Estetica
Sinestesie della musica
Interscambi fra immaginazione sonora
e rappresentazione visiva
di Dina Riccò
1. Sollecitazioni visive dell’ascolto
Il suono ha una particolare capacità
di sollecitazione sinestesica. È nella sua
stessa natura fisica: mira all’orecchio, ma
nel contempo – oltre a fornire un’irresistibile fonte per l’immaginazione visiva1
– mette in moto tattilità e propriocezioni.2
L’evidenza di tale realtà fa parte dell’esperienza quotidiana. L’immersione in
un ambiente sonoro, ancor più quando
questo raggiunge elevati livelli d’intensità,
coinvolge il nostro corpo nella sua totalità,3 e forse è proprio qui la ragione che
spiega l’essere così inebriante, per i giovani e non, di ambienti come la discoteca.
L’ascolto di musica ad un volume molto
alto, con l’elevato livello delle vibrazioni
sonore, consente infatti di raggiungere la
consapevolezza della pervasività, fisica,
corporale, della percezione sonora.
A queste sollecitazioni sensoriali
dirette si accompagnano poi percezioni
di rimando, indotte, costituite dagli indizi
rappresentativi che il suono fornisce con
le sue qualità. La dinamica del suono, ad
esempio, ossia l’essere piano o forte dello
stesso, consente di definire le distanze, i
livelli di prossimità, in sostanza gli spazi di
una specifica esperienza percettiva. Come
scrive Salvatore Sciarrino: «un suono forte
si protende a toccare, ci minaccia ci investe ci travolge, un suono piano si allontana
e le nostre pulsioni si acquietano».4 Lo
stesso accade per altri caratteri del suono
quali timbri, altezze, durate, capaci di
rimandare ad altri spazi, visivi, tattili, o
propriocettivi che siano.5
È proprio questo insieme di fattori
percettivi, diretti e indotti, a costituire per
generazioni di artisti, e ancor più di musicisti, motivo di esercizio dell’immaginario
visivo, fino a portarli ad eludere la propria
arte per alludere ad un’altra.
Penso ad esempio alla musica di Claude
Debussy, il compositore francese definito
impressionista per quella particolare
capacità di esprimere con la musica le
24
HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003
aspirazioni – oltre che della poesia simbolista – dell’omonima pittura. Musicò
poesie di Baudelaire (Cinq poèmes de
Baudelaire, 1887-89), di Verlaine (Fetês
galantes, in due serie 1892 e 1904), di Mallarmé (Prélude à l’après-midi d’un faune,
1882); così come altrettanto evidenti sono
state nelle sue composizioni le influenze
determinate da fattori visivi. Nelle sei
Images per pianoforte (in due fascicoli,
1905 e 1907), di cui già il titolo indica,
seppur metaforicamente, l’intenzionalità
di evocare con la musica sensazioni visive;
così come nei Nocturnes per orchestra
(1897-99), che lo stesso Debussy raffronta
alla pittura e che lo portano a dire che essi
sono «una ricerca nei diversi arrangiamenti che può dare lo stesso colore, come
per esempio, sarebbe in pittura uno studio
nei grigi».6 Queste composizioni sembrano essere state ispirate a Debussy da
alcuni quadri del pittore americano James
Abbot Whistler – vissuto fra Parigi e
Londra – intitolati appunto Nocturne che,
per le loro qualità cromatiche, potrebbero
proprio essere definiti come «uno studio
nei grigi».
In modo simile il musicista russo Modest
Musorgskij ha espresso le sensazioni ricevute durante la visita ad un’esposizione di
pittura, dell’amico Victor Hartmann, con
la composizione di Quadri di un’esposizione (1874) per pianoforte, musica che
sarà poi fonte di sollecitazione visiva per
Wassily Kandinsky che ne dipinge l’omonima rappresentazione scenica (1928).7
A fianco dei musicisti che intenzionalmente perseguono la finalità di evocare colori con la musica, così come di
utilizzare composizioni pittoriche quali
fonti di ispirazione, vi sono poi anche
compositori che raggiungono tale fine
inconsapevolmente, la loro musica è cioè
naturalmente colorata. Tra questi il musicologo Enzo Restagno, in un convegno
tenuto a Reggio Emilia,8 ha ricordato
compositori quali Béla Bartók e Igor
Stravinskij. Del primo porta l’esempio
di Musica per archi, percussioni e celesta
(1936), che definisce «una simbiosi perfetta di natura e matematica»,9 poiché
obbedisce alle regole della sezione aurea
e della serie di Fibonacci; mentre di Stravinskij ricorda Le sacre du printemps
(1913), un’opera capace di emanare,
come gran parte della musica del compositore russo, immagini dotate di qualità
sceniche tanto da apparire naturalmente
colorata.
Priva di elaborate suggestioni sceniche, ma simile nella capacità di suggerire
immagini visive, è per Restagno la musica
di Haydn:
Ascolti la sinfonia de Il Mattino di Haydn
e vedi un ambiente principesco senza inutile sfarzo; grandi finestre che danno su
immensi giardini e allora i colori più tenui
e dolci possono tornare a sorridere. Le ore
del giorno scandite dai temi e dagli accordi
si illuminano di una luce più lieve e più fine
che sfiora ed accende i colori con grazia
inimitabile, ti rendi conto che quella del
suono è una realtà vibratoria, una sorta di
colore quindi meno astrale e accecante, un
colore incarnato e palpitante che della luce
non ha l’implacabile evidenza. Per questo
preferisco i colori che si sprigionano, in un
certo senso involontariamente, dalle partiture timbricamente più sobrie di Haydn o
di Beethoven che non quelli irradiati dalle
musiche nate dal travaglio delle estetiche
simboliste. I colori di Messiaen e di Skrjabin hanno qualcosa di affilato e troppo
perentorio; sono colori puri riluttanti a
qualsiasi incarnazione. Di loro non potresti parlare con metafore tratte dalla vita; la
loro bellezza è altrove.10
Nella musica di Haydn, Beethoven,
Stravinskij, Bartók, Albéniz – diversamente da quanto accade in Skrjabin e in
Messiaen – il colore coincide con quella
che Restagno chiama «concezione creaturale del suono e della musica»,11 e che
potremmo dire essere nella loro stessa
natura acustica.
A fianco: Georgia O’Keeffe, Musica – Rosa e blu II (1919).
New York, Collection of Whitney Museum of American Art
Ci sono poi opere e contesti dell’ascolto in cui il suono non è più il solo
elemento di sollecitazione sinestesica,
ad esso si integrano altri fattori – visivi,
cinetici, gestuali, ecc. – propri dell’opera
o dell’evento musicale, che mutano l’esperienza percettiva nel suo complesso. Così
la differenza percepibile fra l’ascolto di
un brano musicale dal vivo, in una sala
da concerto, e dello stesso brano da una
registrazione non risiede certamente solo
nella fedeltà della stessa o nella differente
qualità del suono riprodotto, ma deve
gran parte delle proprie qualità a quelle
informazioni visive – la gestualità del
direttore d’orchestra, così come l’articolazione contenuta o esasperata del solista12
– che nella registrazione, solo audio, vengono a mancare.
Le sinestesie che si vengono a manifestare nella musica sono quindi dovute
non solo alle modalità di percezione del
registro sonoro, ma anche alle modalità di
rappresentazione dello stesso, nelle quali il
sonoro non è che una delle componenti.
Questo non deve stupire; sappiamo
bene che la musica, fin dalle sue origini,
è praticata come un’espressione artistica
globale, alla quale partecipano altri elementi e linguaggi. Già in Cina all’epoca
della dinastia Haong-ti (III millenio
a.C.) la musica era intesa come una delle
componenti di un’espressione artistica
unitaria che comprendeva anche la poesia
e la danza. In questi popoli la musica è
parte di una concezione cosmologica nella
quale i suoni sono relazionati ai colori, ai
punti cardinali, alle stagioni, ai pianeti e
agli elementi. Simili analogie si trovano
anche nella musica indiana del periodo
vedico (II millennio a.C.), con una pratica musicale fondata sulle râgas, ossia
modelli di melodia dal preciso contenuto
espressivo ed emotivo, ognuno capace di
specifici poteri extramusicali:
[…] per ciascuna di esse [le râgas] v’erano
le attribuzioni cosmiche, infatti ognuna
aveva potenti energie che esercitavano la
loro influenza sull’uomo e sulla natura
[…] i collegamenti con i segni dello
zodiaco, con i pianeti, con i giorni della
settimana, con le stagioni, i colori, gli anni
degli uomini, ed altro ancora, superavano
anche le proporzioni cinesi».13
Questa costante ricerca di corrispondenze fra gli elementi sappiamo del resto
essere presente nel teatro musicale di tutti
i tempi: nella Tragedia greca, come nelle
Sacre rappresentazioni (dal XI al XIV
sec.), nel Melodramma del ’600 e soprat-
tutto – come sottolinea Carlo Majer – nell’Opera dell’800:
[…] nel prologo di un’Opera di Francesco
Cavalli, Il Ciro, 1660, dietro le pesanti
cortine di velluto che nascondono la scena
di un Teatro d’Opera si possono sorprendere Poesia, Musica, Pittura e Architettura intente a regolare il proprio lavoro su
quello delle colleghe, mediante un minuzioso sistema di controlli incrociati. Lo
scopo dell’Opera infatti, e il motivo più
probabile del suo rapido ed immenso successo, è quello di proporsi come massimo
sistema possibile di sinestesie.14
È proprio questo «impulso sinestetico
dell’Opera»15 che porterà Richard Wagner
a considerare il dramma musicale come
Gesamtkunstwerk, ossia come un’opera
d’arte totale nella quale si realizza «la sintesi più alta e assoluta di musica, di poesia,
di danza e di arti figurative; insomma
una perfetta fusione di fenomeni visivi e
uditivi».16
Accanto a Wagner vanno almeno
ricordati Aleksander Skrjabin e Arnold
Schönberg le cui opere, rispettivamente il
Prometeo (1910) e La Mano felice (190013), sono nel tempo divenute – accanto a Il
suono giallo (1909) di Wassily Kandinsky
– opere sinestesiche per antonomasia.17
Opere che, così come aveva fatto in
precedenza padre Castel con il clavecin oculaire (1735)18 – uno strumento a
tastiera che produceva colori al posto
dei suoni – o il pittore milanese Giuseppe Arcimboldi (1576-87) con la sua
scrittura musicale cromatica, formulano
ognuna una propria teoria sinestesica – fra
suoni, colori, cinetismi, talvolta gestualità
– pervenendo altresì ad una loro messa in
pratica.
La rilevanza e notorietà di queste opere,
teoriche e pratiche assieme, è dovuta
– nonostante la riconosciuta soggettività
delle teorie dagli autori formulate – al loro
porsi come prodotti intenzionali, frutto
di una precisa volontà e consapevolezza
sinestesica.
L’importanza che queste sollecitazioni visive scaturite dalla musica hanno
assunto nel loro complesso, siano esse un
prodotto intenzionale o meno, si spiega
considerando che la sensazione con
maggiore potenzialità e forza sinestesica
è il suono – vedi la frequenza dei casi di
audizione colorata19 – mentre ben più rare
sono le sinestesie prodotte da altre sensazioni. La stessa combinazione di sensazioni uditive/visive prese nella direzione
inversa – pur essendo praticata, come
Estetica
vediamo nel seguito, con la lettura musicale – è ben più difficoltosa da rappresentare, da tradurre in dati sonori. Ossia: «il
visivo non si lascia facilmente trasformare,
ridurre ad udibile».20
2. Evocazioni sonore della scrittura
musicale
Accanto agli aspetti visivi evocati, o
rappresentati, la musica ha una sua specificità visiva, spesso grafica, evidente nel
momento notazionale.
In effetti la notazione musicale – e più
in generale ogni scrittura fonetica – può
essere intesa come un sistema sinestesico
per definizione, ossia un particolare tipo
di codice in cui il testo visivo ha un immediato rimando sonoro, dove ogni segno ha
un suono, e questo è a sua volta il risultato
di un gesto. È la stessa duplice trasposizione che il musicista effettua ogni volta
che si accinge ad una esecuzione, e che
talvolta distrae il musicista dilettante nella
contemplazione che l’occhio sullo spartito, in concomitanza alla collaborazione
tattile e propriocettiva con lo strumento,
toglie all’orecchio.
Lo stesso atto di suonare può essere
quindi inteso come una pratica sinestesica.
Ma già il solo guardare la partitura, osservare le note sul pentagramma, implica la
formazione di un’immagine sonora che
anticipa i tempi della musica e la fa sentire
mentalmente, prima della sua effettiva
emissione:
[…] una semplice nota sul pentagramma
solo che la guardi e la pensi suono, si
anima di una diabolica danza: quell’accordo è forte, è debole, è alto, è più basso,
è più lungo, è men lungo, è rotondo, è
angoloso, è dolce, è aspro, ha un timbro,
è già un altro timbro, ora torna quello
[…].21
L’immaginazione sinestesica che scaturisce dal testo musicale non sempre però
rispecchia il reale contenuto, l’effetto
sonoro che risulterà dalla sua esecuzione;
spesso infatti l’orecchio si lascia trascinare dall’occhio. Questo accade sia nel
compositore, durante la scrittura, sia nell’interprete durante la lettura che precede
l’esecuzione. Pierre Boulez descrive bene
tale relazione nel testo seguente:
Per il musicista vi è un rapporto molto
pericoloso, se non sottile, tra l’occhio e
l’orecchio. Non sto parlando dell’occhio
in quanto ispirazione, ma dell’occhio che
guarda la partitura che si va creando. Una
partitura è anche fatta per essere letta e il
compositore la sente mentalmente menN° 14 APRILE-GIUGNO 2003 HORTUS MUSICUS
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Estetica
A fianco: Wassily Kandinsky, Impressione III (Concerto) (1911). Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus
tre la scrive e la legge e, a volte, tende a
lasciarsi prendere da problemi grafici;
potrà essere attratto da una bella disposizione della trascrizione visiva dal suo
interesse estetico. Molti compositori si
sono lasciati sedurre dall’aspetto estetico
della partitura. Si possono, anche in Bach,
incontrare certi dispositivi che sono altrettanto ottici che uditivi e direi che, in certi
canoni, si soddisfa più l’occhio che l’orecchio. Non che la musica non sia bella, ma
le simmetrie sono percepite più direttamente dall’occhio che dall’orecchio. Se si
guarda un contrappunto rovesciato, l’occhio abbraccia rapidamente la linea che va
da A a Z, poi quella che va da Z ad A, e
afferra simultaneamente tutti gli intervalli.
È molto più difficile per l’orecchio, perché la memoria registra nella dimensione
del tempo, l’orecchio non può ascoltare
contro il tempo. […] la memoria uditiva,
che opera nella percezione della musica,
è un fenomeno molto meno globale della
memoria visiva e dispone di riferimenti
meno sicuri perché legati all’istante. Questo problema si pone per il musicista e
spiega come, nella scrittura, a volte abbia
la tendenza ad andare al di là delle possibilità uditive della musica, affascinato com’è
dal bell’aspetto ottico della partitura.22
Il fascino che trapela dalla partitura, nel
gioco di fattori evocativi e informativi del
codice che rappresenta, è connaturato alla
notazione stessa, al suo essere una rappresentazione visiva che rimanda ad un
evento sonoro, e già nelle forme primordiali della notazione musicale è evidente
questa necessità di restituire la stretta
interdipendenza fra la facciata visiva e il
risvolto uditivo di uno stesso fatto.
Nei primi tentativi notazionali, che si
suppongono risalire alle pitture egizie del
Vecchio Regno (ca. 2700 a. C.), la nota
musicale veniva espressa mediante la raffigurazione di un maestro colto nell’intento
di indicare, con gesti della mano, come lo
strumentista dovesse suonare.
Le origini delle note musicali in quanto
segni autonomi sono invece relativamente più recenti; se ne trovano tracce in
papiri del V e VI secolo, quando il tono
e la durata dei suoni venivano indicati
con colori e cerchi dai diversi diametri.
Non sappiamo con certezza con quali
corrispondenze segno e suono venissero
combinati; è però ipotizzabile una corrispondenza dei toni con i colori e delle
durate con le grandezze dei diametri dei
cerchi.23
Tali notazioni non erano tuttavia ancora
intese come sistemi di segni organizzati
in veri e propri codici, e in effetti il loro
26
HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003
scopo non era tanto quello di tramandare dati a chi non sa, quanto invece di
ricordare a chi già sapeva: erano perciò
essenzialmente ausili mnemonici. Non
possiamo ancora identificare in questi
segni precise melodie; in esse il segno si
limita a suggerire il suono, e di fatto le
melodie esistevano solo nella memoria
del cantore.
La stessa finalità persiste ancora nella
notazione neumatica, un sistema di segni
– i neumi appunto (dal greco neuma =
gesto, cenno, segno) – che deriva dagli
accenti grammaticali della lingua, a cui
si aggiunge un corrispettivo gestuale.
Gli accenti acuto (´), grave (`) e circonflesso (^) collocati sopra alle sillabe del
testo liturgico avevano la sola funzione
di ricordare la direzione della melodia
– rispettivamente ascendente, discendente
e ascendente/discendente – al praecentor
che l’avrebbe poi trasmessa ai cantori
con opportuni gesti della mano. Questa
notazione – detta anche chironomica (dal
greco cheirós = mano e nómos = legge)
– potremmo dire essere «un embrione
di coreografia»,24 non indicando l’effetto
fonico, quanto invece i movimenti, i gesti,
che consentono di produrre quel determinato effetto.
I neumi, in un primo tempo collocati
direttamente sopra le sillabe del testo da
cantare (neumi in campo aperto), vennero
in seguito collocati su un rigo musicale
composto da due sole linee (notazione
diastematica): una linea gialla fissava la
nota Do, mentre una linea rossa fissava
la nota Fa.25 Anche la grafia dei neumi
subisce una sensibile trasformazione che
porta gli originari accenti alla caratteristica forma quadrata (XIII sec.).
Nell’XI secolo poi, per opera di Guido
d’Arezzo, viene introdotto il tetragramma – un rigo musicale formato da
quattro linee – che, unito all’uso delle
chiavi e alla nomenclatura delle note,
definisce in modo inequivocabile l’altezza e gli intervalli fra i suoni. Mancano
solo da codificare i valori di durata delle
note, che saranno definiti in seguito da
Francone di Colonia con la notazione
mensurale (1260 ca.).
La notazione musicale moderna, formatasi intorno al ’600 e fondata sull’antica
notazione mensurale,26 è stata oggetto di
progressivi perfezionamenti che giungono
al culmine nell’Avanguardia postweberiana, quando le partiture delle composizioni presentano indicazioni sempre più
dettagliate e puntuali, fino a raggiungere
livelli di definizione del suono tali da non
essere più sostenibili, sia per l’interprete
sia per l’ascoltatore.
Ne troviamo esempi nell’opera di Karlheinz Stockhausen, con parte dei Klavierstücke (1952-61), così come in Pierre
Boulez, con Structures 1 e 2 (1951-61;
1963), composizioni cioè che sembrano
rivolgersi ad un ascoltatore dalle ipotetiche capacità percettive discriminatorie
infinitesimali; opere in cui la serializzazione delle durate, dei ritmi, delle dinamiche sono tali da restituire composizioni
non solo difficili da eseguire con la precisione prescritta ma pure fisiologicamente
non percepibili, neppure dal più accorto
dei musicisti.27
Alla fine di questo percorso evolutivo il
codice musicale giunge quindi a possedere
un’estrema capacità denotativa che porta
con sé come conseguenza un parallelo
impoverimento del potenziale connotativo del segno e con esso una proporzionale riduzione dei suoi rimandi sinestesici
con il suono.
In concomitanza, e forse proprio per
ovviare all’estrema rigidità espressiva
di tali scritture, si avvia una tendenza
notazionale opposta, non più tesa alla
formulazione di sistemi di segni univoci e istituzionalizzati, quanto invece
a raffigurazioni dell’evento sonoro che
consentano di riassumere l’essenza di una
composizione.
Da qui escono partiture in cui l’aspetto
visivo assume ruoli di sempre maggiore
rilievo, talvolta perfino con significati
indipendenti dalla effettiva e possibile
realizzabilità sonora. Troviamo così
notazioni in cui alle note si accostano
anche segni matematici, grafici, pittorici
e gestuali.28
Per quali motivi ci si libera con tanto
vigore dalla rigidità della notazione tradizionale? Quali sono gli stimoli che
guidano questo cambiamento?
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, emergono tra i compositori due
principali esigenze.29
Un primo problema si pone perché la
notazione musicale tradizionale non consente la scrittura di tutti i suoni possibili, il
temperamento equabile determina precise
altezze dei suoni al di fuori delle quali non
è possibile andare. In questa notazione
i compositori non trovano quindi segni
idonei, necessari per annotare nuove idee
musicali.
Altre volte il problema si ribalta: non
sono più le esigenze del suono ad emer-
Estetica
gere, ma sono invece le possibilità visive
della partitura a diventare seducenti
per il compositore, tanto da prendere il
sopravvento sull’intento di comunicare
un contenuto musicale. Ne escono partiture che assumono la stessa forma e funzione di un’opera visiva, non più quindi
strumento prescrittivo per l’esecuzione,
quanto opere e partiture fatte solo per
essere osservate.
Queste tendenze notazionali, pur opposte, portano a composizioni che non sono
rigidamente classificabili come soluzioni
dell’una o dell’altra necessità; più spesso
infatti le esigenze del suono si compensano con quelle grafiche:
[…] nei vari compositori si verifica un’evidente corrispondenza fra il linguaggio
grafico e quello musicale. In altre parole,
le immagini visive, facilmente distinguibili
e catalogabili (l’astrazione computerizzata
di un certo Stockhausen e di Schäffer, le
tavole fra il pop e il concettuale di Lombardi e Simonetti, le partiture tipicamente
gestuali del Bussotti fine anni ’50 e quelle
evidentemente neoplastiche di Earle
Brown dell’inizio dello stesso decennio,
la poesia visiva di Luciano Ori, l’astrazione che si abbandona ad un graficismo
decisamente decorativo e compiaciuto,
genericamente avveniristico in Furre,
Moran e certo Cardew e così via), quando
non si esauriscono in se stesse, rimandano
ad immagini sonore che hanno le stesse
caratteristiche formali.30
In questa svolta della scrittura musicale
non certo priva di rilevanza è l’influenza
esercitata dalla fioritura, in quegli stessi
anni, delle prime esperienze di poesia
concreta e visiva. Penso in particolare
agli esperimenti linguistici compiuti
da Augusto De Campos, antesignano
della poesia concreta brasiliana, fra cui
ricordo un poema-partitura31 chiamato
Poetamenos (1953) dove i timbri fonetici
– ispirati dalla Klangfarbenmelodie di
Webern – sono contrassegnati dai diversi
colori delle parole o delle singole sillabe.32
Un’opera che – in questa ricerca delle
qualità fonetiche della parola, oltre che
grafiche, così come nell’idea di un testo
da intendere quale partitura – ricorda a
sua volta il precedente movimento lettrista, fondato a Parigi nel 1942 dal poeta
rumeno Jean-Isidore Goldstein (Isidore
Isou),33 o ancor prima, la Ursonate di Kurt
Schwitters (1921-32).
Ma come arrivano i compositori ad
individuare i giusti segni? Quali sono le
relazioni che essi definiscono fra segno e
suono? E ancora, quali le corrispondenze
peculiari di ognuno (soggettive) e quali
invece quelle ricorrenti (intersoggettive)?
Osservando le corrispondenze segno/
suono prevalenti, sembrano emergere
alcune tendenze associative comuni.34
Distinguo per comodità questi segni
sonori in tre gruppi, corrispondenti ad
altrettanti caratteri del suono: altezza,
durata e intensità; tralascio di comparare
il timbro, perché solitamente
questo viene specificato verbalmente con la destinazione
strumentale.
L’altezza dei suoni, così
com’è nella notazione tradizionale, tende ad essere
tradotta graficamente con
segni che mutano solo per
il loro diverso posizionamento verticale, rispetto a
un sistema orizzontale di
riferimento definito, oppure
rispetto all’intera pagina: un
segno collocato nella parte
alta della partitura tende così
a corrispondere a un suono
acuto, viceversa un segno
collocato in basso tende a
corrispondere a un suono
grave. In alcuni casi poi
– vedi ad esempio Roland
Kayn in Phasen (1961) – lo
stesso principio viene rispettato anche nella disposizione
dell’organico orchestrale nella pagina
della partitura: in basso gli strumenti dal
timbro grave, in alto gli strumenti dal
timbro acuto. Già Luigi Russolo, compositore e pittore futurista, nel suo Risveglio
di una città (1913) per intonarumori,
aveva seguito lo stesso principio, collocando sul rigo, al posto dei segni puntuali,
autonomi, delle note, linee continue.
Una maggiore varietà di soluzioni
grafiche caratterizza i segni utilizzati per
definire il tempo, le durate dei suoni,
la velocità dell’esecuzione. È in questo
caso più difficile, e per certi aspetti anche
inspiegabile, trattandosi della rappresentazione di una dimensione quantitativa
e in quanto tale non specificatamente
modale,35 trovare elementi ricorrenti.
Ad esempio Pierre Boulez, in Plin selon
pli (1958-60), utilizza linee divergenti e
convergenti per indicare, rispettivamente,
un incremento (accelerando) o una riduzione (ritardando) della velocità di esecuzione. Henri Pousseur riduce o allarga
la distanza fra le note, per comprimere o
dilatare i tempi, mentre Sylvano Bussotti
indica con l’inclinazione del rigo l’accelerazione del movimento musicale. O
ancora Harald Bojé che – nel suo metodo
didattico pianistico per principianti
– varia la lunghezza del segno in misura
proporzionale alla durata del suono.
Infine i segni dinamici, i segni che indicano l’intensità, l’essere forte o piano di
un suono, e la tendenza nelle partiture
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ad indicare l’aumento di intensità del
suono con un parallelo allargamento
delle dimensioni del segno. In Bruno
Bartolozzi, ad esempio, questo carattere
del suono è indicato con la variazione di
spessore della linea d’unione fra le note:
alla linea sottile corrisponde un suono
debole (piano), mentre alla linea spessa
corrisponde un suono intenso (forte).
In Stockhausen – vedi Zyklus (1959) per
percussioni – è invece la variazione delle
dimensioni del punto che denota l’intensità del suono.
A queste notazioni, in cui i segni definiscono, più o meno rigorosamente, l’effetto sonoro finale della composizione,
si accostano in parallelo altre modalità
notazionali,36 sviluppate sempre dalle
neo-Avanguardie, il cui principio di base
può essere riconosciuto già nelle intavolature del XV secolo.37 Si tratta di notazioni
gestuali, che quindi notano non gli effetti
sonori, bensì le azioni da compiere per
produrre tali effetti, notazioni cioè in cui
il gesto assume la funzione di elemento
conduttore della lettura musicale:
Ciò che contraddistingue questo tipo di
grafia [la notazione gestuale] nell’ambito
dell’avanguardia è il fatto che il gesto
esecutivo non è più inteso come semplice
veicolo di un’intenzione musicale, ma
viene investito di un suo autonomo valore
estetico […] la gestualità esecutiva viene
valorizzata soprattutto in quanto portatrice di una virtualità scenica che conferisce all’evento musicale una sua immanente
teatralità.38
Rappresentative in tal senso sono composizioni quali December (1952) di Earle
Brown, con una partitura ridotta al puro
schema di gesticolazione di un ipotetico
direttore d’orchestra e che mantiene l’ortogonalità di un quadro di Mondrian;39
oppure Transición II (1959) di Mauricio
Kagel, dove i segni grafici sono utilizzati
per indicare al percussionista i punti nei
quali colpire lo strumento e con quale frequenza;40 o anche Gesti sul piano (1971)
di Giuseppe Chiari, dove l’autore annota
tutti i movimenti da compiere, distinguendo quelli per le dita, per i polsi e per
gli avambracci.41
È quindi evidente che uno stesso effetto
fonico può essere espresso con una molteplicità di grafie, così come l’individualità
dell’immaginazione sinestesica propria ad
ognuno di noi fa sì che uno stesso segno
possa evocare associazioni fra loro diverse
e che a loro volta possono, o meno, appartenere al mondo dei suoni:
28
HORTUS MUSICUS N° 14 APRILE-GIUGNO 2003
E quando il segno rinvia ad altro da sé,
spesso questo non è direttamente un
suono, bensì un’azione, un gesto dotato
di virtualità scenica, una reazione mentale,
rispetto ai quali il suono può anche non
essere lo scopo primario, ma un semplice
accidente di percorso.42
La continua variabilità dei rapporti fra
il segno e il suo supposto riferimento
sonoro, nel progredire della scrittura
musicale, mostra altresì come le mutevoli capacità sinestesiche della notazione
siano legate all’elasticità di tale rapporto.
La fluidità notazionale, consentendo
un’ampia libertà interpretativa, permette
nel contempo un maggiore coinvolgimento e apertura nei confronti di sensi
altri e proprio per questo, tra l’altro,
viene sfruttata nei nuovi metodi didattici
pianistici mirati non più all’apprendimento della lettura di un’unica scrittura,
ma alla pratica – grafica e gestuale – di
una pluralità di scritture.43
Infine non va tralasciato un ultimo
importante fattore: le combinazioni
segno/suono ricorrenti nelle nuove partiture – nello specifico le associazioni suono
forte con segno grande e, viceversa, suono
debole con segno piccolo; così come suoni
acuti con segni piccoli, spigolosi, posizionati in alto, e al contrario suoni gravi con
segni grandi, arrotondati, posizionati in
basso44 – sono anche, a posteriori, confermate dalle sperimentazioni condotte dagli
psicologi della percezione nella ricerca
delle associazioni uditivo/visive ricorrenti
nelle sinestesie.45 E forse la ragione ultima
che ha guidato le soluzioni prospettate
dall’introduzione di nuove scritture sta
proprio qui: seguire semplicemente la
nostra natura sinestesica.■
NOTE
Sappiamo infatti che uno stimolo, anche quando
rivolto ad uno specifico organo sensoriale, può
altresì attivare sensi non direttamente sollecitati. Il
suono in particolare, rispetto ad altre sensazioni,
come dimostra la frequenza dei casi di audizione
colorata – percezioni cromatiche indotte da eventi
audio –, sembra avere in tal senso una particolare
carica evocativa sinestesica. Vedi: Dina Riccò,
Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali
nell’epoca dei multimedia, Etas, Milano 1999.
1
A fianco: Piet Mondrian, Composizione a colori A (1917). Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller
Come scrive Tafuri: «Quando parliamo dei
processi della percezione uditiva non bisogna
dimenticare comunque che ad essi partecipa non
solo l’orecchio, ma anche il tatto (le vibrazioni del
corpo), la vista (vedere chi suona) e il senso cinestesico o senso muscolare (posizioni del corpo,
sensazione di tensione o rilassamento, ecc.)».
Johannella Tafuri (a cura di), Psicologia genetica
della musica, Bulzoni, Roma 1991, pp. 15 s.
3
Una conferma a questa asserzione è data da
Révész nel pensiero seguente: «L’effetto puramente sensoriale della musica si basa, da una
parte sulla massa sonora e sul ritmo, e dall’altra
sugli effetti vibratori e vasomotori delle masse
sonore». Géza Révész, Einführung in die musikpsychologie, Verlag, Berna 1954 (trad. it.: Psicologia della musica, G. Barbera, Firenze 1983, p.
218). Riguardo poi alle relazioni fra le caratteristiche del suono e il corpo umano precisa quanto
segue: «Si dimostra che quanto più una nota è
profonda tanto più in basso vengono localizzate
nel corpo le sensazioni di vibrazione. Le note dei
contrabbassi, celli, fagotti, corni, ecc., vengono
localizzate nella cassa toracica, quelle provenienti
dai violini, flauti, ecc. nella testa» (ivi, p. 216).
4
Salvatore Sciarrino, Le figure della musica,
Ricordi, Milano 1998, p. 67.
5
Più in generale sugli spazi dell’ascolto vedi Dina
Riccò, Stereotipìe dell’ascolto, in il Verri, n. 4-5,
1997, pp. 78-86.
6
La citazione è tratta da una lettera che Debussy
inviò a Ysaye, parzialmente riportata in Guido
Salvetti, Grande Storia della Musica. Il primo
novecento a Parigi (1978), Fabbri, Milano 1983, p.
32.
7
Vedi Vasilij Kandinskij, Scritti intorno alla
musica, a cura di Nilo Pucci, Discanto, Firenze
1979, pp. 61 ss.
8
Un ciclo di incontri sul colore, chiamato La settimana del colore, che si è tenuto a Reggio Emilia
dal 2 all’8 aprile 1990. Uno di questi – dal titolo Il
colore: suonarlo ascoltarlo, al quale hanno partecipato Sergio Bassetti, Daniela Iotti, Enzo Restagno
e Luigi Veronesi – era interamente dedicato alle
relazioni fra suoni e colori.
9
La citazione è tratta dalla registrazione dell’intervento di Enzo Restagno in occasione del Convegno La settimana del colore. Vedi anche la nota
precedente.
10
Enzo Restagno, I colori della musica: routine e
metafisica, in C. Colli (a cura di), La settimana del
colore, Atti del Convegno, Reggio Emilia, 2-8 apr.
1990, pp. 35 s.
11
Vedi nota 9.
12
Cfr. Ernst Ansermet, Scritti sulla musica (1943),
Curci, Milano 1983, in particolare il cap. Il gesto
del direttore d’orchestra.
13
Curt Sachs, La musica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1981, p. 171.
14
Carlo Majer, Musica e pittura, in Carlo Majer
(a cura di), Musica e pittura, Mondadori, Milano
1988, pp. 54-148 (74).
15
Ibid.
16
Rino Maione, Dai Greci a Schönberg, Hoepli,
Milano 1986, p. 267.
17
Per una descrizione più dettagliata di Prometeo e La Mano felice vedi Riccò, Sinestesie per il
design, cit., pp. 143-152.
18
Per una descrizione più dettagliata vedi ivi, pp.
128-130.
2
19
Cfr. ivi. Per una trattazione estesa dell’audizione
colorata nella sua evoluzione storica vedi Tonino
Tornitore, Storia delle sinestesie. Le origini dell’audizione colorata, Genova 1986; dello stesso
autore vedi anche Scambi di sensi. Preistorie delle
sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino
1988.
20
Giovanni Anceschi, Choreographia universalis,
in L’oggetto della raffigurazione, Etaslibri, Milano
1992, pp. 115-148 (118). Nelle rappresentazioni
sinestesiche, soprattutto quando in forma di traduzioni da un registro all’altro, sono quasi sempre
il suono o la musica le fonti della traduzione, ben
più rare sono le traduzioni sinestesiche dal visivo.
È soprattutto quindi l’evento temporale, forse per
la sua lettura sequenziale, che viene tradotto in
dato spaziale e non viceversa. Vedi Riccò, Sinestesie per il design…, cit., pp. 117 ss.
21
Giorgio Graziosi, L’interpretazione musicale,
Einaudi, Torino 1967, p. 24.
22
Pierre Boulez, Il paese fertile. Paul Klee e la
musica, Leonardo, Milano 1990, pp. 97-100.
23
Howard Brown, Notazione, in Enciclopedia
della musica, III, Utet, Torino 1966, p. 501. In
seguito, nell’Ars Nova (XIV sec.), i colori – il
rosso e il nero – verranno usati per precisare una
proporzione fra le durate delle note: tre note rosse
equivalgono a due note nere: cfr. ivi, pp. 513 ss.
24
Anceschi, cit., p. 119.
25
Questa contrassegnazione cromatica è opera
di Guido d’Arezzo (XI sec.), che aveva usato il
colore nelle linee del rigo musicale per contraddistinguere, anche visivamente, la posizione dei
semitoni (Mi-Fa e Si-Do). Cfr. Maione, cit., p.
29. Vedi anche Moines de Solesmes (a cura di),
La notation musicale des chants liturgique latins,
Paris 1959, in particolare didascalie nn. 37 e 38.
26
Si tratta di un sistema di notazione nato con la
musica polifonica (secc. XII-XIII) che consentiva
di definire precisi rapporti di valore, di durata fra
una nota e l’altra.
27
Va precisato che questo eccessivo rigore notazionale è probabilmente legato anche alla nascita
in quegli anni della musica elettronica. Vedi
Domenico Guaccero, L’«alea» da suono a segno
grafico, in La rassegna musicale, n. 4, 1961, pp.
367-389 (384).
28
Sulle qualità grafiche della notazione musicale
vedi Franzsepp Würtenberger, Der Einbruch des
Graphischen in das Schaffen der Komponisten, in
Malerei und Musik. Die Geschichte des Verhaltens
zweier Künste zueinander, dargestellt nach den
Quellen im Zeitraum von Leonardo da Vinci bis
John Cage, Lang, Frankfurt am Main, Bern, Las
Vegas 1979, pp. 215-237.
29
Cfr. Libero Farné, Vedere il jazz, Gammalibri,
Milano 1982.
30
Ivi, p. 181.
31
Uso per quest’opera la locuzione poema-partitura – pur essendo una locuzione introdotta
da Bernard Heidsieck solo l’anno successivo, nel
1954 – perché di fatto si tratta di un’opera il cui
testo funziona come un sistema notazionale che
guida l’interpretazione della declamazione. Vedi
Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Paravia,
Torino 1978, p. 49.
32
Cfr. ivi, p. 76.
33
Vedi Isidore Isou, Introduction à une nouvelle
poésie et à une nouvelle musique, Gallimard, Paris
1947. Un estratto del manifesto di Isou è anche
in Luciano Caruso (e altri), Il colpo di glottide.
Estetica
La poesia come fisicità della materia, Vallecchi,
Firenze 1980, pp. 74-77. Più in generale vedi
Danielle Londei (a cura di), Le lettrisme, testi
di Gabriele Aldo Bertozzi, Lamberto Pignotti,
Catalogo dell’esposizione, Essegi, Ravenna 1989.
Vedi anche AA.VV., La musique lettriste, in La
Revue Musicale, n. 282-283, Richard-Masse, Paris
1971.
34
Le generalizzazioni che seguono prendono
come riferimento le raccolte di partiture contenute nel catalogo della mostra Spartito preso,
tenuta a Palazzo Vecchio, Firenze, nel 1981 (cfr.
AA.VV., Spartito preso. La musica da vedere,
Vallecchi, Firenze 1981) e in Daniele Lombardi,
Scrittura e suono. La notazione nella musica
contemporanea, Edipan, Roma 1980; oltre alle
classificazioni dei segni utilizzati dalle nuove
partiture presenti in Luigi Donorà, Semiografia
della nuova musica, G. Zanibon, Padova 1978
e Gardner Read, Pictographic Score Notation. A
compendium, Greenwood Press, Westport, Connecticut, London 1998.
35
Alcune dimensioni della rappresentazione,
come il colore per il visivo, sono specifiche di
un registro sensoriale, mentre altre – come già
Aristotele rilevava nel De Anima quando parlava
di sensibili comuni, ossia quei sensibili (il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero
e l’unità) che non necessitano di uno specifico
organo sensoriale – possono essere percepite da
più modalità sensoriali. Vedi Riccò, Sinestesie per
il design…, cit., p. 16. Sulle differenze, nella raffigurazione, fra dimensioni quantitative e qualitative vedi Donald A. Norman, Artefatti cognitivi,
in Sistemi Intelligenti, n. 3, 1991, pp. 453-476.
36
Per una classificazione esaustiva di questi
sistemi di notazione vedi AA.VV., Spartito
preso…, cit.
37
Sono notazioni per strumenti a corde e a tastiera
adottate in Europa nel ’500 e nel ’600. La tipica
intavolatura è quella per liuto che riproduce graficamente le sei corde dello strumento, sulle quali
sono poste lettere o simboli che indicano la zona
da premere per ottenere determinati suoni.
38
Andrea Lanza, in Howard Brown - Andrea
Lanza, Notazione, in Dizionario della musica, III,
UTET, Torino 1984, pp. 338-367 (361).
39
Vedi Daniele Lombardi, in AA.VV., Spartito
preso…, cit., p. 15.
40
Cfr. Mauricio Kagel, Zur neuen musikalischen
Graphik, in Ulm, n. 7, 1963, pp. 18-21.
41
Vedi Daniele Lombardi, Scrittura e suono…,
cit., pp. 50, 103 ss. Vedi anche AA.VV., Spartito
preso…, cit., p. 94.
42
Lanza, cit., p. 349.
43
Vedi in particolare Harald Bojé, Klavierschule
für Anfänger, Universal, Wien 1982 (tr. it. Il pianoforte, Ricordi, Milano 1994).
44
Vedi Dina Riccò, Le associazioni ricorrenti
delle sinestesie visivo/uditive, in Sinestesie per il
design…, cit.
45
In particolare il riferimento è alle ricerche di
Marks. Vedi Lawrence E. Marks, On Associations
of Light and Sound: the Mediation of Brightness,
Pitch, and Loudness, in American Journal of Psychology, n. 87, 1974, pp. 173-188. Dello stesso
autore vedi anche The Unity of the Senses, Academic Press, New York 1978. Per una sintesi dei
risultati di queste e altre ricerche sulle associazioni
ricorrenti vedi Riccò, Sinestesie per il design…,
cit., pp. 90 ss.
N° 14 APRILE-GIUGNO 2003 HORTUS MUSICUS
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