Tra le diverse epoche dell`European young theatre

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24 ore di Krapp in un foglio
15 luglio 2013
FRONT
Digest quotidiano a cura della redazione di Krapp’s Last Post – www.klpteatro.it
Tra le diverse epoche dell'European
dell'European young theatre
di Michele Ortore
Sotto le splendide volte a crociera del Teatrino delle Sei, alle pendici di piazza del Duomo, non c'è
un giorno di riposo per European young theatre, l'iniziativa coordinata dalla Silvio D'Amico che
coinvolge le principali accademie teatrali europee.
Mentre si aspetta di entrare nella parte inferiore dello stesso edificio che ospita, pochi metri più su,
gli spazi consacrati del Teatro Caio Melisso, dai nugoli di ragazzi che frequentano quotidianamente
questi spettacoli arrivano all'orecchio molte lingue diverse: la maggior parte di loro ha poco più di
vent'anni e chissà quante ambizioni da inseguire; qualcuno, con lo sguardo all'insù, in un teatro
come il Melisso, sogna forse un giorno di lavorare; per qualcun altro, invece, la tradizione del
teatro all'italiana dev'essere una sorta di feticcio da abbattere.
Nei giorni scorsi gli allievi dei corsi di regia e di recitazione del secondo anno dell'Accademia Silvio
D'Amico sono stati alle prese con degli studi su Sarah Kane, intitolati "Neve nera". Tra questi,
abbiamo avuto l'opportunità di vedere quello basato sul testo forse più famoso della drammaturga
simbolo dello «in yer face theatre», ovvero "Psicosi delle 4 e 48".
Dirette da Vittoria Sipone, in scena c'erano Federica de Benedittis, Maria Pilar Fogliati,
Lucrezia Gagnoni, Francesca Pasquini, Giulia Salvarani e Giuliana Vigogna.
Un paio d'anni fa ebbi la fortuna d'assistere all'interpretazione di un'attrice di grande spessore
come Elena Arvigo, capace di dare alle due principali forze psichiche del testo, l'isteria e la
lucidità, la stessa intensità recitativa. Stavolta invece il soggetto originario viene scisso fra cinque
attrici: a turno, una di loro prende il ruolo dell'io centrale, quello pulsionale e doloroso, mentre le
altre sono come scaglie della stessa coscienza, coreute che interrogano o giudicano impietose chi
di volta in volta assume la guida dell'ex monologo.
La pluralità delle voci potrebbe essere l'antidoto ai rischi intrinseci di un testo così impegnativo e intriso di biografismo, come ad esempio quello di spingere troppo sulla
violenza e la drammaticità, che sono la sostanza stessa del testo e non hanno certo bisogno di chissà quali amplificazioni sceniche. Invece, succede proprio il contrario: sia
le scelte registiche sia buona parte di quelle recitative calcano i lati più duri del testo (vedi la scena in cui una della attrici è costretta a bere, fin quasi a vomitarli, dei liquidi
colorati rappresentanti i medicinali), quelli che appunto starebbero benissimo in piedi da sé, finendo piuttosto per banalizzarli in un dolorismo d'annata.
Sembra venire da un'altra epoca, molto più attuale, "Romeo and Juliet post scriptum", partito dalle latitudini scandinave della Malmö Theatre Academy e visto qualche
giorno dopo la prova delle italiane.
Si tratta di un'invenzione arguta, ma soprattutto molto ben realizzata, della giovanissima Annika Nyman: in questo shakespeariano finale alternativo, il piano pensato da
Romeo e Giulietta per ritrovarsi nella cripta e fuggire insieme ha successo.
I due archetipici innamorati si trovano faccia a faccia, costretti ad affrontare le conseguenze dell'amore, a progettare concretamente la fuga, ma soprattutto a trovarsi per la
prima volta nella condizione di conoscersi davvero, perché – come ci ricorda il foglio di sala – «Romeo e Giulietta non hanno molte scene in comune: non si conoscono mai
per davvero, ma esistono nelle reciproche fantasie, artefatti sognanti, promesse di salvezza».
La Nyman fa passare la più tradizionale delle storie d'amore sotto le forche caudine del tempo e della realtà, affrontando il tema della perfezione possibile solo come
finitezza. E lo fa, come dicevamo, con grande inventiva e abilità di montaggio testuale; oltre che col sostegno registico di Fredrik Haller.
Giulietta e Romeo (Linda Kulle e Rasmus Luthander) si presentano sul palco come fossero due drughi appena usciti da Arancia Meccanica: la prima è seduta di fronte ad
una piccola televisione che mostra, a mo' d'immagine a circuito chiuso, il video di Romeo che uccide con la mazza l'unico possibile testimone del loro inganno.
Quando il ragazzo la raggiunge in scena, il testo entra subito nel registro parodico: Giulietta, che per la Nyman è una sorta di amazzone con frequenti crisi di ninfomania,
vorrebbe saltare addosso a Romeo, il suo «Conan il barbaro», infoiata da cotanta violenza.
Anche nel resto della pièce, la poesia sublime con cui Shakespeare esprime l'attrazione fra i due è costantemente ribaltata in immediata attrazione fisica. Ma questo è
nulla.
La frizione drammaturgica che orienta le peripezie del dialogo sta nello scontro fra la tentazione del compromesso (Romeo che vuole cercare perdono dai genitori,
sperando in un matrimonio da loro legittimato) e la voglia un po' hippie di fuggire da Verona e dalla civiltà, vivendo in piena libertà il proprio amore, anche a costo di versare
altro sangue (la primitivistica Giulietta). Così fra i due si sviluppa ben presto un cicaleccio acido, fatto di frecciatine e tanti insulti («histerical fucking sissy», è uno degli
epiteti più ossequiosi che Giulietta rivolge all'amato); ma, ben lungi da essere un semplice ribaltamento comico, il dialogo si sviluppa anche attraverso lunghi inserti
psicanalitici, tramite cui Giulietta scevera i meccanismi emotivi della famiglia di Romeo, smascherandone con crudezza pinteriana le ipocrisie e le falsità.
Il distacco ironico della parodia si alterna alle tinte fosche di una situazione di cui i due innamorati sembrano prigionieri, attratti dal vortice nero del crimine e incapaci di
gestire il proprio coinvolgimento: chi ama le serie televisive americane può farsi un'idea dell'atmosfera e dello humour nero del testo pensando a "Breaking bad", ma anche
al non sense di comedies come "Scrubs" o "Community". All'influenza delle sceneggiature d'oltreoceano potrebbe forse ammiccare una delle tante battute di Giulietta, che
accusa per l'appunto Romeo di comportarsi come in una soap opera americana.
Ma la verve della Nyman passa anche per i moltissimi riferimenti al testo originale, come quando Romeo abiura una delle delicate metafore shakesperiane: a lui, in realtà,
gli uccelli fanno schifo, perché sono sporchi e gli ricordano la poca cura dell'igiene della madre quando era in depressione. Questi continui scivolamenti di senso sono
attraversati da lampi espressivi che tengono sempre viva l'indagine psicologica: «Escaping digs a hole in reality».
Ora, in questo clima da tragicommedia, la soluzione che mi sarebbe sembrata più ovvia sarebbe stata un ritorno al finale originale: un parossismo da chiudersi con un
suicidio di coppia. Invece la Nyman si mostra anche qui una drammaturga già brillante e navigata; ci ritroviamo ad applaudire, con qualche imbarazzo, un bacio che sembra
davvero lunghissimo.
Una volta tanto le convenzioni teatrali vengono messe in discussione non per un gioco autoreferenziale, ma facendoci sentire sulla pelle la distanza da ciò che accade in
scena, come se davvero a un certo punto Romeo e Giulietta avessero raccolto tutto il loro coraggio e fossero riusciti a correre via oltre ogni ostacolo, oltre il nostro stesso
stare qui a guardarli battendo le mani, come se non sapessimo che un amore appena nato merita ben più attenzione di un applauso.
European Young Theatre: http://www.festivaldispoleto.com/2013/Teatro.asp?id_progetto=35&lang=
Url articolo: http://www.klpteatro.it/tra-le-diverse-epoche-delleuropean-young-theatre - Pubblicato su klpteatro.it il 10 luglio 2013
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Zigulì
Zigulì. Teatrodilina nella vita dolceamara della
disabilità
disabilità
di Mario Bianchi
Molti spettacoli hanno messo in scena l'autismo, su tutti ricordiamo “Fratelli” di Antonio
Viganò e Michele Fiocchi, tratto dal libro di Carmelo Samonà, dove attraverso il gesto danzato
si raccontava il rapporto intenso e drammatico tra due fratelli, con quel vestito sempre in scena
che rappresentava il pericolo latente della possibilità che il fratello “malato” potesse essere di
nuovo ricoverato in una casa di cura.
Tanta è in questi ultimi anni, a cavallo tra narrativa e saggistica, la produzione letteraria che
affronta l’argomento e che sa conquistare il pubblico dei lettori. Così è stato anche per “Zigulì. La
mia vita dolceamara con un figlio disabile” di Massimiliano Verga, raccolta di pensieri e
immagini quotidiane che raccontano, senza pietismi, cosa significhi vivere accanto ad un figlio
disabile grave.
E da qui nasce lo “Zigulì” di Teatrodilina, vincitore del premio In-Box 2013, che mette in scena il
rapporto tra padre e figlio con un solo personaggio: un padre che si offre allo sguardo e
all'attenzione del pubblico per esprimere tutto il disagio di un essere umano davanti alla malattia di
un figlio nato sano e diventato disabile dopo pochi giorni. Sul tappeto scenico, a inizio dello
spettacolo, sono disseminati i giochi del ragazzo che il padre pian piano raccoglie, inserendoli in un
contenitore su cui troneggia un orsacchiotto. E' a lui che, forse, narrerà tutta la sua profonda
disperazione, mentre tre palloncini - presenze mute ma forti - lo accompagneranno nel suo
accorato soliloquio.
C'è, in queste parole, tutta l'esigenza di condividere la disperazione, di rendere partecipe qualcuno
della sua lotta con quel figlio tanto amato e tanto “odiato”. Ma sulla scena ci sono solo lui e,
solo costantemente evocato, l'altro, che poi altri non è che parte di lui stesso.
Si racconta così di un amore tenero, fragile e disperato. Ma anche violento, per le continue lotte corpo a corpo fatte anche di colpi bassi e ferite per farlo calmare; fragile
perché fabbricato su illusioni e disillusioni; disperato perché non vi è guarigione, perché nutrito con quei pensieri tremendi, così vicini alla sopressione di quell'essere così
amato, disperatamente amato ma anche odiato. Profondamente amato perché da lui si può anche imparare ad amare la vita.
Loro due, con i loro cervelli che, in fondo in fondo, sono uguali, piccoli come due zigulì.
Non ci sono manuali da interpretare, solo interrogativi costanti e certezze assai precarie; la vita insegna giorno per giorno, attimo per attimo.
Poi c'è la lettera accorata agli altri due figli: “Non posso pretendere che voi lo amiate come l'ho amato io, ma almeno provateci e, quando sarò morto, se non ci riuscirete,
allora fate in modo che altri lo possano amare”.
E’ allora come se il vestito di “Fratelli” facesse irruzione nello spettacolo. Ma è solo un momento, ora c'è lui il padre, solo lui lo può forse comprendere, solo lui certamente lo
può amare così.
Francesco Colella è intenso e credibile in tutte le sue sfumature, e la drammaturgia di Francesco Lagi è completa e ben strutturata, con quei suoi continui passaggi di
sentimenti così impercettibili e veri.
L'attore riesce a trasmettere tutta l'angoscia e, nello stesso tempo, la forza di un padre davanti alla malattia del figlio. Senza arma alcuna, solo con la sua semplice e diretta
partecipazione ai fatti narrati, riversa sul pubblico tutte le sue diversissime emozioni, senza pietismi di sorta ma anche con momenti di rabbia e persino di ironia, portando
luce in un mondo fatto solo di penombra.
ZIGULI'
dal libro “Zigulì” di Massimiliano Verga, edizioni Mondadori
con: Francesco Colella
disegno sonoro: Giuseppe D’Amato
musica originale: Alessandro Linzitto
scenografia: Salvo Ingala
aiuto regia: Leonardo Maddalena
organizzazione: Regina Piperno
adattamento e regia: Francesco Lagi
durata: 60’
applausi del pubblico: 2'
Visto a Castiglioncello (LI), Inequilibrio Festival, il 30 giugno 2013
Inequilibrio Festival: http://www.armunia.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=747&Itemid=5
Url articolo: http://www.klpteatro.it/ziguli-teatrodilina-nella-vita-dolceamara-della-disabilita - Pubblicato su klpteatro.it il 10 luglio 2013
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