I.S.S. “ P. P. PASOLINI” Milano _____________________________________________ FILOSOFIA CLASSI QUINTE - INDIRIZZO LINGUISTICO Dispense a cura del prof. Fabio Maria Pace _____________________________________________ anno scolastico 2010-2011 1 1 - KANT A) Introduzione generale al criticismo kantiano ◊ La filosofia di K. è detta criticismo perché (in esplicita contrapposizione al dogmatismo) è incentrata sulla critica, cioè sulla valutazione analitica del fondamento, della possibilità, della validità e dei limiti della conoscenza umana. “Criticare” significa per K., conformemente all’etimologia greca, giudicare, distinguere, valutare, cioè interrogarsi sulle condizioni che rendono possibile la conoscenza, sulla validità di essa, sui limiti di tale validità. ◊ Fondamentale nel criticismo kantiano è la concezione del limite: il criticismo è una “filosofia del limite”: mira infatti a definire validità e confini della conoscenza umana. ◊ Si riconosce qui l’influsso dell’empirismo inglese, in particolare di Locke, che aveva affermato la necessità di stabilire, in via preliminare, ambito e portata della conoscenza umana (cfr. l’Epistola al lettore premessa al Saggio sull’intelletto umano). ◊ Occorre tuttavia sottolineare che il criticismo di K. non conduce allo scetticismo: stabilire i limiti della conoscenza non significa infatti negarle ogni validità, ma, al contrario, garantire - entro quei limiti - quella validità. In tal senso, K. appare lontano da Hume: nell’ambito che le è proprio, e che va rigorosamente definito, la conoscenza umana ha piena validità. (E’ tuttavia proprio studiando Hume che K. matura i principi essenziali dalla sua riflessione sulla conoscenza: dirà che Hume lo aveva destato dal “sonno dogmatico”) ◊ La critica di Hume al concetto di causalità mette in crisi i fondamenti stessi del sapere umano, non solo quello metafisico, ma anche quello scientifico: K. cerca di approdare, attraverso la sua analisi critica della conoscenza, una nuova fondazione delle scienze. ◊ La Critica della ragion pura vuol essere uno studio dei fondamenti del sapere: dato che il sapere all’epoca di K. è costituito essenzialmente da scienza e metafisica , la Critica è di fatto un esame di queste due attività conoscitive. Essa vuole indagare, per così dire, il “funzionamento” delle scienze e accertare se tale “funzionamento” sia applicabile alla metafisica. Bisogna, dice K., «che la ragione … istituisca un tribunale che le assicuri le sue legittime pretese e possa per contro condannare … tutte le pretese infondate» ◊ Non è vero quindi quanto spesso si afferma, cioè che Kant si sia posto il problema se la ragione umana abbia valore, se essa cioè possa o meno conoscere la verità: sarebbe infatti una ricerca assurda perché con che cosa la si può fare, se non con 2 la stessa ragione? Ed è mai possibile che in un processo il giudice sia al contempo l’imputato? Ovviamente no. ◊ In realtà Kant non imposta la questione in questi termini: non si domanda se la ragione abbia valore, ma se alcune conoscenze abbiano valore: sono le conoscenze metafisiche. Se infatti si guarda alla storia della metafisica, questa domanda si pone automaticamente: non esiste infatti la metafisica allo stesso modo di come esiste la matematica o la fisica. Di metafisiche ne esistono tante: si discute da millenni senza mai approdare a una soluzione unica. Questo significa che la ragione umana naufraga quando si applica alla metafisica; ciononostante l’uomo è “malato di metafisica”, che è per lui un bisogno insopprimibile. ◊ Dunque il problema che K. si pone nella Critica della ragion pura (CRP) è quello della possibilità della metafisica. La domanda fondamentale è pertanto: «E’ possibile la metafisica come scienza?» ◊ Per rispondere a questa domanda, K. analizza le scienze in cui la ragione riesce efficacemente nel suo compito: vuole cioè vedere come “funziona” la ragione quando “funziona bene”; dopo si tratterà di vedere se questo “funzionamento” può essere applicato alla metafisica. Occorre dunque esaminare le scienze che, con i loro successi, dimostrano il corretto funzionamento della ragione: le scienze empirico-matematiche che, da Galilei a Newton, hanno fatto passi da gigante. ◊ C’è poi un’altra questione essenziale - già ricordata - che “muove” la riflessione di K. sulla conoscenza: proprio mentre le scienze progrediscono trionfalmente, l’empirismo, portato da Hume alle sue estreme conseguenze logiche, si risolve in scetticismo. E così una filosofia che assumeva come modello le scienze aveva finito con l’affermarne l’impossibilità. E’ un problema che K. sente molto: l’empirismo, se svolto con coerenza, diventa scetticismo. ◊ Torniamo ora alle scienze e al modo in cui la ragione le elabora, al modo in cui essa efficacemente “funziona”. Il sapere, dice Kant, è fatto di giudizi, pensare è giudicare: ogni ragionamento serve a raggiungere una conclusione, che è appunto un giudizio. I giudizi sono di due tipi: analitici e sintetici. a. Il giudizio analitico è quello in cui il predicato si ottiene dalla semplice analisi del soggetto; non fa che sviluppare il soggetto, nel quale è infatti già contenuto. Si tratta di giudizi che ovviamente non accrescono la nostra conoscenza delle cose, che non ci dicono niente di nuovo sulla realtà. Essi sono universali e necessari (cioè rigorosi, assoluti), ma non estendono il sapere. Sono indipendenti dall’esperienza, non dicono nulla di essa, non derivano da essa: sono a-priori rispetto all’esperienza. 3 b. Il giudizio sintetico è invece quello in cui il predicato non discende dal soggetto, ma “fa sintesi” col soggetto (di qui il nome); in questi giudizi l’attribuzione del predicato al soggetto non deriva dal soggetto stesso (come negli analitici) ma deriva dai fatti che verifichiamo nell’esperienza. Si tratta dunque di giudizi che estendono il nostro sapere, ma che non sono né universali né necessari proprio perché derivano dall’esperienza: sono a-posteriori rispetto ad essa. E’ infatti ovvio, come ben ha dimostrato Hume, che le conoscenze derivanti dall’esperienza non possono essere né universali (sono sempre particolari) né necessarie (negarle non implica contraddizione). ◊ La scienza però: a) deve essere un accrescimento del nostro sapere, deve dirci cioè qualcosa di nuovo sulla realtà (come i giudizi sintetici a posteriori); b) deve essere oggettiva, universale, necessaria (come i giudizi analitici a priori). E’ allora necessario un terzo tipo di giudizio, che abbia allo stesso tempo caratteristiche di novità e di oggettività: Kant lo chiama giudizio sintetico a priori. E’ questo un giudizio nel quale il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (così la conoscenza si estende, cresce), ma viene attribuito al soggetto in modo necessario e universale (così la conoscenza è rigorosa e assoluta). ◊ Quindi il problema che Kant si pone, cioè quello di come è possibile una vera scienza, può essere formulato in questi termini: come sono possibili giudizi sintetici a priori? ◊ Facciamo adesso qualche esempio: - giudizio analitico a priori (universale e necessario ma non accresce la nostra conoscenza) = “i corpi sono estesi”; nel concetto di “corpo”, infatti, è incluso quello di “estensione” (qui come si diceva, il predicato deriva dall’analisi del soggetto); non ho bisogno dell’esperienza per arrivare a questo giudizio, che infatti è a-priori1. - giudizio sintetico a posteriori (accresce la nostra conoscenza ma non è universale e necessario) = “i corpi sono pesanti”; nel concetto di “corpo”, infatti, non è incluso quello di “pesante” (quindi il predicato “fa sintesi” col soggetto); è un giudizio che deriva dall’esperienza, cioè è a-posteriori, e proprio per questo non è universale né necessario2. 1 Scrive Kant: «Che un corpo sia esteso è una proposizione che vale a priori e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di rivolgermi all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso trarre il predicato in virtù del principio di contraddizione…» 2 Scrive Kant: «Nel concetto di corpo in generale io non includo il predicato della pesantezza. posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente mediante le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc. che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e, rivolgendomi di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo costantemente collegata con le note precedenti 4 - giudizio sintetico a priori = “tutto ciò che accade ha una causa”; qui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (è “sintetico”), ma lo dice in modo universale e necessario, cioè in un modo che non può derivare dall’esperienza (è “a-priori”)3. ◊ Secondo Kant la scienza si fonda su giudizi sintetici a priori, che non derivano dall’esperienza e sono perciò universali e necessari. Questi giudizi costituiscono la “spina dorsale”, la struttura portante della scienza, cioè l’elemento che le conferisce universalità e rigore, senza il quale essa si dovrebbe costantemente muovere nell’incertezza e nella relatività. Il cuore di tutta la dottrina kantiana della scienza (epistemologia) sta proprio qui: senza principi assoluti di fondo la scienza non esisterebbe, in quanto il ricercatore, come ha ben dimostrato Hume, brancolerebbe ad ogni passo nel buio, non sapendo, per esempio, se anche in futuro ogni cosa che accade avrà una causa. Invece, afferma Kant, lo scienziato è ad ogni passo sicuro a priori di verità fondamentali che gli assicurano la base per il suo lavoro di ricerca. Tocca poi all’esperienza, come si vedrà, “riempire” quelle verità di base con contenuti specifici. La scienza dunque nasce dalla combinazione dei giudizi sintetici a priori e dei dati forniti dall’esperienza. Per fare un esempio: la verità universale e necessaria (cioè il giudizio sintetico a priori) “tutto ciò che accade ha una causa” viene, tramite l’esperienza, “riempito” di contenuti specifici, che ci dicono qual è la causa di questo o di quel fenomeno. Il principio però in quanto tale, non deriva dall’esperienza. Dunque la scienza acquisisce sempre nuove informazioni attraverso l’esperienza (cioè a-posteriori) ma le inquadra sulla base di principi di fondo assoluti che dall’esperienza non dipendono (sono a-priori). ◊ A questo punto è essenziale comprendere da dove provengono questi principi di fondo che permettono alla conoscenza scientifica di essere rigorosa. Come detto, essi non derivano dall’esperienza, che si limita a “riempirli” di contenuti specifici: da dove derivano? Qual è allora l’origine dei giudizi sintetici a priori? ◊ Per rispondere a questa domanda, K. opera, riprendendo il lessico aristotelico, una distinzione tra materia e forma della nostra conoscenza. La prima ci è fornita anche quella di pesantezza, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza si fonda quindi la possibilità della sintesi del predicato della pesantezza col concetto del corpo» 3 Si potrebbe pensare che questo giudizio derivi dall’esperienza, ma, secondo Kant, non è così: infatti l’esperienza al massimo ci mostra che questo o quel fatto che accade ha questa o quella causa; il principio generale per cui tutto ciò che accade ha una causa va invece al di là dell’esperienza, non ne deriva, è a-priori rispetto all’esperienza. Proprio per questo suo non derivare dall’esperienza è necessario e universale. 5 dalle molteplici impressioni sensibili che ci vengono dall’esperienza, la seconda dalle strutture fisse della nostra mente, grazie alle quali noi organizziamo l’insieme caotico delle impressioni sensibili. K. ritiene infatti che la mente umana organizzi i dati dell’esperienza mediante strutture innate (comuni ad ogni uomo), che chiama forme a priori, intendendo con tale espressione sottolineare che esse non derivano dall’esperienza, ma, al contrario, la precedono e la rendono possibile. Tali strutture, o forme, sono condivise da ogni uomo e dunque risultano fornite di validità universale e necessaria. La nostra mente “filtra” i dati empirici (cioè quello che ci trasmette l’esperienza) mediante forme sue proprie, che sono innate (e quindi comuni a tutti gli uomini)4. L’uomo può conoscere la realtà dunque solo attraverso le forme a priori della sua sensibilità e del suo intelletto (cfr. gli esempi in Abbagnano, 4335). Come si vedrà le forme a priori della sensibilità sono spazio e tempo, quelle dell’intelletto sono le categorie. - Da ciò che precede derivano due importanti conseguenze: a) nel processo conoscitivo, il soggetto non è passivo, come si era sempre creduto, bensì attivo, e contribuisce in modo decisivo alla definizione dell’oggetto d’esperienza. In altri termini, nella conoscenza non è più il soggetto a “gravitare “ intorno all’oggetto, ma viceversa. E’ questo capovolgimento di prospettive che K. chiama “rivoluzione copernicana”: «Sinora - scrive - si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti. Noi invece abbiamo dimostrato vera l’ipotesi opposta, che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza. Ora, è proprio come per la prima idea di Copernico, il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutta la moltitudine degli 4 Nonostante affermi in carattere innato delle forme a priori, Kant non può essere definito un innatista nel senso tradizionale del termine: le forme a priori sono infatti non sono conoscenze, idee innate, sono soltanto strutture che organizzano la conoscenza. L’innatismo vero e proprio afferma la natura innata dei contenuti della conoscenza; Kant solo delle strutture che la rendono possibile. Le forme a priori non sono infatti ciò che si conosce, ma solamente ciò attraverso cui si conosce. Spiega Mario Dal Pra: «Gli elementi a priori non sono delle idee innate, ma delle funzioni proprie del soggetto conoscente; sono funzioni appunto in quanto, per se stesse, non costituiscono delle conoscenze, ma piuttosto delle attività formali che mettono capo alla conoscenza solo in quanto si esplichino nella materia che è costituita dai fenomeni». 5 Abbagnano propone alcuni esempi che permettono di chiarire la teoria kantiana delle forme a priori: esse possono paragonarsi a lenti colorate o occhiali permanenti attraverso i quali gli uomini guardano la realtà (e non possono guardarla altro che in quel modo, attraverso quelle lenti). Più moderno è forse anche più chiaro il paragone con i computer: quando immettiamo dei dati in un computer, essi non “vagano nel nulla”, ma vengono organizzati all’interno di un programma; ebbene, la nostra mente funziona allo stesso modo: i dati che provengono dall’esperienza sono automaticamente elaborati e organizzati da una sorta di programma fisso. Quindi “pur mutando incessantemente le informazioni (= le impressioni sensibili), non mutano mai i loro schemi di recezione (= le forme a priori)». 6 astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio supponendo che fosse l’osservatore a girare, e che gli astri invece stessero fermi. Quindi non è men vero quel ch’io affermo riguardo alle leggi dell’intelletto, che cioè l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, bensì piuttosto le impone ad essa». La “rivoluzione copernicana” che Kant opera nella teoria della conoscenza segna una tappa essenziale nella storia del pensiero occidentale. Fino ad allora, il problema gnoseologico era stato impostato ponendo al centro del processo conoscitivo l’oggetto (cioè la realtà conosciuta) e lasciando sostanzialmente al margine il soggetto conoscente. Si pensava che il soggetto fosse solamente passivorecettivo: si limita a ricevere e registrare i dati che gli arrivano dall’esperienza (come una cassetta vergine registra il messaggio che le viene inviato). Nient’altro. Kant capovolge questa prospettiva affermando che nella conoscenza il soggetto è attivo: svolge un ruolo essenziale come “ordinatore” del materiale che gli viene trasmesso dall’esperienza6. b) La seconda, rilevantissima, conseguenza della teoria kantiana della conoscenza è che occorre distinguere tra la realtà come appare al soggetto conoscente (cioè all’uomo) e la realtà così come è in se stessa (a prescindere dall’uomo che la conosce)7. Kant chiama la prima fenomeno: è la realtà che appare all’uomo, elaborata dalle forme a priori della sua facoltà conoscitiva; la seconda noumeno: è la realtà in sé, considerata indipendentemente dal soggetto che la conosce. Il noumeno è, per K., inconoscibile: l’uomo si deve quindi limitare a concepirne l’esistenza, ad ipotizzarla come una “x” sconosciuta (di qui il termine stesso noumeno, che significa per l’appunto “pensabile”8). In altri termini: noi conosciamo la realtà non per quello che è in se stessa, ma per come ci appare, ci si mostra; e alla definizione di questo “apparire” della realtà noi partecipiamo attivamente. Infatti, come abbiamo chiarito più sopra, la conoscenza avviene attraverso la combinazione dei dati empirici e delle forme a priori della nostra sensibilità (spazio e tempo) e del nostro intelletto (categorie): risultato di questa 6 E’ merito di Hume avere preparato la strada a questa rivoluzione: egli afferma infatti che i collegamenti tra i fenomeni sono posti dal soggetto. Tuttavia, per Hume, questa attività del soggetto è di carattere non razionale ma istintivo (l’abitudine). Kant passa da questo piano istintivo a quello propriamente conoscitivo. 7 Scrive in proposito S. Vanni Rovighi: «Il problema del come è possibile una vera scienza, quali sono la matematica e la fisica, equivale quindi al problema: Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? La risposta di Kant è: tali giudizi sono possibili perché l’oggetto su cui sono pronunciati è un fenomeno; e fenomeno significa prodotto risultante dai dati della sensibilità e da certe forme a priori che ordina tali dati in una unità oggettiva». 8 E’ appena in caso di ricordare che il termine fenomeno significa invece “ciò che appare”, “ciò che si manifesta” (dal greco fáinomai, “mostrarsi”, “apparire”). 7 combinazione è il fenomeno. Tuttavia, al di là della realtà percepita e pensata dall'uomo (il fenomeno) occorre ammettere l'esistenza d'una realtà in sé, che però non è conoscibile dall'uomo, ma soltanto pensabile (noumeno). Infatti lo stesso parlare di "fenomeno" implica il rimando a qualcosa che stia al di là di esso (Dal Pra). Dicendo che la nostra conoscenza vale solo per il mondo fenomenico, K le assegna - illuministicamente - un limite. Indicando questo limite, indica implicitamente anche qualche cosa al di là di esso (altrimenti non avrebbe senso parlare di limite), ma lo indica soltanto negativamente, dato che ne nega la conoscibilità: è il noumeno. La metafisica pretende proprio di cogliere il noumeno, vale a dire ciò che sta al di là della nostra esperienza: di qui il suo millenario fallimento. ◊ K approda a queste concezioni gnoseologiche partecipando al dibattito sulla natura dello spazio e del tempo, che vedeva contrapporsi l’interpretazione empiristica e quella oggettivistica. La prima, sostenuta tra gli altri da Leibniz, considerava spazio e tempo come nozioni tratte dall’esperienza; la seconda, sostenuta da Newton, li interpretava come realtà a sé stanti, cioè come “recipienti vuoti” nei quali sono “contenuti” i fenomeni. Secondo Kant spazio e tempo non sono né “cose in sé”, né semplici generalizzazioni dell'esperienza: sono modalità umane di percepire la realtà. Non possono derivare dall’esperienza, come vorrebbe Leibniz, perché per fare qualsiasi esperienza dobbiamo già disporre la rappresentazione originaria di spazio e tempo9; non possono però nemmeno essere realtà autonome, come dicono gli oggettivisti, perché in tal caso dovrebbero esistere anche se non “contenessero” nessun oggetto, il che è assurdo perché come si può concepire qualcosa che sia reale senza un oggetto reale? Spazio e tempo non sono dunque “contenitori” in cui si trovano gli oggetti, “proprietà” delle cose, ma quadri mentali dentro i quali noi organizziamo i dati sensibili; non realtà assolute, “cose in sé”, ma condizioni dell'esperibilità delle cose, modi umani di vedere le cose. Noi, cioè, possiamo percepire la realtà soltanto nello spazio e nel tempo: spazio e tempo sono allora condizioni che rendono possibile la nostra esperienza sensibile, non dati che derivano da essa, sono quindi a priori. Sono le forme a priori della conoscenza sensibile. La realtà non può essere percepita se non nello 9 Le conseguenze epistemologiche di questa concezione sono per Kant inaccettabili: «Infatti, se il concetto di spazio è astratto dagli oggetti sensibili, sarà un concetto empirico, ed empirica sarà tutta la geometria, che è fondata sul concetto di spazio. Un concetto astratto dagli oggetti sensibili esprime, per Kant, solo una generalizzazione di ciò che è dato nell’esperienza, ed è quindi incapace di fondare proposizioni necessarie ed universali»; invece, la concezione kantiana salva in carattere scientifico della geometria e della meccanica «poiché ogni oggetto, per poter essere intuito, deve entrare nelle forme dello spazio e del tempo» (Vanni Rovighi). 8 spazio e nel tempo (e, come si vedrà, non può essere pensata se non attraverso le categorie). ◊ Noi conosciamo dunque la realtà combinando i dati provenienti dall’esperienza con le forme a priori della nostra facoltà conoscitiva (lo spazio e tempo per la sensibilità; le categorie per l’intelletto). Queste forme a priori, come abbiamo più volte detto, non derivano dall’esperienza: esse “trascendono” l’esperienza, per questo Kant le chiama trascendentali10 “trascendentale” lo studio di esse (cfr. sotto). o, per meglio dire, chiama B) Critica della ragion pura ◊ Veniamo ora all’opera in cui Kant espone queste idee nel modo più compiuto: la Critica della ragion pura. L’opera si divide in tre parti perché tre sono, secondo Kant, le facoltà della nostra conoscenza: «Ogni nostra conoscenza - scrive scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire alla ragione». Dunque la sensibilità è la facoltà attraverso la quale gli oggetti ci sono dati intuitivamente dai sensi tramite le forme a priori dello spazio e del tempo; l’intelletto è la facoltà attraverso la quale noi pensiamo i dati sensibili, collegandoli tramite gli elementi a priori detti categorie, la ragione è la facoltà con la quale, procedendo oltre l’esperienza, cerchiamo di trovare spiegazioni globali della realtà tramite le tre idee di anima, mondo e Dio11. A questa tripartizione della nostra facoltà conoscitiva corrispondono le tre sezioni della Critica: I)Estetica trascendentale: studia la sensibilità e le sue forme a priori (cioè spazio e tempo); II) Analitica 10 Il vocabolo trascendentale deriva dal latino trascendere, che significa letteralmente “innalzarsi oltre” (trans = “oltre”, “al di là”; scandere = “salire”, “innalzarsi”). La stessa etimologia ha il termine trascendente, che indica ogni realtà che si pone “al di là” della sfera empirica, vale a dire la realtà soprasensibile. Ben diverso è il significato di trascendentale nella filosofia kantiana: il termine indica qui infatti non una realtà soprasensibile, ma gli elementi della nostra attività conoscitiva che non dipendono dall’esperienza (le forme a priori). «Trascendentale - scrive Kant - non significa qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, bensì qualcosa che certo la precede (a priori), ma non è determinato a nulla più che a render possibile la conoscenza dell’esperienza». Nella filosofia scolastica medievale, trascendentali erano dette le proprietà universali degli oggetti (come l’essere, l’uno, il bene, ecc.), cioè quelle caratteristiche che tutte le cose possiedono e che per questo superano per generalità (cioè, appunto, “trascendono”) le categorie in senso aristotelico (sulle quali cfr. sotto). 11 Volendo semplificare, possiamo dire che la nostra facoltà conoscitiva è di due tipi: la sensibilità e il pensiero. Infatti noi: a) percepiamo la realtà; b) pensiamo la realtà. Ebbene, l’Estetica trascendentale si occupa della sensibilità, le altre due sezioni della Critica della ragion pura si occupano del pensiero: infatti sono sottosezioni d’una parte più ampia detta Logica trascendentale. Schematicamente, la Critica kantiana si divide in Estetica trascendentale (sensibilità) e Logica trascendentale; quest’ultima a sua volta comprende Analitica trascendentale (intelletto) e Dialettica trascendentale (ragione). 9 trascendentale: studia l’intelletto e le sue forme a priori (cioè le categorie); III) Dialettica trascendentale: studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fonda la metafisica. ◊ Si noti l’aggettivo “trascendentale”, che qualifica tutte e tre le sezioni: come abbiamo detto, questo termine si collega alle forme a priori, quindi il suo uso nei titoli evidenzia che la Critica kantiana è innanzitutto studio delle forme a priori della conoscenza. In realtà, il trascendentale non coincide semplicemente con l’apriori: il termine si applica infatti più che agli elementi a priori della conoscenza allo studio di essi: «Chiamo trascendentale - scrive Kant - ogni conoscenza che ha a che fare, in generale, non tanto con oggetti quanto col nostro modo di conoscere gli oggetti in quanto questo dev’essere possibile a priori». Quindi, volendo essere pignoli, “trascendentali” non sono tanto le forme a priori della conoscenza (cioè spazio/tempo e categorie), quanto piuttosto la filosofia che le studia, che può a buon titolo essere chiamata filosofia trascendentale «il carattere trascendentale della ricerca kantiana - scrive Dal Pra - mette quindi in luce che essa tende ad individuare, nella nostra conoscenza, gli elementi a priori e quindi universali e necessari». Dunque la Critica della ragion pura si configura come «esame critico generale della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori» e quindi come «analisi delle autentiche possibilità conoscitive dell’uomo». ◊ Estetica trascendentale - Come detto, in questa sezione K. studia la sensibilità e le sue forme a priori12. Secondo K. la sensibilità è “recettiva” perché non genera i propri contenuti, ma li accoglie per intuizione dalla realtà esterna o dalla realtà interna. In verità, la sensibilità non è solamente “recettiva”: è anche attiva, in quanto organizza il materiale fornito dalle sensazioni (cioè le intuizioni empiriche) tramite le sue forme a priori, che, come sappiamo, sono lo spazio e il tempo (che Kant chiama intuizioni pure). Quindi nella sensibilità la materia del conoscere è data dalle 12 Kant utilizza il termine “estetica” nel suo significato etimologico, dal greco áisthesis, che indica il sentire immediato, la sensazione, l’intuizione sensibile. A questo affianca l’aggettivo trascendentale, che, colme abbiamo visto, indica che l’intuizione sensibile, come tutti gli altri gradi della conoscenza, è reso possibile dalla forme a priori. «L’estetica trascendentale - scrive Kant - è l’apprensione immediata dei dati sensibili ordinati nelle relative forme a priori». 10 sensazioni o impressioni degli oggetti esterni, la forma da spazio e tempo (che sono appunto le forme a priori della sensibilità)13. - Dello spazio e del tempo di è già parlato più sopra. Aggiungiamo solo qualche annotazione. Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè la rappresentazione che inquadra tutte le intuizioni sensibili esterne; il tempo è invece la forma del senso interno, cioè la rappresentazione che inquadra tutti i nostri stati interiori (che infatti si dispongono l’uno dopo l’altro in un ordine di successione). Tuttavia, poiché solo attraverso il senso interno ci giungono i dati esterni, il tempo è anche indirettamente - forma del senso esterno, cioè il modo universale attraverso il quale percepiamo tutti gli oggetti. Quindi: non ogni cosa è percepita da noi nello spazio (per es. i sentimenti); ogni cosa è però percepita nel tempo. - Come detto più sopra, spazio e tempo non sono realtà oggettive nelle quali sono “contenuti” gli oggetti: sono nostre strutture mentali che organizzano la conoscenza sensibile, sono le condizioni necessarie di ogni nostra esperienza, modi umani di vedere le cose. «Ogni oggetto, per essere intuito, deve entrare nelle forme dello spazio e del tempo. Spazio e tempo sono quindi aspetti che competono necessariamente ad ogni oggetto di esperienza sensibili» (Vanni Rovighi). K. paragona spazio e tempo a lenti colorate o al contenitore di un liquido: se noi portiamo occhiali con lenti colorate, vediamo gli oggetti del colore delle lenti; quello specifico colore non è nelle cose, ma è loro attribuito dalle lenti. Se versiamo un liquido in un recipiente, il liquido assume la forma del recipiente: la forma deriva dal recipiente e non dal liquido stesso. - La dottrina dello spazio e del tempo esposta nell’Estetica trascendentale permette a Kant di spiegare come è possibile la matematica. Geometria ed aritmetica, cioè le due scienze matematiche, sono per Kant le scienze sintetiche a priori per eccellenza: sono sintetiche perché ampliano la nostra conoscenza14, andando oltre ciò che ci è già noto (cfr. sopra) e sono a priori perché i teoremi di 13 Il termine intuizione indica una conoscenza immediata, diretta, quale appunto è la conoscenza sensibile: Kant chiama intuizioni pure le forme a priori dello spazio e del tempo; esse, combinandosi con le sensazioni, originano quella che Kant chiama intuizione empirica, cioè la percezione delle cose sensibili. 14 Per esempio, se noi facciamo una somma, otteniamo una conoscenza che accresce il nostro sapere, perché il risultato viene ottenuto tramite l’operazione del sommare e non ricavato per via analitica dai numeri che vengono sommati: «Veramente - scrive Kant -, a prima vista si dovrebbe pensare che la proposizione 7+5 = 12 sia puramente analitica. Ma, se si osserva più da vicino, si trova che il concetto della somma di 7 e 5 non contiene null’altro che l’unione di ambedue i numeri in uno solo, senza che con ciò si pensi affatto quale sia questo numero unico, che comprende gli altri due». La sinteticità di una somma aritmetica si coglie con maggiore chiarezza se, invece di riferirsi a un calcolo semplice come quello proposto da Kant (7+5) si prendono in esame cifre più elevate: «ad esempio, la semplice analisi mentale dei concetti aritmetici di 62.525 + 48.734 non può affatto suggerirci il loro risultato, che occorre invece far scaturire sinteticamente mediante un calcolo, il quale soltanto ci fa scoprire che la somma dei suoi addendi è 111.259» (Abbagnano). 11 geometria ed aritmetica valgono a prescindere dall’esperienza. Orbene, qual è il fondamento delle costruzioni sintetiche a priori delle scienze matematiche? Secondo Kant esso risiede nelle intuizioni pure (o forme a priori) dello spazio e del tempo: la geometria è la scienza che dimostra le proprietà delle figure tramite l’intuizione pura dello spazio e lo fa sinteticamente a priori, senza cioè prescindendo dall’esperienza : per esempio, quando stabilisce che fra le infinite linee che uniscono due punti la più breve è la retta non deve ricorrere all’esperienza. Allo stesso modo, l’aritmetica è la scienza che dimostra le proprietà delle serie numeriche tramite l’intuizione pura del tempo15. ◊ Analitica trascendentale - Scrive Kant: «Senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuti (senza intuizioni) sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche». Sensibilità e intelletto sono dunque entrambi indispensabili per la conoscenza: l’Analitica trascendentale è la parte della Critica della ragion pura che si occupa dell’intelletto, studiando quindi quello che potremmo chiamare il “secondo livello” della conoscenza umana. L’intelletto è la facoltà di formulare giudizi, collegando tra loro (cioè “unificando”) le percezioni: come si è detto, infatti, attraverso la sensibilità l’uomo percepisce la realtà, attraverso l’intelletto la pensa e pensare significa formulare dei giudizi16. - Come nella conoscenza sensibile, anche in quella intellettuale c’è una materia e c’è una forma del conoscere: la materia è fornita dalle intuizioni empiriche17, la forma da quelli che Kant chiama concetti puri. Essi sono le forme a priori della conoscenza intellettuale, esattamente come spazio e tempo sono le forme a priori della sensibilità. Ed esattamente come lo spazio e il tempo, i concetti puri non derivano dall’esperienza18: sono, al contrario, funzioni proprie dell’intelletto, innate. 15 E’ grazie all’intuizione pura del tempo che si può cogliere l’idea di successione, sulla quale si basano le serie numeriche; senza l’intuizione pura del tempo e della successione non sarebbe nemmeno possibile il concetto di numero. 16 Scrive Kant: «Tutti gli atti dell’intelletto possono ricondursi a giudizi, in modo che l’intelletto può essere rappresentato come una facoltà di giudicare. Esso è infatti una facoltà di pensare. Ora, pensare è conoscere per concetti. E dei concetti l’intelletto non può fare altro uso se non giudicare per mezzo di essi» 17 Ricordo che l’intuizione empirica è la percezione delle realtà sensibili, derivante dal combinarsi delle sensazione con le intuizioni pure dello spazio e del tempo. In altre parole, l’intuizione empirica è il “prodotto finale” della nostra conoscenza sensibile, risultante dalla combinazione tra le sensazioni e le forme a priori della sensibilità, che sono appunto spazio e tempo. 18 Per questo sono detti “puri”. 12 - Grazie ai concetti puri l’intelletto può formulare i giudizi, nei quali viene unificata la molteplicità dei dati che provengono dalla sensibilità (cioè le intuizioni empiriche). Kant chiama i concetti puri, riprendendo un termine aristotelico, categorie19. - Dunque le categorie sono funzioni dell’intelletto che servono a formare i giudizi unificando la molteplicità delle percezioni: grazie alle categorie siamo così in grado di pensare la realtà, esattamente come grazie allo spazio e al tempo siamo in grado di percepirla. I giudizi, che formano la sostanza del nostro pensiero, nascono pertanto da una sintesi di materia (le intuizioni empiriche) e forma (i concetti puri o categorie). - Secondo Kant, che si richiama alla tradizione delle logica generale, esistono dodici tipi di giudizio: anche le categorie, di conseguenza, sono dodici, perché, come si è spiegato, esse servono proprio a elaborare i giudizi (si veda al caso lo schema fotocopiato a parte). - Facciamo ora un esempio: nel giudizio “il sole riscalda la pietra” sono unificate due intuizioni empiriche, “sole” e “pietra” grazie al concetto “riscaldare”, che rimanda alla categoria della causalità. - Dunque, il nostro intelletto opera (tramite le categorie che formano i giudizi) una unificazione della molteplicità delle intuizioni empiriche (o percezioni). In sostanza, secondo Kant, il processo conoscitivo è un processo di unificazione dei dati d’esperienza, unificazione realizzata attraverso i giudizi, che sono resi possibili dalle categorie20. Conoscere significa unificare (ovvero organizzare, “inquadrare”) i dati forniti dall’esperienza per mezzo delle forme a priori del nostro intelletto. - Poiché l’unificazione del materiale empirico è realizzata attraverso i giudizi, essa deve avere alla base una unità giudicante, una fonte prima dell’unificazione stessa. Ecco perché come fondamento ultimo di tutta l’attività conoscitiva Kant pone una struttura mentale, un centro unificatore ultimo, comune a tutti gli uomini, che chiama “io penso”. «In tutti i giudizi infatti - spiega Di Napoli l’assolutamente necessario e universale è il pensiero che pensa i giudizi: (io penso che) il sole riscalda la pietra; (io penso che) il cielo è azzurro; (io penso che) il cerchio ha i raggi tutti eguali, ecc. Al fondo di tutta l’attività giudicante c’è un “io 19 C’è peraltro una netta differenza tra le categorie come sono intese da Aristotele e come invece le intende Kant: per Aristotele infatti esse sono i generi supremi della realtà, cioè i modi di essere del reale (tutto ciò che esiste rientra in una determinata categoria); per Kant esse sono invece i modi di funzionamento del nostro intelletto, forme logiche della nostra mente 20 Anche la conoscenza sensibile è di fatto una forma di unificazione dei dati sensibili realizzata attraverso le forme a priori dello spazio e del tempo. 13 penso”»21. In sintesi, l’attività del nostro intelletto consiste nel formulare giudizi tramite le categorie, unificando così la molteplicità del materiale empirico; ebbene, ci deve pur essere una fonte unitaria di questa attività giudicanteunificatrice; ogni giudizio è infatti il giudizio formulato da un “io” che lo pensa. - Si badi però a non confondere questo “io” con la coscienza o, ancor peggio, con l’anima: non si tratta infatti di un ente, di una “cosa”, ma di una funzione, che noi possiamo cogliere soltanto nel suo operare. L’io penso non è nulla fuori del suo agire nel processo conoscitivo, non è una realtà concepibile al di fuori dei giudizi che formula. Non è un’entità metafisica, ma un principio puramente formale. Non a caso Kant lo ha chiamato “io penso”: ha voluto con questo significare che si tratta proprio di una unità “pensante” (cioè coglibile solo nell’atto del pensare) e non una unità “esistente” (cioè coglibile a prescindere dalla sua attività di pensiero). - E’ essenziale a questo punto sottolineare che così come l’uomo (ogni uomo!) non può percepire la realtà se non nello spazio e nel tempo, allo stesso modo non può pensarla se non attraverso le categorie. Ogni nostro pensiero (cioè ogni nostro giudizio) è formulato tramite le categorie, che sono funzioni conoscitive comuni a tutti gli uomini. Tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie, tutti gli uomini pensano la realtà attraverso le categorie, cioè la pensano tutti allo stesso modo. La realtà pertanto “obbedisce” alle forme a priori del nostro intelletto e, di conseguenza, la nostra conoscenza della realtà è rigorosa: non possiamo che conoscerla in quel modo e attraverso quelle funzioni (spazio, tempo e categorie). Si parla, ovviamente, della realtà fenomenica, che è l’unica accessibile all’uomo: quella noumenica, come sappiamo, non è conoscibile dall’uomo. - Da tutto ciò consegue, ovviamente, che la nostra conoscenza non può estendersi al di là dell’esperienza. L’ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato al fenomeno, perché la “cosa in sé” (cioè il noumeno) è per definizione fuori della nostra esperienza. Esso è solo pensabile (di qui il nome), non conoscibile: può essere oggetto soltanto di una conoscenza extra-fenomenica preclusa all’uomo ma aperta a un ipotetico intelletto divino che sia capace di una “intuizione intellettuale” della realtà (della quale l’uomo invece può avere solo una intuizione empirica). -Per l’uomo dunque il noumeno più che una realtà è una sorta di concetto-limite, come ben precisa Abbagnano: «La cosa in sé (cioè il noumeno) più che essere una 21 Scrive Kant: «Nessuna conoscenza può aver luogo in noi, nessun collegamento ed unità di conoscenze fra loro senza quell’unità della coscienza che antecede tutti i dati dell’intuizione ed in rapporto alla quale soltanto è possibile ogni rappresentazione di oggetti» 14 realtà, è per noi un concetto, e precisamente un concetto-limite che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive. In altre parole, l’idea di cosa in sé o noumeno costituisce una specie di promemoria critico che da un lato circoscrive le pretese della sensibilità, rammentandosi che ciò che ci viene dato nella intuizione spazio-temporale non è la realtà in assoluto; e dall’altro circoscrive le arroganze dell’intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma soltanto pensarle nella loro possibilità, sotto forma di X ignote». ◊ Dialettica trascendentale - Nell’Estetica e nell’Analitica Kant porta a termine la prima parte del compito che si è proposto con la Critica della ragion pura, ovvero stabilire come sia possibile il sapere scientifico. Nella Dialettica affronta invece la seconda parte del problema, che, come si ricorderà, riguarda la possibilità per la metafisica di costituirsi come scienza. La Dialettica trascendentale analizza natura e caratteri della metafisica, cercando di stabilire se essa sia o meno nelle possibilità della conoscenza umana. Dall’impostazione e dalle conclusioni dell’Estetica e dell’Analitica si intuisce chiaramente che la risposta di Kant a questo interrogativo non può che essere negativa. Infatti «per Dialettica trascendentale Kant intende l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica» (Abbagnano)22. - Va però detto che la metafisica costituisce una esigenza naturale e incoercibile dello spirito umano. Non a caso Kant parla di metaphisica naturalis; intendendo sottolineare che l’uomo alberga nel suo spirito una insopprimibile esigenza metafisica: sente cioè il bisogno di costruire un sapere che gli permetta di oltrepassare il limite della sua conoscenza costituito dall’esperienza. In altre parole: è assai significativo che, pur non potendo andare al di là dell’esperienza, l’uomo senta da sempre e costantemente il bisogno di farlo. Secondo Kant, questo nostro voler procedere oltre i dati dell’esperienza deriva una tendenza innata verso l’incondizionato e la totalità. Non sappiamo dunque “accontentarci” del mondo fenomenico dell’esperienza: siamo irresistibilmente attratti verso il regno dell’assoluto, verso una spiegazione globale della realtà - Kant collega la genesi della metafisica alla facoltà della ragione: «questa - scrive Abbagnano - in partenza non è altro che l’intelletto stesso, il quale, essendo la 22 E’ chiaro che Kant usa in termine “dialettica” in senso negativo, intendendola come «l’arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volute illusioni l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato». Come è noto, nella storia della filosofia il termine ha avuto anche valenze positive: per Platone, ad esempio, la dialettica è la scienza delle idee, cioè la via che conduce al vero; per la scuola stoica (e per tutta la filosofia medievale) essa di fatto coincide con la logica. In Aristotele invece ha una valenza negativa, configurandosi come «l’arte “sofistica” di costruire ragionamenti capziosi, basati su premesse che sembrano probabili, ma in realtà non lo sono» (Abbagnano). 15 facoltà di unificare i dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare anche senza dati». Come sappiamo, le categorie non dipendono dall’esperienza (sono a priori), ma si applicano soltanto ad essa: senza i dati di esperienza proprio il l’intelletto riferendole sono solo dei contenitori vuoti, delle funzioni inutilizzabili. Però, loro non dipendere dall’esperienza conduce “automaticamente” a cercare di utilizzarle al di fuori e al di là dell’esperienza stessa, non alla realtà fenomenica, effettivamente conoscibile, ma a quella noumenica, alla “cosa in sé”, che invece sfugge alla conoscenza dell’uomo. E’ così che, dice Kant, «l’intelletto si costituisce insensibilmente, accanto alla casa dell’esperienza, un palazzo ben più vasto, che esso riempie con puri esseri di ragione, senza avvedersi di essere così andato al di là dei confini dell’uso legittimo dei suoi concetti». La ragione pretende quindi di andare al di là dei dati d’esperienza, unificando in modo globale, assoluto le conoscenze ottenute dall’intelletto tramite i giudizi23. Questa ulteriore unificazione, del tutto ingannevole, è realizzata sulla base di tre grandi “idee d’insieme” che, proprio in quanto totalizzanti, superano i limiti dell’esperienza (la quale è, invece, necessariamente parziale). Le idee sono dunque le forme a priori della ragione, con le quali essa unifica in grandi insiemi i risultati dei giudizi cercando di soddisfare l’esigenza umana di cogliere l’assoluto (cioè di costruire un sapere metafisico)24. - Le idee della ragione sono tre: idea psicologica (o “idea di anima”), idea cosmologica (o “idea del mondo”), idea teologica (o “idea di Dio”). Attraverso l’idea psicologica la ragione unifica tutti i dati che riguardano l’attività interna, attraverso l’idea cosmologica tutti i dati che riguardano il mondo, attraverso l’idea teologica tutti i dati che riguardano un principio primo assoluto e incondizionato. La metafisica compie un errore fatale: trasforma queste tre esigenze (mentali) di unificazione totalizzante dei dati d’esperienza in tre realtà, dimenticando che l’uomo non ha mai a che fare con la realtà in sé, ma solo con la realtà del fenomeno. Allo studio di queste tre realtà sono dedicate le tre tradizionali branche 23 Scrive Mario Dal Pra: «Kant distingue un uso empirico delle categorie da un loro uso trascendente; l’uso empirico consiste nell’adoperare le categorie per unificare gli elementi dell’esperienza in un ambito sempre più vasto, ma tuttavia incompleto; così l’intelletto estende i nessi di causa ed effetto da A a B, e poi da B a C, e quindi da C a D; tende insomma a collegare il maggior numero possibile di fenomeni col nesso di causalità; ma non arriva mai, su basi empiriche, a completare tale nesso per tutti i fenomeni; la ragione usa in modo trascendente le categorie nel senso che vuole realizzare un’applicazione compiuta di esse ed avere davanti a sé la totalità dell’esperienza, che, come tale, non può più essere oggetto della nostra esperienza; insomma, la ragione mira a estendere la categorie all’incondizionato». 24 «Tali “idee” - scrive Di Napoli - non sono né le idee di Platone (forme o realtà trascendenti alla natura), né le idee dell’empirismo (che sono rappresentazioni), né le idee del razionalismo (che sono concetti innati); le idee sono forme o funzioni pure della ragione, inservienti alla totalizzazione dei risultati dell’intelletto giudicante». 16 della metafisica: la psicologia razionale, che si occupa dell’anima, la cosmologia razionale, che si occupa del mondo, la teologia razionale, che si occupa di Dio. Nella Dialettica trascendentale Kant analizza queste tre pretese scienze, evidenziandone gli errori e il carattere illusorio: vuole cioè denunciare l’ “inganno della ragion”, che è l’ “inganno della totalità”. - La Psicologia razionale, secondo Kant, si fonda su un “paralogisma”, cioè su un ragionamento sbagliato. Essa infatti applica la categoria di sostanza all’io penso, trasformandolo in una realtà autonoma e permanente che chiama “anima”. Trasforma cioè quella che è una mera funzione conoscitiva in una entità, l’anima, che viene dichiarata “personale”, “immateriale”, “immortale”25. In realtà io non posso concepire me stesso che come elemento dell’esperienza (cioè come attività pensante): la psicologia razionale invece parla all’io astraendo da ogni esperienza e crede di poter identificare questo io astratto con “una possibile esistenza separata dell’io pensante” che chiama anima. Trasforma il soggetto così come viene colto nell’esperienza in una sostanza indipendente dall’esperienza e a sé stante. Nascono così i problemi (irrisolvibili per l’uomo) della distinzione spiritomateria, dell’immortalità dell’anima, del rapporto di essa col corpo, ecc. - La Cosmologia razionale pretende di parlare del mondo inteso come totalità assoluta dei fenomeni, una totalità che, ovviamente, si pone al di là della nostra esperienza, che è sempre esperienza di un numero limitato di fenomeni. La totalità dell’esperienza non è mai un’esperienza: all’idea di mondo, che costituisce il fulcro della cosmologia razionale, non corrisponde nessuna nostra esperienza. Abbiamo infatti esperienza di una “sezione” del mondo (per giunta assai piccola) e non del mondo come globalità. Lo dimostra il fatto che, se pretendiamo di parlare del mondo come totalità cadiamo inevitabilmente nel reticolo senza vie d’uscita delle antinomia, cioè di irrisolvibili “conflitti della ragione con se stessa”. Si tratta di coppie di affermazioni opposte, dove una afferma (tesi) e l’altra nega (antitesi) qualcosa a proposito del mondo come totalità: ebbene, l’uomo non è in grado di decidere tra queste formulazioni antitetiche, perché non ha nessuna esperienza corrispondente. Ecco il prospetto di queste antinomie: a) il mondo è limitato nello spazio e nel tempo - il mondo è illimitato nello spazio e nel tempo (è eterno); b) il mondo non è indivisibile all’infinito - il mondo è divisibile all’infinito; c)nel mondo avviene tutto per 25 «Non ci basta infatti giungere alla chiara coscienza dell’io come oggetto del senso interno … ma vogliamo andare più in là e sapere che cosa sia l’anima, creandoci allo scopo il concetto di un essere semplice e immateriale; creiamo così un’intera scienza, la psicologia razionale, che è un ramo della metafisica» (Dal Pra). 17 necessità - nel mondo esiste libertà; d) il mondo rimanda a un essere necessario - il mondo non rimanda a un essere necessario26. - Anche la Teologia razionale, che si occupa del più arduo problema metafisico, cioè Dio, è priva di valore conoscitivo. L’idea di Dio rappresenta, secondo Kant, l’ideale della ragion pura «in quanto essa rappresenta il culmine della unificazione prodotta dalla ragione in cerca di un principio incondizionato di tutto ciò che nella natura si presenta condizionato» (Di Napoli)27. Dato però che questo ideale, frutto della ragione, ci lascia nella più totale ignoranza circa la sua effettiva realtà, l’uomo ha elaborato una serie di prove per dimostrarne l’esistenza (dimostrazioni dell’esistenza di Dio) che Kant raggruppa in tre classi: prova ontologica, prova cosmologica, prova fisico-teologica. a) la prova ontologica, che risale a Sant’Anselmo, ma che Kant assume nella forma datale da Cartesio, pretende di ricavare l’esistenza di Dio dal concetto di Dio, concetto caratterizzato dall’idea di perfezione. L’argomentazione è nota: se Dio è l’essere perfettissimo, l’essere che possiede tutte le perfezioni, non può certo mancargli la perfezione dell’esistenza. Kant “smonta” questo ingegnoso argomento evidenziando come esso passi illegittimamente dal piano logico a quello ontologico, cioè dal piano del pensare a quello dell’essere. Si parte infatti dall’analisi di un concetto, cioè d’una realtà di ordine logico, e si pretende di giungere ad un ente, cioè ad una realtà di ordine ontologico. Si “slitta” dunque arbitrariamente dal terreno del pensiero a quello della realtà, dimenticando che l’esistenza non è una proprietà logica, ma un fatto che può essere asserito solo tramite l’esperienza: si può avere infatti il concetto di una cosa senza che da ciò debba scaturire l’esistenza della cosa stessa28. b) La prova cosmologica costituisce il fulcro delle vie aristotelico-tomistiche, che risalgono dal cosmo a Dio attraverso il principio di causa. Si afferma infatti che se ogni realtà ha una causa deve esistere una causa prima incausata. Ciò comporta tuttavia, secondo Kant, un uso illegittimo del concetto di causa, perché si passa 26 Il carattere paradossale delle antinomie è testimoniato dal fatto che esistono argomenti ugualmente “persuasivi” in favore dell’una e in favore dell’altra affermazione. Si può, per esempio, dimostrare che il mondo ha un inizio se si segnala che una serie trascorsa infinita è impossibile; si può però sostenere legittimamente anche il contrario - cioè che il mondo è infinito nel tempo - «se si rileva che ogni inizio ha un’esistenza a cui antecede un tempo» (Dal Pra). «L’inconcludenza dei due ragionamenti è data proprio dall’uguale forza cha ha ciascuno di essi e dall’impossibilità in cui la ragione si trova di legittimare l’uno, senza legittimare l’altro» (ivi). 27 Scrive Kant: «Chi non vede, data l’universale contingenza e dipendenza di tutto ciò che si può secondo i principii empirici pensare ed ammettere, l’impossibilità di arrestarsi a questi e non si sente costretto, nonostante ogni divieto di perdersi in idee trascendenti, di trascendere tutti i concetti che l’esperienza può giustificare e di cercare riposo e pace ne concetto di un essere, la cui idea non può essere dimostrata né come possibile, né come impossibile, ma senza del quale la ragione rimane perpetuamente insoddisfatta?» 28 «La prova ontologica o è impossibile o è contraddittoria. Impossibile se vuol derivare da un’idea una realtà. Contraddittoria se nell’idea del perfettissimo assume già, “sottobanco”, quell’esistenza che vorrebbe dimostrare» (Abbagnano). 18 dal piano dell’esperienza, che ci mostra in effetti una serie di realtà “eterocausate”, ad un piano che va al di là dell’esperienza, ad un primo anello incausato che sta al di là del mondo esperibile. Il principio di causalità, invece, può essere applicato solo ai fenomeni: è una regola del nostro intelletto che permette di collegare tra di loro i fenomeni di cui abbiamo esperienza e non può servire a collegare i fenomeni a qualcosa che sta al di là di essi29. E poi anche in questo tipo di prova si ripresenta l’incongruenza propria della prova ontologica: infatti, una volta arrivati all’idea della “causa prima” (Dio) se ne postula illegittimamente l’esistenza. c) La prova fisico-teologica (solitamente chiamata teleologica) si basa sull’ordine e sulla bellezza del mondo per affermare l’esistenza di una suprema mente ordinatrice, che viene identificata con Dio creatore, perfetto e infinito. Si tratta di un argomento che appare a Kant effettivamente chiaro e adatto alla comune ragione30, ma risulta anch’esso minato da forzature logiche a dalla utilizzazione “mascherata” della dimostrazione ontologica. Esso, innanzitutto, può, al massimo, dimostrare l’esistenza d’un Dio ordinatore dell’universo e non del Dio creatore della tradizione biblica e cristiana. E poi l’ordine della natura, la sua armonia e bellezza, non implicano necessariamente l’esistenza d’una fonte trascendente che ne sia origine: «l’ordine della natura potrebbe anche essere una conseguenza della Natura stessa e delle sue leggi immanenti» (Abbagnano). Kant: Questionario - Perché il pensiero di K. è definito "criticismo"? - Perché la filosofia kantiana è stata definita "filosofia del limite"? - Di quali istanze culturali il criticismo può essere considerato l'esito? Quale rapporto collega K. all'empirismo e all'Illuminismo? Quale rapporto esiste tra il pensiero di K. e quello di Hume? - Qual è il problema fondamentale della Critica della ragion pura? Da quali considerazioni prende le mosse l’analisi kantiana della conoscenza? - Quale ipotesi di fondo ispira la gnoseologia di K.? 29 Non va dimenticato che la causalità è una delle categorie con le quali opera l’intelletto per formulare i giudizi; orbene, le categorie, come sappiamo, sono funzioni che si applicano al materiale di esperienza, “contenitori” vuoti della nostra mente che solo l’esperienza “riempie”. E’ quindi illegittimo applicarle al di fuori dell’esperienza. 30 La validità di questo argomento, che Kant giudica il più importante per dimostrare l’esistenza di Dio discende dallo «sconfinato spettacolo di varietà, di ordine, di saggezza e di bellezza che offre il mondo presente», da «quella catena di effetti e cause, di fini e mezzi, da quella regolarità mirabile» che caratterizza l’universo. 19 - Quali tipi di giudizio individua K.? - Cosa significano i termini analitico, sintetico, a priori, a posteriori? - Che cosa sono i giudizi sintetici a priori? Sapresti darne un esempio? - Che cosa intende K. per "rivoluzione copernicana”? Che cosa intende K. per “forma” e “materia” del conoscere? Spiega la distinzione kantiana fenomeno - noumeno. Quali facoltà della conoscenza sono individuate da K.? Quali parti della Critica della ragion pura analizzano tali facoltà? - Che cosa significa nel lessico kantiano “trascendentale”? - Che cosa analizza l’Estetica trascendentale? Quali sono le forme a priori della sensibilità? Come le caratterizza K. (in rapporto, per esempio, alle concezioni di Locke e Newton)? - Che cosa analizza la Logica trascendentale? Che cosa sono i concetti nell’analisi kantiana della conoscenza intellettuale? Che cosa intende K. per “categoria”? Quante (e quali) sono le categorie kantiane? In che cosa esse si differenziano dalle categorie aristoteliche? Che cos'è l’”io-penso”? - Qual è l’ambito d’uso delle categorie? Che cosa intende K. per “noumeno”? In che senso il noumeno è da intendersi solo negativamente, ovvero come concettolimite? - Di che cosa si occupa K. nella Dialettica trascendentale? Come interpreta K. la genesi della metafisica? Quali sono le tre idee trascendentali della ragione kantiana? In che cosa consiste, secondo K., l’errore della metafisica? Come critica K. la psicologia razionale e la cosmologia razionale (ovvero: che cosa intende K. per “paralogismi” ed “antinomie”)? Come critica K. le dimostrazioni dell’esistenza di Dio? 2 - Romanticismo ◊ E’ estremamente difficile elaborare una definizione critica di “Romanticismo”, perché le manifestazioni culturali (letterarie, artistiche e filosofiche) che ad esso fanno capo presentano una grande varietà di motivi, anche assai diversi tra loro (in alcuni casi addirittura divergenti). Si può dire, in linea generale, che il R. è il movimento culturale (letterario, filosofico, artistico, ecc.) che nasce in Germania alla fine del 18° sec. - avviato dallo Sturm und Drang (1770-1777) - e si diffonde in tutta Europa nei primi decenni del 19°, dando un’impronta decisiva alla mentalità di tutto il secolo. 20 ◊ Tradizionalmente si caratterizza il R. come “esaltazione del sentimento”, ma questa accezione “ristretta” appare decisamente riduttiva, perché riesce a sottolineare un aspetto rilevante delle componenti letterarie e artistiche del movimento, ma non di quelle filosofiche, che sono invece di grande importanza. ◊ Ecco perché si ritiene più opportuno proporre un’accezione “ampia”, che intende per R. una “atmosfera” culturale e storica, una “situazione mentale” diffusa nel periodo indicato, che si riflette nella letteratura e nell’arte, ma anche nella filosofia, dando vita a manifestazioni anche assai diverse, come detto, ma tutte rapportabili a linee di fondo comuni, ad uno stesso orizzonte complessivo, ad una Weltanschauung condivisa. Esiste cioè un insieme di tendenze e idee tipiche della mentalità romantica, che si ritrovano sia nell’ambito letterario-artistico sia in quello filosofico. Al di là delle indubbie ambivalenze e delle molteplici diversità che caratterizzano il R., c’è dunque un orizzonte complessivo di idee e istanze comuni. Si può quindi delineare uno schema che individui le note ricorrenti (o almeno alcune di esse) che unificano le varie dimensioni (letteraria, artistica, filosofica) della multiforme esperienza romantica. Cerchiamo di seguito di delineare questo quadro d’insieme, evidenziando le principali tematiche del Romanticismo. ◊ Un primo aspetto comune è dato dall’opposizione all’Illuminismo: le diverse correnti del R. concordano infatti nel rifiuto della ragione illuministicamente intesa, cioè della ragione come facoltà “limitata”, ritenuta incapace di comprendere fino in fondo l’uomo e il mondo, di accedere cioè alla verità assoluta. In sostanza, viene rifiutato il senso del limite della conoscenza che, già affermato dagli empiristi inglesi, caratterizza in modo decisivo il pensiero illuministico (e Kant in particolare). Il R. ritiene perciò necessario individuare nuovi itinerari conoscitivi che permettano all’uomo l’accesso alla conoscenza assoluta e perfetta, alla conoscenza cioè dell’essenza più profonda della realtà (proprio quel tipo di conoscenza che gli empiristi e Kant avevano negato). Se però tutti i romantici concordano in questo rifiuto della ragione illuministica e nell’affermazione della possibilità per l’uomo di arrivare alla conoscenza assoluta, divergono sull’indicazione della via che a tale conoscenza conduce. 1) Alcuni, soprattutto artisti e poeti, individuano lo strumento privilegiato di accesso all’Assoluto nel sentimento, inteso in modo diverso e più profondo di quanto abitualmente non si faccia: esso appare infatti come «un’ebbrezza indefinita di emozioni in cui palpita la vita stessa al di là delle strettoie della 21 ragione, che nei suoi confronti scade a pallido riflesso» (Abbagnano)31. Concepito in questo modo, il sentimento è ritenuto capace di “aprire a nuove dimensioni della psiche e di risalire alle sorgenti primordiali dell’essere”. Hölderlin arriva a dire che l’uomo è un Dio quando sogna e nulla quando pensa: la dimensione irrazionale dell’esperienza umana viene così in primo piano ed anzi si rivela capace di dirigere l’uomo verso il vero, assoluto sapere. 2) A posizioni irrazionalistiche di questo tipo si collega l’esaltazione dell’arte, ritenuta capace di procedere al di là e al di sopra del discorso logico e di condurre l’uomo dove la ragione non può arrivare: «Il poeta comprende la natura meglio dello scienziato», afferma Novalis (ma più spesso la funzione divinatoria dell’arte viene attribuita alla musica). In ambito filosofico la concezione dell’arte come strumento supremo di conoscenza è elaborata da Schelling32. 3) Altri autori romantici (soprattutto Schleiermacher33) identificano la strada che conduce all’Assoluto nella religione, ritenuta capace di guidare l’uomo al di là dei confini della ragione illuministico-kantiana e di fargli cogliere la più profonda e suprema verità delle cose. 4) Altri ancora - in ambito prevalentemente filosofico - traducono la loro insoddisfazione nei confronti della ragione illuministica nell’elaborazione d’un nuovo concetto di ragione. Hegel, in particolare, rifiuta l’esaltazione dell’estasi artistica o del misticismo religioso e distingue, riprendendo la distinzione kantiana, l’intelletto dalla ragione, condannando la limitatezza del primo e affermando l’assolutezza della seconda. Alla logica “illuministica” dell’intelletto egli contrappone la nuova logica (dialettica) della ragione, che ritiene capace di cogliere il senso più profondo dell’essere. Tale logica coincide perfettamente con l’ontologia: Hegel ritiene infatti che la medesima struttura razionale caratterizzi il pensiero e la realtà. L’uomo quindi ritrova nel suo pensiero la chiave di lettura 31 «Stato d’animo attivo, connesso a desideri, emozioni, bisogni ed altri stati affettivi» lo definisce L. MAJORCA, Dizionario di filosofia, Napoli 199, 254, e F. P. FIRRAO precisa: «Dal latino medioevale sentimentum, dal verbo sentire, ‘“sentire”, “percepire’, ‘provare”, “essere soggetto a” ... il termine indica ... (la) facoltà, contrapposta alla ragione, ritenuta fonte delle emozioni» (Dizionario dei termini e delle correnti filosofiche, Firenze 1995, 323). 32 Nel Romanticismo, sottolinea Abbagnano, « (l’arte) è vista come “sapienza del mondo” e “porta aurorale della conoscenza”, ossia come ciò che precede ed anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa, arrivando là dove questo non può arrivare e configurandosi come ciò da cui nasce e a cui finisce sempre per ritornare la filosofia ... Al poeta si conferiscono delle doti quasi sovra-umane e profetiche, che fanno di lui un “esploratore dell’invisibile”, con poteri di intuizione superiori a quelli degli uomini comuni e della ragione logica». Abbagnano cita in proposito Novalis, il quale afferma che «Soltanto un artista può indovinare il senso della vita» e che «Il poeta comprende la natura meglio dello scienziato»; Filosofi e filosofie nella storia, 2, Torino 1992, 20. 33 Schleiermacher critica chi, come D’Holbach, vedeva nella religione il frutto dell’ignoranza e del timore dei primi uomini; per lui la religione ha un suo “organo” autonomo, specifico, un suo fondamento indipendente: il sentimento (Gefühl). Si oppone dunque alla religione razionale del deismo illuministico una religione intesa come sentimento e intuizione. A proposito della definizione di questo sentimento, S. parla di “intuizione e sentimento dell’Universo nella sua infinitudine”. Quanto al “contenuto” dell’intuizione-sentimento S. parla di “sentimento di dipendenza” dall’Assoluto. 22 della realtà; pensiero e realtà, logica ed ontologia, vengono così a coincidere. Alla ragione Hegel assegna quindi le prerogative che poeti e artisti attribuivano al sentimento (o alla fede): a) la capacità di andare oltre la superficie delle cose cogliendone il significato profondo; b) la capacità di cogliere (anzi di comprendere) l’infinito, l’Assoluto. ◊ Fatte queste considerazioni d’ordine generale, è legittimo chiedersi se esista un carattere particolare che identifichi e definisca tutto il movimento romantico. Secondo Abbagnano, questo carattere esiste ed è il senso dell’infinito. Kant aveva costruito un’intero sistema filosofico basato sull’idea del limite (per questo il suo pensiero è stato chiamato “filosofia del limite”): il R. vuole essere, al contrario, una filosofia dell’infinito. Sia la letteratura sia l’arte sia la filosofia romantiche si incentrano infatti sull’affermazione dell’infinito, che è senza dubbio il protagonista principale di questo movimento. In ogni sua manifestazione, artistica, filosofica, letteraria, il R. è ricerca e affermazione dell’assoluto, dell’incondizionato, dell’illimitato. L’ “ebbrezza dell’infinito” è la caratteristica più peculiare dell’intera età romantica. ◊ L’affermazione dell’infinito consente di spiegare alcune tra le istanze più caratteristiche del R. a) L’aspirazione all’assoluto, che ovviamente non può mai essere soddisfatta, dà luogo al tipico atteggiamento romantico della nostalgia, la Sehnsucht dei romantici tedeschi. Il vocabolo traduce il perenne anelito dell’eroe romantico verso una meta che, proprio per la sua infinitudine ed assolutezza, risulta irraggiungibile (il “fiore azzurro” di Novalis). La vita appare così dominata da inquietudine, aspirazione, brama incessante e mai appagata. L’uomo romantico è preda di un vero e proprio “demone dell’infinito” che lo rende insofferente di qualsiasi limite, perennemente insoddisfatto della realtà in cui vive, costantemente spinto ad andare oltre gli orizzonti ristretti del finito. b) L’insoddisfazione del finito genera atteggiamenti diversi: vi è innanzitutto lo Streben faustiano, il costante ed eroico “tendere” verso una perfezione che mai si raggiunge, tematizzato in filosofia da Fichte. Ad essi si collega un altro aspetto tipico della mentalità romantica, il “titanismo”, l’atteggiamento di sfida e ribellione di chi combatte sapendo che la battaglia è persa in partenza, perché all’uomo non è possibile superare le barriere del finito. 23 c) Figlio della brama di assoluto è anche l’atteggiamento dell’ironia, che consiste nel non prendere sul serio nessuna realtà di questo mondo perché, in quanto “finita”, risulta insignificante e “impari” di fronte all’infinito. d) Sempre dall’anelito verso l’infinito deriva anche la tendenza all’evasione presente in molti autori romantici, che, disprezzando il quotidiano, la vita ordinaria e “mediocre” di ogni giorno, sono attratti da tutto ciò che appare “meraviglioso”, “atipico”, “fuori dal normale”, “esotico”, “fiabesco”, “primitivo”. Di qui la riscoperta (per molti versi positiva) del Medioevo e delle civiltà orientali o comunque “lontane” (dalla Grecia antica all’India). I romantici ricercano così mondi “diversi”, che permettano di evadere da una realtà che viene vissuta come troppo angusta e limitata (l’evasione per eccellenza resta quella nel mondo “fatato” dell’arte e del sogno). ◊ Al di là di tutte le sue manifestazioni particolari, la concezione romantica dell’infinito permette di risolvere il contrasto (apparente) tra letteratura-arte e filosofia romantiche. In entrambi gli ambiti, infatti, il principio della potenza infinita dell’io (dello Spirito, per usare la terminologia caratteristica della filosofia romantica34) è centrale e decisivo. In tutte le sue manifestazioni il R. appare così dominato dall’idea dell’infinito. ◊ Tra gli aspetti del R. più rilevanti per il pensiero filosofico vanno segnalati anche: a) un nuovo, fortissimo, interesse per la storia, che si oppone espressamente alle dottrine illuministiche: vedere il par. 9 a pagina 32; b) una concezione della politica anch’essa radicalmente diversa da quella illuministica e incentrata sul concetto di “nazione” (antitetico al “cosmopolitismo” illuministico); cfr. libro di testo; c) un nuovo modo di intendere la natura, assai lontano da quello emerso con la “Rivoluzione scientifica” e in seguito adottato dall’Illuminismo: cfr. libro di testo 3 - Idealismo - Si designa come idealismo tedesco il pensiero dei tre maggiori filosofi attivi in Germania nella prima metà del XIX sec.: Fichte, Schelling, Hegel. Sono tre 34 Il termine “Spirito” è utilizzato nella filosofia idealistica (la filosofia peculiare dell’età romantica) per designare l’uomo inteso: a) come infinita attività che si autocrea superando continuamente i propri ostacoli; b) come soggetto in funzione del quale esiste ed ha un senso l’oggetto (cioè la natura). In altre parole, la concezione dello “Spirito”, presenta l’uomo come attività incessante e ragion d’essere di tutto il reale e conduce di fatto all’equazione uomo = Dio (presente già in Fichte, che non a caso è considerato l’iniziatore del R. tedesco). 24 personalità assai diverse, accomunate però dal fascino che su di loro esercitano la “ragione” e la “mente”. I tre filosofi idealisti contrappongono all’Illuminismo e al criticismo kantiano le tematiche emergenti della nuova cultura romantica (soprattutto Schelling). L’Illuminismo, ai loro occhi, pone all’uomo limiti inaccettabili (e ciò proprio in nome della ragione): nega infatti la possibilità di contemplare, di raggiungere l’infinito, quell’infinito che costituisce l’elemento più caratterizzante di tutto il pensiero romantico. - Nel pensiero di Kant, nonostante la “rivoluzione copernicana” che afferma la centralità del soggetto pensante, resta irrisolta, secondo gli idealisti, la contraddizione di fondo tra soggetto e oggetto. Infatti, Kant parla di una cosa in sé (il noumeno), che sta “dietro” ciò che l’uomo conosce (il fenomeno), ma che tuttavia sfugge alla conoscenza umana. Per Kant, quindi, la realtà in sé (il noumeno) è solo pensabile, non conoscibile. A maggior ragione sono giudicati inconoscibili Dio, l’Assoluto, il Fine ultimo dell’universo. Sono limitazioni che l’idealismo non accetta: nella nuova prospettiva romantica l’aspirazione all’Infinito è irrinunciabile. - La critica degli idealisti a Kant è molto puntuale: la filosofia kantiana, dicono, pone precisi limiti alle facoltà della mente umana, ma non sembra limitare la facoltà stessa del pensiero, dato che tutto può essere pensato. In sostanza, gli idealisti vedono nel pensiero kantiano una inaccettabile contraddizione: la cosa in sé per Kant non è conoscibile, ma è comunque pensabile, cioè rientra nell’ambito di ciò che può essere concepito dal pensiero. Non si può dunque considerarla “in sé”, autonoma, estranea al soggetto che la pensa: infatti, quando io penso una cosa, anche se la definisco “in sé”, “inconoscibile”, “pensabile” e via dicendo, di fatto le assegno una serie di attributi che la definiscono e che quindi mi permettono di conoscerla. (Questo significa che per gli idealisti la distinzione kantiana tra pensare e conoscere è priva di senso: pensare una cosa significa conoscerla, anche se la si pensa come inconoscibile). - La cosa in sé come realtà autonoma dunque non esiste: porla come qualcosa di realmente esistente al di fuori del soggetto, è un residuo di realismo del quale Kant non si sa liberare35. Occorre ricondurre al soggetto pensante tutta la realtà36: “essere è essere pensato”, questo è il motto del pensiero idealistico. Per Kant l’io 35 Si intende per realismo la concezione che afferma l’esistenza di un mondo esterno all’uomo, che “sta lì”, eterno e governato da leggi eterne, aspettando che l’uomo lo scopra e lo conosca. 36 Come sappiamo, Kant distingue nella conoscenza un elemento formale (le forme a priori), posto dal soggetto, e un elemento materiale, da ricondursi invece all’oggetto. Gli idealisti negano questa distinzione: tutta la realtà, non solo gli elementi formali di essa, va dunque ricondotta al soggetto; il soggetto quindi non è più soltanto il principio ordinatore della realtà, ne diviene il principio creatore. 25 non crea la realtà, si limita a ordinarla con le sue forme a priori; per gli idealisti, invece, rimossa la “cosa in sé”, l’io diviene entità creatrice (fonte di tutto ciò che esiste) e infinita (senza nessun limite esterno)37. - Il termine idealismo ha una molteplicità di significati: in linea generale esso indica l’identità dell’Essere con l’«essere pensato». Anche nel nostro linguaggio corrente, del resto, l’idea non è altro che il contenuto del pensiero. Idealismo significa quindi innanzitutto riduzione dell’essere a idea. In questo l’idealismo tedesco concorda con quello platonico. Ci sono però differenze nettissime: «Per Platone (…) resta una frattura netta tra realtà ideale e mondo materiale e sensibile; resta quel dualismo che impone la figura di un demiurgo mediatore38 (…) In Hegel - e in genere nell’idealismo moderno - scompare la cosa esterna al soggetto come realtà autonoma: essa diventa ideale, cioè esclusiva “rappresentazione della ragione”, contenuto del pensiero…» (Ardiccioni). L’idealismo ottocentesco dunque nega l’esistenza di qualsiasi realtà esterna al soggetto; il soggetto è, come si diceva più sopra, il principio creatore della realtà, di tutta la realtà39. - Da tutto quanto precede si comprende come la tesi fondamentale dell’idealismo tedesco possa essere riassunta nella massima “tutto è Spirito”, intendendo con “Spirito” (e con i suoi sinonimi “Io”, “Assoluto”40 e “Infinito”) «la realtà umana, considerata come attività conoscitiva e pratica e come libertà creatrice» (Abbagnano). Su questo concordano tutti gli esponenti dell’idealismo; cambia invece, tra Fichte, Schelling e Hegel, il modo di intendere lo Spirito, l’Infinito, e di spiegare il suo rapporto con il finito (cioè con la natura e la storia). 4 - Fichte - Con Fichte si ha il primo compiuto sistema di filosofia idealistica: l’eliminazione del noumeno, maturata nel dibattito sul criticismo kantiano, viene ora posta alla base di una nuova filosofia. Senza più il noumeno, tutto viene ricondotto al 37 Sulla critica della “cosa in sé” e il passaggio dal kantismo all’idealismo vedere anche Abbagnano, pp. 51-55) 38 Si ricorderà che nel Timeo platonico il demiurgo plasma la materia assumendo come modello le Idee e da questa sua opera trae origine il mondo sensibile. 39 La nuova concezione idealistica dell’Io come principio creatore infinito e assoluto di tutta la realtà è ben espressa dal termine coniato da Fichte per indicarlo: Ichkeit (che potremmo tradurre in italiano con “egoità”). 40 Derivato dall'aggettivo latino absolutus, “compiuto”, “perfetto”, “incondizionato”, “illimitato”; e, come participio passato di absolvo, “sciolto”, “liberato” (ad esempio da una accusa), il termine “assoluto” indica qualcosa che è indipendente da altro, perfetto e compiuto in se stesso, che non ha bisogno di essere per esistere ed essere ciò che è, che non comporta e non sopporta alcuna restrizione e limitazione. 26 soggetto, sia la “forma” sia la “materia” della conoscenza, per utilizzare la terminologia kantiana. - L’Io-penso di Kant diventa così l’Io-assoluto di F. (Ichkeit), principio non solo del pensiero (“forma”) ma anche di ogni suo possibile contenuto (“materia”), un io che pertanto diviene infinito, come puntualizza Abbagnano: «Se l’io è l’unico principio, non solo formale, ma anche materiale del conoscere, se alla sua attività è dovuto non solo il pensiero della realtà oggettiva, ma questa realtà stessa nel suo contenuto materiale, è evidente che l’io è infinito. Tale è il punto di partenza di Fichte. Il quale è il filosofo dell’infinità dell’Io, della sua attività e spontaneità, quindi della sua assoluta libertà». - Dunque, nell’idealismo di F., l’Io è assolutamente libero, perché non esiste più nulla fuori di esso che possa limitarlo41. F. critica le filosofie che subordinano l’Io, il soggetto, all’oggetto (le chiama “dogmatiche”), perché le considera proprie di caratteri deboli e schiavi, disposti a tollerare una sudditanza dell’Io nei confronti d’una realtà indipendente da esso. L’idealismo, che F. oppone a tale dogmatismo è invece, a suo giudizio, garante della libertà e dell’indipendenza assolute dell’Io. - Sul piano gnoseologico F. dunque riconduce il dualismo kantiano soggetto-oggetto a una superiore unificazione: l’Io è il principio unico, libero e assoluto della conoscenza. L’Io di F. non si limita dunque, come riteneva Kant, a ordinare i dati che gli arrivano dalla realtà esterna (che così sarebbe autonoma e lo “limiterebbe”), bensì pone esso stesso davanti a sé la realtà come dato, la crea. Non è soltanto attività legislatrice, è atto creatore. - F. esprime la sua concezione attraverso le tre celebri proposizioni della Dottrina della scienza (la sua opera maggiore): a) L’Io pone se stesso; b) L’Io pone il Non-Io nell’Io; c) L’Io oppone nell’Io all’io divisibile il non-io divisibile. a) La prima proposizione sta a significare che l’Io è il principio primo di ogni sapere e di ogni realtà. La condizione essenziale di ogni conoscenza è dunque l’Io e non l’oggetto, come pretenderebbero i “dogmatici” (cfr. sotto). Principio di tutto è l’Io, il Soggetto42. 41 La filosofia di F. prende le mosse proprio da un’esigenza di natura etica, quella di garantire la libertà umana. Occorre cioè concepire la realtà in modo tale da garantire la più assoluta libertà dell'uomo: la fede nella libertà è alla base di tutto il pensiero di F. L'intuizione che permette a F. di soddisfare questa basilare esigenza del suo pensiero è la seguente: può darsi libertà dell'uomo soltanto se si ammette che l'Io è all'origine della realtà, soltanto se si ammette cioè che l'io è creatore. 42 Ogni scienza si fonda, su un principio fondamentale: ogni scienza è infatti il sistema delle proposizioni noncerte che si agganciano ad una proposizione certa “di base”. Anche la Dottrina della scienza di F. deve avere dunque un principio fondamentale, una verità di base indubitabile che costituisca il fondamento di ogni altra verità. Questo principio fondamentale non può essere, secondo F., il principio di identità (A=A), che pure è sempre stato considerato come il supremo fondamento del sapere: infatti esso appare a F. “ipotetico”, perché afferma che se A esiste, allora A =A. Occorre quindi risalire al di là del rapporto A/A, occorre “raggiungere” chi pone tale rapporto. In altre parole, primario rispetto all'affermazione A=A è chi la esprime, vale a dire l'Io. A 27 b) La seconda proposizione va compresa a due livelli, l’uno teoretico, l’altro etico: sotto il primo aspetto l’Io pone il Non-Io, l’oggetto, per potersi affermare quale soggetto conoscente (la conoscenza non può esaurirsi nell’autocoscienza, reclama cioè un oggetto, vuol divenire “oggettiva”); sotto il secondo aspetto, che, come si vedrà, è per F. fondamentale, la posizione del Non-Io da parte dell’Io è motivata dalla necessità che l’Io ha di affermarsi come “attività”, vale a dire come moralità. Infatti l’Io, la cui caratterizzazione primaria è la libertà, non potrebbe realizzare questa libertà se non avesse un ostacolo da rimuovere: l’attività morale presuppone infatti per F. l’esistenza d’un ostacolo da superare. L’Io pone dunque il non-Io per potersi realizzare quale “potenza etica”, cioè perché ha bisogno di un ostacolo, che gli consenta di affermarsi come attività etica. Se, per assurdo, l’Io non ponesse il Non-Io, sarebbe vanificata la sua fondamentale caratterizzazione etica43. c) La terza proposizione afferma che l’opposizione all’Io del Non-Io determina e definisce l’Io: dall’opporsi di Io e Non-Io derivano dunque i molteplici io e non-io empirici (ovvero i singoli uomini e le singole realtà empiriche). - Veniamo ora, in conclusione, alla concezione fichtiana dell’uomo e del suo compito ne mondo (nella quale si esprime chiaramente il carattere romantico del pensiero di Fichte). - L’io divisibile, cioè ciascun uomo, si trova contrapposto al non-io divisibile, cioè alla realtà empirica. Questa contrapposizione viene vissuta dall’uomo«come una sottrazione del proprio essere, come se un nemico avesse occupato una parte del suo territorio». La limitazione è dunque un ostacolo che va abbattuto per conquistare la pienezza dell’Essere: ogni Io deve cioè combattere una ininterrotta battaglia per riconquistare il suo “territorio”, battaglia che implica il superamento della contraddizione che l’Io stesso ha posto. In altri termini, l’io divisibile (“io empirico”) aspira a farsi Assoluto, a raggiungere la totalità assoluta dell’Essere. - Questo compito non può realizzarsi, secondo Fichte, attraverso un rifiuto ascetico del mondo, ma, al contrario, attraverso un continuo, incessante confronto con il mondo, attraverso cioè un’attività concreta che elimina, pezzo dopo pezzo, l’ostacolo che impedisce all’Io la sua realizzazione. Questa è la condizione reale fondamento del principio di identità c'è dunque l'Io che lo pone: ecco il principio fondamentale della Dottrina della scienza: Io sono. F. enuncia tale principio nella prima delle sue tre proposizioni: l'io pone se stesso. Nell'atto stesso in cui l'Io pone se stesso è affermato il principio d'identità: Io=Io. Dunque, il presupposto di ogni affermazione, di ogni sapere, di ogni scienza è l'affermazione dell'Io. 43 Schematicamente: a) Io = libertà ; b) libertà = azione (morale; c) azione = necessita un ostacolo da rimuovere; d) Io = pone un “ostacolo” che gli consenta di affermare la sua natura etica. Ecco perché si è soliti chiamare idealismo etico la filosofia di F.: essa infatti si basa sulla fondamentale affermazione della libertàattività dell’Io. 28 dell’uomo, il suo imprescindibile compito: realizzare la completa autonomia della ragione dalla sensibilità. Si tratta, ovviamente, di un compito infinito, come spiega Abbagnano: «L’infinito, per l’uomo, anziché consistere in una “essenza” già data, è, in fondo, un dover-essere e una missione (…) L’uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, ovvero una lotta inesauribile contro il limite, e quindi contro la natura esterna (le “cose”) ed interna (gli “istinti” irrazionali e “l’egoismo”) (…) Ovviamente, questo compito si staglia sull’orizzonte di una missione mai conclusa, poiché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (lo Streben dei romantici) riuscisse davvero a fagocitare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere, e invece del movimento della vita, che è lotta ed opposizione, subentrerebbe la stasi della morte. Al posto del concetto statico di perfezione, tipico della filosofia classica, con Fichte subentra quindi un concetto dinamico, che pone la perfezione nello sforzo indefinito di auto-perfezionamento: “Frei sein - sostiene Fichte - ist nichts, frei werden ist der Himmel”». Ascoltiamo, in conclusione, le parole del filosofo stesso: «Il fine ultimo dell’uomo è quello di sottomettere ogni cosa irrazionale e dominare libero secondo la sola sua legge, fine che non è affatto raggiungibile e tale deve eternamente rimanere se l’uomo non deve cessare di essere uomo per diventare Dio. Dallo stesso concetto di uomo ricaviamo che il suo fine è irraggiungibile e la via che porta ad esso infinita. Ma egli può e deve perpetuamente avvicinarsi ad esso e questo infinito avvicinarsi al fine è la sua missione di uomo, cioè di essere razionale e pur finito, sensibile e pur libero. Quel pieno accordo con se stesso si chiama perfezione nel più alto significato della parola; la perfezione è dunque il più alto e irraggiungibile fine dell’uomo e il perfezionamento infinito della sua missione. Egli esiste per divenire sempre migliore e per rendere tale tutto ciò che materialmente e moralmente lo circonda; di conseguenza per divenire sempre più felice» 5 - Schelling 1) Nel pensiero di S. è dominante è l’interesse per le tematiche filosofiche della natura, dell’arte e, in una seconda fase, della religione. 2) La filosofia di Fichte, incentrata sul principio dell’infinito, ha uno straordinario successo: esprime infatti un’esigenza fondamentale dello spirito romantico. Ancor più romanticamente, S. cerca di dare alla filosofia idealistica dell’infinito la capacità di fondare il mondo della natura e dell’arte: se Fichte aveva ricondotto tutto al soggetto, S. pensa a un Assoluto che non sia né pura oggettività né pura soggettività, ma fondamento e radice dell’una e dell’altra, un Assoluto allo stesso 29 tempo soggetto e oggetto, Spirito e Natura, unita’ e identita’ di entrambi i principi. 3) In Fichte non c’è nessuna considerazione positiva della natura: la concepisce infatti come mera negazione, come ostacolo che l’Io oppone a se stesso solo per permettere alla propria libertà di esprimersi. Di per sè, dunque, essa è un “puro nulla”. S., al contrario, ritiene che la Natura, non meno dello Spirito, sia dotata di vita e razionalità. Le attribuisce cioè tutti i caratteri propri dell’Io fichtiano: attività, finalità, libertà. Si coglie qui l’influsso del nuovo naturalismo romantico: come molti artisti romantici, S. concepisce la natura come realtà animata, come grande organismo vivente (“organicismo”≠ meccanicismo). 4) Per S. Natura e Spirito sono due momenti diversi ma convergenti dello stesso processo; si spiega così la duplice prospettiva del suo pensiero: alla filosofia della natura, che mostra come la Natura si risolve nello Spirito, si affianca la filosofia dello spirito (filosofia trascendentale), che mostra come lo Spirito si risolve nella Natura. 5.1) S. elabora la sua concezione della natura in esplicita opposizione al modello meccanicistico della scienza moderna, che, escludendo ogni considerazione finalistica, non sa cogliere l’unità profonda di tutti i fenomeni naturali, il loro derivare da un comune fondamento. Non serve, per S., ricercare metodicamente, come fanno gli scienziati, i legami che legano i fenomeni naturali l’uno all’altro: l’unità della natura va “romanticamente” colta in modo immediato e diretto, con una intuizione “totale”. Occorre una fisica speculativa che sappia andare oltre i limiti della ricerca sperimentale di tipo scientifico. 5.2) La natura è per S. un grande organismo, in cui ogni parte è connessa alle altre e che opera finalisticamente; tale finalismo non è imposto dall’esterno, ma agisce internamente alla natura stessa (si parla perciò di finalismo immanentistico). Nella natura si manifesta «un impulso creativo infinito che noi dobbiamo cogliere al di sotto dell’apparente staticità dei singoli oggetti» (Dal Pra). I singoli oggetti infatti sono solo le “coagulazioni” di questa infinita produttività, che sempre procede oltre le realtà singole, perché nessuna produzione finita può esaurirla. La natura appare così guidata internamente da una “programmazione intelligente”: S. parla di uno “Spirito” (di una entità spirituale inconscia) immanente nella Natura come forza organizzatrice e vivificatrice dei fenomeni. La natura costituisce dunque una totalità vivente in cui ogni cosa, compresa la materia inorganica, è dotata di vita. 5.3) La natura è vista da S. come spirito inconscio, «uno spirito inconscio in moto verso la coscienza … lungo un percorso che va dai minerali all’uomo … come 30 un’”odissea” dello spirito, il quale “si cerca” attraverso le cose, per giungere finalmente presso di sé, con l’uomo» (Abbagnano-Fornero). 6) La filosofia della natura procede dunque dal soggetto all’oggetto, chiarisce come la natura si risolva in spirito. Per S. tuttavia altrettanto importante è il processo opposto, quello che, andando dal soggetto all’oggetto, mostra come lo spirito si risolve in natura. Tale processo è l’argomento della Filosofia trascendentale. Tuttavia, come si deduce da quanto precede, la verità “completa” non sta né nella filosofia della natura né in quella trascendentale: l’Assoluto, infatti, non coincide né con la Natura né con lo Spirito né con la semplice somma di essi; l’Assoluto non é né soggettivo né oggettivo, né Io né Nonio, né consapevole né inconscio: esso è invece identità di queste due polarità. Ecco perché S. giunge, dopo la filosofia della natura e la filosofia trascendentale, alla Filosofia dell’identità. 7) Ma questo Assoluto, che è identità di Spirito e Natura, di Io e Non-io, come può essere conosciuto? S. propone una nuova soluzione di questo fondamentale problema, soluzione che ha valso alla sua filosofia la definizione di idealismo estetico. Il prodotto dell’arte appare a S. derivare al contempo dalla coscienza e dall’incoscienza, dalla libertà e dalla necessità. L’artista, infatti, quando crea, è da un lato preda d’una potenza inconsapevole che lo ispira, dall’altro traduce questo impulso inconscio in un’espressione meditata e cosciente. C’è dunque nell’attività artistica una fusione di inconscio (l’ispirazione) e conscio (l’esecuzione). Dunque la creazione artistica è caratterizzata da una convergenza di conscio e inconscio, di soggettivo e oggettivo: per questo suo carattere essa sembra a S. capace di cogliere la natura dell’Assoluto, costituendosi come «unico vero ed eterno organo della filosofia». Per il filosofo l’arte è allora ciò che di più alto esiste, perchè gli scopre «il misterioso santuario dove in eterna ed originaria unione arde quasi in un’unica fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato». L’Assoluto appare a S. una sorta di “artista cosmico”, che la cui infinita creatività si specifica in infinite figure; l’artista umano ripete, in sostanza, lo stesso processo e dunque incarna nel modo più perfetto la realtà dell’Assoluto: «Nella creazione estetica si ripete il mistero stesso della creazione del mondo da parte dell’Assoluto». 6 - Tesi fondamentali dell'idealismo hegeliano 31 a) RISOLUZIONE DEL FINITO NELL'INFINITO - La realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario, del quale tutto ciò che esiste è una parte o meglio una manifestazione. Questo organismo non ha nulla al di fuori di sé e coincide dunque con l'Assoluto, con l'Infinito; di esso i vari enti del mondo sono, come detto, manifestazioni; dunque il finito, come tale, non esiste: ciò che noi chiamiamo finito è in realtà una manifestazione, una “espressione parziale” dell'Infinito. La filosofia di Hegel è quindi caratterizzabile come "monismo panteistico": il mondo (= il finito) è la manifestazione dell’Assoluto (= l'Infinito)44. - L'Assoluto hegeliano è definibile come "Soggetto spirituale in divenire": non si tratta cioè di un dato, ma del risultato di un processo di autoproduzione, che soltanto alla fine d'un lungo itinerario giunge a rivelarsi per ciò che veramente è. b) IDENTITÀ DI RAGIONE E REALTÀ - Hegel chiama il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà Idea (o Ragione), significando con ciò che pensiero ed essere, realtà e ragione coincidono: questo indica la celebre affermazione hegeliana "ciò che è razionale è reale, ciò che reale è razionale". a) "Ciò che è razionale è reale" significa che la razionalità non è un'astrazione, uno schema teorico, un dover-essere astratto, ma la forma stessa di ciò che esiste; la Ragione infatti governa il mondo, lo plasma, lo costituisce, c'è dunque piena identità tra essere e dover-essere; b) "ciò che è reale è razionale" significa che la realtà non è una massa caotica di eventi privi di senso, ma il dispiegarsi d'un disegno razionale, nel quale tutto ha un significato. - Il mondo dunque appare nel sistema hegeliano come "razionalità dispiegata": essa si manifesta in una serie di momenti necessari, che non possono essere diversi da come sono. In altre parole: ogni momento della realtà ha una sua intrinseca, giustificante razionalità: la realtà è perciò una totalità processuale necessaria45. Da qualsiasi punto lo si guardi, il mondo presenta dunque, nel suo sviluppo, una serie di passaggi concatenati, di connessioni necessarie, che non potrebbero mai essere diverse da come sono: in tale serie ogni passaggio è il risultato di quelli precedenti e il presupposto di quelli successivi (esattamente come accade in un 44 Ricordo il significato dei due termini: monismo indica «le dottrine che tendono a ridurre la pluralità degli esseri a una sola sostanza, ossia, in termini più specifici, che affermano che l’universo è un’unica sostanza, o un unico essere, o atto, o processo» (FIRRAO); panteismo indica invece una dottrina (religiosa o filosofica) che non pone distinzione tra l’universo e Dio, che dunque sono identificati. Monismo e panteismo coincidono quando l’unica sostanza esistente è Dio (si parla allora di “monismo spiritualistico”); può esistere ovviamente anche un “monismo materialistico”, quando la sostanza unica di cui si afferma l’esistenza è non Dio ma la materia. 45 Totalità perché non esiste niente fuori di essa (monismo), processuale perché non è statica, ma intrinsecamente dinamica, necessaria perché ogni suo momento è indispensabile, 32 ragionamento, dove ogni affermazione è conseguenza di quella che la precede e premessa di quella che la segue). - Questa concezione definisce anche un particolare modo di intendere il compito della filosofia: essa non deve pretendere di guidare, determinare e neanche giudicare la realtà, (che, come detto, è perfettamente razionale); deve invece solo prendere atto della realtà cercando di comprenderne la struttura razionale; se pretende di dire come il mondo “dovrebbe essere” la filosofia arriva inevitabilmente “in ritardo”, arriva cioè quando la realtà ha già fatto il suo corso (è come la nottola di Minerva, dice H., che appare solo al tramonto); in altri termini, la filosofia non deve pretendere di imporre alla realtà un suo astratto schema razionale, deve invece cercare di cogliere la razionalità che sta dentro la realtà. c) LA DIALETTICA - Il concetto di dialettica è il centro motore della filosofia di H.; affonda le sue premesse nella concezione della realtà dome processo. Si è detto infatti che l'Assoluto non è, per H. statico, ma è divenire, processo, sviluppo: la legge che regola e spiega questo divenire è la dialettica. - Dato però che per Hegel pensiero e realtà coincidono, la dialettica governa sia lo sviluppo della realtà (ontologia) sia la comprensione di essa (logica). La dialettica dunque la legge suprema che spiega sia la realtà sia il pensiero. - La dialettica si articola in tre momenti: I) tesi: è la posizione (o affermazione) del concetto; II) antitesi: ogni posizione comporta però la negazione del concetto e il passaggio al suo opposto; III) sintesi: «tesi e antitesi sono però entrambe parziali e astratte; solo la loro unità (sintesi) consente infine di comprendere il vero nella sua essenza totale, di cui tesi e antitesi sono parti» (Sini). - Va ribadito che la dialettica non è solo la legge del pensiero, ma è la legge della realtà stessa: i suoi risultati non sono dunque puri concetti, concetti astratti, ma "pensieri concreti", cioè realtà vere e proprie. Annotazioni sulla dialettica hegeliana - Come gli altri filosofi idealisti, anche Hegel ritiene che nell’uomo si trovi una fondamentale aspirazione all’Assoluto, all’Infinito (siamo del resto in epoca romantica!). Questa brama di assoluto però non è, a suo avviso, soddisfatta dall'intelletto (che per Kant è invece l'organo del sapere scientifico)46; l'intelletto infatti fissa, cristallizza la 46 Hegel non accetta che la conoscenza umana sia limitata, come vuole Kant, al fenomeno, cioè al mondo finito (che per lui è del resto solo una manifestazione dell’infinito); come Schelling, egli ritiene dunque che il vero sapere sia la conoscenza dell'Assoluto, della realtà infinita, che sta alla base del mondo (finito) dei fenomeni. 33 realtà (e il pensiero), procedendo per distinzioni47. Ma la vita e il pensiero, che sono un incessante fluire, non si lasciano ingabbiare nei concetti, tendono sempre a superarli. (ogni tesi, potremmo dire, comporta un’antitesi e di qui scaturisce la sintesi). L'intelletto non è, secondo H., in grado di capire la realtà proprio perché, isolandone i vari momenti, li fa apparire fissi; la ragione invece riesce a cogliere e spiegare il movimento che è al cuore della realtà, la sua intrinseca (e dialettica) processualità. - C’è quindi una netta distinzione tra logica dell'intelletto e logica della ragione che svolge un ruolo decisivo nel pensiero di Hegel. Essa si affaccia già in alcune opere giovanili48 nelle quali Hegel critica sia Fichte sia Schelling: il primo ha il merito di cogliere l'opposizione come aspetto fondamentale della realtà (Io - Non io), ma non sa andare oltre questa opposizione; essa non può infatti essere superata ingigantendo un opposto (l'Io) rispetto all'altro, perché così non avviene nessun superamento dell'antitesi (il superamento richiede infatti che i due opposti siano in qualche modo "eliminati", "resi identici"). A Schelling, invece, Hegel riconosce il merito di aver concepito l'Assoluto come suprema identità (di soggetto e oggetto), ma lo critica perché, a suo giudizio, questa totalità è qualcosa di "oscuro" e "confuso", che proprio per questo può essere colto solo per via a-razionale e intuitiva (cioè attraverso l'arte). Già negli scritti giovanili H. afferma quindi la necessità di una nuova logica. Quella tradizionale sa infatti solo classificare e distinguere: le sfugge così il movimento vivo del pensiero. Gli elementi del pensiero non sono "bloccati" in posizioni fisse: essi costantemente trapassano l'uno nell'altro (la tesi nell’antitesi), raggiungendo una superiore unificazione (la sintesi). Il pensiero non è dunque una sequenza di concetti "fermi", ma un’attività che di continuo passa da un concetto al suo opposto. Il pensiero è cioè processo (e così è anche la realtà, che col pensiero, come sappiamo, coincide): va quindi rifiutata la tradizionale concezione “statica” della logica: occorre una nuova logica dinamica, che sia capace di mostrare come il pensiero "rompe" la fissità dei concetti isolati e "scorre" costantemente da un concetto al suo opposto e di qui alla sintesi dei due. 7- Marx Mentre però per Schelling è l'arte che permette all’uomo di accedere all'Assoluto, per Hegel l’accesso passa attraverso la ragione. 47 Usando un paragone moderno, potremmo dire che l’intelletto “fa una fotografia” della realtà, fermandone, “bloccandone” un determinato momento. Ma la realtà, secondo H., non è statica, ferma come una foto: è intrinsecamente e strutturalmente dinamica, come un film. 48 Ad esempio nello scritto intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e Schelling del 1801. 34 ◊ il pensiero di M. non può essere ritenuto soltanto filosofia, sociologia o economia: vuole infatti essere una interpretazione globale della realtà e della storia ◊ il pensiero di M. rifiuta di essere soltanto teoria che interpreta l’uomo e la realtà: vuole infatti essere capace di cambiare la realtà a vantaggio dell’uomo, trasformandosi da teoria in azione, prassi (e prassi rivoluzionaria) ◊ il pensiero di M. è profondamente influenzato da quello di Hegel, anche se prende una strada assai diversa; M. critica H. perché ritiene, come già Feuerbach, che la filosofia idealistica capovolga il corretto rapporto tra soggetto e predicato, tra concreto e astratto, tra realtà e pensiero: infatti l’idealismo afferma che la realtà (concreta) è manifestazione del pensiero (astratto); dopo avere costruito il concetto di Spirito partendo dalla realtà, Hegel fa della realtà la manifestazione dello Spirito ed in questo consiste la sua “mistificazione logica”, di fronte alla quale occorre ripristinare il corretto rapporto tra le due parti: ciò che l’idealismo ha capovolto va “ri-capovolto” riconoscendo il vero soggetto e il vero predicato. H. fa dell’Idea il soggetto e dell’uomo, con i suoi bisogni concreti, il predicato: occorre capovolgere questo rapporto - M. critica Hegel anche sul terreno strettamente politico: l’hegelismo infatti è una forma di giustificazionismo: considerando la realtà come manifestazione dello Spirito, Hegel la giustifica tutta (“tutto il reale è razionale”), cioè conferisce valore e razionalità al dato di fatto, a ciò che esiste; ogni forma politica, quindi, anche la più repressiva e illiberale, appare legittima e anzi necessaria - M. riconosce tuttavia a Hegel grandi meriti, soprattutto perché ha saputo cogliere la struttura dialettica della realtà: la realtà è una totalità storicoprocessuale, cioè un divenire che si attua e si realizza nel tempo, non un dato fissato e statico, e questo divenire procede per opposizioni, è dialettico; M. condivide con Hegel questa concezione della realtà come processo che è mosso dalle antitesi, dai conflitti (cioè come processo dialettico), ma - come vedremo non pensa che si tratti di un processo concettuale, ma di un processo reale, concreto. ◊ M. critica in modo radicale la civiltà moderna e lo stato liberale, contrapponendo ad essi il modello comunista; lo Stato moderno (liberale-borghese ) si presenta come tutore degli interessi comuni, ma in realtà è solo lo strumento delle classi economicamente più forti; persegue solo gli interessi particolari di queste classi, non il bene comune; nella società moderna va perduta l’armonica unità tra il cittadino e la comunità che c’era, per esempio, nel mondo greco: il singolo è separato dalla collettività, ognuno cerca solo il proprio interesse individuale; 35 questa è, secondo M., la realtà che si cela sotto le pretese conquiste del liberalismo, cioè libertà (individuale) e proprietà (privata); M. pensa ad uno Stato del tutto diverso, in cui singolo e collettività si armonizzino alla perfezione; per realizzarlo tuttavia occorre eliminare ogni disuguaglianza tra gli uomini, il che significa in primo luogo eliminare la proprietà privata, che è (come in Rousseau) l’origine di ogni disuguaglianza; la vera democrazia coincide dunque con la vera uguaglianza e la vera uguaglianza con il comunismo cioè con l’eliminazione della proprietà privata. ◊ M. critica aspramente i teorici dell’economia borghese, gli “economisti classici”, perché pretendono di far passare per eterne quelle che definiscono “leggi della produzione economica” in generale, ma che in realtà sono leggi della produzione economica del sistema capitalistico; in altre parole, essi presentano come leggi eterne dell’economia quelle che in realtà sono le leggi del capitalismo, facendo passare il capitalismo non come un sistema economico fra i tanti, ma come il sistema “naturale” di produzione e distribuzione della ricchezza. ◊ In realtà, secondo M., il sistema capitalistico è destinato ad essere superato perché ha al suo interno profonde contraddizioni che ne rendono necessario il superamento. M. recupera (come si diceva più sopra) la dialettica hegeliana (cioè la concezione per cui la realtà si “muove” per contraddizioni), soltanto che non la applica più, come Hegel, allo sviluppo dello spirito, ma al concreto della storia umana. Torneremo più avanti su questo punto fondamentale; per ora diciamo che M. analizza la struttura contraddittoria della società capitalistica attraverso il concetto di alienazione; mentre per Feuerbach l’alienazione è un fatto che riguarda la coscienza dell’uomo e che dipende da un’errata interpretazione che l’uomo stesso dà di sé, per M. essa è un fatto reale e concreto, di natura sociale ed economica, collegato alle condizioni materiali di lavoro dell’operaio nella società capitalistica: è la condizione del “lavoro alienato”, che possiamo riassumere come segue: l’uomo ha nella sua essenza il lavoro, è il lavoro che gli permette di realizzarsi, ma un lavoro libero e creativo; nella società capitalistica il lavoro però non è più realizzazione dell’uomo, ma alienazione, perché a) il lavoratore non entra mai in possesso del frutto del suo lavoro, che gli viene costantemente sottratto; b) del suo lavoro e del frutto di esso si impossessa un potere estraneo, che ne trae profitto: il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione. Dunque il meccanismo produttivo dell’economia capitalistica riduce l’operaio a strumento per produrre una ricchezza che non gli appartiene e che, anzi, si erge di fronte a lui come estranea e nemica. Questo meccanismo perverso è determinato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, grazie alla quale il proprietario della 36 fabbrica (il capitalista) usa il lavoro degli operai per aumentare la propria ricchezza. Per superare l’alienazione del lavoro, quindi, occorre abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione49. ◊ M., come abbiamo visto, riprende da Feuerbach il concetto di alienazione, ma allo stesso critica il suo precursore perché lo ritiene poco attento alla dimensione storica dell’uomo; infatti, F. (che pure ha avuto il grande merito di portare il discorso filosofico sull’uomo concreto, uscendo dall’astrattezza dell’hegelismo), ha parlato dell’uomo “in generale”, non capendo che l’uomo è il prodotto della società in cui vive; secondo Feuerbach, l’uomo “in quanto tale” produce la religione ponendo fuori di sé perfezioni che sono solo sue (meccanismo dell’alienazione), ma qui sta l’errore: non è l’uomo “in quanto tale” che produce religione, ma l’uomo schiavo, sfruttato, oppresso. M. elabora la sua celebre interpretazione della religione come “oppio del popolo” proprio partendo dalla considerazione dell’uomo che vive in società che lo schiavizzano, non da un concetto generale, astratto di “umanità” (come aveva fatto Feuerbach). Solo un uomo schiavo ha bisogno di immaginare un aldilà, un “altro mondo” in cui poter essere libero e felice; la religione non è un prodotto dell’umanità in quanto tale, ma dell’umanità in quanto schiava: quindi per eliminare l’alienazione religiosa non basta un critica filosofica della religione: occorre agire sulla società, cambiarne le strutture socio-economiche. Quando l’uomo sarà liberato, non più schiavo, non produrrà più religione (perché non ne sentirà più il bisogno) ◊ Il pensiero di M. elabora una nuova concezione della storia, destinata ad influire potentemente su tutta la cultura occidentale (e non solo). Occorre, dice M., cogliere il movimento reale della storia, cercare il concreto del divenire storico. Per far ciò bisogna rendersi conto che a guidare la storia non sono (come si è sempre creduto) le idee, ma il concreto agire degli uomini (praxis) che, partendo da determinate condizioni (materiali), le modificano per soddisfare i loro bisogni primari. La storia è dunque un processo materiale, basato sul soddisfacimento dei bisogni concreti dell’uomo: per poter “fare la storia” gli uomini devono essere in grado di vivere, ma il vivere - scrive M. - «implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della stessa vita materiale». La base della storia si trova pertanto nel modo in cui l’uomo realizza la 49 Tutto ciò può essere espresso nei termini della dialettica: l’alienazione del lavoro è una contraddizione che alberga nel cuore dell’economia capitalistica: la società capitalistica nega l’essenza dell’uomo perché gli impedisce di realizzarsi attraverso il lavoro; questa negazione (antitesi) richiede di essere superata e il superamento non può che essere la società comunista, che è negazione di quella capitalistica (cioè “nega la negazione”). 37 sua vita materiale: in ciò che egli produce e in come lo produce50. Da quanto precede deriva un’importantissima conseguenza: le idee (quello che l’uomo pensa) sono il riflesso delle condizioni materiali in cui vive e non i princìpi che muovono la storia; non bisogna quindi spiegare la vita materiale partendo dalle idee, ma - al contrario - spiegare le idee partendo dalla vita materiale. E’ questo il principio fondamentale del materialismo storico: per capire la storia bisogna analizzare gli aspetti materiali della vita umana perché le forze motrici della storia non sono di natura spirituale (non sono “idee”), ma di natura socioeconomica; nella determinazione dei fatti umani, il ruolo decisivo spetta ai fattori di ordine economico e sociale. ◊ Questa lettura della storia ha alla sua base la fondamentale distinzione tra struttura e sovrastruttura, che fornisce a M. il criterio essenziale di interpretazione dei fatti umani e culturali. La “struttura” è costituita dalle forze produttive e dai rapporti di produzione51: le forze produttive sono gli uomini che producono e i mezzi che essi usano per produrre (“mezzi di produzione”); i rapporti di produzione sono i rapporti che si instaurano tra uomo e uomo nel processo produttivo e che definiscono il possesso dei mezzi di produzione, la loro utilizzazione e la ripartizione di ciò che per loro tramite viene prodotto. L’insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione costituisce la base economica della società, che Marx chiama “struttura” (Bau); essa è il piedistallo su cui si basa il complesso delle concezioni giuridiche, politiche, filosofiche, religiose, artistiche (in generale la “cultura”), complesso che M. chiama “sovrastruttura” (Überbau). Dunque, secondo il materialismo storico di M., rapporti giuridici, idee filosofiche, religiose, morali, artistiche, ecc. non sono (-> Hegel) realtà autonome, a sé stanti, ma espressione dei rapporti produttivi che definiscono la struttura socioeconomica: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza…»52. Non dunque le leggi, le idee politiche, le religioni, ecc. determinano la struttura 50 L’uomo infatti si differenzia dall’animale proprio perché produce i suoi mezzi di sussistenza: alla base della storia umana vi è dunque il lavoro, che permette all’uomo di emergere dalla condizione animale e di creare civiltà e cultura 51 Cfr. Abbagnano, pp. 228 - 230. 52 E, dunque, nella società capitalistica, caratterizzata dalla proprietà privata, diritto, dottrina dello stato, filosofia, arte e religione (cioè gli elementi della “sovrastruttura”) da un lato sono espressione della struttura economica basata sulla proprietà privata, dall’altro sono volti a giustificare e perpetuare la proprietà privata stessa. Quindi: il diritto definisce la proprietà privata (ciò che è mio e ciò che è tuo), lo stato - col suo potere esecutivo - fa osservare ciò che il diritto definisce (e diventa così uno “stato-gendarme”), la filosofia è l’impianto teorico che cerca di giustificare razionalmente l’esistenza di un tale diritto e di un tale stato. Le ideologie quindi, per un verso, derivano dalla struttura economica della società (ne sono, come detto, espressione), per l’altro, sono utilizzate al fine di giustificare tale struttura. 38 economica della società (come vorrebbe l’idealismo); al contrario, la struttura economica della società determina leggi, idee politiche, religioni53. ◊ Le forze produttive e i rapporti di produzione permettono dunque di interpretare la società nella sua forma statica, nel suo essere; rendono però anche possibile la comprensione della società nella sua forma dinamica cioè nel suo divenire. Sono infatti la “molla” del suo cambiare, del suo muoversi nel corso della storia. Secondo M. le forze produttive si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione: questo genera all’interno della società una contraddizione dialettica, che richiede di essere superata. Infatti, si verifica nella storia delle società umane che emergano nuove forze produttive, incarnate da una classe in ascesa, mentre i rapporti di produzione restano quelli vecchi, incarnati da una classe dominante ormai giunta “al tramonto”. Lo scontro è inevitabile perché questo conflitto deve risolversi: di solito è la nuova classe a vincerlo54. Facciamo un esempio: nella Francia del XVIII secolo c’è conflitto tra le nuove forze produttive, incarnate dalla borghesia, e i vecchi rapporti di proprietà, incarnati dall’aristocrazia. Di qui lo scontro e la rivoluzione che porta al potere la classe borghese. Nella società capitalista M. vede un’analoga contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione: infatti il capitalista è proprietario “privato” dei mezzi di produzione, ma essi funzionano solo grazie al lavoro “sociale” degli operai: se tuttavia la produzione della ricchezza è “sociale”, tale deve essere anche la sua distribuzione.. Dunque, secondo M., l’intima contraddizione del capitalismo porta “in sé” il socialismo, che ne é la risoluzione. M. interpreta dunque la storia in modo dialettico, perché dice che il motore della storia è dato dalle contraddizioni di carattere socio-economico che si verificano nella società. Si parla perciò di materialismo dialettico. Viene così recuperata la dialettica di Hegel, non più intesa però come legge del pensiero, ma come legge della realtà concreta e del suo divenire storico55. La storia è una totalità processuale dialettica mossa dalle contraddizioni e volta al raggiungimento di un “risultato finale”. ◊ Basandosi su queste idee M. critica la sinistra hegeliana, accusandone i rappresentanti di essere degli “ideologi”: essi infatti vogliono cambiare le “idee”, 53 M. dunque non usa il termine “materialismo” nel senso che abitualmente esso ha in filosofia (dottrina per cui la materia è sostanza e causa delle cose), ma per affermare che la storia è mossa non da idee, ma da fattori di carattere economico e sociale. 54 Si spiega così la famosa espressione di M. per cui “la storia è storia di lotte di classe”: forze produttive e rapporti di produzione si incarnano infatti in classi; la loro contraddizione significa opposizione di classi. 55 M. dice espressamente che occorre “capovolgere” la dialettica hegeliana mettendo i piedi al posto della testa e viceversa: soggetto della dialettica è infatti non lo Spirito, ma la struttura economica della società e i rapporti tra le classi; le opposizioni (tesi-antitesi) che muovono la storia non sono astratte, ma concrete, materiali. 39 convinti che così cambieranno anche le condizioni concrete di vita dell’uomo, ma non si rendono conto che così facendo agiscono non sulla causa, ma sulla conseguenza. E’ inutile cercare di modificare la sovrastruttura se non si agisce sulla struttura che la determina.. La vera alienazione dell’uomo non è quella delle idee, ma risiede nella concreta situazione in cui vive. ◊ Nel suo maggior scritto di carattere economico, Il Capitale, M. analizza la società capitalistica cercando di metterne in luce le caratteristiche essenziali e il meccanismo strutturale. Fondamentale in questo contesto è la teoria del valore, che possiamo schematizzare come segue: - M. inizia la sua analisi dalla “merce”: essa è qualcosa che, grazie alle sue proprietà, può essere utilizzato per soddisfare un bisogno; è dunque “utile” e questa sua utilità fa di essa un “valore d’uso”; - dal “valore d’uso” occorre distinguere il “valore di scambio”: oltre che usata, la merce può infatti essere anche scambiata con altre merci; il valore di scambio determina la proporzione quantitativa che regola lo scambio delle merci (es. due braccia di seta per uno staio di grano, rapporto quantitativo 2/1); - questo rapporto quantitativo da che cosa è determinato? Che cos’hanno in comune le diverse merci che le rende scambiabili secondo un determinato rapporto quantitativo? Secondo M; è il fatto che esse sono (tutte) prodotte dal lavoro; tra la seta e il grano, ciò che c’è di comune è il lavoro che serve a produrli; ecco perché posso definire una proporzione di scambio tra due cose così diverse; il valore di scambio è dunque collegato alla quantità di lavoro che occorre per produrre le merci; - nelle società precapitalistiche il lavoratore vende il prodotto del suo lavoro; nella società capitalistica, invece, vende il suo lavoro, che diventa quindi esso stesso una merce; M. lo chiama “forza-lavoro”: l’operaio vende la sua forza-lavoro in cambio del salario che il capitalista gli dà; - però, la forza-lavoro è una merce diversa da tutte le altre perché non solo “è” valore, ma “produce” valore; orbene, il capitalista paga la forza-lavoro non sulla base del valore che essa produce, ma sulla base del suo valore, come si fa con ogni altra merce; come per ogni altra merce, il valore della forza-lavoro è definito dalla quantità di lavoro necessaria a produrla: in questo caso dai mezzi di sostentamento necessari per mantenere in vita l’operaio; da tutto ciò deriva che c’è una netta differenza tra il salario che viene pagato all’operaio (basato sulle sue necessità di sopravvivenza) e il valore della merce prodotta dal lavoro dell’operaio; questo “di più” è chiamato plusvalore e viene incamerato dal capitalista che così vede aumentare la sua ricchezza. 40 Questionario: Schopenhauer, Feuerbach, Marx, Kierkegaard Schopenhauer - che cosa differenzia la concezione schopenhaueriana della dualità fenomenonoumeno da quella kantiana? (ovvero: come interpreta S. la distinzione fenomenonoumeno - e il rapporto tra i due - in confronto con il pensiero di Kant?) - che cosa intende S. con la metafora del “velo di Maya”? - quali analogie e quali differenze sono riscontrabili tra il pensiero di S. e quello di Kant (fenomeno-noumeno, forme a priori, ecc.)? - come è possibile per l’uomo, secondo S., l’accesso al noumeno? - quale verità si evidenzia nel momento in cui l’uomo riesce a rompere il “velo di Maya” (cioè ad accedere alla realtà noumenica)? - che cosa intende S. per “volontà di vivere”? - quali sono i caratteri della “volontà di vivere”? - descrivi il pessimismo di S. e i suoi fondamenti teorici - perché S. afferma che “vivere è soffrire”? come caratterizza il piacere? perché la sua concezione della felicità umana è “negativa”? come caratterizza S. le alternative che contraddistinguono la vita dell’uomo - perché quello di S. è un pessimismo “cosmico”? - quali sono e come si caratterizzano le vie di liberazione dal dolore descritte da S.? - perché S. rifiuta il suicidio? - come caratterizza S. l’arte? perché ritiene che possa essere un rimedio contro il dolore dell’esistenza? quali sono i limiti di questo rimedio? - come caratterizza S. la “via” della compassione? perché la compassione rappresenta una via di liberazione dal dolore? quali ne sono i limiti? - come caratterizza S. la via dell’ascesi? quali tappe la contraddistinguono? che cosa intende S. per “nirvana”? - quali elementi e temi di carattere romantico sono identificabili nella filosofia di S.? - quali critiche muove S. alla filosofia di Hegel? Feuerbach - Marx - spiega la distinzione tra destra e sinistra hegeliana (ovvero: su quali aspetti del pensiero di Hegel verte la discussione tra destra e sinistra hegeliana?) 41 - da quale esigenza di fondo muove il pensiero di Feuerbach? perché critica l’impostazione idealistica della filosofia? - come sviluppa F. la sua critica della religione? che cosa è Dio, secondo l’analisi che F. fa della religione? come si origina l’idea di Dio, secondo lui? - come si struttura l’alienazione religiosa? che cosa intende F. per alienazione? come ne descrive il meccanismo? - perché, secondo F. l’ateismo è un “imperativo filosofico e morale”? - che cosa critica F. nel pensiero di Hegel? perché, a suo avviso, l’idealismo ha un carattere alienante? - come va inteso l’ “umanismo” di F.? che cosa significa la celebre massima “l’uomo è quello che mangia?” (ovvero: che cosa afferma la teoria feuerbachiana degli alimenti?) - che cosa riprende M. del pensiero di Hegel e che cosa, invece, critica? - perché M. critica il moderno stato liberale? - perché M. critica i teorici dell’economia borghese? - come caratterizza M. l’alienazione? in che cosa si differenzia a questo proposito da Feuerbach? (vedi anche sotto) - che cosa si intende per materialismo storico? come interpreta M. la storia? quali sono secondo M. le forze motrici della storia? - spiega la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura - cosa sono le forze produttive e i rapporti di produzione (ovvero: da che cosa è composta la struttura della società)? - che cosa si intende per materialismo dialettico? come spiega M. il divenire storico delle società? quali sono le contraddizioni interne della società capitalistica? - perché M. critica la sinistra hegeliana? che cosa condivide e che cosa contesta del pensiero di Feuerbach? in che cosa si differenzia la sua analisi della religione da quella di Feuerbach? - che cosa afferma la teoria marxiana del valore sviluppata nel Capitale? che cos’è il plusvalore? Kierkegaard - quali vicende caratterizzano la vita di K? - quali sono le caratteristiche principali del pensiero di K? - che cosa intende K. per “possibilità”? come caratterizza K la “possibilità”? - che cosa intende K per “punto zero”? 42 - che cosa indica il fatto che K abbia pubblicato le sue opere utilizzando degli pseudonimi? - che ruolo svolge la fede nel pensiero di K? - quali sono le critiche di fondo che K muove all’idealismo? (ovvero: quali istanze contrappone K alla filosofia hegeliana?) - che cosa sono e quali sono gli “stadi” dell’esistenza umana? come li caratterizza K? - qual è il tema di Aut aut? come descrive K lo “stadio estetico”? perché fallisce la vita “estetica”, a quale condizione esistenziale conduce? come si caratterizzano la noia e la disperazione? - che cosa intende K per “vita etica”? come caratterizza K questa modalità dell’esistenza? a quale esito conduce sul piano esistenziale la vita “etica” (ovvero: che cosa intende K per “pentimento”?) - come si giunge dalla vita “etica” alla vita “religiosa”? (come si caratterizza cioè il passaggio tra queste due modalità dell’esistenza?) qual è il significato della figura di Abramo in Timore e tremore? come caratterizza K il rapporto tra religione e morale? come viene descritta da K l’esperienza della fede? (ovvero: cos’è per K la fede? come caratterizza l’esperienza cristiana?) - che cosa intende K per “angoscia”? come caratterizza K l’angoscia? che ruolo le assegna nell’esperienza esistenziale dell’uomo? perché, secondo K, l’angoscia è la caratteristica più peculiare della condizione umana? - che cosa intende K per “disperazione”? cosa differenzia la disperazione dall’angoscia? quale rimedio definisce K per superare la condizione dell’angoscia (e perché)? 43