Estetica Sinestesie della musica Interscambi fra immaginazione sonora e rappresentazione visiva di Dina Riccò 1. Sollecitazioni visive dell’ascolto Il suono ha una particolare capacità di sollecitazione sinestesica. È nella sua stessa natura fisica: mira all’orecchio, ma nel contempo – oltre a fornire un’irresistibile fonte per l’immaginazione visiva1 – mette in moto tattilità e propriocezioni.2 L’evidenza di tale realtà fa parte dell’esperienza quotidiana. L’immersione in un ambiente sonoro, ancor più quando questo raggiunge elevati livelli d’intensità, coinvolge il nostro corpo nella sua totalità,3 e forse è proprio qui la ragione che spiega l’essere così inebriante, per i giovani e non, di ambienti come la discoteca. L’ascolto di musica ad un volume molto alto, con l’elevato livello delle vibrazioni sonore, consente infatti di raggiungere la consapevolezza della pervasività, fisica, corporale, della percezione sonora. A queste sollecitazioni sensoriali dirette si accompagnano poi percezioni di rimando, indotte, costituite dagli indizi rappresentativi che il suono fornisce con le sue qualità. La dinamica del suono, ad esempio, ossia l’essere piano o forte dello stesso, consente di definire le distanze, i livelli di prossimità, in sostanza gli spazi di una specifica esperienza percettiva. Come scrive Salvatore Sciarrino: «un suono forte si protende a toccare, ci minaccia ci investe ci travolge, un suono piano si allontana e le nostre pulsioni si acquietano».4 Lo stesso accade per altri caratteri del suono quali timbri, altezze, durate, capaci di rimandare ad altri spazi, visivi, tattili, o propriocettivi che siano.5 È proprio questo insieme di fattori percettivi, diretti e indotti, a costituire per generazioni di artisti, e ancor più di musicisti, motivo di esercizio dell’immaginario visivo, fino a portarli ad eludere la propria arte per alludere ad un’altra. Penso ad esempio alla musica di Claude Debussy, il compositore francese definito impressionista per quella particolare capacità di esprimere con la musica le 24 HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 aspirazioni – oltre che della poesia simbolista – dell’omonima pittura. Musicò poesie di Baudelaire (Cinq poèmes de Baudelaire, 1887-89), di Verlaine (Fetês galantes, in due serie 1892 e 1904), di Mallarmé (Prélude à l’après-midi d’un faune, 1882); così come altrettanto evidenti sono state nelle sue composizioni le influenze determinate da fattori visivi. Nelle sei Images per pianoforte (in due fascicoli, 1905 e 1907), di cui già il titolo indica, seppur metaforicamente, l’intenzionalità di evocare con la musica sensazioni visive; così come nei Nocturnes per orchestra (1897-99), che lo stesso Debussy raffronta alla pittura e che lo portano a dire che essi sono «una ricerca nei diversi arrangiamenti che può dare lo stesso colore, come per esempio, sarebbe in pittura uno studio nei grigi».6 Queste composizioni sembrano essere state ispirate a Debussy da alcuni quadri del pittore americano James Abbot Whistler – vissuto fra Parigi e Londra – intitolati appunto Nocturne che, per le loro qualità cromatiche, potrebbero proprio essere definiti come «uno studio nei grigi». In modo simile il musicista russo Modest Musorgskij ha espresso le sensazioni ricevute durante la visita ad un’esposizione di pittura, dell’amico Victor Hartmann, con la composizione di Quadri di un’esposizione (1874) per pianoforte, musica che sarà poi fonte di sollecitazione visiva per Wassily Kandinsky che ne dipinge l’omonima rappresentazione scenica (1928).7 A fianco dei musicisti che intenzionalmente perseguono la finalità di evocare colori con la musica, così come di utilizzare composizioni pittoriche quali fonti di ispirazione, vi sono poi anche compositori che raggiungono tale fine inconsapevolmente, la loro musica è cioè naturalmente colorata. Tra questi il musicologo Enzo Restagno, in un convegno tenuto a Reggio Emilia,8 ha ricordato compositori quali Béla Bartók e Igor Stravinskij. Del primo porta l’esempio di Musica per archi, percussioni e celesta (1936), che definisce «una simbiosi perfetta di natura e matematica»,9 poiché obbedisce alle regole della sezione aurea e della serie di Fibonacci; mentre di Stravinskij ricorda Le sacre du printemps (1913), un’opera capace di emanare, come gran parte della musica del compositore russo, immagini dotate di qualità sceniche tanto da apparire naturalmente colorata. Priva di elaborate suggestioni sceniche, ma simile nella capacità di suggerire immagini visive, è per Restagno la musica di Haydn: Ascolti la sinfonia de Il Mattino di Haydn e vedi un ambiente principesco senza inutile sfarzo; grandi finestre che danno su immensi giardini e allora i colori più tenui e dolci possono tornare a sorridere. Le ore del giorno scandite dai temi e dagli accordi si illuminano di una luce più lieve e più fine che sfiora ed accende i colori con grazia inimitabile, ti rendi conto che quella del suono è una realtà vibratoria, una sorta di colore quindi meno astrale e accecante, un colore incarnato e palpitante che della luce non ha l’implacabile evidenza. Per questo preferisco i colori che si sprigionano, in un certo senso involontariamente, dalle partiture timbricamente più sobrie di Haydn o di Beethoven che non quelli irradiati dalle musiche nate dal travaglio delle estetiche simboliste. I colori di Messiaen e di Skrjabin hanno qualcosa di affilato e troppo perentorio; sono colori puri riluttanti a qualsiasi incarnazione. Di loro non potresti parlare con metafore tratte dalla vita; la loro bellezza è altrove.10 Nella musica di Haydn, Beethoven, Stravinskij, Bartók, Albéniz – diversamente da quanto accade in Skrjabin e in Messiaen – il colore coincide con quella che Restagno chiama «concezione creaturale del suono e della musica»,11 e che potremmo dire essere nella loro stessa natura acustica. A fianco: Georgia O’Keeffe, Musica – Rosa e blu II (1919). New York, Collection of Whitney Museum of American Art Ci sono poi opere e contesti dell’ascolto in cui il suono non è più il solo elemento di sollecitazione sinestesica, ad esso si integrano altri fattori – visivi, cinetici, gestuali, ecc. – propri dell’opera o dell’evento musicale, che mutano l’esperienza percettiva nel suo complesso. Così la differenza percepibile fra l’ascolto di un brano musicale dal vivo, in una sala da concerto, e dello stesso brano da una registrazione non risiede certamente solo nella fedeltà della stessa o nella differente qualità del suono riprodotto, ma deve gran parte delle proprie qualità a quelle informazioni visive – la gestualità del direttore d’orchestra, così come l’articolazione contenuta o esasperata del solista12 – che nella registrazione, solo audio, vengono a mancare. Le sinestesie che si vengono a manifestare nella musica sono quindi dovute non solo alle modalità di percezione del registro sonoro, ma anche alle modalità di rappresentazione dello stesso, nelle quali il sonoro non è che una delle componenti. Questo non deve stupire; sappiamo bene che la musica, fin dalle sue origini, è praticata come un’espressione artistica globale, alla quale partecipano altri elementi e linguaggi. Già in Cina all’epoca della dinastia Haong-ti (III millenio a.C.) la musica era intesa come una delle componenti di un’espressione artistica unitaria che comprendeva anche la poesia e la danza. In questi popoli la musica è parte di una concezione cosmologica nella quale i suoni sono relazionati ai colori, ai punti cardinali, alle stagioni, ai pianeti e agli elementi. Simili analogie si trovano anche nella musica indiana del periodo vedico (II millennio a.C.), con una pratica musicale fondata sulle râgas, ossia modelli di melodia dal preciso contenuto espressivo ed emotivo, ognuno capace di specifici poteri extramusicali: […] per ciascuna di esse [le râgas] v’erano le attribuzioni cosmiche, infatti ognuna aveva potenti energie che esercitavano la loro influenza sull’uomo e sulla natura […] i collegamenti con i segni dello zodiaco, con i pianeti, con i giorni della settimana, con le stagioni, i colori, gli anni degli uomini, ed altro ancora, superavano anche le proporzioni cinesi».13 Questa costante ricerca di corrispondenze fra gli elementi sappiamo del resto essere presente nel teatro musicale di tutti i tempi: nella Tragedia greca, come nelle Sacre rappresentazioni (dal XI al XIV sec.), nel Melodramma del ’600 e soprat- tutto – come sottolinea Carlo Majer – nell’Opera dell’800: […] nel prologo di un’Opera di Francesco Cavalli, Il Ciro, 1660, dietro le pesanti cortine di velluto che nascondono la scena di un Teatro d’Opera si possono sorprendere Poesia, Musica, Pittura e Architettura intente a regolare il proprio lavoro su quello delle colleghe, mediante un minuzioso sistema di controlli incrociati. Lo scopo dell’Opera infatti, e il motivo più probabile del suo rapido ed immenso successo, è quello di proporsi come massimo sistema possibile di sinestesie.14 È proprio questo «impulso sinestetico dell’Opera»15 che porterà Richard Wagner a considerare il dramma musicale come Gesamtkunstwerk, ossia come un’opera d’arte totale nella quale si realizza «la sintesi più alta e assoluta di musica, di poesia, di danza e di arti figurative; insomma una perfetta fusione di fenomeni visivi e uditivi».16 Accanto a Wagner vanno almeno ricordati Aleksander Skrjabin e Arnold Schönberg le cui opere, rispettivamente il Prometeo (1910) e La Mano felice (190013), sono nel tempo divenute – accanto a Il suono giallo (1909) di Wassily Kandinsky – opere sinestesiche per antonomasia.17 Opere che, così come aveva fatto in precedenza padre Castel con il clavecin oculaire (1735)18 – uno strumento a tastiera che produceva colori al posto dei suoni – o il pittore milanese Giuseppe Arcimboldi (1576-87) con la sua scrittura musicale cromatica, formulano ognuna una propria teoria sinestesica – fra suoni, colori, cinetismi, talvolta gestualità – pervenendo altresì ad una loro messa in pratica. La rilevanza e notorietà di queste opere, teoriche e pratiche assieme, è dovuta – nonostante la riconosciuta soggettività delle teorie dagli autori formulate – al loro porsi come prodotti intenzionali, frutto di una precisa volontà e consapevolezza sinestesica. L’importanza che queste sollecitazioni visive scaturite dalla musica hanno assunto nel loro complesso, siano esse un prodotto intenzionale o meno, si spiega considerando che la sensazione con maggiore potenzialità e forza sinestesica è il suono – vedi la frequenza dei casi di audizione colorata19 – mentre ben più rare sono le sinestesie prodotte da altre sensazioni. La stessa combinazione di sensazioni uditive/visive prese nella direzione inversa – pur essendo praticata, come Estetica vediamo nel seguito, con la lettura musicale – è ben più difficoltosa da rappresentare, da tradurre in dati sonori. Ossia: «il visivo non si lascia facilmente trasformare, ridurre ad udibile».20 2. Evocazioni sonore della scrittura musicale Accanto agli aspetti visivi evocati, o rappresentati, la musica ha una sua specificità visiva, spesso grafica, evidente nel momento notazionale. In effetti la notazione musicale – e più in generale ogni scrittura fonetica – può essere intesa come un sistema sinestesico per definizione, ossia un particolare tipo di codice in cui il testo visivo ha un immediato rimando sonoro, dove ogni segno ha un suono, e questo è a sua volta il risultato di un gesto. È la stessa duplice trasposizione che il musicista effettua ogni volta che si accinge ad una esecuzione, e che talvolta distrae il musicista dilettante nella contemplazione che l’occhio sullo spartito, in concomitanza alla collaborazione tattile e propriocettiva con lo strumento, toglie all’orecchio. Lo stesso atto di suonare può essere quindi inteso come una pratica sinestesica. Ma già il solo guardare la partitura, osservare le note sul pentagramma, implica la formazione di un’immagine sonora che anticipa i tempi della musica e la fa sentire mentalmente, prima della sua effettiva emissione: […] una semplice nota sul pentagramma solo che la guardi e la pensi suono, si anima di una diabolica danza: quell’accordo è forte, è debole, è alto, è più basso, è più lungo, è men lungo, è rotondo, è angoloso, è dolce, è aspro, ha un timbro, è già un altro timbro, ora torna quello […].21 L’immaginazione sinestesica che scaturisce dal testo musicale non sempre però rispecchia il reale contenuto, l’effetto sonoro che risulterà dalla sua esecuzione; spesso infatti l’orecchio si lascia trascinare dall’occhio. Questo accade sia nel compositore, durante la scrittura, sia nell’interprete durante la lettura che precede l’esecuzione. Pierre Boulez descrive bene tale relazione nel testo seguente: Per il musicista vi è un rapporto molto pericoloso, se non sottile, tra l’occhio e l’orecchio. Non sto parlando dell’occhio in quanto ispirazione, ma dell’occhio che guarda la partitura che si va creando. Una partitura è anche fatta per essere letta e il compositore la sente mentalmente menN° 14 APRILE-GIUGNO 2003 HORTUS MUSICUS 25 Estetica A fianco: Wassily Kandinsky, Impressione III (Concerto) (1911). Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus tre la scrive e la legge e, a volte, tende a lasciarsi prendere da problemi grafici; potrà essere attratto da una bella disposizione della trascrizione visiva dal suo interesse estetico. Molti compositori si sono lasciati sedurre dall’aspetto estetico della partitura. Si possono, anche in Bach, incontrare certi dispositivi che sono altrettanto ottici che uditivi e direi che, in certi canoni, si soddisfa più l’occhio che l’orecchio. Non che la musica non sia bella, ma le simmetrie sono percepite più direttamente dall’occhio che dall’orecchio. Se si guarda un contrappunto rovesciato, l’occhio abbraccia rapidamente la linea che va da A a Z, poi quella che va da Z ad A, e afferra simultaneamente tutti gli intervalli. È molto più difficile per l’orecchio, perché la memoria registra nella dimensione del tempo, l’orecchio non può ascoltare contro il tempo. […] la memoria uditiva, che opera nella percezione della musica, è un fenomeno molto meno globale della memoria visiva e dispone di riferimenti meno sicuri perché legati all’istante. Questo problema si pone per il musicista e spiega come, nella scrittura, a volte abbia la tendenza ad andare al di là delle possibilità uditive della musica, affascinato com’è dal bell’aspetto ottico della partitura.22 Il fascino che trapela dalla partitura, nel gioco di fattori evocativi e informativi del codice che rappresenta, è connaturato alla notazione stessa, al suo essere una rappresentazione visiva che rimanda ad un evento sonoro, e già nelle forme primordiali della notazione musicale è evidente questa necessità di restituire la stretta interdipendenza fra la facciata visiva e il risvolto uditivo di uno stesso fatto. Nei primi tentativi notazionali, che si suppongono risalire alle pitture egizie del Vecchio Regno (ca. 2700 a. C.), la nota musicale veniva espressa mediante la raffigurazione di un maestro colto nell’intento di indicare, con gesti della mano, come lo strumentista dovesse suonare. Le origini delle note musicali in quanto segni autonomi sono invece relativamente più recenti; se ne trovano tracce in papiri del V e VI secolo, quando il tono e la durata dei suoni venivano indicati con colori e cerchi dai diversi diametri. Non sappiamo con certezza con quali corrispondenze segno e suono venissero combinati; è però ipotizzabile una corrispondenza dei toni con i colori e delle durate con le grandezze dei diametri dei cerchi.23 Tali notazioni non erano tuttavia ancora intese come sistemi di segni organizzati in veri e propri codici, e in effetti il loro 26 HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 scopo non era tanto quello di tramandare dati a chi non sa, quanto invece di ricordare a chi già sapeva: erano perciò essenzialmente ausili mnemonici. Non possiamo ancora identificare in questi segni precise melodie; in esse il segno si limita a suggerire il suono, e di fatto le melodie esistevano solo nella memoria del cantore. La stessa finalità persiste ancora nella notazione neumatica, un sistema di segni – i neumi appunto (dal greco neuma = gesto, cenno, segno) – che deriva dagli accenti grammaticali della lingua, a cui si aggiunge un corrispettivo gestuale. Gli accenti acuto (´), grave (`) e circonflesso (^) collocati sopra alle sillabe del testo liturgico avevano la sola funzione di ricordare la direzione della melodia – rispettivamente ascendente, discendente e ascendente/discendente – al praecentor che l’avrebbe poi trasmessa ai cantori con opportuni gesti della mano. Questa notazione – detta anche chironomica (dal greco cheirós = mano e nómos = legge) – potremmo dire essere «un embrione di coreografia»,24 non indicando l’effetto fonico, quanto invece i movimenti, i gesti, che consentono di produrre quel determinato effetto. I neumi, in un primo tempo collocati direttamente sopra le sillabe del testo da cantare (neumi in campo aperto), vennero in seguito collocati su un rigo musicale composto da due sole linee (notazione diastematica): una linea gialla fissava la nota Do, mentre una linea rossa fissava la nota Fa.25 Anche la grafia dei neumi subisce una sensibile trasformazione che porta gli originari accenti alla caratteristica forma quadrata (XIII sec.). Nell’XI secolo poi, per opera di Guido d’Arezzo, viene introdotto il tetragramma – un rigo musicale formato da quattro linee – che, unito all’uso delle chiavi e alla nomenclatura delle note, definisce in modo inequivocabile l’altezza e gli intervalli fra i suoni. Mancano solo da codificare i valori di durata delle note, che saranno definiti in seguito da Francone di Colonia con la notazione mensurale (1260 ca.). La notazione musicale moderna, formatasi intorno al ’600 e fondata sull’antica notazione mensurale,26 è stata oggetto di progressivi perfezionamenti che giungono al culmine nell’Avanguardia postweberiana, quando le partiture delle composizioni presentano indicazioni sempre più dettagliate e puntuali, fino a raggiungere livelli di definizione del suono tali da non essere più sostenibili, sia per l’interprete sia per l’ascoltatore. Ne troviamo esempi nell’opera di Karlheinz Stockhausen, con parte dei Klavierstücke (1952-61), così come in Pierre Boulez, con Structures 1 e 2 (1951-61; 1963), composizioni cioè che sembrano rivolgersi ad un ascoltatore dalle ipotetiche capacità percettive discriminatorie infinitesimali; opere in cui la serializzazione delle durate, dei ritmi, delle dinamiche sono tali da restituire composizioni non solo difficili da eseguire con la precisione prescritta ma pure fisiologicamente non percepibili, neppure dal più accorto dei musicisti.27 Alla fine di questo percorso evolutivo il codice musicale giunge quindi a possedere un’estrema capacità denotativa che porta con sé come conseguenza un parallelo impoverimento del potenziale connotativo del segno e con esso una proporzionale riduzione dei suoi rimandi sinestesici con il suono. In concomitanza, e forse proprio per ovviare all’estrema rigidità espressiva di tali scritture, si avvia una tendenza notazionale opposta, non più tesa alla formulazione di sistemi di segni univoci e istituzionalizzati, quanto invece a raffigurazioni dell’evento sonoro che consentano di riassumere l’essenza di una composizione. Da qui escono partiture in cui l’aspetto visivo assume ruoli di sempre maggiore rilievo, talvolta perfino con significati indipendenti dalla effettiva e possibile realizzabilità sonora. Troviamo così notazioni in cui alle note si accostano anche segni matematici, grafici, pittorici e gestuali.28 Per quali motivi ci si libera con tanto vigore dalla rigidità della notazione tradizionale? Quali sono gli stimoli che guidano questo cambiamento? A partire dalla fine degli anni Cinquanta, emergono tra i compositori due principali esigenze.29 Un primo problema si pone perché la notazione musicale tradizionale non consente la scrittura di tutti i suoni possibili, il temperamento equabile determina precise altezze dei suoni al di fuori delle quali non è possibile andare. In questa notazione i compositori non trovano quindi segni idonei, necessari per annotare nuove idee musicali. Altre volte il problema si ribalta: non sono più le esigenze del suono ad emer- Estetica gere, ma sono invece le possibilità visive della partitura a diventare seducenti per il compositore, tanto da prendere il sopravvento sull’intento di comunicare un contenuto musicale. Ne escono partiture che assumono la stessa forma e funzione di un’opera visiva, non più quindi strumento prescrittivo per l’esecuzione, quanto opere e partiture fatte solo per essere osservate. Queste tendenze notazionali, pur opposte, portano a composizioni che non sono rigidamente classificabili come soluzioni dell’una o dell’altra necessità; più spesso infatti le esigenze del suono si compensano con quelle grafiche: […] nei vari compositori si verifica un’evidente corrispondenza fra il linguaggio grafico e quello musicale. In altre parole, le immagini visive, facilmente distinguibili e catalogabili (l’astrazione computerizzata di un certo Stockhausen e di Schäffer, le tavole fra il pop e il concettuale di Lombardi e Simonetti, le partiture tipicamente gestuali del Bussotti fine anni ’50 e quelle evidentemente neoplastiche di Earle Brown dell’inizio dello stesso decennio, la poesia visiva di Luciano Ori, l’astrazione che si abbandona ad un graficismo decisamente decorativo e compiaciuto, genericamente avveniristico in Furre, Moran e certo Cardew e così via), quando non si esauriscono in se stesse, rimandano ad immagini sonore che hanno le stesse caratteristiche formali.30 In questa svolta della scrittura musicale non certo priva di rilevanza è l’influenza esercitata dalla fioritura, in quegli stessi anni, delle prime esperienze di poesia concreta e visiva. Penso in particolare agli esperimenti linguistici compiuti da Augusto De Campos, antesignano della poesia concreta brasiliana, fra cui ricordo un poema-partitura31 chiamato Poetamenos (1953) dove i timbri fonetici – ispirati dalla Klangfarbenmelodie di Webern – sono contrassegnati dai diversi colori delle parole o delle singole sillabe.32 Un’opera che – in questa ricerca delle qualità fonetiche della parola, oltre che grafiche, così come nell’idea di un testo da intendere quale partitura – ricorda a sua volta il precedente movimento lettrista, fondato a Parigi nel 1942 dal poeta rumeno Jean-Isidore Goldstein (Isidore Isou),33 o ancor prima, la Ursonate di Kurt Schwitters (1921-32). Ma come arrivano i compositori ad individuare i giusti segni? Quali sono le relazioni che essi definiscono fra segno e suono? E ancora, quali le corrispondenze peculiari di ognuno (soggettive) e quali invece quelle ricorrenti (intersoggettive)? Osservando le corrispondenze segno/ suono prevalenti, sembrano emergere alcune tendenze associative comuni.34 Distinguo per comodità questi segni sonori in tre gruppi, corrispondenti ad altrettanti caratteri del suono: altezza, durata e intensità; tralascio di comparare il timbro, perché solitamente questo viene specificato verbalmente con la destinazione strumentale. L’altezza dei suoni, così com’è nella notazione tradizionale, tende ad essere tradotta graficamente con segni che mutano solo per il loro diverso posizionamento verticale, rispetto a un sistema orizzontale di riferimento definito, oppure rispetto all’intera pagina: un segno collocato nella parte alta della partitura tende così a corrispondere a un suono acuto, viceversa un segno collocato in basso tende a corrispondere a un suono grave. In alcuni casi poi – vedi ad esempio Roland Kayn in Phasen (1961) – lo stesso principio viene rispettato anche nella disposizione dell’organico orchestrale nella pagina della partitura: in basso gli strumenti dal timbro grave, in alto gli strumenti dal timbro acuto. Già Luigi Russolo, compositore e pittore futurista, nel suo Risveglio di una città (1913) per intonarumori, aveva seguito lo stesso principio, collocando sul rigo, al posto dei segni puntuali, autonomi, delle note, linee continue. Una maggiore varietà di soluzioni grafiche caratterizza i segni utilizzati per definire il tempo, le durate dei suoni, la velocità dell’esecuzione. È in questo caso più difficile, e per certi aspetti anche inspiegabile, trattandosi della rappresentazione di una dimensione quantitativa e in quanto tale non specificatamente modale,35 trovare elementi ricorrenti. Ad esempio Pierre Boulez, in Plin selon pli (1958-60), utilizza linee divergenti e convergenti per indicare, rispettivamente, un incremento (accelerando) o una riduzione (ritardando) della velocità di esecuzione. Henri Pousseur riduce o allarga la distanza fra le note, per comprimere o dilatare i tempi, mentre Sylvano Bussotti indica con l’inclinazione del rigo l’accelerazione del movimento musicale. O ancora Harald Bojé che – nel suo metodo didattico pianistico per principianti – varia la lunghezza del segno in misura proporzionale alla durata del suono. Infine i segni dinamici, i segni che indicano l’intensità, l’essere forte o piano di un suono, e la tendenza nelle partiture N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 HORTUS MUSICUS 27 Estetica ad indicare l’aumento di intensità del suono con un parallelo allargamento delle dimensioni del segno. In Bruno Bartolozzi, ad esempio, questo carattere del suono è indicato con la variazione di spessore della linea d’unione fra le note: alla linea sottile corrisponde un suono debole (piano), mentre alla linea spessa corrisponde un suono intenso (forte). In Stockhausen – vedi Zyklus (1959) per percussioni – è invece la variazione delle dimensioni del punto che denota l’intensità del suono. A queste notazioni, in cui i segni definiscono, più o meno rigorosamente, l’effetto sonoro finale della composizione, si accostano in parallelo altre modalità notazionali,36 sviluppate sempre dalle neo-Avanguardie, il cui principio di base può essere riconosciuto già nelle intavolature del XV secolo.37 Si tratta di notazioni gestuali, che quindi notano non gli effetti sonori, bensì le azioni da compiere per produrre tali effetti, notazioni cioè in cui il gesto assume la funzione di elemento conduttore della lettura musicale: Ciò che contraddistingue questo tipo di grafia [la notazione gestuale] nell’ambito dell’avanguardia è il fatto che il gesto esecutivo non è più inteso come semplice veicolo di un’intenzione musicale, ma viene investito di un suo autonomo valore estetico […] la gestualità esecutiva viene valorizzata soprattutto in quanto portatrice di una virtualità scenica che conferisce all’evento musicale una sua immanente teatralità.38 Rappresentative in tal senso sono composizioni quali December (1952) di Earle Brown, con una partitura ridotta al puro schema di gesticolazione di un ipotetico direttore d’orchestra e che mantiene l’ortogonalità di un quadro di Mondrian;39 oppure Transición II (1959) di Mauricio Kagel, dove i segni grafici sono utilizzati per indicare al percussionista i punti nei quali colpire lo strumento e con quale frequenza;40 o anche Gesti sul piano (1971) di Giuseppe Chiari, dove l’autore annota tutti i movimenti da compiere, distinguendo quelli per le dita, per i polsi e per gli avambracci.41 È quindi evidente che uno stesso effetto fonico può essere espresso con una molteplicità di grafie, così come l’individualità dell’immaginazione sinestesica propria ad ognuno di noi fa sì che uno stesso segno possa evocare associazioni fra loro diverse e che a loro volta possono, o meno, appartenere al mondo dei suoni: 28 HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 E quando il segno rinvia ad altro da sé, spesso questo non è direttamente un suono, bensì un’azione, un gesto dotato di virtualità scenica, una reazione mentale, rispetto ai quali il suono può anche non essere lo scopo primario, ma un semplice accidente di percorso.42 La continua variabilità dei rapporti fra il segno e il suo supposto riferimento sonoro, nel progredire della scrittura musicale, mostra altresì come le mutevoli capacità sinestesiche della notazione siano legate all’elasticità di tale rapporto. La fluidità notazionale, consentendo un’ampia libertà interpretativa, permette nel contempo un maggiore coinvolgimento e apertura nei confronti di sensi altri e proprio per questo, tra l’altro, viene sfruttata nei nuovi metodi didattici pianistici mirati non più all’apprendimento della lettura di un’unica scrittura, ma alla pratica – grafica e gestuale – di una pluralità di scritture.43 Infine non va tralasciato un ultimo importante fattore: le combinazioni segno/suono ricorrenti nelle nuove partiture – nello specifico le associazioni suono forte con segno grande e, viceversa, suono debole con segno piccolo; così come suoni acuti con segni piccoli, spigolosi, posizionati in alto, e al contrario suoni gravi con segni grandi, arrotondati, posizionati in basso44 – sono anche, a posteriori, confermate dalle sperimentazioni condotte dagli psicologi della percezione nella ricerca delle associazioni uditivo/visive ricorrenti nelle sinestesie.45 E forse la ragione ultima che ha guidato le soluzioni prospettate dall’introduzione di nuove scritture sta proprio qui: seguire semplicemente la nostra natura sinestesica.■ NOTE Sappiamo infatti che uno stimolo, anche quando rivolto ad uno specifico organo sensoriale, può altresì attivare sensi non direttamente sollecitati. Il suono in particolare, rispetto ad altre sensazioni, come dimostra la frequenza dei casi di audizione colorata – percezioni cromatiche indotte da eventi audio –, sembra avere in tal senso una particolare carica evocativa sinestesica. Vedi: Dina Riccò, Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell’epoca dei multimedia, Etas, Milano 1999. 1 A fianco: Piet Mondrian, Composizione a colori A (1917). Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller Come scrive Tafuri: «Quando parliamo dei processi della percezione uditiva non bisogna dimenticare comunque che ad essi partecipa non solo l’orecchio, ma anche il tatto (le vibrazioni del corpo), la vista (vedere chi suona) e il senso cinestesico o senso muscolare (posizioni del corpo, sensazione di tensione o rilassamento, ecc.)». Johannella Tafuri (a cura di), Psicologia genetica della musica, Bulzoni, Roma 1991, pp. 15 s. 3 Una conferma a questa asserzione è data da Révész nel pensiero seguente: «L’effetto puramente sensoriale della musica si basa, da una parte sulla massa sonora e sul ritmo, e dall’altra sugli effetti vibratori e vasomotori delle masse sonore». Géza Révész, Einführung in die musikpsychologie, Verlag, Berna 1954 (trad. it.: Psicologia della musica, G. Barbera, Firenze 1983, p. 218). Riguardo poi alle relazioni fra le caratteristiche del suono e il corpo umano precisa quanto segue: «Si dimostra che quanto più una nota è profonda tanto più in basso vengono localizzate nel corpo le sensazioni di vibrazione. Le note dei contrabbassi, celli, fagotti, corni, ecc., vengono localizzate nella cassa toracica, quelle provenienti dai violini, flauti, ecc. nella testa» (ivi, p. 216). 4 Salvatore Sciarrino, Le figure della musica, Ricordi, Milano 1998, p. 67. 5 Più in generale sugli spazi dell’ascolto vedi Dina Riccò, Stereotipìe dell’ascolto, in il Verri, n. 4-5, 1997, pp. 78-86. 6 La citazione è tratta da una lettera che Debussy inviò a Ysaye, parzialmente riportata in Guido Salvetti, Grande Storia della Musica. Il primo novecento a Parigi (1978), Fabbri, Milano 1983, p. 32. 7 Vedi Vasilij Kandinskij, Scritti intorno alla musica, a cura di Nilo Pucci, Discanto, Firenze 1979, pp. 61 ss. 8 Un ciclo di incontri sul colore, chiamato La settimana del colore, che si è tenuto a Reggio Emilia dal 2 all’8 aprile 1990. Uno di questi – dal titolo Il colore: suonarlo ascoltarlo, al quale hanno partecipato Sergio Bassetti, Daniela Iotti, Enzo Restagno e Luigi Veronesi – era interamente dedicato alle relazioni fra suoni e colori. 9 La citazione è tratta dalla registrazione dell’intervento di Enzo Restagno in occasione del Convegno La settimana del colore. Vedi anche la nota precedente. 10 Enzo Restagno, I colori della musica: routine e metafisica, in C. Colli (a cura di), La settimana del colore, Atti del Convegno, Reggio Emilia, 2-8 apr. 1990, pp. 35 s. 11 Vedi nota 9. 12 Cfr. Ernst Ansermet, Scritti sulla musica (1943), Curci, Milano 1983, in particolare il cap. Il gesto del direttore d’orchestra. 13 Curt Sachs, La musica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1981, p. 171. 14 Carlo Majer, Musica e pittura, in Carlo Majer (a cura di), Musica e pittura, Mondadori, Milano 1988, pp. 54-148 (74). 15 Ibid. 16 Rino Maione, Dai Greci a Schönberg, Hoepli, Milano 1986, p. 267. 17 Per una descrizione più dettagliata di Prometeo e La Mano felice vedi Riccò, Sinestesie per il design, cit., pp. 143-152. 18 Per una descrizione più dettagliata vedi ivi, pp. 128-130. 2 19 Cfr. ivi. Per una trattazione estesa dell’audizione colorata nella sua evoluzione storica vedi Tonino Tornitore, Storia delle sinestesie. Le origini dell’audizione colorata, Genova 1986; dello stesso autore vedi anche Scambi di sensi. Preistorie delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino 1988. 20 Giovanni Anceschi, Choreographia universalis, in L’oggetto della raffigurazione, Etaslibri, Milano 1992, pp. 115-148 (118). Nelle rappresentazioni sinestesiche, soprattutto quando in forma di traduzioni da un registro all’altro, sono quasi sempre il suono o la musica le fonti della traduzione, ben più rare sono le traduzioni sinestesiche dal visivo. È soprattutto quindi l’evento temporale, forse per la sua lettura sequenziale, che viene tradotto in dato spaziale e non viceversa. Vedi Riccò, Sinestesie per il design…, cit., pp. 117 ss. 21 Giorgio Graziosi, L’interpretazione musicale, Einaudi, Torino 1967, p. 24. 22 Pierre Boulez, Il paese fertile. Paul Klee e la musica, Leonardo, Milano 1990, pp. 97-100. 23 Howard Brown, Notazione, in Enciclopedia della musica, III, Utet, Torino 1966, p. 501. In seguito, nell’Ars Nova (XIV sec.), i colori – il rosso e il nero – verranno usati per precisare una proporzione fra le durate delle note: tre note rosse equivalgono a due note nere: cfr. ivi, pp. 513 ss. 24 Anceschi, cit., p. 119. 25 Questa contrassegnazione cromatica è opera di Guido d’Arezzo (XI sec.), che aveva usato il colore nelle linee del rigo musicale per contraddistinguere, anche visivamente, la posizione dei semitoni (Mi-Fa e Si-Do). Cfr. Maione, cit., p. 29. Vedi anche Moines de Solesmes (a cura di), La notation musicale des chants liturgique latins, Paris 1959, in particolare didascalie nn. 37 e 38. 26 Si tratta di un sistema di notazione nato con la musica polifonica (secc. XII-XIII) che consentiva di definire precisi rapporti di valore, di durata fra una nota e l’altra. 27 Va precisato che questo eccessivo rigore notazionale è probabilmente legato anche alla nascita in quegli anni della musica elettronica. Vedi Domenico Guaccero, L’«alea» da suono a segno grafico, in La rassegna musicale, n. 4, 1961, pp. 367-389 (384). 28 Sulle qualità grafiche della notazione musicale vedi Franzsepp Würtenberger, Der Einbruch des Graphischen in das Schaffen der Komponisten, in Malerei und Musik. Die Geschichte des Verhaltens zweier Künste zueinander, dargestellt nach den Quellen im Zeitraum von Leonardo da Vinci bis John Cage, Lang, Frankfurt am Main, Bern, Las Vegas 1979, pp. 215-237. 29 Cfr. Libero Farné, Vedere il jazz, Gammalibri, Milano 1982. 30 Ivi, p. 181. 31 Uso per quest’opera la locuzione poema-partitura – pur essendo una locuzione introdotta da Bernard Heidsieck solo l’anno successivo, nel 1954 – perché di fatto si tratta di un’opera il cui testo funziona come un sistema notazionale che guida l’interpretazione della declamazione. Vedi Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino 1978, p. 49. 32 Cfr. ivi, p. 76. 33 Vedi Isidore Isou, Introduction à une nouvelle poésie et à une nouvelle musique, Gallimard, Paris 1947. Un estratto del manifesto di Isou è anche in Luciano Caruso (e altri), Il colpo di glottide. Estetica La poesia come fisicità della materia, Vallecchi, Firenze 1980, pp. 74-77. Più in generale vedi Danielle Londei (a cura di), Le lettrisme, testi di Gabriele Aldo Bertozzi, Lamberto Pignotti, Catalogo dell’esposizione, Essegi, Ravenna 1989. Vedi anche AA.VV., La musique lettriste, in La Revue Musicale, n. 282-283, Richard-Masse, Paris 1971. 34 Le generalizzazioni che seguono prendono come riferimento le raccolte di partiture contenute nel catalogo della mostra Spartito preso, tenuta a Palazzo Vecchio, Firenze, nel 1981 (cfr. AA.VV., Spartito preso. La musica da vedere, Vallecchi, Firenze 1981) e in Daniele Lombardi, Scrittura e suono. La notazione nella musica contemporanea, Edipan, Roma 1980; oltre alle classificazioni dei segni utilizzati dalle nuove partiture presenti in Luigi Donorà, Semiografia della nuova musica, G. Zanibon, Padova 1978 e Gardner Read, Pictographic Score Notation. A compendium, Greenwood Press, Westport, Connecticut, London 1998. 35 Alcune dimensioni della rappresentazione, come il colore per il visivo, sono specifiche di un registro sensoriale, mentre altre – come già Aristotele rilevava nel De Anima quando parlava di sensibili comuni, ossia quei sensibili (il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità) che non necessitano di uno specifico organo sensoriale – possono essere percepite da più modalità sensoriali. Vedi Riccò, Sinestesie per il design…, cit., p. 16. Sulle differenze, nella raffigurazione, fra dimensioni quantitative e qualitative vedi Donald A. Norman, Artefatti cognitivi, in Sistemi Intelligenti, n. 3, 1991, pp. 453-476. 36 Per una classificazione esaustiva di questi sistemi di notazione vedi AA.VV., Spartito preso…, cit. 37 Sono notazioni per strumenti a corde e a tastiera adottate in Europa nel ’500 e nel ’600. La tipica intavolatura è quella per liuto che riproduce graficamente le sei corde dello strumento, sulle quali sono poste lettere o simboli che indicano la zona da premere per ottenere determinati suoni. 38 Andrea Lanza, in Howard Brown - Andrea Lanza, Notazione, in Dizionario della musica, III, UTET, Torino 1984, pp. 338-367 (361). 39 Vedi Daniele Lombardi, in AA.VV., Spartito preso…, cit., p. 15. 40 Cfr. Mauricio Kagel, Zur neuen musikalischen Graphik, in Ulm, n. 7, 1963, pp. 18-21. 41 Vedi Daniele Lombardi, Scrittura e suono…, cit., pp. 50, 103 ss. Vedi anche AA.VV., Spartito preso…, cit., p. 94. 42 Lanza, cit., p. 349. 43 Vedi in particolare Harald Bojé, Klavierschule für Anfänger, Universal, Wien 1982 (tr. it. Il pianoforte, Ricordi, Milano 1994). 44 Vedi Dina Riccò, Le associazioni ricorrenti delle sinestesie visivo/uditive, in Sinestesie per il design…, cit. 45 In particolare il riferimento è alle ricerche di Marks. Vedi Lawrence E. Marks, On Associations of Light and Sound: the Mediation of Brightness, Pitch, and Loudness, in American Journal of Psychology, n. 87, 1974, pp. 173-188. Dello stesso autore vedi anche The Unity of the Senses, Academic Press, New York 1978. Per una sintesi dei risultati di queste e altre ricerche sulle associazioni ricorrenti vedi Riccò, Sinestesie per il design…, cit., pp. 90 ss. N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 HORTUS MUSICUS 29