Anno XXXIV, n. 2 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Agosto 2016 CONTRIBUTI LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY Faculty Al – Alsun Ain shams University, Cairo Or tu, Donna del Ciel, tu nostra Dea, Se dir lice e conviensi (Francesco Petrarca, Canzoniere, In morte di Madonna, Stanza VIII) Il teatro era un costume aderente ed indispensabile del tempo entro il quale cominciavamo con fervore a camminare. (Massimo Bontempelli, L’Avventura Novecentista) M assimo Bontempelli viene classificato dalla critica fra gli scrittori e gli intellettuali più importanti che s’impegnano a rinnovare e ricostruire il clima culturale dell’Italia del Novecento. Le sue opere teatrali sono piuttosto riconosciute per un desiderio d’intendere una realtà più corposa in tutto il suo peso umano, uscendo gradualmente dalle formule del realismo magico. Egli esercitava una presenza carica di valore, e le sue commedie testimoniano, in fin dei conti, uno stato di smarrimento ed insieme una ricerca assidua d’interpretare i suoi miti in modo ch’essi assumano un valore universale e possano rappresentare al meglio la tragicità della vita d’ogni uomo. Si è tanto parlato di quell’ondata di candore che splendeva nei propri occhi e che lo allontanava dalla crudeltà della civiltà a lui contemporanea. Quell’ondata si traduce nella sua scrittura in un silenzio assoluto che regna sulle pagine su cui si sofferma per chiedersi della propria esistenza. È l’elemento, inoltre, formativo dell’esegesi della sua opera, che gli permette, affacciandosi al mondo, di vederlo a modo suo. 252 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY Nel panorama agitato del mondo dello spettacolo nel primo dopoguerra, nel clima di concorrenza straniera ed accesa conflittualità tra le diverse tendenze ed inclinazioni, Bontempelli si ritrova ad operare nella società teatrale, con il suo proposito di stabilire punti “d’interferenza e di ambivalenza” fra due realtà inconciliabili: la poesia e lo spettacolo. Il teatro di prosa e di melodramma, i modi della commedia borghese, particolarizzati dalla problematica morale o dalla drammaticità psicologica si presentano, per lui, come “storie chiuse”. Egli cercava un ideale artistico, già scomparso in una cultura ed una letteratura inclini al conformismo, quello di rivelare il nuovo in un mondo creato, e di creare un mondo di fantasia che abbia, però, “l’oggettività del mondo naturale”. Per merito dello spirito di critico militante1 e d’indagatore intelligente di Bontempelli (uomo ed artista), si è cercato, in questo studio, di dar rilievo ad una commedia moderna dal genere “esplicitamente contemporaneo” come lo definisce l’Autore, in un movimento teatrale segnato dalla grande tradizione teatrale dell’800, dal ribellismo futurista, dal teatro pirandelliano distinto per il gusto del grottesco e per la grande creazione. Per un’analisi più ampia e specifica, si è scelto Nostra Dea2, commedia scritta dal drammaturgo comasco sotto suggerimento di Luigi Pirandello per il loro “repertorio”3. Ben lungi dai diversi “ismi” che dominavano l’Ottocento e dagli avanguardismi artistici4, Bontempelli insisteva a creare un’arte più umana e più aderente al popolo: “Quello che chiamate stramberia [...] è spostare un angolo della superficie della 1 Per un maggior approfondimento riguardo all’attività della critica militante bontempelliana nelle varie riviste del suo tempo, ed ai suoi gusti teatrali, si veda Alessandro Tinterri, “Bontempelli critico teatrale”, in Massimo Bontempelli. Nostra Dea e altre commedie, Torino: Einaudi, 1989. 2 Tale dramma nacque nel 1925, e si considera il vero capolavoro della produzione teatrale di Bontempelli che, stabilitosi a Roma dopo i suoi soggiorni in Francia, fece parte del “Teatro degli Undici” e strinse amicizia con il fondatore Luigi Pirandello. Nostra Dea si tenne al Teatro Odescalchi di Roma il 22 aprile 1925, inaugurando così l’attività del Teatro dell’Arte. 3 Massimo Bontempelli riconosce l’importanza del tentativo audace di Pirandello e la potenza della sua arte nella ricostruzione fondamentale per il teatro in un tempo “antiteatrale”. Va ricordata la crisi d’antipatia di cui soffriva nei confronti d’ogni teatro. Perciò parla del lavoro teatrale pirandelliano in Italia come “lo sforzo più laborioso e più tenace e più originale che siasi fatto per innalzare una barriera invarcabile contro la invecchiata abitudine teatrale, e per preparare il teatro a una nuova sensibilità”; M. Bontempelli, “Sei personaggi in cerca d’autore”, in Industrie Italiane Illustrate, 7 ottobre 1921. 4 Ciò nonostante, egli partecipò in “Valori plastici” al dibattito sul Seicento, frequentando l’“Inferno”, insieme con il gruppo dei pittori metafisici, De Chirico, Tilgher, Folgore, Marinetti ed altri. 253 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI realtà, per farvi entrare la realtà più profonda. Vorrà dire ritrovare il senso del mistero e l’equilibrio tra il cielo e la terra”5. È un’opera che non ci racconta più una favola o istituisce un mito; essa si configura piuttosto come una rappresentazione “prevalentemente” spettacolare, e rivolta verso “il grande drammatico e il grande comico”6. Dissoluzione del personaggio nell’ambiente in cui vive, la perdita della sua “valenza” fisica e morale, l’umanità delle marionette, la ricerca d’una nuova gioia del vivere, vi sono continuamente sottolineate con una forza prepotente “di buffoneria legata a un costume”7. La storia di Nostra Dea si articola su un’idea centrale che il lettore – spettatore può facilmente cogliere dalla prima scena in cui si descrive minuziosamente la camera da letto o “salotto” che sia, della protagonista che ha il nome di Dea. Essa appare al pubblico “in combinazione” con uno sguardo “assolutamente inespressivo” come se avesse qualche cosa “di abbandonato e insieme rigido”: è un manichino? Assolutamente, no. Nina, la giovane stupida cameriera, annuncia che la sua signora dovrebbe uscire ed è venuta propriamente ad aiutarla a scegliere il vestito conveniente da un enorme armadio contenente una moltitudine d’abiti di colori diversi. 1. Nell’arco “perfetto di un giro di sole”8 si svolgono i quattro atti della commedia. Si parte dal mattino avanzato con una luce crepuscolare e pallida perché le imposte sono ancora chiuse, passando al pomeriggio in casa di un amico, alla sera della festa nel “Poliedric Superbal” e qui la luce è artificialmente opaca. Si ritorna all’alba del giorno dopo, alla stessa scena del primo atto in cui non c’è nessuno e l’armadio è mezz’aperto. Alla fine, si sentono tre passi netti nel buio, quelli di Dea spogliata che s’avvia verso il letto, poi si chiude il sipario. Psicologicamente si capisce che Dea è una donna “molto sensitiva” secondo quanto detto da Anna, la prima cameriera anziana, “molto corretta” che giustifica seriamente l’imprecisa personalità e la mancanza di spirito e d’intelligenza della sua signora senza mai meravigliarsene. È un fenomeno. Se ha un vestito vivace, è vivace [...] se ha un vestito timido, è timida [...] e cambia tutta, tutta: parla in un altro modo; è 5 M. Bontempelli, L’Avventura Novecentista, a cura di Ruggero Jacoppi, Firenze: Vallecchi, 1974, p. 510. 6 M. Bontempelli, Teatro, Vol. I, Milano: Mondadori, 1947, p. 50. 7 Giovanni Calendoli, “Il servo padrone di Rocca e la volubile Dea di Bontempelli”, in Fiera letteraria, 14 aprile 1957, p. 1. 8 Anna Barsotti, “Nostra Dea. L’automa liberty”, in Massimo Bontempelli. Scrittore e Intellettuale, Atti del Convegno. Trento, 18-20 Aprile 1991, a cura di Corrado Donati, Roma: Editori Riuniti. 254 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY un’altra [...] appena le infilo un vestito, di colpo è... è, come il vestito che le ho infilato9. In base a questa mutevolezza dinamica di carattere, non si sa precisamente come gli eventi (se ci sono) andranno avanti e secondo quali nessi logici o psichici si porranno a finire le scene d’amore di “una puerità assurda” dal momento che il punto di partenza è già illogico ed inverosimile. Fin dall’inizio si parla ambiguamente di una promessa tenuta da quella donna – protagonista multiforme, con una contessa di nome Orsa riguardo ad un incontro sospirato fra quest’ultima ed un ufficiale amato, all’insaputa del suo marito geloso. Il nodo sta nel fatto che Dea cambia il suo vestito di color tortora che la rende carezzevole, generosa ed idilliaca; ed indossa un altro di “squame verdi luccicanti ardentissime: l’abito finisce con una coda sottile a punta” (p. 126); cambiandosi in una personalità perfida che cerca di provocare il dolore negli altri. In seguito a diversi tentativi da parte di Vulcano, amico di Dea ed Orsa, si arriva a favorire l’incontro tra i due amanti. Poi, essa si mette una tonaca assumendo un tono ingentilito ed indulgente. Ciò fa impazzire Donna Fiora, la sua artista sarta e “grande fabbricatrice di divinità” (p. 148), che gliela toglie furiosamente e la fa vestire di nuovo in veste serpentesca, ma il capo diventa molto scompigliato e non vi sono più né la testa di rettile né le spire al collo. È una donna priva d’una sostanza umana per cui il domani e l’ieri non hanno nessun significato, ché appartiene solo al tempo presente infinito: è piuttosto un “Olimpo di dee belle” o “creatura di lussuria” (p. 147), secondo i romanzieri popolari. Essa si disincarna totalmente, il che le “leva qualsiasi spessore psicologico”10. Dea, pur avendo un sorprendente aspetto paradossale nei comportamenti, nei gesti e nelle parole, sembra suggerire la propria consapevolezza dei suoi cambiamenti: “Noi donne, basta un cappello per cambiarci la fisionomia” (p. 116). È uno dei personaggi femminili bontempelliani che in modalità diverse tende a “infrangere lo schermo del tempo naturalistico dell’esperienza e del senso comune, a spezzare il cerchio del suo pervasivo dominio, a respingerne il paradigma unilineare e irreversibile”11. 9 M. Bontempelli, Nostra Dea, in Nostra Dea e altre commedie, cit., p. 99. Aurora Cogliandro, “Valenza della musica in Nostra Dea e Cenerentola”, in Massimo Bontempelli. Scrittore e Intellettuale, cit., p. 274. 11 Giuseppe Bonifacino, “Drammaturgia del candore. Statuto e funzioni del personaggio femminile nel teatro bontempelliano”, in Donne e teatro. Seminario di studi, 23-24 aprile 2008 Settore, Facoltà di Giurisprudenza Piazza Cesare Battisti, Bari: Editoriale e Redazionale, 2012, p. 223. 255 10 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI In alcuni momenti appare, come già sopraccitato, una figura capace d’avere mille facce fra gentile, sibillina o sensuale; altre volte tende a configurarsi come simbolo di femminilità fra le più impensate e divertenti. Potrebbe essere interessante, poi, porre a raffronto due atteggiamenti nella famosa serata al “Poliedric Superbal”, che si muovono in direzione ostinata e contraria all’ordine, quelli di frate e di diavolo: Dea (dopo uno sforzo di memoria) Uh sono in peccato, ho cercato di allontanarli l’uno dall’altro, e dal peccato entrambi! (p. 142) Dopo si mette a predicare alla gente di sotto, consigliandola all’umiliazione, alla beneficienza ed alla fuga dalla “concupiscenza”. La voce vuota che è abituata a sillabare le parole dalla prima scena, parole che appartengono piuttosto al “vocabolario” metaforico dei manichini, ora annuncia sorprendentemente certe verità dell’animo umano. Se lo spunto iniziale della commedia è già intuito con uno stacco dalla norma, ormai ci si abitua ad imbattersi nell’equivoco. A tal riguardo, va messa in rilievo l’abilità dell’Autore del “realismo magico” nell’inserire allo stesso tempo elementi contrari nel meccanismo scenico e nelle varie situazioni fra razionale e concreto e realistico, o irrazionale e astratto e favoloso12. Non va, quindi, ridotta né a balletto né a dramma filosofico, come afferma il drammaturgo comasco nella sua nota a Nostra Dea13, in cui il gioco scenico risulta naturale e realistico, senza sottintesi surreali o atmosfere allucinate e scenari morbosi. Gli elementi che operano a sviluppare l’intreccio procedono in un rapporto reciproco tra il gioioso, l’ingenuo, il comico; il patetico, il fatale e l’estraneo. Con un potente sentimento di “pudore”, Bontempelli cercava di realizzare la comunicazione effettiva tra il testo ed un destinatario collettivo, facendolo accettare “l’aura paradossale”, e subendone l’effetto di retroazione: “Teatro è spettacolo”. S’interessa al pubblico, tenta di stabilire con esso un rapporto armonico ed avvincente, non crede più all’aristocrazia né alla cosiddetta “arte pura”. L’arte che vale di più è, secondo lui, quella capace di ragionare sull’esistenza e 12 Per un maggior approfondimento si veda Giorgio Pullini, “Bontempelli drammaturgo”, in Il teatro di Massimo Bontempelli, in Atti del convegno svoltosi a Como il 25 febbraio 1979 e pubblicati dalla Rivista Italiana di drammaturgia, IV, n. 13, settembre 1979. 13 M. Bontempelli, “Nota a Nostra Dea”, in Nostra Dea e altre commedie, cit., p. 167. 256 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY sull’essere umano; e di “dire le cose più sorprendenti e inattuali con piglio semplice”14. Semplicità, umanesimo candido, innocenza, intelligenza sono fra gli elementi più importanti che caratterizzano l’arte teatrale dello scrittore. Shakespeare, Molière, Leopardi, Pirandello sono vette assolute per l’atto creativo di sottrarsi alla legge del tempo, di contemplare l’uomo del tempo, strutturando situazioni e personaggi emblematici, carichi di significato. In concomitanza con questa prospettiva, Bontempelli si mette in veste dell’architetto, acquistandone due caratteristiche peculiari, (il mito e l’anonimità), alla ricerca di inventare similmente miti durevoli ed ispiratori per la coscienza popolare senza tener conto d’esservi legato perché l’importante è che abbia modificato quella coscienza: “L’architettura è l’arte ora in maggior fiore. Quella in cui abbiamo il maggior numero di operatori, il senso di una azione collettiva pronta a creare e imporre il linguaggio di tutta un’epoca”15. Dea, insieme ad altre donne bontempelliane, che cambia umore a seconda dell’abito che indossa, risulta un personaggio estraniante che, conservando la propria teatralità, non permette né l’immedesimazione né il transfert: in lei le cose finte sembrano vere e quelle vere sembrano, invece, più finte. Appare piuttosto una donna sogno, o “una donna luce e desiderio della vita, quella che ci passa accanto e non si ferma”16. Così, la sua femminilità volubile diviene preda nelle maglie d’un terrore incalzante, il terrore dell’alienazione, essendo inetta a svolgere un’attività riconoscibile nella sua tragica verità. Ritorna qui il discorso di Pirandello intorno alla perdita della individualità, al relativismo che annulla la consistenza dell’Io, al nulla incolmabile d’un reale rifiutato e non vissuto, e alla fiducia d’un mondo fuori di quello quotidiano (qui è quello del guardaroba). Cerca inermemente di diventare un personaggio vero e proprio (essa, invece, simboleggia piuttosto un’idea, è più di una “maschera”): Cara Dea, signora Dea, donna Dea! (Spalanca l’armadio) Dea, Dea, Dea, Dea... Quante dee. A scelta. A profusione. A volontà [...] Il profumo, ecco la vostra unità. (p. 147) Il dramma va oltre, accentuando l’incertezza della identità che ogni persona sembra cercare e trovare in se stessa: per la mancanza d’uno sguardo e d’una natura umana, Dea non può essere un motivo di sofferenza. Il che l’allontana 14 Ivi., p. 167. M. Bontempelli, L’Avventura Novecentista, cit., p. 76. 16 Arnaldo Momigliano, Saggio su l’Orlando Furioso, Bari: Laterza, 1967, p. 56. 257 15 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI “come su un altro continente dagli spazi abitati dai personaggi pirandelliani”17, essendo il prodotto della società in cui vive e della quale rispecchia i rapporti convenzionali. Sia per assurdità sia per “fredda ironia”18, Bontempelli denuncia l’ipocrisia umana, la facilità con cui gli uomini mutano posizione, il loro essere completamente condizionati dall’ambiente esterno. Le diverse maschere della protagonista sembrano suggerire che non ci sia un’unica realtà che, invece, ha mille sfaccettature ed in cui l’uomo si è degradato fino al livello della mercificazione19. 2. Con la sua anima inquieta e la sua indole anticonformista, il drammaturgo comasco sembra cercare nei paradigmi della sua fantasia un paradiso terrestre perduto, un nuovo mondo, interpretazioni più sicure e più vive per presentare al suo pubblico e comunicargli problemi più umani e più vicini alla propria natura, al di là delle divagazioni del mito o la semplice magia. La disponibilità vivace della propria intelligenza lo spinge a penetrare, in campi diversi, nelle pieghe della realtà umana scoprendovi la moralità dell’irrazionale, il senso dell’eterno, un’evocazione misteriosa. L’intelligenza, secondo lui, va ritenuta come la “confessione del mistero”, e questi non è altro che la sola realtà. Un gioco dell’intelligenza, si può definire, che penetra nella realtà umana, mostrandone le contraddizioni e proiettandola in una dimensione surrealistica: lasciamo che sia uno dei personaggi fra i più perplessi e disperati della commedia a rivelarlo: So che a qualcuno l’intelligenza vien fuori man mano che si avvicina la sera; ad altri, il contrario. (p. 120) E altrove: E ancora ho avuto una enorme voglia d’essere intelligente, molto intelligente, per accoglierla; di buttarle addosso un fascio d’intelligenza, di farle un’aria, tutt’intorno, qui... (ibid.) Tale senso poetico della realtà che emana dalle opere bontempelliane pone certi aspetti antitetici che prevalgono nella società capitalistica a lui contemporanea: 17 Ugo Piscopo, Massimo Bontempelli: per una modernità dalle pareti lisce, Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 2001, p. 339. 18 Adriano Tilgher, Il problema centrale: (Cronache teatrali 1914-1926), Genova: Edizioni del Teatro stabile, 1973, p. 344. 19 Cfr. Luigi Baldacci, “Ritratti critici di contemporanei. Massimo Bontempelli”, in Belfagor, n. 4, 1959, pp. 432- 445. 258 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY l’aggressività delle dittature e le carenze della “persona umana”, la crudeltà e la purità, il comando e la schiavitù in modo che l’uomo sia costretto a confondersi in “quella massa per necessità sociali, accettando di essere uno, nessuno e centomila”20. Fra mobilità ed immobilità, creatività e passività si sviluppa l’intreccio della storia fuori del consueto: Dea è l’unico personaggio che si crea un’atmosfera caotica con le sue diverse personalità, mentre gli altri sono legati a ruoli fissi ed immobili. Fanno eccezioni due figure isteriche: il Dottore in Medicina e la sarta. Il primo è ironicamente un personaggio serio e fanatico, pratica una nuova medicina, quella che cura i malati in absentia, e visita, in versione grottesca, piuttosto l’ambiente e gli oggetti, facendone una diagnosi “metacorporale” per scoprirne i sintomi più preziosi: Nessuno sta bene. Che cos’è una malattia? È una condizione, che protratta nel tempo e intensificata nel grado, porta alla morte [...] scientificamente parlando, uno più sta bene, più è malato. (p. 103) È un’allusione, sotto forma d’un delicato senso ironico, alla crisi dell’ambiente in cui l’individuo soffre l’ottusità della civiltà moderna e la vita meccanizzata, scandita dal ritmo delle macchine che lo disumanizzano. La donna che soffre di “disurria, sterilità ereditaria”, secondo la diagnosi del medico, “pur nel suo radicale metamorfismo”21, appare passiva e si lascia alla sorte, al caso. Con la sua inconsistente immagine – fantoccio non nega freudianamente ogni contatto con il mondo all’infuoro di lei, anzi riconosce come sua divinità il mito della moda diventandone una schiava. Questa signora celibe (ed è niente sotto il vestito) per cui gli amori fatali sono piuttosto banalità, rispecchia uno dei motivi di un’ispirazione poetica ed un’atmosfera spirituale già diffuse del tempo: la crisi del personaggio in quanto essere umano, il dissidio tra verità e finzione, vita e forma, la molteplicità dell’animo umano. Un sentimento, si può riassumere, di disagio ed inadeguatezza dell’individuo di fronte alla nuova situazione sociale, il che lo spinge, pur nel suo tentativo d’avvicinarsi ad una realtà “grottesca”, alla solitudine per la perdita di comunicabilità con gli altri. Se ne può trarre il senso d’alienazione per cui si ricorre a scoprire ciò che sta dentro le apparenze tangibili dell’ambiente come il medico che ausculta il bicchiere, i cuscini, la tenda, la tavola perché il medico, secondo lui, “deve poter comunicare in modo compiuto con l’ambiente del cliente” (p. 104). Si va, 20 Edoardo Fenu, Incontri letterari, Milano: Società Editrice “Vita e Pensiero”, 1943, p. 74. 21 Giuseppe Bonifacino, “Drammaturgia del candore. Statuto e funzioni del personaggio femminile nel teatro bontempelliano”, in Donne e teatro. Seminario di studi, cit., p. 223. 259 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI quindi, oltre gli schemi strettamente organizzati, con la speranza di ritrovarvi l’equilibrio ed il vivere quieto ormai perduti. Intellettualismo, idealismo e romanticismo sono molti e diversi, etichette ed atteggiamenti in un dramma patetico in cui predominano la negatività ed il senso dello straniamento. Dea è pirandellianamente un personaggio sdoppiato in più di un’incarnazione, non vive per sé, anzi prigioniera del gusto morboso e diabolico di comando della sarta. Quest’ultima ha un ruolo fisso ed immobile nell’opera , come gli altri personaggi che consentono la volubilità di Dea, quello di confezionare vestiti per i suoi clienti senza mai accettare da loro discussioni. È un personaggio comico e fanatico che spinge Dea sulla scena e “muove e ricrea gli individui senza scopo”22: Io vengo sempre, in incognito, a esaminare le signore che hanno vestiti miei, come li portano [...] Ne ho visto quattro. Due discrete. Una orribilmente [...] Domani glielo mando a prendere [...] e poi non glielo restituisco mai più [...] e mai mai avrà vestiti da Donna Fiora. (p. 139) Il momento liberatorio per Dea è quando si spoglia e diventa quasi senza anima, togliendosi gli abiti (le sue costrizioni fisiche e morali), ed assume un’altra personalità indifesa, quella sua: (è “in combinazione”, volta verso il pubblico; le sue braccia si fermano un po’ sollevate: movimenti meccanici: apatica, sillaba con la voce vuota leggermente in falsetto, del principio). (p. 150) 3. L’ultimo poeta o “profeta” del mistero, come lo definisce Luigi Baldacci, abbraccia evidentemente il leitmotiv di tutti i lavori di Pirandello23: il tema del mascheramento, il dramma dell’essere ciò che gli altri costringono a essere, l’ansia di verità e d’eternità. A proposito, Bontempelli mette in rilievo, discutendo la teoria della maschera, che “la poesia della negazione del mondo esteriore e d’ogni suo conforto” è “la tragedia dell’antimistica, rifiuto alla 22 G. Calendoli, “Il servo padrone di Rocca e la volubile Dea di Bontempelli”, cit., p. 1. 23 A. Bontempelli appare miracoloso, ed anzi misterioso come il gran drammaturgo siciliano sia riuscito “in una solitudine nuda e disperata, a rappresentare l’inquietudine, l’angoscia e la solitudine contemporanea”; Cfr. Gian Gaspare Napolitano, “La solitudine di Pirandello riflessa nelle lettere a Bontempelli”, in Corriere della sera, 11 febbraio 1962, p. 3. 260 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY contemplazione e alla rivelazione [...] il fenomeno spontaneo del mascheramento accade [...] in generale negli autori teatrali; perché il teatro è una presentazione più scoperta e spuria del fatto artistico”24. Dea, priva di un’esistenza autonoma, appare sfuggente al mondo degli uomini, quello delle apparenze, ed è più vicina a quello dello stato puro della natura (dei buoni bambini che lasciano fare). Filo conduttore del meccanismo trasformativo della signora viene rappresentato dall’Armadio che, in tal senso, non ha il ruolo dell’oggetto scenico percepito come esterno, va considerato, invece, come qualcosa che interagisce affettivamente con lei, un’entità effettivamente collegata alla sua persona. Peraltro, si può cogliere un fascino ineffabile che deriva da questa femminilità misteriosa: “continuamente suscettibile di poter divenire il massimo modello di attrazione che idealmente ogni essere umano desidererebbe avere con sé e per sé”25. La donna, sprovvista di soggettività e linguaggio proprio, diventa oggetto di seduzione per i suoi due “amiconi”: Vulcano e Marcolfo, che la rievocano diversamente, descrivendola nostalgicamente; invece, lei non si mostra così come la vogliono vedere. Esce sulla scena come una regina sempre nuova, capace dell’incanto della sua bellezza di mutare l’intelligenza degli altri in un meccanismo di desiderio. Al primo piace infinitamente Dea dolce, timida, tenera e sottomessa, vestita in color grigio-gola-di-tortora, che parla con una voce pianissima e guarda con “certi occhi umidi”. Una figura, insomma complementare delle sue virilità ed intelligenza d’uomo. La disinvoltura e la superiorità della propria persona celano quanto di tragico ed idillico nel suo animo: nell’ultimo atto rivela con tutta la sua lontananza intelligente, nel suo ragionamento in un monologo denso e significativo, il suo profondo amore per lei: Vieni, torna, torna a me [...] ti farò giocare con i miei pensieri, vuoi? Col mio cuore, prendilo, ma torna, schiava prodigiosa. (p. 149) Al second’uomo piace molto Dea viva, la donna – terremoto come la definisce Bontempelli, quella luminosa e “stupendamente aggressiva”, vestita in tailleur rosso vivace, con la sua apparizione folgorante come un raggio di sole. Ella complementa la mancanza d’una psicologia precisa dell’uomo innamorato della sua bellezza incantevole quando la incontra al bar il giorno prima. Marcolfo è comico, timido e sensibile che comincia un dialogo molto 24 M. Bontempelli, “Teoria della maschera”, in Il Popolo di Roma, 22 novembre 1940, p. XIX. 25 Luigi Fontanella, Il surrealismo italiano, Roma: Bulzoni, 1983, p. 150. 261 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI desiderato con lei, pensando di manipolarla facilmente con la sua inaspettata intelligenza, ma ne rimane manipolato: Marcolfo (con infinita tristezza) Se tutto quello che le piace, le piace come questo tè, quasi rinuncio a piacerle. (p. 118). Questo dialogo del tè è destinato ad essere bloccato quando l’uomo, innamorato disperato, s’accorge interiormente dell’“impotenza morale e sentimentale” di Dea “sempre inerte”, e fallisce nello scambiare parole amorose con lei. Un’improvvisa malinconia lo invade perché non riesce a capire il mistero della donna, né il gioco allegorico delle parole che sostituisce le azioni. Analogamente nella struttura del dramma pirandelliano si passa dal dialogo al lungo monologo interrotto, a tratti, da didascalie che rivelano gli atteggiamenti e la gestualità dei personaggi, e per cui cogliamo la drammaticità della scena. Marcolfo, quindi, non ha potuto trasformare la donna nella figura dei suoi sogni. Vulcano, al contrario, fa il ruolo dall’attore ad un raisonneur di un “dramma psicologico moderno”, fino allo scenografo e regista ed anche spettatore. Nel suo sforzo di prendere le distanze da “eventi o fenomeni che altrimenti lo coinvolgerebbero troppo profondamente”26, sapendo già dall’anziana cameriera la natura metamorfica di Dea, si mette a manipolare, nel quarto atto, il finale della trama dell’incontro fatale fra la contessa traditrice ed il suo amante: egli propone tre ipotesi tra il lieto fine, la tragedia, e la favola senza fine che si lascia aperta ad un pubblico intelligente. Gli altri vari personaggi minori, che svolgono diversi ruoli nella commedia, essendo troppo ingenui e influenzabili, sono spesso colpiti da una labilità psicologica ed emotiva, e giocano ruoli non marginali, facendo parte della vitalità teatrale soprattutto nella loro apparizione rapida e reiterata. Ne sono dimenticabili la figura del comico Servo vecchio del gran ballo, ch’è sempre a occhi chiusi durante il suo servizio e “leggerissimamente russando”; ed il domestico impassibile di Marcolfo. È Eurialo che ha la funzione di vestire e svestire il suo signore volubile anche lui (in giacca di pigiama prende un atteggiamento amletico: “Verrà? Non verrà? Ecco il problema.” (p. 113); e magari gli darebbe un suggerimento per risolvere il problema della doppia visita del dottore e di Dea: L’uomo è fatto di anima e corpo. Ella ponga il corpo sotto il dominio dell’anima. È il solo rimedio possibile in questi tempi calamitosi. (p. 115) 26 A. Barsotti, “Nostra Dea. L’automa liberty”, cit., p. 246. 262 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY Nessuno sarebbe, peraltro, così ingenuo da pensare che dietro quei dialoghi e monologhi in cui non si arriva mai ad un rapporto interumano, non ci sia una chiara funzione teatrale: tutti questi personaggi “a corollario”, la cui fisionomia è “più cinematografica che teatrale”, ruotano attorno all’ambigua identità della protagonista che, libera da intellettualismi o convenzioni, non si rende conto delle cose meschine dell’esistenza e le guarda come smemorata. Dea non ha idee e non le piacciono mai le spiegazioni né può soffrire le donne: il suo linguaggio sembra non umano ed il tono della sua voce è condizionato dal colore dell’abito che porta. Il colore del vestito è di color rosso chiaro vivace, la voce diventa calda squillante, e la luce entra di “gran sole”; ed in armonia con l’atmosfera interna della scena è lo stato d’animo della donna, pieno di “vivacità, giovanilità, baldanza”. Quando si mostra sulla scena in una princesse di color gola di tortora, diventa “lascivamente lenta in tutti gli sguardi, mosse, voci” (p. 110), e la luce è anch’essa dolce e “lievemente azzurrina”. Marcolfo sbaglia cercando di coprirla tutta con uno scialle grande di color cenere in fine al loro dialogo, forse nel tentativo di farle riscoprire la propria persona, insicuro ancora della vera natura di questa donna che sembra più che una donna vera un essere d’altro mondo. Succede che Dea non c’è più, stanchissima, come se fosse “un soffio, quasi da un’improvvisa lontananza, e così sino alla fine dell’atto” (p. 121); mentre la luce chiara ma discreta continua ad attenuarsi fino ad “un grande abisso d’ombra”. La donna balbetta (“I – o”, “i – o...”), cercando di crearsi una sua personalità, ma diventa più insignificante e quasi senza volontà e coscienza: Bontempelli sembra affermare in un’altra sua opera intitolata Cenerentola (1942), che “Il fatismo deve cominciare dal vestito”27. 4. In questa poetica dell’oggetto in cui colore e luce ed ombra, forma e massa, spazio e ambientazione divengono poco più che suggestioni, il tutto contribuisce ad accentuare il giuoco del mistero d’una signora multi-anima il cui nome evoca anch’esso “un fascino arcaico”28. Quelle sagome, inoltre, (i camerieri, gli amici, il corteo d’uomini e donne, i servi) sfumano una dentro l’altra in una fusione di luci e colori; ma l’Oggetto rimane nella memoria dello spettatore come forma stabile e primaria, elemento – base di una poetica che non prescinde dalla realtà. Un’altra scena del terzo capitolo accentua il senso d’estraneità che sfugge ad ogni contesto, quella in cui Vulcano strappa la testa serpentesca e la coda a Dea ardente, lanciandole violentemente traverso la scena nella festa carnevalesca “giù tra la gente, che di sotto urla più forte” (p.144); e getta 27 M. Bontempelli, Cenerentola, Roma: Cometa, 1942, p. 22. Paolo Puppa, “Per una metascena intensa e operosa”, in Massimo Bontempelli. Atti del Convegno. Trento, 18-20 Aprile 1991, p. 228. 263 28 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI addosso alla donna un domino lacero lacerandolo ancora di più. Il capo dell’amica ne esce più che mai scompigliato, ed essa cessa di sibilare come prima, si mette a singhiozzare in un angolo sulla terra. Come un mendicante comincia a chiedere l’elemosina, e Vulcano stupefatto, non smette di guardarla ansimando. Di nuovo, la protagonista proteiforme ritorna un oggetto vacuo, una marionetta senza carattere, volontà, o individualità. C’è da rivelare che esiste una parentela tra questa figura apparentemente burlesca, ma “forse non è da ridere” ed il topos dello smascheramento metateatrale, già esplicito del teatro ottocentesco cui appartiene ancora la dimensione metateatrale del testo celebre del drammaturgo austriaco Arthur Schnitzler29. L’estraneità della protagonista bontempelliana è nel suo estremo isolarsi da tutto il mondo (relativo) e nel respingere tutte le verità assolute dell’esistenza, non per uscirne con un ideale cui ci si è lungamente consacrati. È perché Dea simboleggia un caso non tanto complesso quanto stravagante in cui valgono più i valori ed i sentimenti umani che le verità dei dati prefissi oggettivi. Una creatura, come la definisce la Urgnani, vicina “ai limiti dell’umano [...] un simulacro [...] così l’autore le attribuisce qualità che stanno a metà fra (il virtuoso) ed il paranormale”30. Vive in un suo mondo astratto, così diverso da quello cui gli altri d’improvviso la richiamano, “materializza” un mondo alla rovescia nel quale solo l’escluso o lo straniero riesce a vedere chiaro: lei approva ed insieme gli altri scoprono nella sua figura che nel loro mondo esteriore (quello borghese) l’abito fa il monaco. Inoltre, lo spazio scenico in cui entra quel corteo di Uomini e Donne alternati ed accompagnati da musica con sapori di jazz, che marciano gridando in coro, in un ritmo eccitato, puerile e nevrotico, accelera la trasformazione della protagonista in più d’una personalità in una specie dello spettacolo dell’assurdo che gli altri ammettono come aspetto comune della realtà. Da tale avventura irridente del travestimento si può ricavare il senso dell’incomunicabilità fra gli esseri umani, la consapevolezza dell’assurdità della realtà, la falsità dei rapporti umani, sofferenze queste che turbano l’anima umana. Dea, a differenza delle altre figure femminili bontempelliane, non può essere simulacro di virtù astratte muliebri (maternità, innocenza, fede, carità), 29 Arthur Schnitzler pubblicò nel 1906 la trilogia Marionetten, comprendenti tre atti unici: Der Puppenspieler (Il burattinaio), Der tapfere Cassian (Il valoroso Cassian), Zum grossen Wurstel (Al grande teatro dei burattini). Cfr. la traduzione italiana: A. Schnitzler, Marionette. Tre atti unici, traduzione di G. Farese, Milano, 1988. 30 Elena Urgnani, Sogni e Visioni. Massimo Bontempelli fra surrealismo e futurismo, Ravenna: Longo editore, 1991, pp. 131-132. 264 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY anzi una creatura debole che ha sempre bisogno di protezione. Chi cerca, sedotto ineffabilmente dal suo essere “assoluto”, di avvicinarle obbedendo ad una attrazione magnetica, rimane attaccato ad un corpo dotato di una ragione ed un’espressione mimetica più che articolata come se fosse in “un’aura soprareale”. Quella forza misteriosa, capace di produrre un effetto inguaribile sulla persona di Dea, nasce dall’“abito magico” che cambia ogni tanto: le fa acquistare la maschera del personaggio di cui esprime con tutte le sue sensazioni, le sue caratterizzazioni linguistiche: Sì mi sta bene: sembro un giovinotto [...] Vorrei andare a cavallo. Vorrei essere un uomo, per non essere obbligata a prendere sul serio le donne [...] Sono dei complicati malinconici. (p. 95) In questa sorta di robot animato nell’alternarsi tra la vestizione e la svestizione, Bontempelli si guarda bene a non cadere “nel legnoso e marionettisco”, dà la carica ad un archetipo di bellezza intangibile cui risponde con una profonda armonia la sua apparente mancanza di un’anima personale e di una presenza emotiva. Egli tende a teatralizzare pensieri, desideri, parole, colori, luci, gesti come soggetti che fanno parte dell’azione scenica. Così la “comoedia”31 bontempelliana non sbocca in una pura favola o un’evasione fantastica, data la cautela con cui l’autore ricorre all’uso sistematico della maschera e dello specchio i quali sì non sono soggetti alle leggi del reale, ma aprono la via ad uno spazio ed un tempo diversi cui si aspira alla libertà del vivere in un mondo autentico senza un “così è se vi pare”, ben lungi dal “fingere di essere”, dall’essere o non-essere, per arrivare, infine, ad una vita più piena, ad un assoluto che sembra irraggiungibile. Aspirazione all’assoluto cui tendono altri autori a lui contemporanei come Pirandello e Rosso di San Secondo, partendo da un relativismo “ontologico”. Questa tematica fondamentale che prevale nella produzione teatrale e letteraria moderna, viene ripresa tanti anni dopo per esprimere la crisi dell’uomo contemporaneo, come rivela Italo Calvino ne I Nostri Antenati (1960): “Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva essere ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla”32. 31 È il titolo dato all’opera nel 1̊ agosto 1925, Mondadori; nelle prime edizioni a stampa è “commedia”; “commedia moderna” è, invece, nel programma di Sala del Teatro dell’Arte; e nelle ultime due stampe è intitolata “commedia storica”; cfr. A. Barsotti, “Nostra Dea. L’automa liberty”, cit., p. 246. 32 Italo Calvino, I Nostri antenati, Torino: Einaudi, 1960, p. XVI. 265 LA MASCHERA DELL’ABITO IN NOSTRA DEA: COMMEDIA “STORICA” DI MASSIMO BONTEMPELLI 5. Fra le tecniche del linguaggio comico, come si sa, vanno ricordati l’uso metaforico dei verbi, di trovate e nomi buffi, la ripetitività di situazioni d’insuccesso o il senso esagerato scaturito da situazioni di contrasto. Bontempelli mette in risalto che l’ironia di Pirandello “è la forma artistica del pudore al cospetto dei nostri sentimenti, è un modo di [...] liberarci da un’aderenza troppo minuta con le superfici delle cose”33. Egli ricorre in senso pirandelliano, in Nostra Dea, all’ironia come tecnica teatrale, basata sui segnali della suspense, sull’intreccio e sulle reazioni inaspettate, che gli permetta d’andare oltre la realtà, cui è ugualmente ancorato. È un mezzo per accentuare i particolari apparentemente minimi ed insignificanti, con uno sguardo straniatamente ironico e caustico, tale da renderlo capace d’introdurre confusione nelle abitudini umane, disordine nel ritmo monotono e convenzionale della quotidianità, “bombardare” cioè la realtà “con le saette dell’ironia”34. Egli è un commentatore sottile del costume e delle strutture della civiltà borghese; e partendo dall’idea dell’ironia come virtù illuminante e fautrice tra due elementi fondamentali della narrazione: il “pensiero puro” quale la ricomposizione intellettuale e l’“espressione pura”, l’intuizione e l’immaginazione lirica dell’opera, egli dà prova del carattere buffonesco della tragedia rappresentata. Ne erano ben consapevoli, secondo lui, anche i Greci, i cui mascheroni che portavano sul volto non sono altro che “grosse smorfie caricaturali del pianto e dello spavento”35, malgrado la prevalenza del dolore e del tragico sul comico nella loro arte. Un altro elemento saliente nella commedia è l’innesto della musica del jazz per cui Bontempelli aveva un’entusiastica ammirazione. È una nuova musica rivoluzionaria ed incline all’imprevedibilità in favore della quale egli scriveva con un pezzo di prosa d’arte, in diversi luoghi36 fra cui va ricordato il “900”, rivista aperta alle tendenze più nuove della cultura contemporanea. Il jazz ed il valzer lento vengono inseriti nei Balli del terzo atto prima che s’apra il sipario al “Poliedric Superbal”: nella prima scena la musica accompagna l’entrata della fila d’uomini e donne mascherati; nella seconda scena inizia con la conversazione aspirata di Marcolfo con Dea ed il tranello che quest’ultima tesse contro i due amanti; nella terza scena sviluppa l’idea che Dea è molteplice tra 33 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 15. E. Urgnani, Sogni e visioni. Massimo Bontempelli fra surrealismo e futurismo, cit., p. 66. 35 M. Bontempelli, L’avventura novecentista (dicembre 1922), cit., p. 337. 36 ID., “Morale di Jazz”, in Carovane Immobile, 900, I, 2, inverno 1926, pp. 5363. 266 34 MARWA ABDEL MONEIM TANTAWY cattiva, meschina e dama. Alla fine dell’atto, tutti i rumori cominciano ad attenuarsi e con l’ultimo “cessa anche la musica. Silenzio totale” (p. 145). In questo gioco scenico non sono tutti divertiti dal ritmo musicale: c’è chi è in continuo disprezzo cercando di appartarsi per poter dormire tranquillamente come il Servo vecchio; la sarta infuriata che emette un urlo immane; gli altri urli che vengono dalla sala di fondo; e l’indifferenza di Vulcano atterrito che corre quà e là per frenare lo spirito malvagio di quella pantomima movente. Se ne può trarre il valore dell’elemento musicale non solo come una necessità del pubblico di massa, ma soprattutto come un mezzo di comunicazione, capace d’esprimere sentimenti ineffabili, fissare “la situazione drammatica”37, sottolineare l’impersonalità della protagonista. Vale a dire modellare, come lo definisce Bontempelli, esperto musicologo, e ricreare sensibilmente e fisicamente il “paesaggio umano”; ed armonizzare “il peso specifico che ogni parola possiede in sé”38. Fra gli elementi non meno interessanti che costituiscono la ricerca assiduamente umana del drammaturgo comasco è quello della pietà che incute, a volte, nello spettatore un forte senso di compassione per quel volto di persona “in preda a un’angoscia dell’anima”39. Pietà, cioè, alimentata dal senso della miseria dal considerarla un fantoccio umano, e da quello dell’angoscia per la donna involontariamente prigioniera dell’assurdo e del paradossale. Nostra Dea è accolta con maggior calore di consenso in Italia ed anche fuori, e rappresentata in diversi Paesi europei, ma non ha avuto lo stesso successo. A Varsavia, a Madrid, a Praga, a Budapest, a Bucarest ha ottenuto un buon successo, ma in Italia dopo il 1925, in cui si replicava per venticinque sere, non è stata recitata mai più. Lasciamo che sia Marta Abba, la famosa attrice che ha creato Dea in grande stile, ad affermare la regia miracolosa di Pirandello e l’unità armoniosa fra aspetti contradditori del testo: “Fu un trionfo, Un trionfo per Bontempelli, per Luigi Pirandello, per il Teatro e per me”40. __________ 37 A. Cogliandro, “Valenza della musica in Nostra Dea e Cenerentola”, cit., p. 274. 38 Cesare Vico Lodovici, “Massimo Bontempelli nel teatro del 900”, in Scenario, n. 6, giugno 1941, p. 239. 39 M. Bontempelli, “Il dolore comincia con l’uomo”, in L’Unità, 26 novembre 1953. 40 ID., “Nota a Nostra Dea”, cit., p. 163. 267