L’Eiger, il passero solitario e la Nutella Storia di un bambino alla caverna dei Tre Buchi di Mendrisio T E S T O E F O T O D I FA B R I Z I O O T TAV I A N I D’in su la vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna, cantando vai finché non more il giorno; ed erra l’armonia per questa valle. (Leopardi, Il passero solitario) Premesse e introduzione La lettura del bel servizio sull’Eiger sul numero di gennaio 2004 di “Vivere la Montagna” ha ispirato immediatamente un’impresa nostrana, poco impresa e molto nostrana. Si trattava di fuggire da casa per mezza giornata, portando con sé Lorenzo, un bambino di sette anni e mezzo, già abituato alle gite in montagna e a qualche piccola arrampicata, proponendogli un’avventura un po’ diversa. Trovato un terzo compare, si è deciso di esplorare le caverne, che si aprono nelle rocce sopra le cantine di Mendrisio, quella dei Tre Buchi (Tri Böcc) e quella del Tanone (Tanun). Visti dalla città, i Tre Buchi sembrano una faccia, una maschera con l’aspetto inquietante, un Urlo di Munch che domina la vallata. Fanno parte di quelle strane abitazioni del passato, semifortificate, dette “case 46 V I V E R E L A M O N TA G N A dei pagani”, come ve ne sono anche in altre regioni del cantone: situate in zone difficilmente accessibili, ricordano storie di paura, di fughe, di violenza e di emarginazione. Per una migliore conoscenza di questi luoghi, rimandiamo alla lettura dell’itinerario 19 del libro Monte Generoso di Angelo Valsecchi e alle opere qui indicate. Ricordiamo soltanto che la loro origine non è chiara: sono sicuramente antiche, forse usate come rifugio durante le invasioni barbariche e servite da covo ai predoni saraceni, in certi periodi anche come dimora di eremiti. Questi due antri, va detto subito, non sono sistemi sotterranei estesi, ma semplici cavità ampie e poco profonde e il loro raggiungimento richiede un certo impegno e una buona attrezzatura. Il sentiero di accesso è ormai scomparso, il terreno è infido e l’impresa, nella fantasia di un bambino, si presta al paragone con la famosa parete nord dell’Eiger, ovviamente con le dovute differenze: a Mendrisio la salita è breve e si svolge prevalentemente nel bosco, i “nevai” sono fatti di terra e l’arrampicata è ridotta, ma anche in questa zona il terreno è molto ripido, le rocce sono calcari friabili, i sassi si muovono ed è facile persino trovare delle analogie con i nomi dei vari passaggi dell’Eigerwand, resi celebri da avventure e disgrazie dell’alpinismo del Novecento. Sí, ma il passero solitario e la Nutella? Un momento, arrivano anche loro. Cominciamo subito spiegando che partire per l’Eiger è molto piú semplice, nel senso che si sa dov’è l’attacco. Invece per salire alle nostre caverne (a meno di avere la “dritta” giusta) bisogna vagare tra le cantine, i cantieri, le stradine a fondo cieco, le reti di protezione dai sassi, finché si trova il varco giusto per passare. Esisterà forse ancora qualche via piú agevole, che parte magari piú avanti, oppure invece prima delle cantine: fatto sta che noi non l’abbiamo trovata. In effetti, in un’altra occasione, abbiamo notato che accanto al grotto San Martino si stacca un sentiero, in ogni caso vietato al transito a piedi a causa del pericolo della caduta di sassi, che però si dirige verso nord; ma probabilmente anche da lí si può raggiungere la nostra meta. Di sicuro, anche se un sentiero ci fosse stato, poco piú in alto ogni traccia sparisce e si avanza indovinando i passaggi di in un mondo antico e speciale. La salita nel passato Ad ogni buon conto, prima di desistere, abbiamo compiuto un ultimo tentativo, che si è rivelato poi essere quello giusto, ossia abbiamo imboccato una scalinata alla destra dell’Osteria Lanterna, delimitata da un cancelletto aperto, che sale lungo il muro di alcune cantine. In effetti, al termine della scala (luogo che nel nostro gioco abbiamo definito “l’Attacco”), ci si è parato dinnanzi un vecchio cartello di legno con l’indicazione “strada alta”; scavalcato sto, anzi, è proprio brutto; parafrasando una battuta sentita alla trasmissione televisiva “Zelig” si potrebbe dire che è talmente brutto, che persino il sole, per non vederlo, ha chiuso il buco dell’ozono! Lorenzo si attardava, accanto al “Pilastro Spezzato”, a giocare un po’ con il martello da roccia, e anche per superare quel primo momento di sconforto che solitamente prende i bambini all’inizio delle passeggiate. Piú sopra, in vista delle prime rocce, che abbiamo immaginato essere quelle della “Rote Fluh”, ci siamo soffermati a ragionare sulla nostra posizione (e anche un po’ sulla nostra idea balzana), visto che nel bosco non si ha la visione generale della direzione e si deve scegliere la via in base alle deduzioni e all’istinto. Si è deciso di non seguire piú i segni gialli che, attraversato il canale, si spostavano troppo a destra, ma si è preferito raggiungere la fascia di rocce sovrastante. La prima grotta Il “capospedizione” è andato in esplorazione per tracce, roccette e cenge oblique, intravedendo infine poco sopra di sé la prima grotta (il Tanone); è poi sceso con molta attenzione dov’erano rimasti gli altri, che un centinaio di metri sotto si erano sistemati, in un luogo protetto (definito il “1° bivacco”), al riparo dalle pietre che il primo inevitabilmente faceva precipitare, muovendosi. Dopo un sorso d’acqua, ci siamo messi in cordata e abbiamo proseguito di conserva, assicurando il bimbo in alcuni passaggi; dapprima abbiamo traversato verso destra per una traccia alla base delle rocce (definita, continuando il gioco dell’Eiger, “traversata Hinterstoisser”), poi superando due tratti di terriccio instabile e ripidissimo (“il 1° e il 2° nevaio”), infine dopo le roccette del “Ferro da stiro” siamo giunti al “Bivacco della morte”, ossia alla prima grotta, il Tanone. La caverna è chiusa parzialmente da un basso muretto a secco di sassi giallastri come le rocce d’intorno, è larga e profonda una decina di metri, e termina con una spaccatura che si innalza all’interno della montagna, tra gli strati di calcare. Scriveva Luigi Lavizzari nel suo “Escursioni nel Cantone Ticino” che vi nidificava il passero solitario, quello di leopardiana memoria, guarda caso proprio uno dei soprannomi attribuiti a Lorenzo, che a volte preferisce un po’ di calma e silenzio agli schiamazzi degli altri bambini: “… tu pensoso in disparte il tutto miri; / non compagni, non voli, / non ti cal d’allegria, schivi gli spassi…” un gradone formato da rami e tronchetti caduti, abbiamo notato dei segni formati da una striscia di nastro giallo legato alle piante, che abbiamo seguito per una traccia appena accennata nel bosco. La via si dirige verso destra, parallela alle cantine superiori, a circa 20 metri di distanza da quelle; dopo una cinquantina di metri i segni gialli conducono verso l’alto, nel bosco non fitto, ma molto ripido e franoso, accanto ad un canalino largo un paio di metri. Immaginandoci ormai in piena “Nordwand”, siamo saliti per circa 100 metri, scegliendo bene il posto dove appoggiare lo scarpone, visto che il terreno è friabilissimo, tutto si muove e si avanza compiendo due passi avanti e uno indietro, in mezzo a detriti e rifiuti gettati anni fa dalla strada sovrastante (nel gioco erano i “resti delle spedizioni precedenti”). Ad essere sinceri non è un bel po- I Tre Buchi Dopo una breve pausa per bere e per giocare, siamo risaliti per l’ultimo tratto, formato da una larga e ripida cengia obliqua puntellata da diversi alberi (“la Rampa”); infine, dopo aver allestito una sosta, abbiamo arrampicato per gli ultimi metri, i piú difficili. Si inizia con un breve traverso (“Traversata degli dei”), due passi con cui si raggiungono le rocce oblique sottostanti la grotta, dalla quale pende una vecchia cordina verde, cotta dal sole e dalle intemperie; col misero aiuto di piccoli appigli si giunge cosí all’entrata dei Tre Buchi. Questo tratto è descritto anche dal Lavizzari, nel testo citato prima: “Fa d’uopo inerpicarsi, quasi trattenendo il respiro, per le piccole scabrosità della roccia; onde, chi nell’atto di porre entro la caverna il piede, volge l’occhio sul precipizio, sente scorrere per le membra involontario tremore.” Siamo quindi penetrati all’interno ed abbiamo osservato la grotta, piú V I V E R E L A M O N TA G N A 47 profonda dell’altra e con l’imbocco quasi completamente murato, salvo una porta e due finestre (i tre buchi) e attualmente piena dei “ricordini” di qualche animale che se ne è fatto la tana. Si notano nel muro ancora i fori dove erano infilate le travi che reggevano il pavimento dei piani superiori, visto che l’antro è sostanzialmente uno stanzone con un notevole sviluppo verticale e con il fondo obliquo, che sale verso l’interno e verso sinistra per una ventina di metri, con l’ultima parte formata da una spaccatura che va restringendosi in alto. Abbiamo scattato qualche foto, ammirato la bella vista e anche noi - abbiamo poi saputo - siamo stati osservati con il binocolo dalla pianura, anzi dalla “Kleine Scheidegg”. Ci siamo quindi concessi uno spuntino: pane e salame per noi e per il nostro giovane accompagnatore ecco la Nutella, cavata dallo zaino in quelle vaschette delle colazioni degli alberghi, spalmata al momento su un panino. La Nutella, alimento preferito di Lorenzo, anzi, unico cibo accettato in montagna, da cui l’altro suo soprannome di “orsetto nutellatore”. Che cosa si perde quel bambino! Non sa apprezzare ancora le vere gioie della montagna: un salamino affettato con il coltellino svizzero, un pezzo di formaggio dell’alpe, un uovo sodo con un pizzico di sale! E i pizzoccheri riscaldati nel fornellino a gas? E le penne al ragú? E il chateaubr..., scusate, basta, mi ero lasciato prendere da altre passioni. Torniamo quindi alle nostre caverne e affrontiamo un tema “scabroso”. Prima del ritorno, abbiamo appeso un piccolo Crocifisso di legno e metallo coi nomi alla parete della grotta, lasciandolo in ricordo della gita, come a volte facciamo anche sulle vette. E qui occorre una breve constatazione, senza voler riaprire il noto discorso delle croci sulle montagne: d’accordo che non tutti apprezzano, d’accordo che non ogni vetta deve essere sormontata da un crocione mastodontico, ma dà veramente fastidio un piccolo segno, lasciato accanto ad un ometto di sassi o infilato in una fessura? Eppure vi assicuro che la mortalità dei Cristi in montagna è altissima: dopo poco tempo, molti spariscono. Saranno i bigotti, che vogliono portarseli a casa, o gli integralisti laici, che ripuliscono scuole e cime da quei legnetti pericolosi? Il ritorno nel mondo presente Dopo una mezz’ora abbondante siamo scesi, calandoci dapprima per le roccette e poi, sempre con l’aiuto della corda, abbiamo rifatto la via della salita, giocando al “ritorno dall’Eiger”, con varie scivolate di ognuno di noi, prontamente trattenute dagli altri. Un camoscio è sfrecciato poco piú sotto, stupito da quella strana e nuova visione di bipedi implumi, saltando agilmente tra sassi, detriti e vecchie scarpe, mentre noi abbiamo presto ritrovando i segni gialli e quindi raggiunto la strada delle cantine, dove ci attendeva una meritata gassosa all’osteria e dove ha avuto termine questa piccola spedizione. Se qualcuno decidesse di provare questo giretto, si attrezzi bene. In realtà la corda non è indispensabile, anche se per gli ultimi metri è comoda, soprattutto se si soffre un po’ il vuoto e non si è sicurissimi di piede. Il casco non guasterebbe, perché salendo e scendendo si muovono pietre e anche dalle rocce sovrastanti qualche scarica di piccolo materiale l’abbiamo notata; servirebbero anche i parastinchi ... Sarebbe utile cambiare la corda che pende dalla porta dei Tre Buchi, con una nuova, lunga almeno una dozzina di metri, che arrivi alla base delle rocce oblique. A meno che si voglia lasciare l’accesso integro; ma allora sarebbe meglio togliere del tutto il vecchio cordino, sul quale non si può fare affidamento. Per il resto si vive una breve avventura, appena fuori della città, in un ambiente severo, rude, non certo bucolico, come sospeso in una dimensione diversa, dominata dalla forza di gravità, da una verticalità non eccessiva, ma sempre presente. Un mondo diverso, appartenente al passato, dove non solo non si incontra nessuno, ma si sa che in quel luogo nessuno è passato da tempo e per un bel po’ nessun altro ci passerà. Nelle caverne aleggiano gli spiriti violenti di un tempo, verso sera si sente l’orma dei passi spietati, come nel Ballo in Maschera e, come si legge ancora nella poesia che ci ha accompagnato in questa gita: “...il Sol che tra lontani monti, / Dopo il giorno sereno, / Cadendo si dilegua, e par che dica / Che la beata gioventú vien meno”. Brrrr, che allegria. “Su, Lorenzo, è ora, torniamo dalla mamma!” ▲ 48 V I V E R E L A M O N TA G N A