Secondo modulo: Le categorie spazio-temporali della contemporaneità. VIE DELLA COMPLESSITA’ UMANA La "fusione degli orizzonti" Non dobbiamo inseguire "sogni" di globalizzazione, ma avanzare ipotesi concrete di mediazione MATILDE CALLARI GALLI In "Pluriverso" trimestrale diretto da Mauro Ceruti Anno IV n°4 e V n° 1 Ottobre 1999 I tempi e gli spazi della contemporaneità La nostra epoca è caratterizzata da una sempre crescente mobilità degli individui che la abitano: si nasce ricchi in Bangladesh e si crescono i propri figli nei quartieri popolari di una grande città europea e francofona. Si diventa "ahragas" (ovvero "si brucia» il proprio passato) aggrappati a un'imbarcazione troppo affollata che, con un po’ di fortuna, ci farà attraversare li Mediterraneo da sud verso nord; si passa la propria giovinezza all'estero per completare gli studi; si trascorrono le vacanze in paesi lontani alla ricerca di evasione, esotismo o conoscenza; si "soggiorna" in campi profughi e attraverso la sua rette invalicabile si osservano pezzi di un mondo che, visto alla televisione, sembrava ben più allettante. Ogni anno, quasi seicento milioni di individui varcano un confine internazionale per seguire le mode e le occasioni del turismo di massa, mentre sono centinaia di milioni le persone (donne e uomini soli, famiglie, interi gruppi) che emigrano per motivi economici, si ritrovano esuli o profughi a seguito di conflitti e deportazioni o scelgono semplicemente di vivere all'estero, disegnando cosi i loro destini all'interno di spazi tanto vasti quanto il pianeta. La figura del migrante appare oggi come la più adeguata per descrivere noi stessi e i nostri contemporanei [Chambers, 1996], poiché anche coloro che nascono, vivono e moriranno nel medesimo luogo partecipano di un movimento di dislocazione collettiva, attraverso i mass media e le nuove tecnologie comunicative. Ed è proprio in questo che consiste la peculiarità del nostro tempo: televisione, telefono, fax e computer immergono ognuno di noi in un "flusso culturale globale" [Callari Galli, 1998] veicolante non soltanto semplici informazioni, ma anche idee, rappresentazioni del mondo, linguaggi, immaginari e ideologie. La maggior parte dei messaggi che ci sfiorano o ci colpiscono, infatti, circolano sotto forma di immagine, la quale "esercita un'influenza, possiede una forza, che eccede di molto l'informazione di cui è portatrice" [Augé, 1992, tr. it. 1993]. Nel mondo che abitiamo, disseminato di schermi piccolissimi e giganti, tutto sembra darsi e farsi in tempo reale, "qui e ora". Nella percezione di ciascuno gli avvenimenti si moltiplicano producendo una sorta di accelerazione della storia [ibid.]: lo spazio attorno a noi si dilata e paradossalmente si restringe poiché ogni luogo è raggiungibile in poche ore di volo e qualsiasi messaggio può pervenire in pochi istanti a un destinatario che fisicamente si trova lontano a migliaia di chilometri [Callari Galli, 1999]. Le distanze sono state oggi abolite dai mezzi di trasporto e dai mezzi di comunicazione che ci circondano e sui quali sempre di più facciamo affidamento per informarci, comunicare, poter organizzare le nostre relazioni pubbliche e private. Quest'abolizione delle distanze, pressoché totale, ha dato origine a uno spazio che Paul Virilio, in una intervista a Le Monde, nel 1992, definì la "telecittà". "A partire dal momento", egli dichiarava,"in cui il mondo è ridotto a niente quanto a estensione e durata, quanto a campo di azione, reciprocamente niente può essere il mondo; cioè, io, qui, nel mio rifugio, nel mio ghetto, nel mio appartamento, io posso essere il mondo; per dirla altrimenti, il mondo è dappertutto ma da nessuna parte". I caratteri dell'interdipendenza culturale Migrazioni e nuovi mezzi di comunicazione di massa divengono i due fattori che qualificano la nostra contemporaneità, sia se vengono assunti e analizzati in sì sia soprattutto se prendiamo in considerazione gli esiti insospettati e spesso sorprendenti delle loro interconnessioni. Ambedue, migrazioni e nuove tecnologie, costituiscono universi che abbracciano milioni di individui, centinaia di culture diverse: ambedue sono composti da variabili e da elementi numerosi e dinamici che possono essere (e per lo più lo sono) utilmente analizzati indipendentemente gli uni dagli altri, costituendo spesso, se colti in un determinato spazio geografico e temporale, unità dotate di proprie caratteristiche. Esse, tuttavia, rimangono spesso tali solo temporaneamente: la diffusione delle notizie sul loro costituirsi, sulle loro qualità rispetto a precedenti tecnologie o rispetto a contemporanei spostamenti, la rapidità delle innovazioni.tecnologiche e dei mezzi di comunicazione di trasporto, fanno confluire nei processi di globalizzazione i loro caratteri che, per quanto tipici e peculiari possano essere, contaminano altre esperienze e da queste, a loro volta, sono contaminate. Storici, sociologi, antropologi, demografi, romanzieri e statisti sanno, da lungo tempo, che il nostro pianeta è stato sempre attraversato da gruppi migranti. Del resto la sedentarietà è una«scoperta" assai recente se proiettata sullo scenario centimillenario della storia della nostra specie che, per migliaia e migliaia di anni, prima della «invenzione" dell'agricoltura, ha nomadizzato percorrendo interi continenti, passando dall'uno all'altro, sperimentando molte forme di rapporto tra i diversi gruppi che di volta in volta Si incontravano, si integravano o si distruggevano. Anche dopo che la civiltà agricola prima e la civiltà industriale poi si affermarono, i movimenti migratori proseguirono assumendo forme diverse, ma tutte di notevoli proporzioni e dalle conseguenze sempre rilevanti per l'andamento delle dinamiche culturali. Il panorama della nostra contemporaneità appare sotto questo aspetto profondamente mutato: le migrazioni sono anche oggi determinate da ragioni composite che affiancano, senza escludersi a vicenda, la ricerca di benessere alla necessità di sfuggire alla violenza della guerra e della persecuzione politica. Ma a questo livello di analisi le differenze con il passato appaiono ai miei occhi più di carattere quantitativo che qualitativo. Sempre grandi gruppi umani hanno vissuto quasi contemporaneamente "la diaspora della speranza, la diaspora del terrore, la diaspora della disperazione" [Appadurai, 19971. E le immagini dei treni del Kosovo non possono non richiamare alla nostra memoria i treni piombati dell'olocausto ma anche le navi di cittadini inglesi strappati alle carceri per popolare la «riva fatale" (Hughes); così come i vestiti laceri, le scarpe sfondate, i fagotti di stracci dei kosovari di oggi ricordano i vestiti laceri, le scarpe sfondate, i fagotti di stracci documentati nel museo costruito a Ellis Island, nella baia di New York, a ricordo della diaspora, anch'essa carica di dolore e di speranza, che popolò, alla fine dello scorso secolo, gli Stati Uniti d'America. Quello che è completamente nuovo è che questi movimenti, queste diaspore, oggi si muovono all'interno di un sistema di comunicazione ignoto nel passato, che a un tempo dà forma al desiderio e all'oltraggio ma anche agli adattamenti, alle scelte, alle ribellioni. Sono le trasmissioni televisive che portano nelle nostre case e nelle nostre coscienze la marcia disperata di un popolo scacciato perché “etnicamente" non congeniale a un territorio, sono le trasmissioni televisive o le comunicazioni via internet che muovono i nostri antichi rimorsi costringendoci oggi, a differenza di ieri, a non poterci nascondere dietro l'alibi della non conoscenza. Ma anche i vissuti delle vittime e dei carnefici sono attraversati, in parte determinati, comunque influenzati, dalla creazione di un immaginario collettivo che paradossalmente, proprio in un conflitto che pone alla sua base i principi di territorialità, di appartenenza etnica, trascende completamente gli spazi delle singole nazioni. Allargando la nostra ottica, l'intero “spazio migratorio” è stravolto dall'esistenza dei mezzi di comunicazione, dagli aeroplani ai fax, dalle trasmissioni televisive alle poste elettroniche e alle “navigazioni” su internet: gli immigrati indiani guardano, in Gran Bretagna o in Italia, le telenovelas prodotte nel loro paese d'origine, ricevono di frequente visite di parenti e amici; i tassisti pakistani percorrono le strade di Sydney ascoltando le “cassette” delle preghiere registrate nelle lontane moschee del mondo musulmano, comunicano quotidianamente con le “loro” comunità; le antenne paraboliche che affollano le finestre dei “centri di accoglienza” predisposti in Emilia Romagna per gli immigrati maghrebini portano, nelle loro povere stanze, le immagini e le voci dei loro paesi: proprio mentre si muore per una città, un villaggio, un campo, l'immaginario collettivo si allarga, raggiunge spettatori appassionati che introdurranno in spazi culturali completamente diversi le immagini trasmesse nei loro paesi di origine. I mezzi elettronici mutano l'ambiente che ci circonda ponendo gli uni accanto agli altri i “localismi” e le “globalizzazione”, mescolano a piene mani tradizioni e innovazioni, danno agli individui e ai gruppi innumerevoli “materiali” per poter vivere l'ansia del radicamento e l'ebbrezza del nomadismo. Tuttavia quello che è importante sottolineare non è tanto questa continua offerta, questo fluire di stimoli per le nostre immaginazioni sociologiche, quanto piuttosto che la pervasività dei mezzi di comunicazione, il loro penetrare nelle nostre abitazioni, il loro infiltrarsi nelle nostre abitudini, introduce nella nostra vita quotidiana la trasversalità dei progetti sociali. E il richiamo alle «radici», attraversando l'etere, unisce con i suoi pesanti legami emotivi gruppi insediati nei contesti più diversi che stanno ottenendo successi 0 frustrazioni nel loro faticoso processo di adattamento: contemporaneamente il richiamo ad affrontare lo stesso progetto politico può tagliare nazionalità e insediamenti, unire gruppi dalle provenienze più disparate, divenire mobile e potenzialmente appartenere all'umanità tutta. Terre d'esilio/terre di transito Oggi sempre più numerose sono le voci che ci spingono ad abbandonare lo schema teorico che postula la rispondenza tra la collocazione geografica e la cultura. A legare, ad ancorare la cultura a un determinato e circoscritto spazio si aprono una serie di interrogativi ai quali non si può più rispondere con la trascuratezza o con l'indifferenza. Quale cultura per i molti individui che abitano i confini di tutti gli stati nazionali del mondo? E quale cultura per i milioni di individui che in seguito all'emigrazione, alla deportazione, alla fuga da sistemi politici violenti e repressivi hanno per tutto questo secolo abbandonato i loro spazi? A qual punto della sua storia un gruppo poteva essere definito «subcultura»? E questa definizione era comprensiva di tutti i suoi aspetti, di tutti i suoi caratteri o solo di alcuni? E cosa dire di quando alcune subculture, in seguito alla fine del colonialismo politico, divengono culture dominanti rispetto all'occupazione spaziale ma non rispetto al loro potere economico? Tentando di aprire il concetto di cultura a queste nuove, importanti problematiche, nella letteratura si vanno affermando le analisi che s'interrogano sui nuovi aspetti, che assumono il cambiamento sociale e le trasformazioni culturali, che avvengono non più in spazi disgiunti ma in spazi interconnessi."È la riterritorializzazione dello spazio», scrivono Akil Gupta e James Ferguson, “che ci obbliga a riconcentualizzare, sin dalle loro fondamenta, le politiche della comunità, della solidarietà, dell'identità e della differenza culturale” [1997]. Diaspore, emigrazioni, conflitti non appartengono più solo a gruppi ristretti e ben definiti. Come ha scritto Alessandro Triulzi, "dai primi anni ottanta i flussi migratori sino allora stagnanti sono aumentati vertiginosamente non solo in Europa, dove vivono ormai più di venti milioni di immigrati: sono più di trenta milioni gli sfollati e rifugiati nei paesi in via di sviluppo a causa dei conflitti armati, mentre masse di esuli provenienti dall'Est europeo e dai paesi in via di sviluppo, lavoratori, rifugiati e transfughi a causa di guerre, carestie, sommovimenti politici e congiunture economiche si sono riversati da allora nei paesi del mondo industrializzato a ritmi sempre più sostenuti, tanto da confermare l'analisi di Julia Kristeva,”l'epoca attuale è un'epoca di esilio” [1999]. E al di là di questa crescita quantitativamente imponente di individui che sperimentano fisicamente la dislocazione dei loro spazi, dobbiamo ricordare che a livello virtuale essa coinvolge l'intero pianeta. Sotto la spinta della diffusione delle immagini (e, quindi, della consapevolezza che tutti cominciamo a raggiungere l'inevitabile coinvolgimento che i mass media della contemporaneità inducono) i processi di dislocazione vissuti da emigranti o da deportati, da rifugiati o da esuli entrano nella nostra quotidianità, fanno sentire precarie e fragili tutte le nostre sicurezze e certezze territoriali. Questi drammi non appartengono certo solo alla contemporaneità: tutti i continenti da secoli e secoli sono stati attraversati e sconvolti da emigrazioni e guerre, il nostro secolo ha visto ai suoi esordi il massacro degli armeni, è stato punteggiato da gulag e lager, da genocidi e da olocausti: la ricerca della "purezza" ha guidato Hitler, Mussolini ma anche Stalin, Mao e Poi Pot, continua oggi la sua rappresentazione feroce nel Kosovo, ma anche in Ruanda, in Iran e in Turchia e a Timor. Il paradosso della nostra epoca consiste nel fatto che oggi queste «purezze identitarie», con la loro ricerca di esclusività ideologica e territoriale, non aderiscono solo a un gruppo collocato in un luogo lisico o politico ben definito ma si sono sparse in tutto il mondo. È come se la disseminazione delle notizie aprisse più luoghi, non connessi spazialmente, ad accogliere lo stesso sogno iocntitario. L'integralismo islamico mostra il suo volto feroce in Algeria e nei sobborghi parigini, l'esodo riguarda popolazioni europee e africane tutte pronte a imporre e a respingere, la lotta tra cattolici e musulmani scoppia feroce in Indonesia, nel Borneo gli "indigeni" massacrano gli immigrati, colpevoli di aver occupato le loro terre e fenomeni di intolleranza caratterizzano i rapporti tra italiani e immigrati. Nell'epoca della deterritorializzazione, dello "spazio cibernetica", il concetto di patria continua a dar forma alle nostre identità culturali, particolarmente in quelle comunità che sono sottoposte, per una ragione o per l'altra, alla diaspora e al trasferimento. E le voci antropologiche, che hanno messo in discussione la "naturalità" della sedentarietà, le loro ricerche che, sia pur timidamente, hanno cercato di dimostrare la "invenzione» e l'uso politico e manipolatorio di molte tradizioni che fondano culture ed etnie, non sono ascoltate con la dovuta attenzione, soprattutto sono pressoché ignorate dai mezzi di comunicazione di massa e sono pressoché assenti dai nostri programmi scolastici. Troppo spesso il legame tra un luogo, la memoria e la nostalgia gioca ruoli colmi di ambiguità nell'immaginario collettivo e nella cultura popolare televisiva. A livello letterario questa ambiguità è stata analizzata e disvelata con grande precisione da Salman Rushdie che in Patrie immaginarie così scrive: "forse gli scrittori nella mia stessa situazione, esuli o emigrati o espatriati, sono perseguitati dallo stesso senso di perdita, da un forte senso di riappropriazione, di guardare indietro, anche a rischio di venire tramutati in colonne di sale. Ma se guardiamo indietro, dobbiamo farlo sapendo (e ciò genera incertezze profonde) che la nostra alienazione fisica dall'India significa quasi inevitabilmente non essere in grado di recuperare esattamente le cose che abbiamo perduto; e che, in breve, creeremo delle fiction, invisibili patrie immaginarie, Indie della mente» [1981, tr. it. 1991] A livello politico, queste “patrie immaginarie” vengono spesso create, enfatizzate e usate per alimentare fra gli esiliati e gli immigrati odi e fazioni, per arruolare truppe e risorse per future guerre tese (forse, in un futuro non ben definito) a riconquistare territori perduti lKepel, 1994, tr. it. 1996]. La soluzione che si può proporre per libèrarsi da queste equivoche ambiguità non risiede certo nel negare il grande richiamo che questi sentimenti esercitano sugli individui e sui gruppi; né da un punto di vista antropologico è sufficiente dar voce alle “alterità” per comprendere la dialettica tra “noi” e gli “altri”. Piuttosto abbiamo bisogno di interrogarci sulle ragioni politiche, sui condizionamenti economici e culturali che hanno rappresentato il mondo come un contenitore del noi e degli altri e da qui muovere per non accettare come realtà il modello di un coacervo di subculture che popolano uno spazio, delimitato per esplorare i meccanismi che producono le differenze in quel determinato spazio, per immaginare e costruire nuovi spazi di incontro, nuove mediazioni [Pandolfi, 1997]. Scelgo ancora l'esempio dell'immigrazione per chiarire con maggior proprietà quanto sto cercando di dire. Restando nella logica di unione e di rispondenza tra una data cultura e uno spazio geografico specifico, l'arrivo di un'ondata immigratoria incontrollata apparirà denso di pericolo per un'antropologia che si fondi sulle specificità culturali delle singole aree geografiche. Se parto dal legame tra culture e spazio geografico, l'accoglienza al gruppo di immigrati che preme lungo le coste del nostro mar Adriatico diviene un problema di come il loro arrivo cambierà la nostra cultura e di come l'incontro con noi muterà la loro cultura; ma in quest'ottica la politica immigratoria deve essere tutta rivolta a mantenere un ordine culturale ipotizzato più che contestualizzato e individuato. Quale la cultura dei kosovari in fuga, quale quella degli albanesi e quale quella dei curdi e dei maghrebini e degli iraniani riuniti sui motoscafi della disperazione da eventi diversi, da occasioni tutte drammatiche ma più casuali che preordinate? Quanti di essi condividono al momento del loro arrivo tradizioni avite o invece non sono già partecipi di una cultura "interstiziale" e carica di contaminazioni e meticciati? [Bhabha, 1990, tr. it. 1997; Rushdie, 1981, tr. it. 1991] Quanto l'abbandono di queste aspirazioni a una cultura nuova, comunque altra da quella da cui fuggono, non è determinato proprio dall'insistenze da noi formulata e modulata in mille modi sulla “differenza”? Per quanto essa possa inizialmente ammantarsi di tolleranza e di accettazione, inevitabilmente carica di distanza e di diffidenza, l'incontro risveglia richiami di un passato che solo la durezza delle nuove condizioni può far apparire degno di rimpianto. Solo riconoscere che oggi il mondo è interconnesso e interdipendente ci permette di individuare i limiti di gran parte delle politiche immigratorie, che nei loro aspetti più estremi possono essere interpretate come un potente mezzo per mantenere gli equilibri di potere, tutti ed esclusivamente in favore di un «noi» che rischia di essere sempre più circoscritto e limitato. Come ha fatto rilevare Homi Bhabba, una politica sincretica e insieme un'analisi culturale che individui la realtà delle molte forme delle contaminazioni e dei meticciati, che costituiscono la nostra contemporaneità, svelano l'imperialismo che si nasconde sempre dietro la nozione di “purezza culturale” e dietro ogni forma di nazionalismo [1994]. Bhabha prosegue spiegandoci quali politiche sono innestate da questa teorizzazione che pone la contaminazione, il meticciato al centro della nostra analisi. Dopo aver evidenziato la drammatica connessione che esiste tra le rivendicazioni di purezza e l'impostazione politica che è sorretta e giustificata dalle utopie finalistiche (gli esempi di tutti i totalitarismi che hanno punteggiato il nostro secolo “breve” a questo riguardo sono assai immediati e illuminanti), egli ci descrive come è pervenuto alla convinzione che “l’unico luogo da cui, nel mondo contemporaneo, è possibile parlare è quello in cui la contraddizione, l'antagonismo, gli ibridismi dell'influenza culturale, i confini delle nazioni, non sono 'trasformati' nell'utopico senso di liberazione o di ritorno. Il luogo da cui parlare è là dove ci sono quelle incommensurabili contraddizioni entro cui la gente sopravvive, è politicamente attiva e cambia'” [Bhabha, 1990, tr. it. 19971. Oggi i gruppi di migranti, i "senza terra", gli esiliati, i rifugiati, costituiscono, in tutto il mondo, in tutti i continenti, il luogo dove possiamo individuare queste difficili contraddizioni, questi atroci antagonismi, questi inaspettati ibridismi. I popoli dei confini si uniscono ai popoli scacciati (dalla guerra, dalla fame, dalla miseria) da ciò che siamo abituati a considerare i "loro» confini e nel loro vagabondare, nel loro fuggire, nel loro cercare travolgono i nostri confini, li allargano e li restringono con i permessi che ottengono, con i divieti che imponiamo. La strada non è quella di inseguire i sogni di una globalizzazione che apra un futuro pieno di libertà e di chance a individui che assumono modi di vita cosmopoliti, pronti alla mobilità di lavori tutti attraenti e rimunerativi sia da un punto di vista finanziario che sociale. L'esilio e la diaspora sono fecondi solo per ristrette cerchie di individui che, per appartenenza familiare, per fortuna di incontri e di occasioni, per “doti” personali sanno, da esperienze “estreme”, ricavare interpretazioni generali e profonde sui sentimenti umani, sulla fragilità e sulla forza con cui è possibile affrontare le prove della vita. Per la maggioranza, esilio e migrazioni vogliono invece dire vivere la lacerazione tra le frustrazioni inferte alle loro speranze dal “qui” e l'insorgere di un rimpianto sempre più cocente e profondo per “là”. Infatti, ciò che dilaga è la cultura della disuguaglianza, la violenza collettiva della guerra, la microdelinquenza endemica nelle grandi metropoli. In questo panorama, non dobbiamo inseguire le celebrazioni di un postmoderno tutto proteso a valorizzare la creatività dell'individuo, ma piuttosto applicare la nostra analisi per avanzare ipotesi che, sulle modalità che stanno già guidando l'articolazione territoriale nella nostra contemporaneità, prevedano possibilità di mediazioni e di rapporti: compito difficile e colmo di preoccupanti incertezze perché quello che si prospetta nell'immediato è un territorio sconvolto dai conflitti etnici, percorso da profughi e volontari, da eserciti e bande armate, un territorio in cui deportazioni di massa, eccidi e bombardamenti hanno prodotto, e continuano a produrre, dislocazioni imponenti, hanno scavato divari colmi di odio, di rimpianti e di rancori. Bibliografia Appadurai, A. (1997), Modernity al Large, University of Minnesota Press, Minneapolis. Augé, M. (1992), Non luoghi, Eléuthera, Milano, 1993. Bateson, G. (1958), Naven, Einaudi, Torino, 1988. Bhabha, H. 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