L'ATTORE La posizione di grande prestigio che Renzo Giovampietro si ritagliò tra gli anni Cinquanta e Ottanta è il frutto di una duplice, grande passione: quella per il teatro di impegno civile e quella per il teatro di parola. Il suo rigore morale (da non confondersi con moralismo) connesso alla formula drammaturgica del processo, che prediligeva, generò all'epoca un grosso equivoco sul suo carattere. Chi non lo conosceva personalmente se lo aspettava introverso e scontroso, invece era di grande compagnia, un burlone attaccato agli aspetti ludici della vita come seppero essere alcuni personaggi dello spettacolo cresciuti nella modesta provincia laziale durante la guerra. Per lo più sconosciuto al grande pubblico televisivo e cinematografico, da sempre attivamente controverso al potere effimero, non amava il teatro che sperperava denaro pubblico rincorrendo le mode degli allestimenti faraonici degli anni Ottanta. Non era un conformista, anzi amava moltissimo anche il teatro di ricerca e quello di regia, quello delle scenografie e degli effetti visivi, purchè emozionassero e purchè la parola non soccombesse sotto il peso della perfezione estetica. I critici teatrali dell' epoca lo stimavano proprio per questo suo essere al di fuori delle correnti e delle mode teatrali. Erano sempre tutti molto incuriositi dai suoi lavori e spesso, dopo averli recensiti, si ritrovavano con lui seduti al tavolo di un ristorante a discutere di teatro. Ma i suoi estimatori più appassionati erano filosofi, latinisti, grecisti e leopardisti di varie Università d'Italia e, strano a dirsi, colleghi di indubbio peso e spessore. Ricordo Antonio La Penna e Sebastiano Timpanaro (latinisti della Normale di Pisa conosciuti in tutto il mondo) discutere con lui fino a notte fonda. Ricordo Norberto Bobbio (uno dei più grandi filosofi del novecento) nel suo camerino prima e dopo le repliche torinesi dei suoi spettacoli. E, tra gli attori, Vittorio Gassman che gli dedicò un'intera puntata di un suo programma televisivo sul teatro e si intrattenne con lui in un singolare fuori programma dopo una replica de I discorsi di Lisia al Teatro Politecnico di Roma. Senza dimenticare il gotha teatrale al gran completo sul palcoscenico del Teatro Quirino, smanioso di complimentarsi con lui dopo la “prima” di “Signori, credetemi: il Teatro deve essere rauco” il 2 febbraio 1989. Direttore del Teatro Stabile di Bolzano negli anni Sessanta e primo attore del Teatro Stabile di Torino negli anni Settanta, ebbe modo di conoscere molto bene le dinamiche spesso oscure e paradossali dei nostri teatri a gestione pubblica tanto che, non appena gli fu possibile, preferì portare in giro per l'Italia una compagnia tutta sua scegliendo i testi e le tematiche che più gli stavano a cuore e vincendo premi prestigiosissimi come la Maschera d'oro e il Biglietto d'oro (“Processo a Socrate” - 1984). Giovampietro era solito, alla fine di quasi tutte le repliche dei suoi spettacoli, fermare gli applausi e intrattenersi col pubblico innescando un vero e proprio dibattito sul tema appena rappresentato. Abitudine che in taluni ambienti teatrali suscitava un certo disappunto, come se questo rompere la quarta parete potesse nuocere alla sacralità dell'Attore, quello con la A maiuscola, quello che avrebbe dovuto mantenere semmai intatto il suo distacco emotivo. Quanto sarebbe utile oggi una tale consuetudine! Quanto gioverebbe a tutti noi nell'era del congelamento dei rapporti! Questa digressione forse può apparire superflua ma non lo è. La decisione di riportare in scena questo monologo parte soprattutto da queste considerazioni su un attore che ha rappresentato uno dei capisaldi del nostro teatro. Massimo Lello