Questione d’orecchio Caro Professor Peruso, come continua la spiegazione del funzionamento dell’orecchio umano? Ci ha lasciato con molti dubbi … Mirco Tarallini L’avevo promesso: in una puntata precedente ho spiegato la natura del suono (rumoroso o musicale che sia), ora vi racconto cosa succede quando le onde sonore entrano nel nostro orecchio. Almeno, vi racconto quello che si sa, perché certe cose sono ancora molto misteriose. Anzitutto vi ricordo che le onde di cui si parla sono costituite da “disturbi” (compressioni e rarefazioni) dell’aria (o di un mezzo abbastanza elastico, come l’acqua o un metallo) che viaggiano in questo mezzo con una certa velocità (la velocità del suono, pari a circa 340 metri al secondo). L’aria si addensa quando viene “percossa” dall’oggetto che muovendosi più o meno bruscamente genera il rumore. Se si muove con regolarità, oscillando, come in una corda di chitarra che vibra o nell’aria smossa dalle labbra di un flautista, agli addensamenti si alternano le rarefazioni. Nasce dunque un’onda sonora che anch’essa si ripete insistentemente, almeno finché dura il suono. Queste onde viaggiano ovunque nello spazio (a meno di incontrare ostacoli insuperabili, come una parete “fonoassorbente” – quelle che a volte si vorrebbero avere per isolarci dai vicini di casa non esattamente silenziosi) e giungono, ovviamente per farsi sentire, alle nostre orecchie. Quale meccanismo meraviglioso è in grado di trasformare i convulsi moti delle molecole d’aria in note celestiali, in parole, in rumori di ogni genere? Possiamo andare con ordine, immaginando di intraprendere un viaggio all’interno del nostro apparato uditivo partendo dall’esterno. Anzitutto il padiglione, che non serve (solo) per appendere gli orecchini o ad essere tenuto nascosto quando le orecchie sono a sventola: svolge le funzioni di “imbuto di raccolta” per i suoni e, con le sue pieghe e cavità, modifica leggermente i segnali che giungeranno al cervello. In questo modo è possibile migliorare la capacità di capire da dove provenga il suono stesso. Provate a tenere tesi i padiglioni sulla testa “tirandovi le orecchie” all’indietro e cercate, ad occhi chiusi, di localizzare una voce in una stanza. Non facile, vedrete. Ah, certo, le orecchie sono due e questo serve a costruire un bellissimo effetto … stereofonico (anche importante per stabilire la “tridimensionalità” del suono). Lasciando il padiglione si entra nel condotto o meato uditivo. Un tubicino di pochi centimetri di lunghezza che tiene lontano dai pericoli di urti e percosse i delicati meccanismi interni ma che ha anche la funzione di agire come “canna d’organo” in miniatura. In esso, infatti, certi suoni più che altri vengono con efficacia trasportati dall’esterno all’interno grazie ad un processo di “risonanza”. La spettacolarità dello schema evolutivo naturale ha fatto in modo di accordare fra loro gli organi che ricevono (ascoltano) il suono e quelli che lo trasmettono (parlano e cantano). L’orecchio umano è sintonizzato meglio sui suoni della voce umana che su quelli di altro genere anche grazie a questa particolare caratteristica del condotto uditivo. In fondo a questo percorso si trova la membrana del timpano, una specie di pelle di tamburo tesa ma sufficientemente mobile da venire messa in vibrazione dalle onde sonore che la raggiungono (la sua sezione è di qualche decina di millimetri quadrati). Il timpano segna il passaggio fra quello che i medici definiscono l’orecchio esterno (padiglione e meato) e l’orecchio medio. In esso si trova la catena di tre piccolissimi ossicini (detti martello, incudine e staffa) che realizzano un collegamento meccanico molto sofisticato fra il timpano e la parte più interna dell’orecchio, di cui vi parlo fra un attimo. La catena degli ossicini ha il compito di trasmettere le vibrazioni del timpano in modo anche da amplificarne gli effetti senza però dimenticare di attuare delle difese a protezione di vibrazioni eccessive, ovvero suoni troppo violenti. L’amplificazione avviene utilizzando lo stesso principio del torchio idraulico, ossia la possibilità di aumentare la pressione esercitata da un fluido diminuendo l’area interessata dalla forza agente (è quello che succede ogni volta che premete il pedale del freno in automobile). Le difese operano invece utilizzando dei sistemi di “sgancio” degli ossicini dalle parti più delicate (in particolare la zona finale della catena). In presenza di suoni ad alto volume ed insistenti l’orecchio “si spegne” o comunque attenua molto la trasmissione delle vibrazioni al suo interno. Il risultato è una provvidenziale e temporanea sordità che, sia ben chiaro, a lungo andare però può diventare permanente. Questo è un rischio molto serio al quale sono sottoposti i frequentatori di discoteche, di concerti di musica “leggera” e gli utilizzatori assidui di walkman a volume elevato. Non stareste mai vicino ad un martello pneumatico o ad un jet al decollo, immagino; eppure si tratta di livelli acustici non lontani da quelli emessi dalle casse amplificate di un gruppo rock! Questo sistema di difesa, però, non funziona con suoni troppo improvvisi, come ad esempio un colpo d’arma da fuoco o il botto di un petardo che avviene vicino all’orecchio. In questi casi si rischia davvero molto. Al termine della catena degli ossicini si entra nell’orecchio “interno”. Ci sono vari organi, sempre molto piccoli, tra i quali i cosiddetti canali semicircolari che sono dedicati a funzioni importanti (l’equilibrio) ma non interessanti per l’udito. La staffa è invece collegata ad una specie di chiocciola, detta “coclea”, che contiene un fluido (l’endolinfa) ed una pellicola avvolta in essa (la membrana basilare) e ricoperta da molte migliaia di cellule (dette “cigliate”) che assomigliano ad un tappeto erboso o ad un campo di grano maturo. Quando la staffa vibra (ed abbiamo capito che ciò avviene come conseguenza del suono), il fluido trasmette un’onda microscopica che a sua volta mette in moto le ciglia delle cellule che rivestono la membrana. Un po’ come una raffica di vento farebbe con le spighe di grano. Ciascuna cellula, muovendosi, genera un impulso elettrico che viaggia lungo un filamento nervoso che, assieme a quelli provenienti dalle altre cellule, costituisce il nervo acustico. Quest’ultimo conduce l’insieme dei segnali nelle profondità del cervello. La meraviglia di questo “apparato” è che esso è capace di analizzare i suoni (musica o rumore, non importa) rivelandone tutte gli aspetti fisici che lo caratterizzano. In particolare, l’altezza (suoni acuti o gravi), che varia con la rapidità (frequenza) di vibrazione del suono, è “capita” o interpretata a seconda della zona della coclea nella quale l’onda dell’endolinfa oscilla con maggiore ampiezza. In realtà le cose sono ancora più complesse (e meravigliose), perché i suoni si differenziano non solo per l’altezza ma anche – a volte soprattutto – per il loro timbro (due note di eguale altezza sono sicuramente diverse quando vengono suonate da una tromba e da un pianoforte!). Come fa l’orecchio a distinguerle? A quanto pare, l’organo della coclea è in grado di riconoscere ed interpretare note eguali ma emesse da diversi strumenti estraendo da questi suoni delle parti più semplici, che i fisici chiamano “suoni puri”. Il cervello è poi capace di individuare il timbro proprio a partire da questi ingredienti separati. Un po’ come con un pugno di lettere dell’alfabeto è possibile scrivere e raccontare quello che ci pare. Questa teoria (già, è una teoria e presenta delle pecche, come tutte le teorie) è detta “tonotopica” e si basa sulla procedura di composizione/scomposizione del suono e, più in generale, di rappresentazioni matematiche oscillanti, in parti “pure”, ben nota ai matematici con il nome di sintesi/analisi di Fourier, in onore dello scienziato che l’ha introdotta nel XIX secolo. Avete ancora il coraggio di trattare male le vostre orecchie? [a cura di Stefano Oss]