Lo sforzo interpretativo tematico di questo film ci porta su due strade che, anche se distinte, restano legate fra loro. La prima, emotivamente più forte e sconvolgente, riguarda l’esperienza di chi è colpito da una grave malattia degenerativa o comunque si trova in uno stato di sofferenza progressivamente debilitante. Alla trentacinquenne Kate, pianista bella e di successo, con una vita patinata ed elegante come le pagine di una rivista di moda, viene diagnosticata la Sla. La malattia soffoca la sua voce e le certezze dei suoi ordinati e composti giorni. Il suo corpo si irrigidisce in granitici spasmi e in pose capricciosamente contrarie alla sua volontà. Mi guardo bene dall’inoltrarmi su questa prima strada con commenti che stonerebbero con la drammaticità delle situazioni reali. Correrei il rischio di cadere nella becera arroganza di chi parla senza competenza o vissuto esistenziale. Di fronte alle infermità, come dice Enzo Bianchi, il maestro è colui che soffre. Gli altri, anche chi pensa di essere utile o dare consigli, come gli impacciati amici del biblico Giobbe, devono ammutolirsi e imparare di fronte alla cattedra della sofferenza. La seconda strada, più consona al tema della rassegna, è quella che si delinea osservando il percorso della giovanissima Bec, assunta per assistere l’ammalata, contro il parere degli assennati, quanto non empatici, parenti. Lo stesso marito, che sembra inizialmente accudente, manifesterà la disarmante incapacità di vedere una donna oltre la malattia, vedere ancora sua moglie. Bec è disordinata, sboccata, caotica, incompetente, provocatoria e confusa a livello sentimentale. Kate invece , soprannominata la “Signora perfettina” sembra una donna realizzata e compostamente in tinta con il quadro edulcorato degli incontri mondani che ritmano i suoi giorni. C’è un parallelo dissonante nella vita di queste due donne. Una sembra avere inizialmente tutto: bellezza, stabilità, amore, abilità artistiche, considerazione e stima sociale. L’altra sembra possedere solo la certezza di non avere valore perché non compresa e amata per quello che è. In un ripetersi continuo, tipico del copione dei perdenti, si lascia usare, non porta a termine nulla, e non porta avanti né passioni, né relazioni costruttive. C’è però un’evoluzione data dall’intreccio di questi due falsati mondi, che sono l’uno come un castello di carte e l’altro come una malefica profezia auto avverantesi. Da una relazione assimetrica, professionale, di servizio, si arriva ad una vicinanza che la crudeltà del morbo, sbuccia da ogni convezione. Emerge così la “passione del bene”, termine coniato dalla filosofa mantovana Luigina Mortari nel suo saggio: “Filosofia della cura”. Quella forza che, senza calcolo, ci fa “saltare il fosso” verso l’altro con tutti i rischi che si possono correre. Nel film “Il villaggio di cartone”(di Olmi) il vecchio prete che si prende cura dei clandestini ricercati, risponde a chi gli chiede prudenza: “Quando la carità è un rischio, proprio quello è il momento della carità”. L’elemento straordinario, quasi miracoloso, di questo impeto di tensione verso l’altro non è tanto, come si vede nel film, il risultato che ottiene chi è aiutato, ma la forza rigeneratrice e motivante che emerge in chi si prende cura. Bec, come una crisalide, sboccia ad una nuova vita. Cambia anche nell’aspetto, perdendo gli atteggiamenti di sguaiatezza e provocazione. Finalmente ha ripreso un senso di auto - stima e ringrazia l’amica ammalata di riaverle restituito il valore di se stessa. Alla madre che pragmaticamente la rimprovera di non pensare al suo futuro per assistere una inferma che non ha futuro, Bec dirà con orgoglio: “Sto facendo qualcosa di buono, qualcosa che ha dato senso alla mia vita”. Enzo Riccò QUALCOSA DI BUONO Un film di George C. Wolfe con Hilary Swank, Emmy Rossum, Josh Duhamel, Stephanie Beatriz. Titolo originale: You're Not You. Drammatico. Usa 2014. 93'