Commemorazione di D`Annunzio a Pescara 11 03 13

Commemorazione di D’Annunzio a Pescara 11/ 03/ 13
Lunedì undici marzo, con un discorso affabile, ed anche un poco affabulatorio (ed
anche un poco, forse, eccessivo -ma non è “sfarzo” anagramma di …Sforza?) rivolto
agli adolescenti ed ai giovani del liceo classico “Gabriele D’Annunzio” di Pescara, ho
dato il mio piccolo contributo alle celebrazioni del 150° della nascita, 75° della
morte, di Gabriel-Ariel. Dell’intervento, tenuto a braccio, tento qui una essenziale e
più ordinata ricostruzione, pur mantenendone stile e tono discorsivamente, a fini
didattici, confidenziali.
Chàirete Dàimones!
A voi il mio saluto classico, e con esso il saluto di Colui dal quale l’appresi, il “Folle”
di Röcken, quel Friedrich Nietzsche (“il Barbaro enorme/ che risollevò gli iddii
sereni/ dell’Ellade su le vaste porte/ dell’Avvenire”) che del panico
Ermapollodionisio pescarese (mio è l’endecasillabo), fu Maestro fra i maestri; al
nome del quale, e non certo solo per l’ode celebrativa “Per la morte di un
Distruttore”, il suo nome sarà per sempre legato, alla cui Ombra sarà la Sua in eterno
inseparabilmente unita, due corni della tessa fiamma, come l’Ulisse e il Diomede
danteschi.
M’era stata altre volte offerta l’opportunità di parlare ad un pubblico pescarese della
mia passione d’annunziana: soprattutto ripenso con compiacimento, e con nostalgia,
ad una lezione tenuta presso l’Università della Terza Età su un tema il cui titolo,
L’Attonimento panico d’annunziano, mi parve render l’essenza della poetica del
Vate. Ma mai mi sarei atteso che un giorno mi sarebbe stato concesso di tentar di
plagiare della mia passione un numerosissimo ed attentissimo pubblico di adolescenti
e di giovani, o di spirito giovani, come il vostro, nel nobile liceo intitolato al Vate
nella “sua” Città, sulle sponde del “suo” fiume, in una tanto solenne occasione.
Ebbene, questo dono gli dei mi hanno elargito nella pienezza della mia ancor vigile
vecchiezza, non ancora perciò turpe e tediosa. E l’emozione è tra le più forti e le più
grandi, se non la fortissima e la grandissima, della mia vita.
Ave, dunque, vetus urbis Numen, ave sacrum vatis Flumen. Ed ave a voi che con me
v’apprestate a glorificare Colui che un critico ed uomo politico cattolico, Domenico
Magri, in anni in cui pur il solo pronunciare il nome di D’Annunzio era ritenuto
blasfemo, ebbe l’animo di celebrarlo, con le parole dal Manzoni dedicate alla
memoria del Còrso (“qui, nell’ode d’Hugo, plus grand que César, plus grand même
que Rome/ absorbe dans son sort le sort du genre humain”) come Colui in cui volle
Iddio “del creator suo Spirito/ più vasta orma stampar”.
*
Sono qui a narrarvi, e possibilmente a tentar di contagiarvi, dell’ormai antichissima
mia passione d’annunziana.
Sul programma di questa giornata vengo indicato come “esperto” di D’Annunzio.
Meglio certo, per un “academico de nulla Academia quale sono e fui (pur avendo per
oltre un quarantennio esercitato come modesto docente di Pedagogia generale, con
particolare attenzione al versante estetico, e Metodologia dell’educazione musicale in
un ateneo romano), meglio di un insignificante “già professore presso RomaTre”; ma
impreciso, ché io non sono un d’annunzista, non sono un filologo, non sono, sia detto
senza offesa, uno spulciatore; semplicemente “intimo”, sono, anzi intimissimo, di
Gabriele, cum labe (et tabe) originali nunciana conceptus, nato drogato d’abruzzesità
e di d’annunzianesimo: come Lui porto “il limo della mia terra (d’elezione) alla
suola delle mie scarpe, al tacco dei miei stivali”; i colli e le valli della mia terra equa,
dura ed altera come la contigua terra dei Marsi, respirano abruzzesità con le arie dell’
“Adriatico selvaggio”, del Gran Sasso e della Maiella le quali, travalicati il Sirente, il
Velino, i monti della Duchessa, giungono a carezzarli o sferzarli, fresche d’estate,
rigidissime d’inverno; ancora l’Ombra del mio possibile avo Muzio Attendolo,
fondatore della stirpe sforzesca (potrei aver nelle vene il sangue di uno dei nove figli
di Maria da Marzano Contessa di Celano sua moglie) affogato nei turbini del Pescara
alle sue foci nel tentativo di strappar loro un suo cavaliero, vaga fra le selve e i monti
della mia terra; ancora l’anima di Vittoria Colonna (figlia di Agnese, figlia di
Battista Sforza e di Federico da Montefeltro, marchesa d’Ischia e di Pescara,
confidente e musa ispiratrice -“Un uomo in una donna, anzi uno Iddio”-, nel
Cenacolo romano da lei fondato dopo la morte prematura nella battaglia di Pavia del
marito Francesco d’Avalos, del solitario di Macel de’Corvi, di Colui che …”nuovo
Olimpo/ alzò in Roma ai celesti…”) attraversa con l’Ombra del Sulmonese di stirpe
sabella la mia piana del Cavaliere; ancora l’Ombra di Lui, che ebbi ospite assiduo per
un trentennio nella casa di via delle Caserme, alla sua casa prossima, messami a
disposizione dalla magnanimità degli amici Conti, colma di Sé, insieme agli Amici
di Turingia, i silenzi delle mie stanze romane.
*
Il D’Annunzio di cui intendo contagiarvi non è certo quello degli stereotipi ricorrenti
che lascio ai cultori di pettegolezzi. Io intendo dirvi di Colui che, come Novalis, intuì
il mistero delle cose ed affidò all’arte, che sola ne possiede il segreto, il compito di
svelarli; di Colui che fece suo, ed in sé (Orbo veggente, Arcangelo coclite) elevò al
massimo grado, spingendolo fino al parossismo, il programma dall’adolescente
Rimbaud (ange ou démon?) affidato al Poeta Veggente: “un long, immense, raisonné
dérèglement de tous les sens”; di Colui che, sforzando alle estreme conseguenze il
panismo ed il cosmismo bruniani (a loro volta corollari obbligati delle premesse,
cusaniane e copernicane, della Coincidentia oppositorum e del De revolutionibus
orbium coelestium, in grado di operare una vera e propria revolutio mentium
terrestrium, per le ardite teorie dell’infinità dei mondi, della circolarità dell’essere in
cui tutto è centro e periferia, dell’identità di causa creante ed effetto creato, di finito e
di infinito, di Dio e Mondo. di Mens super omnia e di Mens insita omnibus: teorie
inauguranti l’era dell’immanenza-trascendenza quale tensione interna, eroico furore,
“raptamento” atteonico, del particolare che avverte in sé il respiro dell’universale, del
Tutto divino che ad ogni ente in cui storicizzandosi si significa conferisce pari divina
dignità, fondamento dell’unica possibile ecologia come discorso intorno all’universo
mia casa e mio corpo), seppe liricamente rendere (“ par da scorza tu esca”, “sei fatta
virente”, heideggeriana, ma già bruniana e nicciana denkende Dichtung, poesia
pensante), in tutta la sua vastissima opera (ma particolarmente in Alcione per un
verso del quale, estrema provocazione, come Thovez per un verso di Callimaco e di
Saffo, darei buona parte della letteratura italiana contemporanea e non solo), dalle
prose e dalle poesie adolescenziali all’estremo, sublime e criptico, Libro Segreto o
Cento e cento e cento pagine di Gabriele D’Annunzio tentato di morire,
l’invocazione rinascimentale ad una metanoesi e ad una metantropologia che sono
ancora tutte, ahimé, di là da venire. Dell’onnivorace celebratore della Vita voglio
dirvi, “dono grande e terribile del dio”, in ogni suo momento ed in ogni suo aspetto,
dalla nascita all’odiata vecchiezza, nella gioia e nel dolore, nel bene e nel male, al di
là del bene e del male; del curioso insaziabile fino all’estremo anelito, come il
Vegliardo dell’incisione giuntalodiana evocata nelle ultime pagine del Libro segreto
nella quale un antico Veglio si trascina a fatica col suo girello mentre un cartiglio
sulla sua testa recita “Anchora apprendo”; di Colui che nel Notturno confida: “Nulla
sfugge agli occhi senza posa attentissimi che la natura mi ha dato e tutto m’è
alimento e aumento. Una tal sete di vivere è simile al desiderio di morire e di
eternarsi” (parole da incidere, come programma che tutti gli altri annulli, sugli
architravi e sugli stipiti delle porte di ogni scuola, dal giardino d’infanzia
all’Università); di Colui che con il sindacalista Alceste de Ambris s’inventa nella
Carta del Carnaro la più bella costituzione del mondo, che tenta in Fiume la
costruzione di uno stato etico in quanto estetico, che nei “Fondamenti” (art.14)
scrive:
“Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nelle università dei
Comuni giurati:
“la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto
intiero dalla libertà:
l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni
giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono:
il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia ben eseguito, tende alla
bellezza e orna il mondo.”;
che sesta corporazione dice quella comprendente
“il fiore intellettuale del popolo: la gioventù studiosa e i suoi maestri: gli insegnanti
delle scuole pubbliche e gli studenti degli istituti superiori: gli scultori, i pittori, i
decoratori, gli architetti, i musici, tutti quelli che esercitano le arti belle, le arti
sceniche, le arti decorative”;
che prefigura ed auspica la decima (Energeia Euplete Euretria) come quella non
avente
“ arte né novero né vocabolo. La sua pienezza è quella che è attesa come la decima
Musa. E’ riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. E’
quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo
novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta
liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue.
E’ rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta
una antica parola toscana dell’epoca dei Comuni, stupenda allusione ad una forma
spiritualizzata del lavoro umano:
“Fatica senza fatica”;
che nel paragrafo “Dell’Istruzione pubblica” scrive (art, 50):
“Per ogni gente di nobile origine la cultura è la più luminosa delle armi lunghe…La
cultura è l’aroma contro le corruzioni. La cultura è la saldezza contro le
deformazioni…Qui si forma l’uomo libero.
Qui si prepara il regno dello spirito, pur nello sforzo del lavoro e nell’acredine del
traffico…
e all’art. 54:
“Alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di religione né
figure di parte politica.
Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di
tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza dio.
Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua
preghiera tacita.
Ma ricorrono sulle pareti quelle iscrizioni sobrie che eccitano l’anima, come temi di
una sinfonia eroica,ripetute non perdono mai il loro potere di rapimento.
Ma ricorrono sulle pareti le imagini grandiose di quei capolavori che con la
massima potenza lirica interpretano la perpetua aspirazione e la perpetua
implorazione degli uomini”;
di Colui che nel paragrafo “Della edilità (art. 63) rinnovella il collegio degli
“Ufficiali dell’Ornato della città” che “impedisce il deturpamento…allestisce le feste
civiche di terra e di mare con sobria eleganza…persuade ai lavoratori che l’ornare
con qualche segno di arte popolaresca la più umile abitazione è un atto pio….si
studia di ridare al popolo l’amore della linea bella e del bel colore…”;
di Colui che nel paragrafo “Della Musica”, con cui emblematicamente la Carta si
conclude, stabilisce (art. 64):
“Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione religiosa e sociale.
Come il grido del gallo eccita l’alba, la Musica eccita l’aurora, quell’aurora…
Intanto negli strumenti del lavoro e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose
che anch’esse obbediscono al ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i suoi
movimenti e le sue pienezze.
Delle sue pause è formato il silenzio della decima Corporazione…;
e nell’art.65, l’ultimo:
Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono ‘totalmente gratuite’ come dai padri
della Chiesa è detto della grazia di Dio”.
STATUTUM ET ORDINATUM EST
IURO EGO
Sfido chiunque a trovare in qualsiasi Costituzione esistente così elevati pensieri e
proponimenti più puri, a tal punto sublimi ed impegnativi da quasi essere spinti a
pensarne impossibile la realizzazione; sfido chiunque a trovare un testo legislativo
che attribuisca alla cultura, all’arte in generale ed alla musica in particolare un tale
valore educativo e sociale. Come per il Baudelaire delle Fusées (“la musique creuse
le ciel), per il Verlaine de L’art poétique (“De la musique avant toute chose”), per il
Marcel del Quatuor en fa dièse (“La musique dit vrai, la musique seule), per
l’estensore della Carta la musica è qualcosa di più di un puro ébranlement nerveux, è
ragione partecipativa, è strada diretta all’Essenza, scorciatoia per l’assoluto, meglio e
più della religione e dell’amore. Utopie? Forse, Ma esse son lì, testimonianza di una
tensione etica ed estetica che non ha pari in alcun progetto istituzionale di nessuno
Paese al mondo.
*
Sono nello scrittore e nell’uomo D’Annunzio (“categoria” in cui lo Spirito, per dirla
hegelianamente, si è in maniera unica ed irripetibile spazialmente e temporalmente
determinato, “avatar”, per dirla coi linguaggi più accessibili delle spiritualità
iniziatiche orientali, in cui il divino si è reincarnato), un tale bergsoniano élan vital,
una tale faustiana tensione (Streben), una tale “romantica” nostalgia (Sehnsucht)
d’assoluto che proporlo ad esempio educativo (positivamente “dis-esducativo”, nel
mio linguaggio, in quanto de-gregante, affrancatore dal gregge prono) non è
provocazione e blasfemia, è dovere. Vivere la vita sub specie Nuncii, mi consentirete
questa arditezza, è ritenere il mondo caos, nonsenso, non-essere prima che l’umanodivino soffio dell’Arte (quell’Arte che “sforza il mondo a esistere”, così in Maia) lo
vivifichi, prima che la parola dell’artista lo pronunci); è ritenere l’umano pensiero
creatore di sé e del mondo, un’operazione, nella sua astrattezza, concreta, nella sua
concretezza astratta (“Pensieri scintille dell’Atto/ faville del ferro percosso,/ beltà
dell’incude…, ancora in Maia): ché vuoto un pensare che non si traduca in azione,
cieca un’azione che dal pensiero non sia illuminata. “Ardire non ordire”, “memento
audere semper”, “clausura fin che s’apra, silentium fin che parli”, sono solo tre dei
mille motti che il vate a sé propone , e a chi legge la sua opera scritta o fatta pietra, ad
incitare l’anima ad osare solo dopo aver, nell’introspezione diuturna, nella diuturna
meditazione, scavato in fondo a sé stessa per trovare in quel fondo le stesse
radicazioni dell’universo e di Dio, il senso ultimo della Verità (rousseauiano sondare
nel pozzo del proprio cuore, agostiniano rientrare in sé, ché in interiore homine
habitat veritas).
Quale più alto programma educativo?
Avvicinarsi a D’Annunzio è avvinarsi non solo a colui che ha celebrato la “bellezza
del mondo, il dinamismo del pensiero, l’unicità del vivere” (Guerri) come nessun
altro, ma a colui che ha offerto sé stesso in sacrificio (come ogni grande creatore che
nel dolore partorisce e con depressioni e sconforti indicibili e inconcepili dal profano
paga lo scotto delle sue estasi e delle sue esaltazioni) per l’umanità, per riscattare
l’uomo e il suo stesso presunto Liberatore (Erlösung dem Erlöser, Parsifal
wagneriano) da sé stesso, e avviarlo al superuomo. E ciò usque in finem. Il tetrastico
evocato a conclusione del Libro Segreto, e che ai bigotti piagnoni evoca il fallimento
del progetto vitalistico d’annunziano, ne fa testimonianza. Il
Tutta la vita è senza mutamento
ha un solo volto la malinconia
il pensiere ha per fine la follia
e l’amore è legato al tradimento
testimonia di uno di tali momenti di angoscia inesprimibile da cui nemmeno il Cristo
fu alieno (Tristis est anima mea usque ad mortem… Deus meus, deus meus, ut quid
dereliquisti me?’). ma non può essere inteso che nel complesso dell’opera totale,
dagli scritti giovanili alle prose giornalistiche, ai grandi romanzi, alle raccolte
poetiche, ai drammi italiani e a quelli francesi, alle prose così dette intimistiche e
memorialistiche (dico i così poco frequentati Notturno, Le faville del Maglio, Di me a
me stesso, Taccuini, e naturalmente il Libro segreto) nei quali l’itinerarium mentis (et
cordis, aggiungerei) in deum (quale che sia il dio d’annunziano) è soprattutto un
itinerario estetico che si disnoda fra triboli e spine sì, ma soprattutto fra rutilanze di
colori e fragranze di profumi, tra fiori e canti ed inni ed urla di gioia alla Vita che,
sempiterna, celebra nell’universo, in quell’universo primieramente che è il cuore
dell’uomo, i suoi fasti.
Se è vero che Angedenken an das Schöne/ ist das Heil der Erdensöhne (“nella
contemplazione del bello è la salvezza dei figli della terra”: due versi goethiani dai
quali discende, ma chi lo nota?, l’abusatissimo dostoevskjiano “la bellezza salverà il
mondo”), al Pescarese deve guardarsi come all’apostolo insuperato della Bellezza,
come a Colui che il Bello più di ogni altro in sé-opera-d’arte-totale incarna, celebra,
gode e soffre, e addita, lui, l’immanentista panteista irriducibile, come possibile
auspicabile esito trascendente di una teleologia infine per il Bello salvifica. Ens et
Pulchrum per Gabriele convertuntur, Bello è l’attributo essenziale di quell’Iddio “che
nel dì novissimo rinnovellerà il volto dei suoi eletti a simiglianza della sua Bellezza
recondita”, come a lettere cubitali fa scrivere tutt’intorno alla volta della cappella del
tempio del suo battesimo, il San Cetteo dalla sua munificenza ridonato a vita e
splendore novelli, in cui volle dalla tomba interrata di San Silvestro traslate le
spoglie dell’adorata, “santissima Madre”.
E’ troppo chiedere che D’Annunzio, al pari di Dante, sia introdotto come classico
obbligatorio nei programmi delle scuole della Repubblica? Come, e più di Dante,
Egli è moderno, ma, soprattutto, come Bruno e Nietzsche, è futuro: verrà il giorno in
cui la Conoscenza, da troppo tempo pregna, finalmente partorirà il superuomo,
l’uomo “estetico” dalla sensibilità (aisthesis) raffinata, dilatata, rimbaudianamente
s-regolata: la sensibilità del Corpo (dell’Iddio) cosmico. Sarà quello il suo Giorno, e
il Giorno della nostra impavida speranza.
Nitimur in vetitum.
Chàirete Dàimones!