Recensione a Frédéric Lenoir, La felicità : un viaggio filosofico

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Recensione a Frédéric Lenoir,
La felicità : un viaggio filosofico
di Margherita Pastine
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5 agosto 2016
“La felicità, un viaggio filosofico”, che traduce l’originale francese “Du bonheur, un voyage
phylosophique”, si presenta sotto forma di un saggio descrittivo dall’andamento narrativo
e al contempo valutativo, forte di una più o meno implicita presa di posizione dell’autore
intorno all’argomento trattato. Il libro del filosofo e sociologo francese Frédéric Lénoir
non si pone come una mera rassegna delle varie posizioni filosofiche che si sono cimentate
con il tema della felicità nell’arco della storia del pensiero occidentale. Il saggio si distingue nettamente per il suo spaziare dalle posizioni delle neuroscienze, della filosofia, fino a
quelle delle confessioni religiose dell’oriente oltre che dell’occidente.
Primo fra tutti Lénoir evoca il punto di vista del buddhismo indiano, significativamente
associato dall’autore allo stoicismo della Grecia antica, come visioni del mondo che riposano
su un’accettazione profonda e sentita della vita, in tutte le sue intime contraddizioni ed avversità, che agli occhi del saggio e del filosofo tardo-antico altro non diventano che manifestazioni dell’ordine della natura e del divino che ne è alla radice. Come scrive l’autore, “sono
queste le tre grandi vie della saggezza” stoica: “la trasformazione del desiderio, l’adattamento
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flessibile alla vita, la liberazione gioiosa del sé”1. In nome della celebrazione della categoria
filosofica della “necessità”, Lénoir riporta in più di un passo questi modi di concepire la realtà
e le sofferenze che in essa sperimentiamo, modi che ci permettono di cogliere queste ultime
come espressione dell’ordine naturale delle cose, come qualcosa che “non può essere diversamente da come è”, e di sfociare in un finale e liberatorio sì alla vita e alla sacralità delle sue
manifestazioni, che mai però si protende fino ad un cieco ed indegno fatalismo.
Il filosofo francese non manca di ricordare la concezione che della felicità aveva espresso la filosofia antica in senso stretto, quella nata in terra greca, che soprattutto con Aristotele la intendeva in modo completamente diverso dal nostro modo corrente. La felicità
veniva da quest’ultimo intesa, infatti, come una disposizione stabile dell’anima, cui si accedeva nel momento dell’esercizio della nostra natura più intima di uomini, quella razionale,
e non come un sentimento sporadico e fuggevole, in balia assoluta degli eventi esterni.
Ecco che così tutti, prosegue l’autore, possiamo essere felici se realizziamo il nostro essere
più proprio e le nostre aspirazioni profonde, all’insegna del “diventare ciò che già si è”
socratico, corollario del più noto “conosci te stesso”, motto dell’oracolo delfico che l’aveva indicato come il più sapiente tra gli uomini, in virtù proprio della consapevolezza che
aveva di se stesso come individuo.
Questo non significa chiaramente che la nostra felicità consista per l’autore solo nell’esercizio della nostra ragione, ma piuttosto che, al contrario, non siamo tutti uguali, e che
ciascuno per essere felice dovrebbe rispondere alla sua propria natura profonda, che può essere quella di un ballerino, di un uomo d’affari, di una persona dedita in tutto e per tutto alla
famiglia, o di uno sportivo. Tutto ciò è possibile in modo paradigmatico secondo quello che
“lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung chiamava “processo di individuazione”, che inoltre
fa sì che “nessuno può essere felice andando controcorrente rispetto alla propria natura”.
Un messaggio di speranza e di positività che dovrebbe toccare le corde profonde di noi
tutti, nella consapevolezza che per tanti aspetti la nostra felicità dipende da noi stessi, dalla
conoscenza di sé, ma anche per certi versi del mondo che ci circonda, col quale tante volte
sarebbe sufficiente entrare in armonia per comprendere che l’uomo “non potrà sempre
cambiare il mondo, ma potrà sempre cambiare il modo di percepirlo e trarre un’inalterabile
gioia in questo lavoro di trasformazione interiore”2.
L’aspetto di entrare in armonia con il mondo che ci circonda non ha che vedere soltanto con la capacità di cogliere le avversità che vengono ad investirci come iscritte in
una logica naturale di cui dovremmo essere capaci di accettare l’immanenza e il nostro
coinvolgimento, con la conseguenza che ciò che non dipende da noi può comunque essere assunto in modo consapevole e in qual modo accogliente. Entrare in armonia con il
mondo significa anche, secondo Lénoir, sfuggire alle tante forme di individualismo narcisistico della società contemporanea. La presunta convinzione che ci vuole soggiogati da
logiche economiche “mortifere” che ci sovrastano e ci trascendono e come tali ci presume
impossibilitati ad avere una presa diretta ed efficace sugli eventi, fa sì che l’individuo si
1
Frédéric Lénoir, La felicità, un viaggio filosofico, Bompiani, Milano, 2014, p. 198.
2
Op. cit., p. 320.
2
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senta sempre più disinteressato ad agire per la collettività, perché demotivato al principio,
e preoccupato solamente di dare libero sfogo ai suoi desideri personali, incurante della
comunità che sembra inattingibile dai suoi progressi.
Nel corso del medesimo capitolo, intitolato significativamente “Felicità individuale e felicità
collettiva”3, lo scrittore francese non manca di sottolineare come tra la fine degli anni novanta
e l’inizio del duemila iniziative di carattere umanitario e socio-solidale siano ciononostante
tornate sullo scenario globale; si veda ad esempio la comparsa dei forum sociali, la diffusione
della coscienza ecologica, i vari progetti e piani economici come il microcredito e la finanza
solidale. Tutti segnali tutt’altro che isolati o disconnessi, che testimoniano la volontà di ridare senso alla vita comune attraverso la riappropriazione di vigorosi ideali collettivi.
Di più, l’autore sottolinea come siano proprio le persone che si impegnano a svolgere
un sempre rinnovato lavoro su di sé di carattere spirituale o psicologico, una ricerca basata
sulla conoscenza di se stessi prima richiamata, a prendere parte ad associazioni umanitarie
e ad assumere impegni all’interno di iniziative di tutela territoriale, sociale e civica. Queste
iniziative mostrano come la ricerca della felicità individuale non è, né mai dovrebbe essere,
disgiunta dalla suo inserimento nella vita della propria città e dalla cura del bene comune.
Ecco che veniamo così alla personale opinione che Lénoir matura nel corso del suo “viaggio filosofico” lungo le teorie dei tanti maestri della storia del pensiero, un’opinione che emerge in filigrana nel corso dell’esposizione, senza volersi porre come risolutiva o definitiva, che
vorrebbe passare quasi inavvertita e scomparire nell’alveo delle voci corali dei grandi maestri: “ Se, al termine di questo percorso, dovessi dare una definizione personale di felicità, direi che è semplicemente “amare la vita” […] tutta la vita: con i suoi alti e bassi, i suoi splendori
e i suoi momenti bui, i suoi piaceri e le sue pene”4. “Può esser il frutto di un lavoro interiore”,
di un esercizio immanente; il sentimento di felicità, per quanto non sia del tutto in nostro
potere, per un suo carattere anche irrazionale, proviene, come suggerisce lo scrittore in chiusura, intitolata “epilogo”, per gran parte almeno, dalla disposizione dello spirito5.
La “disposizione” dello spirito rimanda all’idea di una sua relativa stabilità, di una sua attitudine complessiva, che può essere positiva o negativa. È lontana dalla mente dell’autore un’idea di
felicità come sentimento puntuale e proveniente dagli eventi esterni, ma si dipana nel corso del
saggio in maniera sempre più esplicita l’idea che essa provenga piuttosto dall’interno del soggetto, dal suo modo di confrontarsi con i casi fortunati o avversi della vita nel suo complesso, dallo
stato della sua anima e della sua personalità, dimensione su cui, come precedentemente detto, è
possibile lavorare. Questo sentimento globale non è un’emozione passeggera, ma può al contrario diventare, se ognuno di noi si impegna nel tempo, “la nostra verità essenziale”6. Può assumere
varie formulazioni e configurazioni: può acquisire il carattere di una generale “gioia di vivere”,
di un sentimento di gratitudine, di un sentimento di armonia in noi e fra noi e il mondo.
3
Op. cit., p. 167.
4
Op. cit., p. 314.
5
Cfr.: pp. 316-317.
6
Op. cit., p. 322.
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La felicità si rivela, agli occhi di Lénoir, come una gioia potenziale che ognuno di noi
può essere in grado di scoprire, nel senso letterale di dis-coprire, dentro di sé, in una scoperta che si può agevolmente caratterizzare come un lavoro spirituale di “sgombero” di detriti, scorie, storture di senso, punti di vista passivamente recepiti e sedimentati. Il tutto
allo scopo naturale di farla riemergere e riportarla alla luce in tutto il suo splendore.
Gli antichi greci chiamavano la “verità” aletheia, qualcosa che sfugge all’oscurità e a
ogni condizione di latenza e occultamento, per divampare nella sua evidenza e nella sua
luce. L’onestà intellettuale cui non si può sottrarre un filosofo degno di questo nome, gli
fa puntualizzare che scopo della filosofia non è tuttavia la felicità in sé e per sé considerata, ma la sua finalità è e sempre sarà la verità. Bella o brutta che sia. La verità scandisce il
percorso metodologico della ricerca filosofica, e le assegna la cogenza che le si deve anche
quando ha a che fare con la sfera della morale e dei comportamenti contingenti umani. La
filosofia della morale assume a presupposto della sua indagine l’individuazione e l’adempienza pratica alla verità che riguarda ogni uomo, in quanto specie, e in quanto singolo. È
pur vero tuttavia, come l’autore ricorda, riprendendo Aristotele, che la ricerca della verità e l’esercizio della nostra facoltà raziocinante, natura profonda e distintiva della specie
umana, è essa stessa fonte di felicità, risiedendo quest’ultima, secondo il suddetto filosofo,
nell’esercizio della nostra natura specifica. Cosicché ricerca della verità e ricerca della felicità vanno insieme, come virtù e capacità squisitamente ed essenzialmente umane.
Se la ricerca della felicità deve essere in certo modo filosofica, non può mirare a una felicità estrinseca e vuota di contenuti, o fondata su contenuti che poi potrebbero rivelarsi
falsi, illusori o inconsistenti. È fondamentale fondare la nostra felicità sui nostri più contenuti più veri, profondi e solidi, se vogliamo renderla duratura e sempre pronta e rinascere dalle sue eventuali ceneri, come una fenice. E a questo punto il cerchio si può chiudere:
è ancora attraverso la conoscenza di sé, della propria indole e dei nostri valori, che possiamo basare la nostra vita sulla verità. Così, facendo un breve sunto delle caratteristiche
di una vita felice che il filosofo francese costruisce a mano a mano lungo il suo “Viaggio”,
possiamo dire che la felicità si compendia come la coscienza riflessiva di uno stato di soddisfazione globale e durevole, in un’esistenza che sia dotata di senso, fondata, come può
effettivamente essere, sulla verità, sulla nostra verità. Dopo un viaggio storiografico e personale, per l’autore, come del resto per ognuno di noi, essa può venire alla luce.
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Frédéric Lénoir, La felicità : un viaggio filosofico, Bompiani, Milano, 2014
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