei prezzi.
L’aumento dei prezzi permette infatti alle imprese di coprire i
maggiori costi sostenuti per realizzare la produzione. La domanda
aggregata è costituita dalla spesa delle famiglie per beni di consumo,
delle imprese per beni di investimento, del governo per beni e servizi
pubblici e della spesa del resto del mondo per acquistare prodotti
nazionali. La domanda aggregata è rappresentata come una curva
decrescente (AD) ad indicare che la spesa complessiva aumenta
quando il livello generale dei prezzi diminuisce. Se il livello dei prezzi
diminuisce aumenta infatti il potere d’acquisto, il reddito reale, e
quindi aumenta la quantità domandata, una specie di effetto reddito.
Ancora se i prezzi dei prodotti nazionali diminuiscono diventano più
competitivi rispetto ai prodotti esteri, e quindi aumenta la domanda di
prodotti nazionali, una specie di effetto sostituzione. Si può
considerare anche un effetto determinato dalla quantità di moneta: se i
prezzi diminuiscono la quantità di moneta in termini reali cresce e gli
operatori sono indotti a disfarsene aumentando le spese. Quando
domanda aggregata e offerta aggregata sono uguali si determina il
livello di reddito (Y) e il livello generale prezzi ( P) di equilibrio. Un
aumento della domanda aggregata da AD a AD1, determinato dalla
variazione di una componente autonoma della spesa, comporta un
eccesso di domanda (Y2) sull’offerta (Y) e un conseguente aumento
dei prezzi. Mano a mano che i prezzi aumentano la domanda aggregata
si riduce mentre le imprese cominciano ad accrescere la quantità
offerta: alla fine si raggiunge un nuovo equilibrio al livello di
produzione Y1 e con un livello dei prezzi pari a P 1. La capacità delle
imprese di adeguare l’offerta agli incrementi di domanda dipende
dall’inclinazione della curva di offerta: quanto più piatta si presenta la
curva di offerta aggregata tanto maggiore l’aumento del reddito
prodotto e tanto minore l’incremento del livello dei prezzi. Nel caso
del reddito di pieno impiego la curva di offerta si presenta verticale ad
indicare che le imprese non possono accrescere la quantità prodotta ma
Problemi di macroeconomia
39
rispondono agli incrementi di domanda soltanto con aumenti dei
prezzi. Con l’inflazione da domanda, quindi, aumenta il livello dei
prezzi ma tende ad aumentare anche il livello della produzione, tranne
che nel caso di pieno impiego delle risorse, quando la curva di offerta
è verticale.
L’inflazione dipende invece dall’offerta quando variano i costi
che le imprese devono sostenere per realizzare la produzione. Fra i
costi vanno considerati innanzi tutto i salari, cioè il costo del lavoro
per unità di prodotto: se i salari aumentano in misura superiore
all’incremento della produttività, il costo per unità di prodotto cresce e
le imprese dovranno scegliere fra l’aumento dei prezzi e la riduzione
dei profitti (Inflazione da salari). La possibilità di scaricare sui prezzi
l’aumento dei costi è maggiore se le imprese operano in situazione di
controllo dei mercati piuttosto che di concorrenza. Anche quando il
costo del lavoro rimane sostanzialmente invariato, le imprese possono
accrescere il livello dei prezzi per aumentare i loro profitti. La c.d.
inflazione da profitti si verifica quando tutte le imprese possono
aumentare i prezzi senza perdere clienti perché si aspettano che anche i
concorrenti seguiranno lo stesso comportamento. Si verifica ad
esempio quando c’è un’inflazione abbastanza elevata a livello
internazionale e le imprese nazionali non temono la concorrenza
esterna. Un esempio recente può essere considerato l'aumento dei
prezzi che si è verificato con l’introduzione dell’euro: tale aumento
non è stato giustificato da una crescita dei costi ma dal fatto che,
passando dalla lira all’euro, si è persa familiarità con il numerario, e i
produttori hanno approfittato della confusione per aumentare i prezzi a
tutti i livelli e, ovviamente, accrescere i loro profitti. Inflazione da
costi è anche la cosiddetta inflazione importata che si verifica quando
aumenta il costo dei prodotti importati. Perché si determini una
crescita del livello generale dei prezzi è necessario che i prodotti
importati abbiano un peso consistente sulla produzione nazionale: se
aumenta il costo dei chiodi di garofano difficilmente si verifica
inflazione in Italia dato che hanno un peso irrilevante nella produzione
Mario Oteri
40
nazionale, al contrario se aumenta il prezzo del petrolio si ha un forte
impatto sul livello dei prezzi nazionali, perché il petrolio interessa
estensivamente l'attività produttiva e di consumo.
Figura 1.3.2 Inflazione da costi
P
AS1
AS
P1
E1
P
E
AD
Y2
Y1
Y
La variazione del prezzo dei beni importati può dipendere sia
dalla variazione del prezzo di questi prodotti che da un deprezzamento
del tasso di cambio fra valuta nazionale e mezzo di pagamento
internazionale. Si era determinato un meccanismo perverso che finiva
per alimentare l'inflazione: per rendere competitive le esportazioni, e
sostenere quindi la domanda aggregata e il livello del reddito, si
procedeva alla svalutazione della lira rispetto al dollaro, ma in tal
modo cresceva l'esborso per pagare il petrolio e, quindi, i costi di
produzione delle imprese che erano costrette a ritoccare verso l'alto i
prezzi dei prodotti; con l'aumento dei prezzi diminuiva la competitività
Problemi di macroeconomia
41
delle esportazioni e si doveva quindi procedere ad una nuova
svalutazione della lira in una spirale sempre più perversa.
Muovendosi da una situazione di equilibrio, determinato
dall'incontro fra curva di domanda aggregata AD e curva di offerta
aggregata AS in corrispondenza al punto E, l’inflazione da costi è
evidenziata da una variazione della curva di offerta verso l’alto e
verso sinistra in AS1 in seguito ad un aumento dei costi di produzione
per le imprese. Al livello dei prezzi P si determina un eccesso di
domanda sull'offerta pari a Y2 Y, il livello dei prezzi comincia ad
aumentare con un conseguente aumento dell'offerta mentre la
domanda comincia a diminuire. Alla fine si raggiunge una nuova
posizione di equilibrio con un livello dei prezzi maggiore P 1 e un
livello del reddito Y1. Quando l’inflazione è spinta dai costi
l’aumento dei prezzi si accompagna quindi con un calo del livello di
produzione: come nell’esperienza italiana degli anni 70 quando il tasso
d’inflazione, originato dall’aumento del prezzo del petrolio, ha
raggiunto livelli straordinariamente elevati, sino al 21%, mentre la
produzione è crollata, con valori addirittura negativi. L’inflazione
convive con la stagnazione economica e si ha stagflazione.
Altra causa d’inflazione è data dalla diversa produttività fra
settori, la cosiddetta inflazione strutturale, ad esempio quando vi è
diversa produttività fra settore industriale e settore dei servizi. Nel
settore industriale, che è un settore dinamico soggetto alla concorrenza
esterna, le imprese hanno necessità di accrescere la produttività con
l'introduzione di nuovo capitale o del progresso tecnico , e possono,
quindi, pagare maggiori salari senza aumentare i prezzi. Il settore dei
servizi, che è protetto dalla concorrenza estera e può avere una
utilizzazione del capitale per unità di prodotto molto minore, non ha
invece stimoli diretti ad accrescere la produttività che si mantiene
relativamente più bassa. I lavoratori del settore dei servizi però cercano
di adeguare i propri salari a quelli del settore industriale e, quindi,
chiedono e ottengono aumenti dei salari che non possono essere
Mario Oteri
42
compensati con un incremento proporzionale di produttività. Per
mantenere i margini di profitto, in risposta all'aumento dei salari, le
imprese aumentano i prezzi dei servizi che offrono sul mercato. Questo
aumento dei prezzi determina, a sua volta, una riduzione del salario
reale dei lavoratori dell'industria che vedranno diminuire il loro potere
di acquisto e chiederanno nuovi aumenti salariali. Le imprese del
settore industriale risponderanno con aumenti di produttività che
permettono di accrescere i salari lasciando stabili i prezzi e, in tal
modo, si rimette in moto il meccanismo .
Anche le aspettative che gli operatori si formano sull'andamento
futuro dei prezzi possono influenzare l’inflazione. Ipotizziamo che di
fronte ad un aumento dei prezzi attuale gli operatori si aspettino che i
prezzi continueranno ad aumentare. I consumatori avranno
convenienza a comprare di più, ad aumentare la domanda visto che
nel futuro si troveranno con prezzi più elevati. I produttori, al
contrario, avranno convenienza a contrarre le vendite attuali e a
vendere i prodotti nel futuro quando i prezzi saranno più elevati. Il
risultato sarà, quindi, un aumento di domanda ed una contrazione
dell'offerta che determineranno sul mercato un aumento dei prezzi. Le
aspettative di aumento dei prezzi influenzano, quindi, i comportamenti
degli operatori sul mercato e finiscono per avverarsi. Se, invece, le
aspettative sono di un aumento dei prezzi temporaneo che non
continuerà nel futuro, quale comportamento conviene seguire? I
consumatori non hanno convenienza a comprare quando i prezzi
aumentano ma preferiscono aspettare che si stabilizzino, riducono
perciò la domanda; i venditori, invece, hanno convenienza a vendere di
più oggi quando i prezzi aumentano, perciò accrescono l’offerta. Con
l'aumento dell’offerta e la riduzione della domanda l'incremento dei
prezzi si riduce e l'inflazione si ferma confermando le aspettative.
L'introduzione delle aspettative ha influenzato significativamente
l'analisi dell'inflazione portando a nuovi sviluppi e a significativi
cambiamenti nelle proposte di intervento.
Problemi di macroeconomia
43
1.3.4. Conseguenze negative dell’inflazione.
Perché l’inflazione è considerata un avvenimento negativo? Se i
prezzi di tutti i prodotti e tutti i redditi raddoppiassero nel sistema
economico non cambierebbe nulla;
l'inflazione si ridurrebbe
esclusivamente ad un fatto contabile. Ma l'inflazione è un aumento del
livello generale dei prezzi: i prezzi di alcuni prodotti crescono in
misura maggiore, i prezzi di altri in misura minore,; di conseguenza i
redditi non aumentano tutti allo stesso modo: alcuni crescono altri
diminuiscono. Il problema vero è che l'inflazione determina una
redistribuzione dei redditi reali casuale e iniqua: chi ha redditi fissi, in
economia si dice le vedove e gli orfanelli, non può adeguare le entrate
all'aumento dei prezzi e vede diminuire il proprio reddito reale. Chi
può aggiustare il proprio reddito all’incremento dei prezzi, può
mantenere il suo reddito invariato in termini reali o, come capita, può
accrescerlo a danno di altri.
Il passaggio dalla lira all’euro
teoricamente non doveva cambiare niente perché si trattava
semplicemente di un cambiamento di numerario, chiamare la moneta
euro piuttosto che lira. Se tutti i prezzi fossero stati espressi in euro
rispettando il rapporto di cambio prestabilito, di 1936,27 lire per un
euro, non sarebbe cambiato nulla. In realtà chi ha potuto aumentare i
prezzi dei propri prodotti, approfittando della scarsa familiarità con la
nuova moneta, è riuscito ad accrescere i propri redditi a danno di
quanti non lo hanno potuto fare. La redistribuzione dei redditi è meno
avvertita quando il sistema economico si trova in una fase di crescita:
quando il reddito nazionale cresce, le posizioni relative si muovono
nell'ambito di un aumento complessivo, l'inflazione ha un impatto
minore perché la posizione di ciascuno migliora in termini assoluti
anche se peggiora in termini relativi. Quando, invece, il sistema
economico è in una situazione di crisi, i redditi reali diminuiscono o
non crescono,la redistribuzione dei redditi determinata dall'inflazione è
molto più grave perché ciascuno si rende conto che il suo reddito reale
è diminuito non solo in termini relativi ma anche in termini assoluti. In
questi anni abbiamo avuto in Italia una percezione molto forte
Mario Oteri
44
dell'aumento dei prezzi anche se il tasso d'inflazione misurato è stato
fra il 2,8% e il 3%, valori assolutamente insignificanti rispetto a quelli
verificatisi negli anni passati quando il tasso misurato aveva due cifre.
Questo forte impatto dell'inflazione probabilmente è legato sia al fatto
che l'aumento dei prezzi è stato inatteso sia al fatto che si è verificato
in un periodo in cui il reddito complessivo del paese non è cresciuto:
si è determinata perciò una sostanziale redistribuzione dei redditi reali
con il peggioramento dei livelli di vita molti operatori. Altro effetto
negativo dell’inflazione è quello di diffondere incertezza negli scambi.
Il mercato infatti può funzionare se gli operatori hanno fiducia nel
valore della moneta: sono quindi disposti a ricevere moneta in cambio
di merci nella certezza che domani potranno comprare merci per lo
stesso valore. Venendo meno la fiducia nella moneta gli scambi
cominciano a rallentare, sono necessari meccanismi che garantiscono
gli operatori dalla perdita di valore della moneta, come ad esempio le
clausole di indicizzazione, e che finiscono con il rendere meno
efficiente il sistema di mercato.