I.S.S. “ P. P. PASOLINI”
Milano
_____________________________________________
FILOSOFIA
CLASSI QUINTE - INDIRIZZO LINGUISTICO
Dispense a cura
del prof. Fabio Maria Pace
_____________________________________________
anno scolastico 2010-2011
1
1 - KANT
A) Introduzione generale al criticismo kantiano
◊ La filosofia di K. è detta criticismo perché (in esplicita contrapposizione al
dogmatismo) è incentrata sulla critica, cioè sulla valutazione analitica del
fondamento, della possibilità, della validità e dei limiti della conoscenza umana.
“Criticare” significa per K., conformemente all’etimologia greca, giudicare,
distinguere, valutare, cioè interrogarsi sulle condizioni che rendono possibile la
conoscenza, sulla validità di essa, sui limiti di tale validità.
◊ Fondamentale nel criticismo kantiano è la concezione del limite: il criticismo è
una “filosofia del limite”: mira infatti a definire validità e confini della conoscenza
umana.
◊ Si riconosce qui l’influsso dell’empirismo inglese, in particolare di Locke, che
aveva affermato la necessità di stabilire, in via preliminare, ambito e portata della
conoscenza umana (cfr. l’Epistola al lettore premessa al Saggio sull’intelletto
umano).
◊ Occorre tuttavia sottolineare che il criticismo di K. non conduce allo scetticismo:
stabilire i limiti della conoscenza non significa infatti negarle ogni validità, ma, al
contrario, garantire - entro quei limiti - quella validità. In tal senso, K. appare
lontano da Hume: nell’ambito che le è proprio, e che va rigorosamente definito, la
conoscenza umana ha piena validità. (E’ tuttavia proprio studiando Hume che K.
matura i principi essenziali dalla sua riflessione sulla conoscenza: dirà che Hume lo
aveva destato dal “sonno dogmatico”)
◊ La critica di Hume al concetto di causalità mette in crisi i fondamenti stessi del
sapere umano, non solo quello metafisico, ma anche quello scientifico: K. cerca di
approdare, attraverso la sua analisi critica della conoscenza, una nuova fondazione
delle scienze.
◊ La Critica della ragion pura vuol essere uno studio dei fondamenti del sapere:
dato che il sapere all’epoca di K. è costituito essenzialmente da scienza e
metafisica , la Critica è di fatto un esame di queste due attività conoscitive. Essa
vuole indagare, per così dire, il “funzionamento” delle scienze e accertare se tale
“funzionamento” sia applicabile alla metafisica. Bisogna, dice K., «che la ragione
… istituisca un tribunale che le assicuri le sue legittime pretese e possa per contro
condannare … tutte le pretese infondate»
◊ Non è vero quindi quanto spesso si afferma, cioè che Kant si sia posto il problema
se la ragione umana abbia valore, se essa cioè possa o meno conoscere la verità:
sarebbe infatti una ricerca assurda perché con che cosa la si può fare, se non con
2
la stessa ragione? Ed è mai possibile che in un processo il giudice sia al contempo
l’imputato? Ovviamente no.
◊ In realtà Kant non imposta la questione in questi termini: non si domanda se la
ragione abbia valore, ma se alcune conoscenze abbiano valore: sono le conoscenze
metafisiche. Se infatti si guarda alla storia della metafisica, questa domanda si
pone automaticamente: non esiste infatti la metafisica allo stesso modo di come
esiste la matematica o la fisica. Di metafisiche ne esistono tante: si discute da
millenni senza mai approdare a una soluzione unica. Questo significa che la ragione
umana naufraga quando si applica alla metafisica; ciononostante l’uomo è “malato
di metafisica”, che è per lui un bisogno insopprimibile.
◊ Dunque il problema che K. si pone nella Critica della ragion pura (CRP) è quello
della possibilità della metafisica. La domanda fondamentale è pertanto: «E’
possibile la metafisica come scienza?»
◊ Per rispondere a questa domanda, K. analizza le scienze in cui la ragione riesce
efficacemente nel suo compito: vuole cioè vedere come “funziona” la ragione
quando “funziona bene”; dopo si tratterà di vedere se questo “funzionamento”
può essere applicato alla metafisica. Occorre dunque esaminare le scienze che,
con i loro successi, dimostrano il corretto funzionamento della ragione: le scienze
empirico-matematiche che, da Galilei a Newton, hanno fatto passi da gigante.
◊ C’è poi un’altra questione essenziale - già ricordata - che “muove” la riflessione
di K. sulla conoscenza: proprio mentre le scienze progrediscono trionfalmente,
l’empirismo, portato da Hume alle sue estreme conseguenze logiche, si risolve in
scetticismo. E così una filosofia che assumeva come modello le scienze aveva finito
con l’affermarne l’impossibilità. E’ un problema che K. sente molto: l’empirismo,
se svolto con coerenza, diventa scetticismo.
◊ Torniamo ora alle scienze e al modo in cui la ragione le elabora, al modo in cui
essa efficacemente “funziona”. Il sapere, dice Kant, è fatto di giudizi, pensare è
giudicare: ogni ragionamento serve a raggiungere una conclusione, che è appunto
un giudizio. I giudizi sono di due tipi: analitici e sintetici.
a. Il giudizio analitico è quello in cui il predicato si ottiene dalla semplice analisi
del soggetto; non fa che sviluppare il soggetto, nel quale è infatti già contenuto. Si
tratta di giudizi che ovviamente non accrescono la nostra conoscenza delle cose,
che non ci dicono niente di nuovo sulla realtà. Essi sono universali e necessari (cioè
rigorosi, assoluti), ma non estendono il sapere. Sono indipendenti dall’esperienza,
non dicono nulla di essa, non derivano da essa: sono a-priori rispetto
all’esperienza.
3
b. Il giudizio sintetico è invece quello in cui il predicato non discende dal
soggetto, ma “fa sintesi” col soggetto (di qui il nome); in questi giudizi
l’attribuzione del predicato al soggetto non deriva dal soggetto stesso (come negli
analitici) ma deriva dai fatti che verifichiamo nell’esperienza. Si tratta dunque di
giudizi che estendono il nostro sapere, ma che non sono né universali né necessari
proprio perché derivano dall’esperienza: sono a-posteriori rispetto ad essa. E’
infatti ovvio, come ben ha dimostrato Hume, che le conoscenze derivanti
dall’esperienza non possono essere né universali (sono sempre particolari) né
necessarie (negarle non implica contraddizione).
◊ La scienza però: a) deve essere un accrescimento del nostro sapere, deve dirci
cioè qualcosa di nuovo sulla realtà (come i giudizi sintetici a posteriori); b) deve
essere oggettiva, universale, necessaria (come i giudizi analitici a priori). E’ allora
necessario un terzo tipo di giudizio, che abbia allo stesso tempo caratteristiche di
novità e di oggettività: Kant lo chiama giudizio sintetico a priori. E’ questo un
giudizio nel quale il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (così la
conoscenza si estende, cresce), ma viene attribuito al soggetto in modo necessario
e universale (così la conoscenza è rigorosa e assoluta).
◊ Quindi il problema che Kant si pone, cioè quello di come è possibile una vera
scienza, può essere formulato in questi termini: come sono possibili giudizi
sintetici a priori?
◊ Facciamo adesso qualche esempio:
- giudizio analitico a priori (universale e necessario ma non accresce la nostra
conoscenza) = “i corpi sono estesi”; nel concetto di “corpo”, infatti, è incluso
quello di “estensione” (qui come si diceva, il predicato deriva dall’analisi del
soggetto); non ho bisogno dell’esperienza per arrivare a questo giudizio, che infatti
è a-priori1.
- giudizio sintetico a posteriori (accresce la nostra conoscenza ma non è universale
e necessario) = “i corpi sono pesanti”; nel concetto di “corpo”, infatti, non è
incluso quello di “pesante” (quindi il predicato “fa sintesi” col soggetto); è un
giudizio che deriva dall’esperienza, cioè è a-posteriori, e proprio per questo non è
universale né necessario2.
1
Scrive Kant: «Che un corpo sia esteso è una proposizione che vale a priori e non è un giudizio di esperienza.
Infatti, prima di rivolgermi all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale
posso trarre il predicato in virtù del principio di contraddizione…»
2
Scrive Kant: «Nel concetto di corpo in generale io non includo il predicato della pesantezza. posso prima
conoscere il concetto di corpo analiticamente mediante le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma,
ecc. che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e, rivolgendomi di nuovo
all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo costantemente collegata con le note precedenti
4
- giudizio sintetico a priori = “tutto ciò che accade ha una causa”; qui il predicato
dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (è “sintetico”), ma lo dice in modo
universale e necessario, cioè in un modo che non può derivare dall’esperienza (è
“a-priori”)3.
◊ Secondo Kant la scienza si fonda su giudizi sintetici a priori, che non derivano
dall’esperienza e sono perciò universali e necessari. Questi giudizi costituiscono la
“spina dorsale”, la struttura portante della scienza, cioè l’elemento che le
conferisce universalità e rigore, senza il quale essa si dovrebbe costantemente
muovere nell’incertezza e nella relatività. Il cuore di tutta la dottrina kantiana
della scienza (epistemologia) sta proprio qui: senza principi assoluti di fondo la
scienza non esisterebbe, in quanto il ricercatore, come ha ben dimostrato Hume,
brancolerebbe ad ogni passo nel buio, non sapendo, per esempio, se anche in
futuro ogni cosa che accade avrà una causa. Invece, afferma Kant, lo scienziato è
ad ogni passo sicuro a priori di verità fondamentali che gli assicurano la base per il
suo lavoro di ricerca. Tocca poi all’esperienza, come si vedrà, “riempire” quelle
verità di base con contenuti specifici. La scienza dunque nasce dalla combinazione
dei giudizi sintetici a priori e dei dati forniti dall’esperienza. Per fare un esempio:
la verità universale e necessaria (cioè il giudizio sintetico a priori) “tutto ciò che
accade ha una causa” viene, tramite l’esperienza, “riempito” di contenuti
specifici, che ci dicono qual è la causa di questo o di quel fenomeno. Il principio
però in quanto tale, non deriva dall’esperienza. Dunque la scienza acquisisce
sempre nuove informazioni attraverso l’esperienza (cioè a-posteriori) ma le
inquadra sulla base di principi di fondo assoluti che dall’esperienza non dipendono
(sono a-priori).
◊ A questo punto è essenziale comprendere da dove provengono questi principi di
fondo che permettono alla conoscenza scientifica di essere rigorosa. Come detto,
essi non derivano dall’esperienza, che si limita a “riempirli” di contenuti specifici:
da dove derivano? Qual è allora l’origine dei giudizi sintetici a priori?
◊ Per rispondere a questa domanda, K. opera, riprendendo il lessico aristotelico,
una distinzione tra materia e forma della nostra conoscenza. La prima ci è fornita
anche quella di pesantezza, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza
si fonda quindi la possibilità della sintesi del predicato della pesantezza col concetto del corpo»
3
Si potrebbe pensare che questo giudizio derivi dall’esperienza, ma, secondo Kant, non è così: infatti
l’esperienza al massimo ci mostra che questo o quel fatto che accade ha questa o quella causa; il principio
generale per cui tutto ciò che accade ha una causa va invece al di là dell’esperienza, non ne deriva, è a-priori
rispetto all’esperienza. Proprio per questo suo non derivare dall’esperienza è necessario e universale.
5
dalle molteplici impressioni sensibili che ci vengono dall’esperienza, la seconda
dalle strutture fisse della nostra mente, grazie alle quali noi organizziamo
l’insieme caotico delle impressioni sensibili. K. ritiene infatti che la mente umana
organizzi i dati dell’esperienza mediante strutture innate (comuni ad ogni uomo),
che chiama forme a priori, intendendo con tale espressione sottolineare che esse
non derivano dall’esperienza, ma, al contrario, la precedono e la rendono
possibile. Tali strutture, o forme, sono condivise da ogni uomo e dunque risultano
fornite di validità universale e necessaria. La nostra mente “filtra” i dati empirici
(cioè quello che ci trasmette l’esperienza) mediante forme sue proprie, che sono
innate (e quindi comuni a tutti gli uomini)4. L’uomo può conoscere la realtà
dunque solo attraverso le forme a priori della sua sensibilità e del suo intelletto
(cfr. gli esempi in Abbagnano, 4335). Come si vedrà le forme a priori della
sensibilità sono spazio e tempo, quelle dell’intelletto sono le categorie.
- Da ciò che precede derivano due importanti conseguenze:
a) nel processo conoscitivo, il soggetto non è passivo, come si era sempre creduto,
bensì attivo, e contribuisce in modo decisivo alla definizione dell’oggetto
d’esperienza. In altri termini, nella conoscenza non è più il soggetto a “gravitare “
intorno all’oggetto, ma viceversa. E’ questo capovolgimento di prospettive che K.
chiama “rivoluzione copernicana”: «Sinora - scrive - si è ammesso che ogni
nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti. Noi invece abbiamo dimostrato
vera l’ipotesi opposta, che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza.
Ora, è proprio come per la prima idea di Copernico, il quale, vedendo che non
poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutta la moltitudine degli
4
Nonostante affermi in carattere innato delle forme a priori, Kant non può essere definito un innatista nel senso
tradizionale del termine: le forme a priori sono infatti non sono conoscenze, idee innate, sono soltanto strutture
che organizzano la conoscenza. L’innatismo vero e proprio afferma la natura innata dei contenuti della
conoscenza; Kant solo delle strutture che la rendono possibile. Le forme a priori non sono infatti ciò che si
conosce, ma solamente ciò attraverso cui si conosce. Spiega Mario Dal Pra: «Gli elementi a priori non sono delle
idee innate, ma delle funzioni proprie del soggetto conoscente; sono funzioni appunto in quanto, per se stesse,
non costituiscono delle conoscenze, ma piuttosto delle attività formali che mettono capo alla conoscenza solo in
quanto si esplichino nella materia che è costituita dai fenomeni».
5
Abbagnano propone alcuni esempi che permettono di chiarire la teoria kantiana delle forme a priori: esse
possono paragonarsi a lenti colorate o occhiali permanenti attraverso i quali gli uomini guardano la realtà (e non
possono guardarla altro che in quel modo, attraverso quelle lenti). Più moderno è forse anche più chiaro il
paragone con i computer: quando immettiamo dei dati in un computer, essi non “vagano nel nulla”, ma vengono
organizzati all’interno di un programma; ebbene, la nostra mente funziona allo stesso modo: i dati che
provengono dall’esperienza sono automaticamente elaborati e organizzati da una sorta di programma fisso.
Quindi “pur mutando incessantemente le informazioni (= le impressioni sensibili), non mutano mai i loro schemi
di recezione (= le forme a priori)».
6
astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio
supponendo che fosse l’osservatore a girare, e che gli astri invece stessero fermi.
Quindi non è men vero quel ch’io affermo riguardo alle leggi dell’intelletto, che
cioè l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, bensì piuttosto le impone ad
essa».
La “rivoluzione copernicana” che Kant opera nella teoria della conoscenza segna
una tappa essenziale nella storia del pensiero occidentale. Fino ad allora, il
problema gnoseologico era stato impostato ponendo al centro del processo
conoscitivo l’oggetto (cioè la realtà conosciuta) e lasciando sostanzialmente al
margine il soggetto conoscente. Si pensava che il soggetto fosse solamente passivorecettivo: si limita a ricevere e registrare i dati che gli arrivano dall’esperienza
(come una cassetta vergine registra il messaggio che le viene inviato). Nient’altro.
Kant capovolge questa prospettiva affermando che nella conoscenza il soggetto è
attivo: svolge un ruolo essenziale come “ordinatore” del materiale che gli viene
trasmesso dall’esperienza6.
b) La seconda, rilevantissima, conseguenza della teoria kantiana della conoscenza
è che occorre distinguere tra la realtà come appare al soggetto conoscente (cioè
all’uomo) e la realtà così come è in se stessa (a prescindere dall’uomo che la
conosce)7. Kant chiama la prima fenomeno: è la realtà che appare all’uomo,
elaborata dalle forme a priori della sua facoltà conoscitiva; la seconda noumeno:
è la realtà in sé, considerata indipendentemente dal soggetto che la conosce. Il
noumeno è, per K., inconoscibile: l’uomo si deve quindi limitare a concepirne
l’esistenza, ad ipotizzarla come una “x” sconosciuta (di qui il termine stesso
noumeno, che significa per l’appunto “pensabile”8). In altri termini: noi
conosciamo la realtà non per quello che è in se stessa, ma per come ci appare, ci
si mostra; e alla definizione di questo “apparire” della realtà noi partecipiamo
attivamente. Infatti, come abbiamo chiarito più sopra, la conoscenza avviene
attraverso la combinazione dei dati empirici e delle forme a priori della nostra
sensibilità (spazio e tempo) e del nostro intelletto (categorie): risultato di questa
6
E’ merito di Hume avere preparato la strada a questa rivoluzione: egli afferma infatti che i collegamenti tra i
fenomeni sono posti dal soggetto. Tuttavia, per Hume, questa attività del soggetto è di carattere non razionale
ma istintivo (l’abitudine). Kant passa da questo piano istintivo a quello propriamente conoscitivo.
7
Scrive in proposito S. Vanni Rovighi: «Il problema del come è possibile una vera scienza, quali sono la
matematica e la fisica, equivale quindi al problema: Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? La risposta di
Kant è: tali giudizi sono possibili perché l’oggetto su cui sono pronunciati è un fenomeno; e fenomeno significa
prodotto risultante dai dati della sensibilità e da certe forme a priori che ordina tali dati in una unità oggettiva».
8
E’ appena in caso di ricordare che il termine fenomeno significa invece “ciò che appare”, “ciò che si manifesta”
(dal greco fáinomai, “mostrarsi”, “apparire”).
7
combinazione è il fenomeno. Tuttavia, al di là della realtà percepita e pensata
dall'uomo (il fenomeno) occorre ammettere l'esistenza d'una realtà in sé, che però
non è conoscibile dall'uomo, ma soltanto pensabile (noumeno). Infatti lo stesso
parlare di "fenomeno" implica il rimando a qualcosa che stia al di là di esso (Dal
Pra). Dicendo che la nostra conoscenza vale solo per il mondo fenomenico, K le
assegna - illuministicamente - un limite. Indicando questo limite, indica
implicitamente anche qualche cosa al di là di esso (altrimenti non avrebbe senso
parlare di limite), ma lo indica soltanto negativamente, dato che ne nega la
conoscibilità: è il noumeno. La metafisica pretende proprio di cogliere il noumeno,
vale a dire ciò che sta al di là della nostra esperienza: di qui il suo millenario
fallimento.
◊ K approda a queste concezioni gnoseologiche partecipando al dibattito sulla
natura dello spazio e del tempo, che vedeva contrapporsi l’interpretazione
empiristica e quella oggettivistica. La prima, sostenuta tra gli altri da Leibniz,
considerava spazio e tempo come nozioni tratte dall’esperienza; la seconda,
sostenuta da Newton, li interpretava come realtà a sé stanti, cioè come “recipienti
vuoti” nei quali sono “contenuti” i fenomeni. Secondo Kant spazio e tempo non
sono né “cose in sé”, né semplici generalizzazioni dell'esperienza: sono modalità
umane di percepire la realtà. Non possono derivare dall’esperienza, come
vorrebbe Leibniz, perché per fare qualsiasi esperienza dobbiamo già disporre la
rappresentazione originaria di spazio e tempo9; non possono però nemmeno essere
realtà autonome, come dicono gli oggettivisti, perché in tal caso dovrebbero
esistere anche se non “contenessero” nessun oggetto, il che è assurdo perché come
si può concepire qualcosa che sia reale senza un oggetto reale? Spazio e tempo non
sono dunque “contenitori” in cui si trovano gli oggetti, “proprietà” delle cose, ma
quadri mentali dentro i quali noi organizziamo i dati sensibili; non realtà assolute,
“cose in sé”, ma condizioni dell'esperibilità delle cose, modi umani di vedere le
cose. Noi, cioè, possiamo percepire la realtà soltanto nello spazio e nel tempo:
spazio e tempo sono allora condizioni che rendono possibile la nostra esperienza
sensibile, non dati che derivano da essa, sono quindi a priori. Sono le forme a
priori della conoscenza sensibile. La realtà non può essere percepita se non nello
9
Le conseguenze epistemologiche di questa concezione sono per Kant inaccettabili: «Infatti, se il concetto di
spazio è astratto dagli oggetti sensibili, sarà un concetto empirico, ed empirica sarà tutta la geometria, che è
fondata sul concetto di spazio. Un concetto astratto dagli oggetti sensibili esprime, per Kant, solo una
generalizzazione di ciò che è dato nell’esperienza, ed è quindi incapace di fondare proposizioni necessarie ed
universali»; invece, la concezione kantiana salva in carattere scientifico della geometria e della meccanica
«poiché ogni oggetto, per poter essere intuito, deve entrare nelle forme dello spazio e del tempo» (Vanni
Rovighi).
8
spazio e nel tempo (e, come si vedrà, non può essere pensata se non attraverso le
categorie).
◊ Noi conosciamo dunque la realtà combinando i dati provenienti dall’esperienza
con le forme a priori della nostra facoltà conoscitiva (lo spazio e tempo per la
sensibilità; le categorie per l’intelletto). Queste forme a priori, come abbiamo più
volte detto, non derivano dall’esperienza: esse “trascendono” l’esperienza, per
questo Kant le chiama trascendentali10
“trascendentale” lo studio di esse (cfr. sotto).
o,
per
meglio
dire,
chiama
B) Critica della ragion pura
◊ Veniamo ora all’opera in cui Kant espone queste idee nel modo più compiuto: la
Critica della ragion pura. L’opera si divide in tre parti perché tre sono, secondo
Kant, le facoltà della nostra conoscenza: «Ogni nostra conoscenza - scrive scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire alla ragione». Dunque la
sensibilità è la facoltà attraverso la quale gli oggetti ci sono dati intuitivamente
dai sensi tramite le forme a priori dello spazio e del tempo; l’intelletto è la facoltà
attraverso la quale noi pensiamo i dati sensibili, collegandoli tramite gli elementi a
priori detti categorie, la ragione è la facoltà con la quale, procedendo oltre
l’esperienza, cerchiamo di trovare spiegazioni globali della realtà tramite le tre
idee di anima, mondo e Dio11. A questa tripartizione della nostra facoltà
conoscitiva corrispondono le tre sezioni della Critica: I)Estetica trascendentale:
studia la sensibilità e le sue forme a priori (cioè spazio e tempo); II) Analitica
10
Il vocabolo trascendentale deriva dal latino trascendere, che significa letteralmente “innalzarsi oltre” (trans =
“oltre”, “al di là”; scandere = “salire”, “innalzarsi”). La stessa etimologia ha il termine trascendente, che indica
ogni realtà che si pone “al di là” della sfera empirica, vale a dire la realtà soprasensibile. Ben diverso è il
significato di trascendentale nella filosofia kantiana: il termine indica qui infatti non una realtà soprasensibile, ma
gli elementi della nostra attività conoscitiva che non dipendono dall’esperienza (le forme a priori).
«Trascendentale - scrive Kant - non significa qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, bensì qualcosa che certo
la precede (a priori), ma non è determinato a nulla più che a render possibile la conoscenza dell’esperienza».
Nella filosofia scolastica medievale, trascendentali erano dette le proprietà universali degli oggetti (come
l’essere, l’uno, il bene, ecc.), cioè quelle caratteristiche che tutte le cose possiedono e che per questo superano
per generalità (cioè, appunto, “trascendono”) le categorie in senso aristotelico (sulle quali cfr. sotto).
11
Volendo semplificare, possiamo dire che la nostra facoltà conoscitiva è di due tipi: la sensibilità e il pensiero.
Infatti noi: a) percepiamo la realtà; b) pensiamo la realtà. Ebbene, l’Estetica trascendentale si occupa della
sensibilità, le altre due sezioni della Critica della ragion pura si occupano del pensiero: infatti sono sottosezioni
d’una parte più ampia detta Logica trascendentale. Schematicamente, la Critica kantiana si divide in Estetica
trascendentale (sensibilità) e Logica trascendentale; quest’ultima a sua volta comprende Analitica
trascendentale (intelletto) e Dialettica trascendentale (ragione).
9
trascendentale: studia l’intelletto e le sue forme a priori (cioè le categorie); III)
Dialettica trascendentale: studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e
Dio, mostrando come su di esse si fonda la metafisica.
◊ Si noti l’aggettivo “trascendentale”, che qualifica tutte e tre le sezioni: come
abbiamo detto, questo termine si collega alle forme a priori, quindi il suo uso nei
titoli evidenzia che la Critica kantiana è innanzitutto studio delle forme a priori
della conoscenza. In realtà, il trascendentale non coincide semplicemente con l’apriori: il termine si applica infatti più che agli elementi a priori della conoscenza
allo studio di essi: «Chiamo trascendentale - scrive Kant - ogni conoscenza che ha a
che fare, in generale, non tanto con oggetti quanto col nostro modo di conoscere
gli oggetti in quanto questo dev’essere possibile a priori». Quindi, volendo essere
pignoli, “trascendentali” non sono tanto le forme a priori della conoscenza (cioè
spazio/tempo e categorie), quanto piuttosto la filosofia che le studia, che può a
buon titolo essere chiamata filosofia trascendentale «il carattere trascendentale
della ricerca kantiana - scrive Dal Pra - mette quindi in luce che essa tende ad
individuare, nella nostra conoscenza, gli elementi a priori e quindi universali e
necessari». Dunque la Critica della ragion pura si configura come «esame critico
generale della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi
elementi puri a priori» e quindi come «analisi delle autentiche possibilità
conoscitive dell’uomo».
◊ Estetica trascendentale
- Come detto, in questa sezione K. studia la sensibilità e le sue forme a priori12.
Secondo K. la sensibilità è “recettiva” perché non genera i propri contenuti, ma li
accoglie per intuizione dalla realtà esterna o dalla realtà interna. In verità, la
sensibilità non è solamente “recettiva”: è anche attiva, in quanto organizza il
materiale fornito dalle sensazioni (cioè le intuizioni empiriche) tramite le sue
forme a priori, che, come sappiamo, sono lo spazio e il tempo (che Kant chiama
intuizioni pure). Quindi nella sensibilità la materia del conoscere è data dalle
12
Kant utilizza il termine “estetica” nel suo significato etimologico, dal greco áisthesis, che indica il sentire
immediato, la sensazione, l’intuizione sensibile. A questo affianca l’aggettivo trascendentale, che, colme
abbiamo visto, indica che l’intuizione sensibile, come tutti gli altri gradi della conoscenza, è reso possibile dalla
forme a priori. «L’estetica trascendentale - scrive Kant - è l’apprensione immediata dei dati sensibili ordinati nelle
relative forme a priori».
10
sensazioni o impressioni degli oggetti esterni, la forma da spazio e tempo (che
sono appunto le forme a priori della sensibilità)13.
- Dello spazio e del tempo di è già parlato più sopra. Aggiungiamo solo qualche
annotazione. Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè la rappresentazione che
inquadra tutte le intuizioni sensibili esterne; il tempo è invece la forma del senso
interno, cioè la rappresentazione che inquadra tutti i nostri stati interiori (che
infatti si dispongono l’uno dopo l’altro in un ordine di successione). Tuttavia,
poiché solo attraverso il senso interno ci giungono i dati esterni, il tempo è anche indirettamente - forma del senso esterno, cioè il modo universale attraverso il
quale percepiamo tutti gli oggetti. Quindi: non ogni cosa è percepita da noi nello
spazio (per es. i sentimenti); ogni cosa è però percepita nel tempo.
- Come detto più sopra, spazio e tempo non sono realtà oggettive nelle quali sono
“contenuti”
gli oggetti: sono nostre strutture mentali che organizzano la conoscenza sensibile,
sono le condizioni necessarie di ogni nostra esperienza, modi umani di vedere le
cose. «Ogni oggetto, per essere intuito, deve entrare nelle forme dello spazio e del
tempo. Spazio e tempo sono quindi aspetti che competono necessariamente ad
ogni oggetto di esperienza sensibili» (Vanni Rovighi). K. paragona spazio e tempo a
lenti colorate o al contenitore di un liquido: se noi portiamo occhiali con lenti
colorate, vediamo gli oggetti del colore delle lenti; quello specifico colore non è
nelle cose, ma è loro attribuito dalle lenti. Se versiamo un liquido in un recipiente,
il liquido assume la forma del recipiente: la forma deriva dal recipiente e non dal
liquido stesso.
- La dottrina dello spazio e del tempo esposta nell’Estetica trascendentale
permette a Kant di spiegare come è possibile la matematica. Geometria ed
aritmetica, cioè le due scienze matematiche, sono per Kant le scienze sintetiche a
priori per eccellenza: sono sintetiche perché ampliano la nostra conoscenza14,
andando oltre ciò che ci è già noto (cfr. sopra) e sono a priori perché i teoremi di
13
Il termine intuizione indica una conoscenza immediata, diretta, quale appunto è la conoscenza sensibile: Kant
chiama intuizioni pure le forme a priori dello spazio e del tempo; esse, combinandosi con le sensazioni, originano
quella che Kant chiama intuizione empirica, cioè la percezione delle cose sensibili.
14
Per esempio, se noi facciamo una somma, otteniamo una conoscenza che accresce il nostro sapere, perché
il risultato viene ottenuto tramite l’operazione del sommare e non ricavato per via analitica dai numeri che
vengono sommati: «Veramente - scrive Kant -, a prima vista si dovrebbe pensare che la proposizione 7+5 = 12
sia puramente analitica. Ma, se si osserva più da vicino, si trova che il concetto della somma di 7 e 5 non
contiene null’altro che l’unione di ambedue i numeri in uno solo, senza che con ciò si pensi affatto quale sia
questo numero unico, che comprende gli altri due». La sinteticità di una somma aritmetica si coglie con
maggiore chiarezza se, invece di riferirsi a un calcolo semplice come quello proposto da Kant (7+5) si prendono
in esame cifre più elevate: «ad esempio, la semplice analisi mentale dei concetti aritmetici di 62.525 + 48.734
non può affatto suggerirci il loro risultato, che occorre invece far scaturire sinteticamente mediante un calcolo, il
quale soltanto ci fa scoprire che la somma dei suoi addendi è 111.259» (Abbagnano).
11
geometria ed aritmetica valgono a prescindere dall’esperienza. Orbene, qual è il
fondamento delle costruzioni sintetiche a priori delle scienze matematiche?
Secondo Kant esso risiede nelle intuizioni pure (o forme a priori) dello spazio e del
tempo: la geometria è la scienza che dimostra le proprietà delle figure tramite
l’intuizione pura dello spazio e lo fa sinteticamente a priori, senza cioè
prescindendo dall’esperienza : per esempio, quando stabilisce che fra le infinite
linee che uniscono due punti la più breve è la retta non deve ricorrere
all’esperienza. Allo stesso modo, l’aritmetica è la scienza che dimostra le
proprietà delle serie numeriche tramite l’intuizione pura del tempo15.
◊ Analitica trascendentale
- Scrive Kant: «Senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto
nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuti (senza intuizioni) sono
vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche». Sensibilità e intelletto sono
dunque entrambi indispensabili per la conoscenza: l’Analitica trascendentale è la
parte della Critica della ragion pura che si occupa dell’intelletto, studiando quindi
quello che potremmo chiamare il “secondo livello” della conoscenza umana.
L’intelletto è la facoltà di formulare giudizi, collegando tra loro (cioè
“unificando”) le percezioni: come si è detto, infatti, attraverso la sensibilità
l’uomo percepisce la realtà, attraverso l’intelletto la pensa e pensare significa
formulare dei giudizi16.
- Come nella conoscenza sensibile, anche in quella intellettuale c’è una materia e
c’è una forma del conoscere: la materia è fornita dalle intuizioni empiriche17, la
forma da quelli che Kant chiama concetti puri. Essi sono le forme a priori della
conoscenza intellettuale, esattamente come spazio e tempo sono le forme a priori
della sensibilità. Ed esattamente come lo spazio e il tempo, i concetti puri non
derivano dall’esperienza18: sono, al contrario, funzioni proprie dell’intelletto,
innate.
15
E’ grazie all’intuizione pura del tempo che si può cogliere l’idea di successione, sulla quale si basano le serie
numeriche; senza l’intuizione pura del tempo e della successione non sarebbe nemmeno possibile il concetto di
numero.
16
Scrive Kant: «Tutti gli atti dell’intelletto possono ricondursi a giudizi, in modo che l’intelletto può essere
rappresentato come una facoltà di giudicare. Esso è infatti una facoltà di pensare. Ora, pensare è conoscere per
concetti. E dei concetti l’intelletto non può fare altro uso se non giudicare per mezzo di essi»
17
Ricordo che l’intuizione empirica è la percezione delle realtà sensibili, derivante dal combinarsi delle
sensazione con le intuizioni pure dello spazio e del tempo. In altre parole, l’intuizione empirica è il “prodotto
finale” della nostra conoscenza sensibile, risultante dalla combinazione tra le sensazioni e le forme a priori della
sensibilità, che sono appunto spazio e tempo.
18
Per questo sono detti “puri”.
12
- Grazie ai concetti puri l’intelletto può formulare i giudizi, nei quali viene
unificata la molteplicità dei dati che provengono dalla sensibilità (cioè le intuizioni
empiriche). Kant chiama i concetti puri, riprendendo un termine aristotelico,
categorie19.
- Dunque le categorie sono funzioni dell’intelletto che servono a formare i giudizi
unificando la molteplicità delle percezioni: grazie alle categorie siamo così in
grado di pensare la realtà, esattamente come grazie allo spazio e al tempo siamo
in grado di percepirla. I giudizi, che formano la sostanza del nostro pensiero,
nascono pertanto da una sintesi di materia (le intuizioni empiriche) e forma (i
concetti puri o categorie).
- Secondo Kant, che si richiama alla tradizione delle logica generale, esistono
dodici tipi di giudizio: anche le categorie, di conseguenza, sono dodici, perché,
come si è spiegato, esse servono proprio a elaborare i giudizi (si veda al caso lo
schema fotocopiato a parte).
- Facciamo ora un esempio: nel giudizio “il sole riscalda la pietra” sono unificate
due intuizioni empiriche, “sole” e “pietra” grazie al concetto “riscaldare”, che
rimanda alla categoria della causalità.
- Dunque, il nostro intelletto opera (tramite le categorie che formano i giudizi) una
unificazione della molteplicità delle intuizioni empiriche (o percezioni). In
sostanza, secondo Kant, il processo conoscitivo è un processo di unificazione dei
dati d’esperienza, unificazione realizzata attraverso i giudizi, che sono resi
possibili dalle categorie20. Conoscere significa unificare (ovvero organizzare,
“inquadrare”) i dati forniti dall’esperienza per mezzo delle forme a priori del
nostro intelletto.
- Poiché l’unificazione del materiale empirico è realizzata attraverso i giudizi, essa
deve avere alla base una unità giudicante, una fonte prima dell’unificazione
stessa. Ecco perché come fondamento ultimo di tutta l’attività conoscitiva Kant
pone una struttura mentale, un centro unificatore ultimo, comune a tutti gli
uomini, che chiama “io penso”. «In tutti i giudizi infatti - spiega Di Napoli l’assolutamente necessario e universale è il pensiero che pensa i giudizi: (io penso
che) il sole riscalda la pietra; (io penso che) il cielo è azzurro; (io penso che) il
cerchio ha i raggi tutti eguali, ecc. Al fondo di tutta l’attività giudicante c’è un “io
19
C’è peraltro una netta differenza tra le categorie come sono intese da Aristotele e come invece le intende
Kant: per Aristotele infatti esse sono i generi supremi della realtà, cioè i modi di essere del reale (tutto ciò che
esiste rientra in una determinata categoria); per Kant esse sono invece i modi di funzionamento del nostro
intelletto, forme logiche della nostra mente
20
Anche la conoscenza sensibile è di fatto una forma di unificazione dei dati sensibili realizzata attraverso le
forme a priori dello spazio e del tempo.
13
penso”»21. In sintesi, l’attività del nostro intelletto consiste nel formulare giudizi
tramite le categorie, unificando così la molteplicità del materiale empirico;
ebbene, ci deve pur essere una fonte unitaria di questa attività giudicanteunificatrice; ogni giudizio è infatti il giudizio formulato da un “io” che lo pensa.
- Si badi però a non confondere questo “io” con la coscienza o, ancor peggio, con
l’anima: non si tratta infatti di un ente, di una “cosa”, ma di una funzione, che noi
possiamo cogliere soltanto nel suo operare. L’io penso non è nulla fuori del suo
agire nel processo conoscitivo, non è una realtà concepibile al di fuori dei giudizi
che formula. Non è un’entità metafisica, ma un principio puramente formale. Non
a caso Kant lo ha chiamato “io penso”: ha voluto con questo significare che si
tratta proprio di una unità “pensante” (cioè coglibile solo nell’atto del pensare) e
non una unità “esistente” (cioè coglibile a prescindere dalla sua attività di
pensiero).
- E’ essenziale a questo punto sottolineare che così come l’uomo (ogni uomo!) non
può percepire la realtà se non nello spazio e nel tempo, allo stesso modo non può
pensarla se non attraverso le categorie. Ogni nostro pensiero (cioè ogni nostro
giudizio) è formulato tramite le categorie, che sono funzioni conoscitive comuni a
tutti gli uomini. Tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie, tutti gli
uomini pensano la realtà attraverso le categorie, cioè la pensano tutti allo stesso
modo. La realtà pertanto “obbedisce” alle forme a priori del nostro intelletto e, di
conseguenza, la nostra conoscenza della realtà è rigorosa: non possiamo che
conoscerla in quel modo e attraverso quelle funzioni (spazio, tempo e categorie).
Si parla, ovviamente, della realtà fenomenica, che è l’unica accessibile all’uomo:
quella noumenica, come sappiamo, non è conoscibile dall’uomo.
- Da tutto ciò consegue, ovviamente, che la nostra conoscenza non può estendersi
al di là dell’esperienza. L’ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato
al fenomeno, perché la “cosa in sé” (cioè il noumeno) è per definizione fuori della
nostra esperienza. Esso è solo pensabile (di qui il nome), non conoscibile: può
essere oggetto soltanto di una conoscenza extra-fenomenica preclusa all’uomo ma
aperta a un ipotetico intelletto divino che sia capace di una “intuizione
intellettuale” della realtà (della quale l’uomo invece può avere solo una intuizione
empirica).
-Per l’uomo dunque il noumeno più che una realtà è una sorta di concetto-limite,
come ben precisa Abbagnano: «La cosa in sé (cioè il noumeno) più che essere una
21
Scrive Kant: «Nessuna conoscenza può aver luogo in noi, nessun collegamento ed unità di conoscenze fra
loro senza quell’unità della coscienza che antecede tutti i dati dell’intuizione ed in rapporto alla quale soltanto è
possibile ogni rappresentazione di oggetti»
14
realtà, è per noi un concetto, e precisamente un concetto-limite che serve ad
arginare le nostre pretese conoscitive. In altre parole, l’idea di cosa in sé o
noumeno costituisce una specie di promemoria critico che da un lato circoscrive le
pretese della sensibilità, rammentandosi che ciò che ci viene dato nella intuizione
spazio-temporale non è la realtà in assoluto; e dall’altro circoscrive le arroganze
dell’intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma soltanto
pensarle nella loro possibilità, sotto forma di X ignote».
◊ Dialettica trascendentale
- Nell’Estetica e nell’Analitica Kant porta a termine la prima parte del compito che
si è proposto con la Critica della ragion pura, ovvero stabilire come sia possibile il
sapere scientifico. Nella Dialettica affronta invece la seconda parte del problema,
che, come si ricorderà, riguarda la possibilità per la metafisica di costituirsi come
scienza. La Dialettica trascendentale analizza natura e caratteri della metafisica,
cercando di stabilire se essa sia o meno nelle possibilità della conoscenza umana.
Dall’impostazione e dalle conclusioni dell’Estetica e dell’Analitica si intuisce
chiaramente che la risposta di Kant a questo interrogativo non può che essere
negativa. Infatti «per Dialettica trascendentale Kant intende l’analisi e lo
smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica» (Abbagnano)22.
- Va però detto che la metafisica costituisce una esigenza naturale e incoercibile
dello spirito umano. Non a caso Kant parla di metaphisica naturalis; intendendo
sottolineare che l’uomo alberga nel suo spirito una insopprimibile esigenza
metafisica: sente cioè il bisogno di costruire un sapere che gli permetta di
oltrepassare il limite della sua conoscenza costituito dall’esperienza. In altre
parole: è assai significativo che, pur non potendo andare al di là dell’esperienza,
l’uomo senta da sempre e costantemente il bisogno di farlo. Secondo Kant, questo
nostro voler procedere oltre i dati dell’esperienza deriva una tendenza innata
verso l’incondizionato e la totalità. Non sappiamo dunque “accontentarci” del
mondo fenomenico dell’esperienza: siamo irresistibilmente attratti verso il regno
dell’assoluto, verso una spiegazione globale della realtà
- Kant collega la genesi della metafisica alla facoltà della ragione: «questa - scrive
Abbagnano - in partenza non è altro che l’intelletto stesso, il quale, essendo la
22
E’ chiaro che Kant usa in termine “dialettica” in senso negativo, intendendola come «l’arte sofistica di dare
alla propria ignoranza, anzi alle proprie volute illusioni l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo del pensare
fondato». Come è noto, nella storia della filosofia il termine ha avuto anche valenze positive: per Platone, ad
esempio, la dialettica è la scienza delle idee, cioè la via che conduce al vero; per la scuola stoica (e per tutta la
filosofia medievale) essa di fatto coincide con la logica. In Aristotele invece ha una valenza negativa,
configurandosi come «l’arte “sofistica” di costruire ragionamenti capziosi, basati su premesse che sembrano
probabili, ma in realtà non lo sono» (Abbagnano).
15
facoltà di unificare i dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a
voler pensare anche senza dati». Come sappiamo, le categorie non dipendono
dall’esperienza (sono a priori), ma si applicano soltanto ad essa: senza i dati di
esperienza
proprio il
l’intelletto
riferendole
sono solo dei contenitori vuoti, delle funzioni inutilizzabili. Però,
loro non dipendere dall’esperienza conduce “automaticamente”
a cercare di utilizzarle al di fuori e al di là dell’esperienza stessa,
non alla realtà fenomenica, effettivamente conoscibile, ma a quella
noumenica, alla “cosa in sé”, che invece sfugge alla conoscenza dell’uomo. E’ così
che, dice Kant, «l’intelletto si costituisce insensibilmente, accanto alla casa
dell’esperienza, un palazzo ben più vasto, che esso riempie con puri esseri di
ragione, senza avvedersi di essere così andato al di là dei confini dell’uso legittimo
dei suoi concetti». La ragione pretende quindi di andare al di là dei dati
d’esperienza, unificando in modo globale, assoluto le conoscenze ottenute
dall’intelletto tramite i giudizi23. Questa ulteriore unificazione, del tutto
ingannevole, è realizzata sulla base di tre grandi “idee d’insieme” che, proprio in
quanto totalizzanti, superano i limiti dell’esperienza (la quale è, invece,
necessariamente parziale). Le idee sono dunque le forme a priori della ragione,
con le quali essa unifica in grandi insiemi i risultati dei giudizi cercando di
soddisfare l’esigenza umana di cogliere l’assoluto (cioè di costruire un sapere
metafisico)24.
- Le idee della ragione sono tre: idea psicologica (o “idea di anima”), idea
cosmologica (o “idea del mondo”), idea teologica (o “idea di Dio”). Attraverso
l’idea psicologica la ragione unifica tutti i dati che riguardano l’attività interna,
attraverso l’idea cosmologica tutti i dati che riguardano il mondo, attraverso l’idea
teologica tutti i dati che riguardano un principio primo assoluto e incondizionato.
La metafisica compie un errore fatale: trasforma queste tre esigenze (mentali) di
unificazione totalizzante dei dati d’esperienza in tre realtà, dimenticando che
l’uomo non ha mai a che fare con la realtà in sé, ma solo con la realtà del
fenomeno. Allo studio di queste tre realtà sono dedicate le tre tradizionali branche
23
Scrive Mario Dal Pra: «Kant distingue un uso empirico delle categorie da un loro uso trascendente; l’uso
empirico consiste nell’adoperare le categorie per unificare gli elementi dell’esperienza in un ambito sempre più
vasto, ma tuttavia incompleto; così l’intelletto estende i nessi di causa ed effetto da A a B, e poi da B a C, e
quindi da C a D; tende insomma a collegare il maggior numero possibile di fenomeni col nesso di causalità; ma
non arriva mai, su basi empiriche, a completare tale nesso per tutti i fenomeni; la ragione usa in modo
trascendente le categorie nel senso che vuole realizzare un’applicazione compiuta di esse ed avere davanti a sé
la totalità dell’esperienza, che, come tale, non può più essere oggetto della nostra esperienza; insomma, la
ragione mira a estendere la categorie all’incondizionato».
24
«Tali “idee” - scrive Di Napoli - non sono né le idee di Platone (forme o realtà trascendenti alla natura), né le
idee dell’empirismo (che sono rappresentazioni), né le idee del razionalismo (che sono concetti innati); le idee
sono forme o funzioni pure della ragione, inservienti alla totalizzazione dei risultati dell’intelletto giudicante».
16
della metafisica: la psicologia razionale, che si occupa dell’anima, la cosmologia
razionale, che si occupa del mondo, la teologia razionale, che si occupa di Dio.
Nella Dialettica trascendentale Kant analizza queste tre pretese scienze,
evidenziandone gli errori e il carattere illusorio: vuole cioè denunciare l’ “inganno
della ragion”, che è l’ “inganno della totalità”.
- La Psicologia razionale, secondo Kant, si fonda su un “paralogisma”, cioè su un
ragionamento sbagliato. Essa infatti applica la categoria di sostanza all’io penso,
trasformandolo in una realtà autonoma e permanente che chiama “anima”.
Trasforma cioè quella che è una mera funzione conoscitiva in una entità, l’anima,
che viene dichiarata “personale”, “immateriale”, “immortale”25. In realtà io non
posso concepire me stesso che come elemento dell’esperienza (cioè come attività
pensante): la psicologia razionale invece parla all’io astraendo da ogni esperienza
e crede di poter identificare questo io astratto con “una possibile esistenza
separata dell’io pensante” che chiama anima. Trasforma il soggetto così come
viene colto nell’esperienza in una sostanza indipendente dall’esperienza e a sé
stante. Nascono così i problemi (irrisolvibili per l’uomo) della distinzione spiritomateria, dell’immortalità dell’anima, del rapporto di essa col corpo, ecc.
- La Cosmologia razionale pretende di parlare del mondo inteso come totalità
assoluta dei fenomeni, una totalità che, ovviamente, si pone al di là della nostra
esperienza, che è sempre esperienza di un numero limitato di fenomeni. La
totalità dell’esperienza non è mai un’esperienza: all’idea di mondo, che
costituisce il fulcro della cosmologia razionale, non corrisponde nessuna nostra
esperienza. Abbiamo infatti esperienza di una “sezione” del mondo (per giunta
assai piccola) e non del mondo come globalità. Lo dimostra il fatto che, se
pretendiamo di parlare del mondo come totalità cadiamo inevitabilmente nel
reticolo senza vie d’uscita delle antinomia, cioè di irrisolvibili “conflitti della
ragione con se stessa”. Si tratta di coppie di affermazioni opposte, dove una
afferma (tesi) e l’altra nega (antitesi) qualcosa a proposito del mondo come
totalità: ebbene, l’uomo non è in grado di decidere tra queste formulazioni
antitetiche, perché non ha nessuna esperienza corrispondente. Ecco il prospetto di
queste antinomie: a) il mondo è limitato nello spazio e nel tempo - il mondo è
illimitato nello spazio e nel tempo (è eterno); b) il mondo non è indivisibile
all’infinito - il mondo è divisibile all’infinito; c)nel mondo avviene tutto per
25
«Non ci basta infatti giungere alla chiara coscienza dell’io come oggetto del senso interno … ma vogliamo
andare più in là e sapere che cosa sia l’anima, creandoci allo scopo il concetto di un essere semplice e
immateriale; creiamo così un’intera scienza, la psicologia razionale, che è un ramo della metafisica» (Dal Pra).
17
necessità - nel mondo esiste libertà; d) il mondo rimanda a un essere necessario - il
mondo non rimanda a un essere necessario26.
- Anche la Teologia razionale, che si occupa del più arduo problema metafisico,
cioè Dio, è priva di valore conoscitivo. L’idea di Dio rappresenta, secondo Kant,
l’ideale della ragion pura «in quanto essa rappresenta il culmine della unificazione
prodotta dalla ragione in cerca di un principio incondizionato di tutto ciò che nella
natura si presenta condizionato» (Di Napoli)27. Dato però che questo ideale, frutto
della ragione, ci lascia nella più totale ignoranza circa la sua effettiva realtà,
l’uomo ha elaborato una serie di prove per dimostrarne l’esistenza (dimostrazioni
dell’esistenza di Dio) che Kant raggruppa in tre classi: prova ontologica, prova
cosmologica, prova fisico-teologica.
a) la prova ontologica, che risale a Sant’Anselmo, ma che Kant assume nella forma
datale da Cartesio, pretende di ricavare l’esistenza di Dio dal concetto di Dio,
concetto caratterizzato dall’idea di perfezione. L’argomentazione è nota: se Dio è
l’essere perfettissimo, l’essere che possiede tutte le perfezioni, non può certo
mancargli la perfezione dell’esistenza. Kant “smonta” questo ingegnoso argomento
evidenziando come esso passi illegittimamente dal piano logico a quello
ontologico, cioè dal piano del pensare a quello dell’essere. Si parte infatti
dall’analisi di un concetto, cioè d’una realtà di ordine logico, e si pretende di
giungere ad un ente, cioè ad una realtà di ordine ontologico. Si “slitta” dunque
arbitrariamente dal terreno del pensiero a quello della realtà, dimenticando che
l’esistenza non è una proprietà logica, ma un fatto che può essere asserito solo
tramite l’esperienza: si può avere infatti il concetto di una cosa senza che da ciò
debba scaturire l’esistenza della cosa stessa28.
b) La prova cosmologica costituisce il fulcro delle vie aristotelico-tomistiche, che
risalgono dal cosmo a Dio attraverso il principio di causa. Si afferma infatti che se
ogni realtà ha una causa deve esistere una causa prima incausata. Ciò comporta
tuttavia, secondo Kant, un uso illegittimo del concetto di causa, perché si passa
26
Il carattere paradossale delle antinomie è testimoniato dal fatto che esistono argomenti ugualmente
“persuasivi” in favore dell’una e in favore dell’altra affermazione. Si può, per esempio, dimostrare che il mondo
ha un inizio se si segnala che una serie trascorsa infinita è impossibile; si può però sostenere legittimamente
anche il contrario - cioè che il mondo è infinito nel tempo - «se si rileva che ogni inizio ha un’esistenza a cui
antecede un tempo» (Dal Pra). «L’inconcludenza dei due ragionamenti è data proprio dall’uguale forza cha ha
ciascuno di essi e dall’impossibilità in cui la ragione si trova di legittimare l’uno, senza legittimare l’altro» (ivi).
27
Scrive Kant: «Chi non vede, data l’universale contingenza e dipendenza di tutto ciò che si può secondo i
principii empirici pensare ed ammettere, l’impossibilità di arrestarsi a questi e non si sente costretto, nonostante
ogni divieto di perdersi in idee trascendenti, di trascendere tutti i concetti che l’esperienza può giustificare e di
cercare riposo e pace ne concetto di un essere, la cui idea non può essere dimostrata né come possibile, né
come impossibile, ma senza del quale la ragione rimane perpetuamente insoddisfatta?»
28
«La prova ontologica o è impossibile o è contraddittoria. Impossibile se vuol derivare da un’idea una realtà.
Contraddittoria se nell’idea del perfettissimo assume già, “sottobanco”, quell’esistenza che vorrebbe dimostrare»
(Abbagnano).
18
dal piano dell’esperienza, che ci mostra in effetti una serie di realtà
“eterocausate”, ad un piano che va al di là dell’esperienza, ad un primo anello
incausato che sta al di là del mondo esperibile. Il principio di causalità, invece,
può essere applicato solo ai fenomeni: è una regola del nostro intelletto che
permette di collegare tra di loro i fenomeni di cui abbiamo esperienza e non può
servire a collegare i fenomeni a qualcosa che sta al di là di essi29. E poi anche in
questo tipo di prova si ripresenta l’incongruenza propria della prova ontologica:
infatti, una volta arrivati all’idea della “causa prima” (Dio) se ne postula
illegittimamente l’esistenza.
c) La prova fisico-teologica (solitamente chiamata teleologica) si basa sull’ordine e
sulla bellezza del mondo per affermare l’esistenza di una suprema mente
ordinatrice, che viene identificata con Dio creatore, perfetto e infinito. Si tratta di
un argomento che appare a Kant effettivamente chiaro e adatto alla comune
ragione30, ma risulta anch’esso minato da forzature logiche a dalla utilizzazione
“mascherata” della dimostrazione ontologica. Esso, innanzitutto, può, al massimo,
dimostrare l’esistenza d’un Dio ordinatore dell’universo e non del Dio creatore
della tradizione biblica e cristiana. E poi l’ordine della natura, la sua armonia e
bellezza, non implicano necessariamente l’esistenza d’una fonte trascendente che
ne sia origine: «l’ordine della natura potrebbe anche essere una conseguenza della
Natura stessa e delle sue leggi immanenti» (Abbagnano).
Kant: Questionario
- Perché il pensiero di K. è definito "criticismo"?
- Perché la filosofia kantiana è stata definita "filosofia del limite"?
- Di quali istanze culturali il criticismo può essere considerato l'esito? Quale
rapporto collega K. all'empirismo e all'Illuminismo? Quale rapporto esiste tra il
pensiero di K. e quello di Hume?
- Qual è il problema fondamentale della Critica della ragion pura? Da quali
considerazioni prende le mosse l’analisi kantiana della conoscenza?
- Quale ipotesi di fondo ispira la gnoseologia di K.?
29
Non va dimenticato che la causalità è una delle categorie con le quali opera l’intelletto per formulare i giudizi;
orbene, le categorie, come sappiamo, sono funzioni che si applicano al materiale di esperienza, “contenitori”
vuoti della nostra mente che solo l’esperienza “riempie”. E’ quindi illegittimo applicarle al di fuori dell’esperienza.
30
La validità di questo argomento, che Kant giudica il più importante per dimostrare l’esistenza di Dio discende
dallo «sconfinato spettacolo di varietà, di ordine, di saggezza e di bellezza che offre il mondo presente», da
«quella catena di effetti e cause, di fini e mezzi, da quella regolarità mirabile» che caratterizza l’universo.
19
- Quali tipi di giudizio individua K.?
- Cosa significano i termini analitico, sintetico, a priori, a posteriori?
- Che cosa sono i giudizi sintetici a priori? Sapresti darne un esempio?
-
Che cosa intende K. per "rivoluzione copernicana”?
Che cosa intende K. per “forma” e “materia” del conoscere?
Spiega la distinzione kantiana fenomeno - noumeno.
Quali facoltà della conoscenza sono individuate da K.? Quali parti della Critica
della ragion pura analizzano tali facoltà?
- Che cosa significa nel lessico kantiano “trascendentale”?
- Che cosa analizza l’Estetica trascendentale? Quali sono le forme a priori della
sensibilità? Come le caratterizza K. (in rapporto, per esempio, alle concezioni di
Locke e Newton)?
- Che cosa analizza la Logica trascendentale? Che cosa sono i concetti nell’analisi
kantiana della conoscenza intellettuale? Che cosa intende K. per “categoria”?
Quante (e quali) sono le categorie kantiane? In che cosa esse si differenziano dalle
categorie aristoteliche? Che cos'è l’”io-penso”?
- Qual è l’ambito d’uso delle categorie? Che cosa intende K. per “noumeno”? In che
senso il noumeno è da intendersi solo negativamente, ovvero come concettolimite?
- Di che cosa si occupa K. nella Dialettica trascendentale? Come interpreta K. la
genesi della metafisica? Quali sono le tre idee trascendentali della ragione
kantiana? In che cosa consiste, secondo K., l’errore della metafisica? Come critica
K. la psicologia razionale e la cosmologia razionale (ovvero: che cosa intende K.
per “paralogismi” ed “antinomie”)? Come critica K. le dimostrazioni dell’esistenza
di Dio?
2 - Romanticismo
◊ E’ estremamente difficile elaborare una definizione critica di “Romanticismo”,
perché le manifestazioni culturali (letterarie, artistiche e filosofiche) che ad esso
fanno capo presentano una grande varietà di motivi, anche assai diversi tra loro (in
alcuni casi addirittura divergenti). Si può dire, in linea generale, che il R. è il
movimento culturale (letterario, filosofico, artistico, ecc.) che nasce in Germania
alla fine del 18° sec. - avviato dallo Sturm und Drang (1770-1777) - e si diffonde in
tutta Europa nei primi decenni del 19°, dando un’impronta decisiva alla mentalità
di tutto il secolo.
20
◊ Tradizionalmente si caratterizza il R. come “esaltazione del sentimento”, ma
questa accezione “ristretta” appare decisamente riduttiva, perché riesce a
sottolineare un aspetto rilevante delle componenti letterarie e artistiche del
movimento, ma non di quelle filosofiche, che sono invece di grande importanza.
◊ Ecco perché si ritiene più opportuno proporre un’accezione “ampia”, che intende
per R. una “atmosfera” culturale e storica, una “situazione mentale” diffusa nel
periodo indicato, che si riflette nella letteratura e nell’arte, ma anche nella
filosofia, dando vita a manifestazioni anche assai diverse, come detto, ma tutte
rapportabili a linee di fondo comuni, ad uno stesso orizzonte complessivo, ad una
Weltanschauung condivisa. Esiste cioè un insieme di tendenze e idee tipiche della
mentalità romantica, che si ritrovano sia nell’ambito letterario-artistico sia in
quello filosofico. Al di là delle indubbie ambivalenze e delle molteplici diversità
che caratterizzano il R., c’è dunque un orizzonte complessivo di idee e istanze
comuni. Si può quindi delineare uno schema che individui le note ricorrenti (o
almeno alcune di esse) che unificano le varie dimensioni (letteraria, artistica,
filosofica) della multiforme esperienza romantica. Cerchiamo di seguito di
delineare questo quadro d’insieme, evidenziando le principali tematiche del
Romanticismo.
◊ Un primo aspetto comune è dato dall’opposizione all’Illuminismo: le diverse
correnti del R. concordano infatti nel rifiuto della ragione illuministicamente
intesa, cioè della ragione come facoltà “limitata”, ritenuta incapace di
comprendere fino in fondo l’uomo e il mondo, di accedere cioè alla verità
assoluta. In sostanza, viene rifiutato il senso del limite della conoscenza che, già
affermato dagli empiristi inglesi, caratterizza in modo decisivo il pensiero
illuministico (e Kant in particolare). Il R. ritiene perciò necessario individuare
nuovi itinerari conoscitivi che permettano all’uomo l’accesso alla conoscenza
assoluta e perfetta, alla conoscenza cioè dell’essenza più profonda della realtà
(proprio quel tipo di conoscenza che gli empiristi e Kant avevano negato). Se però
tutti i romantici concordano in questo rifiuto della ragione illuministica e
nell’affermazione della possibilità per l’uomo di arrivare alla conoscenza assoluta,
divergono sull’indicazione della via che a tale conoscenza conduce.
1) Alcuni, soprattutto artisti e poeti, individuano lo strumento privilegiato di
accesso all’Assoluto nel sentimento, inteso in modo diverso e più profondo di
quanto abitualmente non si faccia: esso appare infatti come «un’ebbrezza
indefinita di emozioni in cui palpita la vita stessa al di là delle strettoie della
21
ragione, che nei suoi confronti scade a pallido riflesso» (Abbagnano)31. Concepito
in questo modo, il sentimento è ritenuto capace di “aprire a nuove dimensioni
della psiche e di risalire alle sorgenti primordiali dell’essere”. Hölderlin arriva a
dire che l’uomo è un Dio quando sogna e nulla quando pensa: la dimensione
irrazionale dell’esperienza umana viene così in primo piano ed anzi si rivela capace
di dirigere l’uomo verso il vero, assoluto sapere.
2) A posizioni irrazionalistiche di questo tipo si collega l’esaltazione dell’arte,
ritenuta capace di procedere al di là e al di sopra del discorso logico e di condurre
l’uomo dove la ragione non può arrivare: «Il poeta comprende la natura meglio
dello scienziato», afferma Novalis (ma più spesso la funzione divinatoria dell’arte
viene attribuita alla musica). In ambito filosofico la concezione dell’arte come
strumento supremo di conoscenza è elaborata da Schelling32.
3) Altri autori romantici (soprattutto Schleiermacher33) identificano la strada che
conduce all’Assoluto nella religione, ritenuta capace di guidare l’uomo al di là dei
confini della ragione illuministico-kantiana e di fargli cogliere la più profonda e
suprema verità delle cose.
4) Altri ancora - in ambito prevalentemente filosofico - traducono la loro
insoddisfazione nei confronti della ragione illuministica nell’elaborazione d’un
nuovo concetto di ragione. Hegel, in particolare, rifiuta l’esaltazione dell’estasi
artistica o del misticismo religioso e distingue, riprendendo la distinzione kantiana,
l’intelletto dalla ragione, condannando la limitatezza del primo e affermando
l’assolutezza della seconda. Alla logica “illuministica” dell’intelletto egli
contrappone la nuova logica (dialettica) della ragione, che ritiene capace di
cogliere il senso più profondo dell’essere. Tale logica coincide perfettamente con
l’ontologia: Hegel ritiene infatti che la medesima struttura razionale caratterizzi
il pensiero e la realtà. L’uomo quindi ritrova nel suo pensiero la chiave di lettura
31
«Stato d’animo attivo, connesso a desideri, emozioni, bisogni ed altri stati affettivi» lo definisce L. MAJORCA,
Dizionario di filosofia, Napoli 199, 254, e F. P. FIRRAO precisa: «Dal latino medioevale sentimentum, dal verbo
sentire, ‘“sentire”, “percepire’, ‘provare”, “essere soggetto a” ... il termine indica ... (la) facoltà, contrapposta alla
ragione, ritenuta fonte delle emozioni» (Dizionario dei termini e delle correnti filosofiche, Firenze 1995, 323).
32
Nel Romanticismo, sottolinea Abbagnano, « (l’arte) è vista come “sapienza del mondo” e “porta aurorale della
conoscenza”, ossia come ciò che precede ed anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa,
arrivando là dove questo non può arrivare e configurandosi come ciò da cui nasce e a cui finisce sempre per
ritornare la filosofia ... Al poeta si conferiscono delle doti quasi sovra-umane e profetiche, che fanno di lui un
“esploratore dell’invisibile”, con poteri di intuizione superiori a quelli degli uomini comuni e della ragione logica».
Abbagnano cita in proposito Novalis, il quale afferma che «Soltanto un artista può indovinare il senso della vita»
e che «Il poeta comprende la natura meglio dello scienziato»; Filosofi e filosofie nella storia, 2, Torino 1992, 20.
33
Schleiermacher critica chi, come D’Holbach, vedeva nella religione il frutto dell’ignoranza e del timore dei
primi uomini; per lui la religione ha un suo “organo” autonomo, specifico, un suo fondamento indipendente: il
sentimento (Gefühl). Si oppone dunque alla religione razionale del deismo illuministico una religione intesa come
sentimento e intuizione. A proposito della definizione di questo sentimento, S. parla di “intuizione e sentimento
dell’Universo nella sua infinitudine”. Quanto al “contenuto” dell’intuizione-sentimento S. parla di “sentimento di
dipendenza” dall’Assoluto.
22
della realtà; pensiero e realtà, logica ed ontologia, vengono così a coincidere. Alla
ragione Hegel assegna quindi le prerogative che poeti e artisti attribuivano al
sentimento (o alla fede): a) la capacità di andare oltre la superficie delle cose
cogliendone il significato profondo; b) la capacità di cogliere (anzi di
comprendere) l’infinito, l’Assoluto.
◊ Fatte queste considerazioni d’ordine generale, è legittimo chiedersi se esista un
carattere particolare che identifichi e definisca tutto il movimento romantico.
Secondo Abbagnano, questo carattere esiste ed è il senso dell’infinito. Kant aveva
costruito un’intero sistema filosofico basato sull’idea del limite (per questo il suo
pensiero è stato chiamato “filosofia del limite”): il R. vuole essere, al contrario,
una filosofia dell’infinito. Sia la letteratura sia l’arte sia la filosofia romantiche si
incentrano infatti sull’affermazione dell’infinito, che è senza dubbio il
protagonista principale di questo movimento. In ogni sua manifestazione, artistica,
filosofica, letteraria, il R. è ricerca e affermazione dell’assoluto,
dell’incondizionato, dell’illimitato. L’ “ebbrezza dell’infinito” è la caratteristica
più peculiare dell’intera età romantica.
◊ L’affermazione dell’infinito consente di spiegare alcune tra le istanze più
caratteristiche del R.
a) L’aspirazione all’assoluto, che ovviamente non può mai essere soddisfatta, dà
luogo al tipico atteggiamento romantico della nostalgia, la Sehnsucht dei romantici
tedeschi. Il vocabolo traduce il perenne anelito dell’eroe romantico verso una
meta che, proprio per la sua infinitudine ed assolutezza, risulta irraggiungibile (il
“fiore azzurro” di Novalis). La vita appare così dominata da inquietudine,
aspirazione, brama incessante e mai appagata. L’uomo romantico è preda di un
vero e proprio “demone dell’infinito” che lo rende insofferente di qualsiasi limite,
perennemente insoddisfatto della realtà in cui vive, costantemente spinto ad
andare oltre gli orizzonti ristretti del finito.
b) L’insoddisfazione del finito genera atteggiamenti diversi: vi è innanzitutto lo
Streben faustiano, il costante ed eroico “tendere” verso una perfezione che mai si
raggiunge, tematizzato in filosofia da Fichte. Ad essi si collega un altro aspetto
tipico della mentalità romantica, il “titanismo”, l’atteggiamento di sfida e
ribellione di chi combatte sapendo che la battaglia è persa in partenza, perché
all’uomo non è possibile superare le barriere del finito.
23
c) Figlio della brama di assoluto è anche l’atteggiamento dell’ironia, che consiste
nel non prendere sul serio nessuna realtà di questo mondo perché, in quanto
“finita”, risulta insignificante e “impari” di fronte all’infinito.
d) Sempre dall’anelito verso l’infinito deriva anche la tendenza all’evasione
presente in molti autori romantici, che, disprezzando il quotidiano, la vita
ordinaria e “mediocre” di ogni giorno, sono attratti da tutto ciò che appare
“meraviglioso”, “atipico”, “fuori dal normale”, “esotico”, “fiabesco”, “primitivo”.
Di qui la riscoperta (per molti versi positiva) del Medioevo e delle civiltà orientali o
comunque “lontane” (dalla Grecia antica all’India). I romantici ricercano così
mondi “diversi”, che permettano di evadere da una realtà che viene vissuta come
troppo angusta e limitata (l’evasione per eccellenza resta quella nel mondo
“fatato” dell’arte e del sogno).
◊ Al di là di tutte le sue manifestazioni particolari, la concezione romantica
dell’infinito permette di risolvere il contrasto (apparente) tra letteratura-arte e
filosofia romantiche. In entrambi gli ambiti, infatti, il principio della potenza
infinita dell’io (dello Spirito, per usare la terminologia caratteristica della filosofia
romantica34) è centrale e decisivo. In tutte le sue manifestazioni il R. appare così
dominato dall’idea dell’infinito.
◊ Tra gli aspetti del R. più rilevanti per il pensiero filosofico vanno segnalati anche:
a) un nuovo, fortissimo, interesse per la storia, che si oppone espressamente alle
dottrine illuministiche: vedere il par. 9 a pagina 32;
b) una concezione della politica anch’essa radicalmente diversa da quella
illuministica e incentrata sul concetto di “nazione” (antitetico al “cosmopolitismo”
illuministico); cfr. libro di testo;
c) un nuovo modo di intendere la natura, assai lontano da quello emerso con la
“Rivoluzione scientifica” e in seguito adottato dall’Illuminismo: cfr. libro di testo
3 - Idealismo
- Si designa come idealismo tedesco il pensiero dei tre maggiori filosofi attivi in
Germania nella prima metà del XIX sec.: Fichte, Schelling, Hegel. Sono tre
34
Il termine “Spirito” è utilizzato nella filosofia idealistica (la filosofia peculiare dell’età romantica) per designare
l’uomo inteso: a) come infinita attività che si autocrea superando continuamente i propri ostacoli; b) come
soggetto in funzione del quale esiste ed ha un senso l’oggetto (cioè la natura). In altre parole, la concezione
dello “Spirito”, presenta l’uomo come attività incessante e ragion d’essere di tutto il reale e conduce di fatto
all’equazione uomo = Dio (presente già in Fichte, che non a caso è considerato l’iniziatore del R. tedesco).
24
personalità assai diverse, accomunate però dal fascino che su di loro esercitano la
“ragione” e la “mente”. I tre filosofi idealisti contrappongono all’Illuminismo e al
criticismo kantiano le tematiche emergenti della nuova cultura romantica
(soprattutto Schelling). L’Illuminismo, ai loro occhi, pone all’uomo limiti
inaccettabili (e ciò proprio in nome della ragione): nega infatti la possibilità di
contemplare, di raggiungere l’infinito, quell’infinito che costituisce l’elemento più
caratterizzante di tutto il pensiero romantico.
- Nel pensiero di Kant, nonostante la “rivoluzione copernicana” che afferma la
centralità del soggetto pensante, resta irrisolta, secondo gli idealisti, la
contraddizione di fondo tra soggetto e oggetto. Infatti, Kant parla di una cosa in sé
(il noumeno), che sta “dietro” ciò che l’uomo conosce (il fenomeno), ma che
tuttavia sfugge alla conoscenza umana. Per Kant, quindi, la realtà in sé (il
noumeno) è solo pensabile, non conoscibile. A maggior ragione sono giudicati
inconoscibili Dio, l’Assoluto, il Fine ultimo dell’universo. Sono limitazioni che
l’idealismo non accetta: nella nuova prospettiva romantica l’aspirazione
all’Infinito è irrinunciabile.
- La critica degli idealisti a Kant è molto puntuale: la filosofia kantiana, dicono,
pone precisi limiti alle facoltà della mente umana, ma non sembra limitare la
facoltà stessa del pensiero, dato che tutto può essere pensato. In sostanza, gli
idealisti vedono nel pensiero kantiano una inaccettabile contraddizione: la cosa in
sé per Kant non è conoscibile, ma è comunque pensabile, cioè rientra nell’ambito
di ciò che può essere concepito dal pensiero. Non si può dunque considerarla “in
sé”, autonoma, estranea al soggetto che la pensa: infatti, quando io penso una
cosa, anche se la definisco “in sé”, “inconoscibile”, “pensabile” e via dicendo, di
fatto le assegno una serie di attributi che la definiscono e che quindi mi
permettono di conoscerla. (Questo significa che per gli idealisti la distinzione
kantiana tra pensare e conoscere è priva di senso: pensare una cosa significa
conoscerla, anche se la si pensa come inconoscibile).
- La cosa in sé come realtà autonoma dunque non esiste: porla come qualcosa di
realmente esistente al di fuori del soggetto, è un residuo di realismo del quale
Kant non si sa liberare35. Occorre ricondurre al soggetto pensante tutta la realtà36:
“essere è essere pensato”, questo è il motto del pensiero idealistico. Per Kant l’io
35
Si intende per realismo la concezione che afferma l’esistenza di un mondo esterno all’uomo, che “sta lì”,
eterno e governato da leggi eterne, aspettando che l’uomo lo scopra e lo conosca.
36
Come sappiamo, Kant distingue nella conoscenza un elemento formale (le forme a priori), posto dal soggetto,
e un elemento materiale, da ricondursi invece all’oggetto. Gli idealisti negano questa distinzione: tutta la realtà,
non solo gli elementi formali di essa, va dunque ricondotta al soggetto; il soggetto quindi non è più soltanto il
principio ordinatore della realtà, ne diviene il principio creatore.
25
non crea la realtà, si limita a ordinarla con le sue forme a priori; per gli idealisti,
invece, rimossa la “cosa in sé”, l’io diviene entità creatrice (fonte di tutto ciò che
esiste) e infinita (senza nessun limite esterno)37.
- Il termine idealismo ha una molteplicità di significati: in linea generale esso
indica l’identità dell’Essere con l’«essere pensato». Anche nel nostro linguaggio
corrente, del resto, l’idea non è altro che il contenuto del pensiero. Idealismo
significa quindi innanzitutto riduzione dell’essere a idea. In questo l’idealismo
tedesco concorda con quello platonico. Ci sono però differenze nettissime: «Per
Platone (…) resta una frattura netta tra realtà ideale e mondo materiale e
sensibile; resta quel dualismo che impone la figura di un demiurgo mediatore38 (…)
In Hegel - e in genere nell’idealismo moderno - scompare la cosa esterna al
soggetto come realtà autonoma: essa diventa ideale, cioè esclusiva
“rappresentazione della ragione”, contenuto del pensiero…» (Ardiccioni).
L’idealismo ottocentesco dunque nega l’esistenza di qualsiasi realtà esterna al
soggetto; il soggetto è, come si diceva più sopra, il principio creatore della realtà,
di tutta la realtà39.
- Da tutto quanto precede si comprende come la tesi fondamentale dell’idealismo
tedesco possa essere riassunta nella massima “tutto è Spirito”, intendendo con
“Spirito” (e con i suoi sinonimi “Io”, “Assoluto”40 e “Infinito”) «la realtà umana,
considerata come attività conoscitiva e pratica e come libertà creatrice»
(Abbagnano). Su questo concordano tutti gli esponenti dell’idealismo; cambia
invece, tra Fichte, Schelling e Hegel, il modo di intendere lo Spirito, l’Infinito, e di
spiegare il suo rapporto con il finito (cioè con la natura e la storia).
4 - Fichte
- Con Fichte si ha il primo compiuto sistema di filosofia idealistica: l’eliminazione
del noumeno, maturata nel dibattito sul criticismo kantiano, viene ora posta alla
base di una nuova filosofia. Senza più il noumeno, tutto viene ricondotto al
37
Sulla critica della “cosa in sé” e il passaggio dal kantismo all’idealismo vedere anche Abbagnano, pp. 51-55)
38
Si ricorderà che nel Timeo platonico il demiurgo plasma la materia assumendo come modello le Idee e da
questa sua opera trae origine il mondo sensibile.
39
La nuova concezione idealistica dell’Io come principio creatore infinito e assoluto di tutta la realtà è ben
espressa dal termine coniato da Fichte per indicarlo: Ichkeit (che potremmo tradurre in italiano con “egoità”).
40
Derivato dall'aggettivo latino absolutus, “compiuto”, “perfetto”, “incondizionato”, “illimitato”; e, come participio
passato di absolvo, “sciolto”, “liberato” (ad esempio da una accusa), il termine “assoluto” indica qualcosa che è
indipendente da altro, perfetto e compiuto in se stesso, che non ha bisogno di essere per esistere ed essere ciò
che è, che non comporta e non sopporta alcuna restrizione e limitazione.
26
soggetto, sia la “forma” sia la “materia” della conoscenza, per utilizzare la
terminologia kantiana.
- L’Io-penso di Kant diventa così l’Io-assoluto di F. (Ichkeit), principio non solo del
pensiero (“forma”) ma anche di ogni suo possibile contenuto (“materia”), un io
che pertanto diviene infinito, come puntualizza Abbagnano: «Se l’io è l’unico
principio, non solo formale, ma anche materiale del conoscere, se alla sua attività
è dovuto non solo il pensiero della realtà oggettiva, ma questa realtà stessa nel
suo contenuto materiale, è evidente che l’io è infinito. Tale è il punto di partenza
di Fichte. Il quale è il filosofo dell’infinità dell’Io, della sua attività e spontaneità,
quindi della sua assoluta libertà».
- Dunque, nell’idealismo di F., l’Io è assolutamente libero, perché non esiste più
nulla fuori di esso che possa limitarlo41. F. critica le filosofie che subordinano l’Io,
il soggetto, all’oggetto (le chiama “dogmatiche”), perché le considera proprie di
caratteri deboli e schiavi, disposti a tollerare una sudditanza dell’Io nei confronti
d’una realtà indipendente da esso. L’idealismo, che F. oppone a tale dogmatismo è
invece, a suo giudizio, garante della libertà e dell’indipendenza assolute dell’Io.
- Sul piano gnoseologico F. dunque riconduce il dualismo kantiano soggetto-oggetto
a una superiore unificazione: l’Io è il principio unico, libero e assoluto della
conoscenza. L’Io di F. non si limita dunque, come riteneva Kant, a ordinare i dati
che gli arrivano dalla realtà esterna (che così sarebbe autonoma e lo
“limiterebbe”), bensì pone esso stesso davanti a sé la realtà come dato, la crea.
Non è soltanto attività legislatrice, è atto creatore.
- F. esprime la sua concezione attraverso le tre celebri proposizioni della Dottrina
della scienza (la sua opera maggiore): a) L’Io pone se stesso; b) L’Io pone il Non-Io
nell’Io; c) L’Io oppone nell’Io all’io divisibile il non-io divisibile.
a) La prima proposizione sta a significare che l’Io è il principio primo di ogni sapere
e di ogni realtà. La condizione essenziale di ogni conoscenza è dunque l’Io e non
l’oggetto, come pretenderebbero i “dogmatici” (cfr. sotto). Principio di tutto è
l’Io, il Soggetto42.
41
La filosofia di F. prende le mosse proprio da un’esigenza di natura etica, quella di garantire la libertà umana.
Occorre cioè concepire la realtà in modo tale da garantire la più assoluta libertà dell'uomo: la fede nella libertà è
alla base di tutto il pensiero di F. L'intuizione che permette a F. di soddisfare questa basilare esigenza del suo
pensiero è la seguente: può darsi libertà dell'uomo soltanto se si ammette che l'Io è all'origine della realtà,
soltanto se si ammette cioè che l'io è creatore.
42
Ogni scienza si fonda, su un principio fondamentale: ogni scienza è infatti il sistema delle proposizioni noncerte che si agganciano ad una proposizione certa “di base”. Anche la Dottrina della scienza di F. deve avere
dunque un principio fondamentale, una verità di base indubitabile che costituisca il fondamento di ogni altra
verità. Questo principio fondamentale non può essere, secondo F., il principio di identità (A=A), che pure è
sempre stato considerato come il supremo fondamento del sapere: infatti esso appare a F. “ipotetico”, perché
afferma che se A esiste, allora A =A. Occorre quindi risalire al di là del rapporto A/A, occorre “raggiungere” chi
pone tale rapporto. In altre parole, primario rispetto all'affermazione A=A è chi la esprime, vale a dire l'Io. A
27
b) La seconda proposizione va compresa a due livelli, l’uno teoretico, l’altro etico:
sotto il primo aspetto l’Io pone il Non-Io, l’oggetto, per potersi affermare quale
soggetto conoscente (la conoscenza non può esaurirsi nell’autocoscienza, reclama
cioè un oggetto, vuol divenire “oggettiva”); sotto il secondo aspetto, che, come si
vedrà, è per F. fondamentale, la posizione del Non-Io da parte dell’Io è motivata
dalla necessità che l’Io ha di affermarsi come “attività”, vale a dire come
moralità. Infatti l’Io, la cui caratterizzazione primaria è la libertà, non potrebbe
realizzare questa libertà se non avesse un ostacolo da rimuovere: l’attività morale
presuppone infatti per F. l’esistenza d’un ostacolo da superare. L’Io pone dunque il
non-Io per potersi realizzare quale “potenza etica”, cioè perché ha bisogno di un
ostacolo, che gli consenta di affermarsi come attività etica. Se, per assurdo, l’Io
non ponesse il Non-Io, sarebbe vanificata la sua fondamentale caratterizzazione
etica43.
c) La terza proposizione afferma che l’opposizione all’Io del Non-Io determina e
definisce l’Io: dall’opporsi di Io e Non-Io derivano dunque i molteplici io e non-io
empirici (ovvero i singoli uomini e le singole realtà empiriche).
- Veniamo ora, in conclusione, alla concezione fichtiana dell’uomo e del suo
compito ne mondo (nella quale si esprime chiaramente il carattere romantico del
pensiero di Fichte).
- L’io divisibile, cioè ciascun uomo, si trova contrapposto al non-io divisibile, cioè
alla realtà empirica. Questa contrapposizione viene vissuta dall’uomo«come una
sottrazione del proprio essere, come se un nemico avesse occupato una parte del
suo territorio». La limitazione è dunque un ostacolo che va abbattuto per
conquistare la pienezza dell’Essere: ogni Io deve cioè combattere una ininterrotta
battaglia per riconquistare il suo “territorio”, battaglia che implica il superamento
della contraddizione che l’Io stesso ha posto. In altri termini, l’io divisibile (“io
empirico”) aspira a farsi Assoluto, a raggiungere la totalità assoluta dell’Essere.
- Questo compito non può realizzarsi, secondo Fichte, attraverso un rifiuto
ascetico del mondo, ma, al contrario, attraverso un continuo, incessante confronto
con il mondo, attraverso cioè un’attività concreta che elimina, pezzo dopo pezzo,
l’ostacolo che impedisce all’Io la sua realizzazione. Questa è la condizione reale
fondamento del principio di identità c'è dunque l'Io che lo pone: ecco il principio fondamentale della Dottrina della
scienza: Io sono. F. enuncia tale principio nella prima delle sue tre proposizioni: l'io pone se stesso. Nell'atto
stesso in cui l'Io pone se stesso è affermato il principio d'identità: Io=Io. Dunque, il presupposto di ogni
affermazione, di ogni sapere, di ogni scienza è l'affermazione dell'Io.
43
Schematicamente: a) Io = libertà ; b) libertà = azione (morale; c) azione = necessita un ostacolo da
rimuovere; d) Io = pone un “ostacolo” che gli consenta di affermare la sua natura etica. Ecco perché si è soliti
chiamare idealismo etico la filosofia di F.: essa infatti si basa sulla fondamentale affermazione della libertàattività dell’Io.
28
dell’uomo, il suo imprescindibile compito: realizzare la completa autonomia della
ragione dalla sensibilità. Si tratta, ovviamente, di un compito infinito, come spiega
Abbagnano: «L’infinito, per l’uomo, anziché consistere in una “essenza” già data,
è, in fondo, un dover-essere e una missione (…) L’uomo è uno sforzo infinito verso
la libertà, ovvero una lotta inesauribile contro il limite, e quindi contro la natura
esterna (le “cose”) ed interna (gli “istinti” irrazionali e “l’egoismo”) (…)
Ovviamente, questo compito si staglia sull’orizzonte di una missione mai conclusa,
poiché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (lo Streben dei romantici) riuscisse
davvero a fagocitare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere, e invece del
movimento della vita, che è lotta ed opposizione, subentrerebbe la stasi della
morte. Al posto del concetto statico di perfezione, tipico della filosofia classica,
con Fichte subentra quindi un concetto dinamico, che pone la perfezione nello
sforzo indefinito di auto-perfezionamento: “Frei sein - sostiene Fichte - ist nichts,
frei werden ist der Himmel”». Ascoltiamo, in conclusione, le parole del filosofo
stesso: «Il fine ultimo dell’uomo è quello di sottomettere ogni cosa irrazionale e
dominare libero secondo la sola sua legge, fine che non è affatto raggiungibile e
tale deve eternamente rimanere se l’uomo non deve cessare di essere uomo per
diventare Dio. Dallo stesso concetto di uomo ricaviamo che il suo fine è
irraggiungibile e la via che porta ad esso infinita. Ma egli può e deve
perpetuamente avvicinarsi ad esso e questo infinito avvicinarsi al fine è la sua
missione di uomo, cioè di essere razionale e pur finito, sensibile e pur libero. Quel
pieno accordo con se stesso si chiama perfezione nel più alto significato della
parola; la perfezione è dunque il più alto e irraggiungibile fine dell’uomo e il
perfezionamento infinito della sua missione. Egli esiste per divenire sempre
migliore e per rendere tale tutto ciò che materialmente e moralmente lo circonda;
di conseguenza per divenire sempre più felice»
5 - Schelling
1) Nel pensiero di S. è dominante è l’interesse per le tematiche filosofiche della
natura, dell’arte e, in una seconda fase, della religione.
2) La filosofia di Fichte, incentrata sul principio dell’infinito, ha uno straordinario
successo: esprime infatti un’esigenza fondamentale dello spirito romantico. Ancor
più romanticamente, S. cerca di dare alla filosofia idealistica dell’infinito la
capacità di fondare il mondo della natura e dell’arte: se Fichte aveva ricondotto
tutto al soggetto, S. pensa a un Assoluto che non sia né pura oggettività né pura
soggettività, ma fondamento e radice dell’una e dell’altra, un Assoluto allo stesso
29
tempo soggetto e oggetto, Spirito e Natura, unita’ e identita’ di entrambi i
principi.
3) In Fichte non c’è nessuna considerazione positiva della natura: la concepisce
infatti come mera negazione, come ostacolo che l’Io oppone a se stesso solo per
permettere alla propria libertà di esprimersi. Di per sè, dunque, essa è un “puro
nulla”. S., al contrario, ritiene che la Natura, non meno dello Spirito, sia dotata di
vita e razionalità. Le attribuisce cioè tutti i caratteri propri dell’Io fichtiano:
attività, finalità, libertà. Si coglie qui l’influsso del nuovo naturalismo romantico:
come molti artisti romantici, S. concepisce la natura come realtà animata, come
grande organismo vivente (“organicismo”≠ meccanicismo).
4) Per S. Natura e Spirito sono due momenti diversi ma convergenti dello stesso
processo; si spiega così la duplice prospettiva del suo pensiero: alla filosofia della
natura, che mostra come la Natura si risolve nello Spirito, si affianca la filosofia
dello spirito (filosofia trascendentale), che mostra come lo Spirito si risolve nella
Natura.
5.1) S. elabora la sua concezione della natura in esplicita opposizione al modello
meccanicistico della scienza moderna, che, escludendo ogni considerazione
finalistica, non sa cogliere l’unità profonda di tutti i fenomeni naturali, il loro
derivare da un comune fondamento. Non serve, per S., ricercare metodicamente,
come fanno gli scienziati, i legami che legano i fenomeni naturali l’uno all’altro:
l’unità della natura va “romanticamente” colta in modo immediato e diretto, con
una intuizione “totale”. Occorre una fisica speculativa che sappia andare oltre i
limiti della ricerca sperimentale di tipo scientifico.
5.2) La natura è per S. un grande organismo, in cui ogni parte è connessa alle altre
e che opera finalisticamente; tale finalismo non è imposto dall’esterno, ma agisce
internamente alla natura stessa (si parla perciò di finalismo immanentistico). Nella
natura si manifesta «un impulso creativo infinito che noi dobbiamo cogliere al di
sotto dell’apparente staticità dei singoli oggetti» (Dal Pra). I singoli oggetti infatti
sono solo le “coagulazioni” di questa infinita produttività, che sempre procede
oltre le realtà singole, perché nessuna produzione finita può esaurirla. La natura
appare così guidata internamente da una “programmazione intelligente”: S. parla
di uno “Spirito” (di una entità spirituale inconscia) immanente nella Natura come
forza organizzatrice e vivificatrice dei fenomeni. La natura costituisce dunque una
totalità vivente in cui ogni cosa, compresa la materia inorganica, è dotata di vita.
5.3) La natura è vista da S. come spirito inconscio, «uno spirito inconscio in moto
verso la coscienza … lungo un percorso che va dai minerali all’uomo … come
30
un’”odissea” dello spirito, il quale “si cerca” attraverso le cose, per giungere
finalmente presso di sé, con l’uomo» (Abbagnano-Fornero).
6) La filosofia della natura procede dunque dal soggetto all’oggetto, chiarisce
come la natura si risolva in spirito. Per S. tuttavia altrettanto importante è il
processo opposto, quello che, andando dal soggetto all’oggetto, mostra come lo
spirito si risolve in natura. Tale processo è l’argomento della Filosofia
trascendentale. Tuttavia, come si deduce da quanto precede, la verità
“completa” non sta né nella filosofia della natura né in quella trascendentale:
l’Assoluto, infatti, non coincide né con la Natura né con lo Spirito né con la
semplice somma di essi; l’Assoluto non é né soggettivo né oggettivo, né Io né Nonio, né consapevole né inconscio: esso è invece identità di queste due polarità. Ecco
perché S. giunge, dopo la filosofia della natura e la filosofia trascendentale, alla
Filosofia dell’identità.
7) Ma questo Assoluto, che è identità di Spirito e Natura, di Io e Non-io, come può
essere conosciuto? S. propone una nuova soluzione di questo fondamentale
problema, soluzione che ha valso alla sua filosofia la definizione di idealismo
estetico. Il prodotto dell’arte appare a S. derivare al contempo dalla coscienza e
dall’incoscienza, dalla libertà e dalla necessità. L’artista, infatti, quando crea, è
da un lato preda d’una potenza inconsapevole che lo ispira, dall’altro traduce
questo impulso inconscio in un’espressione meditata e cosciente. C’è dunque
nell’attività artistica una fusione di inconscio (l’ispirazione) e conscio
(l’esecuzione). Dunque la creazione artistica è caratterizzata da una convergenza
di conscio e inconscio, di soggettivo e oggettivo: per questo suo carattere essa
sembra a S. capace di cogliere la natura dell’Assoluto, costituendosi come «unico
vero ed eterno organo della filosofia». Per il filosofo l’arte è allora ciò che di più
alto esiste, perchè gli scopre «il misterioso santuario dove in eterna ed originaria
unione arde quasi in un’unica fiamma ciò che nella natura e nella storia è
separato». L’Assoluto appare a S. una sorta di “artista cosmico”, che la cui infinita
creatività si specifica in infinite figure; l’artista umano ripete, in sostanza, lo
stesso processo e dunque incarna nel modo più perfetto la realtà dell’Assoluto:
«Nella creazione estetica si ripete il mistero stesso della creazione del mondo da
parte dell’Assoluto».
6 - Tesi fondamentali dell'idealismo hegeliano
31
a) RISOLUZIONE DEL FINITO NELL'INFINITO
- La realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario, del
quale tutto ciò che esiste è una parte o meglio una manifestazione. Questo
organismo non ha nulla al di fuori di sé e coincide dunque con l'Assoluto, con
l'Infinito; di esso i vari enti del mondo sono, come detto, manifestazioni; dunque il
finito, come tale, non esiste: ciò che noi chiamiamo finito è in realtà una
manifestazione, una “espressione parziale” dell'Infinito. La filosofia di Hegel è
quindi caratterizzabile come "monismo panteistico": il mondo (= il finito) è la
manifestazione dell’Assoluto (= l'Infinito)44.
- L'Assoluto hegeliano è definibile come "Soggetto spirituale in divenire": non si
tratta cioè di un dato, ma del risultato di un processo di autoproduzione, che
soltanto alla fine d'un lungo itinerario giunge a rivelarsi per ciò che veramente è.
b) IDENTITÀ DI RAGIONE E REALTÀ
- Hegel chiama il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà Idea (o
Ragione), significando con ciò che pensiero ed essere, realtà e ragione coincidono:
questo indica la celebre affermazione hegeliana "ciò che è razionale è reale, ciò
che reale è razionale". a) "Ciò che è razionale è reale" significa che la razionalità
non è un'astrazione, uno schema teorico, un dover-essere astratto, ma la forma
stessa di ciò che esiste; la Ragione infatti governa il mondo, lo plasma, lo
costituisce, c'è dunque piena identità tra essere e dover-essere; b) "ciò che è reale
è razionale" significa che la realtà non è una massa caotica di eventi privi di senso,
ma il dispiegarsi d'un disegno razionale, nel quale tutto ha un significato.
- Il mondo dunque appare nel sistema hegeliano come "razionalità dispiegata": essa
si manifesta in una serie di momenti necessari, che non possono essere diversi da
come sono. In altre parole: ogni momento della realtà ha una sua intrinseca,
giustificante razionalità: la realtà è perciò una totalità processuale necessaria45.
Da qualsiasi punto lo si guardi, il mondo presenta dunque, nel suo sviluppo, una
serie di passaggi concatenati, di connessioni necessarie, che non potrebbero mai
essere diverse da come sono: in tale serie ogni passaggio è il risultato di quelli
precedenti e il presupposto di quelli successivi (esattamente come accade in un
44
Ricordo il significato dei due termini: monismo indica «le dottrine che tendono a ridurre la pluralità degli esseri
a una sola sostanza, ossia, in termini più specifici, che affermano che l’universo è un’unica sostanza, o un unico
essere, o atto, o processo» (FIRRAO); panteismo indica invece una dottrina (religiosa o filosofica) che non pone
distinzione tra l’universo e Dio, che dunque sono identificati. Monismo e panteismo coincidono quando l’unica
sostanza esistente è Dio (si parla allora di “monismo spiritualistico”); può esistere ovviamente anche un
“monismo materialistico”, quando la sostanza unica di cui si afferma l’esistenza è non Dio ma la materia.
45
Totalità perché non esiste niente fuori di essa (monismo), processuale perché non è statica, ma
intrinsecamente dinamica, necessaria perché ogni suo momento è indispensabile,
32
ragionamento, dove ogni affermazione è conseguenza di quella che la precede e
premessa di quella che la segue).
- Questa concezione definisce anche un particolare modo di intendere il compito
della filosofia: essa non deve pretendere di guidare, determinare e neanche
giudicare la realtà, (che, come detto, è perfettamente razionale); deve invece
solo prendere atto della realtà cercando di comprenderne la struttura razionale;
se pretende di dire come il mondo “dovrebbe essere” la filosofia arriva
inevitabilmente “in ritardo”, arriva cioè quando la realtà ha già fatto il suo corso
(è come la nottola di Minerva, dice H., che appare solo al tramonto); in altri
termini, la filosofia non deve pretendere di imporre alla realtà un suo astratto
schema razionale, deve invece cercare di cogliere la razionalità che sta dentro la
realtà.
c) LA DIALETTICA
- Il concetto di dialettica è il centro motore della filosofia di H.; affonda le sue
premesse nella concezione della realtà dome processo. Si è detto infatti che
l'Assoluto non è, per H. statico, ma è divenire, processo, sviluppo: la legge che
regola e spiega questo divenire è la dialettica.
- Dato però che per Hegel pensiero e realtà coincidono, la dialettica governa sia lo
sviluppo della realtà (ontologia) sia la comprensione di essa (logica). La dialettica
dunque la legge suprema che spiega sia la realtà sia il pensiero.
- La dialettica si articola in tre momenti: I) tesi: è la posizione (o affermazione)
del concetto; II) antitesi: ogni posizione comporta però la negazione del concetto e
il passaggio al suo opposto; III) sintesi: «tesi e antitesi sono però entrambe parziali
e astratte; solo la loro unità (sintesi) consente infine di comprendere il vero nella
sua essenza totale, di cui tesi e antitesi sono parti» (Sini).
- Va ribadito che la dialettica non è solo la legge del pensiero, ma è la legge della
realtà stessa: i suoi risultati non sono dunque puri concetti, concetti astratti, ma
"pensieri concreti", cioè realtà vere e proprie.
Annotazioni sulla dialettica hegeliana
- Come gli altri filosofi idealisti, anche Hegel ritiene che nell’uomo si trovi una
fondamentale aspirazione all’Assoluto, all’Infinito (siamo del resto in epoca romantica!).
Questa brama di assoluto però non è, a suo avviso, soddisfatta dall'intelletto (che per
Kant è invece l'organo del sapere scientifico)46; l'intelletto infatti fissa, cristallizza la
46
Hegel non accetta che la conoscenza umana sia limitata, come vuole Kant, al fenomeno, cioè al mondo finito
(che per lui è del resto solo una manifestazione dell’infinito); come Schelling, egli ritiene dunque che il vero
sapere sia la conoscenza dell'Assoluto, della realtà infinita, che sta alla base del mondo (finito) dei fenomeni.
33
realtà (e il pensiero), procedendo per distinzioni47. Ma la vita e il pensiero, che sono un
incessante fluire, non si lasciano ingabbiare nei concetti, tendono sempre a superarli.
(ogni tesi, potremmo dire, comporta un’antitesi e di qui scaturisce la sintesi). L'intelletto
non è, secondo H., in grado di capire la realtà proprio perché, isolandone i vari momenti,
li fa apparire fissi; la ragione invece riesce a cogliere e spiegare il movimento che è al
cuore della realtà, la sua intrinseca (e dialettica) processualità.
- C’è quindi una netta distinzione tra logica dell'intelletto e logica della ragione che
svolge un ruolo decisivo nel pensiero di Hegel. Essa si affaccia già in alcune opere
giovanili48 nelle quali Hegel critica sia Fichte sia Schelling: il primo ha il merito di
cogliere l'opposizione come aspetto fondamentale della realtà (Io - Non io), ma non sa
andare oltre questa opposizione; essa non può infatti essere superata ingigantendo un
opposto (l'Io) rispetto all'altro, perché così non avviene nessun superamento dell'antitesi
(il superamento richiede infatti che i due opposti siano in qualche modo "eliminati", "resi
identici"). A Schelling, invece, Hegel riconosce il merito di aver concepito l'Assoluto come
suprema identità (di soggetto e oggetto), ma lo critica perché, a suo giudizio, questa
totalità è qualcosa di "oscuro" e "confuso", che proprio per questo può essere colto solo
per via a-razionale e intuitiva (cioè attraverso l'arte).
Già negli scritti giovanili H. afferma quindi la necessità di una nuova logica. Quella
tradizionale sa infatti solo classificare e distinguere: le sfugge così il movimento vivo del
pensiero. Gli elementi del pensiero non sono "bloccati" in posizioni fisse: essi
costantemente trapassano l'uno nell'altro (la tesi nell’antitesi), raggiungendo una
superiore unificazione (la sintesi). Il pensiero non è dunque una sequenza di concetti
"fermi", ma un’attività che di continuo passa da un concetto al suo opposto. Il pensiero è
cioè processo (e così è anche la realtà, che col pensiero, come sappiamo, coincide): va
quindi rifiutata la tradizionale concezione “statica” della logica: occorre una nuova
logica dinamica, che sia capace di mostrare come il pensiero "rompe" la fissità dei
concetti isolati e "scorre" costantemente da un concetto al suo opposto e di qui alla
sintesi dei due.
7- Marx
Mentre però per Schelling è l'arte che permette all’uomo di accedere all'Assoluto, per Hegel l’accesso passa
attraverso la ragione.
47
Usando un paragone moderno, potremmo dire che l’intelletto “fa una fotografia” della realtà, fermandone,
“bloccandone” un determinato momento. Ma la realtà, secondo H., non è statica, ferma come una foto: è
intrinsecamente e strutturalmente dinamica, come un film.
48
Ad esempio nello scritto intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e Schelling del 1801.
34
◊ il pensiero di M. non può essere ritenuto soltanto filosofia, sociologia o
economia: vuole infatti essere una interpretazione globale della realtà e della
storia
◊ il pensiero di M. rifiuta di essere soltanto teoria che interpreta l’uomo e la
realtà: vuole infatti essere capace di cambiare la realtà a vantaggio dell’uomo,
trasformandosi da teoria in azione, prassi (e prassi rivoluzionaria)
◊ il pensiero di M. è profondamente influenzato da quello di Hegel, anche se
prende una strada assai diversa; M. critica H. perché ritiene, come già Feuerbach,
che la filosofia idealistica capovolga il corretto rapporto tra soggetto e predicato,
tra concreto e astratto, tra realtà e pensiero: infatti l’idealismo afferma che la
realtà (concreta) è manifestazione del pensiero (astratto); dopo avere costruito il
concetto di Spirito partendo dalla realtà, Hegel fa della realtà la manifestazione
dello Spirito ed in questo consiste la sua “mistificazione logica”, di fronte alla
quale occorre ripristinare il corretto rapporto tra le due parti: ciò che l’idealismo
ha capovolto va “ri-capovolto” riconoscendo il vero soggetto e il vero predicato. H.
fa dell’Idea il soggetto e dell’uomo, con i suoi bisogni concreti, il predicato:
occorre capovolgere questo rapporto
- M. critica Hegel anche sul terreno strettamente politico: l’hegelismo infatti è una
forma di giustificazionismo: considerando la realtà come manifestazione dello
Spirito, Hegel la giustifica tutta (“tutto il reale è razionale”), cioè conferisce
valore e razionalità al dato di fatto, a ciò che esiste; ogni forma politica, quindi,
anche la più repressiva e illiberale, appare legittima e anzi necessaria
- M. riconosce tuttavia a Hegel grandi meriti, soprattutto perché ha saputo
cogliere la struttura dialettica della realtà: la realtà è una totalità storicoprocessuale, cioè un divenire che si attua e si realizza nel tempo, non un dato
fissato e statico, e questo divenire procede per opposizioni, è dialettico; M.
condivide con Hegel questa concezione della realtà come processo che è mosso
dalle antitesi, dai conflitti (cioè come processo dialettico), ma - come vedremo non pensa che si tratti di un processo concettuale, ma di un processo reale,
concreto.
◊ M. critica in modo radicale la civiltà moderna e lo stato liberale, contrapponendo
ad essi il modello comunista; lo Stato moderno (liberale-borghese ) si presenta
come tutore degli interessi comuni, ma in realtà è solo lo strumento delle classi
economicamente più forti; persegue solo gli interessi particolari di queste classi,
non il bene comune; nella società moderna va perduta l’armonica unità tra il
cittadino e la comunità che c’era, per esempio, nel mondo greco: il singolo è
separato dalla collettività, ognuno cerca solo il proprio interesse individuale;
35
questa è, secondo M., la realtà che si cela sotto le pretese conquiste del
liberalismo, cioè libertà (individuale) e proprietà (privata); M. pensa ad uno Stato
del tutto diverso, in cui singolo e collettività si armonizzino alla perfezione; per
realizzarlo tuttavia occorre eliminare ogni disuguaglianza tra gli uomini, il che
significa in primo luogo eliminare la proprietà privata, che è (come in Rousseau)
l’origine di ogni disuguaglianza; la vera democrazia coincide dunque con la vera
uguaglianza e la vera uguaglianza con il comunismo cioè con l’eliminazione della
proprietà privata.
◊ M. critica aspramente i teorici dell’economia borghese, gli “economisti classici”,
perché pretendono di far passare per eterne quelle che definiscono “leggi della
produzione economica” in generale, ma che in realtà sono leggi della produzione
economica del sistema capitalistico; in altre parole, essi presentano come leggi
eterne dell’economia quelle che in realtà sono le leggi del capitalismo, facendo
passare il capitalismo non come un sistema economico fra i tanti, ma come il
sistema “naturale” di produzione e distribuzione della ricchezza.
◊ In realtà, secondo M., il sistema capitalistico è destinato ad essere superato
perché ha al suo interno profonde contraddizioni che ne rendono necessario il
superamento. M. recupera (come si diceva più sopra) la dialettica hegeliana (cioè
la concezione per cui la realtà si “muove” per contraddizioni), soltanto che non la
applica più, come Hegel, allo sviluppo dello spirito, ma al concreto della storia
umana. Torneremo più avanti su questo punto fondamentale; per ora diciamo che
M. analizza la struttura contraddittoria della società capitalistica attraverso il
concetto di alienazione; mentre per Feuerbach l’alienazione è un fatto che
riguarda la coscienza dell’uomo e che dipende da un’errata interpretazione che
l’uomo stesso dà di sé, per M. essa è un fatto reale e concreto, di natura sociale ed
economica, collegato alle condizioni materiali di lavoro dell’operaio nella società
capitalistica: è la condizione del “lavoro alienato”, che possiamo riassumere come
segue: l’uomo ha nella sua essenza il lavoro, è il lavoro che gli permette di
realizzarsi, ma un lavoro libero e creativo; nella società capitalistica il lavoro però
non è più realizzazione dell’uomo, ma alienazione, perché a) il lavoratore non
entra mai in possesso del frutto del suo lavoro, che gli viene costantemente
sottratto; b) del suo lavoro e del frutto di esso si impossessa un potere estraneo,
che ne trae profitto: il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione. Dunque il
meccanismo produttivo dell’economia capitalistica riduce l’operaio a strumento
per produrre una ricchezza che non gli appartiene e che, anzi, si erge di fronte a
lui come estranea e nemica. Questo meccanismo perverso è determinato dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione, grazie alla quale il proprietario della
36
fabbrica (il capitalista) usa il lavoro degli operai per aumentare la propria
ricchezza. Per superare l’alienazione del lavoro, quindi, occorre abolire la
proprietà privata dei mezzi di produzione49.
◊ M., come abbiamo visto, riprende da Feuerbach il concetto di alienazione, ma
allo stesso critica il suo precursore perché lo ritiene poco attento alla dimensione
storica dell’uomo; infatti, F. (che pure ha avuto il grande merito di portare il
discorso filosofico sull’uomo concreto, uscendo dall’astrattezza dell’hegelismo), ha
parlato dell’uomo “in generale”, non capendo che l’uomo è il prodotto della
società in cui vive; secondo Feuerbach, l’uomo “in quanto tale” produce la
religione ponendo fuori di sé perfezioni che sono solo sue (meccanismo
dell’alienazione), ma qui sta l’errore: non è l’uomo “in quanto tale” che produce
religione, ma l’uomo schiavo, sfruttato, oppresso. M. elabora la sua celebre
interpretazione della religione come “oppio del popolo” proprio partendo dalla
considerazione dell’uomo che vive in società che lo schiavizzano, non da un
concetto generale, astratto di “umanità” (come aveva fatto Feuerbach). Solo un
uomo schiavo ha bisogno di immaginare un aldilà, un “altro mondo” in cui poter
essere libero e felice; la religione non è un prodotto dell’umanità in quanto tale,
ma dell’umanità in quanto schiava: quindi per eliminare l’alienazione religiosa non
basta un critica filosofica della religione: occorre agire sulla società, cambiarne le
strutture socio-economiche. Quando l’uomo sarà liberato, non più schiavo, non
produrrà più religione (perché non ne sentirà più il bisogno)
◊ Il pensiero di M. elabora una nuova concezione della storia, destinata ad influire
potentemente su tutta la cultura occidentale (e non solo). Occorre, dice M.,
cogliere il movimento reale della storia, cercare il concreto del divenire storico.
Per far ciò bisogna rendersi conto che a guidare la storia non sono (come si è
sempre creduto) le idee, ma il concreto agire degli uomini (praxis) che, partendo
da determinate condizioni (materiali), le modificano per soddisfare i loro bisogni
primari. La storia è dunque un processo materiale, basato sul soddisfacimento dei
bisogni concreti dell’uomo: per poter “fare la storia” gli uomini devono essere in
grado di vivere, ma il vivere - scrive M. - «implica prima di tutto il mangiare e
bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la
creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della stessa vita
materiale». La base della storia si trova pertanto nel modo in cui l’uomo realizza la
49
Tutto ciò può essere espresso nei termini della dialettica: l’alienazione del lavoro è una contraddizione che
alberga nel cuore dell’economia capitalistica: la società capitalistica nega l’essenza dell’uomo perché gli
impedisce di realizzarsi attraverso il lavoro; questa negazione (antitesi) richiede di essere superata e il
superamento non può che essere la società comunista, che è negazione di quella capitalistica (cioè “nega la
negazione”).
37
sua vita materiale: in ciò che egli produce e in come lo produce50. Da quanto
precede deriva un’importantissima conseguenza: le idee (quello che l’uomo pensa)
sono il riflesso delle condizioni materiali in cui vive e non i princìpi che muovono
la storia; non bisogna quindi spiegare la vita materiale partendo dalle idee, ma - al
contrario - spiegare le idee partendo dalla vita materiale. E’ questo il principio
fondamentale del materialismo storico: per capire la storia bisogna analizzare gli
aspetti materiali della vita umana perché le forze motrici della storia non sono di
natura spirituale (non sono “idee”), ma di natura socioeconomica; nella
determinazione dei fatti umani, il ruolo decisivo spetta ai fattori di ordine
economico e sociale.
◊ Questa lettura della storia ha alla sua base la fondamentale distinzione tra
struttura e sovrastruttura, che fornisce a M. il criterio essenziale di
interpretazione dei fatti umani e culturali. La “struttura” è costituita dalle forze
produttive e dai rapporti di produzione51: le forze produttive sono gli uomini che
producono e i mezzi che essi usano per produrre (“mezzi di produzione”); i
rapporti di produzione sono i rapporti che si instaurano tra uomo e uomo nel
processo produttivo e che definiscono il possesso dei mezzi di produzione, la loro
utilizzazione e la ripartizione di ciò che per loro tramite viene prodotto. L’insieme
delle forze produttive e dei rapporti di produzione costituisce la base economica
della società, che Marx chiama “struttura” (Bau); essa è il piedistallo su cui si basa
il complesso delle concezioni giuridiche, politiche, filosofiche, religiose, artistiche
(in generale la “cultura”), complesso che M. chiama “sovrastruttura” (Überbau).
Dunque, secondo il materialismo storico di M., rapporti giuridici, idee filosofiche,
religiose, morali, artistiche, ecc. non sono (-> Hegel) realtà autonome, a sé stanti,
ma espressione dei rapporti produttivi che definiscono la struttura
socioeconomica: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma
è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza…»52. Non
dunque le leggi, le idee politiche, le religioni, ecc. determinano la struttura
50
L’uomo infatti si differenzia dall’animale proprio perché produce i suoi mezzi di sussistenza: alla base della
storia umana vi è dunque il lavoro, che permette all’uomo di emergere dalla condizione animale e di creare
civiltà e cultura
51
Cfr. Abbagnano, pp. 228 - 230.
52
E, dunque, nella società capitalistica, caratterizzata dalla proprietà privata, diritto, dottrina dello stato,
filosofia, arte e religione (cioè gli elementi della “sovrastruttura”) da un lato sono espressione della struttura
economica basata sulla proprietà privata, dall’altro sono volti a giustificare e perpetuare la proprietà privata
stessa. Quindi: il diritto definisce la proprietà privata (ciò che è mio e ciò che è tuo), lo stato - col suo potere
esecutivo - fa osservare ciò che il diritto definisce (e diventa così uno “stato-gendarme”), la filosofia è l’impianto
teorico che cerca di giustificare razionalmente l’esistenza di un tale diritto e di un tale stato. Le ideologie quindi,
per un verso, derivano dalla struttura economica della società (ne sono, come detto, espressione), per l’altro,
sono utilizzate al fine di giustificare tale struttura.
38
economica della società (come vorrebbe l’idealismo); al contrario, la struttura
economica della società determina leggi, idee politiche, religioni53.
◊ Le forze produttive e i rapporti di produzione permettono dunque di interpretare
la società nella sua forma statica, nel suo essere; rendono però anche possibile la
comprensione della società nella sua forma dinamica cioè nel suo divenire. Sono
infatti la “molla” del suo cambiare, del suo muoversi nel corso della storia.
Secondo M. le forze produttive si sviluppano più rapidamente dei rapporti di
produzione: questo genera all’interno della società una contraddizione dialettica,
che richiede di essere superata. Infatti, si verifica nella storia delle società umane
che emergano nuove forze produttive, incarnate da una classe in ascesa, mentre i
rapporti di produzione restano quelli vecchi, incarnati da una classe dominante
ormai giunta “al tramonto”. Lo scontro è inevitabile perché questo conflitto deve
risolversi: di solito è la nuova classe a vincerlo54. Facciamo un esempio: nella
Francia del XVIII secolo c’è conflitto tra le nuove forze produttive, incarnate dalla
borghesia, e i vecchi rapporti di proprietà, incarnati dall’aristocrazia. Di qui lo
scontro e la rivoluzione che porta al potere la classe borghese. Nella società
capitalista M. vede un’analoga contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione: infatti il capitalista è proprietario “privato” dei mezzi di produzione,
ma essi funzionano solo grazie al lavoro “sociale” degli operai: se tuttavia la
produzione della ricchezza è “sociale”, tale deve essere anche la sua
distribuzione.. Dunque, secondo M., l’intima contraddizione del capitalismo porta
“in sé” il socialismo, che ne é la risoluzione.
M. interpreta dunque la storia in modo dialettico, perché dice che il motore della
storia è dato dalle contraddizioni di carattere socio-economico che si verificano
nella società. Si parla perciò di materialismo dialettico. Viene così recuperata la
dialettica di Hegel, non più intesa però come legge del pensiero, ma come legge
della realtà concreta e del suo divenire storico55. La storia è una totalità
processuale dialettica mossa dalle contraddizioni e volta al raggiungimento di un
“risultato finale”.
◊ Basandosi su queste idee M. critica la sinistra hegeliana, accusandone i
rappresentanti di essere degli “ideologi”: essi infatti vogliono cambiare le “idee”,
53
M. dunque non usa il termine “materialismo” nel senso che abitualmente esso ha in filosofia (dottrina per cui
la materia è sostanza e causa delle cose), ma per affermare che la storia è mossa non da idee, ma da fattori di
carattere economico e sociale.
54
Si spiega così la famosa espressione di M. per cui “la storia è storia di lotte di classe”: forze produttive e
rapporti di produzione si incarnano infatti in classi; la loro contraddizione significa opposizione di classi.
55
M. dice espressamente che occorre “capovolgere” la dialettica hegeliana mettendo i piedi al posto della testa
e viceversa: soggetto della dialettica è infatti non lo Spirito, ma la struttura economica della società e i rapporti
tra le classi; le opposizioni (tesi-antitesi) che muovono la storia non sono astratte, ma concrete, materiali.
39
convinti che così cambieranno anche le condizioni concrete di vita dell’uomo, ma
non si rendono conto che così facendo agiscono non sulla causa, ma sulla
conseguenza. E’ inutile cercare di modificare la sovrastruttura se non si agisce
sulla struttura che la determina.. La vera alienazione dell’uomo non è quella delle
idee, ma risiede nella concreta situazione in cui vive.
◊ Nel suo maggior scritto di carattere economico, Il Capitale, M. analizza la società
capitalistica cercando di metterne in luce le caratteristiche essenziali e il
meccanismo strutturale. Fondamentale in questo contesto è la teoria del valore,
che possiamo schematizzare come segue:
- M. inizia la sua analisi dalla “merce”: essa è qualcosa che, grazie alle sue
proprietà, può essere utilizzato per soddisfare un bisogno; è dunque “utile” e
questa sua utilità fa di essa un “valore d’uso”;
- dal “valore d’uso” occorre distinguere il “valore di scambio”: oltre che usata, la
merce può infatti essere anche scambiata con altre merci; il valore di scambio
determina la proporzione quantitativa che regola lo scambio delle merci (es. due
braccia di seta per uno staio di grano, rapporto quantitativo 2/1);
- questo rapporto quantitativo da che cosa è determinato? Che cos’hanno in
comune le diverse merci che le rende scambiabili secondo un determinato
rapporto quantitativo? Secondo M; è il fatto che esse sono (tutte) prodotte dal
lavoro; tra la seta e il grano, ciò che c’è di comune è il lavoro che serve a produrli;
ecco perché posso definire una proporzione di scambio tra due cose così diverse; il
valore di scambio è dunque collegato alla quantità di lavoro che occorre per
produrre le merci;
- nelle società precapitalistiche il lavoratore vende il prodotto del suo lavoro; nella
società capitalistica, invece, vende il suo lavoro, che diventa quindi esso stesso
una merce; M. lo chiama “forza-lavoro”: l’operaio vende la sua forza-lavoro in
cambio del salario che il capitalista gli dà;
- però, la forza-lavoro è una merce diversa da tutte le altre perché non solo “è”
valore, ma “produce” valore; orbene, il capitalista paga la forza-lavoro non sulla
base del valore che essa produce, ma sulla base del suo valore, come si fa con ogni
altra merce; come per ogni altra merce, il valore della forza-lavoro è definito dalla
quantità di lavoro necessaria a produrla: in questo caso dai mezzi di sostentamento
necessari per mantenere in vita l’operaio; da tutto ciò deriva che c’è una netta
differenza tra il salario che viene pagato all’operaio (basato sulle sue necessità di
sopravvivenza) e il valore della merce prodotta dal lavoro dell’operaio; questo “di
più” è chiamato plusvalore e viene incamerato dal capitalista che così vede
aumentare la sua ricchezza.
40
Questionario: Schopenhauer, Feuerbach, Marx, Kierkegaard
Schopenhauer
- che cosa differenzia la concezione schopenhaueriana della dualità fenomenonoumeno da quella kantiana? (ovvero: come interpreta S. la distinzione fenomenonoumeno - e il rapporto tra i due - in confronto con il pensiero di Kant?)
- che cosa intende S. con la metafora del “velo di Maya”?
- quali analogie e quali differenze sono riscontrabili tra il pensiero di S. e quello di
Kant (fenomeno-noumeno, forme a priori, ecc.)?
- come è possibile per l’uomo, secondo S., l’accesso al noumeno?
- quale verità si evidenzia nel momento in cui l’uomo riesce a rompere il “velo di
Maya” (cioè ad accedere alla realtà noumenica)?
- che cosa intende S. per “volontà di vivere”?
- quali sono i caratteri della “volontà di vivere”?
- descrivi il pessimismo di S. e i suoi fondamenti teorici
- perché S. afferma che “vivere è soffrire”? come caratterizza il piacere? perché la
sua concezione della felicità umana è “negativa”? come caratterizza S. le
alternative che contraddistinguono la vita dell’uomo
- perché quello di S. è un pessimismo “cosmico”?
- quali sono e come si caratterizzano le vie di liberazione dal dolore descritte da
S.?
- perché S. rifiuta il suicidio?
- come caratterizza S. l’arte? perché ritiene che possa essere un rimedio contro il
dolore dell’esistenza? quali sono i limiti di questo rimedio?
- come caratterizza S. la “via” della compassione? perché la compassione
rappresenta una via di liberazione dal dolore? quali ne sono i limiti?
- come caratterizza S. la via dell’ascesi? quali tappe la contraddistinguono? che
cosa intende S. per “nirvana”?
- quali elementi e temi di carattere romantico sono identificabili nella filosofia di
S.?
- quali critiche muove S. alla filosofia di Hegel?
Feuerbach - Marx
- spiega la distinzione tra destra e sinistra hegeliana (ovvero: su quali aspetti del
pensiero di Hegel verte la discussione tra destra e sinistra hegeliana?)
41
- da quale esigenza di fondo muove il pensiero di Feuerbach? perché critica
l’impostazione idealistica della filosofia?
- come sviluppa F. la sua critica della religione? che cosa è Dio, secondo l’analisi
che F. fa della religione? come si origina l’idea di Dio, secondo lui?
- come si struttura l’alienazione religiosa? che cosa intende F. per alienazione?
come ne descrive il meccanismo?
- perché, secondo F. l’ateismo è un “imperativo filosofico e morale”?
- che cosa critica F. nel pensiero di Hegel? perché, a suo avviso, l’idealismo ha un
carattere alienante?
- come va inteso l’ “umanismo” di F.? che cosa significa la celebre massima
“l’uomo è quello che mangia?” (ovvero: che cosa afferma la teoria feuerbachiana
degli alimenti?)
- che cosa riprende M. del pensiero di Hegel e che cosa, invece, critica?
- perché M. critica il moderno stato liberale?
- perché M. critica i teorici dell’economia borghese?
- come caratterizza M. l’alienazione? in che cosa si differenzia a questo proposito
da Feuerbach? (vedi anche sotto)
- che cosa si intende per materialismo storico? come interpreta M. la storia? quali
sono secondo M. le forze motrici della storia?
- spiega la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura
- cosa sono le forze produttive e i rapporti di produzione (ovvero: da che cosa è
composta la struttura della società)?
- che cosa si intende per materialismo dialettico? come spiega M. il divenire storico
delle società? quali sono le contraddizioni interne della società capitalistica?
- perché M. critica la sinistra hegeliana? che cosa condivide e che cosa contesta del
pensiero di Feuerbach? in che cosa si differenzia la sua analisi della religione da
quella di Feuerbach?
- che cosa afferma la teoria marxiana del valore sviluppata nel Capitale? che cos’è
il plusvalore?
Kierkegaard
- quali vicende caratterizzano la vita di K?
- quali sono le caratteristiche principali del pensiero di K?
- che cosa intende K. per “possibilità”? come caratterizza K la “possibilità”?
- che cosa intende K per “punto zero”?
42
- che cosa indica il fatto che K abbia pubblicato le sue opere utilizzando degli
pseudonimi?
- che ruolo svolge la fede nel pensiero di K?
- quali sono le critiche di fondo che K muove all’idealismo? (ovvero: quali istanze
contrappone K alla filosofia hegeliana?)
- che cosa sono e quali sono gli “stadi” dell’esistenza umana? come li caratterizza
K?
- qual è il tema di Aut aut? come descrive K lo “stadio estetico”? perché fallisce la
vita “estetica”, a quale condizione esistenziale conduce? come si caratterizzano la
noia e la disperazione?
- che cosa intende K per “vita etica”? come caratterizza K questa modalità
dell’esistenza? a quale esito conduce sul piano esistenziale la vita “etica” (ovvero:
che cosa intende K per “pentimento”?)
- come si giunge dalla vita “etica” alla vita “religiosa”? (come si caratterizza cioè il
passaggio tra queste due modalità dell’esistenza?) qual è il significato della figura
di Abramo in Timore e tremore? come caratterizza K il rapporto tra religione e
morale? come viene descritta da K l’esperienza della fede? (ovvero: cos’è per K la
fede? come caratterizza l’esperienza cristiana?)
- che cosa intende K per “angoscia”? come caratterizza K l’angoscia? che ruolo le
assegna nell’esperienza esistenziale dell’uomo? perché, secondo K, l’angoscia è la
caratteristica più peculiare della condizione umana?
- che cosa intende K per “disperazione”? cosa differenzia la disperazione
dall’angoscia? quale rimedio definisce K per superare la condizione dell’angoscia (e
perché)?
43