Giordano Bruno (1548-1600) La morte Giordano Bruno morì a Roma il

Giordano Bruno (1548-1600)
La morte
Giordano Bruno morì a Roma il 17 febbraio dell’anno 1600: condannato a morte per
eresia dall’Inquisizione, fu arso sul rogo in piazza Campo de’ Fiori. Oggi, al centro di
quella piazza, campeggia il suo monumento, che fu inaugurato nel 1889. Alcuni
giorni dopo l’esecuzione della sentenza a Roma circolò un “avviso” (foglio riportante
notizie) in cui si potevano leggere queste parole:
“in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola,
heretico ostinatissimo, et avendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro
nostra fede, volse ostinatamente morire in quelli lo scelerato; et diceva che moriva
martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in
paradiso”
La vita e la personalità
Bruno (1548-1600) fu un “uomo contro” per tutta la sua vita; a partire dai giovanili
dissensi all’interno del convento domenicano di Napoli in cui entrò nel 1563,
qualunque istituzione fu per lui stretta e soffocante. Polemico, insofferente, spesso
aggressivo, descrisse più volte se stesso nelle sue opere. Forse il migliore autoritratto
è l’esergo della commedia Il Candelaio (1582): “Accademico di nulla accademia,
detto il Fastidito: in tristitia hilaris, in hilaritate tristis”, in cui sottolinea il suo
temperamento oppositivo e contraddittorio.
Nato a Nola (Napoli) nel 1548, dal “Gentiluomo” Giovanni, Filippo Bruno, poi frate
Giordano, iniziò la sua istruzione privatamente, per poi entrare, all’età di 15 anni, nel
convento dei domenicani a Napoli. Qui ricevette una formazione aristotelica e
tomistica, ma ben presto si dedicò ad approfondire per conto proprio un altro tipo di
filosofia, quella platonica e neoplatonica, a cui aggiunse i testi della tradizione
ermetica e gli scritti di umanisti platonici dediti alla magia come Marsilio Ficino e
Pico della Mirandola.
Ben presto Giordano si fece notare per la sua intelligenza e la grande erudizione, e
nel 1569 fu portato a Roma, dal papa Pio V, di fronte al quale si esibì come
straordinario mnemonista e maestro nell’arte della memoria. Ordinato sacerdote nel
1572, dopo pochi anni abbandonò il convento, per dissidi con i confratelli e accuse di
eresia. Ebbe così inizio una lunga serie di peregrinazioni: dopo soste nell’Italia
settentrionale, nel 1579 lo troviamo a Ginevra, dove ebbe contrasti con i calvinisti, e
nel 1581 a Parigi. Il re Enrico III lo prese a benvolere, Bruno lo istruì nell’arte della
memoria e concepì insieme a lui progetti di riunificazione della cristianità. Li univa il
desiderio di un mondo armonioso che rispecchiasse l’unità del Tutto, ma il concilio
che avrebbero voluto convocare non si fece. Passato in Inghilterra, entrò negli
ambienti di corte: la regina Elisabetta nel 1570 era stata scomunicata dal papa Pio V,
e da quel momento la separazione tra Chiesa di Roma e Chiesa di Inghilterra, nel
frattempo avvicinatasi al protestantesimo, divenne definitiva. A Londra e Oxford
Bruno fu trattato bene: era celebre e stimato come filosofo ermetico, mago e maestro
di memoria, ma il suo carattere intransigente e insofferente lo portò a polemizzare
con gli oxfordiani, da lui definiti “pedanti”. Secondo la storica inglese Frances Yates
Bruno colpì l’immaginazione di Shakespeare: Yates ravvisa elementi della filosofia
di Bruno in alcune opere teatrali di Shakespeare, e sostiene che forse il Nolano ispirò
il personaggio del mago Prospero nella “Tempesta”, una delle ultime opere di W.S.
Quando tornò a Parigi, nel 1585, GB aveva già scritto le sue opere più importanti, sia
in latino che in italiano. In quegli anni a Parigi per un sospettato di eresia il clima non
era propizio, perché prevalevano i cattolici estremisti del partito dei Guisa, ostili a
Enrico di Navarra che poi sarebbe diventato re Enrico IV; pertanto Bruno lasciò
anche la Francia e peregrinò attraverso la Germania (con una breve sosta a Praga)
fino al 1591. In quell’anno accettò l’invito del nobile veneziano Giovanni Mocenigo,
che lo ospitò ma poi lo tradì consegnandolo nel 1592 al tribunale dell’Inquisizione.
Due processi, il primo a Venezia, il secondo a Roma, sette anni di carcere, molte
incertezze della giuria, un’autodifesa appassionata, e infine, di fronte alla fermezza di
Bruno che non volle abiurare, la condanna e il rogo (17 febbraio 1600)
Ecco alcuni tra i capi d’accusa:
avere soggiornato a lungo in terre eretiche
avere scritto, nello Spaccio della bestia trionfante, espressioni contro il papa
ritenere che la magia sia buona e lecita
credere nell’esistenza di infiniti mondi
credere nella metempsicosi (trasmigrazione delle anime)
identificare lo Spirito santo con l’Anima mundi
credere che il divino è ovunque, nella natura e nelle più piccole creature
Il pensiero di Bruno
Il perno della filosofia di Bruno è il concetto di infinito, che si può far risalire al
pensiero di Nicola Cusano (1401-1464): si tratta quindi di un infinito più filosofico
che scientifico. Innestando il concetto cusaniano di infinito sulla teoria eliocentrica
di Copernico, che non affermò l’infinità dell’universo, Bruno elabora una visione
molto moderna del cosmo: l’universo è infinito e non ha un centro, anzi ha infiniti
centri; innumerevoli sono i mondi e i corpi celesti. Bruno ritiene che la Vita segua dei
cicli sempiterni e che tutto si trasformi, senza però che nulla ritorni mai uguale nella
ruota del tempo: per questo, la vita individuale viene ad assumere delle caratteristiche
di estrema unicità e assoluta originalità (si vive una volta sola e ogni individuo è
unico e irripetibile).
Come altri grandi riformatori del 500, primo fra tutti Lutero, Bruno è un filosofo che
guarda più al passato che al futuro. Lutero voleva un ritorno alla chiesa delle origini,
alla purezza e alla povertà dei primi cristiani; Bruno vuole un ritorno alle origini della
sapienza: egli è convinto di essere stato investito di una missione importante: quella
di restaurare l’antica verità dell’antichissima sapienza (che egli fa risalire ai sacerdoti
egizi), ma sa anche di doverla rinnovare col suo contributo unico e originale,
adeguato ai tempi nuovi. In questa sua opera di “riforma”, egli si sente
profondamente solo, ma è rassegnato alla solitudine perché ritiene che le umiliazioni,
le invidie, i sospetti, gli odi e le gelosie di cui è fatto oggetto siano parte organica
della sua azione di Mercurio, di messaggero degli dei, destinato a riportare la luce
della verità dopo secoli di tenebre. Questo è, dunque, l’amaro calice che tocca in sorte
all’«angelo della luce», ovvero all’«animo eroico», perché – secondo la concezione
ermetica che Bruno tiene sempre presente – il passaggio dalle tenebre alla luce non è
mai lineare né indolore, ma si svolge attraverso «tempeste» e «pestilenze».
Secondo Michele Ciliberto, grande studioso di Bruno, il filosofo ritiene che la sua
funzione sia «riscoprire – dopo secoli di decadenza, di “vecchiaia” – il “volto” della
natura; spingere gli uomini a conoscerlo e ad ammirarlo; consentire a ciascuno di
guardare in faccia la realtà, esprimendola senza infingimenti e falsità, spezzando gli
specchi deformanti dell’abitudine e dell’ignoranza».
Allontanandoli dall’animalità in cui sono precipitati, il Nolano riavvicina, dunque, gli
uomini alla “divinità”, schiudendo loro la via ai gesti “eroici” e nobili in cui consiste
la dignità umana stessa, e rendendoli liberi intellettualmente e in relazione ai
comportamenti civili e religiosi.
Sapiente è per Bruno colui che, conscio del fatto che la «vicissitudine» (cioè il moto
dei contrari) governa tutte le cose, sa che ogni stadio della vita è destinato a non
durare in eterno e dunque affronta ogni giorno senza disincanto né entusiasmo,
eppure, al tempo stesso, con disincanto ed entusiasmo insieme.
I dialoghi italiani di argomento metafisico
La metafisica di Bruno è già tutta contenuta nelle 3 opere a cui Gentile diede il nome
di Dialoghi italiani, in quanto scritti in questa lingua:
1. La Cena delle Ceneri
2. De la Causa, principio e Uno
3. De l’Infinito, Universo e mondi
Le fonti filosofiche di questi dialoghi sono molteplici. Se il linguaggio è ancora
quello di Aristotele (Sostanza, materia, forma, potenza, atto ecc.) e degli aristotelici
medievali (ad es. Averroè), i contenuti sono più recenti o contemporanei: c’è
senz’altro Copernico (un matematico e astronomo) per l’eliocentrismo, ma per il
concetto di infinito c’è Cusano, un filosofo. Vi sono anche i filosofi della natura
rinascimentali, come Telesio e Pomponazzi, umanisti come Marsilio Ficino, e la
tradizione ermetica come ha dimostrato nei suoi studi la storica inglese Frances
Yates.
1. La Cena delle Ceneri
Invitato a cena dai suoi ospiti inglesi, Bruno afferma di aderire al copernicanesimo,
ma sente la necessità di andare oltre, perché considera l’eliocentrismo non una
semplice ipotesi matematica ma la descrizione della realtà naturale e fisica, ovvero
teoria scientifica.
Un altro limite di Copernico è che considera l’universo finito, con un centro, mentre
per Bruno è infinito e privo di centro, oppure con infiniti centri.
Bruno è sicuro che esista una sostanza materiale eterna, in continuo movimento,
capace di mutarsi nel suo opposto (dalle tenebre la luce, dalla vita la morte, dal bene
il male e viceversa), ma non è altrettanto sicuro che esista un’altra sostanza,
immateriale e non soggetta a queste vicissitudini.
2. De la Causa, principio e Uno
In questo dialogo Bruno distingue il principio dalla causa: il principio resta nella
cosa e corrisponde a due delle 4 cause individuate da Aristotele (la formale e la
materiale); la causa resta fuori della cosa (come le cause efficiente e finale). Poiché
l’Universo è infinito, esso non ha cause che rimangono esterne (efficiente, formale),
ma è animato da un principio unico interno ad esso, cioè immanente. L’universo è
come un grande organismo vivente in perenne trasformazione; non è un
meccanismo, come un orologio a cui bisogna dare la carica, ma è un organismo
vitale e dinamico (VITALISMO di Bruno). Il principio unico che anima l’universo è
Dio, o meglio il divino.
Il concetto di Dio di Bruno è molto lontano da quello ebraico-cristiano o monoteistico
in genere: non è un Dio trascendente, che potrebbe esistere senza l’universo da Lui
creato (ad esempio prima della creazione come stabilisce la dottrina cattolica), ma
Dio e l’Universo sono la stessa cosa, per cui Dio si identifica con il tutto
(panteismo). L’universo infinito nel suo incessante mutamento esplica la potenza di
Dio. Nella visione di Bruno una divinità la cui azione creatrice continua nelle
trasformazioni dell’universo è molto più grande di un Dio “ozioso”, che dopo aver
completato la creazione si “ritira”.
Testo
Da “De la causa, principio e uno”:
È dunque l’universo uno, infinito, immobile. […] Questo non si muove localmente,
perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera;
perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto
lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia
ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito […]
3. De l’infinito, universo e mondi.
Nell’universo infinito si trovano infiniti mondi, soli e pianeti; nulla si crea, nulla
muore, tutto si trasforma. Ci si può chiedere perché la materia è in questa incessante
trasformazione: di che cosa va in cerca? forse vuole un altro essere? no, risponde
Bruno; l’essere c’è già tutto quanto, ed esso, considerato come un Tutto, non può
essere diverso da come è; però, mentre il tutto infinito ha tutto l’essere e tutti i modi
di essere, ogni singola realtà che è nell’universo ha sì tutto l’essere che può avere, ma
non tutti i modi di essere, e per questo si trasforma (passa a un altro modo di essere).
I dialoghi di argomento morale più importanti sono:
4. Spaccio della bestia trionfante
5. Degli eroici furori
Nello Spaccio Sofia (Sapienza) riferisce agli altri personaggi che Giove, il padre degli
dèi, intende sostituire le costellazioni tradizionali, che rappresentano vizi nocivi
all’umanità, con figure positive, che rappresentano valori essenziali allo sviluppo
della vita civile: “Si dà spaccio (cioè “si caccia via”) la bestia trionfante, cioè i vizii
che predominano e sogliono conculcar la parte divina”
Gli Eroici furori sono uno dei dialoghi italiani, scritti e pubblicati da Bruno nel
periodo in cui soggiornò in Inghilterra (1585); il mito di Atteone compare nel Quarto
dialogo della Prima parte dell’opera.
Negli Eroici furori il sapiente che vuole comprendere il tutto diventa il furioso eroico,
che brama appassionatamente il contatto con la Natura, con il Tutto, fino a
confondersi con esso.
Il mito di Atteone in Ovidio
Atteone è un personaggio della mitologia greca: allevato dal centauro Chirone,
divenne un abilissimo cacciatore che era solito percorrere il dominio territoriale di
Artemide/Diana, dea della caccia e sua protettrice.
Nell’opera “Le Metamorfosi” il poeta latino Ovidio racconta che Atteone vaga per un
bosco sconosciuto e viene condotto dal destino nella grotta sacra a Diana, ove la dea
si sta rinfrescando dopo la caccia, in compagnia delle sue ninfe. Le giovani donne,
tutte senza vesti, si stringono attorno alla dea per proteggere il suo corpo dallo
sguardo di Atteone; Diana si accorge di essere spiata dal giovane cacciatore, ma, non
avendo a portata di mano le frecce, getta acqua sul viso di Atteone e gli dice in tono
minaccioso e vendicativo: ‘ora ti è lecito narrare di avermi vista senza veli, se
riuscirai a farlo!’
A questo punto comincia la metamorfosi in cervo di Atteone; diventato cervo,
Atteone non riesce più a parlare; riesce solo a emettere un gemito, e delle lacrime
scorrono per il suo volto ormai divenuto un muso di animale. Rimane titubante, in
preda alla vergogna e alla paura; a quel punto lo avvistano i suoi cani e la loro turba
al completo lo insegue, per la brama di preda.
Atteone vorrebbe farsi riconoscere dai suoi cani, costretto a fuggire ma quasi
incredulo che i suoi fidi servitori possano addirittura rincorrerlo e attaccarlo. I cani
raggiungono Atteone e cominciano a fare strazio delle sue carni, mentre egli rivolge
intorno sguardi supplici e imploranti e fa rimbombare le rupi di tristi lamenti che non
sono né umani né animali.
I compagni di caccia di Atteone, ignari, aizzano i cani e invocano il suo nome
lamentando che non assista allo spettacolo della preda straziata dai segugi.
Ma Atteone è presente e si sente ancora più solo; gli altri lo vedono ma non lo
riconoscono perché continuano ad adoperare gli occhi come tramiti di conoscenza
sensibile, mentre Atteone è muto per gli umani e per gli animali ma attinge ormai a
una conoscenza intellettuale dalla quale tutti gli altri sono esclusi. Solo lui è
consapevole della sua stessa presenza, seppure in modo lacerante e doloroso.
Si dice che l’ira di Diana non fu sazia che quando, per le numerose ferite, Atteone
morì: questa la conclusione dell’episodio ovidiano.
L’interpretazione di Bruno
Nell’interpretazione di Bruno, che piega il racconto ovidiano alle esigenze della sua
filosofia, Atteone non è un curioso o un tracotante punito crudelmente per avere
spiato la dea, ma diventa l’emblema della tensione verso il sapere; la caccia infatti è
l’immagine della speculazione, della sete di conoscenza e in generale dell’attività
teoretica e conoscitiva.
Atteone compie un percorso straordinario verso l’unione con la natura, rappresentata
da Diana, la dea cacciatrice che vive nei boschi; Atteone è il sapiente-“furioso”,
perché la passione della conoscenza si è impossessata di lui come una pazzia, una
divina mania. L’incontro con Diana e lo smembramento provocato dai cani
trasformano in maniera radicale l’esistenza del mitico cacciatore, che da «uom
volgare e commune, divien raro et eroico». Proprio nella perdita della vita si
configura la nascita a una nuova vita, il «vivere intellettualmente».
Diana, la «dea della contemplazione», rappresenta la natura infinita; soltanto
nell’incontro con Diana, Atteone scopre che quella “divinità” che è tutto in tutto, che
anima ogni cosa, gli appartiene, è parte di lui e dal di dentro lo vivifica, come dal di
dentro vivifica tutto ciò che esiste. La dea trasforma Atteone in cervo, cioè lo rende
parte della natura; Atteone, trasformato in cervo, divenuto - da cacciatore qual era preda, capisce di essere parte della natura. La caccia quindi ha termine quando il
cacciatore, dopo avere vagato nei boschi alla ricerca della preda fuori di sé, capisce
che egli stesso è preda, in quanto essere naturale; questa consapevolezza è un dono
divino, ma non di Dio, bensì di una dea pagana, che simboleggia la vera divinità, la
Natura vivente, eterna, in continua espansione.
Interpretazioni del pensiero di Bruno.
Il pensiero di Bruno, per la sua complessità, la molteplicità delle fonti a cui attinge,
per lo stile oscuro, teatrale (forma dialogica) e ricco di immagini, ha sollecitato
numerose interpretazioni, assai diverse tra loro. Nella seconda metà dell’Ottocento,
dopo la creazione di Roma capitale e la rottura tra lo Stato italiano e la Chiesa
cattolica, Bruno divenne il martire della libertà di pensiero, vittima dell’oscurantismo
cattolico e dell’Inquisizione. Il Comune di Roma, sostenuto dal premier Francesco
Crispi, deliberò di dedicargli una statua, che fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari,
esponente della Massoneria, e inaugurata nel 1889; la statua si trova nel centro
storico di Roma, in piazza Campo dei Fiori, dove era stato innalzato il rogo del
filosofo.
Gli hegeliani italiani dell’800, come Bertrando Spaventa, videro in Bruno un
precursore di Spinoza e dell’idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel). Nacque il
mito della filosofia italiana del Rinascimento, che precorre l’idealismo ma, bloccata
nel suo sviluppo dall’Inquisizione, “vola” spiritualmente in Germania nel primo
Ottocento per poi tornare in Italia nella seconda metà dell’800 con gli hegeliani.
Per avere delle interpretazioni storicamente attendibili e documentate di Bruno
bisogna attendere la seconda metà del Novecento. I filoni sono due: il primo
considera Bruno un filosofo moderno, copernicano, che anticipa filosoficamente la
rivoluzione scientifica del 600; secondo questa interpretazione, sostenuta ad esempio
da Nicola Badaloni (1924-2005), la condanna del filosofo (e dopo pochi decenni
quella di Galileo) condannò anche la cultura italiana del 600 al provincialismo e
all’isolamento dalle correnti più vive della cultura europea; la seconda interpretazione
fa capo agli studi di Frances Yates (1899-1981), storica inglese specialista del
Rinascimento. Secondo Yates Bruno è un filosofo che guarda indietro, non avanti:
egli vuole restaurare un’antica sapienza magica egiziana, tramandata attraverso gli
scritti ermetici in modo sotterraneo, clandestino. Più mago che scienziato, Bruno
ritiene che il paganesimo sia migliore del Cristianesimo, perché più vicino alla
natura, e che i grandi sapienti siano vissuti nei tempi antichi (Ermete Trismegisto,
Platone, Plotino). I concetti portanti della sua filosofia: tutto è riconducibile all’Uno,
la materia è vivente e in continua espansione, Dio si identifica con l’Universo, tutto è
divino ma la divinità non è trascendente, sono concetti rintracciabili nelle filosofie
dell’antichità, soprattutto nel neoplatonismo. Di moderno vi è solo il concetto di
infinito, inquadrato però in una cornice di matematica magica e pitagorica.
L’immagine in B/N si riferisce all’inaugurazione, nel 1889, della statua di Bruno
la statua di Bruno oggi, nel bel mezzo del mercato rionale di Campo de’ Fiori