Essere - Conoscere - Agire. I presupposti teoretici dell’antropologia rosminiana11 MARKUS KRIENKE 1. Introduzione Il metodo filosofico di Rosmini viene spesso riassunto nella sintesi tra il pensiero anticomedievale e quello moderno. Questa breve “formula” non è affatto sbagliata anche se ancora nasconde la vera problematica metodo logica del “progetto” rosminiano: ossia come deve essere possibile una tale sintesi tra due paradigmi metafisici che sembrano incommensurabili tra di loro. È appunto in questa questione che è da riconoscere la vera sfida del “programma” di Rosmini, cioè di riformulare all’interno del paradigma moderno quell’apporto del pensiero tradizionale che il Roveretano vuole dimostrare valido anche nella modernità. Per questo, al grand’elogio che egli rivolge innanzitutto a San Tommaso si associa immediatamente la critica a quelli che si limitano a “ripetere” aridamente il suo pensiero - con formule e definizioni che non gli sembrarono solo “antiquate” ma piuttosto “riduttive” o, per mancata “traduzione” nella modernità, addirittura “sbagliate”: come Rosmini sottolinea anzitutto nelle opere Il razionalismo teologico e Il linguaggio filosofico, questi abusano della loro autorità perché non considerano il rischio di fraintendimento che in tal modo causano presso chi li ascolta. Una tale “filosofia cristiana” - che fraintenderebbe l'attributo “perenne” - non si dimostrerebbe solo “fuori luogo” ma addirittura controproducente. Questa riflessione metodologica, in sostanza, sfocia nell’approccio filosofico di Rosmini formulato negli anni ‘30, cominciando con il Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830) e con i Principi della scienza morale (1831), lavori che hanno trovato un significativo seguito nel 18362. Due testimonianze epistolari risalenti a questo periodo ci confermano la sua profonda intenzione di voler rinnovare la tradizione scolastica3 attraverso un serio confronto, senza compromessi, con Kant e con gli idealisti4. L’elaborazione della teoria della conoscenza e della filosofia morale nel periodo suddetto sfocia in una prima sintesi nell’Antropologia morale del 1838, che si basa sui concetti teorici elaborati nel 1830/31 e declina il concetto di uomo ontologicamente come sintesi tra essere (sussistenza), conoscere (idealità) e agire (moralità) sotto quel «principio supremo» che è la persona. Non a caso, quest'opera contiene una delle prime - e poche - critiche esplicite del Roveretano alla tradizione aristotelica: «[d]icendo solo “un animale ragionevole”, si esprime la parte intelligente di questo animale, ma non la parte volitiva, che pure entra anch’essa a costituire l’essenza dell’uomo. […] Egli è dunque uopo, che nella definizione dell’uomo venga notata ed espressa anco la volontà, che è la parte 1. In: Studia Patavina, Anno LVI – 2009 – N. 3, Settembre-Dicembre, p. 577-5596 2. Ossia con le opere Il Rinnovamento della filosofia in Italia proposto da C. T. Mamiani della Rovere ed esaminato da Antonio Rosmini Serbati, e Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale. 3. «[…] malgrado che la scolastica fosse ciò che di meglio era stato pensato al mondo, secondo il mio parere, ella non si può più rimettere in piedi con quelle forme che avea prima del suo decadimento. […] Anche considerata nel suo miglior tempo, la Scolastica avrebbe bisogno di nuovi sviluppi, di nuove applicazioni, e del non camminare co’ bindelli alle spalle» (Lettera ad A. Riccardi del 13.02.1833, in: Epistolario completo di Antonio Rosmini Serbati prete roveretano, 13 voll., Giovanni Pane, Casale Monferrato 1887-1894 [d’ora in poi: EC], IV, 503). 4. «[…] sono persuaso […], che per gl’ingegni forti e che non punto vacillano nella fede, riesca di vantaggio incredibile la lettura delle opere di Kant, Fichte Schelling ed Hegel: innalzano veramente lo spirito; ma facilmente ancora lo insuperbiscono» (Lettera a E. Belisy del 13.02.1839, in: EC VII, 55). 1 attiva di lui, nella quale […] risiede propriamente la umana personalità»5. Secondo l’analisi di Rosmini, le concezioni che si basano sulla definizione aristotelica di Boezio, non possiedono gli strumenti sufficienti per inquadrare nel concetto di uomo la dimensione della ragione pratica e cioè della soggettività, declinata invece dal pensiero moderno di Kant e dell'idealismo. È precisamente questo l’aspetto positivo che Rosmini accoglie dalla modernità, integrandolo costitutivamente nella definizione classica, con la sua concezione sintetica dell’uomo: «un soggetto animale, intellettivo e volitivo»6. Come si evince subito da questa definizione, chiarire i «presupposti teoretici dell’antropologia rosminiana» significa ricostruire il retroterra sistematico-speculativo di questa definizione. Rosmini riconosce la più importante correzione della formula boeziano-aristotelica in alcuni esponenti della tradizione filosofico-teologica medievale - massimamente in Agostino e Tommaso7 e in quel filone del pensiero moderno che, in chiave di «esse morale»8 e «ragione pratica», riflette, anche se non sempre in maniera equilibrata, su quella istanza che costituisce l’apporto filosofico principale del cristianesimo: la persona. Contemporaneamente, Rosmini analizza acutamente i problemi del paradigma moderno e non trasferisce la “competenza metafisica” alla ragione pratica, ma la poggia equilibratamente sulla ragione teoretica e pratica, interpretando “ratio” e “voluntas” in un sintetismo ontologico: essere conoscere agire. Con questa svolta paradigmatica, sia rispetto al modello classico che rispetto a quello moderno, Rosmini riesce a far interagire l’antropologica classica con i momenti centrali della modernità: volontà, libertà e moralità, ossia personalità e soggettività individuale. Secondo la sua interpretazione, proprio in queste dimensioni la modernità realizza un momento autenticamente cristiano che nel paradigma “ellenico” della “filosofia cristiana”, dominante nel medioevo, non si poteva evolvere9 - se non all’interno del trattato ben definito De Deo trino (STh I 27-43) che non incideva sulla teologia razionale (STh I 2-26) o sull’ontologia10. In altre parole, per Rosmini il senso della “filosofia 5. A. ROSMINI, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Città Nuova, Roma 1981 (d’ora in poi: AM), 27s. 6. AM 34. 7. Riproponendo la sistematica aristotelica, la teologia si vincolerebbe, così la critica rosminiana, ad un ontologia greco-antica (quella aristotelica) invece di svolgere una riflessione sulle esigenze cristiane: Rosmini vede la definizione aristotelica «angusta come sono anguste tutte le risposte aristoteliche, le quali si veggono manifestamente derivate non dalla considerazione degli enti in universale, ma dalla considerazione parziale e limitata degli enti corporei» (AM 784; cfr. 31, 33; cfr. A. ROSMINI, Psicologia, 4 voll. a cura di V. Sala, Città Nuova, Roma 1988 [d’ora in poi: Psicol., 223s.); cfr. in merito T. KOBUSCH, Christliche Philosophie. Die Entdeckung der Subjektivität, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2006, 139. 8. La tradizione dell’esse morale nasce nel Medioevo contro le definizioni aristoteliche della persona da parte di Boezio e di Riccardo di San Vittore. Inizialmente, è stata la inutilità di tale paradigma per la cristologia a far dubitare alcuni pensatori medievali della sua consistenza teoretica. Faustus Riensis e Agostino come ispiratori remoti e soprattutto il francescano Alessandro di Hales hanno elaborato la distinzione tra «persona» e «sostanza», secondo la formula: «persona res iuris est, substantia res naturae» (FAUSTUS RIENSIS, De Spiritu Sancto, II, 4 [CSEL 21, 139]). Secondo la tesi di Kobusch, nasce da questa intuizione un filone di pensiero, situato soprattutto nella tradizione francescana (Bonaventura, Duns Scoto), che giungerà fino alla definizione della «dignità umana» in Kant (cfr. T. K OBUSCH, Die Entdeckung der Person. Metaphysik, der Freiheit und modernes Menschenbild, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19972, 23-157). 9. «Eppure non ci può essere alcun dubbio sul fatto che il concetto stesso [dell’uomo interiore e della soggettività; aggiungo: della personalità, M. K.], fu introdotto nel nostro mondo da Platone, che fu usato già prima del cristianesimo, anzi che la Stoà ha concepito una filosofia dell’uomo interiore. Tuttavia deve essere attribuita al cristianesimo, o meglio alla filosofia cristiana, la scoperta dell’interiorità dell’uomo [e cioè della soggettività e della personalità] come un tema proprio della filosofia. Scoprire non vuol dire semplicemente accorgersi di qualcosa. Non i vichinghi hanno scoperto l’America ma Cristoforo Colombo» (T. K OBUSCH, Christliche Philosophie, cit., 18). 10. Cfr. K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana, a cura di M. O. Nobile Ventura, Città Nuova, Roma 19962, 21s. 2 cristiana”, fondata da Agostino e Tommaso, consiste piuttosto nel confronto con alcuni pensatori moderni che non in un ritorno alla metafisica aristotelica. Per quanto questa tesi si confermi in modo inequivocabile nell’Antropologia morale, è il nostro compito presente ricavarne gli argomenti sistematici attraverso un’analisi dettagliata delle due opere Nuovo Saggio e Principi. 2. Essere, conoscere, agire 2.1 Il «Nuovo Saggio sull’origine delle idee» Anche se Rosmini nel Nuovo Saggio cita Agostino e Tommaso più che tutti gli altri autori, la sistematica di quest’opera è profondamente moderna, ossia kantiana. Rosmini concepisce la conoscenza come “giudizio” e spiega: «Essendo il Kant pervenuto a conoscere che qualunque funzione del nostro intendimento si riduceva finalmente ad un giudizio; egli poté vedere, in un modo più generale e più profondo di tutti gli altri moderni filosofi che l’hanno proceduto, dove giacevasi la difficoltà nello spiegare l’origine delle umane cognizioni»11. La percezione sensibile non fornisce “oggetti” ma sensazioni; invece è la ragione che ci presenta gli oggetti, come risultato di quella sintesi fondamentale che è il «giudizio». La funzione del giudizio, in tale chiave, è di istituire una unità oggettiva nella molteplicità della sensazione, costituendo quindi l’oggetto sotto l’unità sintetica della coscienza tramite le categorie (ossia: secondo il tipo del giudizio). Il fatto che queste funzioni logiche non possano essere dedotte dalla realtà fenomenica costituisce la distinzione metodologica dei due ambiti incommensurabili della percezione sensibile, da un lato, e della conoscenza razionale, dall’altro: «Il merito principale del Kant sembrami quello d’essersi avveduto, meglio d’ogni altro filosofo moderno, della essenziale differenza tra le due operazioni del nostro spirito, il sentire e l’intendere»12. Il punto problematico nella teoria di Kant, che Rosmini intravvede perfettamente, è l'impossibilità di «comprendere» l’unità tra sensibilità e intellezione, ossia, in altre parole, la possibilità della sintesi tra elementi eterogenei13. Il “progetto” gnoseologico di Rosmini è (1°) di riuscire, riproponendo la dottrina classica dell’intuito a-priori dell’essere, a risolvere le problematiche soggettivistiche che stanno alla base di questa impasse gnoseologica in Kant; e (2°) di declinare contemporaneamente, attraverso la ricezione positiva di quest’istanza soggettiva di Kant, il momento centrale della gnoseologia di Agostino e di Tommaso con gli strumenti del pensiero moderno ossia di trattarlo in relazione a quel luogo sistematico dove la conoscenza realmente avviene: il soggetto. Innanzitutto, se Rosmini adopera nella gnoseologia la sistematica del «giudizio», egli non lascia alcun dubbio sulla svolta paradigmatica che intende realizzare rispetto alla Scolastica: l’intelletto, per Rosmini, non è l’intellectus agens di San Tommaso nel senso del lumen mentis ossia della prima conceptio entis, per cui esso si volge sulla species impressa dalla quale astrae l’intelligibilis in sensibili e riceve in tal modo a posteriori o passivamente l’essenza della res conosciuta14. Piuttosto – “kantianamente” - l’intelletto per Rosmini è una prima “attività” trascendentale in quanto «facoltà dei 11. A. ROSMINI, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, 3 voll., a cura di G. Messina, Città Nuova, Roma 2003-2005 (d’ora in poi: NS), 341; cfr. ibid. 342, 44; cfr. KrV B 75. 12. NS 340; cfr. 366. A questo punto, Rosmini penetra «analiticamente» in quella sintesi tra sensibilità e intellettività che in San Tommaso è inseparabile: per San Tommaso, « [l’]uomo ha una intellettività sensibile e una sensibilità intellettiva» (R. HEINZMANN, Thomas von Aquin. Einführung in sein Denken, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln 1993, 49). 13. Ci sono alcune affermazioni di Kant, in cui mostra di aver intravisto questo problema (ad es. Lettera di Kant , a J. H. Tieftrunk del 11.12.1797 [Akademie-Ausgabe, XII, 224]); cfr., su questo punto, anche D. HEINRICH, Identität und Objektivität. Eine Untersuchung über Kants transzendentale Deduktion, C. Winter, Heidelberg 1976. 14. Cfr. De ver X, 5. Questa passività per la quale l’intelletto è riferito a tutto ciò che è, viene espressa da Tommaso con l’intellectus possibilis: «hanc solam naturam habet, quod est possibilis respectu omnium» (in De anima III, 7). 3 concetti» (Vermögen der Begriffe) che costituisce la condizione di possibilità della conoscenza15. Come prima conseguenza, da questa impostazione della conoscenza discende una - implicita ma forte - critica all’aristotelismo nella teoria della conoscenza in San Tommaso. In quanto quest'ultimo ha pensato il rapporto tra intellectus agens ed intellectus passibilis sulla falsariga dello schema «atto-potenza», egli avrebbe basato la sua impostazione della conoscenza su un presupposto che in ultima analisi si dimostra tutt’altro che consono alla “filosofia cristiana”: infatti, per San Tommaso, l’intelletto umano si caratterizza come “mensuratus non mensurans”16, perché è formalmente misurato dalla prima intuizione dell’ens e materialmente dal realismo delle res percepite. Per Rosmini invece, da un lato, la ratio umana è “mensurata” in quanto la conoscenza umana si svolge all’interno di un’impostazione categoriale che essa non ha “creato” ma che le è impressa in quanto è sempre una razionalità “creata” - le è innato un a-priori intellettivo che la costituisce. In quanto, dall’altro lato, essa è in tal modo passivamente “impostata”, cioè orientata rispetto ad un criterio che non si conferisce da sé, diventa, nel momento della conoscenza concreta e reale, “mensurans”, cioè attiva nella conoscenza delle cose, poiché attraverso la sua categoricità essa dà la norma alle cose in quanto conosciute: sicuramente non le «misura» nel loro “contenuto reale” (Realitätsgehalt), ma senz’altro nella loro “determinazione oggettiva” (objektive Bestimmung). Per Rosmini, la costituzione antropologica dell’uomo “immagine di Dio” si esprime piuttosto in tale “funzione” attiva dell’intelletto umano nella conoscenza che non in un’impostazione aristotelica. Come noto, Rosmini distingue nel Nuovo Saggio tra teorie che sono «false per difetto» e teorie che sono «false per eccesso»17. Rifiutando completamente le prime in quanto non presentano alcun approccio per la soluzione del problema della costituzione dell’a-priori della conoscenza, il Roveretano analizza dettagliatamente le teorie che sono «false per eccesso»: quelle che si basano su un apriori intellettivo, anche se lo sopravvalutano, e danno di conseguenza troppo poca importanza al lato soggettivo-reale della conoscenza (all’esperienza “sensibile” ossia “fenomenica”). Nel novero di queste teorie si trovano, accanto alle filosofie di Platone e Leibniz, anche quelle di Aristotele e Kant. Degno di nota ci sembra il fatto che Rosmini, per quanto riguarda Aristotele, nota, ma non ritiene decisiva, la sua contrapposizione teorica a Platone. Anche se Aristotele rifiuta il “cielo delle idee” platonico e basa la conoscenza sul rivolgersi primario alla percezione reale (conversio ad phantasmata), l’intelletto astrae comunque dalla realtà le forme già staticamente insite negli oggetti reali. Per Rosmini, questa trasposizione del luogo delle “idee” dal “cielo” alle “cose” non cambia niente per il problema sistematico dell’«origine delle idee». Rimane sempre la domanda sul rapporto di queste “determinazioni oggettive” col “contenuto reale” nella percezione sensibile e, quindi, il problema fondamentalmente platonico del “criterio” della adaequatio rei et intellectus, o in altre parole la domanda su quale sarebbe l’istanza che ci assicura che la nostra conoscenza sia “vera”18. Inoltre, per Rosmini, Aristotele non solo non riesce a dare una risposta a questa problematica platonica, ma la aggrava ulteriormente dovendo spiegare non solo la coincidenza tra “contenuto reale” e “determinazione oggettiva” nella nostra mente ma anche nella realtà materiale delle cose: «[i]l comune ne’ particolari! che maniera di parlare è cotesta?»19. Ossia, in altre parole, alla concezione classica della conoscenza - in chiave di “astrazione” e “adeguazione” - manca il momento “sintetico” che Rosmini trova in Kant. Proprio per questo, egli lo colloca all’ultimo posto nell’“elenco” 15. Intatti, Rosmini riconosce a Kant di aver «divisa l’attività dello spirito in […] forme. o parziali attività; avea ammesso anco della passività nel pensiero (non so poi se accorgendosene egli medesimo)» (NS 1388). 16. Cfr. STh I/II 93, 1 ad 3; De ver I, 9. 17. Cfr. NS 26s., 46. 221. 18. Cfr. per questo argomento ciel «tritos anthropos», Platone, Parmenide, 132a-b; Aristotele, Metafisica, 990b, 18-19. 19. NS 247: cfr. 57. Aristotele, perciò, non ha concepito proprio la importante «distinzione tra il senso e l’intelletto» (NS 236; cfr. 246); cfr. per l’identica critica rosminiana ad Aristotele, K. MÜLLER, Glauben - Fragen – Denken, vol. 2: Weisen der Weltheziehung, Aschendorff, Münster 2008, 783. 4 delle teorie che peccano «per eccesso», mostrando in questo modo di considerare il paradigma kantiano - non quello platonico, né quello aristotelico, né quello leibniziano - come quello che più si è avvicinato alla soluzione del problema indicato. Questa lettura del problema gnoseologico in Rosmini contiene innanzitutto una sorpresa inaspettata: e cioè che il principale criterio di Rosmini per giudicare Kant si rivela non il presunto “soggettivismo” di quest’ultimo - criterio che dall’interpretazione rosminiana di solito viene espresso come quello principale - ma piuttosto il suo “oggettivismo” ossia “apriorismo”: infatti Kant è collocato tra le dottrine «per eccesso» e non tra quelle «per difetto». Il Roveretano riconosce a Kant di aver messo «nello spirito dell’uomo d’innato [!] meno di tutti quelli che lo precedettero»20. La formalizzazione della conoscenza come giudizio e quindi innanzitutto un pregio che Rosmini trova nel pensiero kantiano. Se Rosmini, di fatto, poi critica Kant per il suo «soggettivismo», quest’accusa non si riferisce all’impostazione metodologica della sua teoria che è senz’altro in grado di stabilire un’oggettività in chiave di «necessità» ed «universalità»: infatti, la formalità dei «concetti puri dell’intelletto» in quanto «funzione che dà unità alla semplice sintesi di diverse rappresentazioni in una intuizione» risolve il problema dell’adeguazione nel momento in cui l’idea ossia il concetto della cosa viene costituito nella sintesi gnoseologica21. Se la conoscenza si forma nel giudizio e la sua oggettività viene assicurata dalla formalità dello stesso, il problema della adaequatio si scioglie perché diventa tautologico. Oltre questa funzione, però, Kant non sapeva assegnare all'a-priori («innato») della conoscenza una propria qualità ontologica che trascenda l’intelletto in quanto «facoltà dei concetti»22. Tale «qualità» per Rosmini consiste, gnoseologicamente, nell'esistenzialità dell’essere (il classico actus essendi)23. Con questa operazione, l’oggettività della conoscenza è ancorata alla costituzione categoriale della ragione pura e se Rosmini rimprovera a Kant di “peccare” «per eccesso», egli colloca la sua propria «forma a-priori» nell’unicità dell’«idea dell’essere»24. Ciò significa che in un certo senso Rosmini accetta la sistematica kantiana; ed infatti, per Rosmini, è fuori di dubbio che con Kant si riesce a superare l’empirismo moderno (le teorie che “peccano” «per difetto»). Secondo il Roveretano, il cristianesimo, davanti alla sfida empirista-sensista dell’inizio Ottocento in Italia, doveva fare (positivamente) i conti con Kant - così come, davanti a sfide scettiche di uguale natura, nell'antichità li ha fatti con Platone e nel medioevo con Aristotele. Sta in questa operazione il nucleo veritiero di quelle interpretazioni per cui Rosmini è il «Kant italiano»25. Ma questa analisi esprime solo parte del confronto di Rosmini con Kant e, quando sfocia nel “kantianizzare” Rosmini, essa è totalmente fuorviante26. L’argomento dell’unicità della sua forma è da intendere nell’accennato senso qualitativo e non quantitativo: il rimprovero a Kant di “peccare” 20. NS 366; cfr. 1383. 21. Cfr. NS 1380, nota 4 (n. b. per Kant «intuizione » è «intuizione sensibile »); KrV B 104. Rosmini è vicino a questa comprensione dell’adaequatio (cfr. M. KRIENKE, Il concetto di verità in Rosmini. Cenno per un nuovo tentativo di interpretazione, in: RRFC 99 [2005] 377-395, qui 382). «Le cose in quanto sono vere metafisicamente, cioè, in quanto hanno una corrispondenza all'idea esemplare (nel Creatore) onde provennero, porgono a noi la cognizione di sé. Ma noi non potremmo conoscer tuttavia le cose, sebben vere, ove non fossero vere rispetto a noi, cioè ove non fosse in noi un’idea esemplare che ce le facesse conoscere, una verità, la quale è l’idea innata dell’essere» (NS 1124, nota 88). 22. NS 331, 1133, nota 93. 23. Cfr. NS 335; cfr., come controprova, KrV B 627s. 24. Cfr. NS 367, 381, 384. 25. Cfr. G. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, Sansoni, Firenze 19552, 65. Anche Sant’Agostino fu definito il «Platone cristiano» e San Tommaso l’«Aristotele cristiano» (cfr. E. PRZYWARA, Analogia entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, a cura di P. Volonté [Metafisica e storia della metafisica, 131, Vita e Pensiero, Milano 1995, 159). 26. Cfr. A. ROSMINI, Il Rinnovamento della filosofia in Italia, 2 voll., a cura di G. Messina, Città Nuova, Roma 2007-2008 [d’ora in poi: Rinnov], 594: ,NS 1381; Lettera a M. Tarditi del 3.12.1844, in: EC IX, 129. 5 per eccesso vuol dire “peccare” per lo stesso razionalismo che caratterizza il “cielo delle idee platonico e l’essenzialismo dell’aristotelismo, cioè non trovare veramente l’istanza di sintesi nei confronti della realtà, ossia il vero momento a-priori della sua concettualizzazione oggettiva. Il razionalismo ha il deficit di non poter oltrepassare la molteplicità delle forme intellettuali verso quell'istanza in cui un’altra tradizione filosofica, quella di Agostino e di Tommaso, ha individuato il momento sintetico: ossia verso quell’esistenzialità dell’essere che sfugge di per sé a qualsiasi tentativo di «razionalizzarla» ossia di «ricomprenderla» all’interno di un sistema di pensiero chiuso questo vale non solo per il sistema delle «categorie» kantiane ma anche per quello delle «idee» platoniche e delle «forme» aristoteliche. In altre parole, il «razionalismo» può darsi, secondo l'interpretazione di Rosmini, sia all’interno di un paradigma oggettivo sia all’interno di uno soggettivo: in Platone e Aristotele come anche in Kant. Per Rosmini, i pensatori, che nella storia della filosofia occidentale sono riusciti ad evitare questa “tentazione” filosofica e ad attingere l’attualità dell’essere, sono Agostino e Tommaso, e quindi i veri ispiratori del Nuovo Saggio. Agostino, Tommaso e Rosmini stesso, secondo l’interpretazione di quest’ultimo, non si definiscono per l’appartenenza precisa a uno dei filoni “canonici” della filosofia occidentale (platonico, aristotelico, kantiano), ma per il fatto che “correggono” in un certo senso il “razionalismo” nei diversi filoni rispettivi. In questo modo, i tre rappresentanti della “filosofia cristiana” salvano il momento legittimo delle teorie gnoseologiche di Platone, Aristotele e Kant (Heidegger si rapporta a questo filone Agostino-Tommaso-Rosmini via negationis, quindi non in modo positivo-affermativo, ma negandolo nel nome della stessa istanza ossia dell’esistenzialità dell’essere.) Il momento che Rosmini rivendica nei confronti di Kant è quindi solo in un certo senso l’«unità» della forma, ma piuttosto la sua qualità oggettivo-ontologica. In quanto in Kant sono i «giudizi sintetici a priori», e cioè in ultima analisi l’«appercezione trascendentale» della coscienza soggettiva, a risolvere il problema classico della gnoseologia («degli universali»), Rosmini si distanzia dalla sua concezione. Innanzitutto, egli dimostra l’inconsistenza teoretica dei «giudizi sintetici a-priori» come pensati da Kant27, trovando in Agostino e Tommaso l’istanza gnoseologica della costituzione dell’intelletto nella prima intuizione, e cerca di superare con tale concezione quel momento problematico in Kant che chiama il suo «pregiudizio»28. Questo pregiudizio ha impedito al filosofo di Königsberg di oltrepassare la molteplicità delle categorie verso la loro esistenzialità nell’«idea dell’essere». Più fondamentale del giudizio “categoriale” è per Rosmini quello sull’“esistenza” della realtà percepita: «Infatti, acciocché io possa col mio intendimento percepire una realità, è bensì necessario ch’io la giudichi esistente; ma su tutto il resto, non è necessario ch’io pronunzi giudizio: non è necessario ch’io attribuisca alla medesima espressamente una quantità, qualità e relazione. Sopra tutte queste cose io posso sospendere il mio giudizio, e tuttavia percepire intellettualmente la cosa: perché io dica a me stesso “esiste”»29. 27. Cfr. NS 343-354. 28. Infatti, quando Rosmini dice «si vedrà ora in qual senso io possa applicare la parola sintesi, o sia unione, ad un atto tutto spirituale» (NS 359), questo passo spesso viene citato per designare la massima distanza di Rosmini da Kant. Decisivo è perciò l’argomento complessivo svolto in questo paragrafo: questa sintesi consisterebbe «nel concepire semplicemente, mediante l’unità del nostro intimo senso, il rapporto ch’egli ha colla nostra idea di esistenza», una sintesi non materiale (cfr. ibid. 356s.), che stabilisce una vera relazione tra essere reale percepito ed essere ideale intuito: «In questo senso il giudizio primitivo del nostro spirito, quel giudizio mediante il quale nasce la percezione intellettuale, io lo chiamo sintetico ed a priori, perché si forma una unione spirituale tra una cosa data dai sensi, che diventa subietto, ed una che non entra nel subietto in quant’è dato dai sensi, ma che si trova solo nell’intelletto ed è il predicato» (ibid.). 29. NS 335. «Il giudizio primitivo, col quale noi percepiamo le cose e quindi ce ne formiamo i concetti, si opera mediante una sintesi tra il predicato non somministrato dai sensi (esistenza), e il subietto dato da’ sensi (complesso di sensazioni)» (ibid. 356). 6 Senza questo ancoramento oggettivo nell’esistenzialità dell’essere, quest’ultimo farebbe «subiettivi gli oggetti del pensiero»30. Rosmini contrappone a quello kantiano un a-priori che non è solo formale, ma, con temporaneamente, parteggia per l’esistenzialità dell’essere oggettività originale. Per Rosmini è quest’istanza che garantisce l’oggettività della conoscenza: «L’idea dell’ente in universale [l’idea dell’essere] è pura forma e non ha seco congiunta nessun elemento materiale: non è soggettiva, anzi per sé è oggetto: […] sicché, tolta via l’idea dell’essere, è reso impossibile il sapere umano e la mente stessa»31. Kant, al contrario, non cogliendo la dimensione oggettivotrascendente dell’a-priori, non riesce a concepire la formalità dell’a-priori stesso in modo da ricondurla ad un’ultima unità primordiale32. In quanto questa duplice caratteristica dell’a-priori - formalità e oggettività - contraddistingue anche l’a-priori di Agostino e Tommaso, Rosmini presenta senza dubbi una teoria perfettamente coerente con questi due Dottori centrali della “filosofia cristiana”. Tramite la sua riflessione sul soggetto della conoscenza, il Roveretano, in altre parole, è riuscito ad «analizzare» questa immensa portata sistematica degli «a-priori» di Agostino e di Tommaso. Rosmini, che nell’impostazione formale sembrava essere stato «corrotto» dalla filosofia moderna, è stato invece capace di salvare il vero significato dell’intuizione di Agostino e Tommaso nella modernità. La «teoria della conoscenza» di Rosmini è quindi «kantiana» quanto quella di Agostino è «platonica » e quella di Tommaso è «aristotelica», né più né meno. Inoltre è grazie al confronto con Kant che Rosmini riesce ad enucleare analiticamente il nodo sistematico centrale dell’a-priori di Agostino e Tommaso, ossia la sintesi tra «formalità» e «oggettività». La mancanza di una riflessione sul soggetto nei pensatori medievali spostava il ragionamento piuttosto sul lato dell’oggettività che su quello della formalità. Nei confronti di Agostino e Tommaso, l’a-priori in Rosmini cambia quindi luogo. Mentre per Agostino, esso emerge nella teoria dell’«illuminazione», e per Tommaso nell’intellectus agens - entrambe istanze oggettivistiche -, per Rosmini, l’elemento a-priori ha il suo posto nella soggettività: l’idea dell’essere è il costitutivo fondamentale dell’intelletto umano, e nell’intuizione quest’ultimo si costituisce in quanto “mensuratus” da essa33 per poter essere «soggetto» vero e proprio della conoscenza. Appunto perciò, il “concetto oggettivo” della cosa si costituisce in un processo soggettivo di conoscenza - come risultato della conoscenza umana attraverso i «giudizi sintetici a priori»34. «Giudizio sintetico a priori» vuol quindi dire, rosminianamente, che la «conoscenza» non è mai solo un’esperienza esteriore, empirica, e neanche una concettualizzazione razional-soggettiva, ma, contemporaneamente a questi due elementi legittimi, è sempre - in modo “trascendentale” - esperienza dell’assoluto. L’esperienza dell’essere è meta-rappresentativa (contro il paradigma “classico”) e metaconcettuale (contro il paradigma “moderno”). La tradizione, per esprimere proprio questa verità, si impegna nella discussione sugli universali e sull’«analogia». Rosmini, nell’intuizione dell’idea dell’essere, affronta questa problematica dal punto di vista moderno35. 1 «Principi della scienza morale» Altra opera, altra disciplina medesima costellazione: inserendosi nel filone di Agostino e Tommaso, Rosmini riformula la loro teoria morale al livello dell’orizzonte della problematica kantiana 30. NS 331. 31. NS 384; cfr. 1442. «l’elemento formale del sapere, […] questa forma prima, questa verità, secondo la quale l’uomo giudica» è «non soggettiva […], anzi oggettiva essenzialmente» (NS 1108, n. 53; cfr. 1111). 32. Cfr. NS 326s., 375, 384. 33. «Il fatto ovvio e semplicissimo da cui parto, è che l’uomo pensa l’essere in un modo universale» (NS 398; Cfr. STh I/11 94, 1). 34. Cfr. NS 355, 361. 35. Cfr. NS 332, 647; Psicol 1651-1657. 7 e della riflessione moderna. Innanzitutto, Rosmini riconosce a Kant il merito fondamentale ed epocale di aver basato la morale non su un “realismo” delle “virtù”, bensì su un principio e perciò di aver reso possibile una vera “scienza della morale”36. Questo approccio consente di ancorare nell’uomo, nel suo principio a-priori (kantianamente: la ragion pratica) il criterio oggettivo della morale, della dignità, senza sfociare, grazie a questa fondazione forte dell’etica, in una concezione eteronoma. Rosmini condivide con Kant il bisogno della modernità di fondare la realizzazione del bene morale su un imperativo categorico, in quanto il soggetto non è più “oggettivamente” situato in un ordine ontologico (sul quale si basa la tradizionale impostazione delle virtù) - ma deve trovare il criterio della morale nella sua razionalità, nel riconoscersi obbligato dalla «prima legge morale»37. Questa legge non è la «lex» di San Tommaso la quale funge come regola a-priori per individuare il «bonum» ed il «malum» che, del resto, sono ontologicamente predeterminati per la struttura delle inclinazioni oggettive della natura Umana38. Su questa base realistica, e appunto perché la legge morale è «aliquid rationis»39, si delinea nell’Aquinate un’impostazione cognitiva della morale: è l’oggettività della conoscenza che presenta contemporaneamente l’ordine oggettivo delle essenze e l’ordine oggettivo morale a cui l’uomo deve adeguarsi («bonum faciendum et malum vitandum»). In quanto tale, questa concezione di Tommaso - per Rosmini - soffre del medesimo limite della sua teoria della conoscenza, ossia di “esteriorizzare” il luogo della sintesi dal soggetto nell’oggettività dell’ordo ontologico invece di situarla nella struttura stessa del soggetto. Anche nella filosofia pratica si ravvisa in San Tommaso la stessa struttura del soggetto doppiamente misurato: (1°) dalla prima «lex naturalis» così come (2°) dalla struttura reale delle inclinazioni naturali. Mentre la ragione è attiva nell’individuare le concrete leggi dell’agire (la lex naturalis in quanto aliquid rationis), la volontà appare come una semplice conseguenza del precetto morale di volta in volta posto dalla ragione stessa: ossia in quanto la natura umana razionale è “mensurata non mensurans”, la volontà si sviluppa all’interno della determinazione oggettiva in quanto adeguamento al «bonum» individuato40. Come già analizzato nella teoria della conoscenza, Rosmini critica la concezione di Tommaso per la sua considerazione troppo restrittiva del momento attivo-autonomo dell’uomo: l’uomo è “mensuratus”, ma appunto dalla fondazione radicale di questa misura nell’idea dell’essere intuito deriva la conseguenza che l’uomo diventa concretamente “mensurans”. Questo momento attivo, che Rosmini ha ricavato nella sua filosofia teoretica, ora gli si mostra, nella filosofia pratica, come quello spazio necessario dove la «volontà» può svolgere una sua attività moralmente rilevante che nel pensiero di San Tommaso non è considerata in questa dimensione attivo-creativa41: infatti, per la Scolastica la libertà appartiene all’intelletto se esso non si fa dominare dalla volontà e se si orien36. Rispondendo alla forte critica dell’etica utilitaristica all’approccio classico delle virtù, la teoria deontologica sviluppa il programma di una fondazione della morale. Rosmini situa l’etica tra i due modelli “scientifici” moderni, cioè tra l'approccio consequenzialistico-utilitarista e quello deontologico, rimproverando a ciascuno la sua unilateralità che scioglie proprio quella polarità, entro la quale la morale si realizza. 37. A. ROSMINI, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore, Città Nuova, Roma 1990 (d’ora in poi: PSM), 106; cfr. ibid., Prefazione, 37. 38. Cfr. STh, I/II 91, 2; 94, 2; 94, 5; 100, 1; 100, 11. 39. STh, I/II 90, 1: «praecepta legis naturae hoc modo se habent ad rationem,. practicam. sicut principia prima demonstrationun se habent ad rationem speculativam, utraque enim sunt quaedam principia per se nota» (ibid. I/II 94, 2). 40. Cfr. già la critica a tale “intellettualismo” da parte di BONAVENTURA, In II Sent., d. 8, p. 2. a. l , q. 6 ad 4.5. 41. «[…] per S. Tommaso l’essere in quanto essere è valore come condizione di ogni appetibilità o amabilità. Per Rosmini invece la forma morale è meno fondamento metafisico della amabilità, che amabilità immediata o l’essere come atto dell’amore volontario. E cioè: per S. Tommaso è prima l’essere in quanto bonum o valore (ossia in quanto essere) e poi è amabilità, laddove per il Rosmini nella forma morale l’essere è immediatamente un “per sé amato”» (M. SCHIAVONE, L'etica del Rosmini e la sita fondazione metafisica, Marzorati, Milano 1962, 101). 8 ta alla verità dell’essere. La necessaria distinzione delle potenzialità dell’anima tra «volontà» e «ragione», che si realizza sulla base della “libertà trascendentale” del soggetto e che emerge dalla tradizione accennata dell’esse morale, fornisce le basi per la “ragione pratica” di Kant cioè per una determinazione a-priori della volontà stessa (la volontà come giudizio logico). In quanto tale, quest’ultima non può partire come la “ragion teoretica” da un “contenuto reale” di rappresentazione, “oggettivamente determinato”, ma nella Critica della ragion pratica la “volontà” viene fondata su un giudizio sintetico a priori il quale è l’imperativo categorico. Analizzando i Principi di Rosmini, si evince subito che il Roveretano prosegue sulla strada metodologica di Kant: esclusione di qualsiasi empirismo o utilitarismo nella fondazione della morale e formulazione intellettiva dell’autonomia del soggetto, radicata nella sua razionalità - questo appunto l’aspetto che la tradizione aristotelica delle virtù non prevede -, fondando, accanto ad una “metafisica della natura”, la “metafisica dei costumi” che tratta l’uomo in quanto persona e quindi come non sussumibile nella sistematica di una metafisica del mondo materiale (dignità morale della libera volontà)42. Nella classificazione dei sistemi morali nella Storia comparativa e critica, Kant occupa una posizione analoga a quella che Rosmini ha assegnato al filosofo tedesco nel Nuovo Saggio. Egli conclude gli approcci che assegnano alla moralità una propria dimensione a-priori - «[s]istemi che distinguono l’ordine “morale” dai tre ordini, “fisico”, “animale” e “razionale”» - senza però “uscire” dal soggetto43: cioè fondazione “autonoma” della morale in quanto il «principio della morale» viene trovato nella ragione pratica. Rosmini consente con Kant nell’evitare l’oggettivismo di una morale che rimane eteronoma rispetto al soggetto, in quanto quest’ultimo così verrebbe limitato nella sua libertà morale: anzi, è proprio nell’imperativo categorico che l’uomo conosce di essere libero dalle leggi eteronome di “natura”, “tradizione”, “autorità” ecc. e si riconosce vincolato dal dovere morale44. In questo senso, per Kant la legge è la ratio cognoscendi della libertà dell’uomo che egli esercita appunto in quanto fa parte del «regno dei fini», ossia dell’umanità in cui tutti si caratterizzano per essere dotati di dignità personale45. Rosmini riconosce a Kant il merito di aver elaborato, con questa formula, il vero fondamento della morale: «Perocché veramente egli [Kant] vide e con chiarezza, che le morali azioni non poteano aver per fine se non qualche ente dotato d’intelligenza; e però una delle formole in cui pose il suo morale principio si fu: “Rispetta siccome fine la personalità”: detto nobilissimo, perocché tocca appunto il fine essenziale della morale, da tant’altri filosofi non veduto direttamente»46. Come il giudizio sintetico a priori suggerisce a Kant la figura teoretica per la fondazione della morale, così anche Rosmini, concordando con Kant nella metodologia, fonda l’imperativo nell'istanza “veritativa” della sua gnoseologia, ossia nell’idea dell’essere. Quest’ultima, nei Principi, diventa supremo principio della moralità dell’agire umano («dovere»): «[s]egui il lume della ragione»47. La qualità del giudizio morale, quindi, non è quella teorico-astratta dell’“ordo”, ma una proprietà del giudizio pratico che in quanto tale costituisce il valore. Perciò, il giudizio propriamente morale non avviene nella ragione teoretica ma in quella pratica e si articola come l’imperativo di prestare riconoscimento all’ordine teoricamente conosciuto: il «bonum» è un valorizzare praticamente il «verum», e proprio per questo non una semplice deduzione da quest’ultimo ma momento 42. Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi (Weischedel, IV), BA 15, 60. 43. A. ROSMINI, Storia comparativa e critica de’ sistemi intorno al principio della morale, in: PSM, pp. 161-469 (d’ora in poi: SCC.), 207; cfr. 210s. 44. Cfr. KpV A 154. 45. Cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, BA 83s. 46. SCC 420; cfr. 408. 47. PSM 107. «Egli è dunque manifesto, che la verità è il principio della morale: e che il riconoscimento della verità (cognizione diretta) è il sommo genere dei doveri, e l’atto proprio ed essenziale della moralità» (PSM 138). 9 di costituzione vera e propria di «valore» nel «riconoscere ciò che prima conosciamo»48. Per questo, la «dignità umana»49 trova il suo rispetto in ultima analisi non nella pura «legge naturale» della tradizione aristotelica, ma nel riconoscimento autenticamente umano del dovere di trattare gli uomini sempre anche come fini e mai solo come mezzi50. Questo atto, cioè l’atto veramente e propriamente morale, si riesce a stabilire solo qualora non lo si riduca ad una valorizzazione puramente teorica o ad una deduzione da quest’ultima, ma qualora si stabilisca la moralità nell’istanza della ragion pratica (volontà). Qui il pensiero di Rosmini è in accordo con quello kantiano. Dopo questa conferma dell’approccio kantiano, Rosmini passa - come già aveva fatto nella sua analisi teoretica - ad una critica serrata dell’approccio kantiano per il quale l’oggettività morale (dignità) si restringe in ultima analisi alla razionalità: siccome Kant colloca la moralità unicamente all’interno della libertà trascendentale - ratio essendi della legge morale - gli sfugge la realtà dell’azione dove unicamente può essere situato il momento di «riconoscimento». Ossia in altre parole, la libertà trascendentale di Kant - nella sua oggettività - si restringe alla sfera soggettiva dell'obbligazione del soggetto, coincidendo con un ragionamento logico, il quale non conosce nessun criterio al di fuori di esso, dato che un tale criterio non potrebbe sottrarsi in ultima analisi al sospetto di eteronomia. Possiamo quindi ravvisare a questo punto, una costellazione simile all’analisi teoretica: l’accusa di “soggettivismo”, nella quale Rosmini riassume la sua critica a Kant, non mira alla concezione metodologica di Kant, che basava la morale su un principio razionale, ma piuttosto denuncia l’irrigidimento del principio astratto e «sterile» dell’imperativo categorico in questa razionalità51. Rosmini non critica la valorizzazione della dignità etica del soggetto in Kant, ma individua nel razionalismo kantiano il rinchiudersi del soggetto nel suo realizzarsi dentro la ragione soggettivoformale, che rifiuta ogni criterio oggettivo che ontologicamente lo oltrepassi. È interessante notare che anche nell’analisi della filosofia pratica Rosmini rimprovera a Kant di misconoscere l'oggettività trascendente dell’a-priori, di restringerlo alla sua formalità, ma di non riuscire, proprio per questo, neanche a declinare bene la formalità dell’imperativo. È questo il momento in cui Rosmini critica Kant con argomenti propri di quest’ultimo: per Rosmini l’imperativo kantiano effettivamente non riesce ad oltrepassare la «ragione interessata», in quanto l’interesse non si lascia eliminare formalizzandolo: «la morale disinteressatissima di Kant torna ad essere una moralità interessata»52. Si nota, quindi, la stessa struttura della critica rosminiana che caratterizza il Nuovo Saggio: Kant non riesce ad oltrepassare la formalità (che poi sta alla base dei «giudizi sintetici a-priori») verso il criterio dell’essere, che nella sua essenzialità oggettiva costituisce l’intelletto teorico e la volontà pratica53, e solo questa intuizione dell’idea dell’essere funge per Rosmini come criterio universale («principio», «imperativo») della moralità. E di nuovo si giunge al risultato che Rosmini entra con Kant in un confronto positivo per quanto riguarda l’istanza del soggetto, rifiutando il formalismo razionale che è insito nel principio soggettivo di Kant54. Nei Principi, il «giudizio morale» (la «sintesi») è concepito secondo la struttura 48. PSM 135; cfr. 137s. 49. SCC 266. 50. Cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, BA 66s.; cfr. .SCC 252. 51. SCC 271. 52. SCC 264. 53. Questa critica, pur nel suo parallelismo con il Nuovo Saggio, nei Principi non ha la stessa chiarezza. La si può evincere palesemente ad es. nel seguente passo: «L’errore di Kant consiste nell’aver preso per sinonimo ordine fenomenico con ordine empirico od esperimentale, ed ordine noumenico con ordine a priori. All’incontro l’esperienza non domina solamente nell’ordine fenomenico, ma ben anco nell’ordine noumenico; dandoci ella sola i primi dati di entrambi» (SCC 254, n. 47). 54. «Ma Kant non vuole uscire dalla libertà cercando l’essenza della morale» (SCC 257). 10 fondata nel Nuovo Saggio, solo che l’uomo si confronta, invece che con il molteplice della sensazione, con un ordine conosciuto e secondo un criterio «innato» che egli intuisce come l’imperativo pratico di riconoscere attivamente - moralmente - questo ordine conosciuto. Siccome si tratta, in questa forma pratica dell’idea dell’essere, del principio oggettivo-trascendente, la volontà - ragione pratica - si mostra come “mensurata”, ma, nella sintesi con l’ordine conosciuto ossia nel «riconoscimento pratico», è essa stessa a conferire dignità morale alla realtà conosciuta. Per questo, Rosmini può definire non solo la «legge morale» come il «principio della moralità» ma anche come la volontà stessa: «la volontà è il principio della moralità»55 - ossia, in altre parole, la volontà, dopo essere “mensurata”, è anche “mensurans”, ossia attiva nel riconoscimento morale. Questa volontà è orientata ad una «legge» che rende l’uomo libero: «Dicasi dunque in che modo si dee usare della libertà; ed allora solamente, e non prima, noi avremo la legge. Ora questo modo viene determinato dall’esigenza degli oggetti, cioè dalla relativa loro dignità concepita dalla ragione. In questa maniera il principio della legge muta di luogo; non e più nella libertà, ma nella ragione teoretica-morale: non in un giudizio particolare riguardante solo la libertà, ma in una specie intera di giudizi, propriamente in una funzione della ragione, che è il giudizio sull’entità degli esseri concepiti»56. Per questo, l’a-priori, anche nell’ambito del pensiero pratico, non è solo formalità ma sintesi di formalità e oggettività57. La moralità non si lascia risolvere in razionalità. Anzi, è un atteggiamento originariamente pratico-universale che Rosmini declina come amore morale, per cui può formulare l’imperativo morale pure nella formula: «ama gli esseri tutti»: «Vale adunque un medesimo il dire “Segui il lume della ragione”, e il dire “Ama gli esseri tutti”; giacché ciò che il lume della ragione ci mostra e ci presenta sono gli esseri, e ce li presenta acciocché noi gli amiamo, essendo il lume della ragione quello che ci mostra in ogni essere un bene, in ogni essere un ordine interiore»58. Ossia, in altre parole, il criterio deve comprendere necessariamente anche la concretezza dell’ordine oggettivo - e non solo formale -, per poter avanzare la pretesa di imparzialità59. Un tale amore imparziale è la valorizzazione della relazionalità della morale che non può essere formulata attraverso una semplice legge oggettiva né tramite un imperativo astratto della ragione pratica. Infatti, a differenza della formalità della morale kantiana basata su una libertà astratta, la libertà rosminiana che diventa il luogo della morale si realizza «nella relazione di un individuo all’altro»60. In questa forma, Rosmini dà nuova attualità al contributo più originale che Agostino e Tommaso, nel segno della “filosofia cristiana”, hanno apportato alla tradizione filosofica. Agostino, con la distinzione tra “uti” e “frui”61, ha remotamente preparato l’accennata tradizione dell’esse morale, conferendo all’uomo una dignità morale che sfugge a qualsiasi calcolo morale-razionale. 55. PSM 105, nota 5. «Principio delle azioni morali è la volontà. […] Si definisce la volontà, un principio di operare dietro le notizie della mente» (A. ROSMINI, Trattato della coscienza morale, a cura di G. Mattai, F.lli Bocca, Milano-Roma 1954, 118s.). 56. SCC 245. 57. Infatti Rosmini prosegue la citazione sopra riportata: «in tal caso solamente s’intenderebbe, come questo elemento non potrebbe mai considerarsi come puro mezzo; ma dovrebbersi a lui riportare come a fine tutte le altre cose. Questo ragionamento dunque dimostra, che per dare un saldo appoggio alla morale, convien ricorrere a qualche cosa d’infinito, di ultimo, di finale; perocché la morale riducesi tutta finalmente a considerar certe cose per fine e certe altre per mezzo, ad apprezzar certe cose per sé ed apprezzarne altre pel servigio che prestano a quelle prime» (SCC 424). 58. PSM 107. «La volontà dunque per esser buona dee odiare nulla, amare tutto, e amarlo nell’ordine suo naturale» (ibid. 113). 59. Rosmini obietta contro Kant «che è bensì vero che io mi determino da me stesso a scegliere più tosto una ragione che l’altra di operare; ma non è però vero che io operi senza una ragione, cioè senza scegliere l’una o l’altra» (SCC 255). SCC 242. Cfr. SCC 421. Di Agostino Rosmini cita Trin. X, 10, 13 (ibid.). 60. 61. 11 Tale dignità si esprime, nel modo più originale, nell’imperativo “di amore” dello stesso Agostino. Anche Tommaso evita l’incombente unilateralità del suo approccio intellettuale, quando - soprattutto in STh I/II 18-21 - conia una vera e propria «metafisica dell’azione»62 che si lascia interpretare come una «forma specifica dell’esse morale»63. Siccome questi due pensatori, accanto a molti altri, hanno saputo elaborare una fondazione della morale nella persona e hanno perciò evitato una morale basata unilateralmente sull’amore o sull’intelletto, è in questa tradizione che Rosmini attivamente si inserisce con i Principi, concependo il confronto con Kant nella medesima maniera in cui l’aveva già realizzato nel Nuovo Saggio: è attraverso Kant che la tradizione «Agostino-TommasoRosmini» riesce ad elaborare “analiticamente” i suoi elementi portanti, che nel paradigma “oggettivo” della classicità non potevano essere declinati in tutta la loro chiarezza. Come si può evincere dalla sistematizzazione della tradizione dell’esse morale in Kant e Rosmini, questa conclusione per la filosofia morale vale ancora più incisivamente che per la filosofia teoretica: in questo senso Rosmini riconosce nell’imperativo kantiano un’autentica espressione della riflessione cristiana sulla morale64. Quello che Kant, però, per il suo approccio trascendentale, non riusciva a concepire, era il fondamento della formalità aprioristica nell’attualità dell’essere che nell’imperativo viene intuita idealmente, ma che ontologicamente si lascia fondare solo qualora si ammette il soggetto come “capace” di rapportarsi alla trascendenza65. 3. Essere conoscere agire: il soggetto e il suo fondamento Come mette in evidenza il confronto di Rosmini con Kant nelle opere Nuovo Saggio e Principi, il Roveretano recepisce positivamente l’istanza moderna della soggettività, in quanto ritiene che, attraverso questa, tanti contenuti impliciti della “filosofia cristiana” di Agostino e Tommaso possono essere esplicati e quindi “giustificati” filosoficamente. In tal senso, Rosmini si inserisce nella tradizione della “filosofia cristiana” non in quanto tenta una sua fondazione nel filone platonico o tantomeno aristotelico. In tal modo, infatti, non riuscirebbe ad evidenziare lo “specifico cristiano” di Agostino e Tommaso, interpretandone il pensiero attraverso quel che li separa ma non attraverso la loro intuizione comune. Significativamente, Rosmini riesce ad elaborare i momenti centrali di questa tradizione di “filosofia cristiana” proprio attraverso un confronto con Kant, in quanto è quest’ultimo ad insistere su un elemento che implicitamente determinava già la gnoseologia e la morale di Agostino e Tommaso, ossia il soggetto. Rosmini, però, individua in Kant la stessa sfida ad una “filosofia cristiana”, che riteneva già pericolosa in Platone ed in Aristotele: quella di un razionalismo che riduce la pienezza della concezione cristiano-filosofica di «persona» ad un approccio razionale-funzionale. In questo senso è da interpretare autenticamente la critica rosminiana alla frase iniziale della Critica della ragion pura66, nella quale il Roveretano vede una riduzione della ricchezza dell’esperienza personale ad un approccio scientifico, che chiude l’uomo a quella dimensione che in ultima analisi non si lascia concettualizzare o razionalmente domare. In questo sta, per Rosmini, il «dogmatismo» di Kant. Al contrario, il soggetto per Rosmini è aperto all’esperienza dell’essere che rimanda l’uomo al suo radicamento nella trascendenza. Perciò, Rosmini ritiene la soggettività di Kant ontologicamente in62. 63. 64. 65. 66. Cfr. W. KLUXEN, L’etica filosofica di Tommaso d’Aquino, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2005, 158-167. T. KOBUSCH, Die Entdeckung, cit., 39. Cfr., per un tale giudizio, ad es. G. E. M. ANSCOMBE, Modern Moral Philosophy, in Philosophy 33 (1958) 1-19, qui 5s.: cfr., peraltro, già A. SCHOPENHAUER, Preisschrift über die Grundlage der Moral, in ID., Die beiden Grundprobleme der Ethik, a cura di A Hübscher (Werke in zehn Banden, 6), Diogenes, Zürich 1977, 143-371, qui 164s. «Ma qui appunto si vede, come il fondatore della critica filosofica, colle migliori intenzioni del mondo, desiderando di dare alla morale un saldo fondamento, e cercandolo in qualche cosa di universale e di necessario, sia fallito a tale nel suo tentativo, da non trovare altro principio morale, che in una realità contingente, e però né universale né necessaria, quale è appunto la volontà umana; sia ricorso ad un fatto invece che ad un principio; ad un dato di esperienza invece che ad un lume di ragion pura» (SCC 254). Cfr. la critica a KrV B 1 in NS 302, nota 91. 12 fondata e in tal senso all’inizio di una tradizione destinata a proseguire sulla strada del «soggettivismo» contro il quale si rivolge con argomenti drastici67: egli riconosce l’origine del problema filosofico della «filosofia alemanna» nel «legato fedecommesso […] “di non uscire mai quella filosofia interamente dal soggetto”»68. Perciò Rosmini può persino ravvisare in Kant, nonostante l'apprezzamento dell’istanza soggettiva, «la più triste idea dell’uomo»69. Non dando la giusta considerazione alla dimensione della ricchezza attuale dell’esistenzialità dell’essere, l’oggettività ontologica si riduce alla pura formalità (pericolo classico) e, di conseguenza, la persona si riduce alla soggettività astratta (pericolo moderno). A giudizio di Rosmini, non è l’istanza del soggetto che conduce a tale risultato, ma sono il soggettivismo e l’oggettivismo, errori teoretici entrambi, che portano ad esso. Contro tali tendenze, la fondazione ontologica di Rosmini individua nel concetto dell’essere la possibilità di identificare «formalità» ed «oggettività» nell’apriori della conoscenza, «imperativo» e «soggettività» nell’a-priori della morale, per poi formulare la sintesi tra «verità» e «amore», tra «libertà» e «relazionalità» nel concetto di persona. Rosmini rivolge l’interesse filosofico via dalla considerazione esteriore delle essenze delle cose e dell’azione oggettivo-morale, verso il soggetto che conosce e che agisce. In altre parole - conclusive - possiamo riassumere dicendo che Rosmini propone un concetto di personalità piena che è sintesi tra «soggettività», «oggettività» e «moralità », sintesismo ontologico che concepisce un’“antropologia trinitaria”70, capace di valorizzare allo stesso momento e con lo stesso diritto “sostanzialità” e “relazionalità” della persona. Questa sintesi si concretizza soprattutto al livello della moralità: «il dire: opera secondo una norma che possa rendersi universale, involge una relazione cogli altri uomini; né può essere primo principio, poiché non è evidente, potendosi rendere questa ragione di quel principio, che la personalità e rispettabile per se stessa, e potendosi di questa stessa ragione trovarsi una ragion superiore ne’ costitutivi della personalità: l’analisi poi della personalità ci conduce a trovare quell’elemento infinito, che solo è la base immobile dell’assoluta obbligazione morale»71. Questa relazionalità è l’espressione della libertà dell’uomo come l’ha concepita la tradizione patristica dalla quale Rosmini attinge fortemente. Con questa considerazione, l’Antropolo-gia morale appare come il vero punto d’approdo di queste riflessioni sulla gnoseologia e la morale di Rosmini e contemporaneamente delle nostre riflessioni sistematiche. MARKUS KRIENKE direttore della «Cattedra Rosmini» della Facoltà di Teologia di Lugano 67. 68. 69. 70. 71. Rosmini cercava di formulare questa sua idea nella forma di una “legge”: «ogni qual volta si fa il tentativo di levar l’uomo fino a Dio, quasi per una necessità che si sente di bilanciare questo soprappiù, e infine per una secreta espiazione de’ diritti usurpati alla Deità, si caccia l’uomo stesso d’un’altra parte giù profondo fino all’abisso» (SCC 266). Rinnov 352; cfr. NS 302, nota. SCC 266; cfr. ibid. 272. «Convien dire dunque che il nome persona non significa né meramente una sostanza, né meramente una relazione, ma una relazione sostanziale, cioè una relazione che si trova nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza» (AM 833, n. 50). SCC 315. 13