^ William ^ Antonio e Cleopatra L’eternità, allora, era sulle nostre labbra e sui nostri occhi, la felicità nell’arco delle nostre sopracciglia. CD Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Estratto della pubblicazione ^ William ^ Opere Estratto della pubblicazione Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma. La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilievo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare, in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate (Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizione letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –, le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Manualetto shakespeariano. Estratto della pubblicazione z William z !NTONIOE #LEOPATRA #$ #URAEINTRODUZIONE DI'ABRIELE"ALDINI #ONUNTESTO DI(AROLD"LOOM WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 13 – Antonio e Cleopatra Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera © 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano via Solferino 28, 20121 Milano Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli ISBN 9788861261501 Proprietà letteraria riservata © 1962-2012 RCS Libri S.p.A., Milano Titolo originale dell’opera: Antony and Cleopatra Traduzione e note di Gabriele Baldini Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo © 2012 RCS Libri S.p.A. Titolo originale dell’opera: Shakespeare: the Invention of the Human © 1998 by Harold Bloom Traduzione di Roberta Zuppet Prima edizione digitale 2012 da edizione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 2012 Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Estratto della pubblicazione PRESENTAZIONE di Harold Bloom A.C. Bradley considera «inesauribili» solo quattro personaggi shakespeariani: Amleto, Cleopatra, Falstaff e Iago. Può darsi che i lettori e gli spettatori si domandino perché la lista non comprenda alcuna figura di Re Lear: Lear, Edmund, Edgar o il Matto. Forse, in Re Lear – che tra i drammi è sicuramente inesauribile quanto Amleto –, Shakespeare divise il proprio genio tra queste quattro creazioni. Tra le rappresentazioni femminili shakespeariane, Cleopatra è, a detta di tutti, la più ingegnosa e formidabile. I critici non sono mai riusciti a esprimere un parere unanime sul suo conto: in quest’opera, forse più che in qualsiasi altra, il drammaturgo controlla le varie prospettive sulla protagonista con tanta astuzia che il pubblico dispone di una gamma enigmatica di possibili giudizi e interpretazioni. Poiché chiaramente Antonio non la capisce, quante probabilità abbiamo noi di fare meglio? Rosalie Colie osserva giustamente che non vediamo mai Antonio e Cleopatra insieme da soli. In realtà li vediamo, un’unica volta, ma soltanto per un istante, quando lui è pericolosamente adirato con lei. Com’erano quando andavano più o meno d’accordo? Continuavano forse a recitare, ciascuno usando l’altro come pubblico? Con Amleto, Falstaff e Iago, i due protagonisti di questo dramma sono i personaggi più intensamente teatrali della produzione shakespeariana, e alla fine Cleopatra esaurisce Antonio; solo Amleto o Falstaff riuscirebbero a non farsi mettere in ombra da lei. Cleopatra non smette mai di impersonare Cleopatra, e la sua percezione del proprio ruolo declassa necessariamente Antonio allo status equivoco di primo attore. Il dramma è di Cleopatra, e mai veramente di Antonio, perché lui comincia Estratto della pubblicazione a sbiadire molto prima che si alzi il sipario, e lei non può permettere a se stessa di seguire il suo esempio. Cleopatra, che è l’archetipo della star e la prima celebrità del mondo, va oltre i suoi amanti – Pompeo, Cesare, Antonio –, perché essi sono famosi solo per le loro imprese e le loro tragedie finali. Lei non compie alcuna impresa e non ne ha bisogno, la sua morte è più trionfante che tragica e la regina d’Egitto è conosciuta in eterno soprattutto per il fatto di essere conosciuta. Dopo le quattro tragedie alte di vita domestica e sangue, Antonio e Cleopatra sconfina nel grande mondo della lotta tra Oriente e Occidente, delle vedute in dissolvenza e delle scene innumerevoli. Il dottor Johnson afferma curiosamente che in Antonio e Cleopatra «nessun personaggio viene discriminato con forza», un’osservazione più idonea per Macbeth, dove i Macbeth sono gli unici a non scolorire nel grigiore diffuso. In Antonio e Cleopatra, tutti i personaggi hanno contorni nitidi, dal corico Enobarbo al Clown che alla fine porta a Cleopatra l’aspide fatale. A parte Cesare, l’ex alleato di Antonio, ed Enobarbo, il diretto subordinato di Antonio, nel dramma compare una dozzina di ruoli minori chiaramente delineati. Cleopatra e Antonio sono personalità così vaste e intense che sembrano concludere la fase principale dell’interesse shakespeariano per l’io interiore, iniziata almeno dodici anni prima con il Faulconbridge di Re Giovanni, nonché con Riccardo II, Porzia e Shylock (seppur involontariamente, in questo caso), e fiorita poi in Falstaff un decennio prima di Cleopatra. Coriolano, successivo a Cleopatra, è «solo come il drago» con un abisso dentro, e i protagonisti delle tarde commedie romantiche sono qualcosa di diverso da rappresentazioni realistiche. Senza dubbio è semplicistico asserire che i quattordici mesi consecutivi in cui furono composti Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra esaurirono persino William Shakespeare. Nessun critico ammira il Bardo più di me, eppure anch’io credo che, dopo il crollo di Antonio e l’apoteosi di Cleopatra, Shakespeare si sia stancato di sondare l’interiorità. John Dryden, nella prefazione alla sua popolare rivisitazione di Antonio e Cleopatra – intitolata Tutto per amore (1678) –, si prese la libertà di usare un tono lievemente censorio nei confronti degli illustri protagonisti: Quel che manca ad accrescere ulteriormente il livello della compassione, è la storia stessa a non offrirlo: i peccati d’amore che entrambi i protagonisti hanno commesso non erano frutto di necessità o fatale ignoranza, ma erano del tutto volontari, giacché le passioni sono, o dovrebbero essere, sotto il nostro controllo. Dubito che Dryden «compatisse» Antonio e Cleopatra, benché considerasse innegabilmente la loro passione reciproca riprovevole e catastrofica. Non sono certo che sia utile definire la relazione tra Cleopatra e Antonio reciprocamente distruttiva, sebbene Shakespeare dimostri che essa contribuisce alla loro distruzione. Tuttavia, nel pericoloso cosmo del potere e del tradimento, Ottaviano li avrebbe senz’altro divorati entrambi in ogni caso, anche se forse a ritmo più lento. Tutto per amore, l’esuberante titolo di Dryden, non sarebbe stato adeguato per il dramma di Shakespeare, e anche Tutto per lussuria avrebbe mancato il bersaglio. Antonio e Cleopatra sono entrambi politici carismatici; ciascuno dei due nutre una passione così grande per se stesso che il fatto che riescano a cogliere uno la realtà dell’altra, seppur in misura molto limitata, ha del prodigioso. Occupano tutto lo spazio disponibile; tutti gli altri, persino Ottaviano, si riducono a membri del pubblico. A dire il vero, in questo dramma vi è un fantasma che non compare mai: Giulio Cesare, che da solo ridusse loro a personaggi secondari, anche se mai a semplici spettatori. Forse fu dal Giulio Cesare shakespeariano – dramma e personaggio – che l’Antonio e la Cleopatra di Shakespeare impararono l’accattivante abitudine di non ascoltare mai le parole altrui, comprese quelle del partner. La scena della morte di Antonio ne è l’esempio più divertente, perché l’eroe moribondo, che fa davvero una bellissima fine, cerca sinceramente di dare consigli a Cleopatra mentre lei lo interrompe di continuo, rispondendo al suo «ch’io parli ancora un poco» con lo splendido «no, fa’ parlare me». Poiché i consigli di Antonio sono pessimi, come lo sono stati per tutto il dramma, questa non è una grossa perdita, tranne per il fatto che, solo per questa volta, Antonio smette quasi di recitare la parte di Antonio, eroe erculeo, mentre Shakespeare vuole mostrarci come Cleopatra non smetta mai di recitare la parte di Cleopatra. È questo il motivo per cui si tratta di un ruolo meravigliosamente complesso per un’attrice, che deve recitare la parte di Cleopatra e anche impersonare Cleopatra intenta a recitare la parte di Cleopatra. La giovane Helen Mirren se la cavò meglio con questa duplice incombenza di qualunque altra Cleopatra io abbia mai visto. Usando un linguaggio che per una volta non è affatto shakespeariano, ci domandiamo se Antonio e Cleopatra siano «innamorati uno dell’altra». Noi siamo forse innamorati uno dell’altro? In uno dei suoi saggi, Aldous Huxley osservò che utilizziamo la parola amore per la più disparata varietà di relazioni, da ciò che proviamo per nostra madre a ciò che proviamo per qualcuno che rimorchiamo in un bordello, ai suoi numerosi equivalenti. Giulietta e Romeo sono davvero innamorati una dell’altro, ma sono molto giovani e lei è sorprendentemente amabile, con una generosità di spirito senza uguali nella produzione shakespeariana. Possiamo affermare con certezza che Cleopatra e Antonio non si annoiano a vicenda ma sono chiaramente annoiati, sul piano erotico e da altri punti di vista, da tutti gli altri abitanti del loro mondo. Forse l’infatuazione reciproca non è amore, ma è senz’altro romanticismo nel senso caratterizzante di conoscenza imperfetta, o almeno differita. Cleopatra, in particolare, ha sempre i suoi famosi rimedi contro la perdita di sapore, ampiamente elogiati da Enobarbo. Antonio, anch’egli un dio mortale, possiede un’aura, anzi una sorta di corpo astrale, che se ne va Estratto della pubblicazione con la musica di Ercole, gli oboi sotto il palcoscenico. Nessuno potrà sostituirlo, si rende conto Cleopatra, perché la sua morte conclude l’età di Giulio Cesare e di Pompeo, e probabilmente nemmeno lei riuscirà a sedurre il primo grande amministratore delegato, l’imperatore Augusto. La domanda è dunque: qual è il valore dell’infatuazione reciproca, o dell’amore romantico, se si preferisce chiamarlo così? Senza dubbio è meno sorprendente e meno devastante dell’amore familiare che affligge Lear ed Edgar. Con incredibile sagacia, Shakespeare modificò Plutarco facendo in modo che Antonio venisse abbandonato dal dio Ercole anziché da Bacco. Un eroe dionisiaco non può essere consegnato al passato, come continua a dimostrare la carriera più che nietzschiana di Amleto. Un eroe erculeo non era arcaico per i contemporanei di Shakespeare come lo è per noi, ma evidentemente Antonio è già una figura tardiva. Lear ed Edgar non sono esposti alle molteplici prospettive del pubblico quanto Cleopatra e Antonio. «Puttana e babbeo avanti negli anni» è una di queste possibili prospettive se si è riduzionisti spietati, ma allora perché si dovrebbe guardare o leggere questo dramma? Un Antonio dionisiaco metterebbe in discussione ogni valore, fosse esso erotico o sociale, più di quanto sia capace di fare un Antonio erculeo. Se nel dramma esiste una critica del valore, dev’essere incarnata da Cleopatra, che viene portata all’apoteosi dopo il crollo di Antonio. Lui smette di essere un dio e lei lo diventa. Che ce ne facciamo di una dea egizia, anche se siamo abbastanza liberi dalla riduttività romana per non cadere nella trappola operistica di considerarla una puttana zingara? Se la mia interpretazione di Re Lear ha una qualche accuratezza immaginativa, l’amore familiare, lungi dall’essere un valore, viene smascherato come incubo apocalittico. Si può dire che l’amore romantico abbia accelerato lo smantellamento di Antonio, simile a quello di Osiride, ma sarebbe difficile, come ho suggerito, dimostrare la sua natura di valore o di catastrofe sulla base del declino e della caduta del protago- nista. Cleopatra, però, è tutta un’altra storia, e la sua storia implica certamente un accrescimento del valore. Il valore in questione è forse quello dell’amore? Sembra un quesito molto difficile, e una vera sfida per quella che un tempo chiamavamo critica letteraria. Si potrebbe obiettare che la Cleopatra dell’atto V non è solo un’attrice più grande di prima, ma anche una drammaturga, impegnata a mettere in pratica un talento scatenato dentro di lei dalla morte di Antonio. La parte che compone per sé è molto complessa, e uno dei suoi elementi è il fatto che Cleopatra era ed è ancora innamorata di Antonio, e dunque è più che disperata. Anzi, lo sposa in punto di morte, il che è sublime e struggente, anche se forse ci rammenta la reazione di Edmund davanti ai cadaveri di Goneril e Regan: «Ed eccoci tutti e tre / riuniti in un istante». Non possiamo dimenticare che, secondo Nietzsche, l’esistenza è giustificata solo come fenomeno estetico. Pur essendo un vecchio esteta malizioso, esiterei ad asserire che per Shakespeare l’amore è giustificato solo come valore estetico, ma questo (mi) sembra essere il succo della Tragedia di Antonio e Cleopatra, se non altro quando Cleopatra la riscrive nell’atto in cui non ha rivali nell’usurpazione dello spazio. Il suo aspirante concorrente drammaturgico, George Bernard Shaw, che disse di provare solo disprezzo per la mente di Shakespeare in confronto alla propria, è molto mordace ma stranamente zoppicante nella prefazione al proprio Cesare e Cleopatra: Ho un’obiezione tecnica alla trasformazione dell’infatuazione sessuale in tema tragico. L’esperienza dimostra che è essa efficace solo nello spirito comico. Possiamo sopportare di vedere Mistress Quickly che impegna l’argenteria per amore di Falstaff, ma non Antonio che fugge dalla battaglia di Azio per amore di Cleopatra. Si può riconoscere che Shaw ricorre a uno degli episodi meno persuasivi della degradazione di Antonio, ma sicuramente Antonio e Cleopatra non è una tragedia come lo sono Re Lear e Estratto della pubblicazione Otello. Ancora più della restante produzione shakespeariana, questo dramma non ha genere, e lo spirito comico svolge una funzione importante al suo interno. Enorbarbo risponde a Shaw quando definisce Cleopatra uno splendido capo d’opera, riferendosi alla sua pulsione demonica, alla sua esuberanza narcisistica, la cui vitalità si avvicina a quella di Falstaff. Shaw aborriva Falstaff e associava la Cleopatra di Shakespeare proprio a Falstaff, creando il collegamento giusto per la ragione sbagliata. Con ogni probabilità, Cleopatra, che è essenzialmente un’umorista ironica, se non addirittura una parodista, ha educato Antonio al riso proprio come Falstaff ha educato Hal, con la differenza che Falstaff non offre amore sessuale e Cleopatra sì. Sicuramente Antonio non è più all’altezza della propria gloria passata per quasi tutto il dramma, a eccezione di qualche recupero o epifania improvvisa, ma Shakespeare stava perfezionando il modello di declino che aveva inaugurato con Giulio Cesare. Nel caso di Cleopatra, come possiamo noi, o la stessa Cleopatra, tracciare una linea di demarcazione tra interiorità ed esteriorità? Senza dubbio siamo di fronte al personaggio più teatrale nella storia del teatro, capace di superare di gran lunga gli esperimenti pirandelliani nello stesso ambito. Non è necessario domandarsi se il suo amore per Antonio sia mai vero amore, nemmeno quando Cleopatra muore, perché la mancanza di distinzione nel dramma è tra l’istrionico e l’appassionato. Il valore dell’amore familiare in Shakespeare è travolgente ma negativo; il valore dell’amore appassionato nello Shakespeare più maturo dipende da una fusione di teatralità e autostima narcisistica. L’arte stessa è natura, e il valore dell’amore diventa totalmente artificioso. 2 Benché gli splendori di Antonio e Cleopatra inizino con l’affettuoso addio di Shakespeare all’invenzione dell’uomo, il dram- Estratto della pubblicazione ma è infinitamente vario e, da questo punto di vista, assomiglia ad Amleto. In Amleto, Shakespeare deve necessariamente racchiudere gran parte della varietà nel suo eroe infinito, mentre in Antonio e Cleopatra, nonostante gli innumerevoli volti di Cleopatra, la varietà è contenuta soprattutto nella sostituzione di un mondo storico con un altro, accompagnata da una forza di persuasione e da un’esuberanza straordinarie. Un’epoca eroica – l’età di Giulio Cesare – cede il passo all’imminente disciplina della Roma augustea. Shakespeare, come scopriamo volta dopo volta, non ci rivela se preferisca un’alternativa all’altra, ma il contrasto tra l’intensità perpetua di Cleopatra, la musica funebre di Antonio e la burbera efficienza di Cesare Ottaviano ci orienta verso un’ipotesi plausibile sulle inclinazioni del poeta. In Macbeth, Shakespeare non ci lascia altra scelta se non viaggiare nell’interiorità con il suo eroe-cattivo. Antonio e Cleopatra, scritto subito dopo, ci offre pochissima intimità con gli amanti sfortunati e ci sospinge all’esterno, verso le prospettive del mondo sui due protagonisti e verso le nostre prospettive sul mondo. Questo allontanamento dall’interiorità viene introdotto immediatamente dalla rabbiosa lamentela di Filone a Demetrio, entrambi ufficiali di Antonio: Ti dirò: l’infatuazione del nostro generale passa la misura. Quei suoi begli occhi, che sui ranghi delle legioni guerriere splendevano come Marte nell’armatura, inclinano ora, sottomessi, a tributar la devozione della loro vista a una fronte abbronzata. Il suo cuore di capitano, che nelle mischie di grandi battaglie ha fatto scoppiare sul suo seno le fibbie della corazza, rinnega ogni senso di moderazione e s’è fatto un màntice, un ventaglio per rinfrescar la lussuria d’una zingara. Squillo di trombe. Entrano ANTONIO, CLEOPATRA con le sue Dame, il seguito con gli Eunuchi che agitano i flabelli. Estratto della pubblicazione Guardali là, mentre vengono. Osserva bene e vedrai in lui uno dei tre sostegni del mondo intero trasformato nel buffone d’una cortigiana. Guarda e vedrai. [I.i.1-13] La propensione a vedere un’infatuazione e una zingara lussuriosa dipende dalla presenza, dentro di noi, di qualcosa che non ci renderebbe bravi soldati romani: Cleopatra. Se è proprio amore, dimmi quanto. Antonio. Un amore che si lasci misurare, val poco. Cleopatra. Voglio porre un limite, per sapere fino a che punto io possa essere amata. Antonio. Dovrai quindi trovare un nuovo cielo, una nuova terra. [I.i.14-17] Lei lo punzecchia, lui è ampolloso, e le sue dichiarazioni successive suonano poco convincenti: Che Roma tutta si sciolga nel Tevere, e l’ampio architrave dell’impero bene ordinato sprofondi! Questo luogo mi basta! i regni sono d’argilla e il letamaio ch’è la nostra terra nutre a un tempo e le bestie e l’uomo. [I.i.33-36] Per pensarlo davvero, occorre fondere le visioni di Falstaff e di Amleto; forse Antonio non sta semplicemente facendo una vacanza in Egitto, ma senz’altro dà questa impressione. I pensieri di Roma, si lamenta Cleopatra, lo assalgono all’improvviso ogni volta che compare un messaggero. In tutto il dramma, i messaggeri sono insieme frequenti e invariabilmente sinceri: sono le regole inviolabili del gioco. Riflettendo con attenzione sul fatto di doversi liberare «da questa maga regina», Antonio parte per Roma, ma solo dopo che Cleopatra ha recitato la sua prima grande scena, dove si è tramutata nel matador del toro di Antonio: Estratto della pubblicazione Cleopatra. Suvvìa, recita pure la scena d’una perfetta simulazione, e fa’ in modo che sembri una testimonianza d’integro onore. Antonio. Mi riscaldi il sangue. Basta. Cleopatra. Puoi far meglio. E tuttavia hai recitato abbastanza bene. Antonio. Ebbene, per la mia spada… Cleopatra. E per lo scudo. Fai progressi. Ma non è ancora perfetto. Guarda, Charmian, come si addice a questo erculeo romano l’espressione della collera. Antonio. Ti lascio, signora. Cleopatra. Una parola, cortese signore. Dobbiamo separarci. Ma non si tratta di questo. Ci siamo amati. Ma non si tratta neppure di questo. Lo sai bene. C’è qualcosa che io vorrei… ah, che l’obliosa memoria mi vien meno come Antonio, ed io non ricordo più nulla. Antonio. Se la tua regalità non avesse il capriccio tra i suoi sudditi, ti avrei scambiata per il capriccio stesso. Cleopatra. È fatica da sudarsi tutta il trattenere, così, vicino al cuore, il capriccio, come fa Cleopatra. Ma, signore, perdonami, perché le mie stesse grazie mi uccidono, se tu non le riguardi d’un occhio benevolo. Il tuo onore ti chiama lontano da qui, e quindi rimanti pur sordo alla mia follìa che non sa muover la pietà, e tutti gli dèi t’accompagnino! Che sulla tua spada posi la vittoria incoronata di lauro, e che un facile e dolce successo si distenda ai tuoi piedi! Antonio. Andiamo. Vieni: la nostra separazione ha questo di singolare, che pur trattenendosi, fugge: e difatti tu, restando qui, purtuttavia vieni con me: ed io, che da qui m’involo, con te quivi rimango. Andiamo! [I.iii.78-105] Estratto della pubblicazione Questa è la sede giusta per domandarsi come Antonio appaia agli occhi di Cleopatra, anche nel loro momento migliore. Leeds Barroll osserva con acume che lo vede […] come una creatura celeste. Non grande ma gigantesco; non affascinante ma pittoresco; non poderoso ma assordante: un gigante del mondo, visibile e dignitoso. Non l’aspirante dio Ercole, bensì lo statico dio Atlante, colossale nella sua posa immutabile. Rispetto questa opinione, ma la giudico molto dubbia, a meno che non la consideriamo la visione vedovile del suo amante suicida da parte di Cleopatra. Nel passo che ho citato, Antonio è un aspirante Ercole, di cui ci si può prendere gioco ma che resta sempre pericoloso, insieme un dio mortale e un politico romano. Fedele allo schema di Pompeo e di Giulio Cesare, la relazione erotica di Antonio con Cleopatra è anche un’alleanza politica instabile, pronta per essere venduta, da ciascuna delle due parti, se e quando il prezzo sarà giusto. In questo dramma assai crudele, non si tradisce l’amore svendendolo: lo si onora compensando la perdita erotica con un accrescimento del potere. Benché entrambi continuino a negarlo, Cleopatra e Antonio conoscono bene le regole del gioco. Lei non le infrange mai; lui sì, ma non perché il suo amore per Cleopatra superi la stima di quest’ultima nei suoi confronti. Antonio è un uomo sul viale del tramonto: il suo genio impallidisce alla presenza di Cesare Ottaviano. Antonio, uno spadaccino, viene irrimediabilmente surclassato dal primo burocrate imperiale, che ha ereditato l’astuzia, anche se non la generosità, di Giulio Cesare, suo zio e padre adottivo. Il pubblico percepisce una certa stanchezza in Antonio, un affaticamento psichico verso Roma e tutto ciò che la riguarda. Antonio, un tempo molto abile nella politica (come nel Giulio Cesare di Shakespeare), è diventato un pasticcione che non è in grado di dare o ricevere buoni consigli. Il suo errore Estratto della pubblicazione più grave è rinegoziare l’apparente alleanza con Ottaviano sulla base assurda e instabile di un matrimonio dinastico con Ottavia, sorella del futuro imperatore. Ciò trasforma il gioco politico in una versione della roulette russa in cui Antonio è destinato a sparare a se stesso, ossia a tornare da Cleopatra pagando un prezzo troppo alto. Affascinato da lei e annoiato da Ottavia, Antonio non perderà tutto per amore (o per lussuria), bensì per alcuni cambiamenti interiori che non può sperare di comprendere. Forse ho pensato che nessun personaggio shakespeariano fosse in grado di superare Falstaff, Amleto, Iago e Lear nel cambiamento fondato sulla capacità di origliare se stessi, ma Antonio – che certamente non li uguaglia sul piano dell’autocoscienza – è il maggiore esempio di questa suscettibilità metamorfica nella produzione shakespeariana. In generale, gli studiosi trascurano il fatto che la Cleopatra di Shakespeare sia più vicina alla versione di Plutarco proposta da North di quanto lo sia l’Antonio di Shakespeare, in parte perché Plutarco (per motivi familiari) non amò molto l’Antonio storico, pur riconoscendo alcune delle sue migliori qualità. Per Plutarco, il fallimento di Antonio nella battaglia di Azio fu dovuto in parte alla codardia, un giudizio severo e totalmente alieno all’Antonio di Shakespeare, il cui coraggio non viene mai meno, a differenza della sua capacità di giudizio, della sua abilità politica e del suo autocontrollo erotico. Sebbene l’Antonio del dramma non possa assolutamente uguagliare Cleopatra, Shakespeare crea un magnifico rudere, che diventa solo più sublime quando crolla. Senza dubbio questo Marco Antonio è troppo multiforme per essere una figura rigorosamente tragica, proprio come Cleopatra è troppo varia e troppo vicina alla divinità per trovare in lei un’eroina tragica, una Cordelia o una Lady Macbeth. Durante il declino e la caduta, Antonio trascende i propri limiti personali e viene umanizzato con una sontuosità che è eccessiva persino per Shakespeare. Il pathos e la grandiosità Estratto della pubblicazione si uniscono indissolubilmente quando il prodigo Antonio si frantuma in quella che dev’essere la più grande creazione shakespeariana di catastrofi, una feconda rottura dei recipienti senza paralleli nella letteratura occidentale. La sublime musica dell’autodistruzione di Antonio sarebbe il più alto vertice poetico del dramma se non fosse per il fatto che nulla può superare le immense armonie della scena della morte di Cleopatra, che – si può dire – cambiò Shakespeare una volta per tutte. Dopo Antonio e Cleopatra, infatti, il drammaturgo perde qualcosa di vitale. L’Antonio di Plutarco, nonostante le sue azioni brutali e disoneste, si contraddistingue sempre per l’amore dell’onore e per la capacità di suscitare l’affetto dei semplici soldati. Secondo Plutarco, tuttavia, Antonio fu, nella sua epoca, il romano più dedito agli eccessi e soccombette a Cleopatra come eccesso supremo: Gli sopravvenne come male conclusivo l’amore di Cleopatra, che svegliò e portò al delirio molte delle passioni ancora latenti e sopite nel suo animo, e se qualcosa di buono e di salutare ancora esisteva, lo cancellò e distrusse completamente. Cito Plutarco solo per sottolineare che Shakespeare non esclude questa prospettiva come una delle tante disponibili agli spettatori di fronte alla relazione tra Antonio e Cleopatra, anche se io non la considero un giudizio molto utile. Una delle più belle ironie shakespeariane è il fatto che Antonio sia più interessante e attraente quando perde il senso dell’autoidentità: Antonio. Eros, mi puoi vedere ancora? Eros. Sì, nobile signore. Antonio. Noi scorgiamo, talvolta, una nube in forma di drago; un vapore, talaltra, simile a un orso, a un leone, a una cittadella turrita, a una roccia a picco, a una montagna forcuta, a un promontorio azzurro folto di alberi, che par diano cenni d’assenso a questo nostro mondo, Estratto della pubblicazione e intanto irridono ai nostri occhi con il nulla dell’aria. Hai pur veduti tutti questi segni: essi son corteggio del vespro oscuro. Eros. Sì, mio signore. Antonio. E quel ch’è ora un cavallo, col volgere appena del pensiero, ecco il vapore lo cancella e lo rende indistinto quanto l’acqua nell’acqua. Eros. Proprio così, mio signore. Antonio. Ah, caro giovanetto, Eros, il tuo capitano, ora, è fatto di quella stessa sostanza. Qui sarei ancora Antonio, ma non riesco a mantenere questa forma visibile, figliuolo! [IV.xiv.1-14] È straordinario che Antonio, spadaccino borioso e gozzovigliatore, sembri per un istante Amleto. Eros non è Polonio, ma Antonio non vuole essere parodistico. Origliando la propria perplessità riguardo al fatto che Eros lo riconosca ancora come Antonio, l’eroe riflette sulla propria autoidentità, mutevole come una nuvola. Il suo dubbio non è il risultato di un’unica inversione, bensì dell’intero processo di trasformazione che ha subito durante quattro atti di dissoluzione, tutti preludi al suicidio. Questa musica funebre è la più lunga della produzione shakespeariana e potrebbe essere lo studio più approfondito delle nostalgie rintracciabili nei drammi. È un’altra grande invenzione shakespeariana, una musica funebre così varia e prolungata da non avere rivali nella successiva letteratura occidentale. Per facilitare il nostro coinvolgimento, Shakespeare deve convincere se stesso, e noi, che l’eroe erculeo sia abbastanza illustre da meritare queste esequie. L’Antonio di Plutarco non potrebbe mai produrre una simile magnificenza. Shakespeare ci mostra come la scomparsa di Antonio segni il tramonto di un mondo, e fa in modo che sia Ottaviano a esprimere al meglio questo concetto: L’infrangersi d’una cosa tanto grande avrebbe dovuto produrre uno schianto più fragoroso. Il mondo rotondo Estratto della pubblicazione avrebbe dovuto scatenare i leoni nella pubblica strada, e confinare i cittadini nelle caverne di quelli. La morte di Antonio non figura come la condanna d’un solo, perché nel suo nome viveva una metà del mondo. [V.i.14-19] La «metà» di Ottaviano è la parte orientale del mondo romano, ma qui l’infrangersi si riferisce a un’entità più temporale che spaziale. Con la morte di Antonio finisce l’età di Giulio Cesare e di Pompeo, iniziata con la scomparsa di Alessandro Magno. Per Shakespeare, si tratta dell’età erculea o eroica e, come ho osservato, Antonio è – nel dramma – già arcaico, il riflesso di un’epoca in cui l’esuberanza carismatica riusciva ancora a superare ogni ostacolo. Demagogo e politico brutale oltre che conquistatore, Antonio fu il trionfo definitivo di Shakespeare sulla caricatura urlante di Marlowe, Tamerlano il Grande. Iago ha distrutto Barabba, l’ebreo di Malta; Antonio eclissa Tamerlano, e Prospero trascenderà il dottor Faust man mano che Shakespeare sbaraglierà Marlowe. La morte di Antonio, ironicamente malriuscita in un primo momento, può raggiungere una musica assoluta rispetto al patetico rifiuto della necessità di morire da parte di Tamerlano. Non credo tuttavia che gli spettatori interpretino la morte di Antonio come tragica: non è la morte di Amleto o di Lear e nemmeno quella di Falstaff, descritta da Mistress Quickly nell’Enrico V. Vi è un pathos immenso quando Antonio muore, cercando disperatamente di dare a Cleopatra un consiglio valido e recuperando parte della propria dignità, perlopiù attraverso la preoccupazione sincera nei confronti dell’amante. Possiamo benissimo chiederci se, in un certo senso, stia morendo dall’inizio del dramma, e un declino e una caduta lunghi quattro atti diluiscono necessariamente l’effetto tragico. Shakespeare, però, è attento a mostrarci lo squarcio aperto nella realtà dalla morte di An- Estratto della pubblicazione