STORIA
Un gesuita del ’600 scrisse un trattato per criticare la facilità con cui venivano accesi i roghi. Una edizione critica del
suo testo
Eretici e streghe, ecco la grande paura
Per la storica Anna Foa nei secoli della Controriforma si diffuse, anche a livello popolare, una cultura del capro
espiatorio, fondata spesso su dicerie infondate
«Avvenire», 1 maggio 2004
di Maurizio Cecchetti
Esistono le leggi speciali contro il terrorismo, ma non sono una novità dei nostri tempi. Anche contro le streghe, nel
Cinque e nel Seicento, furono varate leggi speciali. Tuttavia può anche essere un'idea distorta pensare che i roghi delle
streghe nell'Europa calvinista, luterana e cattolica siano soltanto un fenomeno «religioso». Il nodo cruciale non è
fideistico, ma sociale e politico. E può essere ricondotto al fattore destabilizzante della superstizione e delle pratiche
magiche.
Ma quello della magia e dell'idolatria non è soltanto problema della cristianità: anche nel mondo greco e romano le
«maghe» erano viste come una minaccia per un ordine sociale che potremmo definire «della visibilità». Il
sovvertimento di quest'ordine ha un risvolto immediato sull'organizzazione sociale e politica, perché la magia è un
potere «alternativo», non gerarchizzabile o controllabile, che si nutre della diceria, dell'allucinazione, del maleficio e
delle credenze insane che lo accertano (viene favorito, quindi, anche dallo stesso potere che lo persegue, quando i modi
siano impropri).
Si può capire, dunque, perché i processi alle streghe fossero, in Germania per esempio, materia per i tribunali laici.
Come tutte le sindromi dell'insicurezza, anche quella suscitata dalla stregoneria produsse una repressione
sproporzionata e, in effetti, le gerarchie della cristianità ebbero spesso rispetto al fenomeno una reazione indiscriminata
che mirava all'esemplarità. Questa repressione che non andava per il sottile, che accertava la colpa reiterando la tortura,
fu, nel 1631, l'argomento di un trattato - Cautio criminalis - scritto dal gesuita Friedrich von Spee con l'intenzione di
difendere non tanto le streghe quanto di salvaguardare le innocenti condannate ingiustamente (molte, s'intuisce). Ora
l'edizione critica di questo trattato di quasi 300 pagine, ripartito in 51 questioni e un'appendice, vede la luce dalla
Salerno, a cura di Anna Foa, col titolo I processi contro le streghe.
Spee, che morì di peste nel 1635, dovette essere, fin da giovane, un personaggio scomodo, abituato a ragionare fuori
dagli schemi delle convenienze ecclesiastiche. Gli fu rifiutata la cattedra di Metafisica a Colonia nel 1627; cominciò,
l'anno dopo, a stendere il trattato e nel 1630 fu chiamato a insegnare Teologia morale all'università di Paderborn, ma, a
causa delle sue ripetute prese di posizione contro la persecuzione delle streghe, venne presto destituito dall'incarico. È
allora che pubblica il suo scritto, che non vuole essere una giustificazione o una relativizzazione del «delitto di
stregoneria», ché anzi nel trattato, con sottile arte retorica, definisce terribile e gravissimo, poiché in esso concorrono
l'eresia, l'apostasia, il sacrilegio, la bestemmia, l'omicidio. Non nega che vi siano uomini e donne che praticano la
stregoneria, ma dice di non poter credere che «fossero tutte streghe quelle che finora sono finite in cenere». Ciò che gli
preme, in definitiva, non è verificare la consistenza reale della stregoneria, ma mettere in luce le distorsioni procedurali
e concettuali che favorirono la condanna degli innocenti. Spee si rende conto che per quanti roghi accendano i principi
tedeschi essi «non saranno mai abbastanza, a meno di non ardere ogni cosa».
Da uomo ragionevole e per il disincanto che gli conferisce la sua formazione giuridica, egli sa che il delitto di
stregoneria, salvo che non vi sia una scoperta in flagrante o un accertamento comprovato degli effetti di una pratica che
aveva indubbiamente presa sulla mente del popolino, è difficilmente assodabile coi mezzi addotti dai tribunali tedeschi
del tempo: confessioni forzate, testimonianze falsate, una certa predisposizione al capro espiatorio, una visione
fatalistica della giustizia divina. Da cui il continuo richiamo di Spee al quadro giuridico e ai confini della liceità del
metodo processuale.
Accanto a quello delle streghe anche l'eresia. E soltanto apparentemente la questione diventa più «religiosa».
Soprattutto quando l'eresia riguarda «storie di streghe, ebrei e convertiti». È questo il sottotitolo di un altro libro di
Anna Foa, appena uscito dal Mulino, il cui titolo suona come un'insegna sotto la quale raccogliere naufraghi di diversa
condizione: Eretici, infatti, affronta casi di superstizione, di idolatria, di persecuzione verso gli ebrei convertiti di cui si
sospettava una sorta di dissimulazione o di «nicodemismo», di omicidio rituale, di supplizi e perfino vicende, come
quella conclusiva, dedicata al presunto delitto d'onore del conte Franceschini, che ancora una volta celano dietro la
facciata religiosa una disputa fra potere e società. Con una costruzione narrativa che mira a compensare certe lacune
documentarie grazie all'immaginazione storica, la Foa scruta i modi attraverso cui l'autorità, in ogni epoca, ha tradotto
in repressione quella «sindrome dell'insicurezza» o della paura che - lo diceva proprio nel '500 il neoplatonico
Francesco Patrizi - fu la ragione dello sviluppo di ogni civiltà.
L'insicurezza ha, fronte a sé, l'ideologia del controllo e la repressione. Foucault dedicò metà della sua vita a mettere in
luce questa realtà del potere. Lo aveva preceduto Aldous Huxley con alcune annotazioni profetiche (pensando, per
esempio, al post 11 settembre) sui rischi di restrizione delle libertà individuali nelle società democratiche poste sotto il
ricatto dell'insicurezza. L'autorità si arroga, come già con le streghe e gli eretici, poteri speciali per riportare alla quiete
le turbative prodotte da ogni forma di «diversità» e di «alterità» viste come una minaccia alla stabilità del modello
imperante. Ma, si domandava Huxley: «Quis custodiet custodes? Chi metterà in guardia i protettori della nostra civiltà,
e chi ammaestrerà i suoi maestri?». È una domanda retorica, cui questo libro di Anna Foa, limitato ai secoli della
Controriforma, offre spunti di riflessione, oltre che sulle responsabilità di una cultura religiosa già sulla deriva della
post-cristianità, anche su una idea di libertà che investe in senso più generale il modo di essere occidentali. Lo si
potrebbe definire anche uno sguardo a più riprese nello specchietto retrovisore della nostra storia.
*
di ADRIANO PROSPERI
Corriere della sera, 28 aprile 2004
Il libro di cui parliamo racconta storie atroci e pone domande inquietanti. Vale la pena di
leggerlo per la storia che racconta; ma forse ancor più per le domande che pone. Racconta di
una società minacciata nel profondo da delitti spaventosi, concepiti e organizzati nel segreto e
nelle tenebre da parte di una organizzazione occulta, una setta nascosta in seno alla società,
che si immaginava dotata di mezzi micidiali e pronta a usarli. E’ una situazione in cui si vive
con una diffusa sensazione di insicurezza, si guardano con sospetto le persone dall’aspetto
insolito, si temono aggressioni imprevedibili. Quando si crede di aver individuato un membro
della setta si reagisce immediatamente: i sospetti sono arrestati, messi in catene. Interrogati
con metodi spicci confessano delitti orrendi, macchinazioni terrificanti. Vengono condannati a
morte. Ma qualcuno ha dei dubbi: si debbono garantire anche a quel genere di imputati le
condizioni che regolano un processo ordinario o si deve usare una procedura d’eccezione? La
paura che spinge tutti alla vigilanza rende quel tipo di dubbi estremamente impopolare. Lo
Stato - si dice - è minacciato, si deve difendere con tutti i mezzi, anche sospendendo le regole
consuete data la natura gravissima della minaccia. Viene approvata la clausola per cui,
trattandosi di delitti abnormi, si adotterà una procedura speciale, ricorrendo all’incarcerazione
indiscriminata e a interrogatori con tortura. I colpevoli saranno condannati a morte. Il dubbioso
tace. Sa di correre dei rischi: come minimo, lo accuseranno di «aprire la strada a gravi delitti».
Ma la coscienza lo rimorde. E si preoccupa di quello che sta diventando la società in cui vive.
Alla fine scrive un libro - questo libro - e lo dà alle stampe sotto uno pseudonimo. La sua
speranza è quella di riuscire a far ragionare i lettori, di influenzare i potenti, di spingere altri
come lui a dar voce ai dubbi. Le sue proposte sono semplici. In primo luogo, bisogna garantire
a tutti il diritto alla difesa. Né si deve privare alcuno della libertà senza che ci siano indizi gravi
a suo carico. Si arrivi alla condanna solo se ci sono prove chiare come il sole. Le accuse dei
pentiti non debbono essere considerate valide senza dati probanti.
Questo è il libro che oggi possiamo leggere in italiano, curato da una storica esperta, Anna
Foa, che vi ha premesso una bella introduzione (Friedrich von Spee, I processi contro le
streghe. Cautio criminalis trad. di Mietta Timi, Salerno editrice, pp. 377, 18). Vi si parla di una
guerra contro il terrore che si è combattuta secoli orsono. La setta segreta era quella delle
streghe. Il paese dei processi sommari e dei roghi era la Germania, allora devastata dalla
guerra di religione che fu detta dei Trent’anni. L’autore era un gesuita. Come confessore, era
stato spesso chiamato all’ufficio cristiano di confessare e di accompagnare al rogo le donne
condannate per stregoneria. Erano sempre ree confesse. La tortura strappava dalla loro bocca
la confessione di delitti orribili. Non solo: strappava anche elenchi di altre donne accusate di
partecipazione ai notturni conciliaboli col diavolo e ai delitti che ne seguivano. Denunzie e
confessioni erano considerate prove sufficienti per procedere immediatamente all’arresto e alla
condanna.
Erano anche usate per rassicurare la popolazione: ecco, vedete - aveva scritto circa trent’anni
prima l’inquisitore tedesco Peter Binsfeld, anch’esso cattolico come von Spee - le streghe
esistono, complottano contro i cristiani; loro stesse lo affermano. Bisognava avere fiducia nella
giustizia; Dio che governava il mondo non avrebbe permesso la vittoria del demonio. Decenni
dopo, davanti alla crescente violenza dei roghi e dei sospetti che dissolvevano la convivenza
sociale, Friedrich von Spee non era altrettanto sicuro dell’intervento della Provvidenza negli
affari della giustizia terrena. I racconti delle donne, mentre le confessava e le confortava nel
percorso verso gli strazi del patibolo e del rogo, lo avevano commosso e sconvolto. E il suo
libro è ancora oggi capace di emozionare il lettore. Ma anche di porre domande attuali. Se
dovessimo riassumerlo in una frase per chi non lo leggerà, citeremmo la «questione n° 5».
L’autore si chiede se sia legittimo istruire una procedura arbitraria in presenza di delitti
eccezionali. E risponde: «La mia opinione è che non sia legittimo».
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