Michele Carmine Minutiello L’IDEA DELLA TRASCENDENZA NEL BUDDHISMO In un precedente articolo si era presa in considerazione la tematica della concezione di Dio e dell’Assoluto, con l’analisi di espressioni dottrinali e simboliche presenti in diverse religioni1. Si intende ora riprendere – sia pure in maniera sintetica, e quindi necessariamente non esaustiva - quel discorso in relazione al buddhismo, che certamente si presenta con caratteristiche del tutto specifiche, tanto da aver suscitato non poche discussioni sul suo effettivo statuto di “religione”. Occorre ricordare, in ogni caso, le difficoltà di approccio e di effettiva comprensione per la mentalità occidentale, fondata su categorie spesso – e talora irriducibilmente – dissimili da quelle del pensiero orientale. Si sa che il buddhismo ha avuto un destino alquanto particolare: quasi estintosi in passato nella sua terra di origine - l'India, dove si è parlato tuttavia di un revival moderno - come religione a carattere universalistico ha potuto diffondersi in molti paesi dell'Asia centrale e orientale. Naturalmente, in questo processo storico di diffusione ed espansione, esso si è calato nelle realtà umane e culturali locali assumendo specificità che ne hanno fatto un fenomeno complesso e multiforme. È anche naturale che in 2500 anni di storia il messaggio del Buddha sia stato sviluppato dai suoi seguaci, approfondito da diversi punti di vista, applicato secondo modalità anche differenti, evolvendosi quindi in varie linee di pensiero e di pratica. Si distinguono due correnti principali: il buddhismo antico o del «Piccolo Veicolo» (Theravàda o Hinayàna), e quello del «Grande Veicolo» (Mahàyàna) sviluppatosi verso gli inizi dell'era cristiana; all'interno di questo si colloca un terzo «Veicolo», quello dei Tantra o «Veicolo di diamante» (Tantrayàna o Vajrayàna). Ognuna di queste correnti ha avuto propri maestri e una propria letteratura dottrinale; ognuna ha enfatizzato determinati aspetti della dottrina e della pratica, in accordo con i tempi e con le capacità e disposizioni dei discepoli. L'Hinayàna aveva insistito particolarmente sull'analisi psicologica, la stretta osservanza della disciplina, la soppressione delle passioni e il distacco per giungere alla cessazione di nascita e morte e alla liberazione individuale. Il Mahayana seguì un diverso orientamento, approfondendo 1'indagine filosofica intorno alla Verità ultima e proponendo il modello altruistico del Bodhisattva («Essere la cui essenza è Illumina1 M. C. Minutiello, “Appunti sulla concezione di Dio e dell'Assoluto”, in Sacramentaria & Scienze Religiose (Nuova serie di “Quaderni di Scienze Religiose”), n.32 (2009), pp.138-151; sulla figura del Buddha si veda Id., “Buddha e il Buddhismo: le storie hanno vita lunga…”, in Sacramentaria & Scienze Religiose (Nuova serie di “Quaderni di Scienze Religiose”), n.31 (2008), pp. 144-162. Si adotta nel presente articolo una trascrizione estremamente semplificata dei termini sanscriti e tibetani. 1 zione»). I Bodhisattva situati su elevati piani di perfezione spirituale divennero oggetto di devozione, insieme ai Buddha delle varie epoche. Si ritenne infatti che Shàkyamuni non fosse l'unico Buddha (epiteto che significa semplicemente «Risvegliato» o «Illuminato»), ma che altri ve ne fossero stati nel passato, così come ve ne saranno in futuro. Il Tantrayàna o Vajrayàna ha costituito l'insegnamento esoterico e più esclusivo – sviluppato specialmente nel buddhismo indo-tibetano. I Tantra sono testi basati su una concezione nondualistica della realtà, sulla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, e prevedono l'impiego e la sublimazione di tutte le energie psicofisiche dell'essere umano. Sono finalizzati essenzialmente alla pratica (sàdhanà) basata sull'impiego di rituali, tecniche di yoga, visualizzazioni di «divinità tutelari» (scr. ishtadevatà, tib. yi dam), formule mistiche (mantra), segni particolari (mudrà), diagrammi (mandala), con complessi significati simbolici e con funzione di supporto della meditazione realizzativa. Non ci sono dunque tanti «buddhismi», ma diversi rami nati dal tronco unico della dottrina del Buddha, con un'unica base e un unico scopo finale. Per usare le parole del Buddha stesso, si può dire che «proprio come il grande Oceano è di un solo sapore, di sapore salato, così pure questa Buona Legge è di un solo sapore, del sapore della Liberazione» 2. Ne consegue che, per una vera comprensione di qualsiasi manifestazione della spiritualità buddhista, si debba necessariamente partire da una seria e corretta conoscenza delle origini. In India la dottrina del Buddha non nasce dal nulla, ma trova le sue radici in un terreno spirituale già denso di idee, intuizioni, esperienze. In effetti, la ricchezza e la molteplicità di forme e aspetti della speculazione e della religiosità indiane sono davvero sorprendenti, a volte addirittura sconcertanti nella loro esuberanza. Non c'è via o pratica interiore che l'India non abbia tentato nel suo desiderio di esperienza diretta e di realizzazione dell'Assoluto. Induismo e buddhismo si sono sviluppati in modi autonomi e spesso in polemica tra loro, ma anche con influenze reciproche ed elementi di convergenza. Nessun dubbio sul fatto che il Buddha storico sia stato una figura di riformatore: proprio in questo sta la sua forza e la novità della via da lui seguita e indicata agli altri; spesso difatti appare decisamente critico nei riguardi di concezioni e pratiche affermatesi come ortodosse. Tuttavia analoghi atteggiamenti possono riscontrarsi anche in altre correnti a lui contemporanee, e non solo in quelle che si ponevano fuori dal dominante ordine vedico-brahmanico (come il Giainismo e il mate- 2 Udàna, V.5. Le citazioni dal Suttapitaka sono tratte dal Canone buddhista, Discorsi brevi, a cura di P Filippani- Ronconi, UTET, Torino 1968. «Buona Legge» (scr. saddharma) indica qui la dottrina predicata dal Buddha. 2 rialismo dei Nàstika), ma pure nei testi delle Upanishad, riconosciute peraltro come autorità scritturali in seno all'Induismo. Il momento storico in cui appare Siddhàrtha Gautama, il futuro Buddha (VI-V sec. a.C.), definito un «periodo assiale» nella storia del pensiero umano, fu dunque caratterizzato in India da un fermento di ricerca spirituale, motivato anche da un senso d'insoddisfazione nei riguardi della religione istituzionalizzata, che si voleva rinnovare e rivitalizzare attraverso una più profonda e autentica interiorizzazione. Si arrivò a contestare il valore assoluto e 1'interpretazione alla lettera delle Scritture sacre, i Veda: ci si interrogò sulla natura degli dèi e sulla validità del culto loro tributato; si criticarono fortemente la degenerazione nel formalismo religioso e nel ritualismo sacrificale, le pretese di esclusivismo della classe sacerdotale, le prescrizioni del sistema sociale e castale. Tuttavia è stato sostenuto che «il Buddha, al suo tempo. fino entro la cerchia dei suoi discepoli, era considerato non un innovatore che distruggeva una tradizione a lui preesistente, bensì un restauratore della medesima, secondo esigenze di moti interiori anziché liturgici e religiosi, riferiti al mondo vedico degli dèi» 3. Con decisione il Buddha rifiutava e condannava i pregiudizi e le superstizioni riguardo alle osservanze esteriori, alla purezza e alla superiorità attribuite al nascere o al trovarsi in un particolare status. Certamente non si diventa puri con la semplice pratica delle abluzioni nei luoghi sacri 4, e non si è uomini virtuosi per il solo fatto di mormorare giaculatorie e versi sacri, o di conoscere a memoria le Scritture 5. D'altra parte l'impurità non deriva da qualcosa di esterno, per esempio dal cibo interdetto dalle consuetudini religiose; ciò che causa contaminazione è bensì «l'abbattere esseri viventi, uccidere, tagliare, legare, il furto, la menzogna, la frode e l'inganno, il leggere cose senza valore, l'andar dietro alla donna d'altri..., collera, ebbrezza. ostinazione e fanatismo, inganno, invidia e magniloquenza. orgoglio e vanità, intimità con gli ingiusti ...questo è essere impuri» 6 . Infatti «non per nascita si diventa "fuori casta", non per nascita si diventa bràhmana, è per l'a- zione che si diventa "fuori casta", è per l'azione che si diventa bràhmana» 7. «Non domandare a quale stirpe si appartiene, chiedi della condotta ...» 8. Le forme di una religiosità divenuta solo o prevalentemente esteriore venivano dunque reinterpretate e ricollocate nella dimensione dell'interiorità. Così diceva ancora il Buddha: «Non metto legna, Brahman, per i fuochi sugli altari, solo dentro di me accendo la fiamma che brucia. Il mio fuoco brucia sempre, sempre alimentato di sé... ed il cuore è l'altare. E su di esso la fiamma: 3 P. Filippani-Ronconi, Canone buddhista, cit., pp.690-691, nota 124. 4 Cfr. Udàna, I,9. 5 Cfr. Udàna , I,4 e Itivuttaka, 99. 6 Suttanipàta, vv.242 e 245 (Amagandha-sutta) 7 Suttanipàta, v.136 (Vasala-sutta) 8 Suttanipàta, v.462 (Sundarikabhàradvàja-sutta) 3 questo è l'io domato di un uomo» 9. Si è a lungo discusso sulla collocazione da dare al buddhismo: una religione o una filosofia? Proprio all'inizio di un suo libro, padre Marcello Zago – esperto di missiologia e a suo tempo responsabile del Pontificio Segretariato per i non cristiani - scriveva a proposito della sua esperienza diretta: «...venni a contatto con il buddhismo vissuto. Mi impressionò il fatto che tale buddhismo era diverso da quello che avevo studiato in Europa: non mi appariva più tanto come una filosofia, ma come un modo di vita dai molteplici risvolti religiosi... Il buddhismo mi apparve così in tutta la sua varietà e ricchezza; accanto al buddhismo popolare conviveva quello dotto, accanto al buddhismo monastico quello mistico” 10. Portando questo discorso nell'ambito della spiritualità indiana in generale, e del buddhismo in particolare, è necessario chiarire un punto fondamentale. «Altrove filosofia e religione seguirono vie distinte e differenti... In India invece non è sempre possibile distinguerle... In India filosofia e religione hanno battuto la stessa strada» 11 . Senza sminuire con ciò la presenza di una «indagine critica che procede per mezzo del pensiero logico», di un «sapere fondato sul ragionamento», di una «ricerca razionale in sé e per sé» 12, è giusto tuttavia sottolineare la prevalente «preoccupazione soteriologica della speculazione indiana» 13. Infatti, uno degli aspetti più evidenti e caratteristici della ricerca filosofico-religiosa in India è stato senza dubbio il suo scopo operativo, il suo essere finalizzata a una diretta esperienza che divenisse trasformazione reale dell'essere. Il fine proposto non è mai stato solo un incremento della conoscenza discorsiva, di un maggior numero di nozioni o supposizioni intorno alla realtà relativa e ultima; certamente, la parte dialettica e teoretica è stata sviluppata in modi profondi e raffinati dai vari sistemi filosofici, ma per lo più come necessaria preparazione al momento realizzativo. Le due fasi appaiono strettamente interconnesse, come parti indispensabili di un processo unico; la filosofia vuol fornire una base teorica, logica e razionale alla pratica religiosa, ma fallisce il suo scopo se rimane pura teoria, se non si esplica in un'esperienza vissuta. D'altra parte, non è accettabile una pratica religiosa che non trovi appoggio in una appropriata concezione filosofica. Per 9 Samyutta Nikàya, I, p. 169 (tr ingl. J.B. Horner); cit. da Lama A. Govinda, l fondamenti del misticismo tibetano, tr.it., Ubaldini, Roma 1972, p. 127. 10 M. Zago, Buddhismo e cristianesimo in dialogo, Città Nuova, Roma 1985, pp.5-6- 11 M.A. Kalam Azad, Il significato della filosofia, in Storia della filosofia orientale, tomo I, a cura di S. Radhakri- shnan, Feltrinelli, Milano 1981, pp.14-15. 12 G. Scalabrino Borsani, La filosofia indiana, in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, Vallardi, Milano 1976, p.12. 13 G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Bari 1957, pp. 15 ss. 4 questo Sarvepalli Radhakrishnan, uno dei più importanti pensatori dell’India moderna, parlava del carattere essenzialmente spirituale della filosofia in India e del carattere razionale della religione indiana 14. In particolare, poi, il buddhismo ha «caratteristiche uniche tra le varie religoni. Il suo centro d'interesse non è Dio, ma l'uomo nella sua esistenziale miseria e nel suo bisogno di salvezza... In questo cammino l'esperienza interiore è privilegiata» 15. Appare cosa certo singolare che proprio il Buddha possa essere stato definito solo un «filosofo». «Il suo messaggio non vuole, infatti, classificarsi come sistema filosofico o dogmatico nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto come indicazione di una via di liberazione (muktimàrga)» 16 . Egli rigetta come inutili, spesso addirittura dannose e causa di discordie e contese, le sterili speculazioni sfocianti in punti di vista (drishti) dogmatici ed esclusivistici. La critica nei confronti di coloro che perdono tempo in dispute dottrinali, invece di applicarsi alla purificazione interiore, è spesso acutamente ironica: «Allorché ti si chiede qual è l'opinione da cui dipendi... tu giungi a esaltarti per le idee che hai abbracciato, e della pace interiore non hai la minima idea cosciente 17 .... Ciò che alcuni chiamano il Dhamma supremo, da altri viene detto "miserabile": quale di questi, io chiedo, ha la vera dottrina? Tutti costoro, invero affermano di essere gli unici esperti` 18... Colui che segue un dogma non conduce alla purezza, essendo egli stesso guidato da teorie preconcette: egli dirà che è buono ciò a cui si sente incline, e ivi purità egli avrà visto, ove professa che essa sia 19... L'uomo che nel mondo ritiene qualcosa come eccellente e, dato che si fonda su teorie, lo chiama "supremo" tutto ciò che è diverso chiamerà "inferiore": pertanto non supererà mai controversie 20... In base a tutto ciò, considerando gli altri con disdegno, ben felice di restare sulle sue decisioni, dice dell'altro: "è uno sciocco, l'altro, e un ignorante!" Poiché sostiene essere l'altro "uno stolto" chiama pertanto sé stesso "esperto": secondo lui, egli è quello che annuncia ciò che è buono, disdegna invece 1'altro: così egli professa. Egli è tutto pieno di arroganti opinioni, è folle d'orgoglio, si ritiene perfetto, secondo lui egli è colmo di genio, il suo punto di vista è assoluto e perfetto 21». II Buddha escludeva la possibilità – e l’opportunità - di parlare in termini concreti dell'Assoluto, dell'Incondizionato che, per sua stessa natura, è al di là di ogni possibile definizione. 14 S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, tr.it., Einaudi, Torino 1974, pp. 6-8. 15 M. Zago, La spiritualità buddhista, Studium, Roma 1986, pp.16-17. 16 G. Scalabrino Borsani, op. cit., p.443. 17 Suttanipàta, v.841 (Màgandiya-sutta) 18 Suttanipàta, v.903 (Mahà-viyùha-sutta) 19 Suttanipàta, v.910 (Mahà-viyùha-sutta) 20 Suttanipàta, v.796 (Paràmatthaka-sutta) 21 Suttanipàta, vv. 887-889 (Cula-viyùha-sutta) 5 Rifiutava le teorie enunciate da altri in quanto limitate e insufficienti, ma a queste non sostituiva alcuna affermazione riguardante la Realtà ultima. Questo non significava negarla, ma appunto riconoscerne l'ineffabilità. «Se Buddha rifiutò di definire la natura dell'Assoluto, o se egli si accontentò solo di definizioni negative, questo indica solo che l'assoluto è al di sopra di qualsiasi determinazione» 22. Infatti – si dirà nei secoli successivi - «la suprema realtà è il silenzio dei santi” 23. Due termini, etimologicamente implicanti un significato di negazione, sono fondamentali a questo proposito nel lessico del buddhismo: nirvana e shúnyatà. Nirvana è la suprema meta dell'ascesi buddhista, l'estinzione dell'individualità limitata da difetti, passioni e desideri egoistici. Shúnyatà, ovvero “vacuità”, indica la vera, unica natura di tutta la realtà; in particolare, la Realtà ultima è detta “vuota” di qualsivoglia carattere concretamente definibile e di qualsivoglia determinazione limitante. In ultima analisi i due termini vengono usati entrambi, e non sono gli unici, come indicazioni che alludono all'Assoluto, cioè a quella totalità dell'Essere attingibile attraverso il percorso del sentiero spirituale e l'annullamento dell'essere circoscritto nella propria particolarità. Il Buddha ha infatti spiegato: «Monaci, vi è un non-nato, un non-divenuto, un non-fatto, un non-composto. Se non ci fosse, o monaci, questo non-nato, non-divenuto, non-fatto, non-composto, non ci sarebbe modo di sfuggire da ciò che è nato, divenuto, fatto, composto» 24 . In modo positivo 25 viene anche detto che il nirvana «è la suprema felicità» . In effetti nel Mahàyàna si possono trovare altre diverse espressioni per l’ultimamente Reale: «quidditas, vacuità, limite della Realtà, il senza segno, il sommamente vero o l'oggetto supremo, l'elemento Dharma, non dualità, regno della non discriminazione, non produzione, vera natura del Dharma, l'inesprimibile, l'incondizionato, il senza ostacoli, la verità, ciò che è realmente, la realtà vera, il nirvana, la cessazione, la Buddhità, la sapienza, l'illuminazione, la conoscenza che si deve attuare in sé, il corpo di Dharma, il Buddha, ecc.» 26. Si ritiene dunque possibile giungere alla “perfezione della mistica sapienza suprema” (prajnàpàramità). La dottrina che vi si riferisce ha dato origine a una letteratura specifica; un certo componimento così si esprime: «La prajnàpàramità, il vero dharma, è esente da critica, esso 22 S. Radhakrishnan, Gautama the Buddha, p. 59; cit. da T.R.V. Murti, La filosofia centrale del buddhismo, tr.it., Ubaldini, Roma 1983, p. 50. 23 Dal commento di Candrakìrti alle Madhyamaka Kàrikd di Nagàrjuna, citato da R. Gnoli nella sua traduzione di quest'opera, Boringhieri, Torino 1979, p. 23, n. l. 24 Itivuttaka, 43. Dhammapada, v. 204. 26 Cfr. E. Conze, Il pensiero del buddhismo indiano, tr.it., Edizioni Mediterranee, Roma 1988, pp. 226-227. 25 6 allontana pensiero, nozione, visione, e annienta gli elementi del discorso... Immacolata come lo spazio, libera dalla discorsività e dalla designazione, chi vede così la prajnà allora vede il Buddha. A vederli secondo la norma, il Buddha, la prajnà e il nirvàna, queste tre cose sono identiche, fra esse non vi è differenza alcuna. La prajnà è la madre dei buddha e dei bodhisattva, essa li mette al mondo e li nutre. La prajnà è un dharma unico al quale il Buddha applica ogni sorta di nomi, a seconda della capacità degli esseri egli usa vocaboli differenti. Per colui che ha intuito la prajnà discorsi e pensieri si vanificano, come, al levar del sole, in un momento, evapora la rugiada mattutina» 27… Il termine Dharma – già più volte citato - presenta diverse accezioni, di cui ricordiamo qui quelle utili al nostro discorso. Anch'esso, in primo luogo, designa la Realtà ultima che sta dietro ogni cosa e costituisce la Legge e l'Ordine di tutto ciò che esiste, in qualche modo trascendente e immanente al tempo stesso. In secondo luogo Dharma indica la dottrina del Buddha, vale a dire ciò che egli ha insegnato e spiegato in base alla propria esperienza diretta di tale Realtà e di tale Legge. In terzo luogo il Dharma, come riflesso dei due significati precedenti, è il modo in cui il praticante conforma la propria esistenza a quella Verità ultima e a quella dottrina, seguendo i principi spirituali che sono alla base della virtù e della rettitudine 28. In un interessante articolo che ella stessa definiva «provocatorio nell’intento di modificare alcune ben stabilite concezioni sulla natura della religione buddhista» 29, la buddhologa e tibetologa Eva K. Dargyay sosteneva già diversi anni fa la necessità di «rivedere la nostra attuale conoscenza di "Dio" nel contesto del buddhismo» 30. La studiosa evidenziava anzitutto la non univocità, ma anzi la pluralità di aspetti e d'interpretazioni del termine «Dio creatore», notando che in molte tradizioni si può trovare l'idea di un essere sovrumano che, all'origine dei tempi, crea e modella il mondo e gli esseri viventi, idea espressa attraverso le immagini del racconto mitico. «I pensatori buddhisti continuarono attraverso la storia a far notare l'incompatibilità della visione di un "mitico divino artigiano" che fabbrica il mondo con l'affermazione filosofica che Dio è il totalmente altro che, oltre le limitazioni di spazio e tempo, è sorgente e origine assoluta in rapporto all'universo, 27 28 Attribuito a Ràhulabhadra e riportato in A. Pezzali. Storia del buddhismo, EMI, Bologna 1983, pp. 244-245. Su1 termine Dharma si veda E. Conze, Il buddhismo, in Civiltà dell'Oriente, a cura di G. Tucci, G. Casini, Roma 1958, vol. III, pp. 759-760. 29 E.K. Dargyay, The concept of a «Creator God» in tantric Buddhism, «The Journal of the International Association of Buddhist Studies», vol. 8 n. 1, Madison (USA), 1985, p. 31. 30 Ivi, p. 45. 7 ma non suo cominciamento causale» 31. Tale atteggiamento avrebbe portato a far concludere in modo superficiale che «i buddhisti negano Dio in generale» 32 . Anche altri studiosi hanno sostenuto che la critica buddhista non intendesse affatto colpire concezioni teistiche elevate e raffinate, quali si trovano in diversi sistemi di pensiero dell’India, ma che essa si dirigesse principalmente contro il teismo popolare, “e quindi l'idea di Dio, nel senso di una ineffabile e indefinibile suprema Realtà, può essere compatibile con il pensiero buddhista» 33. Da parte sua, la Dargyay prendeva in esame un testo incluso nel Canone tibetano, il Kun byed rgyal po'i mdo 34. La concezione filosofica che ne sta alla base è ispirata alla scuola Yogacàra o Vijnanàvàda 35 , che ha esercitato una forte influenza su tutta la corrente tantrica. Centrale vi appare il concetto di Bodhicitta, (tib. byang chub sems); è un termine fondamentale nel lessico del Mahàyàna, traducibile come «mente o pensiero» (citta) del Risveglio o dell'Illuminazione (bodhi). Viene distinto in due tipi: l'atteggiamento illuminato relativamente vero, che «è il voto di liberare tutti gli esseri senzienti dal samsàra per compassione, mentre l'atteggiamento illuminato vero in senso assoluto sgorga dalla natura essenziale di tutte le cose...» Quest'ultimo – che più ci interessa ora - «è al di là di questo mondo, non si può formulare con concetti o discorsi, è estremamente irradiante, l'immagine dell'Assoluto, immacolato, incrollabile, e molto chiaro come lo stabile splendore di una lampada in una notte calma» 36. II termine tibetano sems, che traduce il sanscrito citta, ha un'estensione di significato più vasta del termine «mente, pensiero» come abitualmente l'intendiamo. Secondo Tucci il buddhismo del Tibet, sviluppando principi già presenti implicitamente nel Mahàyàna indiano, gli attribuisce 31 Ivi, p.32. 32 Ibidem. 33 K.N. Upadhyaya, “God, the self and the Buddha's silence”, in Sramana Vidyà, Studies in buddhism, Central Institute of Higher Tibetan Studies, Sàrnàth (Varànasi) 1987, p. 135. 34 Il titolo completo dei testo, inserito in tutte le edizioni del Kanjur, è Chos thams cad rdzogs pa chen po byang chub kyi sems kun byed rgyal po. 35 Molto probabilmente fondata da Asanga nel IV secolo, sostiene una dottrina di «idealismo oggettivo», secondo cui la realtà è mente, coscienza, pensiero nei suoi diversi aspetti (illusorio, relativo, assoluto), e nulla altro (cittamàtra); cf A. Pezzali, L'idealismo buddhista di Asanga, EMI, Bologna 1984. 36 Cfr. sGam.po.pa, Il Prezioso ornamento di Liberazione, a cura di H.V.Guenther, tr.it., Ubaldini, Roma 1978, p. 127. 8 il significato di «spirito», la cui natura è «la luce, dalla quale tutto deriva e che è presente in noi stessi» 37, come espressione simbolica della Realtà ultima 38. Qui Bodhicitta viene definito «il Re che tutto crea» e in questo modo «simbolizza il fondamento ontologico di ogni cosa visibile e invisibile... la creazione è un efflusso dal fondamento primordiale; essa appare distinta dalla sua origine, sebbene essenzialmente non differente» 39 . Tale fondamento infatti «è immanente e trascendente al tempo stesso. Sebbene l'Unico originario sia riflesso nel mondo fenomenico, esso trascende il mondo della percezione. La sua universale purezza non è mai affetta dalle categorie etiche» 40. La vera particolarità di questo testo sta comunque nel fatto di definire la «Mente di Pura Perfezione», che è la natura stessa della Realtà ultima, attraverso un'immagine personale, metaforicamente antropomorfica: «esso proietta il concetto filosofico nell'immagine simbolica di un `creatore', usando così un modello teistico per comunicare l'esperienza mistica» 41. «Allora Bodhicitta, il Re che tutto crea, proclamò: "Io sono il Creatore di tutti i fenomeni del passato, o Mahàsattva, presta attenzione al tuo orecchio, rifletti su ciò che ascolterai ora: Io sono il Re che tutto crea. Io sono la Mente di Pura Perfezione (byang chub sems). Se io non fossi preesistente, i fenomeni non avrebbero un punto da cui la loro esistenza potrebbe iniziare. Se io non fossi preesistente, non ci sarebbe nessun Re che crea tutti i fenomeni. Se io non fossi preesistente, non ci sarebbe mai nessun Buddha. Se io non fossi preesistente, non ci sarebbe mai nessuna Dottrina...» 42. 37 Cfr. G. Tucci, Le religioni del Tibet, Mondatori, Milano 1987, pp. 94-99. 38 Cfr. M.C.Minutiello, “Sul simbolismo del cielo e della luce”, in Sacramentaria & Scienze Religiose (Nuova serie di “Quaderni di Scienze Religiose”), n. 35 (2010), pp.146-156. 39 E. K. Dargyay, art. cit., pp.40-41. 40 Ivi, p.42. 41 Ivi, p.45. 42 Ivi, pp. 44-45. 9