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22-09-2008
Angelo Campodonico Università di Genova – Etica, metafisica, ontologia analitica. Il caso di
Iris Murdoch (testo provvisorio)
“In filosofia è difficile capire se si sta dicendo qualcosa di sensato e obbiettivo o se si sta solamente erigendo una
barriera, adatta al proprio temperamento, contro le proprie paure personali. È sempre buona norma chiedersi di un
filosofo: di che cosa ha paura?” (EM356).
Introduzione
Una riflessione s’impone innanzitutto sul titolo. Che cosa significa filosofia analitica? Non è
facile definirla. La filosofia analitica “si dice in molti modi”. A volte essa viene a coincidere con
una certa interpretazione e con un certo filone di essa (così accade spesso in Italia) oppure,
inversamente, con la filosofia anglosassone contemporanea “tout court”. Cercherò di darne
un’accezione ampia, seguendo il suggerimento di Piergiorgio Donatelli e di Cora Diamond e
valorizzando così un filone meno conosciuto soprattutto in Italia.
- Riguardo al significato dei termini metafisica e ontologia in ambito analitico, a parte le origini
nella scolastica moderna, occorre ricordare che nell’idealismo la metafisica diventerà la scienza
dell’Assoluto e, in quanto tale, la sua negazione costituirà uno degli elementi identitari del
neopositivismo1. Strawson sarà il primo esponente della filosofia analitica a reintrodurre il termine
“metafisica”, intendendo questa disciplina come meramente descrittiva ed escludente la sfera del
divino2. Austin, Ryle, Kripke, Hamlyn, Wiggins, Quine, Goodman, Armstrong, Dummett, Putnam
hanno ripreso alcuni aspetti della filosofia di Aristotele3 e hanno riabilitato la metafisica, lasciando
però cadere completamente l’aspetto teologico e identificandola piuttosto con l’ontologia. Altri,
come Ryle, hanno approfondito le nozioni di capacità, disposizione, sopravvenienza e, a partire
dalla filosofia della mente, sono approdati a temi classicamente metafisici, ma sempre a prescindere
dalla teologia. Tutti costoro, dopotutto, hanno approfondito questi temi spinti dall’insufficienza dei
modelli descrittivi, dalla volontà di recuperare elementi normativi anzitutto in campo
epistemologico ed etico e dall’esigenza realista di dare un riferimento a enti non empirici (astrazioni
matematiche, elementi teorici della fisica, mondi possibili, proprietà, relazioni, natura degli oggetti
materiali) e dagli sviluppi della logica modale e della semantica formale (necessità, possibilità,
universali, quantificatori, identità, esistenza, persistenza nel tempo). La presa in carico da parte
Ringrazio il Dott. Marco Damonte per i preziosi suggerimenti:
Cfr. Strawson F. P., Individui, Feltrinelli, Milano 1978 (ed. or. Individuals. An Essay of Descriptive Metaphysics,
London 1959).
3
Cfr. Berti E. Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 112-185.
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della filosofia analitica di questi ambiti fu una svolta epocale e segnò una frattura rispetto al
positivismo logico:
quello che si chiamava “filosofia analitica” quando ero studente universitario non ha
niente a che fare con quello che oggi si chiama con lo stesso nome. I miei professori
troverebbero che quello che oggi si chiama filosofia analitica è metafisica, “quello che noi
per tutta la vita abbiamo cercato di distruggere”, direbbero Carnap e Reichenbach4.
Affrontare questo programma forte prettamente ontologico, ha ridimensionato il ruolo
dell’epistemologia come filosofia prima (cioè come indagine preliminare) e ha reso disponibili
nuovi strumenti concettuali, utilizzati anche nelle argomentazioni peculiari della teologia filosofica,
come, ad esempio, hanno fatto Chisholm, Alston, Swinburne, Van Inwagen e Plantinga5. Ciò è stato
una condizione necessaria, ma non sufficiente ad inserire nelle ricerche metafisiche anche la
teologia naturale. Per questo scopo è stato necessario attendere lo sviluppo di altri fattori, cioè un
interesse nei confronti della realtà nel suo complesso e un’attenzione alla concretezza esistenziale
dell’uomo; entrambe queste condizioni possono considerarsi un’eredità di Wittgenstein che, celata
nel Nachlass, è carsicamente riemersa durante la pubblicazione dei suoi scritti e ha fecondato il
pensiero di alcuni suoi discepoli a partire dagli anni settanta. Un precursore di questo approccio è
Waismann, il quale, mettendo in parallelo Agostino e Wittgenstein, mostra come per entrambi la
metafisica consista in un modo di vedere il mondo che si vive concretamente, scaturisce dalla
meraviglia ed è lo sfondo, spesso non tematizzato, sul quale si costruiscono i grandi sistemi
filosofici6.
Secondo Varzi l’ontologia si occupa del che cosa c’è, cioè tenta di redigere un inventario di ciò
che esiste, mentre la metafisica stabilisce che cosa è, ovvero specifica la natura degli enti inclusi
nell’inventario ontologico7. Questa distinzione è però problematica, perché il nesso tra queste due
discipline diventerebbe inevitabile e non giustificherebbe la loro esistenza quali ricerche separate.
In effetti, Berti mostra proprio come in ambito analitico metafisica e ontologia siano di fatto
sinonimi, perché la metafisica analitica, a differenza di quella classica, rinuncia a problematizzare a
fondo l’esperienza e non si pone la domanda sulle cause prime, domanda che tradizionalmente è
4
Putnam H., Philosophie analytique et philosophie continentale. Entretien avec Joëll Proust, «Philosophie», 35 (1992),
p. 50 (trad. mia). Cfr. Mitchell B., Staking a Claim for Metaphysics, in Harris A. H. – Insole C. J. (eds.), Faith and
Philosophical Analysis, cit., pp. 21-32.
5
Cfr. Chisholm R, A Realistic Theory of Categories. An Essay on Ontology, Cambridge University Press, Cambridge
1996, in particolare pp. 127-132; Van Inwagen P., Metaphysics, Westview Press, Boulder 1993 e Plantinga A., The
Nature of Necessity, Clarendon Press, Oxford 1974.
6
Cfr. Waismann F., Analisi linguistica e filosofia. Una nuova prospettiva, Ubaldini, Roma 1970 (ed. or. How I see
Philosophy, Macmillan, London 1968).
7 Cfr. «Giornale di metafisica», 29 (2007). Per quanto concerne la presente discussione abbiamo tenuto presente gli
interventi di Varzi C. A., Sul confine tra ontologia e metafisica, pp. 285-303 e Berti E., Ontologia analitica e metafisica
classica, pp. 305-316.
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stata la porta di accesso alla teologia naturale. Stando questo stato di cose, diventa evidente la
diffidenza dei filosofi analitici della religione a riconoscersi nell’agenda di ricerca della metafisicaontologia. Essi attingono abbondantemente da questo filone, soprattutto avvalendosi degli apparati
concettuali e metodologici che esso mette a disposizione, ma sono altresì convinti, e giustamente, di
indagare un altro aspetto della realtà. Una tesi sulla quale Micheletti ha particolarmente insistito è
che
la rinascita della teologia naturale […] implica non solo l’impiego di strumenti concettuali
resi disponibili dall’ontologia analitica, ma anche un suo approfondimento nella direzione
della ricerca delle cause prime e dei fondamenti teistici della realtà8.
Coerentemente con ciò Pouivet considera la filosofia analitica della religione come l’erede legittima
della metafisica delle cause prime, cioè della teologia naturale9.
Seppure la situazione stia cambiando abbastanza profondamente e velocemente verso un pieno
recupero della teologia naturale entro l’ambito della metafisica, Berti ha senz’altro ragione
nell’affermare che
nell’ambito della filosofia analitica manca proprio ciò che permette di connettere l’ontologia alla
teologia razionale, cioè la problematizzazione radicale del mondo dell’esperienza, considerata non
solo nella dimensione linguistica, cioè quale riferimento del nostro linguaggio, ma anche nella
dimensione, per così dire, reale, cioè più propriamente ontologica10.
In sintesi l’ontologia analitica (descrittiva in Strawson) non problematizza radicalmente
l’esperienza, mentre questa problematizzazione la troviamo, invece, nella filosofia della religione
analitica, che riprende in qualche misura la scolastica medioevale.
Riguardo al tema della relazione fra etica da un lato e metafisica, ontologia, dall’altro,
storicamente v’è convergenza fra queste dimensioni nel platonismo e nelle
sue riprese, v’è
distinzione anche se non separazione nell’aristotelismo (ma più moderatamente in Tommaso
d’Aquino per l’influsso del Cristianesimo e del platonismo stesso).
8
Micheletti M., La rinascita della teologia naturale nella filosofia analitica, cit., p. 53. Un’altra questione centrale
messa a tema in ambito analitico negli ultimi anni è quella del rapporto tra moralità e religione. A partire dalla celebre
domanda platonica se ciò che è moralmente apprezzabile lo sia in quanto comandato dalla bontà di Dio oppure se Dio
comandi di agire secondo ciò che è morale, molti filosofi analitici si interrogano sul ruolo che la filosofia della religione
può ricoprire per fondare l’etica. Si tratta di una domanda di meta-etica, a cui i diversi autori rispondono in modo
contrastante, ma con una tendenza ad evitare il sorgere della domanda stessa, imputato ad una sostanzializzazione
ingiustificata della legge morale. Prima delle proposizioni che formano le leggi morali infatti esisterebbe una moralità
intrinseca alla natura umana, che la costituisce in quanto tale e alla quale sarebbe insensato attribuire una precedenza su
di essa. (Tra la vasta bibliografia in proposito, mi limito a segnalare tre saggi utili a determinare lo status quaestionis
sull’argomento: Nowell-Smith Patrick, Morality: Religious and Secular; Adams Robert, Divine Command Metaethics
Modified Again e Kretzmann Normann, Abraham, Isaac, and Euthyphro: God and the Basis of Morality tutti in Stump
E.-Murray M. J. (eds.), Philosophy of Religion. The Big Questions, Blackwell, Oxford 1999, pp. 399-427.
9
Cfr. Pouivet R., Introduction, «Revue Internationale de Philosophie», 57 (2003), p. 222.
10
Berti E., La metafisica nella filosofia del novecento, cit., p. 289 e Id., La prospettiva metafisica tra analitici ed
ermeneutici, cit., pp. 47-53.
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La separazione fra etica, da un lato, e ontologia e metafisica dall’altro è accentuata fortemente
dopo la nuova scienza, in Hume e in Kant e nella filosofia contemporanea, soprattutto dopo Moore,
con il tema della fallacia naturalistica nel filone dominante non cognitivista della filosofia analitica.
Il problema dell’etica filosofica è innanzitutto quello di cogliere l’estrema ricchezza e complessità
dell’esperienza morale, inquadrandola nell’insieme della vita e della razionalità umane. Questo
compito non è facile. Stevenson, per esempio, suggerisce Clavell, “scrive di filosofia come se egli
avesse dimenticato tutto ciò che sapeva a proposito del pensiero e della riflessione morale – come
se avesse perso la nozione stessa di moralità. Il fatto non è però che egli l’ha persa, quanto piuttosto
che egli non può (o non vuole) riconoscere o accettare ciò che sa” (p. 59). Questo rischio di
semplificare eccessivamente attraversa la filosofia morale moderna e, in particolare, la metaetica e
l’etica analitica.
1) Etica ed ontologia analitica a partire da Moore
A partire da una certa interpretazione del primo Wittgenstein e soprattutto da autori come George
Moore si sviluppano il neoempirismo e una certa filosofia analitica, tradendo le stesse intenzioni
del filosofo austriaco, il quale pure valorizzava la dimensione morale e religiosa nell’ambito de il
“mistico”, dell’indicibile (cfr. I. Murdoch, Metaphysics as a Guide to Morals). Barrett C.,
Wittgenstein on Ethics and Religious Belief, Blackwell, Oxford 1991. Il passo classico di
Wittgenstein stesso che propone l’interpretazione etica del Tractatus è la lettera all’editore Ludwig
von Ficker, il cui passo centrale è il seguente: Forse Le sarà di aiuto se Le scrivo un paio di parole
sul mio libro: dalla lettura di questo libro, infatti, Lei -e questa è la mia esatta opinione- non ne
tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In
realtà però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo
includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io ora scriverò per
Lei, poiché essa sarà forse per Lei una chiave per capire il libro. In effetti, io volevo scrivere che il
mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho
scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro l’etico viene
delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente
solo in questo modo11.
Sul piano speculativo della concezione della realtà si sviluppa, così, in ambito analitico una
concezione empiristica, atomistica, scientista o “naturalista” che si oppone all’esperienza comune e,
11
Wittgenstein L., Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, Roma 1974, p. 72 (ed. or. Brief an Ludwig von Ficker, Otto
Muller Verlag, Salzburg 1969).
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d’altro lato, sul piano della riflessione etica, una visione della centralità della metaetica intesa come
analisi del discorso morale. In effetti il discorso morale fa problema in quanto tale perché
considerato dal punto di vista del primato della prospettiva scientifica. L’approccio scientifico
esaurirebbe la nostra conoscenza della realtà. Per salvare i valori nella loro purezza, s’isolano dai
fatti. Moore concepisce il valore come qualcosa che è esterno alle cose nel mondo, ma che è
connesso ad esse in un modo che non le altera, mentre Wittgenstein sembra rigettare proprio la
nozione di valore di Moore quando scrive che il valore incide sul mondo in un modo che altera il
nostro modo di assumere le cose. Egli usa una serie di nozioni come “il mondo come un tutto”, la
“cosa vista con l’intero mondo come background” nella sua discussione del solipsismo. Come nota
la Murdoch, Wittgenstein con un logica più stringente dei suoi colleghi “ci dice che, se separiamo
in modo assoluto fatti e valori, non possiamo dire nulla di questi ultimi” (MM40).
Da Moore si sviluppa una concezione etica non cognitivista, emotivista (Ayer, Stevenson) che
riduce la morale a reazione emotiva, e prescrittivista. Hare aveva concepito lo studio degli usi
linguistici come analisi delle regole formali caratteristiche del linguaggio morale. Egli poteva dare
una traduzione linguistica della visione formalistica kantiana e in particolare della tesi
dell’universalizzabilità. Nel linguaggio morale vi sono simboli particolari, non cognitivi, che non
descrivono niente ma hanno una forza imperativa: sono dei comandi. Lo studio del fenomeno della
morale consiste nell’esaminare il linguaggio morale come se fosse un oggetto indipendente dal fatto
d’essere espressione della vita interiore, personale degli individui. Quello morale è considerato da
Hare essenzialmente come un “discorso breve”12.
Secondo il modello non cognitivista le persone sono semplici comparse; appaiono al momento
dell’esecuzione dell’atto e scompaiono con il concludersi dell’azione. Non ci sono agenti, ma solo
sequenze di atti discreti della volontà.
Per i non cognitivisti non ci sono limiti logici a ciò che può essere chiamato buono. Mentre
l’elemento conativo-espressivo rimane costante, quello cognitivo, che è il veicolo della descrizione,
varia secondo il dominio di applicazione.
In sintesi: in questi autori del filone dominante dell’etica analitica l’influsso della scienza
riguarda sia la visione del mondo, sia la concezione dell’etica intesa come distaccata dal soggetto e
dalla sua visione del mondo. Questo ultimo aspetto vale anche per
altri filoni dell’etica
anglosassone, per l’intuizionismo di Ross, così come per l’utilitarismo. L’attività morale viene
La posizione di Hare ne Il linguaggio della morale: “…la moralità di una persona emerge dal suo comportamento:
un’asserzione morale è una prescrizione o regola, emanata per guidare la scelta; il significato descrittivo della parola
morale in essa contenuta è so specifico mediante il riferimento a criteri fattuali di applicazione. Ossia, in un’asserzione
morale noi quasi-ordiniamo che sia fatta una cosa particolare e siamo pronti a dire in virtù di quali fatti dovrebbe essere
fatta. Siamo anche pronti, se la nostra asserzione morale è sincera, a metterla in pratica nelle circostanze adatte” (EM p.
91).
12
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ridotta alla sfera dell’agire pubblicamente osservabile (modello comportamentista). Dell’azione si
parla in termini di scelta e di movimento. Ha luogo un isolamento della morale dalla metafisica e
dalla psicologia. La riscoperta della vita interiore è trascurata dai non cognitivisti.
2) Etica e ontologia analitica a partire da Wittgenstein
Dal “secondo Wittgenstein” (che autori come Diamond leggono in continuità con il primo)13
discende una concezione dei diversi “giochi linguistici”, in cui il contesto, inteso in senso ampio
anche come “modo di vita”, assume un’importanza determinante. La morale è uno di questi giochi.
Qui ha spazio una ripresa dell’etica e della virtù e un “discorso lungo” in morale che ne accentua la
dimensione narrativa. Questo aspetto, finora non molto valorizzato, soprattutto in Italia, mi pare
particolarmente interessante. In filosofia morale si tratta di rispondere alla domanda: come il nostro
comportamento è plasmato dal nostro modo di vedere e di parlare del mondo? L’individuo, in
questa prospettiva, è da sempre in rapporto con il mondo e ha sempre una visione del mondo che
incide sul suo comportamento concreto.
La concezione della filosofia morale che si rifà ad una certa interpretazione del primo
Wittgenstein, a Moore, ad Ayer, a Stevenson, ai cognitivisti, soprattutto alla formulazione del primo
Hare è stata criticata in ambito analitico da Bernard Williams, Philippa Foot, John Mac Dowell,
Harry Frankfurt ecc. e, in particolare, da Iris Murdoch anche sulla scia dell’amica e collega di
Oxford Elizabeth Anscombe (allieva di Wittgenstein e critica dell’etica moderna del dovere in
“Modern Moral Philosophy”) e, più recentemente, da una studiosa statunitense di Wittgenstein,
Cora Diamond. Sul pensiero di queste due studiose, Murdoch e Diamond, mi soffermerò in
particolare, ma senza trascurare gli altri contributi.
Già per la Anscombe, se vogliamo comprendere che cosa significhi esprimere una
raccomandazione a proposito di un certo corso di azione o una valutazione su uno stato di cose,
dobbiamo considerare il contesto in modo diverso da come faceva Hare14. Anche Williams ha
criticato il carattere “moralistico” di molta filosofia morale contemporanea, cioè la sua
13
Oltre al libro di Barrett, altra letteratura secondaria che sottolinea la continuità tra il “primo” e il “secondo”
Wittgenstein è: Cfr. Kenny A., La filosofia della mente nel primo Wittgenstein, e Williams B., Wittgenstein e
l’idealismo, entrambi in Andronico – Marconi – Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, cit., rispettivamente pp. 121 e
277-9. Più ampiamente la tesi è argomentata in Kenny A., Wittgenstein, Boringhieri, Torino 1984 (ed. or. Wittgenstein,
Penguin, London 1973); a p. 252 egli esplicita questo suo intento programmatico e alle pp. 264-7 elenca una serie di
proposizioni a cui Wittgenstein si attenne in ogni fase del suo pensiero. Sulla continuità di Wittgenstein insiste anche
von Wright G. H., Wittgenstein e il Novecento, in Egidi R. (a cura di), Wittgenstein e il novecento, Universale Donzelli,
Roma 2002, pp. 29-30: questo autore punta sul costante atteggiamento di Wittgenstein nei confronti della vita.)
14
Cfr. Anscombe G. E. M., Intenzione, Università della Santa Croce, Roma 2004 (ed. or. Intention, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 2000 (2))
7
concentrazione su un certo tipo di considerazioni (il dovere per il dovere ad esempio) a discapito di
altre e cioè dei molti modi in cui le situazioni possono colpire, interessare, risultare gradevoli o
dolorose.
Cercherò di cogliere alcuni aspetti presenti nel pensiero di Iris Murdoch e comuni a molti degli
autori citati. Un breve cenno però va fatto prima alla figura e alla biografia della Murdoch. Si tratta
di un raro caso di romanziera di successo e di filosofo di valore, capace di scrivere bene utilizzando
i due registri letterario e filosofico-analitico. Amica e collega della Anscombe e della Foot a
Oxford, dove ha insegnato per anni filosofia, influenzata da Wittgenstein, dal pensiero
esistenzialista della Weil, dal punto di vista filosofico è difficile inserirla in qualche filone, a rigore
neppure nell’etica delle virtù, alla quale per tanti aspetti si avvicina.
3-1 Etica e metafisica in Iris Murdoch
In primo luogo, come sottolinea particolarmente la Murdoch,
la dimensione pratica
dell’agire è un modo di guardare tutta la realtà e non solo una parte, è uno sguardo su tutta la
realtà, una prospettiva in termini classici trascendentale, in cui la dimensione del bene ha il
primato. La dimensione morale abbraccia tutta la nostra vita, non solo alcuni aspetti di essa: “ è
perfettamente ovvio che la bontà sia connessa alla conoscenza non però ad una conoscenza
impersonale, quasi-scientifica del mondo ordinario, qualunque essa possa essere, bensì ad una
percezione affinata e onesta di come realmente stanno le cose, un paziente e giusto
discernimento ed un’esplorazione di ciò che ci sta davanti, che non sono il risultato di un puro e
semplice aprire gli occhi bensì di un genere di disciplina morale che ci è, certo, del tutto
familiare”(SB 92).
Oggi “ciò che mi sembra al di là di ogni dubbio è che la filosofia morale sia scoraggiata e
confusa, privata di credito e d’importanza in molti ambiti. Il dissolversi dell’io filosofico,
unitamente al fiducioso riempirsi dell’io scientifico, ha prodotto nell’etica una concezione
ampollosa
benché vuota della volontà ed è quest’ultima che ho inteso soprattutto attaccare”
(SB133).
In questa prospettiva si sottolinea l’importanza della visione e dell’immaginazione,
dell’attenzione nell’esperienza morale: “La direzione dell’attenzione, contrariamente all’istinto, è
rivolta all’esterno, lontano dall’io che riduce tutto ad una falsa unità, verso la grande, sorprendente
varietà del mondo; la capacità di dirigere l’attenzione in questo modo è l’amore” (SB 122).
8
Una parola può modificare il nostro modo di pensare, ritagliare la realtà in modo nuovo. Di qui
l’importanza della letteratura, di un vocabolario morale: “Un cambiamento morale emerge dal
nostro vocabolario: anche il modo in cui vediamo e descriviamo il mondo, e il rapporto tra questa
visione e il nostro comportamento può essere molto complesso…. Abbiamo trascurato vocaboli
morali come vero, coraggioso, libero, sincero” (EM100).
In una battuta potremmo dire che così come il conoscere è sempre un “conoscere come”, cioè un
atto intenzionale e non un mero stato mentale, così il volere è sempre un “volere come”, diretto
verso una realtà conosciuta e situata.
Per la scrittrice inglese l’etica non si riduce al problema della scelta nella sua puntualità, ma
concerne soprattutto un problema di sguardo sulla realtà: “La libertà intesa in senso stretto non
consiste nell’esercizio della volontà, ma piuttosto nell’esperienza di una visione accurata che,
quando è il momento adatto, causa l’azione. È ciò che sta dietro e negli interstizi tra le azioni,
sollecitandole, che è importante, ed è quest’area che andrebbe purificata. Quando il momento della
scelta è arrivato, la qualità dell’attenzione ha probabilmente già determinato la natura dell’atto…La
sincerità e la conoscenza di sé, generalmente riconosciute come pregi, appaiono meno importanti.
Ciò che libera è un attaccamento a ciò che si trova fuori dal congegno della fantasia, non un esame
del congegno stesso” (SB 123).
Non si tratta innanzitutto di attenzione a sé, alle proprie scelte, ma di apertura, attenzione alla
realtà. Qui emerge l’influsso di Simone Weil e del suo tema dell’ attenzione sulla Murdoch).
L’egocentrismo ci distoglie dalla realtà (a parte la difficoltà di conoscersi veramente come
sottolineato anche da Harry Frankfurt - Charles Larmore). Se studio il russo, “il mio lavoro è la
rivelazione progressiva di qualcosa che esiste indipendentemente da me. L’attenzione è remunerata
da una conoscenza della realtà. L’amore per il russo mi conduce fuori da me stesso verso qualcosa
che mi è estraneo, qualcosa di cui la mia coscienza non può assumere il controllo, né esaurirlo,
negarlo o renderlo irreale” (SB 148). In realtà “proprio perché il linguaggio morale è assertivo
(anziché espressivo e prescrittivo come dicono i non cognitivisti), può essere veicolo di
rappresentazioni più o meno appropriate della realtà “(SB 51). Le metafore per la loro ricchezza e
flessibilità sono i modi linguistici migliori per esplorare la fenomenologia morale e dare dei
resoconti accurati della vita morale. Sono modi di forzare le categorie del linguaggio morale
ordinario per introdurne o recuperarne. Il rinnovamento morale richiede un mutamento del
linguaggio. Pensiamo, per esempio, come il significato della parola amore sia oggi troppo vago e
richieda di essere continuamente precisato.
Il valore per la Murdoch è una proprietà genuina della realtà, ma non è indipendente dalla nostra
natura di agenti. L’interpretazione della realtà è un’attività allo stesso tempo cognitiva e valutativa
9
in cui siamo costantemente impegnati. Per questo non si passa dal descrittivo al valutativo violando
la cosiddetta “legge di Hume” (come suggeriva Moore).
Sono sempre possibili nuovi modi di vedere il mondo e le persone come la nuora da parte della
suocera, lo straniero da parte del nativo ecc. in base a conversioni dello sguardo. Scopo della
morale: guardare meglio la realtà. Come se si dicesse: guarda meglio la realtà e, in particolare, le
persone che hai di fronte! Il progresso morale consiste nell’acquisire con sforzo e pazienza, una
visione chiara dell’altro, frutto di atti particolari e continui di attenzione (crescita virtuosa):
“…un’analogia estetica è d’aiuto alla morale. M potrebbe essere aiutata da qualcuno che ha
conosciuto D e il cui schema concettuale M potrebbe comprendere o cominciare a comprendere in
quel contesto. Un progresso nella comprensione di uno schema concettuale spesso ha luogo quando
ascoltiamo un discorso normativo-descrittivo, in presenza di un oggetto comune” (SB85-86). Il
cambiamento può essere in meglio, ma anche in peggio: “La conversazione quotidiana non è
necessariamente
un’attività moralmente neutrale, inoltre certi modi di descrivere
le persone
possono corrompere ed essere sbagliati…”
Per Murdoch occorre pensare la moralità come qualcosa che va avanti continuamente e non come
qualcosa che sia possibile spegnere tra una scelta morale esplicita e un’altra. La morale ha un
aspetto complessivo, una visione ramificata delle cose che appare in tanti aspetti, nelle più diverse
reazioni, nelle parole e nei silenzi, in ciò che si trova divertente o interessante o ammirevole, nelle
scelte, certo, e soprattutto nei concetti che si hanno. L’attività mentale di ciascun individuo
possiede un’unità narrativa. Il processo attraverso il quale i concetti acquisiscono concretezza è
lento, consiste in atti continui d’immaginazione, e mostra un senso e una direzione che diventano
intelligibili quando l’agente offre una spiegazione narrativa, cioè quando racconta la sua storia dal
suo punto di vista. Da questa prospettiva le attività mentali più importanti non sono tanto il pensare,
quanto il ripensare, non il descrivere, quanto il ridescrivere, non l’esaminare, ma il riesaminare, non
il definire, ma il ridefinire.
Quindi, in opposizione al prescrittivismo universalista di Hare, contraddistinto dal “trattamento
comportamentistico della “vita interiore”, la visione dei concetti morali come specificazioni fattuali
più esortazioni, la universalizzabilità del giudizio morale e la conseguente raffigurazione della
libertà morale…” (EM105), Murdoch sottolinea che non tutti i comportamenti sono
universalizzabili (cfr. EM111). In generale, a differenza dell’universalismo rigido, “ai fini
dell’analisi la filosofia morale dovrebbe rimanere al livello delle differenze, prendendo come date le
forme morali di vita e non cercare di trovare
una forma unica” (EM 120). Di fronte alla
particolarità delle singole situazioni morali “queste narrazioni offrono proprio per via della loro
10
concretezza e dunque della loro ambiguità, fonti di ispirazione morale che regole estremamente
definite non potrebbero offrire” (EM115).
Ricercando le radici del prescrittivismo di Hare si afferma che “quando Kant tentò d’individuare
qualcosa di pulito e nitido al di là della confusione della psiche egoista ed empirica, seguiva un
sano istinto, ma, a mio parere, cercava in un posto sbagliato. La sua ricerca lo riportò all’interno del
soggetto, ora dipinto come angelico, e i suoi successori non si sono più scostati da questo ioangelo” (EM 364).
Ma allora, “Perché non annettere moralità alla sostanza del mondo?…risposta morale “Se fai
questo rischi di trasformare la tua moralità in un dogma, rischi di diventare intollerante verso i
valori degli altri, e di smettere di riflettere sui tuoi valori, considerandoli troppo come dati… il
filosofo morale contemporaneo ha prodotto un modello. Solo che non si tratta di un modello
qualsiasi. Si tratta di un modello della sua propria moralità” (EM 94-95). Osserva a questo
proposito la Murdoch: “Il liberale
[a differenza del naturalista] vuole continuamente portare
l’attenzione sul punto di discontinuità tra l’agente che sceglie e il mondo. Credo non sia
semplicemente un gioco verbale sostenere che cui si dovrebbe aspirare è la bontà e non la libertà o
l’azione giusta, anche se l’azione giusta e la libertà, intesa come umiltà, sono i prodotti naturali
dell’attenzione al bene” (EM 119).
In realtà “non occorre per garantire la morale, che la libertà equivalga alla completa indipendenza
dalle attitudini concettuali profonde” (EM109). “I grandi filosofi coniano nuovi concetti morali e
comunicano nuove visioni della morale e nuovi modi di comprensione” (EM109). “Se i concetti
morali fossero considerati profonde configurazioni morali del mondo piuttosto che confini tracciati
per separare aree fattuali, allora non ci sarebbero fatti “dietro di essi” in base ai quali essere
erroneamente definiti in quanto tali. Non c’è niente di sinistro in questa idea, la libertà consisterà
non nell’essere capace di eliminare il concetto dai fatti che restano inalterati e si trovano altrove, ma
nell’essere capaci di ‘approfondire’ e ‘riorganizzare’ il concetto o di sostituirlo con un altro. Da
questo punto di vista si deve notare che la libertà morale sembra più una modalità di riflessione che
dobbiamo portare a compimento, e meno una capacità di modificare le nostre scelte che ci
appartiene per definizione. Non mi pare affatto uno svantaggio” (EM 118).
In Metaphysics as a Guide to Moral, la sua ultima opera filosofica, la Murdoch cerca di salvare la
nozione di dovere in una forma ridimensionata rispetto a quella propria del prescrittivismo. Ella
nota: “Qualcuno potrebbe notare che un’etica non del dovere potrebbe scadere nell’estetismo” (MM
301). E in seguito : “Il concetto di dovere è sui generis, la sua separatezza è un aspetto della sua
efficacia. Non è il tutto della morale, ma ne costituisce un essenziale nocciolo duro”…” Dio non ha
11
doveri. Un essere imperfetto spesso riconosce e sente la domanda morale come esterna, opposta
all’istinto e all’abito, contraria ai modi usuali di pensiero” (MM 302-3).
3-2 Analogia-sinergia fra filosofia e arte-letteratura
La Murdoch individua importanti analogie fra l’esperienza morale e l’esperienza artistica e
letteraria interpretate in una prospettiva metafisica realistica. Di più: l’esperienza artistica e
letteraria esercita un ruolo formativo sull’esperienza morale, esercitando l’uomo ad aprirsi alla
realtà nei suoi molteplici aspetti. Elenco di seguito alcuni passi significativi sul tema:
- “E importante ricordare che il linguaggio stesso è un mezzo morale, che praticamente tutti gli usi
del linguaggio implicano giudizi di valore. Questa è una delle ragioni per cui siamo quasi sempre
moralmente attivi. La vita è impregnata di morale, così come lo è la letteratura” (EM59).
- “Ai fini della salvezza collettiva e individuale della razza umana, l’arte è senza dubbio più
importante della filosofia, e la letteratura la più importante fra tutte le arti” (SB 133).
- “La tolleranza è legata alla capacità di immaginare nuclei di realtà distinti e lontani…Il grande
artista vede l’insieme vasto e interessante di ciò che è altro da sé e non riduce il mondo ad
un’immagine di se stesso. Credo che questo particolare tipo di oggettività comprensiva sia una
virtù, ed è proprio questo che lo Stato totalitario cerca di distruggere quando perseguita l’arte”
(EM61).
- L’arte e la morale “ La loro essenza è la stessa. L’essenza di entrambe è l’amore, e l’amore è la
capacità di cogliere l’individuale. Amore significa comprendere, ed è molto difficile, che qualcosa
di altro da sé è reale” (EM 212).
- “ è a partire da queste due sfere, arte ed etica, che possiamo sperare di riuscire a formulare
concetti validi che siano in grado di guidare e controllare il crescente potere della scienza” (EM
356).
“Il realismo del grande artista non è un realismo fotografico, è essenzialmente pietà e giustizia”
(EM367). Ma Murdoch precisa significativamente: “I buoni artisti possono essere pessimi uomini;
la loro virtù, come ho già detto, può interamente risiedere nel lavoro, la giusta visione può essere
raggiunta solo lì” (EM 448).
3-3 Affettività/ragione
12
Per Murdoch sussiste un intimo nesso fra affettività e razionalità pratica. La dimensione affettiva
non si aggiunge a questa “dall’esterno”. Come ella nota “Gli esseri umani sono naturalmente
affettivi e quando un affetto risulta doloroso o negativo, viene prontamente sostituito da un altro
affetto, che può essere incoraggiato da uno sforzo di attenzione” (EM 343). E in EM 371: “Agiamo
nel modo giusto “quando viene il momento” non grazie alla nostra forza di volontà, ma grazie alla
qualità dei nostri legami affettivi e all’energia e al discernimento di cui disponiamo. Per questo
motivo l’intera attività della nostra coscienza è rilevante”.
3-4
Opposizione fantasia/immaginazione, egocentrismo/ eterocentrismo,
Gli errori morali su cui Murdoch insiste sono errori di distrazione, di mancanza di
partecipazione, mancanza di immaginazione, negligenza, apatia, sconsideratezza. L’immaginazione,
infatti, è un modo dell’attenzione; esercitare l’immaginazione significa focalizzare l’attenzione sulla
realtà. Mentre la fantasia è un modo di allontanarsi dalla realtà, l’immaginazione è un modo di
prestarvi attenzione ed esserne partecipi. Il discernimento morale è “l’idea di un rispetto paziente e
affettuoso verso una persona, una cosa, una situazione, presenta la volontà non come un movimento
ostacolato ma qualcosa di più simile all’obbedienza” (EM 331). L’alternativa fondamentale
dell’etica è quella fra egocentrismo ed eterocentrismo. Nota a questo proposito la Murdoch: “Una
fede ingenua nella scienza, insieme al presupposto che ogni individuo sia razionale e assolutamente
libero, porta a una pericolosa mancanza di curiosità nei confronti del mondo reale ed è responsabile
del fatto che non si apprezzino le difficoltà incontrate nel tentativo di conoscerlo. Dobbiamo
abbandonare il concetto egocentrico [self-centered] di sincerità e tornare al concetto eterocentrico
[other centered] di verità. Non siamo individui sovrani isolati e liberi di scegliere, ma creature
ottenebrate, sprofondate in una realtà che siamo costantemente tentate di deformare per mezzo della
fantasia. La nostra attuale immagine di libertà incoraggia la fuga dalla realtà [ a dream-like
facility]” (EM17-18).
E si precisa in seguito: “La visione giusta, perfino nel caso dei problemi che riguardano più
strettamente l’intelletto, e in particolare quando si tratta di percepire sofferenza e malvagità, è una
questione morale: le stesse virtù, e alla fine un’unica virtù [l’amore], sono continuamente richieste e
la fantasia [l’io può impedirci di vedere un filo d’erba così come un’altra persona. Una crescente
consapevolezza di ciò che è bene e il tentativo [di solito solo parzialmente riuscito] di attenervisi in
modo puro, senza intromissione dell’io, porta con sé una crescente consapevolezza dell’unità e
interdipendenza del mondo morale. Un’intelligenza che ha un unico scopo è l’immagine della
13
“fede”. Pensiamo a cosa significa far crescere in qualcuno la comprensione per una grande opera
d’arte” (EM 354).
Qui la Murdoch s’ispira esplicitamente a Simone Weil. Secondo la Weil, “il cambiamento
morale proviene da un’attenzione per il mondo il cui naturale risultato è un decremento
dell’egoismo attraverso un accresciuto senso della realtà in primo luogo certamente delle altre
persone, ma anche delle cose” (MM 52) . Ella rimanda a Lettera ai Filippesi 4, 8: “Tutto ciò che è
buono…sia oggetto dei vostri pensieri”.
3-5
Apertura agli altri
Apertura alla realtà (eterocentrismo) significa soprattutto apertura alle altre persone:
“Alla fine forse non c’è pace tra coloro che pensano che gli altri siano di solito difficili da
comprendere e coloro che pensano invece che gli altri siano facili da comprendere”(EM 120). E si
precisa: “Possiamo non vedere l’individuo a causa della totalità di Hegel, a causa del nostro stesso
essere immersi in una totalità sociale a cui permettiamo in modo acritico di determinare le nostre
reazioni, o perché ci consideriamo a vicenda solo come determinati in quel modo.
Oppure
possiamo non essere in grado di cogliere l’individuo perché viviamo completamente rinchiusi in
un mondo fantastico da noi stessi creato e in cui cerchiamo di far entrare le cose dall’esterno senza
comprenderne la realtà e l’indipendenza e trasformandole in oggetti del nostro sogno. La fantasia,
nemica dell’arte, è la nemica dell’autentica immaginazione. L’amore è un esercizio
dell’immaginazione. Ecco cosa intendeva Shelley quando affermava che l’egoismo è il più grande
nemico della poesia” (EM 225). Ciò non significa, tuttavia, che l’arte debba avere uno scopo
didattico. In questa prospettiva “la persona reale distrugge il mito, la contingenza distrugge la
fantasia e apre la strada all’immaginazione” (EM 297). In realtà “non siamo liberi di cambiare noi
stessi all’improvviso” (EM 331).
3-6
Proposta: la morale come tendenza al bene (Platonismo)
La proposta etica e metafisica della Murdoch s’ispira al Platonismo, anche se potrebbe
legittimamente essere condivisa da altre prospettive di pensiero, in particolare dalla linea
aristotelica. Ella afferma ne La sovranità del Bene: “‘Il Bene è una realtà trascendente’ significa che
la virtù è il tentativo di squarciare il velo della coscienza egoistica per congiungersi al mondo come
esso realmente è. Che questo tentativo non possa essere interamente coronato dal successo è un
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fatto empirico, che riguarda la natura umana” 152. Più cresce nell’uomo l’affermazione del Bene,
più l’uomo egli si apre alla realtà, più diventa capace di cogliere il limite del finito e più diventa,
agostinianamente, capace di vera libertà.
Conclusioni: acquisizioni e problemi aperti
Gli autori cui abbiamo sinteticamente accennato (in particolare, Murdoch e Diamond, in certa
misura Mc Dowell e Frankfurt) sono accomunati dai seguenti temi:
1) Attenzione al linguaggio. Il linguaggio come per il secondo Wittgenstein, ma secondo
alcuni come Diamond anche per il primo, è un organismo vivo, espressione della vita delle
persone e non qualcosa “là fuori”, completo senza il contributo individuale, né un mero
strumento (un insieme di segni che aspetta il contributo degli uomini per essere rimesso in
vita). Il linguaggio è fondamentale nell’esperienza morale, la quale si nutre di nuovi termini
che ritagliano continuamente l’esperienza, rinnovandola.
2) Il carattere onnicomprensivo della dimensione morale che comporta sempre una
conoscenza della realtà. Il valore per Wittgenstein incide sulla nostra visione del mondo. La
conoscenza della realtà è già impregnata di valore, di moralità. Per questo non si deducono
norme da fatti. A differenza di una razionalità pratica d’impronta humeana o kantiana,
emotivista o prescrittivista che è tendenzialmente cieca. Si potrebbe parlare d’intelletto [da
intus-legere secondo l’etimologia di Tommaso] e non di emotività isolata e di ragione in
morale. La razionalità pratica moderna in genere sente, esige, postula, ma in quanto tale
“non ha occhi”.
3) La conoscenza della realtà non si riduce a conoscenza scientifica. Solo quando vediamo
l’esperienza umana non con gli occhi della scienza, ma con quelli valutativi e concettuali
possiamo selezionare alcune aree come irrinunciabili (per es. la libertà)15.
4) L’intimo nesso razionalità-affettività. L’affettività non si aggiunge dall’esterno alla
razionalità pratica (Mc Dowell).
5) Il nesso morale- arte-letteratura. La vera arte come la vera esperienza morale è conoscenza
della realtà e degli altri e non proiezione dell’io, eterocentrismo, cui corrisponde
l’immaginazione e non egocentrismo cui corrisponde la fantasia.
6) La morale non è un discorso breve che si riduce al problema della scelta e al tema del
dovere da parte di un soggetto atomistico, anche se questo tema conserva una sua
15
Cfr. M. Nussbaum, Non relative Virtues: An Aristotelian Approach in The Quallity of Life, Oxford 1993, pp. 242269.
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importanza. La morale riguarda in primo luogo la vita interiore, il modo di guardare la
realtà e gli altri che si traduce nelle scelte.
7) La concezione atomistica dell’individuo che sceglie, la quale si ribella al naturalismo
[religioso o marxista] ovvero alla metafisica, non è neutra e oggettiva, ma è espressione di
una determinata cultura, dell’empirismo e del liberalismo, di chi pure pretende di non
essere condizionato.
8) A differenza delle posizioni di Moore, Ross e Hare, la cui visione in ultima analisi
scientista e atomistica non mette in relazione i concetti morali con il soggetto (non c’è mai
l’idea che vi sia qualcosa come il punto di vista dell’individuo virtuoso sulle cose), il
problema morale riguarda il soggetto, la sua persona, il suo carattere, le sue virtù. Queste
influenzano la sua visione della realtà e la sua capacità di cogliere la pertinenza morale di
certe situazioni.
9) Contro l’astoricità del filone dominante della filosofia analitica. Importanza del confronto
fra diverse prospettive morali che si sono succedute lungo la storia al fine di arricchire il
nostro vocabolario morale, di affinare la nostra prospettiva sulla realtà e di rendere più
ponderate le nostre scelte.
10) Importanza della testimonianza viva di altri per imparare a guardare in modo nuovo e,
quindi, a scegliere diversamente. Si tratta d’imparare a guardare come altri guardano.
Può essere utile, infine,
un confronto con una prospettiva ricca dell’esperienza morale,
precedente la scissione moderna di speculativo e pratico. In effetti, dal momento che viviamo da
tempo nella scissione di affettività e razionalità, razionalità pratica e razionalità speculativa, è
opportuno guardare a momenti storici e a figure che questa scissione precedono. Consideriamo un
passo di Tommaso:
“quinque pertinent ad prudentiam secundum id quod est cognoscitiva, scilicet memoria, ratio,
intellectus, docilitas et solertia, tria vero alia pertinent ad eam secundum quod est praeceptiva,
applicando cognitionem ad opus, scilicet providentia, circumspectio et cautio. Quorum diversitatis
ratio patet ex hoc quod circa cognitionem tria sunt consideranda. Primo quidem, ipsa cognitio.
Quae si sit praeteritorum, est memoria, si autem praesentium, sive contingentium sive
necessariorum, vocatur intellectus sive intelligentia” (In Eth. VI).
Per Tommaso d’Aquino, che riprende Aristotele, la razionalità pratica è anche sempre speculativa,
aperta alla realtà. Si tratta di una razionalità che vede e guarda, che “avendo degli occhi”, può
sempre guardare con occhi nuovi. Il problema morale è innanzi tutto un problema di sguardo, a
16
partire da una memoria di eventi significativi vissuti in prima persona e anche testimoniati da altri:
“Ratio pratica considerando ordinem facit (pone ordine)”. Ma, significativamente, considerare
significa guardare con attenzione.
Come si desume dal passo del Commento all’Etica nicomachea la dimensione speculativaintuitiva è intrinseca alla prudentia, la quale ordina “qui ed ora” [dimensione precettiva]. La
dimensione conoscitiva della realtà riguarda non solo i principi primi speculativi e pratici, ma
anche la realtà concreta in cui l’azione ha luogo (“sive contingentium sive necessariorum”). Così
pure la docilitas come capacità d’imparare a guardare gli altri virtuosi è intrinseca alla prudentia.
Aristotele sottolinea anche il ruolo della synesis come capacità di riconoscere il comportamento
virtuoso altrui e, quindi, coloro da cui imparare. Si deve notare, in questa prospettiva, che non si
può leggere l’etica antica e medioevale, accentuando troppo il ruolo della scelta rispetto a quello
della conoscenza pratica.
In sintesi: Tommaso sottolinea il ruolo centrale dell’intelligenza nell’esperienza morale e non
solo della ragione pratica in senso moderno [Kant-Hare] o del sentimento [emotivismo] e il ruolo
del desiderio come unificante l’ambito della tendenza. Questo non si riduce, infatti, ad un insieme
di bisogni scoordinati. Si può parlare di circolo interpretativo tra intellectus dei principi e intellectus
del particolare, che si condizionano a vicenda.
Problemi aperti:
Le differenze di visione morale e le differenze nell’impostare le scelte concrete non si basano
solo sulla diversità dei principi morali che si adottano, ma moltissimo sulla diversa sensibilità nei
confronti della realtà quotidiana (intellectus del particolare). La sensibilità è plasmata dalla cultura,
dall’esperienza, dalla formazione del carattere (virtù), dall’attenzione al comportamento e alla
testimonianza altrui e oggi dalla lettura della stampa e dai mezzi di comunicazione in genere.
Ruolo fondamentale della memoria e dell’attenzione nell’educazione morale: Che cosa ricordi, che
cosa ti colpisce, quale memoria alimenta il tuo agire?
Scopo della morale è innanzi tutto guardare meglio la realtà: guarda meglio la realtà e, in
particolare, le persone che hai di fronte! Oggi queste conversioni di sguardo possono anche essere
suggerite dai mass media. Ma come discriminare fra conversioni dello sguardo migliori e peggiori?
Come liberarsi dagli schemi ideologici? Può essere importante, platonicamente, la direzione verso il
Bene (Murdoch)? Il fatto di tener presenti tutti fattori di una situazione (fine, oggetto, circostanze)
secondo una nozione d’integralità tommasiana [bonum ex integra causa]? Come coniugare questo
sguardo sul mondo con alcuni principi assoluti (di derivazione kantiana, ma anche tommasiana), i
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quali però da soli non sono sufficienti (problema della fondazione dell’etica)? Come superare,
infine, il rischio di un’incomunicabilità fra diverse prospettive morali (relativismo), rischio insito
nella prospettiva del secondo
Wittgenstein, pur degna di essere valorizzata, come fanno la
Murdoch e, soprattutto, la Diamond?
Occorre notare, infine, che nella prospettiva della Murdoch, per tanti aspetti condivisibile, si può
scorgere talora il rischio socratico-platonico di ridurre la dimensione morale alla conoscenza giusta,
trascurando o minimizzando il ruolo delle virtù etiche nel motivare all’azione.
3) Bibliografia
Iris Murdoch. Vision and Choice in Morality in “Proceedings of the Aristotelian Society”, 30
(Suppl), 1956, pp. 32-58.
Iris Murdoch, The Sovereignity of Good, Routledge & Kegan, London 1970, trad. it. di L De Biase,
La sovranità del bene, R. Carabba, Lanciano 2005 (SB)
Iris Murdoch, Metaphysics as a Guide to Morals, Penguin Books, London 1992 (MM)
Iris Murdoch, Esistenzialisti e mistici, Il Saggiatore, Milano 2005 (EM).
Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1987.
Harry Frankfurt, The Importance of what we care about. Philosophical Essays, CUP, Cambridge
1988.
John McDowell, Mind, Value & Reality, Harvard University Press, Harvard 1998.
Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale a c. di P.G. Donatelli, Carocci, Roma 2006
Appendice
Cora Diamond
Cora Diamond riprende oggi in gran parte la concezione della Murdoch. Non è facile, secondo
Diamond, scrivere sulla vita morale. Ella condivide con Mc Dowell l’idea che il padroneggiare
concetti è qualcosa che coinvolge la vita intima della persona e che il cambiamento morale ha a che
fare con il guadagnare per sé una certa prospettiva concettuale. Per Diamond la vita morale è sia
carica di emozioni e di affettività, sia (a differenza di quanto afferma l’emotivismo) propriamente
concettuale. Una parola può spalancare un orizzonte nuovo all’esperienza morale. In un concetto
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c’è una certa storia culturale, ma anche qualcosa che possiamo modificare con la nostra riflessione
e cioè con la trasformazione della nostra sensibilità.
Mentre per Hare il sentimento colora un pensiero cognitivo già compiuto, Diamond vede la vita di
un pensiero morale e la sua dimensione affettiva come un intero mondo in cui si deve entrare, un
mondo in cui vari aspetti si tengono insieme, una visione complessiva (come osservava Murdoch)
che si deve fare propria.
Ciò che non va in Rawls, secondo Diamond, e il fatto che egli propone una spiegazione troppo
limitata del tipo di esperienza che può riempire di significato la sua affermazione della separatezza
delle persone. Non basta il senso del rispetto nei riguardi delle persone.
Diamond vuole conservare l’interpretazione kantiana della forza con cui si impongono
le
considerazioni morali come una forza autenticamente concettuale, cioè il tipo di forza che è
all’opera quando vediamo ciò che si tiene assieme concettualmente, ma rifiuta di accettare la
lettura kantiana circa l’origine di tale forza. Ella critica il modo in cui Kant si concentra sulla sola
razionalità ad esclusione della sfera delle passioni. Soprattutto sottolinea l’importanza di non
semplificare, di non cercare una formula universale che tralasci la varietà di cose di cui è nutrito il
nostro interesse morale verso il mondo.
Per D. le considerazioni morali fanno parte (concettualmente) della nozione di essere umano. Ella
sostiene, per es., che trattare con rispetto i cadaveri fa parte del nostro avere il concetto di essere
umano.
Affermare che la vita dei nostri interessi morali è concettuale comporta un’attenzione alla varietà di
distanze che si possono porre tra le persone e le epoche, e apre quindi anche a una varietà di
possibilità di critica. Secondo Murdoch e Diamond la tradizione analitica ha trascurato questo bene
concettuale (Diamond p. 256: “Imparare a usare un termine significa introdursi nella vita con quel
termine, le cui possibilità sono in larga misura ancora da determinare”. Invece si è pensato
erroneamente che Wittgenstein sostenesse un’idea di linguaggio governato da regole date16.
Da C. Diamond, L’immaginazione e la vita morale
170 “dobbiamo rifiutare l’idea che il pensiero morale sia un reparto del pensiero e il discorso
morale un reparto del discorso. Ma è questa concezione della moralità come suddivisa in reparti che
caratterizza la filosofia morale contemporanea”.
16
Sull’interpretazione di Wittgenstein da parte della Diamond cfr. Donatelli Piergiorgio (Università di Roma La
Sapienza), The Problem of “The Higher” in Wittgenstein’s Tractatus e Conant James, What “Ethics” in the Tractatus is
Not, entrambi in Phillips D. Z. – von der Ruhr M. (eds.), Religion and Wittgenstein’s Legacy, Ashgate, Aldershot 2005,
pp. 11-88).
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172: “La concezione che Murdoch ha della consapevolezza cognitiva è che essa sia dappertutto
carica di valore”.
173: “ …se l’etica è onnipresente i suoi non sono fatti”.
222 Per Murdoch l’insistenza sulla scelta non è neutra e innocente, ma si deve in origine alla
combinazione di liberalismo e protestantesimo.
226 Secondo Murdoch è da condannarsi la volontà di semplificare eccessivamente in etica e in
religione.