II Catechesi
Incontrare Cristo nell’Eucaristia
S. Em. Rev.ma Card. Camillo Ruini - Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma,
Presidente della C.E.I. St. Elisabeth (Totalbelegung), Bernard-Custodis-Str. 2 Bonn
Bonn, 18 agosto 2005
“Videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11):
la ricerca dei Re Magi (di cui avete parlato nella prima catechesi) giunge così a
compimento, nel vedere e incontrare e nell’adorare Cristo. Era questa l’intenzione e
la motivazione originaria del loro viaggio, forse al di là delle loro stesse attese. Per
noi, nella vita presente, l’incontro con Cristo giunge a compimento nell’Eucaristia:
soprattutto in essa, infatti, ci uniamo a Cristo e lo adoriamo, la Chiesa lo adora e si
unisce a Lui.
Specialmente nell’Eucaristia diventa chiaro però che questo incontro, per
quanto da noi ricercato con la nostra libera volontà, e più profondamente con la
radice stessa del nostro essere, propriamente parlando non è il frutto della nostra
ricerca di Dio, ma della ricerca che Dio fa di noi, ossia della sua personale, libera e
umanamente imprevedibile rivelazione e comunicazione o donazione di se stesso a
noi: è il dono del Figlio fatto carne per noi, che viene dall’amore del Padre, nella
forza dello Spirito Santo, che è l’amore reciproco del Padre e del Figlio che penetra
in noi, ci abbraccia e ci coinvolge.
Lo testimonia anzitutto il racconto dell’ultima Cena che troviamo in tutti e tre i
Vangeli sinottici e nell’apostolo Paolo, 1 Corinti 11, 23-26. Leggiamo almeno questo
testo: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso
(abbiamo qui un’esplicita sottolineatura, che è unanime nella Chiesa delle origini e di
sempre, del fatto che si tratta di un gesto e di un mandato di Gesù stesso): il Signore
Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo
spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me’.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è
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la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria
di me’. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi
annunziate la morte del Signore finché egli venga”. Nella sostanza sono le stesse
parole che troviamo nei Vangeli sinottici e poi nella liturgia della Chiesa, attraverso i
secoli e i continenti.
Il punto essenziale, per la nostra fede e per la realtà e la concretezza della
nostra comunione con Cristo e con il Padre, è prendere queste parole in senso
realistico, cioè nel senso che quel pane realmente cessa di essere pane e diventa il
corpo di Cristo, e quel vino cessa di essere vino e diventa il sangue di Cristo. Già
Paolo, subito dopo il testo che abbiamo letto, aggiunge: “Perciò chiunque in modo
indegno mangia il pane e beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue
del Signore” (v. 27). Ancora più esplicitamente Giovanni, l’unico evangelista che non
riporta le parole dell’ultima Cena, introduce però, nel capitolo 6 del suo Vangelo,
Gesù stesso che, nella sinagoga di Cafarnao, si autodefinisce “il pane della vita” e
precisa che questo pane “è la mia carne per la vita del mondo”. Di fronte alle
perplessità e alle contestazioni dei Giudei, compresa gran parte dei suoi stessi
discepoli, Gesù insiste che solo chi mangia la sua carne e beve il suo sangue ha in sé
la vita, la vita eterna, rimane in Cristo e Cristo rimane in lui. E Gesù aggiunge ancora:
“La mia carne infatti è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”. La conclusione,
drammatica, è che “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più
con lui”. Allora Gesù si rivolge ai Dodici, quasi provocatoriamente, chiedendo:
“Forse anche voi volete andarvene?”. Qui interviene la celebre risposta di Pietro:
“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e
conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.
Questo senso realistico dell’Eucaristia, come vero corpo e sangue del Signore,
che è stato mantenuto fermo e approfondito dalla Chiesa attraverso i secoli, è
decisivo anche e particolarmente oggi, perché, anche dentro alla Chiesa e nella
teologia, si sono diffuse opinioni e interpretazioni che riducono la realtà
dell’Eucaristia a un suo significato per noi: l’unico cambiamento che avrebbe luogo
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sarebbe cioè un cambiamento di significato o di funzione, per cui quel pane
rappresenterebbe per noi il corpo di Cristo, alla fine come una bandiera, che in sé è
soltanto un pezzo di stoffa, rappresenta una nazione. Nella realtà, ossia nell’essere del
pane, non avrebbe luogo dunque alcun effettivo cambiamento. Così però l’Eucaristia
sarebbe soltanto qualcosa di fatto da noi, un accordo o una convenzione preso tra noi,
in concreto nella Chiesa, e non l’azione di Dio stesso e la presenza reale di Dio e di
Cristo tra noi e per noi (“il corpo dato per noi”, “il sangue sparso per noi”).
Cerchiamo ora di entrare, per quanto possibile, dentro a questo Mistero, che è
il “Mistero della fede”, come affermiamo in ogni Messa dopo la consacrazione.
Anzitutto, come ha spiegato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de
Eucharistia, è fondamentale il rapporto dell’ultima Cena con la croce e la
risurrezione di Cristo: ciò che Gesù afferma e realizza sacramentalmente nella Cena,
lo compie poi morendo effettivamente sulla croce e il Padre lo accoglie facendo
risorgere il Figlio nella potenza dello Spirito. Questo è il senso autentico di ogni
Messa o Eucaristia, nella quale il Mistero della salvezza, cioè la morte di Cristo per
noi e la sua risurrezione, diventa presente per noi, superando ogni barriera di spazio e
di tempo.
Qui abbiamo a che fare con il carattere profondamente unitario e concreto sia
della persona umana, creatura di Dio, sia della salvezza dell’umanità compiuta da Dio
in Cristo. La salvezza passa attraverso il corpo di Cristo, dato per noi e mangiato da
noi. Il cristianesimo non è dunque (come spesso viene dipinto) uno spiritualismo che
disprezza o trascura la corporeità. La fede cristiana desta scandalo proprio perché è il
contrario: lega indissolubilmente la salvezza eterna alla carne di Cristo e alla nostra
carne.
Perciò è importante una riflessione, almeno abbozzata, sul significato umano
del corpo: il nostro corpo è certamente il nostro limite fisico, che ci delimita rispetto
agli altri e al mondo, ma è anche il luogo attraverso il quale noi comunichiamo,
continuamente, con il mondo e con gli altri. Sta a noi far prevalere l’uno o l’altro
aspetto nel modo di vivere la nostra corporeità: possiamo viverla infatti come
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chiusura in noi stessi o come dono. Nella vita, morte e finalmente nella risurrezione
di Cristo il corpo cessa di essere limite e diventa totale capacità di comunione: questo
è anche il destino a cui siamo chiamati, attraverso la sequela di Cristo, nella
risurrezione che ci è promessa.
Possiamo compiere adesso un passo ulteriore: nel linguaggio della Bibbia
“corpo” non indica semplicemente la realtà materiale contrapposta allo spirito, ma la
persona tutta intera, in cui corpo e spirito sono appunto una persona sola. La parola
eucaristica “Questo è il mio corpo” significa dunque: questa è tutta la mia persona, il
mio essere, dato per voi. Quel che ci è donato nell’Eucaristia non è dunque un pezzo
di corpo, un pezzo di carne, ma Lui stesso, Gesù morto e risorto, uomo e Dio. È una
donazione e comunicazione estremamente personale, che richiede da parte nostra una
risposta, un coinvolgimento, altrettanto personale. Certo, l’Eucaristia è, per
eccellenza, sacramento ecclesiale, è il sacramento che dà vita alla Chiesa e la
costituisce, perché rende presente l’intero mistero pasquale, fondamento e origine
della Chiesa (così ancora Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia).
La Chiesa però non è una collettività anonima, è comunione di persone, nella quale
ciascuno entra con la sua personalità, coscienza e libertà, ed è comunione con il
Signore prima ancora che nei nostri rapporti reciproci: comunione che si realizza
appunto nell’Eucaristia. Perciò nell’Eucaristia la dimensione comunitaria e quella
personale crescono insieme e rimandano l’una all’altra.
Ne deriva una conseguenza pratica della massima importanza: la comunione
sacramentale richiede la comunione personale, quindi la preghiera personale,
l’adorazione personale e il silenzio adorante. Perciò la pausa di silenzio dopo la
comunione e l’adorazione eucaristica anche fuori della Messa si rivelano esigenze
interne dell’Eucaristia, di cui la Chiesa ha preso con il passare dei secoli coscienza
sempre più chiara: si tratta di uno sviluppo positivo e fecondo nella comprensione
teologica e nella vita e preghiera cristiana.
Anche il nostro corpo non può non essere coinvolto in tutto questo: perciò sono
tre le posizioni che dobbiamo prendere nella liturgia: stiamo in piedi per indicare che
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siamo attenti e pronti davanti a Cristo e insieme a Cristo, che sta in piedi come risorto
e vincitore della morte; stiamo seduti per ascoltare e meditare la parola di Dio
spiegata nella Chiesa; stiamo in ginocchio per esprimere la nostra adorazione del
Signore presente tra noi e per noi. Proprio una Chiesa in cui Cristo è adorato è una
Chiesa in cui la presenza del Signore è pienamente accolta ed è per così dire
“realizzata” anche da parte nostra, e pertanto è una Chiesa viva e missionaria, perché
la fede e la conversione del mondo sono anzitutto un dono che si ottiene nella
preghiera e nell’unione con Cristo.
Attraverso l’Eucaristia siamo dunque fatti partecipi di Gesù Cristo che è uomo
e Dio e perciò veniamo divinizzati, cioè trasformati in Cristo e assimilati a Lui.
Sant’Agostino, nelle Confessioni, lo spiega in maniera molto concreta e plastica: a
differenza di quanto avviene con il cibo comune, che viene assimilato da noi e a noi,
quando il nostro cibo è Cristo veniamo noi assimilati da Lui e a Lui. In questo modo
però siamo anche abilitati a trasformare la nostra vita e la società, secondo quella
logica interna che ha condotto Gesù Cristo dall’ultima Cena alla croce e alla
risurrezione, cioè a rendere vero e concreto il sacramento nella vita: partecipando
all’Eucaristia riceviamo cioè l’energia interiore, ma anche il mandato della sequela di
Cristo, che si realizza anzitutto nell’amore e nel servizio del prossimo.
Ogni “persona nuova” che nasce dall’Eucaristia diventa così principio e
fermento di quella società nuova che non sarà mai compiuta e perfetta fino alla fine
dei tempi, ma che però deve essere presente e crescere fin da adesso, risanando
giorno per giorno tutto il male che c’è nel mondo.
Di più, attraverso l’Eucaristia si rinnova in qualche modo l’universo intero, di
cui l’uomo è la “punta” o il “vertice”, perché è creato a immagine di Dio e soprattutto
perché il Verbo si è fatto carne ed è diventato uno di noi, anzi, il nostro cibo e la
nostra vita (come dice San Paolo, “vive in me Cristo”: Gal 2,20). Si aprirebbe qui una
prospettiva molto interessante riguardo al rapporto tra l’uomo e il resto della natura:
di fronte alle tendenze che vorrebbero ridurci semplicemente a una parte, sia pure più
evoluta, della natura stessa, la fede nell’Eucaristia, ma anche la nostra stessa realtà
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profonda di persone capaci di cercare Dio, ci rende consapevoli che siamo sì parte
della natura, ma che andiamo anche al di là della natura stessa, per ricondurla tutta al
suo Creatore, con noi e attraverso di noi.
Finalmente, l’Eucaristia è il sacramento della gioia, è perenne fonte di gioia per
la nostra vita: la gioia del Dio così vicino (Deuteronomio 4,7), che rende davvero
nuove tutte le cose. Perciò sentiamo dentro di noi una gratitudine grande e un grande
bisogno di rendere lode al Dio vicino: una lode che esprimiamo con la bocca e con il
cuore ma anche con la realtà quotidiana della vita.
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