IL PECCATO E LA PAURA. L`idea di colpa in Occidente dal XIII al

dicembre 2009 – invito alla lettura
TITOLO:
IL PECCATO E LA PAURA. L’idea di colpa in
Occidente dal XIII al XVIII secolo
AUTORE:
JEAN DELUMEAU
EDITRICE:
Il Mulino, 2008
Il contemptus mundi, ossia una certa svalutazione dell’uomo e della vita, possono
trovare radici sia in alcuni testi biblici che nella tradizione greco-romana,
specialmente platonica e stoica. Si produsse così, nel Cristianesimo primitivo
specialmente quello dei Padri del deserto, quindi nel monachesimo orientale come
occidentale, un’accentuazione di queste tematiche che provocò di fatto questa
confusione: ci si può distaccare dal mondo e dalle sue tentazioni senza per questo
coprirlo di disprezzo. L’Autore in questo poderoso libro ricco di pregevole e rara
documentazione ci fa assistere invece alla seguente evoluzione: da una fuga mundi,
nata e coltivata in ambienti monastici – e quindi destinata ai monaci - intesa a
combattere un cristianesimo che dopo Costantino rischiava di farsi troppo blando,
attraverso una pastorale che si allarga a cerchie sempre più vaste di laici, si arriva
rapidamente al contemptus, ossia ad un disprezzo del mondo che emargina
un’antropologia e una cosmologia positive pur presenti nella Bibbia.
Il contemptus che era stato di fatto una prassi per coltivare l’umiltà divenne, tranne
eccezioni, teoria universale proposta come normativa a tutta la società. La teologia
protestante nel Cinquecento non farà che aggravare la predicazione del contemptus
del mondo e di se stessi per poi attingere e sperare nella pura fede che salva.
Delumeau riscontra così a partire dal Trecento questo mutamento di prospettiva: non
si contrappongono più i sensi allo spirito perché è lo stesso spirito dell’uomo ad
essere malvagio e corrotto. Per questo diventa inutile una fuga dal mondo, in quanto
il male resta presente nella vita che tende sempre di più ad essere oggetto di
disprezzo.
L’inizio dell’età moderna è dunque caratterizzato, molto più di quanto il termine
“rinascimento” lascerebbe supporre, da un diffuso e pesante senso di pessimismo e
sfiducia, da una diagnosi allarmistica che gli uomini del tempo evidenziavano con
disincanto. Le inconsuete calamità potevano essere spiegate solo con gli eccessi di un
peccato che aveva corrotto tanto la Chiesa quanto la società. L’unica via di fuga
restava il Giudizio finale, sentito ormai prossimo: la fine dell’umanità era giunta.
Il peccato originale divenne in questi secoli una specie di deus ex machina usato ogni
momento per spiegare quanto andava male nell’universo: se l’uomo soffre e muore
ciò avviene perché l’uomo ha peccato; in principio non era stato così, ma con la sua
colpa Adamo ha squilibrato a svantaggio dell’uomo l’intera natura. In grandi viaggi
oltreoceano non furono mai disgiunti dal sogno di un Eden perduto o nascosto e
alcuni arrivavano a collocare in qualche punto remoto della terra paesi non
contaminati dal peccato originale. A queste aspirazioni non furono esenti gli stessi
Bosch, Durer, Michelangelo. Ne deriva allora il possibile trapasso da un immagine
già severa di un Dio Giudice supremo a quella di un Dio perverso proprio per
l’esercizio spietato della sua giustizia, la cui ira non aveva avuto pietà neanche nei
riguardi del Figlio. Una certa predicazione sottolineò drammaticamente quanto la
vendetta del Padre era ricaduta impietosamente sul Figlio per accentuare
ulteriormente l’orrore del peccato originale.
Grave peso non avevano solo i peccati mortali, ma la paura di accumulare anche
peccati veniali: l’abuso di colpe minori raffreddava il fervore, faceva schermo agli
aiuti divini, disponeva ad una caduta più grave. Bastava un solo peccato alla fine per
essere colpevoli di tutti!
Delumeau illustra magistralmente una “pastorale della paura” che certamente – visti i
nessi nella storia tra il potere e le dottrine – rafforzò l’autorità del clero nel suo
insieme nei confronti dei fedeli; del resto, un insegnamento mirante a far ricercare
sofferenze contribuì a far accettare ai poveri le miserie di questa vita… Ma, e questo
non va dimenticato, questa pastorale non fu affatto lo stratagemma per “governare”
con più efficacia la collettività cristiana: furono proprio le èlites cristiane (religiosi,
vescovi, teologi) ad essere le più tormentate ed agitate da questa paura spirituale, a
vivere in prima persona il senso di colpa, molto più dei fedeli comuni. Il timore della
dannazione fu sentito più lancinante nei santi che nella gente e spesso gli ultimi
giorni della loro vita questi sono aggrediti da uno sconforto e una disperazione
inauditi.
La paura è, secondo l’Autore, un fenomeno ambiguo: la colpevolezza, se vissuta
positivamente, crea una tensione che fa emergere le éites, alimenta un’inquietudine
creativa, aumenta il senso di responsabilità e la capacità d’introspezione. Quando
invece la paura diviene eccessiva ed il linguaggio che mira al senso di colpa si fa
ossessivo, si può arrivare alla paralisi, allo scoraggiamento, alla disperazione, al
pessimismo. Il libro mostra come, sia in ambito cattolico che in quello riformato, in
sei secoli si sia finito per parlare più del peccato che del perdono, più della Passione
che della Risurrezione, più del Dio-Giudice che del Dio-Padre, più dell’inferno che
del paradiso. Insomma da una dimensione ragionevole di colpevolizzazione ad una
esagerata. Il discorso della Chiesa fu credibile in quanto parallelamente alla
predicazione pessimistica si verificarono in Europa tutta una serie di gravissime
sventure (guerre di religione, i Turchi, la peste…) che avvaloravano l’interpretazione
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di un giusto “castigo” di Dio. D’altro canto l’attenuarsi di simili minacce dal
Settecento in poi mise presto in questione “la pastorale della paura”.
Ci si può chiedere se il rigetto di una pastorale troppo fosca e opprimente non abbia
costituito una delle cause della scristianizzazione dell’Occidente.
Don Pietro Biaggi
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