1 capitolo i - Dipartimento di Fisica e Astronomia

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1 CAPITOLO I
In questo capitolo cerchiamo di riassumere molto brevemente i principali concetti di ottica
geometrica che saranno necessari nel prosieguo di questa dispensa.
1.1 Leggi dell’ottica geometrica
L’ottica geometrica studia il comportamento dei raggi luminosi. Le leggi che governano il
comportamento dei raggi sono 5:
1.
2.
3.
4.
5.
La luce si propaga in modo rettilineo in un mezzo omogeneo;
I raggi luminosi sono tra loro indipendenti;
Legge della riflessione;
Legge della rifrazione;
Invertibilità dei raggi luminosi.
1.1.1 Legge della riflessione e della rifrazione
I raggi riflessi giacciono sul piano di incidenza e l’angolo di riflessione r è uguale all’angolo di
incidenza i. Si veda la Fig. 1.1.
i
r
n
n’
t
Fig. 1.1 I raggi incidente, riflesso e rifratto nel punto che separa due superfici di indice di rifrazione n ed n’.
I raggi rifratti giacciono anch’essi sul piano di incidenza e vale la legge di Snell:
sin i n '
=
sin t n
(1.1)
1.1.2 Il cammino ottico
Quando la luce attraversa una distanza d in un mezzo omogeneo di indice di rifrazione n, il
cammino ottico è il prodotto nd. In generale si ha:
-2-
[d ] = n1d1 + n2 d 2 + ... =
i
ni d i
quando la luce attraversa diversi mezzi omogenei con indice di rifrazione diversi.
1.1.3 Riflessione totale
Si consideri la Fig. 1.2.
n
n’>n
c
Fig. 1.2 Quando il raggio incidente è quasi parallelo alla superficie di separazione tra i due mezzi, il raggio rifratto
si avvicina all’angolo critico.
Nel caso limite in cui il raggio incidente si avvicina a 90° con la normale alla superficie, il
raggio rifratto si avvicina all’angolo critico:
sin
c
=
n
n'
Ne consegue che per il principio di invertibilità dei raggi nessun raggio con > c può essere
rifratto. Si avrà quindi riflessione totale per tutti i raggi provenienti dal mezzo con indice di
rifrazione n’>n con > c (Fig. 1.3).
n
c
n’>n
Fig. 1.3 Il raggio non viene più trasmesso nell’altro mezzo, ma è completamente riflesso.
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1.1.4 Riflessione e rifrazione con superfici piane
Un fascio di raggi paralleli incidente su di una superficie piana rimane parallelo dopo la
riflessione e la rifrazione. Le dimensioni del fascio riflesso sono inalterate, mentre quelle del
fascio rifratto variano con il rapporto cos '/ cos , dove ' e sono rispettivamente gli
angoli di rifrazione e di incidenza rispetto alla normale alla superficie piana rifrangente.
Un pennello di raggi divergente rimane divergente dopo la riflessione e la rifrazione (vedi Fig.
1.4).
n
n’
A
Q
Q’
Q’
Q
A
Fig. 1.4 Riflessione e rifrazione di un pennello di raggi divergente da una sorgente Q.
Nel caso della rifrazione si ha:
s' = s
n ' cos '
n cos
dove s ed s’ sono le distanze di Q e di Q’ dal punto A. Per raggi parassiali è poi s’=(n’/n)s.
1.1.5 Superfici sferiche
I punti focali primari F e secondari F’ connessi ad una superficie di separazione convessa o
concava sono definiti dal comportamento osservato in Fig. 1.5.
F
F’
F
F’
Fig. 1.5 Definizione dei fuochi primari e secondari di una superficie convessa (a sinistra) e concava (a destra).
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I raggi provenienti dal fuoco F di una superficie convessa di separazione di due mezzi di indice
di rifrazione rispettivamente n ed n’ emergono paralleli all’asse ottico. Viceversa i raggi
paralleli all’asse ottico che incontrino una superficie convessa di tal genere convergono nel
fuoco. I raggi convergenti nel fuoco F di una superficie concava di separazione tra due mezzi
emergono paralleli all’asse ottico. Viceversa i raggi paralleli all’asse ottico che incontrino una
superficie concava sono resi divergenti, ma tali che il loro prolungamento incontri il fuoco
secondario F’.
Dette ƒ ed ƒ’ le distanze focali dal vertice dei diottri sferici si può dimostrare che si ha:
f ' n'
=
f
n
con f
f '.
1.1.6 Formazione di un’immagine con un diottro sferico convesso e concavo
Si consideri la Fig. 1.6 a e b.
Q
F’
M
F
M’
C
Q’
Fig. 1.6a Formazione di un’immagine da un diottro sferico convesso.
L’immagine M’Q’ dell’oggetto MQ appare capovolta, reale ed ingrandita tanto più quanto più
MQ si avvicina ad F. Per trovare il punto s’ dove cade l’immagine dell’oggetto a distanza s dal
vertice del diottro occorre tracciare tre rette per tre direzioni fondamentali: la prima è quella
parallela all’asse ottico che dopo la rifrazione passa per il fuoco F’, la seconda è quella che
passa per il centro di curvatura della superficie che passa inalterata, e la terza è quella che passa
per il fuoco F che dopo la rifrazione viaggia parallela all’asse ottico.
F’
C
Fig. 1.6b Formazione di un’immagine da un diottro sferico concavo.
Nel caso di un diottro concavo l’immagine appare diritta, virtuale e rimpicciolita.
F
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Il rapporto tra la dimensione trasversale dell’immagine e l’oggetto è detto ingrandimento; nel
caso delle superfici sferiche abbiamo:
m=
y ' M 'Q '
=
=
y
MQ
s' r
s+r
dove s’ ed s sono le distanze dal vertice del diottro dell’immagine e dell’oggetto
rispettivamente, ed r il raggio di curvatura della superficie sferica. Se m>0 l’immagine è
virtuale ed eretta, se <0 reale ed invertita.
Per determinare le posizioni s’ ed s, o il raggio r si può usare la relazione del diottro sferico:
n' n n' n
+ =
s' s
r
Ses ’= si ha
n n' n
=
, mentre se s =
f
r
è
(1.2)
n' n' n
n' f '
=
= .
, da cui segue che
f'
r
n
f
1.2 Lenti sottili
Due superfici (entrambe sferiche o con una piana ed una sferica) che separano un mezzo di
indice di rifrazione n’ da un mezzo di indice di rifrazione n costituiscono una lente.
Una lente si dice sottile quando il suo spessore si può considerare piccolo in confronto con le
distanze associate con le sue proprietà ottiche, come ad esempio i raggi di curvatura, le
lunghezze focali e le distanze dell’immagine e dell’oggetto.
Per una lente è in generale f ' = f indipendentemente dalla forma della lente.
Le lenti positive o convergenti sono le equiconvesse, le piano-convesse ed i menischi positivi.
Le lenti negative o divergenti sono le equiconcave, le piano-concave ed i menischi negativi.
Si può dimostrare facilmente che per una lente sottile valgono le seguenti relazioni in
approssimazione parassiale (cioè per piccoli deviazioni del raggio dall’asse ottico e quindi per
piccole aperture):
1 1 1
+ =
s s' f
x x' = f 2
(1.3)
La prima è detta formula di Gauss e lega la focale della lente alla distanza dell’oggetto e
dell’immagine. La seconda è detta formula di Newton e lega la focale della lente alle distanze x
ed x’ , rispettivamente dell’oggetto dal fuoco primario, e dell’immagine dal fuoco secondario.
Un’altra relazione, molto utile per i costruttori di lenti, è la seguente:
P=
1
1
= (n 1)
f
r1
1
r2
(1.4)
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che lega il potere diottrico P della lente (misurato in diottrie o m-1) ad i raggi di curvatura delle
due superfici sferiche della lente (una superficie piana ha raggio di curvatura infinito). Le lenti
convergenti hanno P>0, mentre quelle divergenti hanno P<0.
Quando due lenti sottili sono a contatto o separate di poco è P= P1+ P2.
1.2.1 Formazione di un’immagine da una lente sottile
Si osservino le Fig. 1.7a e 1.7b.
f’
f
F’
F
s’
s
Fig.1.7a Formazione di un’immagine da una lente sottile convergente.
f
F
s’
s
Fig. 1.7b Formazione di un’immagine da una lente sottile divergente.
Le lenti sottili convergenti formano immagini reali, capovolte e rimpicciolite quando l’oggetto
MQ si trova lontano dal fuoco F. A mano a mano che MQ si avvicina ad F l’immagine M’Q’ si
forma sempre più lontano da F’ e sempre più ingrandita. Con MQ in F l’oggetto è a fuoco
all’infinito, e superato il fuoco F non si forma più un’immagine reale, ma virtuale ed eretta in
un punto a sinistra di F.
Le lenti sottili divergenti formano immagini virtuali, erette e rimpicciolite per ogni posizione
dell’oggetto MQ sull’asse ottico, e l’immagine è sempre più vicina alla lente dell’oggetto.
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1.3 Lenti spesse
Quando lo spessore di una lente non può essere considerato piccolo rispetto alla sua lunghezza
focale, la lente si dice spessa.
Una lente spessa può includere diverse lenti componenti che possono essere o non essere in
contatto tra loro.
Quando si lavora con una lente spessa la legge di Gauss e di Newton non valgono più nella
forma in cui le abbiamo scritte nella (1.3). Utilizzando la legge del diottro sferico per le due
superfici sferiche che costituiscono la lente, abbiamo:
n n' n' n
+
=
s1 s1 '
r1
n ' n '' n '' n '
+
=
s2 ' s2 ''
r2
dove n, n’, ed n” sono rispettivamente gli indici di rifrazione dei mezzi separati dalle superfici
sferiche della lente (ovviamente per una lente in aria è n=n”). Graficamente invece si parte
dalla Fig. 1.6a e si considera M’Q’ come nuovo oggetto virtuale per il secondo diottro (s2’ e s2”
sono rispettivamente le posizioni dell’oggetto virtuale M’Q’ e dell’immagine reale M”Q” dal
vertice del secondo diottro). Mediante il metodo dei raggi paralleli si perviene quindi
rapidamente a localizzare la posizione dell’immagine M”Q” (vedi e.g. Jenkins & White 1957).
Un altro modo è quello di localizzare i punti focali e i punti principali della lente spessa e di
utilizzare la legge di Gauss modificata:
1 1 1
1
+ = =
s s" f
f ''
(1.5)
dove s ed s” sono le distanze dell’oggetto e dell’immagine dai punti principali ed f=f” è la
focale della lente misurata a partire dai piani principali (assumendo che n=n”)1.
I piani principali di una lente spessa si ottengono prolungando i raggi incidenti ed emergenti
dalla lente come in Fig. 1.8.
ri
re
re
H”
ri
F”
F
H’
Fig. 1.8 I punti principali secondario H” e primario H’ di una lente spessa.
1
Se n
n '' si ha
n '' f ''
=
.
n
f
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I piani principali sono dei veri piani solo in prossimità dell’asse ottico, ma in generale sono
delle superfici curve. Tali piani non sono necessariamente localizzati entro la lente, ma a
seconda della forma della lente possono trovarsi anche fuori dalla lente stessa. I piani principali
hanno inoltre l’importante proprietà di avere ingrandimento laterale unitario e positivo.
Possiamo quindi dare una nuova definizione di lente sottile: una lente si dice sottile quando i
due piani principali ed il centro ottico della lente coincidono con il centro geometrico della
lente.
Una combinazioni di due o più lenti sottili può essere considerata una lente spessa.
Per una lente qualunque vi è sempre una direzione da cui i raggi emergenti restano paralleli a
quelli incidenti. La proiezione sull’asse ottico di tali direzioni dei raggi identifica i punti nodali
(Fig. 1.9) N ed N”.
C
N”
N
Fig. 1.9 I punti nodali N ed N”.
I piani perpendicolari all’asse ottico passanti per i punti nodali si dicono piani nodali. Si può
dimostrare che se n”= n i punti nodali coincidono con i punti principali, altrimenti sono
differenti. Il centro ottico della lente è dato dal punto C. I raggi che passano per C non sono
deviati dalla lente. La posizione di C non dipende dalla lunghezza d’onda della radiazione a
differenza degli altri punti cardinali F, F”, H, H”, N, ed N”.
La Tab. 1.1 riassume le formule generali utilizzate per le lenti spesse (o per una combinazione
di due lenti a distanza d una dall’altra).
TAB. 1.1 Formule generali per le lenti spesse
n n ' n ''
=
+
f
f1 ' f 2 ''
A1 F = f 1
A1 H = f
d
f2 '
d
f2 '
A2 F = f '' 1
A2 H '' =
dn ''
n ''
=
f1 ' f 2 '' f ''
f ''
d
f1 '
d
f1 '
P = P1 + P2
d
P1 P2
n'
n
d
1
P2
P
n'
A1 F =
A1 H =
n d
P2
P n'
A2 F =
n ''
d
1
P1
P
n'
A2 H '' =
n '' d
P1
P n'
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In Tab. 1.1 i punti A1 e A2 sono rispettivamente i vertici dei due diottri sferici che costituiscono
la lente spessa (o i punti in cui si trovano la prima e la seconda lente sottile). Le distanze focali
f1 , f1 ', f 2 ', f 2 '', f , f '' sono rispettivamente quella primaria e secondaria del primo diottro, quella
primaria e secondaria del secondo diottro e quelle misurate dai piani principali. P1, P2 e P sono
i poteri diottrici del primo diottro (o prima lente), del secondo diottro (o seconda lente), e della
combinazione dei due.
1.4 Le aberrazioni di una lente
Nel Capitolo II e III parleremo diffusamente del problema delle aberrazioni nei telescopi
astronomici. Essendo questi prevalentemente riflettori e non rifrattori non discuteremo delle
aberrazioni di questa categoria di strumenti.
Nel presente capitolo diamo solo un breve accenno qualitativo sulle aberrazioni presenti nelle
lenti.
Abbiamo visto che in approssimazione parassiale valgono le relazioni di Gauss e Newton che
esprimono la distanza focale di una lente sottile in funzione delle distanze dell’oggetto e
dell’immagine. Tale approssimazione cessa di essere valida non appena gli angoli , ’, e
(Fig. 1.10) non sono più approssimabili usando l’approssimazione al I ordine delle funzioni
trigonometriche.
’
Fig. 1.10 Per angoli grandi formati dai raggi luminosi rispetto all’asse ottico non vale l’approssimazione
parassiale.
Nel tal caso, sviluppando le leggi del diottro in approssimazione al III ordine, si osserva che i
raggi parassiali convergono più lontani dalla lente dei raggi marginali, dando luogo al
fenomeno dell’aberrazione sferica. Nel caso poi di oggetti estesi compaiono le aberrazioni
fuori asse di Coma, Astigmatismo, Curvatura di Campo, e Distorsione. Queste sono le cinque
principali aberrazioni monocromatiche che si ottengono con una trattazione matematica in
approssimazione al III ordine. A queste si deve aggiungere l’aberrazione cromatica dovuta al
fenomeno della dispersione della luce all’interno della lente.
1.4.1 Aberrazione sferica
L’aberrazione sferica è la più grave delle aberrazioni in quanto la sua presenza disturba la
qualità dell’immagine anche sull’asse ottico. Un sistema ottico affetto da aberrazione sferica
non è più stigmatico (ad un punto oggetto non corrisponde più un solo punto immagine, ma
una figura di aberrazione).
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Per ridurre l’aberrazione sferica le lenti vengono costruite con diverso fattore di forma:
q=
r2 + r1
.
r2 r1
Per q=0.714 si ha un minimo, tuttavia non è possibile annullare completamente tale
aberrazione in una singola lente a meno di non ricorrere a un costoso e difficile processo di
asferizzazione delle sue superfici.
L’aberrazione sferica longitudinale (il segmento FmFp lungo l’asse ottico) si può esprimere in
funzione dell’apertura della lente e della sua focale tramite la relazione l = cR 2 / f , dove c è il
coefficiente di aberrazione sferica, un numero puro che viene a dipendere dall’indice di
rifrazione del vetro, dai raggi di curvatura delle lenti (mediante il fattore di forma), e dalla
posizione relativa dell’oggetto e dell’immagine rispetto alla lente. L’aberrazione sferica
trasversale (perpendicolare all’asse ottico) è data invece dalla relazione approssimata
t 2cR3 / f 2 .
Fp
Fm
Fig. 1.11 La caustica di aberrazione sferica in sezione.
La figura di aberrazione che si produce (Fig. 1.11) viene detta caustica di aberrazione sferica;
essa ha le minime dimensioni in un punto detto circolo di minor confusione circa a ¾ di strada
tra il fuoco parassiale e quello marginale (vedi Cap. III).
1.4.2 Coma
La seconda per importanza delle aberrazioni monocromatiche della teoria al III ordine è detta
Coma. Essa deriva il suo nome dalla forma a cometa che si osserva quando i raggi provenienti
dall’infinito sono fuori asse. La figura di aberrazione si osserva anche se l’oggetto non è
all’infinito, ma l’apertura del fascio deve essere dominante rispetto alla sua inclinazione.
Ogni zona della lente forma un anello il cui centro si sposta mentre l’anello raggiunge le sue
dimensioni minime sul piano focale parassiale (Fig. 1.12) . Il raggio dell’anello viene detto
Coma sagittale, mentre la dimensione della figura di aberrazione nella sua lunghezza prende il
nome di Coma tangenziale.
A seconda del verso della figura a cometa si definisce una Coma positiva e una negativa. La
caustica che si produce non è un figura di rivoluzione.
Una lente con fattore di forma q=0.8 ha Coma nulla.
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1.4.3 Astigmatismo e Curvatura di Campo
Quando prevale l’inclinazione del fascio sulla sua apertura (sia per un fascio collimato che non
collimato) l’aberrazione predominante viene detta Astigmatismo. I raggi convergono invece
che in un punto su due segmenti s e t tra loro perpendicolari (Fig. 1.13).
Fig. 1.12 La caustica prodotta dalla Coma
t
s
Fig. 1.13 La caustica prodotta dall’astigmatismo.
- 12 -
L’astigmatismo è approssimativamente proporzionale alla lunghezza focale della lente e
dipende poco dalla forma di quest’ultima. Spaziando opportunamente le lenti in un sistema
ottico o introducendo dei diaframmi è possibile cambiare la curvatura delle superfici contenenti
t ed s.
Quando t coincide con s la superficie (paraboloidale) che si forma è detta superficie di Petzval
(vedi Cap. III). Tra i due fuochi vi è anche qui il circolo di minor confusione.
La curvatura di campo è invece un’aberrazione che non produce una perdita di stigmatismo per
il sistema ottico. Essa è sempre strettamente connessa con l’astigmatismo, nel senso che se in
un sistema ottico si riesce a far coincidere il fuoco tangenziale t con quello sagittale s, la nuova
superficie focale è necessariamente curva e non più piana.
1.4.4 Distorsione
Se si pone davanti o dietro ad una lente un diaframma l’immagine di un oggetto esteso risulta
distorta. Considerando come oggetto esteso una griglia quadrata, essa apparirà distorta a forma
di barile nel primo caso e a forma di cuscino nel secondo caso. Tale aberrazione non fa quindi
perdere di stigmatismo al sistema. Se l’ingrandimento relativo ad una qualunque coppia di
segmenti coniugati dell’oggetto e dell’immagine è costante, il sistema ottico si dice
ortoscopico.
1.4.5 Aberrazione cromatica
Quando la luce viene rifratta nel passaggio tra due superfici con diverso indice di rifrazione,
l’angolo di rifrazione è funzione della lunghezza d’onda della radiazione. Nel caso di un vetro
il potere dispersivo del materiale è definito dalla relazione:
1
=
nF nC
=
nD 1
(1.6)
dove nF, nD ed nC sono gli indici di rifrazione alla lunghezza d’onda corrispondente alla luce
blu (F), gialla (D) e rossa (C). Per molti tipi di vetro varia tra 30 e 60. La funzione n( )
generalmente decresce all’aumentare della lunghezza d’onda. La luce blu viene quindi
maggiormente deviata della luce rossa nel passaggio attraverso una lente2. Questo provoca il
fenomeno dell’aberrazione cromatica. La luce bianca collimata su una lente viene a focalizzarsi
in punti diversi sull’asse ottico; a partire dalla lente si incontrerà prima il fuoco del violetto e
poi quello del rosso. Tale aberrazione si può correggere utilizzando una combinazione di due
lenti con la medesima dispersione, ma diverso potere diottrico, uno grande e positivo (vetro
crown) e l’altro piccolo e negativo (vetro flint). La condizione affinché due lenti abbiano
aberrazione cromatica nulla è data dalla:
PD ' PD ''
+
=0
'
''
(1.7)
dove P’D e P”D sono i rispettivi poteri diottrici e ’ e ” i corrispondenti poteri dispersivi.
1.5 Diaframmi e pupille
Quando un diaframma è posto vicino ad una lente limita le dimensioni del fascio di raggi
luminosi che entrano nel sistema ottico, mentre quando è posto vicino al piano focale limita
2
Si tenga presente però che la dispersione non è proporzionale alla deviazione del raggio.
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l’angolo di entrata del fascio incidente. Il diaframma che regola la quantità di luce che entra nel
sistema e controlla quindi la brillanza superficiale dell’immagine è detto diaframma di
apertura. Quello che limita l’estensione del campo visuale è detto diaframma di campo.
In generale per un sistema ottico qualunque la pupilla d’entrata del sistema è data
dall’immagine del diaframma d’apertura fornita da tutte le lenti che lo precedono, mentre la
pupilla d’uscita è l’immagine del diaframma d’apertura data da tutte le lenti che lo seguono. Si
veda ad esempio la Fig. 1.14.
Pupilla d’uscita
Pupilla d’entrata
Chief ray
Fig. 1.14 La pupilla d’entrata e la pupilla di uscita in un sistema con diaframma dopo la lente.
In figura il diaframma di apertura è posto tra la lente ed il suo piano focale. L’immagine
virtuale ed eretta del diaframma formata dalla lente prende allora il nome di pupilla d’entrata,
mentre il diaframma di apertura coincide con la pupilla d’uscita. Il raggio che passa per il
centro della pupilla d’entrata e della pupilla d’uscita viene detto Chief ray (raggio principale).
Pupilla d’uscita
Pupilla d’entrata
Fig. 1.15 Pupilla d’entrata e d’uscita con diaframma che precede la lente.
In Fig. 1.15 invece il diaframma precede la lente e diviene anche pupilla d’entrata del sistema.
La sua immagine virtuale ed eretta data dalla lente è quindi la pupilla d’uscita del sistema. Si
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noti che se la sorgente luminosa non è all’infinito, ma abbastanza vicino alla lente, il
diaframma posto davanti alla lente può non fungere da pupilla d’entrata del sistema; in tal caso
è la lente stessa che costituisce il diaframma d’apertura, la pupilla d’entrata, e la pupilla
d’uscita.
Nel caso di più lenti per identificare la posizione delle pupille occorre identificare quale parte
del sistema funge da diaframma d’apertura e seguire la definizione di pupilla d’entrata e
d’uscita. Per le due lenti di Fig. 1.16 ad esempio,
Pupilla
d’uscita
Pupilla
d’entrata
Fig. 1.16 Il diaframma tra le due lenti è il diaframma d’apertura per il sistema. La pupilla d’entrata è l’immagine
del diaframma data dalla lente che lo precede. La pupilla d’uscita è l’immagine del diaframma data dalla lente che
lo segue.
il diaframma posto tra le due lenti costituisce il diaframma d’apertura. La sua immagine
virtuale data dalla lente che lo precede diviene la pupilla d’entrata del sistema, mentre la sua
immagine data dalla lente che lo segue è la pupilla d’uscita del sistema.
Diamo infine due ultime definizioni. Diremo finestra d’entrata di un sistema ottico quel
diaframma (o l’immagine di quel diaframma data dalla parte di sistema ottico che lo precede)
che sottende l’angolo più piccolo al centro della pupilla d’entrata. Analogamente la finestra
d’uscita sarà data dall’immagine del diaframma di campo data dalla parte di sistema ottico che
lo segue o anche l’immagine della finestra d’entrata data da tutto il sistema.