BIBLIOTECA DELL’OFFICINA DI STUDI MEDIEVALI 15 In copertina: Battaglia della Falconara dell’1 dicembre 1299. Tratto da: Il Villani illustrato. Firenze l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana. Medioevo e dintorni Lezioni della sezione di Trapani dell’Officina di Studi Medievali a cura di Giuliana Musotto 2011 Medioevo e dintorni : Lezioni della sezione di Trapani dell’Officina di Studi Medievali / a cura di Giuliana Musotto. – Palermo : Officina di Studi Medievali, 2011 (Biblioteca dell’Officina di Studi Medievali ; 15) 1. Mistica – Teologia – Medioevo – Atti di convegni I. Musotto, Giuliana 230.01 CDD-21 ISBN 978-88-6485-020-7 ISBN 978-88-6485-022-1 (pdf e-book) CIP: Biblioteca dell’Officina di Studi Medievali Manuela Girgenti ha collaborato all’organizzazione degli incontri curando la segreteria, la logistica e l’Ufficio Stampa. Copyright © 2011 by Officina di Studi Medievali Via del Parlamento, 32 – 90133 Palermo e-mail: [email protected] www.officinastudimedievali.it www.medioevo-shop.net ISBN 978-88-6485-020-7 ISBN 978-88-6485-022-1 (pdf e-book) Ogni diritto di copyright di questa edizione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo è riservato per tutti i Paesi del mondo. È vietata la riproduzione, anche parziale, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata dall’editore. Prima edizione, Palermo, luglio 2011 Stampa: FOTOGRAF – Palermo Grafica editoriale: Alberto Musco Indice Premessa di Alessandro Musco IX Introduzione di Salvatore Girgenti XI Manuela Girgenti, Filone d’Alessandria e il giudaismo rabbinico1 Antonio Bica, I vangeli Gnostici e il Cristianesimo delle origini19 Giuseppina Mammana, La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 33 Fabio Cusimano, Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura47 Manuela Girgenti, Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale57 Giuseppe Allegro, Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 79 Luciana Pepi, Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo91 Salvatore D’Agostino, La Sicilia di Federico III d’Aragona105 Vincenzo M. Corseri, Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento. Cusano e Piccolomini a Basilea119 Flavia Buzzetta, Aspetti della magia in epoca tardo-medievale 131 Salvatore Girgenti, Le radici politiche e religiose dei templari: una ipotesi di ricerca149 Filippo Grammauta, La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari dall’accusa di eresia 161 Salvatore D’Angelo, La medicina nel Medioevo169 VIII Indice Abstracts, Curricula e Parole chiave185 Indice dei nomi (a cura di Giliana Musotto) 195 Premessa Da quando l’Officina di Studi Medievali, su proposta di Salvatore Girgenti, mio collega universitario a Palermo negli anni che furono e poi prestigioso collega nella comune passione per gli studi storici e filosofici, unitamente ad un gruppo di appassionati amanti del Medioevo, ha deciso – con grande e positiva convinzione - di aprire una sede staccata a Trapani, le attività e le iniziative del “gruppo trapanese”, sono state un vero esempio di intelligenza culturale, di capacità di proposta e di grande coinvolgimento di tantissime persone! In due anni si sono tenuti incontri, conferenze e lezioni, sempre largamente partecipati, che hanno toccato vari aspetti dei saperi medievali, siano essi riferiti al contesto locale trapanese e siciliano, sia a quello mediterraneo od, ancora, a quello più vasto della dimensione europea e continentale; aspetti storici, culturali, letterari, filosofici, teologici, artistici etc… si sono susseguiti e sono stati affrontati da graditissimi studiosi ed esperti, locali e non, che hanno dato la loro affettuosa e “gratuita” disponibilità ad offrire stimolanti momenti di riflessione e di dibattito che, qui, ora ed in queste pagine, trovano espressione. Già per il prossimo anno sociale 2011-2012, con inizio dall’autunno del 2011, si profilano nuovi incontri e nuovi momenti di studio: segno evidente di una vivacità di interessi e di passioni degni di nota e sempre attivi: cosa non comune a Trapani ma non solo a Trapani! Azioni, fatti, eventi ed impegni cui dobbiamo – io per primo - il massimo rispetto! Grazie alla piena disponibilità del Prof. Ignazio Crimi, antico mio amico personale in comuni battaglie ed impegni politico-sociali, titolare dell’Istituto Europa srl, l’Officina ha a Trapani una sua sede stabile che accoglie, tra l’altro, anche tutte le sue pubblicazioni curate in questi trent’anni dalla fondazione, disponibili per il piu vasto pubblico, per i giovani universitari, oltre che per i soci. A lui devo un ringraziamento particolare per l’attenzione e la sensibilità che ha sempre dimostrato: doti oggi sempre più rare anche nel mondo della scuola e della cultura. Come pure, devo un grazie convinto alla Banca di Credito Cooperativo “Sen. Pietro Grammatico” di Paceco ed ai suoi vertici, per la decisione di voler finanziare questa pubblicazione che raccoglie ben tredici saggi frutto delle attività curate dall’Officina a Trapani. Non è qui raccolto tutto quanto è stato fatto ma un’ampia e significativa scelta, ricca di tematiche e di letture del vasto contesto medievale. X Premessa Sono certo che gli amici trapanesi continueranno su questa linea e che ci offriranno ancora altre pagine da leggere e meditare su un patrimonio che mai potrà finire di stupirci e di appassionarci. A tutti loro il nostro grazie convinto. Alessandro Musco Introduzione I lavori raccolti in questo volume sono il frutto di alcuni seminari, svoltisi presso la sede dell’Officina di Studi Medievali di Trapani, su argomenti e tematiche prettamente medievali e concernenti, in particolare, la storia delle idee filosofiche, politiche e sociali. L’obiettivo, oltre alla diffusione dei saperi medievali, è quello di gettare le basi per lo sviluppo sul territorio di una nuova ricerca sul Medioevo, libera da dogmatismi e capace quindi di scrollarsi di dosso pregiudizi e incrostazioni che attraverso i secoli ne hanno condizionato i risultati, poiché è innegabile che sullo sfondo vi è sempre stata la presenza enigmatica e, allo stesso tempo, inquietante del potere e delle sue strutturazioni storiche. In questa eterna lotta fra l’esigenza del libero sviluppo speculativo dell’uomo e quella rappresentata dalle forme culturali di istituzionalizzazione del potere, è quest’ultima che il più delle volte si è affermata, legittimando una cultura assolutistica ed esaustiva con la pretesa di cancellare ogni pensiero che non obbedisca al rigido binario dell’ortodossia. Non dimentichiamo che molto spesso nei testi scolastici siamo stati soliti leggere che il Medioevo è stato un periodo buio della nostra storia. Ma ciò non è assolutamente vero. In realtà, il Medioevo è stato un periodo ricco di fermenti culturali e di intelligenze speculative di grosso spessore, costrette il più delle volte a navigare “in apnea” per evitare di incappare nelle soffocanti maglie sanguinarie dell’Inquisizione. Condizionata da un tale clima, la cultura filosofica medievale in occidente si è trovata appiattita su un’accezione sostanzialmente cristiana del pensiero filosofico, trascurando coscientemente il grande apporto della filosofia araba e di quella ebraica, considerandole e leggendole, tutt’al più, come forme di anticipazione dei grandi autori della Scolastica. L’Officina di Studi Medievali guarda invece al Medioevo, come è suo costume, nel senso più lato e inclusivo con proiezioni sulle sue radici nelle culture antiche e sui suoi lasciti alle culture moderne. Il nostro augurio è che questi contributi, nella piena libertà di pensiero, possano produrre nuovi sviluppi o, quanto meno, nuove ipotesi di ricerca in una visione di continuità tra il soggetto medievale e quello moderno. Salvatore Girgenti Manuela Girgenti Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico Premessa L’ebraismo, dal XIII secolo a.C. sino all’avvento del cristianesimo, si è principalmente caratterizzato come dottrina di vita, privilegiando l’approccio pratico, in luogo di quello teoretico, verso i grandi temi della vita spirituale dell’uomo. La storia di questo popolo è stata consegnata alle Sacre Scritture, un insieme di testi nei quali si riteneva che Dio avesse parlato per bocca di uomini da lui prescelti. Il cuore delle scritture per l’ebraismo è il pentateuco, una raccolta di leggi che, secondo la tradizione, erano state scritte da Mosè su ispirazione di Dio e così chiamato perché conteneva i libri della Genesi, dell’Esodo, del levitico, dei Numeri e del Deuteronomio. Mosè è proprio il personaggio chiave della storia del popolo ebraico. A lui Dio affidò il compito di riportare in Palestina il popolo israelita, liberandolo dalla schiavitù in Egitto, dove si erano trasferiti in seguito ad una carestia. La liberazione dall’Egitto ebbe anche come conseguenza una alleanza fra Dio e il popolo di Israele, di cui Mosè fu il mediatore. Mantenendo fede a questo patto, Jahvè, non solo avrebbe fatto loro dono della terra promessa, ma lo avrebbe anche considerato come suo popolo eletto. Così, stando al libro dell’esodo, sul monte Sinai Mosè ricevette da Dio il Decalogo (i dieci comandamenti) dal cui rispetto dipendeva la solidità del patto di alleanza. In realtà, la penetrazione nella terra promessa da parte del popolo ebraico non avvenne pacificamente, ma attraverso una serie di lotte con le popolazioni locali. Nel 722 a. C., poi, il regno di Israele, dopo una debole resistenza, dovette piegarsi alla potenza assira. Momenti di grande drammaticità si registrarono, inoltre, nel 538 a.C., in seguito all’occupazione della Palestina da parte del re Nabucodonosor. In quella circostanza gli ebrei, non solo subirono l’onta di vedere distrutto il loro Tempio, ma andarono incontro a una nuova deportazione. Alla luce di queste esperienze non pochi ebrei cominciarono a nutrire dubbi sul patto di alleanza con Dio e, in particolare, sulla predilezione di Jahvè nei loro confronti. È in questo clima che attorno alla metà dell’VIII secolo a. C. si va sempre più affermando la predicazione dei profeti, uomini illuminati che parlavano per volere e a nome di Dio. A detta di questi ultimi, gli avvenimenti drammatici che avevano colpito il popolo di Israele scaturivano dal 2 Manuela Girgenti fatto che quest’ultimo aveva infranto la legge, ricadendo spesso nell’antico peccato di adorare falsi idoli e, quindi, di essersi allontanato da Dio. I profeti, in poche parole, lanciarono un messaggio di conversione e, nel contempo, un invito a tornare alla fede in Jahvè e a rimanere fedeli all’alleanza mosaica. L’osservanza delle leggi, dunque, che, come abbiamo già detto, erano state scritte da Mosè su ispirazione di Dio, costituiva per gli ebrei un irrinunciabile imperativo categorico. Un atteggiamento, quest’ultimo, che chiarisce il motivo per cui gli ebrei, prima dell’incontro con la filosofia greca, si mostrarono poco propensi ad occuparsi di speculazioni filosofiche, disinteressandosi a livello culturale di tutto ciò che non riguardasse lo studio della legge. Il Deuteronomio, infatti, il primo grande codice religioso del popolo ebraico redatto non oltre l’anno 621 a. C., accoglieva quella che era stata la principale occupazione dell’età profetica: la volontà,cioè, di assicurare l’ordinamento morale, mediante la giustizia e, nello stesso tempo, di ricordare che il popolo di Israele è il figlio prediletto di Jahvè, Dio dell’Universo, non per i suoi meriti, ma per un dono misericordioso dello stesso Jahvè, dovuto al suo amore e alle promesse fatte ai patriarchi. E, in realtà, i testi sacri degli ebrei, il Talmud e la Torah, con la varietà inesauribile del loro contenuto, sembravano appagare la loro sete di conoscenza e le loro più immediate esigenze spirituali. L’osservanza della legge diventava così l’unico mezzo per raggiungere la santità e la salvezza. Per i farisei, infatti, una delle principali sette dell’ebraismo e dalle cui fila provenivano i rabbini più autorevoli, «non l’intenzione decide della moralità della vita, ma la somma delle azioni, prese come unità esteriorizzata in rapporto alla loro corrispondenza ai precetti legali».1 Lo spirito religioso si esauriva, quindi, in una applicazione esatta delle norme legali. Di conseguenza, la casta sacerdotale, essendo l’unica interprete autorizzata dalla legge, venne ad assumere un ruolo di primo piano. Trasse origine così la Midrash, una specie di giurisprudenza intorno ai precetti della legge, che si attardava in una casistica minuta, irretendo la coscienza in una folla di schemi e di norme. Con questa integrazione delle norme legali – rileva il De Ruggiero – la religiosità giudaica viene ravvolta in una solida rete esteriore, che ne frena ogni slancio; il convincimento dell’antico Israele, che il vivere moralmente equivalga ad osservare le usanze israelitiche, viene respinto; la moralità consiste invece nella osservanza della legge posta da Dio.2 Da tale stato di fatto ne consegue un oggettivismo formalistico e legale, che si traduce in una esegesi minuta dei libri della legge e in un continuo sforzo per adeguare il proprio comportamento a quella casistica intellettuale, soffocando, di conseguenza, 1 2 G. De Ruggiero, La filosofia del cristianesimo, vol. I, Bari, 1941, p. 82. Ibid, pag. 80. Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 3 ogni sentimento intimamente religioso e ogni ispirazione spiccatamente individuale. Questo spiega perché l’ebraismo nel corso del suo sviluppo, pur senza demonizzare la filosofia, non avvertì mai la necessità di ulteriori approfondimenti metafisici. La legge, la Torah e il decalogo, che il popolo era tenuto a conoscere e rispettare fedelmente in modo da saper distinguere il bene dal male, rappresentano una vera e propria incarnazione della sapienza di Dio e hanno il potere di rendere felice la vita di quanti la mettono in pratica. Diversamente da tutti gli altri popoli dell’antichità, che cominciarono a porsi l’idea di Dio, partendo dalla natura, la fede del popolo d’Israele nasce e si sviluppa in seguito al manifestarsi di Dio attraverso uomini da lui prescelti. La storia religiosa di questo popolo è la storia di un dialogo diretto che si instaura tra Jahvé e il suo popolo che concepisce il peccato o il male morale quando viene meno al patto con Dio e, quindi, con un atto di disobbedienza. Quando, nel 333 a.C., a seguito delle conquiste di Alessandro Magno, la cultura greca si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo orientale, molti ebrei vivevano già fuori dalla Palestina e finirono inevitabilmente col subirne l’influenza, soprattutto sul piano linguistico. Inoltre, il contatto con la civiltà greca suscitò negli ebrei ellenizzati di Alessandria un forte interesse per la filosofia, considerandola un nuovo strumento da mettere al servizio della religione, tanto che, a partire da Filone, arrivarono ad affermare che i filosofi greci non furono altro, in realtà, che discepoli di Mosè. Filone d’Alessandria: il primo incontro tra giudaismo e filosofia Sulla vita di Filone d’Alessandria non si hanno molte notizie. Nacque, probabilmente, tra il 15 e il 10 a. C. e discendeva da una delle famiglie più influenti di Alessandria. Grande studioso di Filosofia e giurisprudenza, la sua preparazione culturale risente dell’influenza giudaica (studio della Scrittura) e di quella ellenistica, tanto che egli fu considerato il principale rappresentante del tentativo di conciliazione tra cultura greca e teologia giudaica. Filone – scrive la Pepi – è il rappresentante del giudaismo della diaspora e in particolare del giudaismo alessandrino. Il giudaismo alessandrino è di particolare importanza, perché costituisce il primo incontro tra pensiero ebraico e pensiero greco. In quell’epoca, come è noto, Alessandria è uno dei centri più fiorenti della cultura greca. Gli ebrei colti di Alessandria acquisiscono la cultura greca, ma rimangono fedeli alla loro religione e cercano di dare a questa una forma, un’espressione greca.3 L. Pepi, Filone Alessandrino in D. Di Cesare - M. Morselli (a cura di), Torah e filosofia, Firenze 1993, p. 47. 3 4 Manuela Girgenti Gli ebrei ellenizzati, in sintesi, vedono nella sapienza dei greci una conferma della verità della loro legge e pensano che i greci abbiano potuto sviluppare la loro sapienza solamente attraverso un contatto diretto con i profeti. Filone coglie, in particolare, nel pensiero di Platone il grande valore della critica alla religione mitica e al suo antropomorfismo: «chi crede che Dio abbia qualità – sostiene il filosofo alessandrino – fa ingiuria a se stesso, non a Dio».4 Con questa premessa, Filone non può con la sua critica al mito non coinvolgere la Bibbia, nella quale spesso si riscontrano linguaggi narrativi ed episodi che ricordano da vicino la mitologia dei greci. Ora, poiché l’autorità della Bibbia è indiscutibile, in quanto libro divino ispirato direttamente da Dio, Filone è del parere che l’esegesi letterale del testo sacro è destinata alla gente comune, mentre quella allegorica, rivolta a recepire sensi diversi da quelli letterali e di conseguenza destinata a pochi individui colti, è superiore in quanto coglie il significato più profondo della parola rivelata e permette, nel contempo, di superare molte delle incongruenze e delle ingenuità del testo sacro.5 In tal senso, la descrizione del paradiso terrestre e del peccato originale, secondo Filone, non vanno intese letteralmente, come se vi fosse stato realmente un albero, un serpente, un frutto etc., ma piuttosto come allegoria di una realtà psicologica e spirituale: quella dell’uomo diviso tra la tendenza al male e il richiamo divino. Ed ancora. L’attraversamento del deserto, percorso dagli ebrei in fuga dall’Egitto, si presta, attraverso la rielaborazione filoniana, a diversi livelli di lettura e di interpretazione allegorica. In un succedersi di sofferenze e interventi divini, il deserto si trasforma in un percorso educativo, un itinerario, attraverso il quale gli ebrei cercheranno la propria strada verso l’alto. Le privazioni fisiche sono per Filone il riflesso esteriore di una mancanza (la conoscenza di Dio) e allo stesso tempo sono prove per il superamento di questa incompletezza interiore. L’itinerario a Dio, quindi, si apre attraverso insidie che rendono gli uomini «prostrati nel corpo e battuti nello spirito e li sottopongono a delle padrone dure e crudeli: la fame e la sete».6 Attraverso i prodigi di una storia del passato - l’Esodo - Filone offre dunque riflessioni che annullano il tempo: il filosofo alessandrino si rivolge a tutti gli uomini per dire loro che sempre è possibile intraprendere un’ascesa etica e conoscitiva, nonostante le difficoltà. Il deserto, quindi, è quell’elemento che unisce il passato dell’Esodo al pensiero e al tempo di Filone, per il quale l’uomo saggio deve conti- 4 Filone Alessandrino, Legum allegoriae, I, 49. I testi di Filone sono citati secondo le abbreviazioni in uso. Si veda a proposito la tabella pubblicata in G. Reale - R. Radice, Introduzione a La filosofia mosaica, Milano 1987. Di questi testi sono qui utilizzate le seguenti edizioni: Philonis Alexandrini opera quae supersunt, VII vol., ediderunt L. Cohn, P. Wendland, S. Reiter, Berlin 1896-1930; Les oeuvres de Philon d’Alexandrie, publiées sous le patronage de l’Université de Lyon par R. Arnaldez, C. Mondésert, J. Pouilloux, Paris 1961. 5 Id., De vita contemplativa, 78 e Leg. All., II, 14. 6 Id., De vita Mosis, I, 191. Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 5 nuamente ricercare la libertà e, in libertà, la contemplazione di Dio. Tutta la filosofia di Filone – rileva opportunamente il Reale – è in ultima analisi un itinerario a Dio e la stessa interpretazione allegorica di molti personaggi e vicende narrati nella Bibbia è appunto una storia, di cui quei personaggi e quelle vicende sono simboli, delle tappe percorse dall’anima nel suo itinerario verso Dio.7 Filone – aggiunge a tal proposito la Pepi – usa l’allegoria per universalizzare il messaggio biblico. Così vuole mostrare che la Torah ha un valore universale. La Torah non è legge giudaica, ma è legge universale; il suo contenuto è allegorico, la storia di Israele non è altro che la storia di ogni anima che cerca Dio […] In un certo senso è proprio la lettura allegorica che consente di introdurre la filosofia nella Bibbia. Grazie all’uso della filosofia greca per interpretare il testo biblico, Filone getta le basi per una profonda sintesi che è stata definita “filosofia mosaica”.8 Ma quale funzione può avere la filosofia nella conoscenza delle verità religiose? In che rapporto si trova la filosofia con la rivelazione? È opinione comune che il problema dei rapporti tra fede e religione sia sorto col cristianesimo, ma, ancor prima dei Padri della Chiesa e della Scolastica, il primo ad occuparsene, pur non con uno studio sistematico, è stato proprio Filone. Secondo il filosofo alessandrino, la ragione umana da sola non è in grado di condurre l’uomo ad una vera conoscenza di Dio. Ma Dio, in realtà, non ha voluto restare ignoto all’uomo ed è per questo che è disceso al livello dell’uomo, concedendogli il dono della sua rivelazione.9 È quindi attraverso il dono della fede che l’uomo può acquisire una conoscenza vera e completa di Dio. Stando così le cose – lo ripetiamo – che funzione può avere la filosofia nella conoscenza di Dio? Può essere d’aiuto o può mettersi da parte? Filone, sostenendo una teoria che, come abbiamo già detto, sarà fondamentale per i Padri della Chiesa e per la Scolastica, è del parere che la filosofia, esplica “una subordinazione ancillare” rispetto alla rivelazione, in quanto cerca di rischiarare le verità da quest’ultima manifestate.10 Lo scopo di Filone nel cogliere i limiti della filosofia, giacché ci sono delle domande alle quali l’uomo non potrà mai dare una risposta razionale, quali, ad esempio, sul senso della sua vita o su Dio, non è quello di negare l’esistenza della verità, come avevano fatto gli scettici, ma solo di far comprendere che l’uomo con i suoi soli mezzi, con la sola ragione, non potrà mai raggiungerla. Secondo il Bréhier, la sfiducia di Filone nella filosofia scaturisce da una specie G. Reale - R. Radice, La genesi e la natura della filosofia mosaica, in Filone: commentario allegorico alla Bibbia, Milano 1994, p. CXLVII. 8 L. Pepi, Filone Alessandrino, cit., pp.48-49. 9 H. H. Wolfson, Philo, Harvard 1948, vol. I, pp. 138-155. 10 Filone, De congressu eruditionis grazia, 79. 7 6 Manuela Girgenti di resistenza da quest’ultima mostrata all’ideale mistico della conoscenza di Dio, resistenza ch’egli ha condannato nella sofistica. Non si può arrivare alla virtù mediante l’educazione intellettuale che sorpassando continuamente l’insegnamento acquisito. In se stesso e da solo esso è più nocivo che utile. Filone sembra mettere continuamente in dubbio gli effetti dell’educazione ellenica, questa cultura dell’intelligenza per se stessa, senza risultati pratici, quest’esercizio del talento che non migliora affatto l’uomo. Per quanto grande sia il posto che Filone dà a tutta la cultura greca, egli riconosce che il minimo sforzo morale vale di più di tutte le scienze. Esse non sono che inutili ornamenti e vana ostentazione.11 La verità, dunque, viene fatta conoscere all’uomo solamente dalla rivelazione, la quale, secondo Filone, «è una specie di divinazione: è la divinazione intuitiva, non imparata con lo studio, la quale si oppone alla divinazione tecnica e artificiale; in essa lo spirito divino si sostituisce allo spirito umano».12 In questo passaggio non si può non cogliere nel pensiero di Filone un ben preciso influsso platonico, considerato che per il filosofo greco «i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino».13 Ma ancora più esplicitamente nello Ione aggiunge: tutti i bravi poeti epici non per capacità artistica, ma in quanto ispirati e posseduti compongono tutti questi bei poemi […] poiché il poeta è un essere etereo, alato e sacro e non è capace di comporre prima di essere ispirato e fuori di sé e prima che non vi sia più in lui il senno. Finché lo possiede, ogni uomo è incapace di poetare e di vaticinare […] per questi motivi il dio, facendoli uscire di senno, si servì di questi vati e dei profeti divini come ministri, perché noi ascoltatori potessimo comprendere che non sono costoro nei quali non c’è senno coloro che compongono versi tanto pregevoli, ma è proprio il dio che parla e per mezzo di questi poeti ci fa sentire la sua voce […] non abbiamo dubbi sul fatto che queste belle poesie non siano opere umane, né di semplici uomini, ma divine e di dei e che i poeti nient’altro siano che interpreti degli dei, quando sono invasati.14 Il tema della rivelazione viene ancora affrontato da Platone nel Fedone, quando i personaggi del dialogo affrontano il problema dell’immortalità dell’anima. E. Bréhier, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, Paris 1925, pp. 294-295 in B. Mondin, Il problema dei rapporti tra fede e ragione in Platone e in Filone Alessandrino in «Le parole e le idee», Napoli 1967, p. 16. 12 Ibid, pag. 80. 13 Platone, Fedro, 244a. Traduzione italiana di P. Pucci, Bari-Roma 2004. 14 Platone, Ione, 533e, 534b, d, e. Traduzione italiana di G. Giardini, Roma 2005. 11 Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 7 Su argomenti del genere – afferma Simmia, uno dei personaggi principali del dialogo – non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è possibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina.15 Se dunque – e la domanda è legittima – dal piano della ragione non si può risalire a quello della fede e che, per effettuare l’ascesa è necessario mettere in disparte, non solo i sensi e la fantasia, ma anche la ragione,16 in che modo la ragione, la filosofia può essere d’aiuto alla rivelazione? Per Filone, la risposta è semplice: essa può essere utile esercitando un’azione indiretta, nel senso, cioè, di fare apprezzare la rivelazione, facendola comprendere, poiché se uno la comprende non può non apprezzarla. In poche parole, Filone ha mostrato in concreto nelle sue opere in cosa deve consistere la funzione ancillare della filosofia rispetto alla rivelazione: «essa non consiste tanto nel rendere razionale il dato rilevato, poiché il mistero rimane sempre mistero, indipendentemente dalla forma concettuale con cui viene rivestito, quanto nell’esprimerlo mediante le categorie mentali proprie di una data cultura».17 È evidente che l’opera di Filone non è altro che il tentativo di far vedere che i singoli testi biblici si potevano tradurre in espressioni della cultura ellenica e, contemporaneamente, di preparare il materiale per la costruzione di un sistema teologico, basato sulle categorie della filosofia greca. Ma è nel concetto di creazione che meglio si evidenzia la sintesi operata da Filone, tra cultura greca e teologia giudaica. Nel De opificio mundi la teoria della creazione si ispira alla Genesi e, pur andando molto al di là del puro platonismo, al Timeo di Platone. Quest’ultimo aveva pensato ad una generazione del mondo delle idee ad opera di un demiurgo, Filone, invece, pensa che esista un Dio supremo e che tra lui e il mondo stia il Logos, cioè il complesso delle idee che ordinano l’universo. Dio, quindi, è presentato da Filone come autore di una doppia creazione: del mondo intellegibile e del mondo sensibile. Infatti, volendo creare il mondo sensibile, crea prima il mondo intellegibile, modello incorporeo, cui ispirarsi. Così il concetto di creazione, tratto dalla Genesi, e la produzione demiurgica, tratto dal Timeo, vengono armoniosamente sintetizzati nella teoria della doppia creazione.18 Platone, Fedone, 85c, d. Traduzione italiana di G. Reale, Brescia 2001. Filone, Quis rerum divinarum heres, 69-76. 17 B. Mondin, Il problema dei rapporti tra fede e ragione in Platone e in Filone Alessandrino in Le parole e le idee, Napoli 1967, p.14. 18 L. Pepi, Filone Alessandrino, cit., p. 49. 15 16 8 Manuela Girgenti Superfluo sottolineare che la dottrina filoniana del Logos, come intermediario tra la divinità e il mondo, eserciterà un notevole influsso sulla dogmatica cristiana e, in particolare, sulla teoria cristiana della Trinità. In quanto è un’essenza mediatrice, ha in sé del divino e dell’umano e, conseguentemente, anche l’uomo, in quanto possiede l’intelletto che non è altro che un elemento divino, esercita per Filone una funzione mediatrice tra il mondo sensibile e il mondo intellegibile. Non a caso lo chiama spesso “l’Adamo celeste”.19 Il Logos, dunque, è creato da Dio e per suo mezzo la divinità ha creato il mondo e per suo mezzo, ancora, agisce nel mondo. Esso e, da un lato, ragione immanente e, dall’altro, ragione espressa. È in questo modo che «tra Dio e il singolo individuo, si instaura un rapporto sconosciuto al pensiero precedente»;20 ed è proprio attraverso questo passaggio che sarà facile per i cristiani chiamare con il nome filoniano di Logos il mediatore per eccellenza, cioè il Cristo. In questa dottrina filoniana, infatti, il Logos è Dio e insieme uomo, ma non Dio che si fa uomo. Prelude, ma non assume la concretezza di una vera incarnazione. «Troppo aderente alle sue fonti elleniche, esso è – come il demiurgo di Platone – la personificazione simbolica della realtà intelligibile».21 È attraverso la coscienza di questo processo che l’uomo, secondo Filone, può aspirare alla salvezza. L’uomo non è composto semplicemente, come sosteneva Platone, di anima e corpo ma, maturando una concezione più avanzata, anche di spirito (pneuma), che proviene da Dio. L’anima, dunque, contrariamente a quanto sosteneva Platone, sarebbe di per sé mortale se Dio non vi soffiasse il suo spirito, ma, in realtà, per renderla immortale il semplice soffio di Dio non è sufficiente. Essa può diventarlo solamente e nella misura in cui sa vivere secondo lo spirito. «L’immortalità, dunque, non è un dato ontologico, come, per esempio, sosteneva Platone, ma è un premio e una grazia concessi solo a chi li merita. Non tutte le anime sono immortali, ma solo quelle dei sapienti: l’immortalità è conquista personale».22 In questo lungo e difficile cammino verso Dio, l’uomo, da Filone definito anche “progrediente”, deve predisporsi interiormente ad accogliere la rivelazione con la fede. La fede, in poche parole, deve assumere essenzialmente il significato d’assoluta fiducia in Dio, «una fiducia che implica che Dio è la causa unica, davanti alla quale gli avvenimenti esteriori non sono nulla».23 Ma migrare dal mondo non è ancora sufficiente. L’uomo deve anche migrare da sé e dal proprio intelletto e riconsegnarsi totalmente a Dio, riconoscendo la propria nullità.24 Per Filone infatti Filone, De opificio mundi, 138. L. Pepi, Filone Alessandrino, cit., p. 49. 21 G. De Ruggiero, La filosofia greca, vol. II, Bari 1950, p. 248. 22 L. Pepi, Filone Alessandrino, cit., p. 49. 23 E. Bréhier, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, cit., pp. 221-222. 24 Filone, Leg. All., III, 195-198. 19 20 Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 9 la condizione necessaria per incontrare Dio è che l’uomo riconosca il proprio nulla […] Nello sviluppare il tema dell’oudéneia dell’uomo, Filone è vicinissimo al pensiero biblico. La certezza della nullità dell’uomo e dell’onnipotenza divina è fondamentale nella Scrittura. Si può a questo riguardo citare Isaia (40,6-8): ogni mortale è come l’erba, tutta sua gloria come i fiori di campo, l’erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del nostro dura per sempre.25 L’ascesi, però, non è il momento più alto della purificazione. L’obiettivo finale è la contemplazione del divino. In una parola: l’estasi. «Per virtù di essa, il saggio è profeta: egli non trae nulla dal suo fondo, ma in lui abita lo spirito divino, ed egli vibra senza suo volere, come le corde di uno strumento».26 Lo stesso Filone descrive i suoi momenti di estasi, quando, ponendosi al lavoro senza idee, all’improvviso “si sentiva riempito” e i pensieri venivano invisibilmente giù dall’alto e cadevano come la neve e la semenza. Come invasato da un Dio, egli dimenticava il luogo dov’era, le persone presenti e se stesso e ciò che aveva detto e scritto. Con l’estasi, così, in una vera e propria unione mistica con Dio, l’uomo transumanato si annega nell’infinito da cui si origina.27 In questo modo Filone anticipa quell’itinerario a Dio, che, successivamente, da Agostino in poi, diverrà canonico. Il giudaismo rabbinico dal II al XII secolo Il pensiero di Filone, troppo legato all’ellenismo, non ebbe largo seguito tra gli ebrei di lingua diversa dalla greca e, fra l’altro, va anche rilevato che la nascita ad Alessandria della scuola neoplatonica contribuì ad oscurarne la gloria, giacché la scuola di Filone, pur tentando di unificare il giudaismo con lo spirito animatore del pensiero ellenico, nella realtà pretendeva di asservire la mentalità ellenica al giudaismo.28 Ciononostante, dopo la scomparsa del giudaismo alessandrino, la filosofia ricomparirà proprio in seno al giudaismo rabbinico che, sviluppatosi sostanzialmente in oriente tra Palestina e Babilonia, dal 70 dell’era volgare al 1040 sarà il punto di riferimento di tutte le pratiche e credenze ebraiche. Inizialmente gli ebrei babilonesi furono influenzati da quelli palestinesi, mentre dopo il 135 e.v., quando numerosi ebrei fuggirono dalla Palestina verso la Mesopotamia, dove esistevano condizioni politiche e sociali migliori, riuscirono ad imporre la loro supremazia nel campo della letteratura rabbinica, tanto che le accademie di studio babilonesi, dal VI al X secolo, rappresentarono il centro culturale L. Pepi, Filone Alessandrino, cit., p. 51. G. De Ruggiero, La filosofia greca, cit., p. 252. 27 Filone, De specialibus legibus, III, 1-2. 28 G. De Ruggiero, La filosofia greca, cit., p. 253. 25 26 10 Manuela Girgenti dell’ebraismo orientale ed occidentale.29 Le accademie babilonesi di Sura e Pumbedita, infatti, continuarono le tradizioni talmudiche sotto l’autorità dei Geonim (plurale di Gaon,”Eccellenza”), guadagnandosi fama e autorità tali da accogliere richieste di pareri su questioni giuridiche e teologiche, che venivano loro indirizzate dalle comunità sia d’Oriente che d’Occidente. In questo periodo il pensiero giudaico si sviluppa nella sua pienezza, ma nel senso del proprio retaggio e al riparo delle barriere elevate contro l’ambiente circostante, soprattutto contro il pensiero greco. E questo nonostante che l’influsso ellenistico fosse stato rilevante e che i problemi teologici non venissero elusi; ma le risposte date a questi problemi si ponevano su un piano prettamente religioso e solo di rado sul piano razionale, se si dà al termine “ ragione” il significato attribuitogli dai filosofi.30 Non a caso, infatti, alcuni studiosi definiscono l’ebraismo rabbinico come la religione della “duplice Torah”, perché, oltre a una Torah scritta (le Scritture ebraiche) riconosce una “Torah orale” o tradizione, attraverso cui quella scritta viene interpretata e completata.31 Per comprendere meglio tale sviluppo bisogna calarsi nel clima che si venne a determinare dopo la seconda rivolta giudaica, che culminò nel 135 con la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani. L’odio accumulato da questi ultimi contro gli ebrei fu tale, che alcuni storici non hanno esitato a parlare di una vera e propria guerra di sterminio, nel corso della quale l’unica logica condivisa era quella di annientare, sterminare e sradicare i ribelli. «Agli ebrei, che alla fine della sommossa contarono ben 585.000 vittime, fu persino proibito di mettere piede a Gerusalemme o di guardare con nostalgia da lontano le sue rovine».32 Il 135 e.v. segnò, dunque, un punto di non ritorno ed è da questa data che ebbe inizio la vera, grande diaspora del popolo ebraico. I cristiani interpretarono questo luttuoso evento come il ripudio degli ebrei da parte di Dio e la conferma di essere nel giusto nel credere in Gesù come Messia e figlio di Dio; gli ebrei, viceversa, lo interpretarono come una punizione per i loro peccati. A questo punto per gli ebrei occorreva un’opera di auto definizione. Questo compito fu assunto dai rabbini, i quali, partendo da una fede assolutamente indiscutibile in Dio, nella sua rivelazione attraverso la Torah e nella sua “elezione” di Israele, definirono l’ebraismo in termini G. Stemberger, Il giudaismo classico: cultura e storia del tempo rabbinici (dal 70 al 1040), Roma 1991. 30 C. Sirat, La filosofia ebraica medievale, Brescia 1990, p. 27. 31 N. Solomon, Ebraismo, Torino 1999, p. 21. 32 R. Calimani, Gesù ebreo, Milano 1998, p. 105. 29 Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 11 di Mitzvot, o comandamenti divini, che spaziavano da “ama il prossimo come te stesso” e “ama il Signore, tuo Dio”, fino alle minuzie concernenti i rituali religiosi. I rabbini, in poche parole, continuarono a comportarsi come se il cristianesimo (anche se da questo fronte l’ebraismo veniva definito una religione obsoleta e, in quanto nemico di Cristo, disonorevole) non fosse mai esistito o non fosse una minaccia, proseguendo nella loro opera di esposizione della Torah e di commento delle sue leggi. Questi commenti costituiscono ancora oggi il nucleo principale della letteratura sacra ebraica, la prima delle quali, terminata intorno al 200 e.v., è rappresentata dalla Mishnàh. Per i successivi tre secoli questo documento costituì un vero e proprio codice legale, il sistema giudiziario della nazione ebraica nella sua terra e nelle comunità della diaspora, tanto che nel giro di qualche decennio la Mishnàh fu canonizzata, assumendo pari dignità della Bibbia ebraica. Le discussioni nate attorno alla Mishnàh, avvenute sia in Palestina sia durante la diaspora babilonese, originarono altri due testi fondamentali: il Talmud palestinese (inizio del V secolo) e il Talmud babilonese (VI secolo). Quest’ultimo rappresenta il grande compendio della legge e della tradizione ebraica ed è considerato il maggior testo di studio delle accademie rabbiniche tradizionali, tanto che tutti gli ebrei sono invitati a studiarlo.33 Infine, la letteratura rabbinica ha originato le collezioni esegetiche, a cui è stato dato il nome di Midrash (interpretazioni ). La letteratura midrashica si è sviluppata nel corso di diversi secoli (II-XIII) e si presenta sotto forma di commenti dei versi biblici, spesso di difficile datazione. Esse si articolano in due registri: la halakhah e la aggadah. La prima tratta delle disposizioni in senso giuridico,che determinano una condotta di vita ispirata alla Torah e alle sue applicazioni, così come esse vengono stabilite dalla tradizione; la seconda è la trasmissione delle riflessioni degli esegeti sulla Scrittura, i quali cercano di cogliere in essa un senso travalicante il primo significato letterale del testo. Il Midrash, dunque, deve essere considerato come l’interpretazione biblica ufficiale del popolo ebraico, la cui esegesi resta perpetuamente connessa al presupposto che ogni passo biblico sia dotato di una pluralità di sensi e di spiegazioni che si susseguono. Presuppone, di conseguenza, l’esistenza di un dialogo permanente tra il testo e la comunità interpretante.34 In base a tale teoria, rileva opportunamente Scholem lo sforzo di chi cerca la verità non sta nel concepire qualcosa di nuovo, bensì nell’inserirsi nella continuità della tradizione della parola divina, sviluppando in relazione alla propria epoca il mandato che da essa gli deriva […] Fino a che i saggi (gli esegeti) non si rivolgono ad essa con le loro ricerche, la Torah resta incompiuta, a mezzo. Ma per le loro ricerche essa diventa un libro compiuto. Infatti, in ogni generazione la Torah viene indagata (interpretata) secondo i 33 34 A. Rosemberg, L’ebraismo: storia, pratica, fede, Milano 1995, p. 101. G. Stemberger, Il giudaismo classico, cit., p. 159. 12 Manuela Girgenti bisogni di questa generazione, e Dio dà luce agli occhi di tale generazione, perché essa possa beneficiare della Torah che le conviene. In altri termini: non il sistema, ma il commento costituisce la forma legittima in cui può essere sviluppata la verità. La verità deve essere espressa attraverso lo sviluppo di un testo, in cui essa già in precedenza stava celata. Il commentario divenne, così, la tipica forma di espressione del pensiero ebraico della verità, ovvero di quello che si potrebbe chiamare il genio rabbinico.35 Dal punto di vista ebraico tra rivelazione scritta e rivelazione orale c’è, dunque, un processo di continuità che si è sviluppato attraverso la via dell’interpretazione. Un aspetto, quest’ultimo, su cui Paul Ricoeur invita a riflettere, sottolineando che «come figli della critica, gli uomini dovrebbero riuscire, mediante la critica, ad andare al di là di essa, non per avere meno significato, ma per averne di più, in altre parole, per foggiare un’ermeneutica che ripristini il significato. Il credere è integralmente riferito all’interpretare».36 I rabbini, in poche parole, ripresero il patrimonio letterario della religione ebraica antica, forgiandolo in un nuovo e inedito significato attualizzante, mediante la redazione di un corpus di opere oggi conosciute come testi della Torah orale. In virtù dei valori e dei principi espressi nel nuovo canone della letteratura sacra ebraica riuscirono ad imporre la propria supremazia nella guida del popolo, poggiando la loro autorità sul concetto che «quando Dio rivelò la Torah sul Sinai vi comprese le opinioni dei rabbì viventi e dotati di autorità: su questo mito, il mito della Torah, poggia la totalità del sistema e della struttura del giudaismo nella sua formulazione classica».37 La Torah scritta e orale, dunque, solo se mediata dai rabbini può diventare una vera guida per la vita sia individuale che collettiva e soltanto loro, ancora, possono fornire un orientamento autentico, ereditando, custodendo, interpretando e attualizzando l’antico patrimonio rivelato.38 In tal modo la Mishnah, per i suoi tratti peculiari acquistò il carattere di una vera e propria costituzione ufficiale del popolo ebraico, caratterizzandosi sempre più, oltre alla sua valenza religiosa, come documento pubblico e politico. La legge scritta nella Mishnah divenne presto, così, uno strumento di controllo sociale e, di conseguenza, gli uomini che conoscevano la Mishnah, i rabbini per l’appunto, acquisirono in breve il controllo della vita di Israele. Naturalmente la pretesa di esercitare l’autorità e il diritto di imporre pesanti sanzioni, in accordo con la Mishnah, non fu universalmente condivisa. I caraiti, infatti, come vedremo se ne dissociarono, ma al di là della condivisione o meno del fenomeno, non si può non essere d’accordo sul fatto che il giudaismo rabbinico ebbe il merito di G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Milano 1986, p. 87. P. Ricoeur, Ermeneutica biblica, Morcelliana, Brescia 1978, p. 12. 37 J. Neusner, I fondamenti del giudaismo, Firenze 1992, p. 23. 38 G. Stemberger, Il giudaismo classico, cit., pp. 154-161. 35 36 Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 13 mantenere viva e unita l’identità ebraica nelle comunità della diaspora. Per fare accettare la Mishnah all’intero popolo d’Israele i rabbini riplasmarono il significato della parola Torah, attraverso un processo esegetico che collegava le affermazioni della Mishnah con i versetti della Scrittura. Non a caso, le opere che vennero redatte dopo la Mishnah fino al 600 e.v. furono tutte intese a spiegare l’origine di questo documento fondativo, collegandolo alla Torah scritta, facendo sorgere la necessità, all’interno del processo di interpretazione della Mishnah, di raccogliere e sistematizzare queste esegesi in correlazione alla stessa Mishnah, letta riga per riga e paragrafo per paragrafo,39 poiché «null’altro significa esegesi se non interpretare il testo, traendone fuori il significato».40 In realtà è proprio su questo concetto che si regge l’ermeneutica del giudaismo rabbinico, poiché, secondo la tradizione ebraica, «la parola rappresenta il luogo della rivelazione, lo spazio in cui abita la divina presenza».41 Ciò che si vuole mettere in evidenza è che l’ermeneutica del giudaismo rabbinico verte sulla consapevolezza che le parole umane impiegate a spiegazione della Scrittura non possono esaurire il contenuto del messaggio divino, se non tramite continue approssimazioni. L’unico veicolo che il saggio possiede per avvicinarsi il più possibile al significato delle parole rivelate è la pluralità di sensi. Questo spiega l’accusa, rivolta spesso alla letteratura rabbinica, di essere percorsa da interpretazioni contrastanti; un limite – secondo Perani – che molto probabilmente scaturisce «dalla mancanza di un’autorità centrale, capace di vigilare sull’uniformità delle credenze religiose, simile al ruolo svolto nella religione cristiana dalla figura del pontefice e dal fatto che nella storia del giudaismo non sono mai avvenuti concili ecumenici per fissare il dogma e che, di conseguenza, non si è mai sviluppata una dogmatica».42 Nel giudaismo rabbinico, in realtà, ha sempre regnato una grande libertà di opinioni divergenti, a volte anche contrapposte; una diversità di opinioni che in genere è stata sempre interpretata come la conseguenza necessaria della ricchezza della parola di Dio, condizione che connota la cultura ebraica come civiltà del commento. Ed ancora la ricerca del significato “altro”, polisemico, narrativo, lungi dal costituire un problema particolare per gli esegeti, creando delle combinazioni di significato eterogenee e delle posizioni antitetiche, rafforza l’essenza di una teologia concepita essenzialmente come racconto e di una ermeneutica ricca di valori etici. Bisogna, infatti, ricordare che, secondo la religione ebraica, Israele è stato scelto per rivelare l’amore che Dio porta a tutta l’umanità, ragion per cui l’uomo deve proporsi di allontanare da sé tutto ciò che contrasta col volere di Dio e, nello stesso tempo, di J. Neusner, I fondamenti del giudaismo, cit., pp. 127-128. B. Maggioni, Esegesi biblica in P. Rossano – G. Ravasi – A. Ghirlanda (a cura di), Nuovo dizionario di Teologia biblica, Ed. Paoline 1988, p. 497. 41 P. Stefani, Lettura ebraica della Bibbia, in Nuovo dizionario di Teologia biblica, cit., p. 816. 42 . M. Perani, Personaggi biblici nell’esegesi ebraica, Firenze 2003, p. 147. 39 40 14 Manuela Girgenti consacrarsi al suo servizio, resistendo a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana. In poche parole: di obbedire a un’etica incentrata sul servizio del prossimo. I precetti e le prescrizioni, infatti, presenti copiosamente nei testi sacri giudaici, non servono solamente a coltivare e sviluppare le più elevate qualità umane, ma contengono una carica di dinamismo morale, capace di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli fa parte. A fondamento della morale troviamo, inoltre, l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi nell’accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. Un senso della giustizia che deve anche manifestarsi nella maniera di concepire i beni terreni, poiché il loro possesso deve considerarsi non come un diritto naturale, ma come un debito con Dio. Sotto questo aspetto, l’etica nel pensiero giudaico si manifesta, in contrasto con tutti i codici dell’antichità, in tutta la sua originalità, poiché la Torah oppone alla difesa della proprietà il concetto di “protezione della personalità”. I limiti imposti al potere, da parte dei libri sacri, dimostrano quanto fortemente fossero sentiti nella spiritualità ebraica i diritti della persona. Al padrone è proibito sfruttare gli operai (Levitico:19,13); al creditore è proibito, in ogni caso, offendere la dignità del debitore (Deuteronomio: 24,10-11); persino lo schiavo conserva i suoi diritti di persona (Esodo: 21,26-27). La Torah rifiuta ogni distinzione tra re e nobile, cittadino e schiavo, indigeno o straniero (ama lo straniero come te stesso, Levitico: 19,34), essendo tutti uguali di fronte alla legge di Dio. Nel giudaismo, infatti, le distinzioni tra ebrei e non ebrei sono solo di ordine religioso, mentre non esistono distinzioni sociali o politiche. La legge è uguale per tutti, poiché la fedeltà del Signore è commisurata secondo l’amore che l’uomo gli dimostra con l’adempimento della legge. Alla base di tutta l’etica giudaica – è bene ribadirlo – sta il concetto della santità individuale, che, oltre al rispetto della legge, poggia anche sul controllo delle passioni. Ma il controllo di queste ultime non deve essere confuso con l’ascetismo, poiché gli ideali di un ascetismo fine a se stesso sono estranei allo spirito del giudaismo. Essenzialmente ottimista, l’ebraismo non vede nel mondo il male e non crede che la vita sia gravata da una maledizione. La vita, anzi, è bellissima e Dio vuole che l’uomo gioisca di tutte le cose belle di cui la terra è piena (e Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona, Genesi: 1,31). Né l’ebraismo ha mai considerato il corpo come cosa impura o gli appetiti umani come radicati nel male (l’uomo farà lieta la moglie che ha sposato, Deuteronomio: 24,5). Il corpo umano è il sacro vaso in cui si cela una scintilla divina, l’anima, e come tale bisogna conservarlo in buona salute, in buone condizioni e pulito. Trascurare il corpo e i bisogni fisici significa offendere Dio e lavarsi ogni giorno è un dovere religioso. Non solo, ma anche astenersi da quelle cose che non sono condannate dalla legge è peccato. Una massima del Talmud dice: «l’uomo deve rendere conto nell’aldilà di tutti i piaceri dai quali non si sarà astenuto» (Talmud di Gerusalemme, trat- Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 15 tato Kiddushin: 4,12). L’autocontrollo anche se estirpa il vizio, non basta. Bisogna, dunque, coltivare quelle qualità positive che danno all’uomo il senso di ciò che egli deve fare e non solo di ciò che non deve fare. La prima di queste virtù consiste nell’accontentarsi, nell’essere in pace con se stessi. La contentezza scaturisce però da una consapevole fede nel divino ordinamento della vita umana, provvidenziale e benefico. Ne derivano una calma e una serenità che assumono il colore più intenso della gioia, la “gioia in Dio”. La fede in Dio comporta anche che l’uomo riconosca di dipendere da Dio e di essere insufficiente e debole senza di lui. Ciò conduce all’umiltà, che impedisce all’uomo di inorgoglirsi per i valori e le conquiste materiali. L’amore per Dio conduce, poi, alla santificazione del Nome, che consiste in ogni atto di abnegazione, di rinuncia, di sacrificio fatto per amore di Dio e degli uomini. Un metodo di studio e una impostazione esegetica, quella rabbinica, che si protrarrà sino al secolo VII dell’era volgare e che il Zonta non esiterà a definire come «la vecchia struttura del giudaismo rabbinico»,43 una struttura che gli appare ormai concentrata in massima parte sull’interpretazione di una tradizione giuridica tardiva (quella del Talmud) e sentita, di conseguenza, come priva di un afflato ideologico e salvifico. Dal secolo di Filone a questo periodo, infatti, come abbiamo già visto, il pensiero giudaico ha sempre sviluppato la tradizione talmudica, restando sempre ancorato alle proprie tradizioni e opponendo una forte resistenza ad ogni contatto culturale esterno, soprattutto greco. «E questo nonostante che l’influsso ellenistico fosse stato rilevante e che i problemi teologici non venissero elusi; ma le risposte date a questi problemi si ponevano su un piano prettamente religioso e solo di rado sul piano razionale, se si dà al termine “ragione” il significato attribuitogli dai filosofi».44 Ma, a partire dal 634 e.v., il clima culturale ebraico subì un profondo mutamento. Ciò fu dovuto alla progressiva occupazione del vicino e medio Oriente (dalla Persia all’Egitto) dei musulmani d’Arabia, che crearono un impero sotto l’alta sovranità di un califfo, residente prima a Damasco (661-750) e poi a Bagdad (dopo il 762). Il passaggio dei centri culturali ebraici più rilevanti sotto il dominio islamico – rileva Zonta – ebbe conseguenze di non poco peso per la storia, anche religiosa, del giudaismo: ebbe, infatti, inizio in questo periodo quella simbiosi tra cultura araba e cultura ebraica che caratterizzò tutta la filosofia ebraica medievale, facendo sì che ogni fenomeno culturale verificatosi nel mondo islamico producesse analoghi fenomeni, non solo di imitazione ma anche di emulazione, nel mondo ebraico vicino - orientale e mediterraneo.45 Inizialmente le autorità arabe furono molto tolleranti nei confronti delle reli- M. Zonta, La filosofia ebraica medievale, Roma-Bari 2002, p. 11. C. Sirat, La filosofia ebraica, cit., p. 27. 45 M. Zonta, La filosofia ebraica, cit., p. 10. 43 44 16 Manuela Girgenti gioni ufficiali dei territori da loro occupati e, in particolare, della religione giudaica. Ma successivamente, vuoi per la propaganda religiosa islamica, vuoi per le pressioni del potere politico, si registrò in quel periodo una notevole massa di conversioni all’Islam nei territori occupati. Tale stato di cose provocò, come è naturale, una dura reazione sia da parte dei cristiani, che cercarono di avviare una sistematizzazione razionale della complessa dogmatica cristiana, mediante l’uso di una metodologia filosofica ispirata innanzitutto al pensiero aristotelico, sia da parte degli ebrei ortodossi che ricevettero nuovi impulsi per un ritorno ad uno studio esegetico della Bibbia, non solo come fonte giuridica, ma come fonte per una interpretazione del mondo fisico e metafisico. Tale clima spinse gli arabi a dotarsi di una propria teologia, solidamente edificata sulle basi proposte dalla filosofia greca, dando vita così alla letteratura del Kalam. Si trattò di una vera e propria fibrillazione culturale, che scaturiva dalla necessità di spiegare e giustificare l’Islam di fronte alle altre religioni e di far prevalere una concezione “razionale” dell’Islam di fronte alle altre religioni. Il Kalam (che in arabo letteralmente vuol dire “discorso”) ebbe inizio intorno alla metà del secolo VIII e rappresentò una apologia dei punti caratterizzanti della religione islamica, condotta per lo più mediante un metodo razionale, logico-dimostrativo, sfruttando argomentazioni ispirate indirettamente al pensiero antico. Non si tratta – precisa Zonta – precisamente di una forma di filosofia: infatti, i metodi filosofici impiegati dal Kalam non sono finalizzati al puro raggiungimento della conoscenza di per sé. Bensì sono strumenti per difendere postulati già dati per veri a priori, perché desunti dalla rivelazione; le parti di interesse propriamente filosofico dei testi dei teologi del Kalam sono dunque relativamente circoscritti.46 Delle sette del Kalam, la scuola mu’tazilita fu la più importante e il concetto di ragione, elaborato in questa scuola, si ritroverà negli autori ebrei, tanto rabbaniti quanto caraiti. Ma va subito chiarito che il concetto di ragione dei mu’taziliti non è quello a cui ci hanno abituato i filosofi greci, per i quali la ragione è ciò che permette di distinguere il vero dal falso, ma si deve intendere come legge morale che ci fa dire che una cosa è buona o cattiva, che ci rende riconoscenti verso chi ci fa del bene e ci induce a ricondurre il malvagio sulla retta via. «Questa legge morale è universale e trascende le razze e le religioni: ogni uomo normale ne riconosce in se stesso l’esistenza e, dal momento che la stessa legge si applica anche a Dio, noi possiamo stabilire con certezza l’esistenza di un Dio buono, del quale possiamo fidarci».47 Il Kalam mutazilita appare imperniato su cinque principi fondamentali: unità e giustizia di Dio, verità delle promesse e delle minacce di Dio per quanto concerne 46 47 Ibid, pp. 12-13. C. Sirat, La filosofia ebraica, cit., p. 38. Filone d’ Alessandria e il giudaismo rabbinico 17 la vita futura, la condizione dell’uomo reo di peccato capitale, promozione del bene e impedimento del male. Questi a loro volta vengono divisi in razionali e tradizionali: i primi spiegabili alla luce della ragione umana, i secondi vanno, invece, accettati per rivelazione. Ma è ai primi due principi che i mutaziliti annettevano una grande importanza, tanto da definirsi “sostenitori della giustizia e proclamatori dell’unità divina”.48 Il Kalam mutazilita, pur essendo una teologia islamica, subisce l’influsso del deismo razionalista aristotelico poiché, anche per loro, Dio pur se vincolato dalle leggi di necessità che regolano l’universo, è la causa prima e il primo motore. Se ne distacca, però, per le sue posizioni nettamente atomistiche in fisica, poiché, secondo i mutaziliti, «i corpi si compongono di una mescolanza di atomi di sostanza, che ne costituiscono l’essenza fondamentale, e di atomi di accidenti, che conferiscono loro diverse qualità (si hanno, per esempio, atomi di calore, di umidità etc.)».49 In ogni caso, pur con le dovute differenziazioni, il Kalam nella storia delle idee viene indicato come l’anello di collegamento fra l’antichità classica, l’islamismo e la filosofia successiva. Contemporaneamente, e in reazione al Kalam islamico, si andò formando gradatamente un Kalam ebraico, i cui testi teologici, scritti per la maggior parte in lingua araba, erano finalizzati ovviamente non alla difesa dell’Islam, ma del giudaismo. Naturalmente – rileva opportunamente Zonta – i teologi ebrei dovettero inserire nello schema dei cinque principi mutaziliti le dottrine, tipicamente ebraiche, della centralità del ruolo della Legge, della funzione privilegiata ed esclusiva attribuita, nella loro teologia, al popolo eletto, della redenzione finale di Israele ad opera del Messia; essi dovettero così compiere un’operazione più complessa di quella svolta dai teologi islamici, i quali non si trovavano di fronte una religione già irrigidita in una complessa codificazione giuridica come il giudaismo.50 Se, dunque, il giudaismo rabbinico non aveva mai espresso una posizione teologica sistematica e non si era mai posto veramente la domanda sul perché della creazione, considerata, tutt’al più, l’indispensabile presupposto alla rivelazione, il Kalam ebraico rappresentò un grande sforzo interpretativo per conferire alle proprie credenze religiose un’accresciuta legittimità davanti al tribunale delle idee: In sintesi, il Kalam ebraico si sforzò di dare un quadro razionale alle proprie convinzioni religiose, senza rimettere in discussione la loro essenza profonda. Del Kalam ebraico Saadiah Gaon (882-942) fu la figura più rappresentativa. Fu lui a dare dell’ebraismo una presentazione logica e sistematica. Il suo classico filosofico il Libro delle credenze e delle opinioni contribuì a Ibid., p. 31. M. Zonta, La filosofia ebraica, cit., p. 13. 50 Ibid., p. 14. 48 49 18 Manuela Girgenti introdurre la teologia speculativa dei musulmani in seno all’ebraismo. Buon conoscitore di falasita (filosofia aristotelica) e di Kalam (teologia islamica), credeva nella supremazia della ragione, che comprende in sé il senso morale e, in base a tale convincimento, rivolge a Dio un profondo e sentito ringraziamento per avere creato gli esseri umani forniti di ragione. Antonio Bica I vangeli Gnostici e il Cristianesimo delle origini La scoperta dei manoscritti gnostici a Nag Hammadi, Alto Egitto, nel 1945, insieme al rinvenimento del Vangelo di Giuda nel deserto egiziano verso la fine degli anni ’70, costituisce un evento storico senza precedenti. Dai testi, emerge il pensiero della corrente gnostica del Cristianesimo primitivo che vide il suo sviluppo dal I al IV secolo e che fu tenuto nascosto dalla Chiesa dei seguaci di Gesù, sepolto dal prevalere della corrente ortodossa allora al potere. Dagli insegnamenti segreti degli gnostici, vengono a galla verità alternative sul Cristianesimo delle origini. Gli albori del Cristianesimo ci appaiono illuminati da una luce nuova che per troppo tempo è rimasta offuscata, sepolta dal peso dell’autorità delle prime gerarchie ecclesiastiche. Mi piace, per iniziare a parlare della questione gnostica, ricordare un antefatto che mi indusse a riflettere sui concetti di religione e di indottrinamento e sul pericolo che quest’ultimo poteva rappresentare. Era tutto il pomeriggio che pioveva a dirotto nonostante fosse già primavera inoltrata quando, messa da parte una vecchia copia dell’Apocalisse di Giovanni che tenevo fra le mani, mi alzai dal letto e andai a telefonare ai miei figli per sentire come stavano. Mi rispose Fabio, il maggiore; gli domandai di suo fratello, che da poco aveva subito un intervento chirurgico alla mano, mi rispose con tono sicuro: «Silvio sta benone, lo sai papà, lui riesce sempre a cavarsela in ogni situazione!». Quando ci salutammo e riagganciai il telefono ero tranquillo in apparenza, ma l’eco di quell’ultima frase buttata lì da mio figlio Fabio a proposito del fratello, condusse un filo della mia memoria e la pipa che stringevo fra le dita verso un episodio accaduto molti anni prima. Silvio era piccolo e andava all’asilo dalle suore dell’Immacolata. Dopo avere attraversato la strada all’improvviso, finì sotto una macchina e non si sa come ne uscì illeso. Un paio di suorine accorse ad abbracciare il redivivo al grido di “Dio l’ha salvato!”; una di loro disse: «sia lodato Gesù Cristo!». Le due affermazioni mi crearono un certo imbarazzo, ma avvertivo anche la necessità di dovere rispondere qualcosa. Fu così che dissi, senza quasi pensarci su: «Grazie, anche a lei!». Mi resi conto subito di non aver dato la risposta esatta. Sondando nella memoria dei lontani tempi del catechismo, ricordai che quando ti dicono “sia lodato Gesù Cristo”, tu devi rispondere con “sempre sia lodato” o ancora meglio “oggi e sempre sia lodato”. 20 Antonio Bica Quella mia assurda frase di rimando, quel “grazie, anche a lei!”, era fuori luogo, fin troppo inappropriato. Nel frattempo, l’altra suorina si mise a recitare una sorta di giaculatoria infinita, muovendo impercettibilmente le labbra. Il mio disagio si fece ancora più grande. Mi venne spontaneo chiedermi perché le suorine parlassero a quel modo, e se fossero consapevoli del significato di tante altre parole pronunciate forse più per abitudine che per convinzione. Anche a me erano state insegnate quelle frasi da piccolo, ma senza cognizione, senza i supporti per un minimo di analisi critica. Di una cosa ero certo: le suorine, anche quando nella normalità del quotidiano si scambiavano quelle frasi fatte, non avevano alcun senso critico, come non l’aveva la suora che quasi otto lustri prima m’impartiva le lezioni di catechismo perché fossi pronto il giorno della mia prima comunione. E se quelle suorine fossero nate sessanta o settanta chilometri più a sud della mia Sicilia e fossero cresciute sotto un altro cielo e con altri profumi, cosa si sarebbero dette adesso parlando fra loro? E come si sarebbero rivolte ora a me? Forse con qualcosa del tipo Alhamdulillah, Subhanahuwatala, che in arabo suona pressappoco “sia lodato Dio, gloria a Lui l’Altissimo”. E ancora, se fossi nato anch’io in un paese del Magreb, come si sarebbe svolto il mio catechismo, e quale sarebbe stata la mia educazione? Io mi ricordo che andavo al catechismo tre volte la settimana. Dell’insegnante, una suorona di quasi due metri con due spalle da lottatore, ricordo la sua paura del socialismo, parola che io, a quel tempo, sconoscevo totalmente. Mi diceva che i socialisti sono come il diavolo sulla terra, ancor più che i comunisti, poi si faceva il segno della croce, ed io non capivo, e più ci pensavo più non capivo. La prima cosa con cui mi sono dovuto misurare è stata la necessità di imparare a disimparare; lentamente, piano piano, giorno dopo giorno ho dovuto ripulirmi e ricominciare daccapo, cancellare tutto ciò che mi avevano obbligato ad imparare a memoria sin da bambino. Quando diventai più grande, appresi come, nel cristianesimo delle origini, le sette cristiane erano molteplici, ciascuna aveva una sua idea di Gesù e ribadiva che la propria fosse quella giusta, quella veramente ispirata; non esisteva una struttura normativa unitaria come più o meno siamo abituati a vedere oggi, era come dire che coesistevano tanti cristianesimi differenti fra loro. Imparai anche, e questo non fu che l’inizio soltanto, che i Vangeli non erano solo quattro, ma ne circolavano diversi a quel tempo; accanto ai quattro Vangeli che verranno in seguito considerati canonici, ve ne erano altri, utilizzati in seno alle varie sette e ai vari gruppi, più o meno adattati a secondo delle proprie tradizioni storiche, politiche, culturali. Ma procediamo per ordine. Verso la fine degli anni settanta del secolo appena trascorso, nel Medio Egitto, nei pressi della località di El Minya, in un villaggio sulla sponda destra del Nilo, uno scavatore di tombe porta casualmente alla luce un documento incredibile che si riteneva perduto dalla notte dei tempi. Si tratta di un testo trascritto in un dialetto I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 21 della lingua copta, il sahidico, anche se in origine fu probabilmente redatto in lingua greca. Il copto, che fu poi soppiantato dall’arabo, altro non è che la lingua egiziana nel suo stadio finale, ed era soprattutto utilizzato come lingua rituale. È interessante ricordare come la lingua copta, nella sua forma scritta, utilizzava i caratteri dell’alfabeto greco. La data di composizione del testo dovrebbe risalire alla metà del II secolo; ad ipotizzare una tale datazione si giunge in seguito ad un’affermazione di Ireneo, vescovo di Lione, che parla dell’esistenza di un Vangelo di Giuda nel suo trattato Contro le Eresie, composto in lingua greca attorno al 180 e di cui ci è pervenuta una traduzione latina del IV secolo. Il quadro generale che questi testi ci propongono, ribalta la visione cristiana contemporanea, gettando una nuova luce sul cristianesimo primitivo o forse è meglio dire sui vari cristianesimi delle origini. Ciò apre la via a nuove soluzioni di lettura di un periodo storico affascinante per la ricchezza dei suoi contenuti, e ci fa prendere in considerazione aspetti alternativi del messaggio di Gesù. Uno dei movimenti più conosciuti a quel tempo era il movimento Zelota. Quella degli ebrei Zeloti era una specie di setta, un importante gruppo politico estremista cui aderivano squadre di militanti, combattenti estremisti fondamentalisti, il cui obiettivo era la guerriglia armata contro l’invasore, contro Roma. Il movimento di resistenza Zelota, che riscuoteva le simpatie di una buona parte del popolo ebraico, si prefiggeva di rovesciare il potere politico dell’Impero di Roma utilizzando una strategia sovversiva mirata. Tutta questa gente era accomunata da un ideale politico di forte impronta nazionalista, erano impegnati in una lotta senza confine contro l’occupazione romana e per l’indipendenza della nazione ebraica. Avevano propensioni ideologiche estreme da un punto di vista politico, ed appartenevano a raggruppamenti religiosi ebraici che si costituivano in partiti religiosi nazional sionisti la cui unica missione consisteva nella liberazione del popolo d’Israele dall’odiato nemico, esercitando azioni di resistenza popolare e di guerriglia armata. È in un contesto di crisi politica e ideologica che emergono movimenti o sette ciascuno dei quali crede di avere una sua ricetta segreta per risolvere i problemi del paese. Gli ebrei pensavano di avere raggiunto l’apice storico della crisi del loro rapporto col Dio del Vecchio Testamento; era la crisi di tutto il giudaismo e della sua stessa identità religiosa e culturale. Molti ebrei vivevano nella speranza dell’avvento di un messia che venisse in aiuto al popolo eletto; le aspettative messianiche erano al culmine, tanto che in seno al movimento zelota alcuni ribelli estremisti proposero se stessi come prescelti, inviati dal Dio d’Israele per liberare la Palestina ed instaurare un nuovo regno. Una figura inquietante, oscura e controversa del movimento Zelota, è Giuda Iscariota. Egli è forse deluso dal comportamento di Gesù fino al punto di sentirsi tradito egli stesso. Giuda si aspettava un messia rivoluzionario, un guerriero armato di spada che si ponesse a capo di un esercito o di un movimento politico estremista, un uomo d’azione che ricorresse all’uso della forza per ristabilire l’ordine in Israele. Quando incontra un ebreo mite che si fa ungere con unguenti profumati da una don- 22 Antonio Bica na, Giuda il fondamentalista, l’estremista nazionalista, intuisce che Gesù, accettando il gesto dell’unzione, accetta implicitamente il suo stesso sacrificio. Che fine ha fatto il Signore che doveva combattere contro le nazioni? Dov’è il Messia guerriero tanto atteso, il figlio ed erede di Davide, discendente della dinastia reale d’Israele, prescelto per salvare il popolo oppresso? Gesù non è la soluzione del problema politico degli ebrei, è piuttosto un uomo che ha scelto per sé un ruolo di perdente, andando incontro ad un inutile sacrificio di se stesso. Giuda è ferito, deluso, vede fallire davanti ai suoi occhi un programma politico già tracciato, ecco che allora tradisce l’amico e lo consegna alle autorità del Tempio. Dai racconti evangelici non emerge la figura di un messia Gesù venuto a rovesciare il potere di Roma, e fu proprio questo a non essere accettato dalle fazioni politiche più oltranziste. Ma torniamo a Nag Hammadi, località dell’Alto Egitto. La scoperta dei testi Gnostici risale al 1945. È un contadino a riportare casualmente alla luce, dopo un silenzio di 1600 anni, una giara di terracotta nel cui interno è custodita una raccolta di 52 testi gnostici. Le preziose fonti testuali rinvenute dall’inconsapevole contadino arabo, e che oggi vanno a costituire la biblioteca di Nag Hammadi, hanno contribuito a modificare radicalmente la nostra idea del Cristianesimo primitivo, dimostrando quanto variegato e polimorfo fosse il fenomeno alle sue origini. I 13 papiri di Nag Hammadi risalgono al IV sec. d. C. e si presentano ai nostri occhi come trascrizioni da testi greci più antichi, databili attorno al II sec. d. C. Colui o coloro che nascosero i papiri, con il chiaro intento di metterli al sicuro, salvarono certamente i testi dalla distruzione sistematica operata dai cristiani proto-ortodossi; questi rappresentavano la corrente principale, una fra le tante correnti e sette del Cristianesimo primitivo, l’unica ad uscire vittoriosa dalla guerra per la supremazia in atto in quel periodo, l’unica ad avere l’opportunità di dettare i canoni, la dottrina, i principi fondamentali di quella che sarebbe diventata la religione professata nella maggior parte del mondo conosciuto. Quando, riferendoci al cristianesimo primitivo, parliamo di divisione in sette e correnti innumerevoli, non bisogna meravigliarsi tanto; il fenomeno non era poi così dissimile, dal punto di vista della varietà almeno, da ciò che si prospetta agli occhi del cristiano dei tempi moderni. Proviamo ad immaginare fra quante correnti un cristiano di oggi può operare la sua scelta; millenaristi, mormoni, testimoni di Geova, avventisti cristiani e avventisti del settimo giorno, poi ci sono i quaccheri, i presbiteriani, e ancora metodisti, battisti, pentecostali, congregazionalisti, anglicani. Se c’è qualcosa che veramente accomuna tutti gli accoliti, è la ferma convinzione di ciascuno di possedere l’unica verità, di appartenere alla corrente o alla setta che fra le altre è la migliore perché meglio interpreta i dettami della vera fede. Ebbene, la situazione era più o meno simile già a partire dalla fine del primo secolo dopo Cristo. Tutto il prodotto della cultura della corrente religiosa gnostica, fu dichiarato estraneo al pensiero cristiano, così anche i testi della letteratura gnostica furono considerati eretici e sequestrati per essere bruciati o distrutti. Ecco perché, fino alla I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 23 metà del secolo scorso, poco o nulla si sapeva del Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo, il Vangelo degli Egiziani, il Vangelo di Verità, l’Apocalisse di Paolo, l’Apocalisse di Pietro, il Libro Segreto di Giacomo ed altri testi ancora che fanno parte della biblioteca di Nag Hammadi. L’eliminazione sistematica dei documenti gnostici, bollati come proibiti e da sempre rifiutati dalla Chiesa ufficiale, è il risultato della lotta per il predominio fra le tante correnti e sette che s’incontrarono e si scontrarono agli albori del Cristianesimo. Poiché fu la fazione ortodossa a vincere e poiché la storia, da sempre, la scrive chi vince, gli ortodossi ci trasmisero un canone testamentario che comprende solo i quattro Vangeli ufficiali che oggi conosciamo, distruggendo ed escludendo tutti gli altri considerati eretici e pertanto devianti; in seno al variegato e multiforme universo polemico del cristianesimo primitivo, fu sempre l’ortodossia, vittoriosa nei duri conflitti del II e III secolo, a stabilire quali libri potevano entrare a far parte del Nuovo Testamento e quali no, fu l’ortodossia a gettare le basi ideologiche del Cristianesimo come oggi noi lo conosciamo in Occidente, a decretare quale doveva essere la vera fede, la dottrina, la gerarchia, le pratiche cultuali di ciò che sarebbe diventata la tradizione cristiana fino ai nostri giorni. Ovviamente l’ortodossia definì minuziosamente ciò che doveva essere escluso e ciò che andava ripulito prima che fosse consegnato ai posteri. Ma viene da chiedersi cosa sarebbe successo se i fatti si fossero svolti diversamente, se avesse prevalso un’altra corrente, una fra quelle dichiarate eretiche; di sicuro oggi avremmo una forma diversa di Cristianesimo, le Sacre Scritture comprenderebbero altri Vangeli, diversi dai quattro canonici, la cultura medievale, quella rinascimentale, sarebbero state qualcosa di diverso da come le conosciamo, la nostra stessa cultura occidentale si sarebbe sviluppata su modelli differenti, e magari al posto del monoteismo ebraico avremmo un pantheon politeista. La scoperta dei testi gnostici ha senz’altro aperto la strada a nuove soluzioni, differenti interpretazioni e chiavi di lettura che ci proiettano verso una conoscenza alternativa, in una direzione opposta a quella tracciata dalla via stantia del dogmatismo. È anche questo il significato di Nag Hammadi, è come se chi nascose i preziosi documenti 1600 anni fa, sperasse in un ritrovamento, magari casuale, da parte di qualcuno nel futuro della storia, perché quei testi potessero urlare “c’eravamo anche noi, e queste erano le nostre idee!” In effetti è proprio ciò che è successo. Ma quale fu l’elemento catalizzatore della vittoria dell’ortodossia, ciò che permise al Cristianesimo di sopravvivere e prosperare fino ad oggi? Cosa tolse ogni speranza agli eretici e li costrinse a nascondersi e a nascondere le loro letterature per salvarle dal fuoco e dalla distruzione? La conversione dell’imperatore Costantino e la proclamazione del Cristianesimo a religione dell’impero, costituì un momento decisivo che pose, per così dire, il sigillo al trionfo dell’ortodossia. Costantino, assegnando il merito dei suoi successi in campo politico e militare al Dio dei cristiani, cominciò a concedere loro tutta una serie di benefici, ottenendo che la conversione al 24 Antonio Bica Cristianesimo diventasse un fatto di convenienza oltre che di moda. L’imperatore decretò la soppressione di tutte le sette eretiche e ordinò che i loro beni fossero trasferiti alla Chiesa Cattolica. Finalmente, la corrente ortodossa, una delle tante correnti nel mare infinito del plurisettarismo del Cristianesimo delle origini, si era trasformata in una struttura piramidale organizzata, con le proprie e solo le proprie scritture ordinate in un Canone, con un credo ed una gerarchia potente come mai prima. L’ortodossia aveva vinto, una vittoria, la sua, sia sul piano religioso sia su quello politico, che non sarebbe stato possibile realizzare senza il favore incondizionato dell’imperatore Costantino aveva scelto. Ma cosa sarebbe accaduto se, nella lotta per la supremazia della fede autentica, avessero vinto i cristiani ebioniti, che erano molto vicini alle pratiche dell’ebraismo e si attenevano alle leggi del Vecchio Testamento? Forse i cristiani di oggi avrebbero considerato se stessi come una costola dell’ebraismo, e allora la suorina avrebbe onorato il sabato e mangiato kasher? E se a vincere fossero stati gli eretici di Marcione, che pure costituivano un potente movimento in seno alla Chiesa delle origini, che rifiutavano tutto ciò che era ebraico e non credevano vi fosse un solo Dio, ma due Dei, il Dio iracondo degli ebrei e del Vecchio Testamento e il Dio buono del Nuovo Testamento, in che modo avremmo professato noi, oggi, il politeismo di stampo marcionita? Se da ragazzo ponevo domande del tipo “perché c’è il male nel mondo?” (che poi ho scoperto essere la stessa domanda che si erano posti i profeti della tradizione biblica e gli apocalittici ebrei del III sec. a. C.) oppure del tipo “ma Gesù, sulla croce, sentiva veramente dolore?”, precorrendo quelli che sarebbero stati da adulto i miei studi sul Docetismo (che è la dottrina, risalente al Cristianesimo delle origini, di quanti negavano la natura corporea ed umana di Gesù, il cui corpo, esistendo soltanto come involucro apparente, non poteva essere andato incontro ad una reale passione e morte), mi veniva risposto che queste erano “cose ampie”, che la mente dell’uomo non poteva penetrare. Un’altra cosa che ricordo, erano le lezioni sul “rispetto” e l’obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche. “Obbedite al parroco sempre, ma più di tutti obbedite al vescovo”, ci dicevano. Obbedire alle gerarchie, significava innanzi tutto, anche al tempo di Giuda, riconoscere le gerarchie ed era poi un modo, oggi come allora, per appianare eventuali dispute dottrinali sorte all’interno di una stessa fazione. Da grande ho appreso come Ignazio, vescovo di Antiochia, nei primi del II secolo, partendo dal presupposto che i capi delle gerarchie ecclesiastiche sapessero sempre cosa fare e come agire e fossero pertanto infallibili, in una sua lettera ai cristiani di Filadelfia, città dell’Asia minore, li esortava a ‘prestare ascolto al vescovo, al presbitero e ai diaconi’, al fine di evitare sul nascere i possibili problemi dottrinali in seno alla comunità. La mia suora, a pensarci bene, mi diceva la stessa cosa e con le stesse parole, 1800 anni dopo, e sarà stata d’accordo anche con Ireneo, vescovo di Lione, nel dire che “fuori della Chiesa non c’è religione vera né Dio vero”. Ebbene, gli Gnostici la pensavano in maniera diversa. I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 25 Il termine gnosticismo deriva dalla parola greca gnosis, che vuol dire conoscenza e che riassume un insieme di cognizioni segrete e in parte esoteriche riservate ad una élite spirituale; insomma una sorta di comprensione, di intuizione profonda, che porta l’uomo alla piena consapevolezza di sé. Nello Gnosticismo convergono vari elementi che si riallacciano principalmente alla filosofia greca e, in particolare, alla metafisica platonica, al mondo ellenistico, alle religioni misteriche, al giudaismo alessandrino, a pratiche religiose e concezioni esoteriche e cosmologiche del lontano Oriente. Altro elemento caratterizzante del pensiero gnostico è l’applicazione del mito alla cosmologia, per spiegare l’origine del mondo e della divinità stessa. L’universo fisico, rappresentato dalle stelle e dai pianeti, influenzerebbe le vicende degli uomini. Nel Vangelo di Giuda, Gesù dice al suo discepolo che sarà proprio una stella nel cielo a guidare la sua anima, e invita Giuda a seguire quella stella. Tale costruzione mitologica va a supportare l’apparato dottrinale dello Gnosticismo. Dopo la distruzione di Gerusalemme per opera dei Romani, avvenuta nel 70 d. C., si assiste ad una crisi dei valori e della tradizione religiosa ebraica e dell’impianto dottrinale del giudaismo rabbinico. Gli Ebrei vivono una crisi d’identità senza precedenti, che è anche crisi del loro rapporto con Dio; è proprio da questo primo momento di smarrimento culturale, di perdita dell’identità della nazione, di inquietudine politica e incertezza religiosa che origina il pensiero gnostico, la cui fioritura avviene ad Alessandria a partire dalla fine del primo secolo d. C. Alcune frange del popolo ebraico fanno ricorso ad un ritorno alla filosofia greca per rimodulare il loro pensiero e adattarlo al momento storico particolare. A giudicare dalla molteplice letteratura intrisa di ideali gnostici, tale movimento di pensiero dovette esercitare un fascino enorme sui suoi seguaci, tanto da costituire un pericolo così forte per l’ortodossia cristiana in fase di organizzazione, che questa usò ogni mezzo lecito ed illecito per combatterlo. Oggi sappiamo infatti che l’ortodossia considerò il Cristianesimo Gnostico alla stregua di un movimento sovversivo ed eretico. Una delle caratteristiche fondamentali del pensiero gnostico, è il ricorso al concetto di dualismo tanto caro alla tradizione filosofica greca e platonica in particolare. Secondo tale forma di radicalismo ideologico proprio della filosofia greca, esiste una contrapposizione fra il mondo dello spirito, positivo, e il mondo della materia, negativo e malvagio. Platone, ad esempio, parlava di mondo delle idee e mondo reale. Nel I e II secolo dopo Cristo, i seguaci del pensiero gnostico e di quello medioplatonico, sono accomunati entrambi dall’idea che vi sia una divinità eterna, incorruttibile, ineffabile, trascendente, indefinibile, un Dio unico dal quale, con un movimento fluido che va dalla dimensione spirituale a quella materiale, si staccano entità divine inferiori chiamate “eoni”, che si riuniscono a formare un regno definito “pleroma”. È in seguito ad una sorta di catastrofe cosmica che si genera una frattura nel pleroma e si origina il mondo materiale, che è un mondo imperfetto, popolato da forze cosmiche malvagie. Una delle domande che hanno tormentato la mente degli 26 Antonio Bica autori della Bibbia ebraica, è stata “perché esistono nel mondo il male, il dolore e la sofferenza? Perché mai il Dio del Vecchio Testamento, dopo secoli di schiavitù del popolo d’Israele, fughe, persecuzioni, distruzioni, crisi politiche, problemi economici e sociali a non finire, non è intervenuto per aiutare i figli d’Israele?” Secondo la spiegazione tramandataci dalla tradizione profetica, il popolo e la nazione soffrono perché gli uomini hanno peccato contro Dio e non hanno accolto pienamente i dettami della legge mosaica. Però, se il popolo d’Israele si fosse redento, prestando ascolto al suo Dio, Dio stesso avrebbe concesso il suo aiuto conducendo Israele alla salvezza. Ma quando, nonostante la contrizione del popolo ed il suo impegno a vivere nel rispetto della legge, non cessavano i lutti, la sofferenza e la schiavitù, allora si pensò che la spiegazione doveva essere un’altra. Fu così che un gruppo di pensatori ebrei appartenenti alla cosiddetta “apocalittica” ebraica, (dal greco apokalypsis che significa “rivelazione”, infatti erano convinti che Dio avesse rivelato loro i segreti della creazione e il motivo dell’esistenza del male cosmico), tentò di spiegare il problema con la presenza di un personale avversario e nemico di Dio, il Diavolo, responsabile dell’imperversare nel mondo di forze malvagie e distruttici. Alla fine, però, Dio sarebbe intervenuto a salvare i figli d’Israele, sconfiggendo le forze del male e colui che era colpevole, responsabile della loro esistenza. Pertanto, secondo la tradizione profetica, sarebbe Dio stesso a provocare la sofferenza, secondo la tradizione ebraica apocalittica, è invece il Diavolo, nemico di Dio, ad esserne responsabile. La stessa interpretazione apocalittica, comunque, prevede in tempi brevi un intervento salvifico da parte del Dio buono. Ma che succede se il tanto atteso intervento non giunge, e anzi, i lutti e la schiavitù continuano come prima se non peggio? Vuol dire che la spiegazione del perché c’è il male nel mondo deve stare da un’altra parte ancora. Ma dove? Ecco, allora, che partendo da una reinterpretazione del pensiero filosofico platonico, comincia a svilupparsi quella che sarà l’intricata visione del mondo da parte dello Gnosticismo protocristiano, secondo cui è Dio stesso a causare sofferenza e dolore, perché è un Dio malvagio e inferiore; insomma, al di sopra del Dio terribile del Vecchio Testamento, creatore di un mondo imperfetto dove gli uomini sono prigionieri della loro stessa esistenza, esiste un Dio buono e perfetto, un Dio non nominabile, non qualificabile, totalmente esistente in sé e bastante a se stesso. È da questo Dio, secondo un complesso sistema di cosmologia mitologica, che originano altre entità divine inferiori ed imperfette, che creano un mondo imperfetto, popolato da altrettanti esseri imperfetti. È la cosmogonia gnostica che utilizza il mito per spiegare la misteriosa origine dell’uomo sulla terra, in un mondo generato da un errore cosmico. Ma può l’uomo tornare al Dio ineffabile dal quale proviene? E cosa deve fare, ammesso che ciò sia possibile? Gli Gnostici pensavano che gli esseri umani, anche se non tutti, potevano fare ritorno alla dimora celeste e ricongiungersi col Padre, semplicemente rifuggendo dal mondo e allontanandosi dal regno dell’imperfezione. Solamente in alcuni uomini appartenenti ad una ristretta cerchia, un’élite spirituale, I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 27 sopravvive una specie di scintilla divina; è proprio attraverso la gnosis, la conoscenza segreta che conduce alla salvezza, che questi uomini possono liberarsi dalla prigionia della materia in cui sono caduti. La gnosis giunge attraverso colui che la rivela, cioè Gesù. Nella concezione gnostica, pertanto, Gesù è portatore di conoscenza, anzi ne è il rivelatore, è l’emissario divino che viene dal regno del Padre. La gnosis si acquisisce solo per rivelazione e non è quel tipo di conoscenza che deriva dall’esperienza empirica, non la conoscenza di Epicuro o di Lucrezio del tipo species ratioque naturae, cioè l’osservazione immediata e l’intuizione razionale della natura, ma è esperienza, conoscenza e consapevolezza di se stessi. Secondo la concezione gnostica, Gesù è spirito puro delimitato da un involucro, da un corpo materiale; Gesù rappresenta di fatto l’uomo che riceve dall’alto lo spirito con l’atto del battesimo, e la sua morte costituisce la scena finale, quella con cui fugge dalla materia, liberandosene, e ritornando ad essere lo spirito puro originario. Giuda, consegnando Gesù alle autorità, diventa l’artefice di questo miracolo. Il Cristo gnostico, nulla ha a che vedere con la contrizione o la redenzione dal peccato, non ci salva offrendo se stesso alla croce, il Cristo gnostico è il Cristo dell’illuminazione, della conoscenza profonda, è il Cristo della comprensione del mistero primordiale dell’animo umano, è il Cristo della consapevolezza e della maturità spirituale dell’uomo. Il proprio corpo costituiva per gli Gnostici un elemento corrotto da cui rifuggire, qualcosa insomma di cui liberarsi. Essi contemplavano un’etica volta all’ascetismo al fine di punire il corpo malvagio; negare al corpo ogni piacere significava distaccarsi, allontanarsi da esso. Lo Gnostico partecipa ad un’esperienza soggettiva illuminante, imparando a guardare dentro se stesso, cogliendo la vera luce nell’ascetismo e nel silenzio della meditazione. La salvezza vera, dunque, non è legata in alcun modo al corpo fisico, piuttosto essa si ottiene con la fuga dal corpo. Così, il corpo di Gesù, essendo solo un involucro, non può essere intaccato dal dolore fisico. Il significato del Cristo va ben oltre la croce e la morte, il suo spirito non può né soffrire né morire, e lo stesso accade agli spiriti che, attraverso la conoscenza profonda di se stessi, giungono alla comprensione del Cristo e partecipano della conoscenza di Dio. Alla fine, conoscere se stessi è lo stesso che conoscere Dio, perché con l’acquisizione dei segreti della gnosi, il sé individuale diventa identico a Dio; è una rivoluzione, si può conoscere Dio senza l’intervento di preti, vescovi e diaconi. Questa identità fra l’uomo e Dio, oltre che nel Vangelo di Giuda, la si può riscontrare in un altro testo gnostico ritrovato a Nag Hammadi, il Vangelo di Tommaso, laddove Gesù dice a Tommaso: «chi beve dalla mia bocca diventerà come me; io stesso diventerò come lui e i misteri gli saranno svelati» (Vangelo di Tommaso, 108). Per gli Gnostici, appartenenti ad una ristretta cerchia di privilegiati, la forza della loro idea e del loro messaggio, non poteva avere un effetto dirompente nel suo incontro con le masse. 28 Antonio Bica La massa, infatti, non poteva accettare l’idea di non appartenere al gruppo degli eletti; inoltre, non avendo tutti in sé la scintilla divina, non potevano neanche ricevere la gnosi, la conoscenza segreta che avrebbe condotto alla salvezza. Faceva più comodo alle masse l’accettazione di una religione dove si professava che Gesù era venuto a redimere, con la propria morte, tutti gli uomini dal peccato, e questa era la tesi dell’ortodossia. Gli Gnostici erano fortemente motivati dalla loro stessa esclusività, pensavano che ogni forma di speculazione dottrinale, sia che si trattasse della propria o di altre, non fosse che il mezzo, la via da percorrere per avvicinare l’uomo all’unica verità, e questo dimostra come nella loro argomentazione escatologica, cioè riguardante il destino ultimo dell’uomo nell’universo, non v’era affatto posto per lo scetticismo, ma c’era la reale, determinata convinzione di poter conseguire, mediante la consapevolezza di sé, il fine ultimo della partecipazione al Dio supremo. Questa loro posizione ideologica nei confronti della dottrina, li poneva molto distanti dai loro fratelli che aderivano all’ortodossia, poiché questi ultimi identificavano sempre più spesso la verità con la loro stessa dottrina, come dire che la mia dottrina non è per me soltanto un mezzo, una strada che mi porterà al raggiungimento di un obiettivo, ma essa stessa vi coincide, essa è l’obiettivo. Insomma verità, fede e dottrina sono per gli ortodossi elementi coincidenti. Il cristiano, una volta che ha accettato come unica ed autentica fede ciò che gli ha trasmesso la Chiesa tramite la sua gerarchia di vescovi, non ha null’altro da cercare, ha già raggiunto il suo obiettivo. Continuare per la strada di un qualsiasi tipo di ricerca spirituale, non ha alcun senso poiché bisogna accettare passivamente i cosiddetti limiti della comprensione umana. Questi cristiani che accettano, per fede, di credere in un Gesù che li ha salvati con la morte in croce, che da quella morte è risorto per ascendere al cielo, colgono soltanto l’idea del fine salvifico del Cristo, senza tuttavia riuscire a compenetrare il mistero della sua natura. Gli Gnostici, invece, giungono alla comprensione della vera natura del Cristo perché hanno ricevuto la gnosi, la conoscenza segreta che, portando la propria più intima natura al cospetto della natura di Dio, li identifica con Dio stesso. Ecco che gli Gnostici mettevano in discussione tutto, la dottrina, i riti, il ruolo di mediazione ed il potere stesso dei vescovi e della gerarchia ecclesiastica; essi non cercavano intermediari per mettersi in relazione con Dio. I vescovi con i preti e i diaconi non erano altro che gli inutili accessori di un sistema organizzativo che si andava lentamente trasformando in istituzione, in una struttura che sarebbe divenuta talmente potente da sopravvivere fino a noi. Già verso la fine del primo secolo l’ortodossia cristiana aveva definito dei criteri generali per identificare l’appartenenza alla Chiesa; per essere cristiani bisognava accettare il rito del battesimo, la professione del credo, bisognava inoltre partecipare ai culti e soprattutto prestare obbedienza ai vescovi e al clero. Non era difficile in tal modo per la Chiesa fare proseliti ed accogliere quanta più gente possibile, adottando una politica volta alla comunità dei potenziali credenti piuttosto che ad una élite ristretta. I criteri degli Gnostici erano ovviamente diversi, I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 29 erano criteri più di tipo qualitativo; per essere un buon cristiano non bastava prendere parte ai riti o accettare il battesimo, né tanto meno obbedire al clero; bisognava piuttosto dare prova di un’autentica maturità spirituale, di possedere capacità più profonde, di essere capaci di seguire percorsi intuitivi non alla portata di tutti. Naturalmente i vescovi si opposero e criticarono la validità dei criteri qualitativi nello specificare l’appartenenza alla Chiesa; una valutazione di questo tipo, infatti, non avrebbe creato molti proseliti, ed era proprio di questo che la Chiesa aveva bisogno per poter affermare sempre più la propria autorità e costituirsi come struttura organizzata. Il fatto di non riconoscere l’autorità delle gerarchie dell’ortodossia, unitamente alla pretesa di possedere un sapere iniziatico ed elitario, fece degli Gnostici dei sovversivi in seno al Cristianesimo dei primordi e ne determinò la bollatura per eresia e la maledizione da parte delle autorità ecclesiastiche. E’ inutile dire che le accuse formulate contro il Cristianesimo Gnostico, diedero luogo ad aspre contese dottrinali e non. Affermare il principio di libertà individuale, senza l’ingerenza dei vescovi, da un lato poteva apparire illuminante per i dotti gnostici, ma dall’altro mal si accordava con tutto l’impianto dottrinale ortodosso che prevedeva una serie interminabile di riti, dogmi, ed una interpretazione delle Scritture che non travalicasse di una sola spanna i rigidi confini della lettura ortodossa, l’unica possibile, la sola che si poteva accettare. Alla fine del II secolo, Ireneo vescovo di Lione, affermava che non poteva esistere che una sola Chiesa, e non poteva esserci alcuna salvezza né redenzione al di fuori di essa. Così formulava la sua teoria del ‘vangelo quadriforme’. Poiché erano quattro gli angoli della terra e quattro i venti principali, la Chiesa aveva bisogno di quattro vangeli e di questi soltanto; tutto il resto, tutta la preziosa letteratura gnostica, che oggi è giunta fina a noi solo per un caso del destino, andava distrutto col fuoco e dichiarato eretico e falso. Nessun cristiano poteva considerarsi tale se non si riconosceva nel vangelo quadriforme. Ed ecco che il vescovo di Lione utilizza Giovanni come baluardo da opporre all’idea gnostica di Gesù. Giovanni dice che Gesù è luce divina che si manifesta agli uomini, Gesù è la forma umana di Dio e per avvicinarsi a Dio è necessario credere in Gesù. Ma il Gesù Gnostico è un’altra cosa; nel Gesù Gnostico, la luce divina che egli incarna, è condivisa da tutti gli uomini, e per avvicinarsi a Dio non bisogna semplicemente credere in Gesù, ma piuttosto accogliere il suo invito ad indagare dentro di sé fino a scoprire la luce interiore, quella “scintilla divina” che alberga nel nostro cuore. Evidentemente Ireneo punta a contrapporre alla visione gnostica di Gesù, la visione ortodossa di Giovanni. Il solco tracciato da Ireneo col vangelo quadriforme, col sostegno delle gerarchie ecclesiastiche successive, è stato seguito sin dai tempi del trionfo dell’ortodossia e così fino ai nostri giorni. Certo, Ireneo, partiva dal presupposto che due dei quattro evangelisti, Matteo e Giovanni, fossero stati testimoni oculari dei fatti narrati. Oggi, in realtà, nessuno può dire chi abbia materialmente redatto i Vangeli 30 Antonio Bica così come li conosciamo; soprattutto, poi, quando si fa riferimento al Vangelo di Giovanni, viene spontaneo agli studiosi chiedersi come avrebbe potuto quel pescatore di Genezaret, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, pescatori anch’essi, comporre un Vangelo con uno stile letterario così elegante e quasi impeccabile. Un cenno a parte merita la concezione gnostica della resurrezione, contrapposta a quella della tradizione ortodossa. Cominciamo col ricordare Luca (dal Vangelo di Luca, cap. 24, vers. 36-43: «Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: «pace a voi!». Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: Sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: «avete qui qualcosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro»). È chiaro come Gesù voglia dimostrare qui l’evidenza della realtà corporea della sua resurrezione. Questa è certamente una delle questioni più radicali della fede cristiana. Non è un fantasma che riprende a vivere ma un corpo, sangue e ossa, carne e nervi, che ritorna alla vita, stravolgendo completamente l’esperienza umana della vita e della morte acquisita dalla notte dei tempi. Non è un impianto dottrinale ad essere capovolto, ma la stessa legge della natura. Il Cristianesimo ortodosso, sul solco tracciato dalle testimonianze degli apostoli, afferma e condivide una concezione ed un’interpretazione letterale della resurrezione. Ma perché? Può avere tutto questo un valore politico ed un significato ben preciso nell’assegnazione della leadership che gestirà il potere nei secoli successivi? Certo l’autorità degli undici rimasti (Giuda era già morto) come testimoni dell’apparizione di Gesù risorto è indiscussa; nel Vangelo di Giovanni (cap. 21, vers. 15-19), Gesù assegna a Pietro il compito di pastore del gregge, e sarà proprio lui che, dopo la morte di Gesù, assumerà il ruolo di leader del gruppo. Anche se, secondo Giovanni e Marco, fu Maria di Magdala e non Pietro ad essere la prima testimone della resurrezione, la tradizione ortodossa fa risalire a Pietro la propria autorità. Poiché non fa parte del gruppo dei Dodici, Maria non può mettersi in corsa per conquistare il ruolo di leader. Alcuni Gnostici, gli Gnostici Setiani, che si credevano discendenti di Set, terzo figlio di Adamo ed Eva, credevano che Gesù apparve in forma corporea soltanto ad alcuni dei suoi seguaci, e a questi rivelò la gnosi e con essa la capacità di intendere la resurrezione da un punto di vista spirituale e di esperienza interiore del Cristo. Maria Maddalena era una di loro. Poiché soltanto gli apostoli hanno avuto esperienza di Gesù da vivo e poi da resuscitato, ed erano stati gli ultimi ad essere testimoni degli eventi narrati, l’autorità religiosa di questi è inconfutabile. Avviene così che le prime gerarchie ecclesiastiche si considerano legittime depositarie dell’autorità nella successione e fanno risalire la loro eredità alla tradizione apostolica. Fu un fatto politico di enorme rilevanza per I vangeli gnostici e il cristianesimo delle origini 31 i vescovi, i preti e i diaconi delle prime gerarchie del Cristianesimo ortodosso che diventarono detentori di un potere che dura tutt’oggi. Se c’è un’unica verità, ed è quella apostolica, c’è una sola Chiesa che può tramandarla e una sola gerarchia che ne ha l’autorità spirituale. È in tal modo che i primi Cristiani ortodossi gettano le fondamenta per l’istituzionalizzazione del loro movimento. Il punto di vista gnostico, com’è ovvio, si trova totalmente agli antipodi. Se la concezione ortodossa interpreta la resurrezione in senso letterale, vale a dire come resurrezione della carne, l’esperienza gnostica della resurrezione vede in essa un momento d’illuminazione spirituale e di esperienza tutta interiore del Cristo. Per gli Gnostici, l’esperienza personale e interiore di Cristo supera perfino la tradizione ed il valore della testimonianza apostolica. È veramente un’idea sovversiva, un durissimo colpo di scure per il potere della Chiesa. Chiunque vede Cristo tramite la gnosi, può guadagnarsi il rapporto diretto con Dio scavalcando le gerarchie della Chiesa e potendo negarne l’autorità. Ecco un altro motivo per cui, fra tutti i movimenti in lotta per il potere nel vasto panorama del Cristianesimo delle origini, quello degli Gnostici fu considerato sovversivo e la sua dottrina eretica. La loro teoria, che implicava un avvicinamento diretto a Dio tramite la gnosi, se accettata dalla massa dei credenti, avrebbe spiazzato politicamente tutto l’impianto dell’ortodossia in termini di autorità assoluta, di legittimazione dell’autorità stessa, e soprattutto di potere di successione. Tutto questo non è poco se pensiamo che la massima autorità della Chiesa è considerata “successore di Pietro”. A proposito dell’atteggiamento di Gesù nei confronti dei suoi discepoli, c’è un Gesù che ride spesso nel Vangelo di Giuda, contrariamente a quanto accade nei Vangeli Neotestamentari. Gesù ride della morte, fattore questo che non ha una connotazione negativa, piuttosto è il punto di passaggio ad una condizione di maggiore dignità, l’istante in cui abbandoniamo tutto ciò che è inutile, compresa la nostra fisicità corporea. Gesù ride perché i discepoli non sanno chi egli è veramente né da dove viene; semplicemente lo credono il figlio del Dio degli Ebrei. Secondo la concezione di Dio nello Gnosticismo Setiano, esiste un Essere Infinito, al di sopra di ogni cosa, che non è identificabile col Dio minore del Vecchio Testamento, creatore di quel disastroso mondo materiale pieno di forze malvagie che tengono gli uomini intrappolati e da cui bisogna allontanarsi con la fuga. Anche Gesù dovrà rifuggire da questo disastro cosmico rappresentato dal mondo della quotidianità, dovrà separarsi dal suo corpo per ricongiungersi al regno del Padre da cui proviene. Secondo la concezione gnostica, Dio raggruppava in sé sia l’elemento maschile che quello femminile, in accordo col racconto della creazione riportato da Genesi (cap. 1, vers. 26-27): «e Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza […]; Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; ma- 32 Antonio Bica schio e femmina li creò». Secondo questa descrizione, se l’uomo fu creato maschio e femmina ad immagine di Dio, allora anche in Dio dovevano coesistere maschio e femmina, Padre e Madre che vivevano un rapporto di compartecipazione armoniosa. In termini dualistici, il riferimento rimanda agli opposti che si attraggono e vivono in armonia, concezione questa molto vicina alle filosofie orientali, dove la forza negativa, femminile dell’universo, lo yin, si armonizza in maniera complementare con la forza positiva, maschile, lo yang, anche se tutto ciò è lontano sia dalla concezione ebraica sia da quella del Cristianesimo ortodosso. D’altra parte, nella definizione di Dio in termini trinitari, introdotta dai Cristiani, si parla di un Padre, un Figlio ed uno Spirito, che in termini greci è pneuma, ma la parola ebraica che definisce lo Spirito è Ruah, che è di genere femminile, pertanto il terzo elemento che si unisce al Padre ed al Figlio, in questa visione gnostica della Trinità, è un elemento femminile, è la Madre. Noi sappiamo oggi che tutti i libri segreti degli Gnostici furono dichiarati eretici e in gran parte distrutti dall’ortodossia cristiana emergente, pertanto già a partire dal III secolo, viene spazzato via ogni riferimento alla rappresentazione in termini femminili di Dio. Siamo inoltre a conoscenza di come, all’interno dei gruppi gnostici, le donne avessero pari dignità degli uomini, e svolgessero ruoli di sacerdotesse, predicatrici, annunciatrici del vangelo. Quei movimenti in cui le donne avevano un ruolo di leader, come fra gli Gnostici appunto, dovettero soccombere in quanto accusati di eresia dalle prime chiese cristiane. Così le donne dovettero ritornare alle posizioni marginali e di secondo piano cui erano relegate dalla cultura ebraica tradizionale, e questo sia nei movimenti in campo religioso, che politico. Le differenti posizioni filosofico-religiose, unitamente alle diverse concezioni dottrinali, diedero vita ad un molteplice divenire di correnti e di sette ciascuna con le proprie vocazioni, da quelle di stampo più sociale-progressista, a quelle di matrice politica estremista-nazionalista, ad altre ancora con più spiccate tendenze verso lo spiritualismo e l’ascetismo. Se avessero vinto gli Gnostici, oggi noi avremmo un’idea diversa del comunismo, o piuttosto non si sarebbe mai parlato di comunismo, o ancora avremmo avuto una specie di comunismo universale, come forma di reazione alla élite gnostica vittoriosa e, di conseguenza, una parallela Chiesa cattolica comunista e reazionaria. Una cosa è certa, il pensiero gnostico, il Vangelo di Giuda, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo e tanti altri scritti cosiddetti “eretici”, sono la prova documentata che il desiderio, il bisogno, l’istinto dell’uomo nella ricerca di Dio, rappresentano qualcosa che trascende i confini della singola appartenenza, della tradizione politica o religiosa di una corrente di pensiero piuttosto che di un’altra. Nel suo personale cammino alla ricerca di Dio, l’uomo travalica il limite di se stesso, del sé materiale, divenendo Dio egli stesso in quel momento, poiché proietta il suo pensiero verso un pensare universale ed eterno; diventa sogno perché Dio è sempre stato il grande sogno degli uomini e forse, se un Dio c’è veramente, tutti noi non possiamo che essere il grande sogno di Dio. Giuseppina Mammana La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino Il prevalere del Cristianesimo nel mondo occidentale determinò un nuovo indirizzo della filosofia. Ogni religione implica un insieme di credenze,che non sono frutto di ricerca perché consistono nell’accettazione di una rivelazione . La religione è l’adesione ad una verità che l’uomo accetta in virtù di una testimonianza superiore. Tale infatti è il Cristianesimo. L’accettazione di una verità testimoniata dall’alto sembra escludere qualsiasi ricerca. Tuttavia, riconosciuta la verità nel suo valore assoluto, quale viene rivelata e testimoniata da una potenza trascendente, nasce nell’uomo l’esigenza di avvicinarsi ad essa e di comprenderla nel suo significato autentico, per vivere veramente con essa e di essa. Dalla religione cristiana è nata così la filosofia cristiana. Il messaggio di Cristo consiste in un rinnovamento spirituale che deve realizzarsi nella interiorità delle coscienze. Gesù è stato mandato dal Padre per annunciare il suo regno,”che non è di questo mondo”. Il regno di Dio non esige un mutamento politico: “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ha detto Gesù. È piuttosto una realtà invisibile e interiore dell’uomo. Dio è il Padre di tutti gli uomini ed è fonte di amore, di grazia e di perdono. Dio è Colui che è, l’Essere, Cristo il logos, il Verbo, il mediatore tra Dio e gli uomini,lo Spirito Santo è l’amore che spira reciproco tra il Padre e il Figlio. Il Cristianesimo non è soltanto rivelazione: esso è una nuova filosofia ed una rivoluzione storica. Tutti gli uomini sono figli di Dio ed hanno pari dignità. L’uguaglianza , la fratellanza, la giustizia e l’amore per tutti, soprattutto per i nemici - se amate solo quelli che vi amano, che merito avete? (Mt 5, 44-48) – sconvolgevano gli equilibri del sistema politico e della società dominata dall’Impero romano. Ricordiamo che per i Romani gli schiavi non habent personam. Per il diritto romano lo schiavo è cosa, oggetto anziché soggetto del diritto. Solo in età tarda e nel linguaggio extragiuridico il termine persona risulta adoperato con riferimento al concetto astratto di individualità umana. Il significato originario del termine persona era maschera teatrale. Gesù afferma esplicitamente di non essere venuto a portare la pace, ma la 34 Giuseppina Mammana spada (Mt 10,34). I Cristiani vengono perseguitati e la nuova religione soggetta ad attacchi polemici. Occorreva quindi difendersi, chiarire i propri presupposti teoretici e organizzarli in un sistema di dottrine. Questo compito fu assolto dai padri apologisti del II secolo. Il periodo di questa elaborazione dottrinale è la patristica. Padri della Chiesa sono gli scrittori cristiani dell’antichità, che hanno contribuito ad ordinare e diffondere i principi del Cristianesimo. L’opera dei padri è stata accettata e fatta propria dalla Chiesa. La prima fase della Patristica, che va dal 200 al 450 circa, è dedicata alla formulazione dottrinale delle credenze cristiane. L’ultima, che va dal 450 sino alla fine della Patristica, è contrassegnata dalla rielaborazione e sistemazione delle dottrine già formulate. È questa la Patristica latina, nella quale campeggia la gigantesca figura di S. Agostino, il Padre della Chiesa. Aurelio Agostino nacque a Tagaste (oggi Souk-Ahras, Algeria), nell’Africa romana nel 354 e morì a Ippona nel 430. Suo padre Patrizio era pagano, la madre Monica, cristiana. Il padre era indifferente alla religione, la madre, invece, era profondamente religiosa ed esercitò una grande influenza sul figlio, che, nella sua opera maggiore Le Confessioni, la nomina più volte, ricordando la sua costante presenza, specie nei momenti difficili della sua vita. Trascorse la fanciullezza e l’adolescenza tra Tagaste, Madaura e Cartagine. Le Confessioni, opera in latino in 13 libri, scritta tra l’anno 397 e il 400, è la più famosa e la più letta dell’immensa produzione letteraria agostiniana;ha lasciato duecentotrentacinque scritti. Oltre a Le Confessioni ricordiamo: Contra academicos, Confutazione dello scetticismo, De libero arbitrio, De Magistro, De Vera Religione, De Trinitate, De Civitate Dei. I tredici libri de Le Confessioni li scrisse da Vescovo, per dar lode a Dio; essi lodano Dio giusto e buono per i miei mali e per i miei beni e verso di Lui sollevano la mente e gli affetti degli uomini, come egli stesso dice; sono confessione di fede, e anche confessione dei suoi peccati. È un’opera autobiografica, che ci fa conoscere l’uomo Agostino, dall’infanzia alla maturità, la sua vita tormentata, il suo temperamento ardente, perennemente alla ricerca della verità sul senso della vita,della sua vita,inconsapevolmente alla ricerca di Dio. In uno sguardo retrospettivo molto preciso egli giudica con severità e rigore il suo comportamento prima della conversione. Fin dall’infanzia si rifiutava di obbedire ai genitori e ai maestri di scuola. «Dio, Dio mio, quale sofferenza provavo allora, quando mi dicevano, certamente prendendosi gioco di me, che per vivere rettamente è necessario ubbidire a coloro che ci istruiscono» (Le Confessioni, libro I, p. 36). Proprio a scuola, per imparare a leggere e a scrivere e far di conto, ebbe inizio il suo tormento ad opera dei maestri che lo bacchettavano senza pietà e lo punivano con altri strumenti di tortura. La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 35 Non capisco - egli dice- perché noi bambini dovevamo essere martirizzati con la complicità dei genitori, che pur ci volevano bene, ma non capivano le nostre sofferenze. Non era certo un grave peccato se nello scrivere , nel leggere e nello studiare non facevamo quanto si esigeva da noi. Non mi mancava l’ingegno o la memoria che , grazie a te, Dio, ne avevo a sufficienza a quella età, ma mi piaceva giocare e venivo punito proprio da quelli che giocavano al par di me […] ma i giochi degli adulti si chiamano affari; anche i giochi dei ragazzi, per essi sono affari, eppure vengono puniti dagli adulti ( Le Confessioni, libro I, pp. 37-38). Anche nella maturità Agostino non riesce a dimenticare il tormento della scuola e delle punizioni, pur riconoscendo di peccare, disubbidendo ai genitori e ai maestri. Secoli dopo, nel 900, Maria Montessori, analizzò il conflitto tra l’adulto e il bambino e si adoperò concretamente perché egli venisse rispettato e aiutato a vivere in una scuola rinnovata e organizzata a sua misura. In una pagina critica ella scrive: I premi e i castighi si adottano per costringere i bambini a seguire le leggi del mondo anziché quelle di Dio. Le leggi del mondo per i fanciulli sono dettate quasi sempre dall’arbitrio dell’uomo adulto che investe se stesso di una esagerata, sconfinata autorità. Troppo spesso egli comanda perché è forte e vuole che il bambino ubbidisca perché è debole.1 Le considerazioni di Agostino sul Primus Magister e sulla noia e il tormento di dovere imparare a scrivere, leggere e far di conto sono illuminanti anche oggi. Ricordiamo che a quel tempo esistevano tre tipi di insegnanti: il primus magister che risponderebbe al nostro maestro delle scuole elementari, il grammaticus che avviava gli alunni alla lettura e alla spiegazione della letteratura e alla composizione e risponderebbe al professore delle scuole medie e medie-superiori, poi il retor, che risponderebbe al nostro professore universitario. Agostino odiava il greco ma amava il latino, quello insegnato dai cosiddetti maestri di grammatica. Detestava imparare a memoria le favole di un certo Enea, dei suoi infelici amori e della infelicissima Didone. «Queste favole - egli dice - uccidevano la mia anima, o Dio, vita mia, ed io andavo tranquillo senza una lacrima di pentimento! Io mi uccidevo dilettandomi delle cose ignobili e sprofondavo sempre più in basso» (Le Confessioni, libro I, p. 43 ). Lo eccitavano i poemi omerici, ma erano scritti in lingua greca e lo studio del greco era odioso, soprattutto perché veniva imposto. Il latino riusciva ad impararlo 1 M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano 1993, p. 15. 36 Giuseppina Mammana senza castighi e minacce, anzi iniziò ad apprenderlo tra le affettuose carezze delle nutrici, nell’allegria dei giochi e nella spensieratezza dei divertimenti. «È chiaro che si impara meglio sollecitati da una libera curiosità , che non costretti da una petulante necessità. La libertà però è regolata dalle tue leggi, o Dio, come dalle tue leggi derivano le sferzate dei maestri e le torture dei martiri» (Le Confessioni, libro I, p. 47). Tuttavia il suo giudizio sulla scuola è ambivalente , perché da un lato le riconosce il merito di avergli offerto i mezzi per esprimere e leggere i suoi pensieri e dall’altro di propinargli tante favole e tante sciocchezze che lo allontanavano da Dio e lo inducevano a condurre una vita senza freni, disordinata e peccaminosa; era sempre alla ricerca dei piaceri dei sensi, in compagnia di falsi amici che con lodi stupide ed inutili alimentavano la sua vanità come, ad esempio, essere il primo nelle gare poetiche e sapere rubare le pere al vicino. Si illudeva di giustificare la sua esistenza con il vuoto divertimento e la disobbedienza totale ai genitori e ai maestri. «La madre, piangendo – egli dice – mi chiedeva come ricordo bene nel profondo del cuore la angosciosa apprensione che trapelava dalle sue parole-di astenermi dalla fornicazione e specialmente dall’adulterio» (Le Confessioni, libro II, p. 65). Il padre modesto impiegato nel Municipio di Tagaste, si interessava soprattutto agli studi del figlio: non si preoccupava della sua castità; a lui premeva che diventasse bravo nella dissertazione per un avvenire brillante e agiato; sognava anche di avere tanti nipotini. Intanto bisognava trovare i soldi per mandare il figlio all’università di Cartagine. Ma i soldi non c’erano e Agostino dovette interrompere gli studi. Aveva 16 anni e, costretto all’ozio per mancanza di mezzi, «i rovi delle passioni-confessa- coprirono la mia testa e nessuna mano venne a sradicarli» (Le Confessioni, libro II, p. 64). A Madaura, cittadina vicina a Tagaste, aveva compiuto gli studi di letteratura ed eloquenza. All’età di 17 anni raggiunge Cartagine: lo attraggono gli amori peccaminosi, e il teatro che riproduce sulle scene i vizi delle divinità pagane. La partecipazione all’azione scenica è così intensa da soffrirne fino al pianto. Negli spettacoli teatrali ritrovava riproposte le sue miserie e il fuoco delle sue passioni. «La mia anima non godeva buona salute, era piena di ulcere e si proiettava all’esterno, miserabile, avida soltanto di quelle emozioni che si trovano soltanto attraverso contatti carnali» (Le Confessioni, libro III, p. 80) A Cartagine si innamora di una giovane donna che gli dà un figlio Adeodato, non voluto, ma poi amatissimo. Cartagine, chiamata lussuriosa per le oscenità che venivano rappresentate nei teatri e per la vita immorale che vi si conduceva, era la città più importante dell’Africa romana. Vi fiorirono le lettere e il Cristianesimo: Apuleio, Arnobio, Tertulliano, San Cipriano e S. Agostino uscirono dalle scuole cartaginesi. In questo vivace contesto sociale e culturale il giovane Agostino si impegnava nello studio della retorica e dell’eloquenza ed era fiero di essere il migliore e il più La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 37 quieto degli alunni. L’amore per lo studio dell’oratoria e dell’eloquenza lo spinsero a leggere un libro di Cicerone: Ortensio, un dialogo scritto tra il 46 e il 45 a. C., redatto nella solitudine dei colli romani, dopo le delusioni politiche e le sofferenze per la morte della figlia Tullia. Il dialogo prende il nome da uno dei suoi interlocutori, Ortensio appunto, che ha un atteggiamento ostile alla filosofia. Cicerone difende la validità della filosofia, dimostrandone l’innegabilità, perché anche chi la nega fa filosofia. L’Ortensio è andato perduto, i frammenti rimasti li troviamo quasi tutti nelle opere di Agostino (Le Confessioni, libro III, p. 86 ), ma per lui costituì un forte incitamento alla filosofia: «mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore; come ardevo, o Signore, mio Dio, come ardevo di riprendere il volo verso di Te! e non avvertivo che eri tu ad agire in me. La sapienza infatti , risiede presso di te». L’amore alla sapienza ha un nome greco: filosofia. Purtroppo però vi sono alcuni che usano questo nome per colorare e falsificare i loro errori. Ha ben ragione l’apostolo Paolo quando ammonisce: «badate che nessuno vi inganni con i suoi raggiri, ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col. 2,8). Le parole di Cicerone lo infiammavano a cercare la vera sapienza ma nel suo libro non c’era il nome di Cristo. Si propose allora (aveva 19 anni) di leggere le Sacre Scritture, ma gonfio di orgoglio, non riuscì a penetrarne il significato. Incappò invece nella rete di uomini superbi e farneticanti, carnali e ciarlatani all’eccesso: i manichei, appartenenti alla setta fondata dal persiano Mani (216-277 d.C.). Il principio che stava a fondamento di questa religione è l’opposizione eterna tra il bene e il male, di cui è formata tutta la realtà, Dio e l’uomo compresi. Questi due principi stanno sempre in guerra. I manichei negavano il Vecchio Testamento e combattevano la Chiesa che imponeva la fede ai suoi fedeli. Agostino si avvoltolò in quel fango d’abisso, e in quelle tenebre di errore, per altri nove anni. Di gradino in gradino raggiunsi il profondo degli inferi, affaticato, stanco, assetato di verità che non riuscivo a trovare. Mi confesso a Te, o Dio mio, che hai avuto misericordia di me quando io ancora non ti conoscevo. Mi confesso e riconosco che allora ti cercavo, non con l’intelligenza che tu mi hai donato e che mi distingue dalle bestie, ma secondo l’appetito carnale. Tu infatti eri dentro di me, nel mio intimo, più di quanto non lo fossi io, e altamente al di sopra della mia intelligenza (Le Confessioni, libro III pag. 93). Già nel libro I de Le Confessioni, p. 22, aveva detto: «tu o Signore, ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto, finché non trova riposo in Te (inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, Domine)». Intanto la madre, vedova casta e pia pregava e piangeva incessantemente; supplicava il Vescovo di Milano, Ambrogio, nutrito nella Chiesa ed esperto nelle Sacre Scritture, ad incontrare il figlio. 38 Giuseppina Mammana Il Vescovo si rifiutava e Monica insisteva, finché l’incontro avvenne, ma Agostino non era ben disposto, preso com’era dall’eresia manichea. E alle continue suppliche della madre che lo sollecitava ad altri incontri, il presule fiducioso e un po’ infastidito, rispondeva: “Suvvia, vai in pace! Non potrà mai essere che un figlio di tante lacrime perisca!”. Intanto Agostino continua ad occuparsi di cultura filosofica; scrive un trattato sulla bellezza dal titolo La bellezza e la convenienza, andato perduto. Insegnava in pubblico le cosiddette arti liberali (quelle del trivio - grammatica, dialettica e retorica - e quelle del quadrivio - aritmetica, geometria ,astronomia e musica), chiamate così perché ad esse potevano accedere solo gli uomini liberi e venivano studiate dai Romani, i quali ne attribuivano la paternità a Platone e Aristotele. Lesse e comprese da solo il libro di Aristotele sulle categorie (il I libro dell’Organon). Con facilità leggeva, imparava e insegnava. «Non esisterei, se tu, Dio mio, non fossi in me, perché da Te proviene ogni cosa, in Te e per Te sono tutte le cose» (Le Confessioni, libro I, p. 23). Nei Soliloqui Agostino dichiara lo scopo della sua ricerca: «io desidero conoscere Dio e l’anima (Deum et animam scire cupio)». La ricerca di sé e di Dio non si svolge separatamente l’una dall’altra, ma consiste in una serrata analisi esistenziale dell’io, della persona nella sua singolarità irripetibile e nella apertura a Dio. Io stesso ero diventato per me un grosso problema, factus eram ipse mihi magna quaestio e in tutta la sua opera cerca di chiarire il suo rapporto con Dio con la concretezza di fatti, di sentimenti, di scelte di vita a volte difficili e dolorose , ma sempre autonome e scaturite dalla sua interiorità. Agostino cerca la verità mediante la sapienza, ma la magna quaestio rimane insoluta. Per un uomo soggetto alla morte che si porta dietro la testimonianza dei suoi peccati, non resta altro che invocare Dio, cercarlo e lodarlo con il rigore della ragione e della fede, perché come dice il salmo: “loderanno il Signore coloro che lo cercano”, infatti, coloro che lo cercano lo troveranno e quelli che lo troveranno lo loderanno (crede ut intelligas , et intellige ut credas), cioè credi per capire e capisci per credere (Le Confessioni, libro I p. 23). Ma dove cercare Dio ? Se si cerca una cosa, è perché l’abbiamo posseduta, poi perduta ed ora non ce la troviamo più, per questo la cerchiamo. Così avviene per ricercare Dio. L’uomo cerca Dio, se lo cerca è perché l’ha posseduto, ma l’interesse per le cose materiali glielo ha nascosto, glielo ha fatto dimenticare. Non andare fuori di te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, et si tuam naturam mutabilem inveneris,trascende et te ipsum (De vera religione, 39, 72). La verità, come ai tempi dei sofisti, era stata colpita a morte specialmente dallo scetticismo. Socrate aveva trovato il criterio della verità nella ragione umana con La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 39 il concetto, mediante il quale, si poteva raggiungere la conoscenza universale della realtà. Aveva posto l’uomo al centro della scienza e della sapienza. Al pensiero di Socrate si erano riallacciati i sistemi filosofici di Platone e Aristotele. Ma il pirronismo e gli Accademici avevano assestato un duro colpo ai due geni della filosofia antica e Sant’Agostino sente di dover confutare lo scetticismo che lui interpreta come teoria del dubbio universale. «Si può sbagliare e dubitare, seppure m’inganno, io che m’inganno esisto (si fallor sum). Non si può ingannare chi non esiste: se dunque m’inganno, per ciò stesso io sono» (La città di Dio, XI, 26). Il principio nuovo della filosofia di Agostino è l’autocoscienza e l’interiorità dell’uomo. Dobbiamo trovare la verità dentro noi stessi, perché il fatto stesso di cercarla dimostra che noi la possediamo come dono di Dio, ma ci trascende. La verità è immutabile e perfetta e possiede totalmente se medesima, mentre noi siamo mutevoli e imperfetti. La verità non può essere che Dio, il quale come vivida luce inonda la nostra mente permettendole di apprendere (teoria dell’illuminazione). Cristo, maestro interiore, Luce Verità e Vita, è artefice della capacità di apprendere. Se il nostro pensiero è illuminato , significa che esso è la luce che si accende ad un’altra luce. Il pensiero è la mia luce, ma non sono io l’origine del mio lume. I lumi degli uomini si accendono e si affievoliscono, ora brillano e ora sembrano spegnersi; la mia luce, come quella dei miei simili, non è dunque la luce. Per conseguenza, la mia ragione, ogni individuale intelligenza e ragione creata, sono testimonianza dell’esistenza della luce assoluta (Michele Federico Sciacca).2 Dio, verità assoluta, trascende l’uomo, non è mai pienamente posseduta dall’uomo e rimane sempre un mistero che in questa vita non è dato svelare, ma riconoscere e amare. La scoperta della verità non è la conclusione di un procedimento logico-sillogistico e gnoseologico; è di natura intuitiva. Agostino non procede mai con sistematicità deduttiva: egli parte sempre dalla coscienza e dall’esperienza interiore. L’itinerario costante delle speculazioni agostiniane è questo: cogitatio, fides, intellectus, pensiero che indaga sul contenuto della fede e prende coscienza della verità di essa. Dio è Colui che è, l’ Essere Assoluto; è Verità, è Bellezza e Bontà; quindi Egli è anche il criterio in noi dell’estetica e della moralità. Bisogna ritornare alla sua vita inquieta e passionale, ai suoi incontri, alle sue amicizie e alla sua sapienza, per capire come avvenne la sua conversione al cristianesimo. Insegnava a Tagaste. La morte di un giovane amico lo addolora profondamente e fugge a Cartagine, dove il tempo e il conforto di altri amici sanano la profonda ferita. Ma anche Cartagine gli diventa insopportabile e si trasferisce a Roma. Si am2 N. Abbagnano – G. Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, vol. 1, Torino 1996, p. 533. 40 Giuseppina Mammana mala gravemente di malaria. Sua madre non sa nulla, ma continua a piangere e a pregare per lui. I manichei lo aiutano nelle sue necessità, ma ormai, non ha più fiducia nella loro religione. Durante la militanza nella loro setta, aveva accumulato molti dubbi, ed ora se ne distacca. Tuttavia, gli ostacoli al raggiungimento della verità si ripresentano con lo scetticismo, diffuso a Roma dagli accademici, i quali avevano affermato che bisogna dubitare di tutto e avevano sentenziato che l’uomo non potrà mai raggiungere e comprendere la verità. «Ero diventato pigro nella ricerca di altre dottrine,specialmente non avevo più fiducia di trovare la verità nella Chiesa Cattolica» (Le Confessioni, libro V, p. 74). Lo attanagliava il problema del male; la sua domanda unde malum? non trovava una risposta soddisfacente. Vittima del materialismo, non riesce a risolvere né il problema di Dio, né il problema del male. Intanto, da Milano, allora capitale dell’Impero, avevano richiesto a Roma al prefetto Simmaco un professore di retorica da inviare subito a spese dello Stato. Così il prefetto Simmaco, dopo una prova di oratoria, lo inviò a Milano. Appena giunto a Milano, andò ad ossequiare il vescovo Ambrogio, uno tra i migliori, conosciuto in tutto il mondo, celebre per la sua eloquenza. Ambrogio era nato a Treviri, città fondata da Augusto, ai confini tra Germania e Francia, dove il padre era prefetto. Appartenendo all’alta società romana, ricevette un’ottima educazione letteraria greca e latina, intraprese il cursus honorum e a 34 anni era prefetto della Provincia di Emilia e Liguria, allorché, a furor di popolo, venne consacrato vescovo, a Milano il 7 dicembre del 373. Quando Agostino arrivò a Milano (nel 384) aveva 30 anni. A Milano lo raggiungono la madre e la giovane donna cartaginese che amava e rispettava come moglie insieme al figlio Adeodato. La Chiesa di Milano era molto vivace, impegnata nel sociale e unita profondamente al suo vescovo Ambrogio. Agostino incomincia a frequentare il Circolo culturale, retto dal santo e colto prete Simpliciano e animato da uomini colti, aperti alla filosofia neoplatonica. Si accosta alla Chiesa cattolica, sostenuto dalla predicazione di Ambrogio, che lo aiuta a capire e a leggere le Scritture e le Lettere di S. Paolo, aggiungendo alla lettura materiale anche quella spirituale allegorica. Il vescovo lo accoglie con benevolenza come un padre e Agostino incomincia ad amarlo. Frequenta assiduamente le sue catechesi ed il piacere di ascoltarlo supera il suo desiderio di apprendere. «Insieme alle parole che ascoltavo con piacere, scendevano nel mio animo quelle parole, quegli argomenti verso i quali mi mostravo distratto» (Le Confessioni, libro V, p. 181). La sua eloquenza, la serenità e la sicurezza della sua fede, lo affascinavano e lo avvicinavano sempre più alla dottrina cattolica. Agostino si distaccò definitivamente dalla eresia manichea. Diventò catecumeno e nella notte tra il 24 e il 25 La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 41 aprile, durante la veglia pasquale del 387, ricevette il battesimo dalle mani del vescovo Ambrogio. Agostino ha sempre attribuito il radicale cambiamento, oltre che alla grazia divina, al suo soggiorno milanese e al provvidenziale incontro con il vescovo Ambrogio. In realtà il vescovo Ambrogio non aveva molto tempo da dedicare all’illustre retore africano e certamente «non conosceva – dice Agostino – il groviglio dei miei travagli, né il pericolo che correvo di cadere in una fossa» (Le Confessioni, libro VI, p. 191). I tre anni fra il 384 e il 387 trascorsi a Milano, furono decisivi per la sua conversione. Insieme alla madre, al figlio e agli amici più cari si ritira in Brianza, a Cassiciaco, dove trova finalmente la serenità interiore. Trascorre le giornate pregando e lavorando, studiando e discutendo sui massimi problemi della filosofia: la verità , la felicità e l’ordine. Chiede perdono al Signore delle sue passate iniquità e recita il salmo (il 115) di ringraziamento a Dio Salvatore: «o Signore, io sono tuo servo, io sono tuo servo e figlio della tua ancella. Hai spezzato le mie catene. A Te offrirò sacrifici di lode», e poi: «Padre, sia non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Decide di dimettersi dal suo insegnamento, ma senza chiasso; è affetto da una lesione polmonare; per l’eccessivo lavoro scolastico respira a fatica e accusa forti dolori al petto. Del resto, egli dice: «non volevo che la mia lingua seguitasse a vendere chiacchiere e che gli alunni, invece di meditare la tua legge e cercare la tua pace, apprendessero da me l’arte del mentire» (Le Confessioni, libro IX, p. 317). Appena si libera dall’insegnamento, si dedica all’attività letteraria, messa ormai al servizio di Dio e scrive : i tre dialoghi avuti con i suoi amici : Contro gli accademici, La Vita beata, l’Ordine e quelli avuti con se stesso: I Soliloqui. Insieme al figlio Adeodato, frutto del suo peccato, scrive un libro intitolato Il Maestro. È un colloquio tra i due sul tema dell’insegnamento della verità. Per Agostino la verità non può essere comunicata da un insegnante esterno, ma dal maestro interiore, Cristo, che è la Verità. Adeodato aveva una straordinaria intelligenza e a 16 anni era maturo per essere battezzato assieme al padre. Dopo il battesimo, decide di tornare in Africa insieme alla madre, al figlio e agli amici. Nella sosta ad Ostia Tiberina, Monica si ammala e muore a 56 anni. Ma prima della morte madre e figlio godono insieme il momento sublime dell’estasi: è la premessa della gioia del Paradiso. Buona parte del IX libro è dedicata alla santa madre e scrive di lei ciò che di più bello un figlio può scrivere di sua madre. Agostino ha finalmente trovato se stesso e nelle coscienza scopre Dio come Essere, Verità e Amore: come Padre, come Figlio e come Spirito Santo. Dio è Colui che è, Essere Assoluto, Verità che si rivela come Logos, come Verbo in Cristo ed è Amore, Spirito Santo. «Amare Dio significa amare l’Amore, ma non si può amare l’Amore, se non si ama chi ama. Non è amore quello che non ama nessuno. L’uomo perciò non può amare Dio, che è l’Amore, se non ama l’altro uomo. L’amore fraterno 42 Giuseppina Mammana fra gli uomini non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso» (Sulla Trinità VIII, 12). «Dio è amore. Non ho dubbi, sono certo, o Signore: io ti amo. Hai folgorato il mio cuore con la tua parola e io ti ho amato. Il cielo, la terra, e tutto ciò che in essi si trova, ecco da ogni parte mi invitano ad amarti» (Le Confessioni, libro X, p. 370). E allora chi è il mio Dio? «Interrogai la terra, il mare, gli abissi e i rettili “che hanno anima vivente” (Genesi 1, 20) i venti e tutto il cielo con i suoi abitanti […] ho chiesto a tutti gli esseri che mi circondano […] e a gran voce tutti in coro risposero: il tuo Dio ? È colui che ci ha fatto» (Le Confessioni, libro X, p. 371). Infine Agostino si rivolge a se stesso e chiede: tu chi sei ? Un uomo con corpo e un’anima, l’uno esterno, l’altra interiore. A quale dei due dovrò chiedere dove è il mio Dio? Per mezzo del corpo l’ho chiesto alla terra e al cielo, e tutte le cose in esse dicevano: non siamo noi il tuo Dio oppure il tuo Dio è colui che ci ha fatto. Meglio interrogare ciò che vive nel corpo: l’anima. A lei infatti giungevano tutte le risposte alle domande del corpo, come a colei che presiede e giudica tutto quello che il cielo, la terra e tutte le cose in esse dicevano. L’uomo interiore arriva alla conoscenza di queste cose attraverso i sensi dell’uomo esteriore. Io uomo, “uomo interiore”, ho conosciuto queste cose, io, si, proprio io, “anima” attraverso i sensi del mio corpo (Le Confessioni, libro X, p. 371). Solo gli uomini possono interrogare la magnificenza del creato, poiché come dice l’Apostolo: «dalla creazione del mondo in poi , le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua potenza e divinità» (Rm 1, 20). «Anima mia, tu sei la creatura migliore! Il tuo Dio, Lui solo, è la vita della tua vita» (Le Confessioni, libro X, p. 373). Dio trascende la sensibilità dei nostri sensi. Il pensiero è un tratto immanente, costitutivo dell’anima. Conoscere perciò non è il platonico riconoscere, ma è essere illuminati dal Verbo. Non è neanche l’intelletto agente aristotelico, che mediante un processo di astrazione perviene alla conoscenza dell’essere, non ha quindi carattere gnoseologico e psicologico, ma carattere essenzialmente metafisico, legato al principio della presenza di Dio e del divino in noi. L’uomo è una creatura che ha anima e corpo, ma la cui essenza e natura propria è appunto l’anima razionale. L’uomo è un animale razionale, che si serve di un corpo mortale e terrestre. Come dire che la vita del corpo è in funzione dell’anima, principio vivificante e spirituale, impresso da Dio ad Adamo, nell’atto creativo. Si avverte in questa concezione un dualismo di tipo platonico, ma solo in parte, perché l’anima per Agostino è illuminata da Dio; la sua presenza trascendente e misteriosa, vivifica il corpo e guida la mente nella conoscenza e nelle opere. È criterio di verità ed ha un carattere prettamente metafisico. È una sostanza tesa interiormente a quella verità e quei valori interiori che il Verbo le fa brillare dentro, vivente com’è, essa non è inerte e indifferenziata: essa si articola in se stessa in una triplici- La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 43 tà di funzioni-facoltà che ognuno può riconoscere come essere, pensiero e volontà (esse – nosse – velle), cioè memoria, conoscere, amore. Essere ossia memoria, in quanto il nostro essere è appunto la somma attuale di quanto l’anima è stata ed è, in tutti i momenti successivi e in tutta la varietà del suo contenuto: l’anima è il presente ontologico di tutto il suo passato. Conoscere in quanto l’anima è intelligenza, pensiero ed ha coscienza di sé e in sé delle cose. Volere o amore, in quanto è desiderio, è attività ad un fine e può decidere e operare liberamente. Quindi l’uomo è, conosce e ama proprio come Dio è essere, il Padre, intelligenza il Figlio e amore Spirito Santo, perché Dio lo ha creato a sua immagine e somiglianza e cercando se stesso trova in sé la trascendenza divina che lo chiama, lo illumina e lo ama. L’intera esperienza della vita di Agostino ne è la testimonianza. Ed il corpo non è la prigione dell’anima, ma il tempio dell’anima. Ma l’essere umano con la sua volontà può volere e disvolere, può lasciarsi dominare dalle passioni, dall’egoismo, dall’orgoglio e dalla superbia; può allontanarsi da Dio e usare la libertà per peccare. La costituzione dell’uomo come immagine di Dio, se gli dà la possibilità di rapportarsi a Lui, non gli garantisce la realizzazione necessaria di questa possibilità. L’uomo è infatti in primo luogo l’uomo vecchio, l’uomo esteriore o carnale, che nasce, cresce, invecchia e muore. Ma in secondo luogo può essere anche uomo nuovo o spirituale, può rinascere spiritualmente e sottoporre l’anima alla legge divina. Può indebolire e rompere il suo rapporto con Dio, e cadere nella menzogna e nel peccato oppure vivere secondo lo spirito, rinsaldando il proprio rapporto col Padre e prepararsi a partecipare alla sua stessa eternità. Si Deus est, unde malum? Questa domanda Agostino se la poneva anche durante la sua militanza manichea, ma dopo la conversione, convinto che Dio è il bene, afferma che il male non può essere stato creato da Lui. Il problema si presentava arduo e drammatico, poiché è inconciliabile la realtà del male con la bontà perfetta di Dio. Quindi, il male non deriva e non è stato creato da Dio, Essere e Bene assoluto. Non ha una sostanzialità metafisica, è una rinuncia all’Essere, ovvero una forma di non essere. La causa del male è il libero arbitrio della nostra volontà. Una cosa certa, sicura mi sollevava verso la tua luce: sapevo di avare una volontà come ero certo di avere una vita; infatti io vivevo. Ero certissimo che ero io a volere o non volere una cosa, nessun altro poteva volere o non volere per me; e sempre meglio comprendevo che la causa del peccato risiede nella mia volontà. Solo l’uomo è capace di commettere il male (Le Confessioni, libro VII, pp. 234-235). Il male ha origine nella condizione ontologica della creatura, nella quale può prevalere il defectus essendi che si ha quando vengono a mancare misura, forma e ordine (modus, species et ordo). 44 Giuseppina Mammana In questa condizione, si può sviare la stessa volontà libera dell’uomo: e nasce così il male morale. L’anima, volgendosi ai beni di grado inferiore, anziché a Dio, devia e decade. Quando al Bene supremo sostituiamo un bene inferiore a Lui – peggio poi se è inferiore a noi stessi – noi pecchiamo. Il male morale è dovuto al libero arbitrio che, scegliendo fra i beni opera male la sua scelta: anche per le azioni vale quanto per gli esseri: le azioni sono buone quando hanno misura, forma e ordine: quando non sono in difetto rispetto alla perfezione. Da questo deviamento proviene a sua vota il male fisico, il dolore, l’inquietudine spirituale, l’ansia, gli squilibri dell’organismo, le malattie. Rispettare l’ordine dell’universo imposto da Dio, significa rispettare la sua eterna legge ed operare secondo verità e amore per il bene. Solo la grazia divina, dono sovrannaturale e imperscrutabile, salva l’uomo. Dopo il peccato originale egli è decaduto ed ha perso la possibilità di essere partecipe della natura divina. Solamente con la grazia è salvo, senza grazia è impotente e si perde. La grazia è un dono gratuito di Dio. Nulla può infatti valere a meritarla, nulla può costituire un diritto a riceverla. Ma anch’essa non può operare contro la nostra volontà. Sussiste quindi il libero arbitrio per accettarla o rifiutarla. Il primo libero arbitrio (libertà minore) quello che fu dato ad Adamo consisteva nel “poter non peccare”. Perduta questa libertà per la colpa originaria che costringe l’uomo a “non poter non peccare”, l’individuo può vincere il peccato solo mediante l’aiuto della grazia divina, concessa in virtù dei meriti di Cristo. Infine, l’ultima libertà che Dio darà come premio ai beati, è quella di non poter peccare (libertà maggiore). Con questo dono divino l’uomo può liberarsi totalmente dal peccato e dal male. È questa una possibilità fondata sulla grazia divina: «Dio stesso è la nostra possibilità», dice Agostino (Soliloqui II, 1). Posto che la grazia divina sia in ogni caso indispensabile per la salvezza, sorge una domanda: viene concessa a tutti indistintamente o solo ad alcuni? Agostino risponde che tutti gli uomini costituiscono una “massa di dannati” e Dio concede a tutti la grazia sufficiente alla salvezza, pur lasciando a tutti la possibilità di perdersi. Solo gli “eletti”, che l’Onnipotente ha predestinato ab aeterno, si salvano. È un mistero penetrare nell’eterno consiglio. Lutero, monaco agostiniano, che riteneva implacabile la giustizia di Dio, affermava che solo con la fede e con la conoscenza delle Sacre Scritture, è possibile ottenere la grazia misericordiosa della salvezza. Calvino ha invece affermato – con la teoria della doppia predestinazione – che Dio predestina alcuni alla salvezza ed altri alla perdizione. Agostino appare più propenso ad affidare a Dio, più che all’uomo o alla cooperazione uomo-Dio, l’impresa della salvezza. In realtà, insieme alla conoscenza delle Sacre Scritture, alla certezza della presenza di Dio in noi, c’è in Agostino una fede immensa che rappresenta il porto sicuro che acquieta l’anima, dopo l’estenuante ricerca di dare un senso alla sua vita. La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino 45 Alcuni critici parlano di ambiguità del suo pensiero e di contraddizioni. Ma la lezione che ci lascia, consiste nell’incoraggiamento a cercare la nostra identità con la ragione e con la fede; la fede ci aiuta a prendere coscienza della sacralità della vita ed a sperare che dopo la morte la nostra anima possa continuare a vivere alla luce del creatore. La Fede e la Ragione costituiscono come due ali per mezzo delle quali lo spirito umano si eleva alla contemplazione della verità. Con questo pensiero di innegabile bellezza, che ben esprime il sentire comune della Chiesa nei secoli, il compianto Pontefice Giovanni Paolo II iniziava una delle più importanti encicliche del suo lungo pontificato: Fides et Ratio. L’Essere è eterno, ma il mondo creato dal Padre e dal Figlio è mutevole, pur avendo in se le forme e le ragioni immutabili delle cose. Chi può fermare – anche per un momento – il moto del tempo per contemplare lo splendore dell’eternità, che è sempre un continuo presente, e paragonarla con il flusso ininterrotto del tempo? L’eternità è sempre un presente. Il tempo non può mai avere un presente: il passato è sospinto via dal futuro, il futuro subentra sempre al passato, e il passato e il futuro provengono sempre e si muovono in Colui che è l’eterno presente (Le Confessioni, libro XI, p.459). In realtà Dio è l’autore non solo di ciò che esiste nel tempo, ma del tempo stesso. Prima della creazione non c’era tempo: non c’era dunque un prima e non ha senso domandarsi che cosa facesse “allora”. L’eternità è al di sopra di ogni tempo: in Dio nulla è passato e nulla è futuro, perché il suo essere è immutabile e l’immutabilità è un presente eterno in cui nulla trapassa. Ma che è il tempo? In realtà è nulla di permanente. Il passato è tale perché non è più, il futuro è tale perché non è ancora e, se il presente fosse sempre presente e non trapassasse continuamente nel passato, non sarebbe tempo ma eternità. Eppure, nonostante questa fuggevolezza del tempo, noi continuiamo a misurarlo, parlando di tempo lungo e di tempo breve. In realtà, il tempo è una dimensione dell’anima che conserva la memoria del passato, ha l’attenzione al presente che passa e l’attesa del futuro nella continuità interiore della coscienza. Non è esatto dire che esistono tre tempi. Sarebbe meglio dire: si, sono tre, ma sono “il presente” del passato, “il presente” del presente e “il presente” del futuro. Questi tre tempi sono nella mia mente, non li vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è lo sguardo, il vedere , il presente del futuro è l’attesa (Le Confessioni, libro XI, p. 471). Partito alla ricerca della realtà oggettiva del tempo, Agostino giunge invece a chiarirne la soggettività. Ancora una volta il ripiegarsi della coscienza su stessa appare come il metodo risolutivo di un problema fondamentale. Nello spirito è la misura del tempo. Ed io ho perso tempo nello studiare il tempo, del quale non conosco affatto 46 Giuseppina Mammana l’ordine, e la mia mente, le viscere della mia anima, sono state lacerate dalla molteplicità ossessiva dei suoi movimenti. Purificato da queste vicende e, liquefatto nel fuoco del tuo amore, attendo di confluire in te e riposare in pace (Le Confessioni, libro XI, p. 488). La riflessione di Agostino è volta al recupero del tempo nell’unità dell’anima, che trattenendo i momenti del tempo (passato, presente e futuro) diventa imitazione dell’eternità. Il pensiero di Agostino è di grande attualità anche nel nostro tempo. La sua vita e la sua filosofia sembrano particolarmente rispondenti alla tormentata sensibilità dell’uomo di oggi. Fabio Cusimano Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura Ci troviamo al limite dell’Alto Medio Evo, agli inizi del VI secolo. In quel periodo, a Nursia (l’odierna Norcia), un piccolo centro tra le montagne dei Monti Sibillini, lo Spirito che ubi vult spirat soffia nell’anima di un uomo, per trasmettergli un’idea che avrebbe segnato per sempre la storia; stiamo parlando di san Benedetto da Norcia e del monachesimo nell’Europa occidentale. Sull’argomento, di vastissima portata storica, religiosa, culturale, esistono decine e decine di studi, sia generali che particolari. Noi però ne metteremo in evidenza solamente alcuni aspetti fondamentali. Alcune caratteristiche della tradizione benedettina, che unisce l’Europa medievale da un capo all’altro, possono essere utili ad illuminare il cammino dell’umanità nel nuovo millennio. Infatti l’idea di san Benedetto, contenuta nella celeberrima Regola,1 si sviluppa in un contesto storico quanto mai drammatico. Caduto l’Impero romano d’Occidente (476), l’ostrogoto Teodorico diviene il signore dell’Italia e dell’Occidente, con il tacito assenso dell’imperatore bizantino Zenone. La successiva guerra gotica, protrattasi fino al 553 con la vittoria dell’esercito di Giustiniano 1 La Regola dell’Ordine di san Benedetto, o Regola benedettina (in latino denominata Regula monachorum o Sancta Regula) viene composta da san Benedetto da Norcia intorno al 534. Essa consta di 1 Prologo e di 73 capitoli. Al suo interno possiamo distinguere tre grandi partizioni: – Prologo + capitoli 1/7: è preminente il carattere spirituale e i temi trattati sono essenzialmente quelli dell’ascesi individuale. – Capitoli 8/66: vi si tratta di diversi istituti monastici: l’opus Dei – l’ufficio divino – e la preghiera (capp. 8/20); il codice penitenziale (capp. 23/30); le varie attività della giornata monastica (capp. 31/57); i responsabili preposti ad esse (capp. 21-2/63-6); l’accesso al monastero e le forme di reclutamento (58/62); le mansioni del portinaio de monastero ed esortazioni a leggere frequentemente la Regola (cap. 66). – Capitoli 67/72: vi si propongono i fondamenti spirituali della prassi cenobitica; l’accento viene posto sui rapporti orizzontali quelli che si stabiliscono tra i fratelli della comunità. – Capitolo 73: è l’epilogo dove si dichiara che la Regola non è proposta come un ideale di perfezione, ma solo come uno strumento per avvicinarsi a Dio ed è intesa principalmente come una guida per chi comincia il suo cammino spirituale. 48 Fabio Cusimano guidato dai generali Belisario e Narsete, provoca in Italia danni gravissimi. La società è attraversata da un diffuso sbandamento politico, carestie ed epidemie si susseguono. L’agricoltura è gravemente colpita dalle devastazioni degli opposti eserciti. In questa drammatica situazione, un nuovo colpo alla sicurezza delle popolazioni italiche viene, poi, dall’invasione longobarda (568). Ora, in un momento di passaggio politico quanto mai cruciale, si sviluppa da Subiaco l’istituzione monastica benedettina, che tanta fortuna avrà nella sua formula così indovinata, tale da caratterizzare il Medio Evo europeo occidentale in maniera assolutamente decisiva. Desiderio di Dio San Benedetto, nato a Norcia verso il 480, da famiglia nobile, sentendo in sé la vocazione eremitica, si trasferisce a Subiaco, in una grotta, che ancora oggi è meta di venerazione e di attrazione turistica, detta il Sacro Speco. Qui vive da eremita; attratte dalla sua santità, alcune nobili famiglie romane gli inviano i propri figli, per essere istruiti da lui. La cosa suscita, però, l’invidia del clero locale, che lo calunnia, mentre alcuni suoi confratelli, contrari alla durezza della sua disciplina, tentano di avvelenarlo. Si trasferisce, allora, a Montecassino, dove raduna, assieme alla sorella santa Scolastica, una prima comunità di monaci di cui sarà abate.2 Qui compone la celebre Regula monachorum, e qui muore il 21 marzo del 547. È da notare che per quanto grande sia la figura di quest’uomo, altrettanto incerta è la sua storia: infatti non esistono biografie scritte da suoi contemporanei e la prima testimonianza della sua vita è riportata da papa Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialogi, scritti verso il 593-594.3 Abate: dall’ebraico abbà, cioè padre. Unica fonte che ci faccia conoscere la vita di san Benedetto, il secondo libro dei Dialogi poggia sulla testimonianza di quattro abati, che Gregorio cita all’inizio dell’opera. Due di loro, Costantino e Simplicio, sono i successori di san Benedetto a Montecassino. Un altro, Valentiniano, un tempo monaco dello stesso monastero, è per lungo tempo superiore di una comunità romana costituita vicino al Laterano, residenza dei papi. Quanto all’ultimo, Onorato, è ancora vivo e dirige i monaci di Subiaco. Completato da altri due testimoni, questo gruppo d’informatori fornisce abbondante materia che il narratore ordina a modo suo e costella di riflessioni spirituali spesso mirabili. Ma per leggere con profitto questa vita, non bisogna cercarvi un ritratto individuale che mostri una personalità originale e un destino particolare. Ciò che interessa Gregorio e i suoi contemporanei non è questa fisionomia singolare dell’uomo Benedetto, ma al contrario i tratti comuni che fanno di lui un santo ordinario, per così dire, un santo di modello corrente, in tutto simile ai grandi uomini di Dio della Bibbia. Di questa figura dall’aspetto biblico, uno dei tratti più evidenziati è il dono dei miracoli: è nella linea della Scrittura e dei vangeli che i nostri padri nella fede credono volentieri a questi fatti straordinari, nei quali si manifesta la potenza invisibile di Dio. Come l’insieme dei Dialogi, la Vita di Benedetto racconta ad ogni pagina qualche 2 3 Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura 49 La prima comunità benedettina è formata in grande maggioranza da laici che desiderano perfezionarsi nella vita spirituale ed ascetica, e che per questo vivono assieme nel monastero di Montecassino, secondo la Regola scritta per loro da san Benedetto. Questa Regola riprende regole monastiche ed ascetiche della precedente tradizione monastica, scritte soprattutto da san Pacomio e da san Basilio. La prima esigenza dei monaci (quindi anche dei benedettini) è quella di distaccarsi dal mondo, che appare ai loro occhi violento, spesso sanguinario, infido, in cui guerre, invasioni e congiure di palazzo sono all’ordine del giorno. C’è desiderio di pace, di sicurezza, e l’intuizione che solo la fuga dal mondo (il contemptus mundi), non solo in senso spirituale, ma anche fisico, è l’unico modo per ritrovare il rapporto con Dio e con il prossimo. Si forma, dunque, una comunità di laici (cenobio) che canta, loda il Signore, prega ad ore fisse della giornata, in cui è alternata preghiera comunitaria e individuale. Il desiderio di Dio si attua anche nella povertà personale, mettendo tutto in comune, e si attua nella fraternità, nella vita comune. Il quotidiano contatto dei monaci, che rimangono stabilmente nel monastero in cui pronunciano i voti (fondamentale, infatti, è il voto della stabilitas loci, uno dei pilastri del monachesimo cenobitico benedettino), forma fra gli stessi confratelli un’unità spirituale che, sotto la direzione dell’abate, da i suoi frutti anche dal punto di vista umano. Infatti, soprattutto dopo Carlo Magno, lo sviluppo dei monasteri significa non solo progresso spirituale e culturale, ma anche materiale, con l’estensione delle coltivazioni, lo sfruttamento dei boschi e dei corsi d’acqua. La comunità monastica stimola al suo esterno l’economia locale, base dei secoli alto medievali. Ma il perno attorno a cui gira tutta la realtà del monastero è la preghiera, una preghiera continua, che copre praticamente giorno e notte. Era ed è questo il segreto che unisce i monaci nella vita cenobitica, e che si prolunga poi nella meditazione, nelle veglie, nel magnifico canto gregoriano, nella lode e nell’intercessione perenne, incessante. Questa preghiera continua vuole rendere il cenobio miracolo, ed è percorrendo questa collezione di prodigi che si scopre l’itinerario spirituale del santo. La classica edizione dell’opera è la seguente: Gregorii Magni Dialogi libri IV, a cura di U. Moricca, Roma 1924. Ma si veda ora la nuova edizione: Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), vol. I (libri I-II), introd. e comm. di S. Pricoco, testo critico e trad. ital. di M. Simonetti, Milano 2005; vol. II (libri III-IV), testo critico e trad. ital. di M. Simonetti, comm. di S. Pricoco, Milano 2006. I quattro libri in cui si articola l’opera di Gregorio Magno hanno differente estensione (il primo è di gran lunga più breve degli altri) e struttura. Il primo ed il terzo libro comprendono miracoli relativi a santi non particolarmente noti (nel primo libro si tratta esclusivamente di taumaturghi, mentre nel terzo la tipologia è più varia e differenziata). Il secondo libro è interamente dedicato alla figura e all’opera di san Benedetto, costituendo in questo una delle più antiche testimonianze (anche se certo non sempre attendibile, per la preponderanza dell’elemento prodigioso che la caratterizza) sul Santo da Norcia. Il quarto libro, infine, si distacca vistosamente dai primi tre, in quanto non vi si tratta più di storie di santi e di miracoli, ma del destino dell’anima dopo la morte. 50 Fabio Cusimano benedettino, in tutte le sue espressioni ed i vari ordini che a quello si sono ispirati, simile alla Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse. Il desiderio di Dio non si esprime, però, solo nello slancio di fede di tanti monaci. Esso è alimentato attraverso la lettura e la meditazione della Bibbia,4 ma anche dei grandi classici latini, il che comporta la necessità d’istruirsi, di saper leggere e scrivere in latino, per trasmettere, tramite l’attività di copiatura amanuense, la cultura latina e la spiritualità cristiana alle generazioni future. Ogni monastero organizza, quindi, un luogo preposto all’attività di copiatura amanuense (scriptorium), una scuola per insegnare ai monaci la lettura e la scrittura del latino; tutto ciò concorre allo sviluppo delle biblioteche monastiche. Uno dei compiti del monaco è quindi quello di trasmettere, attraverso questo lavoro faticoso di copiatura e di miniatura dei codici, l’amore per la Parola di Dio, di cui gli Evangeliari, gli Antifonari e i Corali sono ancora oggi splendide e preziose testimonianze. La Bibbia, ma anche i grandi classici dell’antichità, sono passati attraverso quelle migliaia di mani piene d’amore per la Parola di Dio e per le parole dell’uomo, espresse in una cultura classica, che così è giunta fino a noi. Questa fede e questo amore si sono espressi anche nel canto liturgico, nei salmi musicati, negli inni della preghiera delle ore, di cui ancora oggi ammiriamo gli splendidi codici. Il desiderio di preghiera e di approfondimento non è solo un fatto personale, ma è soprattutto comunitario, ed è questa una delle caratteristiche che distinguono il monachesimo occidentale da quello orientale, tendenzialmente più solitario ed ascetico. Preghiera, meditazione, riflessione, studio, approfondimento razionale e spirituale divengono una formula vincente non solo religiosa, ma anche culturale, capace di resistere nel tempo, e che esprime geni del pensiero occidentale come sant’Anselmo e san Bernardo. Non c’è infatti divisione tra riflessione razionale e preghiera, fra lettura della Bibbia e lettura dei grandi classici latini: la mente, illuminata da Dio per mezzo della riflessione sulla Bibbia, è resa capace di illuminare anche la cultura profana e pagana in tutto ciò che ha di positivo, di assimilabile alla fede. Questa visione unitaria, armonica, diventerà tipica del Medio Evo europeo; essa è anche molto distante dalla nostra visione del mondo, che distingue il piano razionale e culturale dal piano religioso. Il rischio è quello di perdere di vista i punti di riferimento spirituali per un solido sviluppo culturale e sociale. Il lavoro manuale Oltre alla preghiera, i monaci hanno il dovere di lavorare. Il monastero è infatti l’immagine perfetta della città di Dio, in cui ognuno è impegnato a sostenere tutta 4 R. Grégoire, Il monaco e la Bibbia, Abbazia San Benedetto, Seregno 2008. Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura 51 la comunità. In passato, oltre al lavoro di copiatura dei codici, erano molto importanti soprattutto i lavori agricoli, di artigianato, di vettovagliamento a sostegno della comunità monastica, il tutto sotto la tutela dell’abate. Questo obbligo risponde a due esigenze. La prima è di carattere penitenziale: nella società antica e alto medievale i lavori manuali sono svolte per lo più da schiavi o da persone di basso rango, mentre i nobili normalmente non lavorano. Nel monastero benedettino, invece, tutti lavorano e si impegnano: all’interno della comunità, infatti, non ci sono differenze di stato sociale o di provenienza. Viene poi soddisfatta una seconda esigenza, quella di rendere il più possibile autonomo il monastero, viste le condizioni di insicurezza esistenti fuori del monastero e le precarie condizioni dell’economia di scambio che caratterizzano i secoli dell’alto Medio Evo. Se pensiamo che l’Europa occidentale, fino a circa l’XI secolo, subisce gli attacchi di Ungari e Saraceni, e che ogni signore rurale difende a malapena durante questi momenti la propria casa, possiamo immaginare quale sia il destino di molti monasteri e delle popolazioni rurali, completamente prive di ogni protezione. Il tipo di lavoro che coinvolge il monastero è soprattutto di carattere agricolo, e questo comporta che i signori feudali donino porzioni dei loro territori ai monasteri, per permetterne il sostentamento. In cambio i monaci assicurano ai loro benefattori le loro preghiere e le loro messe, dopo la morte dei donatori stessi. I lavori agricoli sono durissimi. L’unica forza motrice è quella di buoi o di animali da soma, mentre il grano può essere macinato, nella migliore delle ipotesi, nei mulini ad acqua. La terra produce poco: l’aratro asimmetrico viene introdotto solo dopo il Mille, come anche l’uso del cavallo per tirarlo, al posto del bue: fu modificato anche l’attacco dell’animale dal collo al petto, con evidente sollievo per l’animale e con rendimento maggiore della produzione agricola. I monasteri, cellule sociali autarchiche, sono quindi centri di lavoro locale, vere e proprie aziende agricole e artigianali, le cui rendite terriere sono a volte veramente notevoli. Così il lavoro è parte integrante del monastero, ed i monaci e i conversi, loro aiutanti, si impegnano nel lavoro come parte integrante della loro vita claustrale. Dal momento che il lavoro entra nel cuore stesso della Regola, ed è posto accanto alla preghiera con pari dignità, esso è innalzato a strumento di salvezza, di purificazione, di santificazione. In tal senso, si trova forse qui, rispetto alla nostra sensibilità, il punto più rivoluzionario e moderno della Regola benedettina: il lavoro ha un legame indissolubile con la preghiera, e quest’idea contribuisce molto alla grande diffusione dell’intuizione benedettina. Il lavoro è un mezzo di salvezza, da alternare con la preghiera, da vivere come una preghiera. In tal senso, cristianizzando la realtà del lavoro, san Benedetto ha un’intuizione che produce effetti incalcolabili. Tutte le attività umane infatti non sono accessorie, ma necessarie al conseguimento della salvezza. Come i canti e i salmi recitati in coro sono l’aspetto laudativo della vita dei cristiani-monaci, così il lavoro è l’aspetto faticoso, doloroso, penitenziale della preghiera, ma non per questo meno nobile agli occhi di Dio. 52 Fabio Cusimano Come si vede il messaggio è di sorprendente attualità: non viene messo il lavoro al di sopra di tutto, ma neanche si vive fuori della realtà e dell’impegno sociale. San Benedetto tenta, con la sua Regola, di trovare un punto di equilibrio tra attività e contemplazione. L’ospitalità Un altro degli aspetti del monastero era (e lo è tutt’oggi) il dovere di ospitalità. Queste imponenti costruzioni, fortificate ed edificate in luoghi isolati, sono dei veri e propri punti di riferimento per i tanti disperati del Medio Evo: poveri, malati, stranieri, pellegrini che tornano o si recano ai tanti santuari della cristianità. Ciò è possibile proprio per la natura stessa della comunità cenobitica e del monastero, dove autarchia, indipendenza sociale e capacità di ricezione sono presenti in un’unica struttura fisica, umana e spirituale. A tale scopo vengono istituite nei monasteri alcune strutture apposite destinate ad ospiti, benefattori in visita, poveri e pellegrini. È lo stesso abate ad avere il dovere di accogliere personalmente i pellegrini che, a proprio rischio e pericolo, percorrono le strade verso i luoghi santi. L’apertura alla hospitalitas si è conservata nei monasteri fino ai nostri giorni, cosicché chi vuol passare qualche giornata di riposo e di spiritualità assieme ai monaci, può sempre attingere a momenti comuni di preghiera o di fraternità. C’è l’esigenza spirituale di accogliere in quegli eremi sperduti persone di ogni genere, di ogni estrazione sociale e di provenienza, per accoglierle nel cenobio come fratelli. E in tempi difficili come quelli in cui nascono i monasteri benedettini, qualcuno che accolga le persone sbandate, sole o povere è veramente raro: l’accoglienza di tutte le persone è il segno tangibile del distacco da se stessi per accogliere il Cristo e mettersi alla sua sequela, la sequela Christi. Le ondate monastiche Un’altra caratteristica peculiare del monachesimo, sia occidentale che orientale, è quello di nascere in un luogo dove un santo o un asceta forma una piccola comunità, per poi spostarsi, in cerca di solitudine, oppure in cerca di altri luoghi da evangelizzare. Limitandoci al monachesimo occidentale, vediamo san Patrizio che da Lerinum, vicino a Nizza, si porta in Irlanda e la evangelizza, fondando un monastero nei pressi di Belfast. Il suo discepolo più importante, san Colombano, dall’Irlanda si muove verso l’Europa continentale, per fondare nuovi monasteri ed evangelizzare i popoli, spingendosi fino in Svizzera ed in Italia; qui fonda rispettivamente i monasteri di S. Gallo e di Bobbio. Anche una generazione dopo, san Boni- Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura 53 facio e Willibrord evangelizzano le popolazioni tedesche fino quasi a spingersi verso gli slavi. Questi ultimi saranno evangelizzati soprattutto dai santi Cirillo e Metodio, e successivamente dai santi orientali Clemente di Ochrida e Gregorio Sinaita. Da san Benedetto da Norcia si sviluppa un movimento monastico fortemente caratterizzante per l’Europa occidentale, la cui diffusione ha riscontro in Oriente con la Regola di san Teodoro Studita al Monte Athos, monastero fondato nel 963 dal monaco Atanasio, e tuttora centro del monachesimo orientale. La Regola benedettina viene ripresa a Cluny, dove il conte Guglielmo d’Aquitania fonda un monastero. I benedettini di Cluny, per essere liberi dalle influenze del sistema feudale, che coinvolge anche le gerarchie della Chiesa, si pongono sotto l’autorità diretta del papa. Essi mettono in evidenza l’importanza della liturgia e della preghiera continua e della povertà, dando il via di fatto alla “riforma gregoriana”. Lo spirito cluniacense si diffonde in tutta l’Europa occidentale, ponendosi al centro della vita della Chiesa nel X ed XI secolo. La centralità di questa esperienza è sottolineata dalla presenza sul soglio pontificio di monaci cluniacensi come Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II. La ricerca di solitudine e di penitenza porta anche alla nascita di nuove forme di vita contemplativa, sempre sul filone dell’esperienza di san Benedetto. Tali sono i Vallombrosani di san Giovanni Gualberto, i Camaldolesi di san Romualdo e soprattutto i Certosini di san Bruno, fondatore della grande Chartreuse, presso Grenoble. Egli si spinge fino alla Calabria, presso Squillace, dove fonda il celebre monastero di Vivarium sotto la protezione dei Normanni. I limiti del movimento sorto a Cluny si evidenziano soprattutto nella pretesa di incarnare in un solo ordine monastico l’essenza del cristianesimo. Alla fine del XI secolo sorge l’istituzione di Citeaux, con l’intento di recuperare l’equilibrio fra lavoro e preghiera, nell’amore fraterno. La Regola cistercense, scritta da Stefano Harding e portata alla sua attuazione da S. Bernardo a Clairvaux, è definita nella Charta Caritatis. Anche i cistercensi conoscono una grandissima diffusione, e favoriscono, nel periodo delle crociate, lo sviluppo degli ordini cavallereschi. Ormai, però, la società è in rapida evoluzione, la civiltà comunale si sta sviluppando rapidamente. Il monachesimo benedettino entra in crisi. Il suo posto sarà soppiantato dal grande messaggio di povertà e di nuova evangelicità veicolato dagli ordini mendicanti e predicato da san Francesco e da san Domenico. C’è un denominatore comune in tutte le varie espressioni della vita monastica, che non è prerogativa esclusiva della Regola benedettina. Esso è anche uno dei tipi fondamentali dell’esperienza cristiana, cioè quello della contemplazione. Questa caratteristica è molto seguita e sentita nei secoli centrali del Medio Evo (sec. IX-XII). Nel Medio Evo, sia per le condizioni difficili della società ed a volte anche della Chiesa, sia perché i papi stessi promuovono a volte riforme anche profonde (come quella gregoriana), la vita contemplativa è oggetto di desiderio spirituale per molti cristiani. Periodicamente singoli individui (soprattutto nobili non primogeniti, chierici o cavalieri), 54 Fabio Cusimano mossi dallo Spirito, si ritirano da soli in preghiera e in penitenza in qualche montagna o foresta isolata, impervia, o comunque distante dalle chiassose città. È l’esperienza della fuga dal mondo, per ritrovare Dio nel silenzio, per rinnovare lo spirito nella purezza dei consigli evangelici. La fama di santità ed i prodigi che accompagnano la vita dell’eremita attirano alcuni discepoli. Si forma una comunità che prega e, dovendo provvedere al proprio sostentamento, lavora la terra o alleva animali domestici. Bisogna tener conto che questa idea non è originale di san Benedetto, nel senso che il monachesimo ha origini orientali:5 il primo monaco di cui viene trasmessa la vita è l’egiziano sant’Antonio Abate. Anche Pacomio e Basilio scrivono regole monastiche. Lo scopo primo di queste regole è quello di dare indicazioni di massima sia alla solitudine degli asceti, sia alle comunità che si formano. La novità di san Benedetto, rispetto al monachesimo orientale, è rappresentata dall’accento posto sulla vita comune. I monaci hanno certo i loro momenti di solitudine, di preghiera e di contatto singolo con Dio mediante l’obbligo della lettura della Bibbia. Però i momenti più importanti sono quelli della preghiera comunitaria, fatta ad ore stabilite durante la giornata: questo è il punto fondamentale della Regola. Grandezza e decadenza del monachesimo benedettino medievale Essere monaci rappresenta, per i cristiani medievali, quasi uno status symbol, la meta della perfezione cristiana. Molte famiglie cercano a tale scopo di dare come oblati i propri figli al monastero, soprattutto se questi non possono rivendicare parte dell’eredità paterna (i “cadetti”), spettante normalmente al primogenito. La teologia stessa ha, lungo quasi tutto il Medio Evo, i suoi maggiori esponenti tra i monaci. Anche il sistema feudale, tipico della mentalità medievale, distingue tre ordini sociali: bellatores (guerrieri), laboratores (lavoratori), oratores (coloro che pregano, cioè i monaci). Ma proprio nel momento del maggior splendore si cominciano a vedere segni di decadenza nel monachesimo occidentale. Le notevoli ricchezze accumulate dai monasteri, le rendite materiali ed il potere che ne deriva rendono insofferente la popolazione. Lo sviluppo della società comunale, lo spostamento Il concetto di monachesimo Europeo proviene dal Medio Oriente; infatti l’ascetismo religioso e la vita monastica non sono peculiari solo del Cristianesimo, ma rappresentano forme in cui l’anima ha cercato in ogni tempo di tradurre la propria sete del divino. Nel IV secolo, in Egitto, in Palestina e in Siria, sulla scia di Antonio il Grande e di altri Padri del deserto, si fecero sempre più numerosi coloro che abbandonavano completamente il mondo per vivere nella solitudine (eremos, da cui il termine di eremita, per indicare gli asceti viventi nel deserto) oppure per associarsi insieme in conventi o cenobi (dal termine greco coinobios, indicante vita in comune), onde ricercare una comunione più intensa con Dio ed innalzarsi verso la santità. In ambito cristiano, Antonio è considerato l’iniziatore della via eremitica e Pacomio di quella cenobitica. 5 Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura 55 dell’asse commerciale verso le città, lasciano spesso i monasteri fuori dalle grandi vie di comunicazione. La popolazione si sposta verso le città, sviluppa il commercio e l’artigianato, con il conseguente decadimento del sistema agrario curtense che caratterizza gran parte dell’Alto Medio Evo. A livello spirituale, poi, i movimenti pauperistici, che predicano “dal basso” il ritorno alla purezza evangelica ed alla primitiva povertà della Chiesa, si combinano con il movimento “dall’alto”, che porta alla riforma di Gregorio VII e al tentativo di riforma pauperistica di papa Pasquale II. C’è un’esigenza di ritorno alle origini evangeliche della Chiesa, alla sua vita apostolica, fatta di predicazione e di povertà. Bisogna anche dire che il monachesimo pretende ad un certo punto di incarnare l’ideale cristiano, quando mai, nella storia della Chiesa un singolo movimento é riuscito a riassumere in sé l’intera realtà cristiana. La nascita degli ordini mendicanti, francescani e domenicani assesta il colpo finale ad una crisi del monachesimo che ormai cova da tempo. Alcuni Benedettini celebri… Innanzitutto san Benedetto da Norcia e sua sorella santa Scolastica. Poi, a dimostrazione dell’importanza raggiunta dal monachesimo benedettino nel Medio Evo, ben nove papi “benedettini” si succedono sul soglio di Pietro: – – – – – – – – – Papa Bonifacio IV (608-615); Papa Gregorio II (715-731); Papa Pasquale I (817-824); Papa Pasquale II (1050-1118); Papa Gregorio VII (1073-1085); Papa Vittore III (1086-1087); Papa Urbano II(1088); Papa Celestino V (1294); Papa Clemente VI (1342-1352). Di fondamentale importanza per la diffusione “europea” del monachesimo benedettino in epoca Carolingia (IX secolo) è l’operato di Benedetto d’Aniane (750821); a volte definito “il secondo san Benedetto”, egli può essere considerato il vero fondatore del monachesimo benedettino che, sebbene le tante modifiche subite nei secoli, è giunto fino ai nostri giorni. Altri personaggi: – San Mauro Abate (IV secolo): è il principale discepolo di san Benedetto 56 Fabio Cusimano – – – – – da Norcia assieme a san Placido. Di lui poco si conosce, se non quello che tramanda papa Gregorio Magno nei suoi Dialoghi. Guido Monaco (991 ca. – 1033 ca.): è un importante teorico musicale ed è considerato l’ideatore della moderna notazione musicale e del tetragramma, che rimpiazzano l’allora dominante notazione neumatica. Monaco benedettino, cura l’insegnamento della musica nell’Abbazia di Pomposa, sulla costa Adriatica vicino a Ferrara. Costantino l’Africano (1020 – 1087): medico, letterato e monaco arabo. Traduce dall’arabo al latino numerose opere che consentono all’Occidente cristiano-latino di riscoprire alcuni classici del mondo greco e di apprezzare i progressi degli arabi nel campo della medicina. Entra nell’ordine benedettino e termina la sua vita nell’abbazia di Monte Cassino ai tempi in cui è abate Desiderio, futuro papa Vittore III. Pietro Abelardo (1079 – 1142): filosofo, teologo e compositore francese. È uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo, precursore della Scolastica e fondatore del metodo logico. Intorno agli anni Venti del XII secolo si ritira nell’Abbazia di Saint-Denis, dove diviene un monaco benedettino. Per alcune sue idee viene considerato eretico dalla Chiesa cattolica in base al Concilio Lateranense II del 1139. Jean Mabillon (1632 – 1707): monaco francese della congregazione benedettina di San Mauro, si dedica agli studi storici e di erudizione ed è considerato il fondatore della Paleografia e della Diplomatica. È ricordato soprattutto per i sei libri del De re diplomatica (1681), ritenuta l’opera fondativa della Paleografia e della Diplomatica moderna. Dom Pérignon (1639 – 1715): monaco presso l’abbazia benedettina di Moremont, all’età di trent’anni si sposta presso l’abbazia di Saint-Pierre d’ Hautvillers, dove ricopre l’incarico di cellario fino alla sua morte, nel 1715. Qui si occupa delle proprietà terriere, dei prodotti coltivati e lavorati ed in particolar modo delle vigne, dei torchi e delle cantine. Grazie a questo incarico, attorno ai quarant’anni, si ritiene abbia inventato (seppure l’affermazione appaia infondata) la bevanda che lo ha reso celebre: lo Champagne... Manuela Girgenti Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale Il problema della giustizia, come anche quello del buon governo di uno Stato, è presente nel pensiero filosofico sin dall’antichità, non tanto per l’esigenza, in nome della comune umanità, di assicurare pari dignità ad ogni singolo individuo, quale che sia la sua estrazione sociale o fede religiosa, ma quanto per sensibilizzare e orientare il potere legislativo alla promulgazione di leggi che abbiano come fine ultimo il bene comune e, soprattutto, la capacità di regolare e tenere a freno la contrastante molteplicità degli interessi e delle passioni individuali. Per i greci solamente le leggi promulgate sotto i dettami della retta ragione, in quanto rispondenti ad una etica universalmente condivisa, possono consentire la crescita di una società e assicurarne il benessere. La Costituzione di uno Stato è infatti perfetta, secondo Crisippo, «se esprime la preminenza della moralità; la legge è la retta ragione che comanda quello che si deve fare e vieta quello che non si deve fare; educazione e saggezza sono requisiti indispensabili per ispirare l’organizzazione delle comunità umane e per perseguire concretamente la giustizia».1 Ma, spesso, queste esigenze di moralità entravano in rotta di collisione con la realtà dei fatti, «dove operavano personaggi senza scrupoli, magari abili nell’arte retorica e nella manipolazione delle coscienze, ma spinti da scopi utilitari e di affermazione personale e non da spirito di servizio. È difficile pensare che uomini politici di tale natura potessero garantire quelle esigenze di moralità di cui sopra si è detto: non a caso Diogene di Babilonia era certo di poter dire che un retore, anche se dotato di esperienza, non potrà fare del bene alla patria se è digiuno di filosofia».2 Ora, se il diritto è un fenomeno sociale, in quanto non può esistere al di fuori della società e una società può esistere e durare indefinitivamente nel tempo solo quando in essa esista un sistema giuridico reale,3 le storture di un sistema giuridico o G. Maglio, L’idea costituzionale nel medioevo, Verona 2006, pp. 10-11. Ibid. Cfr. anche: Diogene di Babilonia, in R. Radice (a cura di), Stoici Antichi, Milano 1998, frammento n.125, p. 1451. 3 G. Barberis, Il regno della libertà, Napoli 2003. 1 2 58 Manuela Girgenti la consapevolezza di una giustizia ingiusta non ledono tanto il concetto del diritto in sé, quanto il suo attuarsi e rivelarsi nel rapporto tra autorità e diritto e, in particolare, nell’eterna e mai superata lotta tra le esigenze di libertà e di sviluppo della collettività in tutte le sue componenti sociali e gli opportunismi e gli interessi di quelle caste o minoranze che occupano il potere in tutte le sue forme istituzionali. Nulla esprime meglio dei vecchi detti proverbiali la sfiducia del popolo nei confronti dello Stato, del diritto e delle istituzioni in genere. La certezza del diritto, al di là delle mere dichiarazioni di principio, si traduce, spesso, nella parzialità del diritto, dove di fatto ogni forma di egualitarismo o di assoluta imparzialità viene calpestata. L’ingiustizia nella società, come è evidente , è dunque un problema antico. Già per i sofisti, «il giusto non è altro se non l’utile del più forte» e, in maniera ancora più chiara, aggiungono «che ogni governo emana appunto le leggi conformi al proprio utile».4 Trasimaco non ha dubbi nell’affermare che ogni governo stabilisce le leggi in base al proprio utile; e una volta che le hanno stabilite proclamano ai sudditi che il proprio utile è giusto e puniscono chi le trasgredisce come persona che viola le leggi e commette ingiustizia. Il giusto è, dunque, l’interesse del potere costituito. Esso ha dalla sua la forza, tanto che il giusto si identifica ovunque con l’interesse del più forte.5 E Ippia aggiunge che «la legge, che è tiranna degli uomini, forza contro la natura molte cose»6 e, pertanto, ne deriva che non hanno senso le distinzioni che dividono i cittadini di una città da quelli di un’altra, né le distinzioni che all’interno delle singole città possono ulteriormente dividere cittadino da cittadino, mostrando, nel contempo, un ideale cosmopolita ed ugualitario, che per la grecità era non solo nuovissimo, ma rivoluzionario.7 Platone, poi, sull’onda dello sdegno per la notizia della condanna a morte di Socrate non esitò ad ammettere in preda allo sconforto che «la giustizia consiste essenzialmente nel giovare agli amici e danneggiare i nemici».8 Da questi giudizi non si discosta molto Erodoto, secondo il quale «la città umana è cattiva e ingiusta per sua essenza e che in tutte le forme con le quali si presenta (monarchia, aristocrazia, democrazia) non rispecchia che una unica e identica realtà: la realtà del potere dispotico».9 «Come non potrebbe essere così? – risponde Clinia all’Ateniese, quando nel M. Untersteiner (a cura di), Sofisti. Testimonianze e frammenti, fasc. III, Firenze 1967, p. 35. Platone, Repubblica, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 338c. 6 Id., Protagora, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, 337d. 7 G. Reale, I problemi del pensiero antico, vol. I, Milano 1972, p. 252. 8 Platone, Repubblica, cit., 334a. 9 A. Koyrè, Introduzione a Platone, Firenze 1973, p. 252. 4 5 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 59 corso del dialogo gli chiede: forse, pensi, che quando una democrazia, o una qualsiasi altra costituzione, o un tiranno, risultino vittoriosi fisseranno di loro spontanea volontà delle leggi che innanzitutto non mirino a nient’altro se non al vantaggio di mantenere a se stessi il comando?».10 È un argomento sul quale, per Platone, occorre riflettere molto, poiché «in quello stato in cui la legge sia comandata e priva di autorità, in quel luogo vedo che la rovina è imminente: laddove, invece, detenga il potere assoluto sui governanti, e i governanti siano asserviti alla legge, intravedo la salvezza, e tutti quei beni che gli dei affidarono agli stati».11 Bisogna, quindi, stare molto accorti nello scegliere gli uomini a cui affidare le sorti dello Stato, poiché, «se si è giovani, irresponsabili e stolti non esiste natura d’anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini»,12 ma, viceversa, una città sarà ben governata «se i governanti saranno ricchi non di oro, ma della ricchezza che deve possedere l’uomo felice, ossia di una vita onesta e saggia. Ma – ribadisce ancora una volta – se le cariche pubbliche sono occupate da individui poveri e affamati di proprietà privata, che pensano di dovere ricavare il proprio guadagno, questa possibilità non potrà sussistere, in quanto il potere diventa oggetto di contesa e una simile guerra intestina e civile manda in rovina loro e il resto della città».13 In realtà, fu proprio la condanna a morte di Socrate, “il migliore degli uomini e il più sapiente”, che spinse Platone ad allontanarsi dalla politica; non solo, ma anche a consigliare al filosofo «di evitare la strada per la piazza e di non conoscere né dove si trova il tribunale, la sede del consiglio, né di alcun altro consesso della città»14 Ma non era una strada né un consiglio praticabile. Platone si rese ben conto che il saggio non poteva vivere isolato come un eremita o dedicarsi alla contemplazione senza alcun rapporto con i suoi simili. Solamente gli animali possono vivere all’interno di una foresta o in solitudine, ma non certamente l’uomo che è un essere sociale. E, allora, come trasformare la città iniqua e ingiusta, riformandola in maniera tale che le sue istituzioni, le sue leggi possano assicurare ad ogni cittadino il rispetto verso il suo prossimo, il culto della virtù e l’amore per il sapere? La risposta per Platone è semplice. Occorre uno Stato nel quale i suoi governanti si propongano di impartire ai propri cittadini “una educazione permanente”, mediante la traccia delle leggi, imponendo che la condotta sia conforme ad esse e punendo, per raddrizzarlo, chi se ne discosta.15 Ma c’è di più. Poiché tra politica e filosofia c’è una perfetta connessione, Platone, Leggi, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, IV, 714d. Ibid., 715d. 12 Ibid., III, 691c. 13 Id., Repubblica, cit., 521. 14 Platone, Teeteto, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 173d. 15 M. Vagetti, Protagora, autore della Repubblica, in G. Casertano (a cura), Il Protagora di Platone: struttura e problematiche, Napoli 2004, pp. 145-58. 10 11 60 Manuela Girgenti in quanto la prima è l’arte dell’anima e la seconda è ciò che la cura,16 ne consegue per Platone che solamente i filosofi potranno guidare al meglio uno Stato, in quanto gli unici capaci di soffocare ogni vocazione totalizzante e di educare il popolo all’acquisizione della virtù e della felicità. Non è abbastanza naturale o almeno ragionevole – sostiene Platone – che si conferisca il potere a colui che sa distinguere il bene e il male, la verità e l’errore, ciò che è reale e l’apparenza? Non è forse più ragionevole lasciare al filosofo la direzione dell’educazione dei giovani, la selezione e la formazione della classe dirigente, la scelta e l’educazione dei futuri governanti della città. Il sapere ha forse meno diritto d’influenzare la direzione dei pubblici affari di quanto ne abbia il coraggio, la ricchezza e il talento oratorio?17 Che, dunque, i filosofi debbano essere i governanti di uno Stato è l’idea di fondo della Repubblica di Platone, ma successivamente, di fronte agli sviluppi storici della sua epoca e ad altre esperienze personali, Platone si rese conto che le idee politiche da lui delineate nella Repubblica difficilmente avrebbero potuto trovare pratica attuazione, poiché – a suo dire – molto spesso la struttura ontologica della corporeità si oppone all’azione ordinatrice e razionale della divinità, consentendo, così, il male e il disordine. Infatti – sostiene Platone – in principio la divinità ha realizzato il cosmo in modo più preciso; alla fine, invece, in modo più fiacco: causa di questo è la sua parte corporea che vi è nella mescolanza, che è la proprietà congenita della natura di un tempo, poiché partecipava di un grande disordine prima di giungere all’ordine attuale. Tutto il bene di cui è provvisto lo possiede in virtù di colui che lo ha escogitato: ma da quella sua condizione di un tempo riceve tutte quante le difficoltà e i difetti che sono nel cielo, e le riproduce negli animali viventi.18 Poiché, dunque, la natura umana si oppone alla sapienza ordinatrice del Demiurgo, rendendo, così, utopistico il governo dei filosofi, Platone ripiega su un assetto politico-istituzionale che quanto meno sorga ad imitazione di quello ideale, ma, soprattutto, capace di elaborare un sistema legislativo che garantisca la giusta misura e che sia eticamente orientato al rispetto della volontà divina. «Conoscere la giusta misura – scrive Platone – è proprio dei grandi legislatori»19 e «quando in un uomo si vengono a trovare la massima forza, unita all’intelligenza Platone, Gorgia, a cura di G. Reale, Bombiani, Milano 2001, 464b. A. Koyrè, Introduzione a Platone, cit., p. 69. 18 Platone, Politico, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 273b-c. 19 Id, Leggi, cit., III, 691d. 16 17 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 61 e alla saggezza, allora nascono la migliore forma di costituzione e le leggi migliori, altrimenti non può nascere nulla di tutto questo».20 Ma c’è una difficoltà, a questo punto, non certamente marginale. Per Platone, infatti, non tutti gli uomini possono dedicarsi all’attività politica, «poiché la scienza che si occupi del potere che viene esercitato sugli uomini è la più difficile e la più importante da procurarsi»,21 così come tra mille o duemila persone è difficile trovare un individuo che eccella nel giuoco degli scacchi. A questo punto, come rileva opportunamente il Ferrari, la logica conclusione è che, poiché «le costituzioni umane, sia monarchiche che democratiche, rischiano inevitabilmente di servire gli interessi di chi governa a scapito dell’intera comunità, solamente un governo in cui il potere provenga dalla divinità, e sia dunque eteronomo rispetto alla comunità umana, garantisce il raggiungimento della felicità e del benessere collettivo».22 Ora, pur sorvolando sull’altalenante scelta di campo di Platone in merito alla sua preferenza su un governo autonomo o eteronomo o sulla difficile possibilità di potere imbattersi in “un uomo regale, sapiente ed assennato”, evento che considera assolutamente fondamentale per potere realizzare uno Stato quanto più possibile perfetto, tanto che, sostiene, «anche se una legge comprendesse perfettamente ciò che è migliore e nello stesso tempo più giusto per tutti, non sarebbe mai in grado di dare gli ordini migliori senza la forza dell’uomo regale assennato»,23 un fatto appare chiaro fra le sue tormentate riflessioni: conoscendo la natura umana, con la precisa coscienza che gli ostacoli contro cui lotta sono insormontabili,24 sembra quasi seppellire ogni possibilità di buon governo o di un corpus giuridico che nasca sotto i dettami della retta ragione. E con un pessimismo, neppure eccessivamente velato, conclude: «in verità, le faccende umane non sono meritevoli di gran cura; tuttavia è necessario occuparsi con passione di esse; il che non è facile».25 Anche Aristotele, pur mostrando, rispetto a Platone, una visione ben più pratica della società, non affronta in maniera chiara ed univoca il problema dell’ingiustizia e dell’intimo rapporto tra potere ed autorità. Ma di questo indubbiamente non possiamo farcene una colpa. Nel V secolo, infatti, l’aspetto etico occupa una posizione centrale nel pensiero politico dei greci, tanto che le leggi – rileva opportunamente Maglio – riflettono sostanzialmente precetti morali e non emerge ancora l’individuazione del concetto di obbligatorietà giuridica distinto dall’obbligatorietà che discende dall’imperativo etico. Anche Ibid., IV, 712a. Id., Politico, cit., 292d. 22 F. Ferrari (a cura di), I miti di Platone, Milano 2006, p. 189. 23 Platone, Politico, cit., 294a-b. 24 G. Colli, Platone politico, Milano 2007. 25 Platone, Leggi, cit., VII, 803b. 20 21 62 Manuela Girgenti la distinzione a noi ben nota fra la nozione di diritto pubblico e quella di diritto privato viene di fatto ignorata o comunque non tematizzata dalla riflessione greca; è prevalente una visione unitaria della vita sociale dove il cittadino e lo Stato non si contrappongono in separate sfere di competenza ma in sostanza si identificano in una visione organica. Quando pertanto riflettiamo sulla presenza di un’idea costituzionale, quale principio regolativo dei rapporti fra il cittadino e lo Stato, in Platone o in Aristotele, dobbiamo evitare l’errore di pensare in termini giuridici: l’affermazione della centralità delle leggi non significa ancora che la politeia, termine aristotelico che possiamo rendere con costituzione vigente in una determinata polis, sia l’atto giuridico fondamentale di un ordinamento tale da consentire dei meccanismi di controllo. È quest’ultima un’idea moderna, ancora lontana dalla cultura e dalla sensibilità dei greci che conoscono un solo modo per opporsi alle leggi che appaiono ingiuste: il rovesciamento del sistema politico che impone l’osservanza di quei precetti contro la volontà dei cittadini, ossia il rovesciamento del regime dispotico. Si tratta di una convinzione che il pensiero medievale farà propria.26 Infatti – sostiene lo Stagirita – «quando le costituzioni mirano all’interesse comune sono giuste in rapporto al giusto assoluto, quando, invece, mirano solo all’interesse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappresentano una deviazione dalle rette costituzioni».27 Il diritto, dunque, è inteso come il principio ordinatore della comunità statale e la giustizia come determinazione di ciò che è giusto. Ad Aristotele, d’altra parte, non interessa tanto indicare un sistema politico ideale, quanto di mettere a confronto aspetti positivi e negativi delle costituzioni del suo tempo e, per quanto ci riguarda, individuare la validità di un sistema legislativo capace di frenare gli egoismi di chi detiene il potere e di far progredire ogni componente della comunità verso la felicità e il bene. A tal fine si chiede: «è più conveniente essere governati dall’uomo migliore o dalle leggi migliori?».28 Aristotele non ha alcun dubbio nell’affermare che una società può progredire verso il bene solamente quando è governata dalle leggi migliori, perché la legge è immune dai sentimenti, non si piega ad interessi di parte e non muta col mutare dei governanti. «Ciò che non ha affatto – sostiene – l’elemento affettivo è meglio di quel che lo ha per natura: ora la legge non possiede tale elemento, mentre ogni anima umana lo ha necessariamente».29 A ulteriore sostegno di questa tesi aggiunge: G. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 6. Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 2002, I, 1253a. 28 Ibid., III, 1286a. 29 Ibid. 26 27 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 63 la legge, data una conveniente istruzione, impone ai magistrati di giudicare ed amministrare il resto secondo il parere più giusto; inoltre dà loro la possibilità di introdurre quell’emendamento che ad essi, dopo varie esperienze, sia sembrato migliore dalle disposizioni stabilite. Quindi chi raccomanda il governo della legge sembra raccomandare esclusivamente il governo di dio e della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo, v’aggiunge anche quello della bestia, perché il capriccio è questa bestia e la passione sconvolge, quando sono al potere anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione senza passione.30 È vero, la legge non ha passione; lex, dura lex recita un vecchio adagio; ma Aristotele lascia insoluto il problema di fondo: se sono i governanti a stabilire le leggi e se i magistrati possono apportare emendamenti ad esse, in base all’esperienza acquisita, quali garanzie hanno i cittadini in merito alla bontà del loro fine? Ma ancora. Esiste un uomo, pur saggio, che non cede mai al capriccio, alla passione o, in parole povere, ricco solo di ragione, ma povero di sentimenti? In tal caso, non avremmo mai un uomo, ma un essere che di umano ha ben poco. In merito a tale questione lo Stagirita non entra nel merito, ma si limita ad aggirare il problema, prospettando due soluzioni che nella realtà non danno alcuna garanzia alla comunità in merito all’imparzialità della legge e al rispetto della dignità e libertà di ogni cittadino da parte dei governanti. Nella prima è dell’idea che sotto il profilo giuridico ogni comunità faccia riferimento al diritto naturale, le cui consuetudini, essendo per tradizione condivise dalla società in cui si vive, appaiono indipendenti dal capriccio dei governanti e rispecchiano maggiormente gli interessi della collettività. Come seconda alternativa non vede altra soluzione che quella di affidare ad un uomo, universalmente riconosciuto come il più saggio, il compito di stilare un ordinamento legislativo a cui tutti, governanti e cittadini, dovranno sottostare. Ma, in particolare, nel merito, il concetto di fondo è quello di seguire la retta ragione e di educare le giovani generazioni nel culto della tradizione, ma, soprattutto, a coltivare la virtù; strumenti, questi ultimi, che certamente potrebbero contribuire a ridurre al minimo il pericolo di scosse o sconvolgimenti politici e sociali. Fra l’altro, le perplessità di Aristotele su tale argomento appaiono ancora più evidenti nell’Etica Nicomachea, quando sostiene che le cose moralmente belle e le cose giuste, intorno alle quali verte la politica, hanno molta diversità ed instabilità […] ciascuno giudica bene le cose che conosce e di questo è buon giudice. Di conseguenza in ogni settore è buon giudice chi in esso si è acculturato, ed è buon giudice in assoluto chi si è acculturato in ogni campo. Per questo il giovane non è un ascoltatore adatto delle lezioni 30 Ibid., 1287a. 64 Manuela Girgenti di politica; egli, infatti, è inesperto delle azioni della vita, ed i ragionamenti di questa scienza procedono da queste e vertono intorno a queste. Inoltre, essendo incline a seguire le passioni, ascolterà invano ed inutilmente, poiché il fine della politica non è la conoscenza, ma l’azione. E nulla importa che sia giovane per età o giovanile di carattere, giacché il difetto non è dovuto al tempo, ma ha la sua causa nel vivere secondo passione e nel perseguire qualunque tipo di cosa si presenti. Per le persone di questo genere, infatti, la conoscenza è inutile, come lo è per gli intemperanti.31 Per quanto concerne, infine, il concetto di giustizia, Aristotele appare lontano anni luce dalla sensibilità moderna. Non solo sostiene la superiorità dell’uomo sulla donna e, di conseguenza, giudica del tutto normale che il primo comandi e che l’altra, in quanto inferiore, venga comandata, ma giustifica a pieno titolo la schiavitù, giudicando la subordinazione una necessità naturale, poiché è giusto che gli uomini migliori, capaci di dominare gli istinti bestiali, abbiano a loro sottomessi quelli dotati più di forza fisica e quindi idonei a servire come schiavi. Comandare e essere comandato – sostiene Aristotele – non sono solo tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare […] quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si ritrovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre) costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità.32 Già nel mondo antico, dunque, molti filosofi, pur riconoscendo l’inadeguatezza del loro sistema giuridico e della gestione del potere, più che mettere in luce i difetti del loro sistema politico e giuridico, hanno preferito disegnare un loro modello politico, descrivendo come – a loro modo di vedere – dovrebbe essere idealmente uno stato modello. La conclusione è stata che focalizzando la loro attenzione sulle utopie politicoistituzionali, hanno finito col trascurare le storture esistenti, consentendo nel tempo a queste ultime di accreditarsi di legittimità e di rafforzarsi all’interno del tessuto sociale. Sotto questo aspetto, la visione filosofica-politica di Epicuro è scevra da una visione ottimistica della natura umana. Per quest’ultimo, gli uomini che si dedicano alla politica sono mossi esclusivamente dal desiderio di potenza, ricchezza e gloria. Di conseguenza, il diritto, le leggi e la giustizia non hanno come fine il benessere collettivo, ma unicamente il vantaggio di pochi. Epicuro, infatti, tiene a sottolineare che se lo Stato avesse come fine ultimo l’affermazione dei valori morali e la tutela di ogni singolo uomo, ci troveremmo di fronte a un diritto universalmente valido per ogni popolo. 31 32 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, Bur, Milano 2002, 1194b-1195. Id., Politica, cit., I, 1254a-b. Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 65 «Nell’aspetto generico – scrive Epicuro – il diritto è uguale per tutti, perché è qualche cosa di utile nei rapporti socievoli; ma, per le particolari differenze dei vari luoghi e d’ogni maniera di condizioni, ne consegue che non il medesimo è per tutti il diritto».33 «Ridicola giustizia – scriverà molti secoli dopo Pascal – limitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là […] Che c’è di più ridicolo di questo: che un uomo abbia il diritto di uccidermi solo perché abita sull’altra riva e perché il suo sovrano è in lite col mio, sebbene io non ne abbia alcuna con lui».34 La giustizia, di conseguenza, non ha una valenza universale, ma relativa, che sembra avere principalmente come fine il raggiungimento dell’utile per una ristretta casta. Con una visione assolutamente rivoluzionaria, per i tempi, sono stati gli stoici a coltivare una visione meta politica e universalistica del diritto. Vi è, infatti, in questi ultimi, una maggiore attenzione al concetto di diritto naturale, sviluppato in chiave razionalistica, nel senso che per loro «la legge umana non è altro che l’espressione di una legge naturale eterna, che nasce dal logos stesso che plasma tutte le cose, il quale, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male e, dunque, impone obblighi e divieti».35 La simbiosi fra diritto naturale e retta ragione si traduce, così, in un diritto universale, dove, affermando l’uguaglianza fra tutti gli uomini, non trova più giustificazione la distinzione fra nobili e plebei o fra uomini liberi e schiavi. L’idealismo degli stoici, che affrontava il problema delle leggi e dello Stato in una prospettiva essenzialmente etica, cozzava però contro una realtà nella quale «operavano personaggi senza scrupoli, magari abili nell’arte retorica e nella manipolazione delle coscienze, ma spinti da scopi utilitari e di affermazione personale».36 In sintesi, il pensiero politico dello stoicismo trovava la sua radice nella centralità del concetto di diritto, un concetto che si diffonderà in ampi strati dell’elite intellettuale romana, da Seneca a Marco Aurelio, e in particolare in Cicerone, secondo il quale la legge di natura, o legge della ragione, è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini e tutte le latitudini. Solo la legge di natura, per Cicerone, incarna la giustizia ed è superiore a tutte le leggi umane positive.37 Ma se le leggi sono generalmente poste da chi detiene il potere, da dove vengono le leggi cui dovrebbe obbedire lo stesso governante? Il dilemma è solo apparente, poiché, sottolinea Bobbio, le risposte date dagli antichi a questa domanda hanno messo in evidenza che «oltre alle leggi poste dai governanti vi sono altre leggi che non dipendono dalla volontà dei governanti e sono o le leggi di natura, derivate dalla stessa natura dell’uomo vivente in società, oppure le leggi la cui Epicuro, Massime capitali, a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 2007, n. 37. B. Pascal, I pensieri, Milano 1966, pp. 294-295. 35 G. Reale, I problemi del pensiero antico, cit., p. 303. 36 G. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 11. 37 Cicerone, De legibus, Zanichelli, Bologna 1985. 33 34 66 Manuela Girgenti forza vincolante deriva dall’essere radicate in una tradizione».38 Nella realtà, il concetto di una giustizia intesa come una qualità dell’anima che, rispettata la comune utilità, accorda a ciascuno la sua dignità, pur affiorando nell’antichità, come abbiamo già visto, in qualche pensatore illuminato, stentava ad affermarsi. Il problema non era semplice, poiché occorreva distinguere tra chi concepiva la legge non in sé, ma in riferimento ad altro, e tra coloro, invece, che concepivano la legge in sé, considerandola solamente uno strumento di giustizia e di progresso sociale. Sotto questo aspetto, ma sempre con le dovute cautele, un clima nuovo sembrò potersi respirare a Roma nel periodo repubblicano, quando le decisioni delle assemblee della plebe vennero parificate a quelle dei più antichi ed aristocratici comizi curiati e centuriati, equiparando con ciò le leges ai plebiscita. «Questo sistema di assemblee – rileva Maglio – rendeva di fatto possibile un vero e proprio controllo popolare anche allo scopo di impedire che le supreme cariche dello Stato romano superassero i confini della legalità, trasformandosi in organi autoritari».39 Ma, quando Roma cominciò ad allargare i suoi confini e di conseguenza si impose la necessità di legiferare con immediatezza e senza vincoli formali, l’importanza delle assemblee popolari diminuì sino a ridursi a un valore di carattere simbolico. Spegnendosi la forza propulsiva del periodo repubblicano, la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si tradusse anche nella concentrazione delle fonti di produzione del diritto […] la lex diventa sempre più espressione del volere dell’imperatore, figura ormai affrancata da limiti giuridici e soggetta a deboli influenze politiche, anche per la decadenza dell’autorità del Senato.40 Ora, seppure non si può negare che furono proprio le istituzioni romane a gettare le basi per lo sviluppo del pensiero politico e a vedere nell’ordinamento giuridico e, quindi, nel diritto la centralità dello Stato, dall’altro è pur vero che nella realtà siamo ancora lontani da una comunità politica dove le ingiustizie e le disuguaglianze sociali siano state debellate. Anzi, sia pure con una sommaria e superficiale lettura della storia romana, appare vero il contrario. Fu solo con l’affermarsi del cristianesimo che la dignità di ogni singolo individuo, in quanto creato da Dio, acquistò un valore assoluto e infinito. In tal senso, oltre al discorso della montagna di Gesù, apparvero rivoluzionarie le parole di Paolo: «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».41 N. Bobbio, Stato, governo, società, Torino 1985, p. 87. G. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 14. 40 Ibid., pp. 16-17. 41 Paolo, Lettera ai Galati, a cura di D. Manetti - S. Zuffi, Mondadori, Milano 2006, 3, 28. 38 39 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 67 Ma anche il cristianesimo, ad eccezione di alcune eccellenze o santità, nel momento in cui cominciò ad imporsi come potere politico, oltre che religioso, e quindi a doversi rendere disponibile ai gravi compromessi cui l’esercizio della politica costringe la spiritualità, disilluse ben presto i suoi fedeli. Paolo, infatti, la più brillante intelligenza politica del cristianesimo delle origini, dapprima lanciò un nuovo messaggio di amore e carità sociale, capace di fare breccia fra le masse di emarginati, ma contemporaneamente si preoccupò di non urtare le istituzioni. Ciascuno – scrive Paolo – stia sottomesso alle autorità costituite; perché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna […] perciò è necessario stare sottomessi.42 In sintesi, malgrado le parole di speranza in un mondo più umano, i cristiani dovevano continuare a rassegnarsi ad essere servi o schiavi, a vedere calpestati i loro diritti umani e a sopportare le ingiustizie. Anzi, che offrissero a Dio le loro sofferenze, le umiliazioni e i soprusi, perché Dio li ricompenserà nell’altra vita, quando entreranno di diritto in un regno che non è di questo mondo. La posizione di Agostino di Tagaste non si discosta molto da quella paolina. Secondo quest’ultimo, infatti, la dipendenza di un uomo da un altro uomo e l’ingiustizia che riscontriamo spesso in questo mondo sono una conseguenza del peccato originale e della natura corrotta di ogni singolo individuo. «Si deve capire – scrive Agostino – che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo peccatore […] Il Padrone di tutti dice: Chiunque commette peccato è schiavo del peccato; per questo molti fedeli sono schiavi di padroni ingiusti ma non liberi perché ciascuno è aggiudicato come schiavo a colui dal quale è stato vinto».43 Lo schiavo, dunque, accetti con rassegnazione il suo stato, offrendo a Dio le sue pene nell’ottica di una sofferenza in un corso di cammino che lo eleverà moralmente e spiritualmente. Perciò l’Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà. Così, se non possono essere lasciati in libertà, essi stessi rendano libera la propria schiavitù, non prestando servizio con perfida paura, ma con affetto leale perché abbia fine l’ingiustizia e siano privati di significato la supremazia e il potere umano, e Dio sia tutto in tutti.44 Ibid., Lettera ai Romani, 13, 1-6. Agostino, La città di Dio, Città Nuova, Roma 2000, p. 1057. 44 Ibid., p. 1058. 42 43 68 Manuela Girgenti Quella di Agostino appare come una politica sociale particolarmente anestetizzante. Se è la giustizia divina che ha diviso il mondo terreno fra padroni, schiavi e servi, in seguito alla caduta del peccato originale e all’uomo peccatore, anche la povertà, così, nell’ottica della morale cattolica svolge una funzione etica, poiché, senza il povero, il ricco non potrebbe guadagnarsi alcun merito. Ecco, quindi, il ruolo privilegiato del povero all’interno della società. Quest’ultimo, simile al Cristo, pur nelle sue quotidiane sofferenze, tiene in mano le chiavi del paradiso con le quali potrà consentire al ricco, attraverso le elemosine, di guadagnarsi il regno celeste. Ma, nel contempo, raccomanda ai sovrani, ai ricchi e ai potenti di non lasciarsi prendere dalla brama del signoreggiare, «ma dal dovere di provvedere, non nell’orgoglio dell’imporsi, ma nella compassione del premunire».45 Quello che, dunque, deve prevalere in ogni uomo, per Agostino, sia esso padrone o servo, è il senso della giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo. Di un comportamento contrario, ogni uomo ne risponderà a Dio, che tutto vede e a tutto provvede. «Qualsiasi male si infligge dai potenti ingiusti non è per i giusti pena di un delitto, ma prova della virtù. Quindi, la persona onesta, anche se è schiava, è libera; il malvagio, anche se ha il potere, è schiavo e non di un solo individuo, ma, che è più grave, di tanti padroni quante sono le passioni».46 Se manca la giustizia, se non viene rispettata dai governanti, che cosa sono gli Stati – sostiene Agostino – se non delle grandi bande di ladri? Non sono forse anche le bande dei briganti dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti, non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere, ma da una maggiore sicurezza nell’impunità.47 A tal proposito, ricorda la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata che era stato fatto prigioniero. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E il pirata con franca spavalderia: «la stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta».48 Ma se gli Stati non assicurano la giustizia, se il succedersi degli imperi nel corso della storia si macchiano di atroci delitti contro l’umanità, come, ad esempio, l’impero romano, le cui con- Ibid., p. 1056. Ibid., p. 171. 47 Ibid. 48 Ibid. 45 46 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 69 quiste non furono solamente una conseguenza del valore dei suoi soldati, ma anche una politica senza scrupoli che non arretrava nemmeno davanti allo sterminio totale di popolazioni pacifiche, come può alla lunga l’uomo continuare a nutrire fiducia nella provvidenza divina? La risposta per Agostino è semplice. L’operare divino nella storia trascende i nostri disegni e la provvidenza divina prevede e oltrepassa le intenzioni degli uomini. Nella lotta tra il bene e il male, tra la civitas terrena e la civitas Dei quel che veramente conta è il cammino verso la meta ultraterrena. Quel che noi, in sintesi, chiamiamo progresso o divenire della storia non avviene a caso o ad opera di alcuni uomini, ma attraverso un processo diretto da Dio. In questo senso la grandezza degli imperi è solo un aspetto transitorio, per cui, ad esempio, la vera grandezza della Roma imperiale fu quella di mantenere la pace sulla terra come condizione per la diffusione del Vangelo. In questo senso, dunque, «il progresso non è altro che un interminabile pellegrinaggio verso un fine ultraterreno».49 Ma, quel che è peggio in questa peregrinatio, che educa attraverso il dolore e che non ci permette di potere cogliere il senso dello sviluppo voluto da Dio, è il concetto agostiniano – a meno che non si preferisca il caos – della necessità di dovere spesso ingannare il popolo per il suo bene e, soprattutto, di convincerlo che sia ragionevole ciò che precedentemente era stato introdotto senza ragione. In poche parole, con un machiavellismo ante litteram, che al disordine sociale sia preferibile l’ingiustizia. Da un lato, quindi, un pensiero cristiano che fa appello ad una diversa concezione della vita e della storia dell’uomo, ma dall’altro per opportunismo politico lo stesso pensiero si pone come garante, nei confronti del potere laico, di una stabilità politica e sociale, attraverso un accecamento delle coscienze. Ma, da un lato, va pure rilevato che il processo di divinizzazione del potere imperiale e, dall’altro, la progressiva affermazione del cristianesimo con la sostanziale svalutazione delle istituzioni terrene, concorsero a marginalizzare la trattazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini. Il cristianesimo dei primi secoli, infatti, animato dall’ansia ultraterrena e dalla convinzione che il Regno di Dio non è di questo mondo, fu dell’idea che «la salvezza dell’anima deve essere la vera occupazione del cristiano, perché la libertà vera non può esistere nel tempo, ma solo nella comunione dei Santi».50 In attesa, dunque, della venuta del Regno di Dio e per una sostanziale ripugnanza per le cose di questo mondo, si registra nel pensiero cristiano, come naturale conseguenza, una sorta di distacco e di scarso interesse per il diritto. Sotto questo aspetto, appare più interessante e ricco di stimoli speculativi, pur nella sua apparente semplicità, il pensiero ebraico e, in particolare, quello maimonideo che, seppure volutamente ignorato, non mancò di influenzare grandi pensatori cristiani come, ad esempio, Tommaso d’Aquino. Essenzialmente ottimista, l’ebraismo non vede nel mondo il male e non crede che la 49 50 K. Lowith, Significato e fine della storia, Milano 1972, p. 195. G. Maglio, L’idea costituzionale nel medioevo, cit., p. 20. 70 Manuela Girgenti vita sia gravata da una maledizione. La vita, anzi, è bellissima e Dio vuole che l’uomo gioisca di tutte le cose belle di cui la terra è piena (e Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona, Genesi: 1,31). Né l’ebraismo ha mai considerato il corpo come cosa impura o gli aspetti umani come radicati nel male (l’uomo farà lieta la moglie che ha sposato, Deuteronomio: 24,5). Il corpo umano, ogni corpo umano, è il sacro vaso in cui si cela una scintilla divina, l’anima, e come tale bisogna conservarlo in ottima salute. Nel giudaismo, inoltre le distinzioni fra ebrei e non ebrei sono solo di ordine religioso e non esistono distinzioni sociali o politiche. Bisogna, infatti, ricordare che, secondo la religione ebraica, Israele è stato scelto per rivelare l’amore che Dio porta a tutta l’umanità, ragion per cui l’uomo deve proporsi di allontanare da sé tutto ciò che contrasta col volere di Dio e, nello stesso tempo, di consacrarsi al suo servizio, resistendo a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana. In poche parole: di obbedire a un’etica incentrata sul servizio del prossimo. I precetti e le prescrizioni, presenti copiosamente nei testi sacri giudaici, non servono solamente a coltivare e sviluppare le più elevate qualità umane, ma contengono una carica di dinamismo morale, capace di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli fa parte. A fondamento della morale troviamo, infatti, l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi nell’accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. Un senso della giustizia che deve anche manifestarsi nella maniera di concepire i beni terreni, poiché il loro possesso deve considerarsi non come un diritto naturale, ma come un debito con Dio. Sotto questo aspetto, l’etica nel pensiero giudaico si manifesta, in contrasto con tutti i codici dell’antichità, in tutta la sua originalità, poiché la Torah oppone alla difesa della proprietà il concetto di protezione della personalità. «Il massimo della virtù umana – scrive Maimonide – sta nell’assimilarsi a Dio secondo le possibilità dell’uomo, ossia nel rendere i nostri atti simili ai Suoi».51 Secondo il filosofo di Cordova, è solo attraverso l’azione etica che l’uomo può conoscere Dio e portare a compimento la missione per cui è stato creato: imitare e assimilarsi a Dio. La religione ebraica è, dunque, «la religione dell’atto, dell’azione, non la religione del dogma, della teoria».52 Ne deriva, così, che l’azione ricopre un ruolo superiore a quello svolto dalla teologia con i suoi dogmi, poiché conoscere Dio non vuol dire capirne intellettualmente l’essenza, ma seguirlo nelle sue vie, fare quello che egli fa o che ordina che si faccia. Seguire Dio nelle sue vie presuppone, dunque, che l’uomo possegga un grande spessore morale e che la sua azione scaturisca da una volontà altamente etica. Conoscere Dio, 51 52 Maimonide, La guida dei perplessi, Utet, Torino 2003, p. 202. D. Lattes, L’idea di Israele, Firenze 1999, p. 72. Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 71 infatti, vuol dire adempiere al bene, amare Dio vuol dire amare gli uomini.53 L’azione presuppone, quindi, un atteggiamento etico dell’uomo, rivolto non esclusivamente a Dio, ma a tutto il creato e, in particolar modo, agli uomini. La vera conoscenza di Dio – afferma più volte Maimonide – è la conoscenza non del suo essere, ma della sua attività: l’uomo può conoscere di Dio, in senso positivo, soltanto quegli attributi che sono definibili come “attributi d’azione”, cioè il fatto che egli ama gli uomini ed esercita giustizia verso di loro. La conoscenza di Dio, di conseguenza, non isola l’uomo solamente nella contemplazione, ma lo spinge anche a tornare tra gli uomini per vivere con loro e per insegnare loro la verità. Dio rappresenta il modello delle azioni umane e l’uomo assume Dio come suo modello, quando, amandolo più di ogni altra cosa, agisce nel mondo amando le sue creature e praticando la giustizia verso di esse. È solo attraverso l’osservanza della Legge, animata dalla conoscenzaamore di Dio, che gli esseri umani possono contribuire all’attuazione di un’età in cui il nome divino sarà riconosciuto da ogni popolo e da ogni individuo. Ogni essere umano che agisce secondo carità ed equità nei confronti degli altri uomini, innanzitutto coloro che gli sono prossimi, affretta – secondo Maimonide – quell’era messianica che riguarderà, infine, tutta l’umanità. È chiaro, a questo punto, che il problema fondamentale dell’ebraismo non è quale sia l’azione giusta né quale sia l’intenzione giusta, ma quale è il modo di vivere giusto. Ne deriva che l’ebraismo ha una visione integrale e individuale della vita dell’uomo, di maniera che la sfera interiore non è mai distaccata dalle azioni. Viceversa, la causa dell’insuccesso dell’etica nella vita individuale e sociale deriva dal fatto che, mentre ammiriamo gli ideali, tralasciamo di procurarci i relativi strumenti per raggiungerli. Per Maimonide, le mizvoth sono i veicoli, gli strumenti con i quali avanziamo verso la realizzazione dei fini spirituali e dei valori. Le idee si devono convertire in azioni, le intuizioni metafisiche in disegni per l’azione, i principi più elevati devono essere rapportati alla condotta di tutti i giorni. La Legge è, quindi, strumento propedeutico per il conseguimento di rette opinioni, in quanto le opinioni non durano se non sono accompagnate da azioni che le fortificano e le perpetuano nella massa. Di conseguenza, la legge e i precetti non sono «una cosa vacua e senza fine vantaggioso, e se a voi sembra che in uno dei precetti le cose stiano così, la manchevolezza sta nella vostra comprensione»54 e, pertanto,«il complesso dei precetti ha necessariamente una causa ed è stato fissato in vista di una qualche utilità».55 La Legge, dunque, è di per sé una forza pedagogica che conduce alla perfezione etica ed Ibid., p. 59. Maimonide, La guida dei perplessi, cit., p. 611. 55 Ibid., p. 612. 53 54 72 Manuela Girgenti intellettuale e, quindi, un efficace strumento di educazione e di edificazione. La Legge richiede, in quanto tale, di essere compresa ed apprezzata, obbedita e messa in pratica. In particolare, Maimonide distingue nei precetti tre finalità: principi di utilità e giustizia sociale per il conseguimento di una collettività civile, principi di bontà e di amore del prossimo per lo sviluppo di una personalità etica e, infine, principi di perfezione intellettuale per una vera conoscenza ed esperienza di Dio. Per Maimonide, dunque, il perfezionamento materiale e il miglioramento del livello della socialità sono indispensabili per il raggiungimento del livello ultimo della perfezione spirituale, perché se non c’è una pace sociale, se non c’è una società ordinata e pacifica, l’individuo non può concentrasi e acquisire la conoscenza metafisica. La riscoperta dei testi aristotelici, grazie ai commentari dei filosofi arabi e al non indifferente apporto della filosofia ebraica, seppur guardati con sospetto dalla Chiesa per il timore che il loro contenuto potesse contaminare il pensiero cristiano, favorì una ripresa degli studi politici con una prospettiva più attenta al sociale rispetto al passato. In questa ottica, Tommaso D’Aquino, in particolare, cercò di cogliere il rapporto determinante fra ragione umana e principi di diritto naturale, un rapporto, fra l’altro, finalizzato alla ricerca di una armonia universale nella quale i due termini di paragone, anziché entrare in conflitto, tendessero a coincidere. Sotto questo particolare aspetto, è innegabile che il pensiero di Tommaso non abbia subito l’influsso di Aristotele, ma, come abbiamo già visto, anche quello di Maimonide. D’altra parte non può essere diversamente, se consideriamo che l’aristotelismo napoletano, nel cui ambito si formò Tommaso D’Aquino è maimonideo, mentre quello parigino, dove nella maturità si sarebbe formato l’Aquinate, è averroista. Basterebbe ricordare che Mosè da Salerno, il primo commentatore del capolavoro filosofico di Maimonide, La guida dei perplessi, fu in rapporto con Pietro d’Irlanda, domenicano, professore nello Studium di Napoli e maestro di Tommaso. Come se non bastasse, l’Aquinate cita più volte Maimonide nei suoi scritti, nei quali si trovano ben ventiquattro rimandi. In ogni caso, all’interno della teologia cristiana, è merito di Tommaso il tentativo di dare nuova dignità all’uomo cittadino, calato in un mondo che non necessariamente debba essere il regno del male; tutt’altro. Tommaso, infatti, è dell’idea che la ricerca della felicità naturale, anche se imperfetta e non una vera e propria beatitudine, possa essere un obiettivo non riprovevole.56 Ciò scaturisce dalla convinzione che la legge che regola l’universo è emanazione della volontà di Dio, che ordina ogni cosa in vista del meglio. Ora gli uomini, in quanto forniti di ragione, partecipano dell’eterna legge divina, di cui quella naturale è il riflesso. La legge naturale, dunque, di per sé prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo e proibisce tutto ciò che va contro questo fine, per cui Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, a cura di R. Coggi, ed. Studio Domenicano, Bologna 1996, I-II, q.5, a.3. 56 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 73 «le sue prescrizioni sono finalizzate al bene comune […] essa prescrive di fare il bene e di evitare il male; di non fare del male a coloro con i quali viviamo; di tendere a una vita in cui si realizzi la natura razionale dell’uomo».57 Tommaso, però, non ignora che nell’uomo possano anche albergare bassi istinti e che le passioni, la cupidigia o anche una semplice forma di egoismo possano allontanarlo dalle azioni virtuose, ostacolando, così, la sua visione teleologica, secondo la quale la ragione e la volontà operano costantemente per realizzare nel mondo terreno forme più perfezionate di convivenza e forme istituzionali, capaci di assicurare la giustizia, la pace sociale e di garantire, quindi, la realizzazione della felicità terrena dell’uomo. Gli Stati, il diritto e le leggi, in quest’ottica, servono proprio ad evitare che le passioni o gli istinti più bassi dell’uomo possano prendere il sopravvento. Lo Stato, quindi, non è, come per Agostino, un male inevitabile, conseguente al peccato originale, ma una istituzione che rientra nei fini imperscrutabili di Dio. Esso ha il compito di educare gli uomini alla virtù, di favorire la loro crescita spirituale e di orientare ogni loro singola azione verso il bene comune. La legge, di conseguenza, è finalizzata non a vantaggio di un singolo o di pochi, ma all’utilità di tutti i cittadini. Interviene, inoltre, per dare il giusto castigo a quanti ostacolano il processo teleologico della realtà nella piena convinzione di una giustizia che deve dare a ciascuno il suo. Ogni società – sostiene l’Aquinate – deve avere «un principio unificatore, perché una massa di individui in cui ognuno pensasse a procurarsi ciò che va bene per sé si sfalderebbe, se non ci fosse anche qualcuno che si interessasse del bene della moltitudine».58 E più oltre aggiunge: «se colui che la governa la ordina comunque al bene di tutti avremo un governo retto e onesto […] al contrario se il governo è ordinato non al bene comune della società, ma agli interessi privati di colui che comanda, si attuerà un regime ingiusto e perverso».59 Compito dello Stato, in sintesi, è quello, non solo di assicurare ai cittadini una sufficiente quantità di beni materiali, senza i quali non ci sarebbero condizioni di vita serena, e di adoperarsi per un continuo miglioramento degli stessi, ma anche di educarli ad una vita virtuosa, finalizzata «ad un fine superiore che consiste nel godere di Dio».60 Ma se un sovrano dovesse calpestare le leggi e più che al bene comune mostrasse di curare il proprio vantaggio, quale dovrebbe essere la reazione del popolo? Qui la posizione dell’Aquinate risulta particolarmente ambigua. Da un lato sostiene che la ribellione sarebbe giusta, ma dall’altro è del parere, escludendo in ogni caso l’uccisione del despota, che sarebbe meglio non ribellarsi al fine di evitare disordini sociali che potrebbero portare mali peggiori. In una tale S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Torino 2003, p. 69. Tommaso D’Aquino, De regimine principum, in Opuscoli politici, a cura di L. Perotto, Bologna 1997, libro I, cap.1, pp. 32-33. 59 Ibid., libro I, cap. 2, p. 36. 60 Ibid., libro I, cap.15, pp. 93-94. 57 58 74 Manuela Girgenti eventualità è preferibile rivolgersi a Dio e richiedere il suo intervento provvidenziale, «perché Dio fa si che dopo la bufera che essi avranno scatenato sul popolo vengano eliminati e ciò riporta la pace».61 In breve, Tommaso ripropone una teocrazia pontificia, giacché, pur distinguendo le due sfere (potere politico e potere religioso), nella realtà, subordina il primo al secondo, se compito del sovrano è principalmente quello di educare il popolo ad acquisire le virtù religiose in vista della beatitudine eterna. Il sovrano deve, dunque, assicurare pace sociale, giustizia e mezzi sufficienti per vivere, ma il tutto deve essere finalizzato ad un fine più alto che non è altro che la beatitudine celeste. È inevitabile che con questi presupposti il potere politico venga subordinato a quello religioso e che a buon diritto il pensiero dell’Aquinate possa essere considerato come uno dei principali pilastri teoretici di una visione politica teocratica. Malgrado nel suo pensiero non manchi una maggiore attenzione per i problemi sociali in genere, è pur vero che l’idea di giustizia presente in Tommaso è molto parziale, blanda e sotto certa aspetti strumentale. Prevalendo la vox Dei, manca nell’Aquinate il concetto di indipendenza del diritto. Silete theologi in munere alieno si affermava nei secoli passati per rivendicare al diritto la sua autonomia dal dogma religioso, «poiché ogni volontà che vuole trasformarsi in diritto […] deve farsi procedura, passare al filtro di numerosi controlli, istituzionalizzarsi e, dunque, oggettivarsi. Fuori di ciò, nel sentimento spontaneo o nella volontà di chicchessia, non c’è diritto, ma distruzione del diritto».62 Va inoltre rilevato, sempre in riferimento allo svolgersi del pensiero di Tommaso D’Aquino, che non sempre ciò che è ragionevole obbedisce a una istanza etica universale. Spesso in nome della libertà e della giustizia si arriva a negare proprio la libertà e la giustizia. Bisogna tenere presente che nella promulgazione di un codice legislativo la valutazione di ciò che rientra nel concetto di libertà o di giustizia è sempre in riferimento a ciò che si presuppone sia collegato al contenuto del codice stesso. Tutto ciò che resta fuori è eversione e, in quanto tale, degno di condanna e di pena. Considerare, a tal proposito, più o meno legittimo un comportamento, in riferimento ai precetti di un credo religioso, è un’idea che nasconde molte ambiguità e nega ogni principio di libertà. L’Aquinate non si sognerà mai, infatti, di difendere i diritti delle minoranze e, in particolare, quelli di chi dissente o non si allinea. Anzi, era dell’idea che l’eretico meritasse di essere bruciato, così come per Bernardo di Chiaravalle uccidere un eretico non era un omicidio, ma un malificio, benedetto da Dio. Il tentativo di fondare, in opposizione ad una teocrazia pontificia, una seria e innovativa teoria della sovranità popolare si deve a Marsilio da Padova. Un tentativo non facile per quest’ultimo, tenendo anche conto che le tendenze organiche ed unitarie dell’aristotelismo avevano enormemente contribuito a dare man forte alla nuova 61 62 Id., De regimine principum, in Opuscoli, cit., libro I, cap. 11, p. 78. G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Roma-Bari 2008, p. 121. Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 75 prassi dell’accentramento politico. In poche parole, avevano contribuito a rompere l’empirico compromesso che, dal V all’XI secolo, aveva caratterizzato il potere temporale e quello religioso, tra cui vigeva una coesistenza pacifica, senza pretese di dominio dell’uno sull’altro. Era opinione largamente condivisa che ciascuno dei due poteri derivasse direttamente da Dio e che ognuno fosse indipendente dall’altro nella propria sfera. I testi politici di Aristotele, come dicevamo, sollevarono la questione del primato tra i due poteri. Nella contesa, il Sommo Pontefice «riuscendo più tempestivamente ad affermare la propria monarchia, e avendo a suo favore il privilegio della più alta natura spirituale della propria funzione, conseguiva le prime vittorie e, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, fissava in una forma definitiva, la dottrina della teocrazia ecclesiastica».63 Una posizione, quest’ultima, che scaturiva dalla convinzione che se il papa ha la potestas ligandi in caelo et terra, ne consegue che ha il potere di giudicare, non solo sulle cose celesti e spirituali, ma anche sulle cose temporali. Ogni autorità imperiale nasce, di conseguenza, dalla delega del papa, che ha il potere di rimuovere ogni sovrano che non si attiene alle sue direttive. È facilmente comprensibile che in un clima culturale e politico siffatto, nel quale la presenza e il controllo della Chiesa è soffocante, non ci possa essere il minimo spazio per la libertà, la giustizia e il confronto dialettico. Contro tali pretese si schierò in aperta e violenta polemica, come dicevamo, Marsilio Ficino, a tal punto che, sebbene l’idea moderna di sovranità fosse estranea al mondo medievale, pur tuttavia è in questo intellettuale che va ricercata la sua genesi. Per il Ficino, infatti, la sovranità risiede solamente nel popolo, che non potrà mai alienarla o, tutt’al più, delegarla a un governante supremo o a dei magistrati non in senso assoluto, ma solo relativo. Il legislatore deve solamente preoccuparsi, nel pieno rispetto della volontà popolare, di assicurare il bene comune, la pace, la concordia e la giustizia, senza subire alcuna influenza da parte delle strutture gerarchiche della Chiesa. I governanti, in sintesi, nella loro azione politica sono legittimati solo ed esclusivamente dal consenso del popolo in senso lato, poiché, secondo Ficino, differenziandosi anche sotto questo aspetto dalla visione aristocratica di Aristotele, anche le forze produttive della città dovevano entrare a far parte della Universitas civium, a riprova «dell’importanza che il lavoro umano aveva assunto nella matura civiltà medievale: un mondo del fare e dell’operare inserito a pieno titolo nella concezione dell’uomo e della società che si andava affermando».64 Conseguentemente per il Ficino, con l’esclusione della casta sacerdotale, l’autorità di correggere e controllare i governanti tocca solamente ai cittadini e «ai fabbri, ai pellettieri e a tutti gli altri che accudiscono alle arti meccaniche».65 G. De Ruggiero, La filosofia del cristianesimo, vol. III, Bari 1941, p. 222. G. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 144. 65 Marsilio da Padova, Defensor minor, II, 7, a cura di C. Vasoli, Napoli 1975, p. 92. 63 64 76 Manuela Girgenti Solo così, per il filosofo di Padova, all’interno di una società potrà essere assicurata la pace, la giustizia e il benessere, poiché le leggi che la guidano sono finalizzate al raggiungimento degli obiettivi che essa persegue nell’universale «giudizio di quanto è giusto e civilmente vantaggioso e del suo opposto».66 Ma contro coloro che ostacolano la società nel suo cammino verso il benessere generale, la legge deve anche contenere un precetto coattivo e immediato. Naturalmente non tute le leggi possono rispondere universalmente a norme di giustizia (lex imperfecta), poiché talvolta diventano legge conoscenze false di ciò che giusto e vantaggioso, quando viene emanato un comando per la loro obbedienza, oppure quando vengono fatte grazie al comando; così come è evidente nelle regioni di alcuni popoli barbari che ritengono giusto che un omicida sia assolto completamente dalla colpa e dalla punizione civile pagando un certo prezzo per un tale delitto, benché questo sia semplicemente ingiusto e, di conseguenza, le loro leggi assolutamente imperfette.67 Ora, secondo Marsilio, una legge anche se imperfetta, priva di una condizione richiesta, cioè del vero e proprio ordinamento di ciò che è giusto, possedendo il comando coattivo di obbedienza ad essa, richiede la sua osservanza. Spetterà alla sovranità della Universitas civium attivare le procedure necessarie, affinché certe decisioni attinenti al bene comune possano essere abrogate o corrette. In ogni caso, la legge può essere solamente disattesa, quando entra in contrasto con la legge divina, poiché se l’imperatore comandasse alcunché di contrario alla legge della salvezza eterna, ossia all’esplicito precetto di Dio, in questo non si dovrebbe obbedire all’imperatore; e se il papa stabilisse alcunché secondo questa legge, ossia la legge divina, sebbene non possa costringere nessuno nel mondo presente a obbedire alla legge divina, bisognerebbe obbedire a lui piuttosto che all’imperatore.68 Marsilio, dunque, è per una netta divisione dei poteri. Al sovrano spetta quello temporale, mentre al Papa solo ed esclusivamente quello spirituale. Alla chiesa, alla casta sacerdotale bisogna solo guardare come guida spirituale e come modello nel cammino verso Dio, poiché l’Universitas fidelium è la vera sponsa Christi e non la gerarchia ecclesiastica. Il messaggio di Cristo – sostiene Marsilio – è stato unicamente di carattere spirituale; non si è mai arrogato il diritto di un potere coattivo contro coloro che contrastavano la sua volontà o che si opponevano contro il suo mesId., Il difensore della pace, I, cap.10, 3, Bur, Milano 2001, p. 103. Ibid., p. 105. 68 Ibid., II, cap.V. 4, p. 375. 66 67 Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale 77 saggio religioso.69 L’uso indiscriminato della scomunica, da parte dei vescovi, oltre ad invadere i poteri dello Stato laico, rappresenta una grave lesione dei diritti civili di ogni uomo, poiché ingiustamente lo esclude dalla Universitas civium, depredandolo spesso delle sue proprietà e della sua stessa vita. Poiché, per Marsilio, è solamente il governante, per concessione del legislatore, che ha giurisdizione su tutti i casi in cui nella vita presente si ricorre ad una forma di costrizione, esercitando un giudizio coattivo e infliggendo pene nella persona e nei beni; spetta a lui, di conseguenza, «la facoltà di esercitare il proprio giudizio coattivo sugli eretici e su qualsiasi altro infedele o scismatico, nonché il potere di infliggere loro pene nella persona e nei beni».70 Ma ciò, per Marsilio, potrebbe essere poco opportuno, poiché tocca solamente a un tribunale divino giudicare coloro che peccano contro la legge di Dio. Infatti, «Cristo volle e stabilì che tutti i trasgressori della legge divina fossero giudicati con giudizio coattivo e puniti solo nella vita futura e non in questa».71 Compito dei vescovi, dunque, «non è quello di ergersi a giudici, ma di insegnare, esortare, riprendere e correggere coloro che peccano contro la legge divina e, in particolare, nell’atterrirli con un giudizio che prevede la loro dannazione e la punizione che riceveranno nella vita futura dell’unico giudice coattivo secondo la legge divina, ossia Cristo».72 Quantunque innovativa sul piano del costituzionalismo, della sovranità popolare e, quindi, della giustizia sociale, il pensiero di Marsilio Ficino resterà pressoché inascoltato; anche perché la realtà politica e sociale del tempo procedeva oramai, sia pure fra contrasti e contraddizioni, verso forme assolutistiche e di potere personale, svincolate dal controllo popolare; un panorama inadatto a cogliere la novità anticipatoria del pensiero di Marsilio nella sua proclamazione, senza riserve, dell’autonomia della città dell’uomo.73 G. Maglio, Autonomia della città dell’uomo e religione in Marsilio da Padova, Verona 2003. Marsilio da Padova, Il difensore della pace, cit., II, X, 1, p. 495. 71 Ibid., p. 497. 72 Ibid. 73 G. Maglio, L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 161. 69 70 Giuseppe Allegro Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio Nei riguardi del Medioevo si sono compiute, nel lontano ma anche nel recente passato, operazioni culturali che, partendo da presupposti ideologici di diverso orientamento, hanno di fatto ricercato in quei secoli la conferma dei propri assunti, mediante il reperimento di prove testimoniali, documenti, fonti o mediante la loro interpretazione forzata. Perciò deve continuare quel processo di abbattimento di una serie di pregiudizi che ancora oggi, nonostante decenni di studi e di serie ricerche, oscurano la comprensione della cosiddetta Età di mezzo. Il primo fra questi, come rilevava a suo tempo, con una analisi ancora valida, De Lubac nel suo capolavoro Esegesi Medievale,1 è «il luogo comune della ingenuità del Medioevo», un pregiudizio che sta alla radice di atteggiamenti «di disprezzo o di scherno verso gli uomini di quel tempo», e che porta a considerare anche i più grandi medievali – con quel senso di superiorità che contraddistingue chi si considera “moderno” – quasi come dei “grandi bambini”. Un altro pregiudizio è il punto di vista “troppo finalista” che tende a spiegare tutte le sintesi del passato con le nostre sintesi attuali, come se gli autori del Medioevo fossero vissuti solo per preparare il terreno alla modernità, collegando, come un ponte, l’antica età Classica al Rinascimento. Il terzo pregiudizio, che qui ci interessa più da vicino, è quello “teologico”, per il quale il rapporto certamente stretto fra Medioevo e teologia si trasforma, agli occhi sia degli estimatori che dei denigratori di turno, in una identità (Medioevo è teologia), e legge il pensiero medievale come un insieme di dottrine non autonome, ma tutte sbilanciate sul versante teologico. Da qui la lettura della filosofia come mera ancilla theologiae). Rispetto a quest’ultimo punto, comincerò con il proporre un ripensamento del tema bonaventuriano della reductio artium ad theologiam che apparentemente sembra andare proprio nella direzione di una svalutazione delle scienze profane e della esaltazione del ruolo della teologia, ma che invece, ad una attenta disamina, apre prospettive diverse. A questo scopo possiamo fare riferimento all’analisi che ne 1 H. De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura. Milano, Edizione Paoline Jaca Book 2006, 4 volumi (prima ed. francese a partire dal 1953). 80 Giuseppe Allegro fa il saggio di Elisa Cuttini.2 Per l’autrice sono molteplici le sfumature di significato e gli usi del termine reductio in Bonaventura. Se ci fermiamo alla lettura di Gilson sembrerebbe che reductio debba essere quasi interpretato come resolutio, nel senso che «ciò che è ricondotto non avrebbe valore in se stesso» e quindi deve essere «necessariamente riportato al fondamento da cui dipenderebbe». In questo senso anche le scienze dovrebbero essere ricondotte alla teologia perché venga messo in luce che la loro vera funzione non sarebbe quella di conoscere le cose, ma Dio attraverso le cose.3 Nel De reductione artium ad Theologia sarebbe rappresentata allora la «tendenza a considerare la filosofia esclusivamente come una particolare sezione della teologia». Seguendo Gilson allora, dal punto di vista razionalista della filosofia moderna la dottrina di san Bonaventura appare come la più medievale delle filosofie del medioevo. Insomma, la filosofia non sarebbe coltivata per se stessa, ma solo in funzione della teologia.4 Nella lettura della Cuttini invece il tema della riconduzione-riduzione di tutto il sapere alla teologia, caro al pensatore francescano, non va interpretato né come progetto di nullificazione del valore della conoscenza profana né come il progetto dell’assorbimento (e asservimento) passivo della scienza e della filosofia agli interessi religiosi; esso testimonia bensì l’attestazione di un grande slancio unitario di sintesi dei saperi, e anzi la consapevolezza del loro accrescimento di valore: «la Scrittura rivela che le scienze sono portatrici degli insegnamenti divini, e perciò le eleva a una dignità ancora maggiore rispetto a quella che esse hanno in quanto conoscenze di uno specifico settore della realtà. Il loro valore, lungi dall’essere “ridotto”, è accresciuto».5 Si tratta quindi, come si vede, di una rilettura che muta sostanzialmente il tradizionale modo di vedere la percezione dei medievali del sapere profano. Una controprova del fatto che i pensatori medievali non svalutano sempre e comunque il sapere mondano in nome di quello sacro, come spesso si è tentati di credere, ci può pervenire dalla lettura di alcuni testi di Ugo di san Vittore. Nel Didascalicon, opera che si occupa del tema dell’insegnamento e della trasmissione del sapere, il teologo medievale dice: Omnia disce. Videbis postea nihil esse superfluum. Coarctata scientia iucunda non est («Impara tutto, e poi ti renderai conto che nulla è superfluo. Un sapere limitato non dà vera soddisfazione»).6 È interessante qui l’u- 2 E. Cuttini, Ritorno a Dio: filosofia, teologia, etica della mens nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino 2002. 3 E. Gilson, La philosophie de saint Bonaventure, Paris, Vrin 1924. 4 Per dirla con Nardi, i pensatori medievali opererebbero «la reductio artium ad theologiam che, mentre redime e fa sua la cultura antica, ne segna il limite e l’utilizza al servizio della rivelazione» (B. Nardi, Il pensiero pedagogico del Medioevo, Firenze 1956, p. VII). 5 E. Cuttini, Ritorno a Dio, cit., p. 73. 6 Ugo di San Vittore, Didascalicon 6,3, PL 176, 801A; tr. it. V. Liccaro, Milano, Rusconi 1987, p. 193. Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 81 so del verbo coarcare, che letteralmente significa comprimere, restringere, ma che può indicare il soffocamento, lo strangolamento, mentre in senso figurato indica il chiudere, l’imprigionare. Ma altrettanto significativo mi pare l’aggettivo iucunda. La vera scienza è “gioconda”, gioiosa, porta con sé una intrinseca letizia che, come traduce il curatore, “dà soddisfazione”. Affermazioni di questo tenore vanno sicuramente in direzione opposta a quelle di autori medievali - solitamente molto più citate - che bollano il sapere mondano come vana curiositas. Non si può trascurare inoltre l’attenzione profonda degli uomini dell’età di mezzo per la cultura del passato, per ciò che può costituire una fonte preziosa per il sapere: le cosiddette auctoritates. Siamo come «nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti» (Bernardo di Chartres, prima metà XII secolo).7 Qui emerge l’amore per la conoscenza (tutta la conoscenza, nulla escluso) e l’interesse per la elaborazione di un sapere che tenga conto di tutto la conoscenza trasmesso dal passato; sono del tutto coerenti con questa impostazione mentale l’enciclopedismo, la nascita delle università, l’affermazione del cosiddetto metodo scolastico, la riscoperta e la penetrazione di Aristotele nel mondo latino, il dialogo interreligioso con il mondo islamico ed ebraico, la costruzione delle summae (vere e proprie “cattedrali di parole” rispetto alle cattedrali di pietra, per dirla ancora con Gilson), tutti segnali precisi di una grande idea culturale e filosofica: la preminenza assoluta accordata alla costruzione, organizzazione e trasmissione del sapere, nella convinzione di essere debitori nei confronti dei grandi del passato (“nani sulle spalle dei giganti”, appunto) e delle loro acquisizioni (le auctoritates), nonché di avere al contempo un debito altrettanto grande nei confronti delle generazioni future: perciò le scholae, le università, gli amanuensi, l’attenzione per l’erudizione e la pedagogia. È appena il caso di ricordare che senza il lavoro dei copisti praticamente nulla del mondo classico ci sarebbe pervenuto. Ci può dare un’idea della grande apertura mentale dei medievali nei confronti della sapienza tutta e della necessità della sua trasmissione ai giovani studenti ancora l’importante testo pedagogico del XII secolo, il Didascalicon di Ugo di San Vittore; in esso l’autore ammonisce il giovane a leggere tutto, a consultare ogni libro, a non ritenere di poco conto nessuna scienza, nessuna disciplina, a pensare che non ci sia autore che non abbia detto qualcosa di buono da imparare: Prudens lector omnes libenter audit, omnia legit; non scripturam, non personam, non doctrinam spernit […] Nullam scientiam vilem teneas, quia omnis scientia bona est.8 Un discorso simile si può fare a proposito di un altro grande autore vissuto 7 Il passo ci è pervenuto attraverso Giovanni di Salisbury, Metalogicon 3,4, ed. C. Webb, Oxford, Clarendon Press 1929: Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre (p. 136). 8 Ugo di San Vittore, Didascalicon, cit., 3, 13, PL 176, 774BC. 82 Giuseppe Allegro nel secolo successivo rispetto a Ugo, Alberto Magno. La sua lotta per affermare con forza la dignità e l’autonomia della filosofia è innegabile, come testimoniano le sue parole accorate contro chi nega valore alla ricerca filosofica. All’interno dell’ordine domenicano, del quale Alberto faceva parte, era diffusa infatti in quel momento una certa ostilità nei confronti della philosophia, a causa della sua origine e ispirazione pagana. Nelle Costituzioni del 1228 si prescriveva perciò che i frati non si dovessero dedicare alla lettura dei libri “dei pagani e dei filosofi” (in libris gentilium et philosophorum non studeant), sebbene fosse consentito loro studiare le scienze profane previa una specifica dispensa.9 Pure nelle Vitae fratrum del cronista domenicano Geraldo di Frachet alcuni episodi condannano la curiositas filosofica. Ne cito due: a un predicatore che voleva usare ragionamenti filosofici nei suoi sermoni appare Cristo per ricordagli come la bellezza della Bibbia non abbia bisogno di essere alterata: «in Inghilterra un frate aveva intenzione di abbellire la predica che doveva tenere a degli studenti, con argomenti filosofici. Mentre in cella ci stava pensando, di addormentò e vide in sogno il Signore Gesù che gli porgeva una Bibbia esternamente molto rovinata. Siccome il frate gli fece notare la cosa, Gesù l’aprì e, mostrandogli quanto fosse bella all’interno, disse: – vedi che è molto bella, ma voi la rovinate con la vostra filosofia». Il secondo episodio è ancora più istruttivo. Un frate lombardo, in dubbio tra lo studio della filosofia e quello della teologia, vede in sogno una figura che tiene in mano un interminabile elenco di uomini «dannati a causa della loro filosofia: «Un frate lombardo era perplesso se dedicarsi allo studio della filosofia o della teologia. Gli apparve in sogno un personaggio con in mano un rotolo, nel quale potè leggere i nomi dei defunti dei quali si diceva che erano stati gravemente puniti. Ne domandò la ragione e gli fu risposto: – A causa della loro filosofia –. Quel frate capì che era meglio per lui studiare Teologia».10 Eppure, in questo contesto di diffusa ostilità verso il sapere profano Alberto si assume il compito di rivendicare con forza la legittimità dell’indagine filosofica, anche a costo di polemizzare persino con i suoi stessi confratelli. Egli anzi annuncia con coraggio il suo progetto di “rendere intellegibile” Aristotele ai latini. Quasi in risposta agli aneddoti delle Vitae fratrum, Tommaso di Cantimpré racconta che Alberto gli confidò come il diavolo gli fosse apparso un giorno a Parigi sotto l’aspetto di un frate che intendeva dissuaderlo dallo studio.11 Fare uso della filosofia contro chi 9 Constitutiones Ordinis Praedicatorum II, 28: [Fratres] In libris gentilium et philosophorum non studeant, etsi ad horam inspiciant. Seculares scientias non addiscant, nec etiam artes quas liberales vocant, nisi aliquando circa aliquos magister ordinis vel capitulum generale voluerit aliter dispensare; sed tantum libros theologicos tam iuvenes quam alii legant (Chart. 1, n. 57, p. 112). 10 Geraldo di Frachet, Vitae fratrum 20, pp. 208–9. 11 Tommaso di Cantimpré, Bonum universale de apibus, 2, 57, 34: Albertus Theologus, frater ordinis Praedicatorum narravit mihi, quod Parisiis illi daemon in specie cujusdam fratris apparuit, ut eum a studio revocaret (cit. in P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroisme latin au XIIIe siècle 1, Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 83 si oppone alla fede non è quindi per Alberto affatto sconveniente. La filosofia non è semplicemente propedeutica nei confronti della teologia, ma conserva un ruolo e una dignità autonomi. Filosofia e teologia sono distinte e indipendenti ciascuna nel proprio ambito, ma fra esse non vi è contrapposizione: la filosofia è una via aperta a chi cerchi la verità «mediante un lavoro comune e fecondo», fondato sullo scambio intellettuale. E tutto questo contro coloro che per la loro incapacità di comprendere ne sanno vedere solo gli errori. Alberto si esprime al riguardo con appassionata durezza: «a conforto della loro incapacità, negli scritti degli altri non vanno cercando che difetti […] tali esseri hanno ucciso Socrate e cacciato in esilio Platone. Nell’organismo della comunità scientifica essi sono ciò che nel corpo umano è il fegato. Come la bile, che esce dal fegato, amareggia tutto il corpo, così anche nella vita scientifica vi sono certi uomini acerbi e pieni di bile, che amareggiano e inaspriscono la vita degli altri, rendendo loro impossibile il cercare la verità mediante un lavoro comune e fecondo».12 L’ultima espressione suona, in latino, in dulcedine societatis: il lavoro intellettuale non può essere svincolato dalla rete di relazioni, dal dialogo costante, che lo rendono non solo proficuo ma anche “dolce”; la ricerca comune ha la dimensione della dulcedo, un termine che riecheggia la iucunditas di Ugo. Quanto finora emerso ci serve come indispensabile preludio al tema centrale di questa relazione, che è la concezione della teologia medievale nel suo duplice senso di scienza, cioè di conoscenza razionalmente fondata e argomentata di Dio, e di ricerca, sempre in fieri e mai definitiva, di Dio. I due aspetti non devono essere visti in opposizione, bensì come complementari. Se da una lato è vero che la teologia si costruisce come una disciplina rigorosa che pretende di essere accreditata come scienza, avendo quale oggetto di indagine nientemeno che Dio, dall’altra parte essa è ricerca, indagine, proprio perché il suo punto di riferimento rimane il mistero divino, che per sua natura è insondabile e inattingibile per la mente umana. Possiamo scorgere i due aspetti presentando brevemente alcuni altri testi emblematici. Teologia e scienza. La costruzione del discorso su Dio Sul tema della scientificità della teologica incontriamo Pietro Abelardo (10791142), autore di opere di riflessione teologica di grande profondità speculativa. Nel prologo del Sic et Non Abelardo rivendica la dialetticità del sapere, affermando che Institut supérieur de philosophie de l’université, Louvain 1911, p. 35). 12 Alberto Magno, Politica 8, 6, ed. Borgnet, pp. 803–804: Qui in communicatione studii sunt, quod hepar in corpore: in omni autem corpore humor fellis est, qui evaporando totum amaricat corpus, ita in studio semper sunt amarissimi et fellei viri, qui omnes alios convertunt in amaritudinem, nec sinunt eos in dulcedine societatis quaerere veritatem). 84 Giuseppe Allegro la prima chiave che apre le porte della sapienza è il “mettere in questione”: haec quippe prima sapientiae clavis definitur assidua scilicet seu frequens interrogatio. Dubitando quippe ad inquisitionem venimus; inquirendo veritatem percipimus. Iuxta quod et Veritas ipsa: Quaerite, inquit, et inuenietis, pulsate et aperietur uobis.13 La pericope evangelica (Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto) viene interpretata da Abelardo, alla luce dello pseudo Agostino, in questo modo: «“Chiedete pregando, cercate disputando, bussate domandando”, cioè interrogando».14 L’arte del quaerere, del domandare, dell’interrogare, è l’arte dialettica; è questo uno dei significati più autentici, per il magister bretone, della dialetticità intrinseca al pensare. In questo senso ci guida la testimonianza di Cristo stesso che, da assoluta verità e sapienza, per darci il giusto insegnamento non esitò a farsi trovare in mezzo ai dottori del tempio nell’atto di interrogare, quasi fosse bisognoso di chiedere, di fare egli stesso il percorso verso la sapienza. È questa, dunque, la via per costruire il sapere, anche quello teologico. La riflessione sul mistero trinitario condotta da Abelardo rappresenta uno dei momenti decisivi nello sviluppo della teologia occidentale, intendendo con “teologia” un sapere contrassegnato da una strutturazione rigorosa e da una precisa procedura argomentativa, due caratteri che ne fanno un insegnamento distinto e autonomo rispetto a tutti gli altri ambiti della letteratura cristiana medievale fino ad allora praticati.15 Questa tesi implica l’idea che bisognerebbe anticipare di più di mezzo secolo la nascita della teologia quale disciplina “scientifica”, cosa che in genere, nella tradizione critica e a livello manualistico, viene collocata nei primi decenni del XIII secolo, nell’ambito della piena affermazione della scolastica e dopo la completa ricezione dei nuovi testi aristotelici. Non vi sono precedenti diretti, nella tradizione latina, dell’uso che fa Abelardo del titolo theologia per denotare un trattato sulla Trinità o, comunque, un’opera riguardante i contenuti della fede cristiana. I termini usualmente utilizzati erano altri, come sacra eruditio e divinitas. L’unico testo che annovera un titolo del genere, e che Abelardo può avere conosciuto, è la Theologia mystica di Dionigi l’Areopagita, che a quell’epoca era stata tradotta in latino più volte. Non sorprende dunque il fatto che un’opera di riflessione sui contenuti fondamentali della fede cristiana con il titolo theologia suscitasse un senso di stupore e di diffidenza. Di fronte all’ultimo trattato, la Theologia Scholarium è proprio la parola theologia a muovere il primo interesse e, con esso, i primi sospetti. Guglielmo di Saint-Thierry non fa mistero del fatto che era stato il titolo a destare la sua curiosità verso un testo al quale si era 13 103-104. 14 Pietro Abelardo, Sic et non ed. B. B. Boyer - R. McKeon, Chicago-London 1976- 1977, pp. Ps.-Agostino, Tractatus de oratione et elemosyna “De misericordia”, PL 40, 1227. Su questo tema Cfr. G. Allegro, Teologia e metodo in Pietro Abelardo, Palermo, Officina di Studi Medievali 2010. 15 Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 85 accostato, a suo dire, “per caso”.16 Quando esploderà lo scontro teologico incentrato sull’elenco di proposizioni abelardiane incriminate, e si infiammeranno i toni della polemica, l’atteggiamento di Bernardo di Chiaravalle verso questa novità del titolo sarà di totale condanna. Le sue parole di scherno a questo proposito sono eloquenti: Bernardo arriva a chiamare la teologia di Abelardo Stultilogia.17 Il termine theologia dunque rappresenta bene il profondo mutamento di prospettiva operato dal magister bretone rispetto alla tradizionale organizzazione del sapere sacro del suo tempo; la theologia si costituisce infatti come un peculiare sapere che non rientra, propriamente, in nessuno dei generi della letteratura sacra fino a quel momento praticati: non è annoverabile fra i commentari scritturistici, come i testi esegetici; né fra le opere parenetiche e contemplative, come i testi a carattere spirituale e morale; non ha un taglio apologetico, come molti scritti di stampo dottrinale coevi (opuscoli, libelli, sermoni, epistole); condivide con i testi dottrinali e con le raccolte di sentenze dell’epoca, almeno in alcuni aspetti, il carattere argomentativo, ma non si riduce a questo. Si tratta insomma di un sapere che riguarda essenzialmente il dato rivelato, e che si organizza sulla base di una impostazione razionale e di un orientamento squisitamente teoretico; una sorta di inedita disciplina autonoma, la quale fa trasparire una procedura rigorosa che, dopo avere tratteggiato l’intera articolazione del sapere sacro in un sistema organico e completo, procede allo svolgimento dei propri contenuti secondo un percorso che vuole essere ordinato e completo. Questo percorso consiste nel porre anzitutto il dato rivelato, espresso nella sua sintesi più contratta e al contempo più organica e completa (che Abelardo chiama summa fidei) quale principio primo di discorso, inconfutabile e indimostrabile, alla stregua dei primi principi assiomatici, e da qui procedere per via argomentativa e confutatoria, mediante la predisposizione un lungo e articolato dibattito – di un insieme di quaestiones – nei cui passaggi fondamentali emerge dapprima l’insorgenza della serie delle obiectiones e quindi la loro puntuale risoluzione.18 16 Casu nuper incidi in lectionem cuiusdem libelli hominis illius, cui titulus erat: Theologia Petri Abaelardi. Fateor, curiosum me fecit titulus ad legendum (Guglielmo di Saint-Thierry, Opuscula adversus Petrum Abaelardum, ed. Verdeyen, p. 13). 17 Denique in primo limine Theologiae, vel potius Stultilogiae suae (Bernardo di Chiaravalle, Epistola 190, ed. Babolin, p. 116. L’ironia e il sarcasmo sono presenti tutte le volte che Bernardo si riferisce ad Abelardo per qualificarlo come theologus. Che il problema qui sia il titolo theologia si evince dalla stessa testimonianza di Abelardo, il quale ricorda a Bernardo il motivo della polemica: Dudum autem grauiter ingemuisse audieram, quod illus opus nostrum de sancta Trinitate, prout Dominus concessit a nobis compositum, Theologiae intitulaueram nomine. Quod ipse tandem minime perferens Stultilogiam magis quam Theologiam censuit appellandam (Pietro Abelardo, Epistola contra Bernhardum Abbatem, ed. Leclercq, p. 104). 18 Primum itaque ponendum est totius disputationis thema et summa fidei breuiter concludenda, de unitate scilicet diuinae substantiae ac trinitate personarum quae in deo sunt, immo deus sunt unus. Deinde obiectiones aduersus positionem fidei, tandem solutiones subiciemus (Petri Abaelardi Theo- 86 Giuseppe Allegro La considerazione di questi elementi caratterizzanti l’opera teologica abelardiana, qui delineati in estrema sintesi, assieme alla semplice constatazione del particolare interesse di Abelardo per la logica aristotelica, del quale egli stesso è specialista ed interprete, autorizzano a pensare alla theologia abelardiana come a una disciplina la cui strutturazione (il suo “statuto epistemologico”, si direbbe oggi) ricorda assai da vicino alcuni connotati tipici della scienza aristotelicamente intesa; l’impostazione metodologica del nuovo “sapere sacro” può insomma in qualche modo permettere un accostamento ai parametri della episteme teorizzata da Aristotele nei Secondi Analitici. Si tratta, in particolare, della procedura argomentativa con la quale viene elaborata la conoscenza scientifica e, più specificamente, dei caratteri delle premesse sulle quali, aristotelicamente, essa si edifica: anteriorità, immediatezza, verità, indimostrabilità; caratteri che possono in qualche modo essere ravvisabili anche nella concezione abelardiana della summa fidei e nel conseguente procedimento argomentativo che procede, a partire da essa, a discutere e a confutare le obiectiones. Criteri in qualche modo analoghi a quelli della scienza aristotelica, che precedono di fatto un’impostazione che diverrà patrimonio acquisito e condiviso dalla comunità dei teologi e dei filosofi medievali solo più tardi, nella cosiddetta “scolastica matura”. Tuttavia una serie di considerazioni rendono problematico questo accostamento fra la concezione abelardiana del sapere teologico e quella aristotelica di scienza. L’acquisizione dei nuovi testi logici di Aristotele – la cosiddetta logica nova, e in particolare i Secondi Analitici – i quali resero disponibili agli autori medievali gli strumenti concettuali che permisero di collocare il sapere teologico fra le conoscenze di carattere scientifico avvenne qualche tempo dopo; ma su questo le ricerche non hanno ancora raggiunto risultati certi e, ancor meno, definitivi. È possibile ipotizzare che Abelardo abbia avuto modo di venire a contatto con tali opere aristoteliche o che, almeno, ne abbia avuto una indiretta ma essenziale conoscenza mediata da un altro autore suo contemporaneo? I dati sui quali basarsi per avanzare delle ipotesi convincenti non sono né chiari né univoci. Uno dei punti ancora problematici riguarda la datazione. Non c’è consenso unanime circa il momento esatto nel quale furono effettuate le prime traduzioni in latino dei testi logici aristotelici non ancora conosciuti all’Occidente latino. Né è ancora possibile determinare in quale preciso momento essi cominciarono a essere letti e utilizzati dalla comunità scientifica di allora. Di solito si tende a ritenere che le traduzioni aristoteliche siano posteriori, anche se di poco, rispetto alla data della morte di Abelardo. Ma la questione rimane aperta.19 logia Summi boni, 2, 28, ed. E. M. Buytaert - C. J. Mews, in Petri Abaelardi Opera theologica III. Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis 13, Turnholti 1987). 19 Sulla questione è utile consultare C. J. Mews, On Dating the Works of Peter Abelard, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge» 52 (1985), pp. 73-134; S. Ebbesen, Echoes of the Posterior Analytics in the Twelfth Century, in M. Lutz-Bachmann - A. Fidora - P. Antolic (eds.), Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 87 Teologia e mistica. incomprensibilità e ineffabilità di Dio Lo stesso Abelardo, che elabora questo progetto di un nuovo sapere teologico, ci presenta pagine dal significato inequivocabile circa la limitatezza della razionalità umana nei riguardi del mistero divino. L’eccedenza del mistero trinitario rispetto ai limiti della ragione umana è affermata da lui chiaramente e senza incertezze:20 non vi è alcuna possibilità per la umana ragione, con le sole proprie forze, di rendere in qualche modo comprensibile quegli enunciati. Essi sono appunto delle espressioni di fede, e come tale sono fuori dalla possibilità della dimostrazione per via razionale. Abelardo non esita a ricorrere al celebre detto di Gregorio Magno secondo il quale nec fides habet meritum, cui humana ratio praebet experimentum.21 Nessuno, in questa vita, può accostarsi a una così elevata conoscenza (ad celsitudinem illam intelligentiae acceditur, non quidem pervenitur, quamdiu scilicet in hac mortali carne vivitur).22 La visione di Dio è riservata solo alla futura beatitudine (ipsa quippe visio divinitatis ipsa est futura beatitudo, de qua dicit apostolus: Nunc videmus per speculum in enigmitate, tunc autem facie ad faciem). Se Dio stesso non si manifesta, la nostra natura è incapace di vederlo (nisi enim seipse deus manifestet, nec tunc natura nostra eum videre sufficiet). Perciò i mortali, che non sono in grado neanche di analizzare se stessi, né la natura di qualsiasi cosa, non debbono tentare di comprendere ciò che è incomprensibile attraverso i loro “piccoli ragionamenti”: nedum nunc mortales[…] ratiunculis suis comprehendere incomprehensibilem nitantur, qui nec seipsos nec quantulecumque naturam creature discutere ratione sufficiunt). Oltretutto, la comprensibilità di Dio mediante le umane ratiunculae ed esprimibile con la lingua dei mortali sarebbe cosa assai sconveniente per la fede: Quae etiam maior indignatio fidelibus habenda esset quam eum se habere deum profiteri quem ratiuncula humana possit comprehendere aut mortalium lingua disserere?). Rafforza queste convinzioni la raccolta delle testimonianze, come quella del Timeo, molto nota ai latini: «È così difficile scoprire l’artefice e il padre dell’universo, quanto è impossibile parlarne degnamente, una volta che lo si sia scoperto», e quella tratta dal commento di Macrobio al Sogno di Scipione di Cicerone: «egli non osò dire Erkenntnis und Wissenschaft. Probleme der Epistemologie in der Philosophie des Mittelalters, Berlin 2004, pp. 69-92. 20 Tuttavia, questo non contraddice l’asserto abelardiano secondo il quale la rivelazione trinitaria raggiunge non solo gli ebrei, mediante l’intervento dei profeti, ma anche i gentili, che sono pervenuti alla conoscenza della Trinità proprio grazie alla ragione (diuina inspiratio et per prophetas iudeis et per philosophos gentibus dignata est reuelare: (Petri Abaelardi Theologia Summi boni, 1, 5, ed. cit.). Sapere che Dio è Trinità, e non solo uno, non significa ancora, ovviamente, comprenderne pienamente l’essenza. 21 Gregorio Magno, Homiliarum in Evangelia libri duo. Hom. 26, 1 (PL 76, 1197C). 22 Per questo e i passi successivi si veda Petri Abaelardi Theologia Summi boni, cit., 2, 11-24. 88 Giuseppe Allegro cosa fosse Dio, poiché sapeva solo che agli uomini è impossibile sapere cosa sia». Il richiamo al passo di Ambrosiaster, citato come agostiniano, in cui si afferma che neanche i Cherubini e i Serafini possono comprendere pienamente cosa è Dio completa la chiosa abelardiana a Macrobio: «neppure gli stessi spiriti celesti, che sono dotati di una sapienza più grande, possono conoscerlo pienamente». Sono, questi, passaggi dal tenore apofatico, che richiamano alla mente i celebri testi dionisiani, molto in auge in quel momento nell’Occidente latino. Ed è Dionigi l’Areopagita, che Abelardo chiama magnus ille philosophus, ad essere evocato subito dopo, ancorché solo per ricordare il famoso episodio del Dio ignoto descritto in At. 17, 23. Il dogma trinitario, pur reso in qualche modo disponibile mediante la rigorosa formulazione che la fides universalmente tenet incommutabiliter, rimane un mistero ineffabile, di fronte al quale ogni tentativo di argomentare si riduce a un vano blaterare. Chi osa tentare di dipanare il mistero non si accorge che le sue apparentemente elevate argomentazioni di fronte al mistero divino non sono altro che miseri ragionamenti, ratiunculae. Mediante le parole usate per indicare il mistero divino esso deve essere, più che capito, gustato. Pur essendo “scienza”, la teologia non potrà mai aspirare a comprendere appieno l’oggetto del suo discorso. Lo stesso Alberto Magno nel suo Commento alla Teologia Mistica dello pseudo Dionigi mette in risalto il lato mistico della teologica. Affrontando l’interpretazione della singolare tesi dionisiana secondo la quale è mediante il non vedere e il non conoscere che si può vedere e conoscere Dio (questione XI).23 Alberto elenca tre modi possibili nei quali una cosa può essere “nota”: in se stessa (per se), in quanto effetto di una causa (propter quid), in quanto causa di un effetto (quia). Ebbene, nessuno dei tre modi suddetti può essere invocato efficacemente a proposito della conoscenza di Dio: Neque per se notus est sicut principia, neque propter quid, quia non habet causam, neque quia, quia non habet effectum proportionatum.24 Dio non è noto né in se stesso (per se), come lo sono i principi, né in quanto effetto di qualcosa che lo produce (propter quid), poiché non ha causa da cui possa derivare, né in quanto causa (quia), dal momento che non produce un effetto a lui proporzionato. A lui non si può insomma pervenire in nessuno dei modi naturali mediante i quali si acquisisce la conoscenza: in deo vacant omnes modi cognoscendi naturales nobis, quibus scientias acquirimus. Resta allora il fatto che la nostra mente può cogliere, al di sopra della sua natura, «una certa luce divina che la eleva al di sopra di tutti i modi naturali di vedere le cose». È solo grazie a questa 23 «Noi preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e mediante la privazione della vista e della conoscenza poter vedere e conoscere ciò che sta oltre la visione e la conoscenza con il fatto stesso di non vedere e non conoscere» (Dionigi Areopagita, Teologia Mistica 2, tr. it. P. Scazzoso, Milano, Rusconi 1981, p. 410). 24 Alberto Magno, Super mysticam theologiam Dionysii, ed. P. Simon, in Opera omnia […] curavit Institutum Alberti Magni coloniense, vol. 37/2, Aschendorff, Münster i. Westf. 1978, p. 466. Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio 89 luce divina che si può giungere alla visione di Dio; una visione tuttavia non distinta, ma confusa (“non determinata”, in termini albertiani), la quale può permettere una conoscenza di Dio non per se, ma solo quia, permette cioè di conoscerlo non in se stesso ma in quanto causa di tutte le cose. L’intelletto creato non può raggiungere perfettamente Dio, in una maniera tale cioè che nulla che riguardi la conoscenza di lui rimanga fuori dell’intelletto. Ci si può unire a lui solo in maniera confusa e indistinta, come a qualcosa che stia oltre. Infatti di Dio non possiamo conoscere né il quid, l’essenza, dal momento che essa è infinita, né il propter quid, la causa, in quanto Dio non ha causa, e nemmeno, in modo determinato, il quia, il fatto “che è” causa, poiché i suoi effetti non sono a lui proporzionati.25 La conclusione di questo discorso è posta significativamente all’inizio del testo da Alberto. Si tratta della celebre espressione del profeta Isaia: «veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore».26 Lo stesso Tommaso d’Aquino riprenderà questi temi e affermerà che pur essendo possibile, con l’aiuto dell’illuminazione della grazia, “vedere” Dio, almeno nello stato beatifico, non sarà mai possibile comprenderlo pienamente, essendo l’essenza divina infinita.27 Conclusioni Abbiamo analizzato brevemente il ruolo giocato da pensatori del XII e del XIII secolo, in particolare Pietro Abelardo e Alberto Magno a proposito del processo di “costruzione della teologia medievale”, per citare il titolo di un recente libro di Inos Biffi28 (teologia intesa in questo senso ampio di summa, di sintesi e vertice del sapere). La loro opera teologica può essere letta come il tentativo di edificare un sapere razionale, ancorché fondato sui dati della rivelazione cristiana, grazie all’uso accorto della filosofia e degli strumenti logici aristotelici; un sapere nel quale trova ampio spazio, e anzi diviene metodo, la discussione dialettica, l’argomentazione razionale, la confutazione. Tuttavia, la teologia non è solo scienza di Dio (scienza secondo i canoni aristotelici, cioè un sapere costruito con metodo, mediante argomentazioni razionali, e che ha come punto di partenza, come le altre scienze, principi indimostrabili e inconfutabili); è anche ricerca di Dio, una ricerca mai risolutiva, mai conclusa, essendo il suo oggetto, propriamente parlando, ineffabile e irraggiungibile (secondo il modello della teologia negativa e mistica). 25 Ibid. Is. 45, 15. 27 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 12. 28 I. Biffi, Mirabile Medioevo. La costruzione della teologia medievale, Milano, Jaca Book 26 2009. 90 Giuseppe Allegro Studiare oggi la teologia medievale secondo queste considerazioni può non essere un mero esercizio di erudizione storica, come se si analizzasse un evento culturale superato del passato. La costruzione della teologia come ricerca di Dio e, al contempo come scienza di Dio e come la summa che riconduce ad unità i saperi, può indicare una possibile strada da percorrere per rispondere alla frammentazione culturale e alla crisi di fondamento che attanaglia il nostro tempo, al di là delle appartenenze religiose e ideologiche. Recuperare il senso della unitarietà della sapienza che fu propria dei medievali e della loro epoca di complessi incroci culturali e religiosi può essere un valido richiamo a una rinnovata autentica prassi del dialogo fra le fedi, le culture, le prospettive diverse. Luciana Pepi Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo Negli ultimi decenni sono stati pubblicati molti studi specialistici sugli ebrei in Sicilia,1 sulla loro presenza nelle diverse città siciliane, focalizzando l’attenzione anche sulla specificità di ogni singola comunità: gli ebrei a Palermo, a Sciacca, e così via. Alcuni studi hanno esaminato taluni aspetti della loro vita: quello economico, sociale-culturale. In questo intervento, invece, saranno proposte delle brevi riflessioni su alcune caratteristiche comuni alle molte comunità presenti nell’isola. Inoltre, mettendo insieme alcuni importanti tasselli, si cercherà di far luce sulle condizioni di vita degli ebrei siciliani. La comunità ebraica, presente in Sicilia già dall’epoca romana, fu una delle comunità più consistenti, che visse in mezzo ai cristiani, sia pure con l’obbligo di contraddistinguersi. La loro presenza è documentata già a partire dal 590, grazie alle lettere di papa Gregorio Magno. La cacciata degli ebrei dai territori dei re cattolici Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, nel 1492, interruppe bruscamente la continuità della presenza ebraica in Sicilia, che era durata circa un millennio e mezzo. Vennero così disperse le comunità giudaiche, fino ad allora saldamente insediate nell’isola, con un proprio ordinamento giuridico, rappresentato dalla giudecca, dotata di istituzioni civili e religiose del tutto autonome. Nonostante in tempi recenti gli studi sull’ebraismo siciliano si siano notevolmente incrementanti permangono ancora diverse lacune e numerosi problemi legati soprattutto alle fonti.2 Inoltre come ha rilevato Shlomo Simonsohn,3 la documentazione relativa alla presenza ebraica in Sicilia è quasi completamente di origine governativa, notarile e così via. La documentazione ebraica interna manca quasi del tutto. Anche le fonti lettera- Per una visione complessiva si veda la breve bibliografia posta alla fine del presente intervento. Molto schematicamente le fonti disponibili possono essere così riassunte: 1) le poche tracce archeologiche; 2) le epistole del papa Gregorio Magno (590); 3) i documenti della gheniza del Cairo (riguardano la vita ebraica dal nono al dodicesimo secolo); 4) i documenti di archivio (iniziano dal 1200); 5) diari di viaggiatori: Iibn Haqwkal, Beniamino da Tudela, Ovadia da Bertinoro. 3 Una notevolissima mole di documentazione è stata messa a disposizione degli studiosi mediante la pubblicazione di ponderosi volumi nella collana Documentary History of the Jews, diretta da Shlomo Simonsohn, di questi il diciassettesimo volume è stato pubblicato a marzo 2010. 1 2 92 Luciana Pepi rie ebraiche sono scarse. La perdita completa di documenti delle comunità ebraiche è dovuta all’improvvisa interruzione della loro presenza,4 probabile conseguenza del carattere dirompente che ebbe il decreto di espulsione, che lasciava tre mesi di tempo agli ebrei per decidere tra la conversione e l’esilio. Le fonti archivistiche, assai scarse per il periodo della dominazione araba, sono più numerose a partire dall’epoca normanna e poi sveva e si trovano abbondanti, per il secolo quindicesimo, nei fondi degli organi statali e in quelli notarili degli istituti archivistici della Sicilia e presso l’Archivio della Corona di Aragona a Barcellona. Per il periodo medievale, le fonti relative alla storia degli ebrei sono in gran parte sparse negli archivi e nelle biblioteche. Raramente sono disponibili fondi che contengano solamente (o prevalentemente) materiale ebraico. Ciò comporta naturalmente qualche difficoltà nel reperimento della documentazione utile. Come accennato, gran parte della documentazione disponibile è costituita da materiale “esterno” al mondo ebraico, elaborato dalla società dominante, e che quindi non sempre consente di comprendere a pieno l’organizzazione interna della società ebraica medievale. Una fonte essenziale è costituita dai fondi notarili. Nella maggioranza dei casi si tratta di registri privi di indice, e il reperimento della documentazione può avvenire solo attraverso il paziente spoglio dei singoli protocolli. Gli archivi comunali ed ecclesiastici conservano spesso fondi nei quali è possibile reperire materiale utile alla ricostruzione della storia degli ebrei. Purtroppo non sempre tali archivi sono di facile uso: in alcuni casi, gli archivi ecclesiastici sono aperti al pubblico a discrezione dell’archivista di turno e mancano di inventari adeguati; un discorso analogo vale spesso – almeno per l’Italia – per gli archivi comunali. Un gran numero di biblioteche conserva codici ebraici e documentazione in volgare. In alcuni casi, cataloghi recenti consentono di reperire il materiale che interessa con una certa facilità. Qualsiasi riflessione sulla presenza ebraica in Sicilia, a mio avviso, non può prescindere da due dati molto rilevanti: la durata millenaria della presenza ebraica nell’isola, ininterrottamente dal primo secolo e.v. al quindicesimo secolo,5 e la consistenza demografica: nel medioevo. Infatti, vi erano in Sicilia più ebrei che nel resto d’Italia. Nell’isola nel corso del susseguirsi delle varie dominazioni, da quella romana, bizantina, a quella aragonese e infine castigliana, nel corso di circa undici secoli la popolazione ebraica fu sempre presente, fu popolazione stanziale, diversa religio- 4 S. Simonsohn, Prolegomena ad una storia degli ebrei in Sicilia, in Atti del Convegno Italia Judaica V, 1995, pp. 17-18. 5 Si è soliti dividere tale presenza in due fasi: la prima, dal primo secolo al nono, attestata soprattutto nella Sicilia orientale. Tale ebraismo si esprime in lingua greca ed è caratterizzato dagli stretti rapporti con la Palestina. La seconda fase si apre con l’invasione musulmana. Molti ebrei giungono in Sicilia dal nord Africa. Questo ebraismo è di stampo magrebino e si esprime in arabo con i caratteri dell’alfabeto ebraico. Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 93 samente e politicamente dalla popolazione maggioritaria dominante, ma comunque costantemente presente.6 L’interesse per la storia dell’ebraismo siciliano di studiosi, quali Ashtor, Abulafia, Bresc, Goitien, Roth, Simonsohn, è stato incrementato dal fatto che nel medioevo, come scrive Carmelo Trasselli: «nessuna regione italiana aveva tanti gruppi numerosi quanti ne aveva la Sicilia».7 Al momento dell’espulsione la cifra si aggira tra i trentaciquemila e i cinquantamila. Per capire il valore di tale numero bisogna tener presente che gli ebrei italiani nello stesso periodo, compresi i siciliani, si aggiravano sui settantamila, mentre in Spagna erano duecentomila. La popolazione ebraica costituiva il cinque per cento della popolazione isolana.8 La giudecca di Palermo e di Siracusa constava di cinquemila ebrei, Messina e Trapani di duemila e cinquecento; Agrigento e Catania duemila. Tali numeri sono importanti perché rendono l’idea precisa della loro massiccia presenza, tanto da poter parlare di città ebraiche situate all’interno delle città cristiane. Scrive Attilio Milano: Palermo era il maggiore centro di vita ebraica di tutta Italia. Questo primato demografico si era andato formando durante la prospera età dell’emirato arabo; si mantenne poi saldo durante le due dominazioni normanna e sveva le quali, con Palermo opulenta capitale del regno di Sicilia, significarono per gli ebrei un’era di benessere ancora più accentuato […] questo primato numerico, il concentramento di ebrei in tutta la Sicilia trovarono la loro maggiore forza coesiva nel fatto che, anche durante il periodo normanno, la coesistenza nell’isola di ceti diversi per origine etnica e per religione, ma tutti parimenti influenti, imponeva un trattamento politico equiparato nei riguardi di ciascuno, o per lo meno distinzioni non troppo stridenti. Così, nelle leggi normanne, gli ebrei vengono riconosciuti come cittadini di pieni diritti […].9 Nel 1492, in Sicilia esistevano una cinquantina di giudecche. Le giudecche erano per alcuni aspetti quartieri ebraici situati all’interno delle varie comunità cristiane; per altri aspetti erano invece enti amministrativi autonomi dotati di personalità giuridica propria. L’amministrazione della giudecca era diversa dall’amministrazione cittadina. Con il nome giudecca si intende tutta la comunità ebraica di una data F. Renda, Gli ebrei prima e dopo il 1492, in Italia Judaica V, cit., p. 35. C. Trasselli, Sulla diffusione degli ebrei e sull’importanza della cultura e della lingua ebraica in Sicilia, particolarmente in Trapani e in Palermo nel scec. XV, Palermo 1954, pp. 376-382. 8 Ad esempio David Abulafia sostiene che nonostante sia difficile stabilire un numero preciso è probabile che gli ebrei costituissero il cinque per cento della popolazione totale. Cfr. D. Abulafia, Gli ebrei di Sicilia sotto i Normanni e gli Hohenstaufen, in Ebrei e Sicilia, Palermo 2002, p. 70. 9 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, p. 92. 6 7 94 Luciana Pepi località e si intende anche la civitas giudaica, ossia l’organizzazione istituzionale e relativa rappresentanza amministrativa e religiosa. In quanto civitas giudaica, la giudecca era di pari dignità della civitas cristiana, e come tale era dotata di organi propri preposti al governo della comunità, al culto, alla scuola, all’osservanza degli usi, costumi e pratiche conformi alla legge mosaica. Le leggi delle città erano quelle cristiane, le leggi delle giudecche erano quelle mosaiche. In tal senso, la comunità giudaica era a tutti gli effetti, sia di fatto che di diritto, una città dentro la città. L’ebreo siciliano era giuridicamente, anagraficamente, socialmente, cittadino siciliano, ma in quanto ebreo era, nello stesso tempo un servo della Regia Camera, servi regiae camerae, condizione che lo accomunava all’ebreo della maggior parte dei paesi europei: gli ebrei e i loro beni appartenevano al re. L’istituzione del servo della Regia camera era un regime ambiguo, che di fatto nella condizione siciliana nulla toglieva alla libertà personale, politica e religiosa dell’ebreo singolo, anzi di quella libertà era per molti aspetti garante. Il termine servi era il segno di una particolare condizione giuridica di totale subordinazione al potere sovrano sotto la cui giurisdizione si trovavano, ma anche della particolare protezione di cui godevano, che si esercitava però solo quando tale potere riusciva ad imporsi, escludendo interventi di altre autorità laiche o ecclesiastiche tendenti ad imporre obblighi e a vantare diritti sulle varie comunità ebraiche dell’isola. Come mette bene in luce il Lagumina: il titolo aveva due lati: il buono e il cattivo. Il buono perché l’autorità politica di Sicilia sempre pretese che i servi della Corona fossero lasciati vivere in pace, con piena libertà l’esercizio del loro culto religioso; ed il cattivo perché la vita dei protetti della suprema autorità politica era veramente penosa. Gli ebrei erano “proprietà” del re. Si cercava in tutti i modi di spillare loro quanto più denaro si potesse […]. I giudei di Sicilia erano sempre alle prese con il regio fisco per le tasse, per le contribuzioni e per le gabelle cui erano sottoposti tutto questo doveva produrre un grande avvilimento morale […].10 Numerosissime, infatti, erano le tasse che gli ebrei siciliani erano costretti a pagare: su svariati alimenti (quali, ad esempio, formaggio, tonno), su qualsiasi scambio di merci, ed inoltre quelle attinenti all’osservanza delle prescrizioni religiose, come le gabelle sulla mattazione degli animali e sui vini.11 Svariate erano le occasioni per richiedere gravami straordinari. B. e G. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, Palermo 1884/1909, 3 voll. Ristampa a cura della Società Siciliana di Storia Patria, Palermo 1990, vol. III, pp. VIII-IX. 11 Per quanto riguarda la descrizione dettagliata di tutte le varie tasse e gabelle si vedano A. Milano, cit., pp. 174-175; D. Abulafia, Le attività economiche degli ebrei siciliani attorno al 1300, in Italia Judaica V, 1995, cit., pp. 89-95. 10 Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 95 L’appartenenza alla Regia camera, inoltre, impediva l’assimilazione della popolazione ebraica con la popolazione locale.12 I segni esteriori della discriminazione non decaddero mai: dalla rotella sugli abiti al panno rosso esibito dalle botteghe.13 La rotella rossa, il segno distintivo che i giudei erano obbligati a portare per distinguersi dai cristiani, era il segno della loro infamia, che li rendeva oggetto di disprezzo e di scherno da parte dei loro oppressori. L’imperatore Federico II l’aveva stabilita contra judeos, ut in differentia vestium et gestorum a cristianis discernantur.14 Nelle costituzioni melfitane gli ebrei vengono trattati allo stesso modo dei musulmani, cioè come una minoranza cui l’imperatore garantisce la sua protezione. Nel paragrafo I 18 viene stabilito che ebrei e musulmani devono avere la possibilità di iniziare procedimenti legali, «perché non vogliamo che innocenti vengono perseguitati soltanto perché sono ebrei o musulmani». In un altro paragrafo (I 28) viene stabilito che nel caso che i colpevoli di un omicidio non possano essere individuati, gli abitanti della comunità, in cui il delitto è avvenuto, debbano pagare una multa collettiva: per l’omicidio di un cristiano cento augustali, per quello di un ebreo o un musulmano soltanto cinquanta. La vita di un ebreo o di un musulmano valeva quindi soltanto la metà di quella di un cristiano. La condizione giuridica degli ebrei siciliani era quella di cittadini di secondo grado. Essi si trovavano, come accennato, alle dirette dipendenze del re, il quale aveva così titolo per ingerirsi di tutto quanto si riferiva loro, poteva avanzare richieste di contributi ordinari e straordinari, e nello stesso tempo aveva interesse ad avere di fronte a sé una collettività unita con cui poter trattare. Di contro, gli ebrei potevano domandare l’intervento diretto del sovrano per raddrizzare i torti subiti, avevano la garanzia del rispetto delle concessioni loro fatte a compenso di tutti i “contributi” versati. Gli ebrei avevano riconoscimento ed autonomia come collettività; tutela in tutti i loro servizi religiosi, potevano possedere una sinagoga, un cimitero, un bagno rituale ed un mattatoio. Attilio Milano osserva: l’interesse parallelo, nel sovrano svevo prima e nell’aragonese dopo, di avere di fronte a sé una collettività ebraica unita e responsabile, e negli ebrei di potergli opporre un fronte solido d’azione o di resistenza secondo il caso, fece sì che in nessun altro periodo o in nessun’altra parte d’Italia si ebbe una collettività ebraica così rigidamente e integralmente organizzata come in Sicilia.15 Ibid. N. Bucaria, Sicilia judaica, Palermo 1996, p. 20. 14 F. Lionti, Documenti relativi agli ebrei di Sicilia, in Archivio Storico Siciliano, VIII-IX (1883-84), p. 156. Obbligo ribadito poi, nel 1366, da Federico III. 15 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 176. 12 13 96 Luciana Pepi Gli ebrei siciliani avevano libera scelta di attività, essendo loro preclusa solo la via dei pubblici uffici; potevano stabilirsi dove volevano, potevano possedere beni immobili, in città o in campagna. Ebbero, a volte, anche ruoli importanti, come Samuel Sala da Trapani che per due volte, nel 1403 e nel 1409, fu incaricato di trattare la pace tra il re di Sicilia e quello di Tripoli.16 Potevano possedere case, terre e potevano svolgere qualsiasi attività economica. Si dedicarono all’agricoltura, alla pesca, al commercio e all’artigianato. La loro presenza è attestata in quasi tutte le attività, erano: rinomati conciatori, carpentieri, calzolai, banchieri, notai,17 medici, veterinari. Famosi come abili lavoratori di ferro, di rame, di legno, di pelli, di metalli preziosi. Anche le lettere della gheniza hanno notevolmente contribuito a far luce sulle molteplici attività commerciali degli ebrei siciliani.18 Un importante ruolo ebbero nell’esportazione di vari prodotti quali: metalli, minerali, lino, pelli, mandorle, tessuti, seta. A Trapani la pesca e la lavorazione del corallo erano monopolio degli ebrei. Descrivendo la vita economica ebraica a Trapani, Angela Scandaliato scrive: i Sala, i Sammi, gli Atono, i Cuyno, i Romano […] occupano parecchi registri notarili e denunciano un fervore di attività economiche che dà un’impronta inconfondibile alla Trapani del Quattrocento, con le sue botteghe di coralli e corallari, gli orafi, il suo porto dove si agita una umanità variopinta di mercanti mediterranei barbarosi, […] le sue tonnare e i laboratori di tonnina dove voci in volgare siciliano si mescolavano a suoni in arabo maghrebino.19 Emerge da diverse fonti che la maggior parte degli ebrei esercitavano comunque mestieri artigiani. L’attività più diffusa era l’arte tintoria, nella quale essi avevano acquisito una posizione quasi monopolistica. A questa attività erano legati la produzione ed il commercio di seta e di stoffe pregiate. Soprattutto gli ebrei palermitani erano noti per la lavorazione della seta e della tintoria.20 La tintoria era un’occupazione così prettamente ebraica che in alcuni casi il termine era usato come sinonimo di giudecca.21 16 304, 499. B. e G. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, cit., vol. III, I, 176, 250, 257, 17 Sulle dinastie di notai ebrei a Trapani cfr. A. Scandaliato, Momenti di vita ebraica a Trapani nel Quattrocento, in Gli ebrei in Sicilia dal tardoantico al medioevo, Palermo 1988, pp. 170-171. 18 I documenti della gheniza del Cairo hanno creato le basi di un imponente studio della civiltà ebraica nel Mediterraneo del primo medioevo. Cfr. S. D. Goitein, A mediterranean society. The jewish communities of the arab world as portrayed in the documents of the Cairo Geniza, 1967-1988, 5 voll. 19 Ibid., p. 169. 20 A. Milano, Storia degli ebrei di Italia, cit., p. 93. 21 R. Straus, Gli ebrei di Sicilia dai Normanni a Federico II, Palermo 1992, p. 69. Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 97 Federico II affidò loro i monopoli della seta e della tintoria. La seta siciliana era famosa in tutto il Mediterraneo, in epoca normanna, la lavorazione della seta e la fabbricazione delle stoffe raggiunsero altissimi livelli, anche grazie all’arrivo di alcuni ebrei greci fatti prigionieri da Ruggero II nel 1147.22 Dai numerosi atti notarili che sono stati studiati si apprendono preziose informazioni sulla compravendita di beni mobili o strumentali: stoffe, manufatti, metalli, spezie. Vi sono pure contratti di lavoro stipulati per periodi stagionali, come per esempio la suolatura di scarpe, o il trasporto di merci. Quindi alla luce degli studi più recenti, non è corretto immaginare che gli ebrei svolgessero solo lavori umili. Anzi, esaminando le attività svolte dagli ebrei, quindi la loro partecipazione alla vita dell’isola, si può dedurre che la posizione sociale che loro occupavano, spaziava da incarichi di notevole importanza sino ai mestieri più umili.23 Come accennato molto considerevoli erano le attività imprenditoriali, professionali e mercantili.24 Numerosi ebrei si dedicavano alla produzione del vino e delle uve, spinti dall’obbligo rituale di fornire vino kasher alla comunità, anche se risulta da vari documenti che essi si interessavano delle uve non solo al fine di poter disporre di vino conforme all’uso rituale, ma anche in quanto forma di investimento redditizia; vino e uva, infatti, venivano acquistati anche dai cristiani.25 Gli ebrei siciliani si occupavano anche della coltivazione di canna da zucchero, di cui la Sicilia era grande esportatrice. Noti anche per la produzione di: olio, formaggio, datteri, hennè ed indaco. Molti di loro erano abili lavoratori di tonno, alimento che ben si adatta alle loro rigide regole alimentari. Come è noto, in Sicilia le tonnare erano numerose ed in esse erano presenti un gran numero di lavoratori ebrei, che si occupavano sia della pesca sia della lavorazione che della conservazione. Attilio Milano osserva: «in tutte le città della Sicilia non dovettero rimanere estranei ad alcun mestiere, qualificato od umile che fosse».26 Vi erano anche ebrei esperti nel campo della farmacopea vegetale e della fitoterapia. Tali conoscenze di medicina naturale facevano parte di remoti studi, infatti nei testi tradizionali antichi, quali il Talmud, erano indicate terapie a base di vegetali per curare i comuni malanni.27 La loro esperienza nell’arte medica era favorita dal Questi ebrei provenivano da Tebe e Corinto, centri importantissimi della lavorazione della seta. Occorre ricordare che gli ebrei dovevano occuparsi di alcune mansioni umilianti come la pulizia dei castelli e dei palazzi reali e quella di dover fornire il boia per le esecuzioni capitali, come avveniva a Palermo e a Messina. Cfr. A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 174. 24 D. Abulafia, Le attività economiche degli ebrei siciliani attorno al 1300, cit., pp. 89-95. 25 Ibid., p. 94. 26 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 177. 27 G. Cosmacini, Medicina e mondo ebraico, Laterza 2001, p. 40. 22 23 98 Luciana Pepi vantaggio di poter accedere con facilità ai testi di medicina scritti in arabo, lingua che possedevano perfettamente.28 In ogni luogo e in ogni tempo i medici ebrei furono molto apprezzati per le loro competenze e spesso la loro bravura era premiata dalle varie autorità locali con l’acquisizione di privilegi, come l’esenzione del pagamento delle tasse, o l’esonero dal portare il segno distintivo. È degna di nota la massiccia presenza di medici ebrei a Polizzi Generosa. Come osserva Angela Scandaliato: «Polizzi Generosa nelle Madonie, fu indubbiamente tra Trecento e Quattrocento, città di medici, non si tratta di presenze individuali registrate dalle fonti ufficiali, ma di vere e proprie dinastie familiari che stanno emergendo attraverso i contratti notarili […]».29 Come le giudecche di Sciacca e Caltabellotta erano note per la presenza di rabbini la cui cultura è testimoniata dai libri in loro possesso, quella di Polizzi era nota per il numero e la perizia dei suoi medici.30 È importante tener presente che nel corso della loro lunga permanenza in Sicilia, con il succedersi delle diverse dominazioni, la sorte della popolazione ebraica cambiò più volte. Quando ad esempio dal periodo musulmano si pervenne al Normanno avvennero alcuni cambiamenti, ed ancora maggiori cambiamenti si ebbero con la dominazione aragonese. Come sottolineano vari studiosi 31 se inizialmente le loro comunità erano indipendenti e bene inserite nelle città ospitanti, gradualmente la loro condizione peggiorò; si diffuse l’intolleranza, soprattutto con gli aragonesi, nel 1300, che pian piano li isoleranno. Le norme emanate da Federico III miravano essenzialmente alla netta separazione tra ebrei e maggioranza cristiana.32 Nei periodi arabo, normanno e svevo, essi conobbero una relativa prosperità e il loro numero aumentò. Nel XIV secolo e nei primi anni del XV si registrò una progressiva emarginazione degli ebrei; la politica dei sovrani continuò ad avere un carattere contraddittorio. Essi, da una parte, consideravano gli ebrei una fonte di entrate particolarmente preziosa in un’epoca di costante crisi delle finanze e, dall’altra, non erano insensibili alla predicazione antiebraica degli ordini mendicanti e alle posizioni ugualmente ostili agli ebrei dei loro consiglieri di corte.33 28 Attilio Milano, osserva giustamente che: «due cause ponevano gli ebrei in condizioni più favorevoli dei cristiani nel loro slancio verso la medicina: una, era la loro possibilità di consultare nell’originale i grandi trattati di medicina arabi, e l’altra, che alcune delle norme rituali imponevano loro l’osservanza di principi igienici, che poteva suggerire soltanto chi aveva una esatta conoscenza del corpo umano e delle sue reazioni: non si dimentichi a tal proposito che, secondo la Bibbia, purità morale e purità fisica non possono andare disgiunte» (cit., p. 626). 29 A. Scandaliato, Judaica minora sicula, Giuntina 2006, p. 129. 30 Ibid., p. 227. 31 D. Abulafia, La comunità di Sicilia dagli arabi all’espulsione, in Storia d’Italia, Annali 11: Gli ebrei in Italia, Einaudi 1996, pp. 47-83. 32 Ibid., p. 66. 33 Id., Il mezzogiorno peninsulare dai bizantini all’espulsione, in Storia d’Italia, Annali 11: Gli Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 99 A tal proposito un tema classico della storiografia ebraica, che è però stato riaffrontato criticamente negli ultimi decenni, è quello che concerne il deterioramento della condizione ebraica nel corso degli ultimi secoli del Medioevo e l’intensificarsi di persecuzioni ed espulsioni. Si è riesaminato il peso delle persecuzioni legate allo svolgimento della prima e della seconda crociata, ed anche il risvolto della peste di metà Trecento nelle regioni del nord-Europa, ridimensionando in parte il ruolo dell’epidemia nel deteriorarsi delle relazioni ebraico-cristiane. Allo stesso modo, moltissimi studi hanno ripreso negli ultimi decenni, questioni quali l’accusa di omicidio rituale e di dissacrazione dell’ostia, esaminando o riesaminando criticamente le fonti, soprattutto processuali. Il ruolo della predicazione dei Minoriti ha certamente contribuito a diffondere sentimenti antiebraici. I frati predicatori, francescani e domenicani, con le loro prediche, aizzavano il rancore e il sentimento di vendetta della popolazione per la morte di Gesù. Tra il 1474 e il 1475, la Sicilia fu scossa da un’ondata di antisemitismo che coinvolse molti centri dell’isola. Vi furono episodi isolati, verso singoli ebrei, ed episodi di massa come i massacri di un gran numero di vittime di Noto e Modica.34 Soprattutto nel periodo della Pasqua cristiana, a causa dei sermoni quaresimali che ricordavano il martirio di Gesù, si verificavano attacchi contro gli ebrei. Così nel venerdì santo del 1333, a Palermo, avvenne un gravissimo tumulto contro gli ebrei visti come i discendenti dei martirizzatori di un tempo, e qualcosa di analogo accadde a Trapani nel 1373.35 Non sempre la vita degli ebrei fu facile e tranquilla. Secondo alcuni studiosi tali difficili condizioni di vita determinarono il poco impegno nella attività culturali, nello studio.36 ebrei in Italia, Einaudi 1996, p. 26. 34 A Noto le vittime furono più di 500, mentre a Modica il numero degli ebrei uccisi fu di circa 360. 35 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 170. Anche a Polizzi nel 1413 e a Taormina nel 1455 il venerdì santo si ripeterono attacchi analoghi contro gli ebrei. Numerosi documenti attestano che spesso i sovrani dovevano intervenire per proteggere gli ebrei da tali attacchi. A Marsala, nel 1399, re Martino si adoperò per liberare gli ebrei dalla consuetudine di doversi recare, nel giorno di Santo Stefano, alla chiesa di San Tommaso, per ascoltare le prediche conversionistiche. L’obbligo di assistere a simili prediche era diffuso in tutta la Sicilia; ma a Marsala all’uscita, era norma che fossero fatti oggetto di una fitta sassaiola da parte del popolino, a ricordo del martirio subito da Santo Stefano. Cfr., A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 171. 36 È importante ricordare che nell’ebraismo lo studio è un precetto, una mitzwah, quindi difficilmente viene trascurato. Lo studio, la conoscenza dei testi fondanti della tradizione ebraica, sono da sempre una caratteristica peculiare della vita ebraica ed hanno reso possibile il mantenimento della loro identità. Il popolo ebraico non è solo il “popolo del libro” ma il “popolo che commenta, che studia, il libro”. Tale studio costituisce l’essenza della vita dell’ebreo che intende praticare il culto di Dio. Lo studio della Torah non è considerato un mezzo per l’acquisizione di nozioni, ma costituisce esso stesso il contenuto della vita spirituale dell’uomo. Scrive Y. Leibowitz: «per “studiare la Torah” non si intende 100 Luciana Pepi Certamente la vita culturale degli ebrei siciliani fu determinata dalla storia politica dell’isola e dalla posizione geografica tra mondo islamico e cristiano, incontro di cultura araba e latina. In Sicilia, terra di confluenza e d’immigrazione, venivano mercanti del Maghreb, dell’Egitto, di Malta, della Spagna. Molteplici erano dunque gli scambi commerciali e culturali. Sulla vita culturale degli ebrei siciliani le ipotesi degli studiosi sono diverse e spesso discordanti. Scrive Angela Scandaliato: è purtroppo ancora diffuso il pregiudizio, (nemico delle ricerche), che dalla limitata presenza nell’isola di maestri di legge e di esperti della halakah, specie in comunità della Sicilia orientale come Messina e Siracusa, tradizionalmente considerate aree più aperte alla cultura di tipo mediterraneo, e dalla carenza di codici e manoscritti ebraici siciliani, si debba desumere il basso livello culturale degli ebrei siciliani.37 Illuminanti sono gli studi di Henri Bresc,38 che tramite l’analisi dei testi contenuti nelle biblioteche di alcuni ebrei siciliani ha messo in luce gli autori e gli argomenti letti e studiati durante il medioevo. Oltre a studiare i testi fondanti della tradizione ebraica, quali: Torah,39 Mishnah40 e Talmud,41 particolare attenzione era solo apprendere quanto è scritto nella Torah, ma pensare ad essa, riflettere su di essa, interpretarla e trarne delle conclusioni». Lezioni sulle “Massime dei padri” e su Maimonide, Firenze 1999, p. 43. 37 A. Scandaliato, Judaica minora sicula, cit., pp. 474-475. 38 H. Bresc, Livres et Societé en Sicilie, ed. Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Palermo, Palermo 1971, pp. 239-241. 39 Il termine Torah, solitamente tradotto con Legge, deriva dalla radice verbale y r h che significa insegnare mostrare. La torah è l’insegnamento per eccellenza. Essa, infatti, insegna a vivere in modo corretto. Non si deve dunque intendere come legge, intesa in senso giuridico, ma come istruzione, insegnamento. Indica spesso l’intera Scrittura ebraica anche se propriamente designa i cinque libri del Pentateuco. «La Torah è l’insegnamento che Dio dà al suo popolo, è la via privilegiata che conduce a Lui. Essa insegna all’uomo come vivere rettamente. La Torah propone uno stile di vita, non la credenza in determinate dottrine. La Torah è anche la storia del popolo ebraico che incarna per tutta l’umanità il difficile cammino dell’uomo verso la Divinità e verso una vita più degna di essere vissuta». A. Cagiati, Settanta domande sull’ebraismo, Edizioni Messaggero, Padova 1997, p. 17. 40 La Mishnah fu redatta tra il I e il III sec. e. v. Il termine mishnah deriva dal verbo shanah ( radice s n h) che significa ripetere, in quanto solo la frequente ripetizione consente di fissare realmente nella memoria quel che viene insegnato. Essa è codificazione di leggi, tradizioni, esegesi del testo biblico. Anche la Mishnah, a sua volta, fu oggetto di ulteriore studio, di commento, il risultato di tale studio fu la Ghemarah (completamento). L’insieme di Mishnah e Ghemarah forma il Talmud. 41 Esistono due redazioni del Talmud: quello di Gerusalemme (o palestinese) terminato sul finire del IV sec. e.v. e quello di Babilonia (scuola di Sura), più ampio ed articolato, terminato nel VI sec. e. v. Il Talmud, testo molto vario e complesso, contiene: riflessioni morali, filosofiche, racconti, leggende, osservazioni scientifiche, discussioni giuridiche, temi religiosi (dal culto quotidiano ai rapporti umani), Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 101 rivolta ai testi di Mosè Maimonide e di halakah (la normativa).42 Inoltre, in Sicilia è documentata la presenza non solo di libri arabi tradotti in ebraico ma anche di traduzioni effettuate in Catalogna e in Provenza, nelle biblioteche sono presenti testi di Ippocrate, Galeno, Porfirio, Avicenna, Arnaldo di Villanova.43 È nota l’importanza degli ebrei come traduttori, conoscendo bene oltre l’ebraico anche l’arabo, il latino e il greco ebbero un fondamentale ruolo nella trasmissione del sapere. Tradussero testi filosofici, esegetici e scientifici, molte delle opere che nel medioevo sono giunte nel mondo latino-cristiano hanno essenzialmente subito la mediazione delle traduzioni dei filosofi ebrei. Presso la corte di Federico II di Svevia diversi intellettuali ebrei collaborarono all’immenso lavoro di traduzione.44 La consuetudine dell’ebreo traduttore di corte fu mantenuta anche da re Manfredi e dai suoi successori angioini.45 Anche in Sicilia la cultura ebraica mostra il suo carattere di apertura, confronto, collaborazione con l’ambiente circostante. In realtà tratto caratteristico dell’ebraismo, contrariamente a quanto spesso si affermi, è la sua “apertura” alle culture prossime.46 David Abulafia, ad esempio, sottolinea bene come la vita culturale, economica, legislativa e religiosa degli ebrei siciliani fu profondamente influenzata tanto dalla cultura del vicino Nord Africa che da quella spagnola. Così scrive: gli ebrei della Sicilia portano i caratteri particolarmente marcati del nord Africa […] Gli arabi hanno lasciato agli ebrei una eredità linguistica, l’arabo è esegesi della Scrittura. Il termine talmud deriva dal verbo lamad studiare (radice l m d ) e letteralmente significa studio. Il Talmud raccoglie un insieme di norme, leggi, tradizioni; esso tratta di problemi giuridici, economici, agricoli, rituali, morali. In esso si trovano anche credenze popolari, leggende e soprattutto ogni genere di interpretazioni della Scrittura. 42 Il termine halakah deriva dalla radice verbale h l k che vuol dire camminare e dunque letteralmente significa cammino. L’halakah è la via da seguire, la strada che l’ebreo deve percorrere per essere un buon ebreo. 43 R. Gianni, Sulla cultura Siciliana nel XV secolo, “La Fardelliana” XVII, Trapani 1998, pp. 7-51. 44 Cfr. Anatoli Ja’aqov, Il pungolo dei discepoli. Il sapere di un ebreo e Federico II, introduzione, traduzione e note a cura di L. Pepi, (Machina Philosophorum, 7), Officina di Studi Medievali, Palermo 2004. 45 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 654; C. Sirat, La filosofia ebraica alla corte di Federico II, in Federico II e le scienze, Palermo 1994, pp. 185-197. 46 P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, Queriniana, Brescia 2004, p. 297. G. B.Sermoneta, Federico II e il pensiero ebraico nell’Italia del suo tempo, in A. M. Romanici (a cura di ), Atti della Settimana di studi su Federico II e l’arte del 200 italiano, Roma 10 – 20 maggio1978, Galatina 1980, pp. 186-196. 102 Luciana Pepi rimasta “lingua parlata” degli ebrei siciliani fino al quattordicesimo secolo […] Anche il loro sistema giuridico fu determinato da quello islamico […] La cultura degli ebrei siciliani fu influenzata da quella nordafricana almeno fino alla conquista catalano-aragonese dell’isola alla fine del tredicesimo secolo, quando l’influenza spagnola, presente da tempo, divenne ancora più forte[...] La storia degli ebrei siciliani è quindi quella di una comunità che esprime qualcosa del carattere della stessa Sicilia: un’isola che fa da ponte tra cristianesimo e mondo islamico, e situata a cavallo delle vie di commercio tra l’economia in espansione dell’Europa occidentale e i grandi porti del mondo islamico.47 La cultura ebraica è dunque una cultura aperta alle altre culture, anche perché storicamente, a causa della diaspora, è nata e si è sviluppata nel diretto contatto con le culture “altre”. Come afferma Mauro Zonta: anche nella filosofia si rivelano con evidenza gli aspetti più significativi del rapporto tra la cultura ebraica e le culture prossime (quella greca antica, quella arabo-islamica e quella latino-cristiana medievale), e specialmente la capacità di rifondere temi e testi ripresi da altri ambienti, adattandoli alle proprie esigenze nazionali e religiose. La lettura dei testi della filosofia ebraica medievale, infatti, consente di vedere riflesso, come in uno specchio, l’avvicendarsi delle diverse tendenze del pensiero e della letteratura di area mediterranea tra l’800 e il 1500, mostrando quella ebraica non come una cultura puramente esoterica, chiusa in se stessa, ma come una cultura aperta alle più differenti influenze - quale, al di là dell’approccio più miope diffuso in certi studi anche recenti, essa è stata riconosciuta fin dagli inizi della giudaistica moderna, nel secolo XIX.48 Ed evidenzia Giulio Tamani: «non c’è stato un pensiero ebraico che, nel corso dei secoli, si è sviluppato in modo costante e autonomo ma ci sono stati pensatori ebrei che, sollecitati dai movimenti culturali che circolavano nella loro epoca negli ambienti non ebraici, hanno voluto confrontare il loro patrimonio culturale con quello degli altri».49 La continua interazione con la cultura della società dominante rappresenta un fattore di rilievo: il mondo ebraico, lungi dall’assorbire acriticamente ciò che veniva elaborato in ambito cristiano e musulmano, contribuì a sua volta ad influenzare il sapere del mondo circostante, soprattutto in alcuni settori. 47 D. Abulafia, Gli ebrei di Sicilia sotto i Normanni e gli Hohenstaufen, in Ebrei e Sicilia, Flaccovio 2002, pp. 70-71. 48 M. Zonta, La filosofia ebraica medievale, Bari 2002, p. V. 49 G. Tamani, Introduzione a S. Pines, La filosofia ebraica, Brescia 2008, p. 7. Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo 103 E così fu anche il Sicilia, dove si incontravano e si confrontavano diverse tradizioni culturali. Inoltre, come osserva Anna Foa, nel primo Medioevo, periodo in cui gli ebrei sono sparsi nel Mediterraneo, l’Italia meridionale è il centro di una presenza ebraica fitta e culturalmente assai importante. E’ infatti proprio attraverso l’Italia meridionale che il Talmud penetra in Occidente. È un ruolo decisivo di tramite quello che l’ebraismo dell’Italia meridionale assume in questi secoli, diffondendo il Talmud nelle comunità ebraiche spagnole, in quelle del Mediterraneo e poi attraverso la penisola, verso il Nord dell’Europa. Roma e l’Italia meridionale, quindi, si pongono, fin verso la fine del primo millennio, come i centri principali della diaspora occidentale.50 Infine vorrei fornire qualche rapido cenno sulla dibattuta questione della lingua usata dagli ebrei siciliani. Secondo i più recenti studi sembra conoscessero l’arabo, l’ebraico e quelli più colti, come i notai, anche il siciliano e il latino. È certo, come attestano numerosi documenti, che scrivevano in giudeo arabo, ossia in lingua araba con caratteri ebraici. Molto probabilmente gli ebrei siciliani parlarono, fino all’espulsione, la lingua araba, o meglio una sorta di dialetto magrebino.51 L’ebraico fu sempre lingua liturgica e dei documenti interni alla comunità. L’uso dell’arabo, nella lingua parlata, rispondeva alla necessità di mantenere l’identità culturale di fronte ai siciliani di religione cristiana e lingua neolatina; l’uso dell’alfabeto ebraico li distingueva invece dagli arabi musulmani. In tal modo gli ebrei siciliani, come sempre nella loro millenaria storia, si districavano tra mille difficoltà con la forte e perenne volontà di mantenere la propria identità. Per concludere: queste pagine riassuntive sulla vita giuridica, economica, sociale, culturale delle svariate comunità sparse in Sicilia, a mio avviso, fanno emergere ancora una volta che le condizioni di vita degli ebrei non sempre furono facili e felici. Al contrario, i diversi obblighi cui erano sottoposti, le svariate “angherie” e i veri e propri attacchi che subirono, attestano che in Sicilia, come nell’Europa del tempo, al cui vertice stavano il papa e l’imperatore, era dominante l’ideologia del perfidus judeos. Negli stati in cui dominava la Chiesa gli ebrei erano una presenza accettata, essi convivevano con i cristiani, ma tale convivenza era fondata su un’inferiorità giuridica molto netta e definita. Era un equilibrio fondato sulla sottomissione, in cui A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione. XIV-XIX secolo, Laterza 2004, p. 77. B. Rocco, Le tre lingue usate dagli ebrei di Sicilia dal secolo XII al secolo XV, in Italia Judaica V, pp. 355-369; id., Il giudeo-arabo e il siciliano nei secoli XII e XV. Influssi reciproci, in G. Ruffino (a cura di ), Atti del XXI congresso internazionale di linguistica e filologia romanza, Palermo 18-24/9/1995, Palermo 1998; G. Sermoneta, La traduzione siciliana di Alfabetin di pentecoste e la prova dell’esistenza di un dialetto siciliano, in Italia Judaica V, pp. 341-347. 50 51 104 Luciana Pepi i due piatti della bilancia stanno uno sopra e uno sotto. Gli ebrei sono ciechi perché non vedono la verità del Cristo, e sono naturalmente servi. Una servitù morale, evidentemente, che il diritto canonico riassume nella formula di perpetua servitù. L’ebreo persistendo nel suo errore di negare la verità del cristianesimo doveva essere tenuto in stato di sottomissione sociale e politica. Così il decreto di espulsione di Ferdinando il Cattolico sarà l’ultimo atto di una storia di sofferenze, di soprusi, di squallide prevaricazioni. Concordo con quanto espresso dal Lagumina nell’introduzione al Codice: «la popolazione cristiana non diede mai pace alla giudaica finché questa non fu violentemente scacciata. A me piacerebbe il provare coi documenti la tesi contraria, ma non posso».52 E sulla stessa linea osserva Fabio Oliveri: tollerante coi giudei in Sicilia non è nessuno. Né i musulmani né i normanni né gli svevi né gli spagnoli: è il giudaismo che si tollera, perché rende bene. Non i giudei in quanto uomini, che si preferisce discriminare. I giudei sono servi della Regia camera, cioè proprietà dello stato: la loro funzione è produrre ricchezza materiale e pagare tasse.53 Forse tutto questo, questa intolleranza, insieme alla cacciata del 1492, ha contribuito a far dimenticare, quasi a cancellare dalla memoria storica collettiva la numerosa presenza ebraica in Sicilia. È un dato di fatto che, esclusi gli specialisti della materia, la maggior parte dei siciliani ignori che nel passato in Sicilia abitarono per lungo tempo gli ebrei. Occorre, a mio modesto avviso, interrogarsi sul senso di tale ignoranza54 e certamente incrementare le ricerche e gli studi. B. e G. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, cit., p. IX. F. Oliveri, Giudei, fenici e musulmani di Sicilia, in Italia Judaica V, cit., p. 300. 54 Alcuni studiosi ipotizzano che si possa trattare di rimozione collettiva. Il fatto che la società dominante avesse una visione negativa degli ebrei, insieme ai diversi attacchi ed eccidi di cui furono vittime, ha possibilmente contribuito al fenomeno della rimozione. È necessario adoperarsi affinché ciò non accada, e da poco stanno nascendo delle interessanti iniziative. Così, ad esempio nella città siciliana di Modica, dove nel 1474 furono uccisi 360 ebrei, nel 2007 il comune ha organizzato un convegno sull’Ebraismo in Sicilia e a Modica, partendo dal dato che i modicani stessi non erano a conoscenza dell’eccidio di ebrei avvenuto nella loro città. 52 53 Salvatore D’Agostino La Sicilia di Federico III d’Aragona Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’ io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice (Dante, Purg., III, 112-117) Morto Federico II Hohenstaufen (1250), Imperatore del Sacro Romano Impero d’Occidente e Rex Siciliae, lo scontro tra i due poteri universali, impero e papato, non si placò. La sua morte, infatti, avrà un grande riverbero sui successivi sviluppi degli equilibri politici in Europa e nel mediterraneo. Secondo le disposizioni testamentarie dell’imperatore svevo, alla sua morte, il figlio Corrado avrebbe dovuto assumere sia il titolo imperiale che quello di Rex Siciliae e, Manfredi, principe di Taranto, sarebbe divenuto vicario dell’Impero e reggente in Sicilia. Papa Innocenzo IV, approfittando della delicata situazione interna del regno, sempre particolarmente turbolente a causa della rissosa e insoddisfatta nobiltà regnicola, intervenne cercando di trovare una soluzione, a lui favorevole, alla successione del trono di Sicilia, da sempre considerato feudo del papato. Il pontefice, infatti, avviò una serie di trattative diplomatiche, con le più importanti corti europee, alla ricerca di un nuovo sovrano per l’Italia meridionale. La prima scelta cadde su Riccardo di Cornovaglia, fratello di re Enrico III d’Inghilterra e successivamente su suo figlio, Edmondo di Lancaster. Intanto veniva anche sondata la disponibilità di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX il Santo, re di Francia. Le trattative tra la corte papale e quella inglese si protrassero per lungo tempo senza mai riuscire a giungere ad un accordo definitivo. Intanto, Manfredi, nel 1258, approfittando della favorevole situazione, si face 106 Salvatore D’Agostino incoronare re a Palermo. Questi impedimenti, comunque, non posero fine alla politica anti sveva del papato, anzi, con l’elezione al soglio pontificio del francese Urbano IV (1261), questa acquisto nuova linfa. Il nuovo pontefice puntò decisamente ad una soluzione francese per la corona siciliana. Dichiarato decaduto Edmondo di Lancaster, visto che non aveva mai versato le somme dovute alla Chiesa per la sua nomina a re di Sicilia, la corona venne offerta a Carlo d’Angiò. Carlo, sfruttando anche degli interessi del fratello Luigi per l’Impero d’Oriente, accettò l’investitura e, il 6 gennaio 1266, si fece incoronare re. Il 26 febbraio dello stesso anno sconfisse, a Benevento, Manfredi ponendo fine all’ultima resistenza sveva nel Regnum.1 Divenuto re, Carlo non riuscì a domare i siciliani. L’opposizione anti angioina, infatti, si sviluppò molto velocemente, pilotata da alcune delle famiglie più in vista del regno, come quella dei Capece, dei Filangeri, dei Lancia, dei Ventimiglia, e da personaggi quali l’ammiraglio Ruggero Lauria e Giovanni da Procida, rimasti fedeli all’ideologia imperiale sveva. Questi, morto Corradino, figlio Corrado IV e ultimo degli Hohenstaufen, da loro scelto quale successore al trono di Sicilia, intrapresero una serie di trattative con le corti europee alla ricerca di nuovo re e per denunciare gli abusi commessi dagli angioini sull’isola. La scelta cadde, questa volta, su Federico di Turinga, discendente per parte materna dall’imperatore svevo. Questa scelta, che aveva risvegliato le coscienze della corrente ghibellina, tuttavia si rivelò fallimentare. Più fortuna ebbero in Aragona, dove Giacomo I il Conquistatore, interessato a rafforzare la sua politica mediterranea al fine di trovare nuovi mercati per le compagnie catalane, aveva dato in moglie all’infante Pietro Costanza, figlia del defunto re Manfredi di Sicilia.2 Il 31 marzo 1282, a Palermo, questo malcontento sfociò in una serie di tumulti, che passeranno alla storia come la rivolta dei Vespri. Scrive Amari: La pasqua di resurrezione fu amarissima per nuovi oltraggi in Palermo; capitale antica del regno, che gli stranieri odiarono sopra ogni altra città, come più ingiuriata e più forte. Sedeva in Messina Erberto d’Orléans vicario del re nell’isola: il giustiziere di val di Mazzara governava Palermo; ed era questi Giovanni di San Remigio, ministro degno di Carlo. I suoi officiali, degni del giustiziere e del principe, testè s’erano sciolti a nuova stretta di rapine e di violenze. Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini di Palermo, 1 F. Giunta, Il Vespro e l’esperienza delle Communitas Siciliae». Il baronaggio e la soluzione catalano-aragonese dalla fine dell’indipendenza al Viceregno spagnolo, in Storia della Sicilia, vol. 3, Napoli 1980, pp. 307-310. 2 Ibid., pp. 311-315. La Sicilia di Federico III d’Aragona 107 cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovarono più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all’accorrente moltitudine: «Pagate, paterini, pagate». E il popolo sopportava. Il martedì appresso la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo, una festa si celebrò nella chiesa di Santo Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi di sopportare. Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni di fede n’han tramandato [...] Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da’ rei travagli un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero, e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l’usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne: e qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente ammonilli se n’andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i rissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean tra loro: «Armati son questi paterini ribaldi, ch’osan rispondere»; e però rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispetto frugarli indosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino [...] In questo una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto, con lo sposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a richiedere d’armi nascose; e le dà di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo sposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una volta questi Francesi!». Ed ecco dalla folla che già traea, s’avventa un giovane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forse cade ucciso al momento, restando ignoto il suo nome, e l’essere, e se amor dell’ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero il movessero a dar via così al riscatto. I forti esempi, più che ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e ‘l grido, come voce di Dio, dicon le istorie de’ tempi, eccheggiò, per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittime dell’una e dell’altra gente: e la moltitudine si scompiglia, si spande, si serra; i nostri con sassi, bastoni, e coltelli disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè; cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi festivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la strage de’ nostri: ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento. Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassando le rapite armi, gridando l’onta e la vendetta: «Morte ai Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola, l’arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol tutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè condottiero, Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: 108 Salvatore D’Agostino e il popolo ingrossava; spartito a stuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogni angolo, ogni latebra: «Morte ai Francesi!» e percuotonli, e squarcianli; e chi non arriva a ferire, schiamazza ed applaude.3 Il parlamento siciliano, riunito a Palermo, sfruttando l’occasione favorevole, cercò una via autonoma e inviò i suoi ambasciatori a Pietro III d’Aragona, che si trovava, in quei giorni, a Port Fangos pronto per salpare per le coste tunisine, e gli offrirono la corona siciliana. La risposta di Pietro non si fece attendere. Immediatamente diresse la sua flotta, comandata dall’ammiraglio Ruggero Lauria, verso la Sicilia e il 30 agosto 1282 sbarcò a Trapani. L’insurrezione, così, si trasformò in vero e proprio conflitto che vedeva opposti, da una parte, siciliani ed aragonesi, dall’altra angioini, papato e francesi. Il 26 settembre 1282 re Carlo d’Angiò, sconfitto, faceva ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani degli aragonesi. Nello stesso anno papa Martino IV scomunicò Pietro e tutti i siciliani per essersi opposti alla sua volontà. Pietro, nominato dal parlamento re di Sicilia, prese l’impegno di tenere distinti i regni di Sicilia e di Aragona: il re avrebbe nominato un luogotenente che in sua assenza avrebbe regnato in Sicilia. Così quando Pietro fu richiamato in Aragona, per assumerne la corona, lasciò la luogotenenza al figlio Alfonso III. Il 19 giugno 1291 Alfonso, re d’Aragona dal 1285, morì improvvisamente lasciando il regno al fratello Giacomo II e disponendo che la Sicilia andasse al fratello più giovane Federico; ma Giacomo dopo essersi fatto incoronare a Saragozza nel mese di luglio, come successore di Pietro III e non di Alfonso III, ne trascurò il testamento e si tenne il regno di Sicilia, a scapito di Federico. L’infante Federico, nello stesso 1291, fu nominato luogotenente del fratello in Sicilia. Il primo obbiettivo di re Giacomo fu di porre fine alla situazione che vedeva l’Aragona in perenne lotta contro il papato e la Francia per la corona siciliana. La situazione si sbloccò dopo l’elezione al papato, 23 dicembre 1294, di Bonifacio VIII, che, elaborando la proposta del suo predecessore, papa Celestino V, ad Anagni, il 12 giugno del 1295, stipulò un trattato con Giacomo II e con Carlo II d’Angiò. Con questo accordo, Giacomo acconsentì a cedere la Sicilia; in cambio avrebbe ottenuto i feudi di Sardegna e di Corsica, se li avesse saputi conquistare, e avrebbe sposato la figlia di Carlo II d’Angiò; mentre Federico, che perdeva il governatorato della Sicilia sarebbe stato compensato dal matrimonio con l’erede dell’impero d’oriente, Caterina Courtenay, figlia dell’imperatore Filippo I di Courtenay e Beatrice d’Angiò, con l’impegno di aiutare il futuro suocero a riconquistare l’impero. Il re di Francia, Filippo IV il Bello, pur approvando il Trattato di Anagni, rifiutò di accettare quest’ultima clausola e, in quello stesso anno, il fidanzamento tra 3 M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, Parigi 1843, pp. 56-57. La Sicilia di Federico III d’Aragona 109 Federico e Caterina fu rotto. Federico, amareggiato, oltre che dalla rottura del fidanzamento, anche dal fatto che Giacomo non aveva ottemperato al testamento di Alfonso, accettò le offerte dei Siciliani che, sentendosi traditi dal nuovo re Aragonese, lo dichiarano decaduto, e elessero al trono di Sicilia Federico. L’11 dicembre 1295, a Palermo, Federico fu proclamato Signore della Sicilia e, il 15 gennaio 1296, il Parlamento siciliano riunito al Castello Ursino di Catania lo riconobbe Federico III Re di Sicilia. L’incoronazione ufficiale avvenne, il 25 marzo del 1296, nella Cattedrale di Palermo. A farsi interprete del sentimento popolare fu l’ammiraglio Ruggero Lauria nel suo discorso rivolto a Federico in occasione della sua elezione. Secondo la cronaca di Muntaner, l’ammiraglio espose, nel suo discorso, i tre motivi che dimostravano come il giovane Federico fosse quel terzo Federico designato dalla profezia4 e destinato ad essere, come i suoi predecessori, il signore del mondo.5 I motivi, secondo Lauria, erano evidenti: Federico era il terzo figlio di re Pietro, nato dopo Alfonso e Giacomo; egli era il terzo Federico che dominava sulla Sicilia;6 egli era quel Federico che, secondo la profezia, sarebbe dovuto diventare imperatore di Germania e che avrebbe condotto l’umanità ad uno stato di pace e felicità.7 Nel titolo che egli assunse, una volta incornato, era già esplicito il programma di governo, cioè quello di restaurare l’antico regno siciliano. La Sicilia ebbe in Federico d’Aragona il suo primo re «nazionale». La sua elezione, avvenuta qusi per vim raptus, era una creazione del popolo siciliano. Lo stesso Federico non esitò mai a riconoscerlo.8 Francesco Testa, nel ricordare il giorno dell’incoronazione di Federico, scrive: [...] Federico, che allora contava venticinque anni, fu salutato re di Sicilia, duca di Puglia e principe di Capua nella cattedrale di Palermo; dall’arcivescovo di Palermo [...] fra la grande affluenza di vescovi, di nobili e di popolo, e con 4 La profezia cui si fa riferimento fece la sua comparsa dopo la morte di Corradino e si faceva risalire all’abate Gioacchino da Fiore. Secondo questa profezia, il leone di Francia avrebbe strappato la corona regale dal capo di Manfredi. Allora sarebbe giunto il figlio dell’aquila che avrebbe indebolito il leone ma non sarebbe riuscito a sconfiggerlo. Il leone avrebbe regnato per poco tempo perché sarebbe arrivato un Federico che avrebbe sconfitto ed annientato il leone. Questo Federico avrebbe dominato il mondo durante il tempo, avrebbe catturato il papa e disperso il clero. Infine, spagnoli e tedeschi, insieme, avrebbero sconfitto la Francia. 5 A. De Stefano, Federico III d’Aragona Re di Sicilia (1296-1337), Bologna 1956, p. 98. 6 Il calcolo comprendeva tra i dominatori della Sicilia anche Federico Barbarossa che, combinando il matrimonio del figlio Enrico con Costanza, aveva determinato il passaggio della Sicilia alla casa sveva. 7 Ibid., cit., p. 99. 8 Ibid., pp. 102-103. 110 Salvatore D’Agostino tanta gioia e sontuosità, come mai se ne vide. Le strade erano cosparse di mirto e addobbate le chiese; i fiori, i portici, le piazze, i vicoli e ogni altro luogo della città, sia pubblico che privato [...] Tutta la città echeggiava di suoni di trombe, timpani, arpe, sitri, lire, cetre accompagnati da ogni genere di musiche e di canti. Si allestirono giochi, tornei e altri spettacoli. Non si trascurò nulla che non mostrasse il plauso generale e la gioia. E ciò non solo a Palermo: in tutta l’Isola non ci fu una sola città, ciascuna secondo le proprie facoltà, che non abbia gareggiato con la capitale nei festeggiamenti, sicché si vide tutta la Sicilia esultare di letizia. I Siciliani non finivano di godere e compiacersi di avere un proprio sovrano nel fiore degli anni, cui non difettava alcuna dote del corpo e dello spirito, cresciuto e allevato presso di loro, che amava la Sicilia come la propria patria, ornato di virtù e saggezza, che era adatto non solo a difendere lo Stato, ma anche ad esaltarlo.9 Federico, forte di questa investitura, riprese la guerra del Vespro e prendendo l’iniziativa nei confronti degli Angioini e portando la guerra in Calabria e nel napoletano. Allora, Bonifacio VIII, agli inizi del 1297, convocò a Roma sia Giacomo II che Carlo II d’Angiò e li spronò a riconquistare la Sicilia secondo il Trattato di Anagni. In conseguenza a quest’accordo Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria dovettero abbandonare la Sicilia, per ordine di Giacomo, e alla fine anche la regina madre Costanza dovette abbandonare il figlio prediletto Federico e raggiungere Giacomo. Giacomo intervenne, a fianco degli Angioini, contro il fratello Federico ed i siciliani e con la flotta aragonese, affiancata da quella napoletana, a Capo d’Orlando, nel luglio del 1299, sconfisse Federico che si riuscì a salvare con solo 17 galee. Giacomo, l’anno dopo, vista la tenace resistenza del fratello, fece ritorno in Aragona. La guerra ora era in Sicilia, dove il duca di Calabria, Roberto, col fratello, Filippo I di Taranto, avevano conquistato Catania e cinto d’assedio Messina. Federico però riportò una notevole vittoria nella piana di Falconara (Trapani) e resistette a Messina e Calabria, facendo prigioniero Filippo. Allora il papa, nel 1300, chiamò in aiuto i templari, gli ospitalieri ed i riluttanti Genovesi, ma ad eccezione di una nuova brillante vittoria della flotta di Lauria su quella siciliana, il 14 giugno del 1300, la situazione non progredì. Infine Bonifacio VIII si rivolse al re di Francia, Filippo IV il Bello, che inviò un esercito al comando del fratello, Carlo di Valois, che, arrivato in Sicilia, nel maggio del 1302, bruciando e depredando, l’attraversò sino a Sciacca, dove però arrivò distrutto dalla malaria e, per la paura di un deciso attacco da parte di Federico, accettò la pace che gli venne offerta. Allora, da Carlo di Valois, Carlo II d’Angiò e dal papa, fu proposto a Federico di sposare Eleonora, la figlia di Carlo II lo Zoppo e di Maria d’Ungheria e sorella del duca di Calabria Roberto; durante 9 F. Testa, Vita e opere di Federico II re di Sicilia. Introduzione di S. Fodale. Traduzione di E. Spinnato, Palermo 2006, pp. 51-52. La Sicilia di Federico III d’Aragona 111 la trattativa fu offerto a Federico, in cambio della Sicilia, il regno di Albania, creato per lui oppure il regno di Cipro, dopo averlo tolto alla famiglia Lusignano. Federico rifiutò, ma, nell’agosto del 1302, fu trovato un compromesso che prevedeva che Federico III mantenesse il potere sulla Sicilia col titolo di Rex Trinacriae (il titolo di Rex Siciliae spettava solo al re di Napoli) fino alla sua morte, dopo la quale l’isola sarebbe dovuta passare nuovamente agli Angiò. La guerra dei Vespri siciliani terminò con la pace di Caltabellotta: il 31 agosto del 1302, probabilmente nel castello del Pizzo, si firmò il trattato di pace. Questo trattato, modificato dal papa il 12 maggio 1303, comunque confermò che Federico III mantenesse il potere sulla Sicilia, portatagli in dote dalla moglie Eleonora, col titolo di Re di Trinacria e dopo la sua morte l’isola sarebbe dovuta passare nuovamente agli Angiò. Il matrimonio con Eleonora venne celebrato nel maggio 1303, a Messina. Comunque Eleonora era al suo secondo matrimonio, avendo sposato in prime nozze, nel 1299, Filippo di Toucy, futuro Principe di Antiochia (dalla madre, Luisa di Antiochia) futuro Signore di Terza (dal padre, Nariot di Toucy). Il matrimonio era stato annullato dalla bolla di papa Bonifacio VIII, il 17 gennaio 1300, per la troppo giovane età della sposa. Nonostante il trattato fosse stato firmato non fu vera pace. Il termini dell’accordo, infatti, soddisfacevano più le esigenze del papato che quelle dei due regni, Napoli e Sicilia. Gli angioini, con la creazione di un regno siciliano indipendente, vedevano notevolmente ridotti i propri territori e, in particolar modo, perdevano forze e risorse, la cui mancanza non avrebbe reso possibile una politica espansionistica. Il re di Trinacria, che vedeva legittimato il proprio titolo, perdeva ogni garanzia di successione dinastica al trono di Sicilia. La pace, in realtà, durò solo pochi anni. Già nel 1313, la guerra tra angioini e aragonesi era ripresa. Il parlamento siciliano, il 12 giugno 1314, disattendendo l’accordo siglato con la Pace di Caltabellotta, riconosceva il figlio di Federico, Pietro come erede al trono, e quindi, alla sua morte, successore di Federico, e, il 9 agosto, confermava Federico re di Sicilia e non più di Trinacria. Seguirono due anni di guerra, in cui Roberto d’Angiò cercò di conquistare l’isola (1314), a cui seguì una tregua di due anni, sino al 1316. Allo scadere della tregua, Roberto attaccò la Sicilia occidentale e si diresse su Palermo, su cui confluiva anche la flotta napoletana. Federico, preso alla sprovvista e preoccupato di essere sconfitto, nel 1317, chiese una tregua che gli fu concessa a patto di restituire agli angioini tutte le posizioni che ancora deteneva sul continente (quasi tutte in Calabria). La nuova tregua sarebbe scaduta a Natale del 1320. Finita la tregua, Federico, nel 1321, inviò una flotta con reparti di cavalleria di fronte a Genova, in aiuto dei ghibellini che combattevano contro la repubblica di Genova, ma Roberto d’Angiò, alleato di Genova, inviò 82 galee che costrinsero la flotta siciliana a ritirarsi e rientrare in Sicilia. Nel settembre dello stesso anno, la 112 Salvatore D’Agostino flotta siciliana tornò a Genova e coordinando gli attacchi con le truppe dei ghibellini lombardi, capitanati da Marco Visconti, riuscì a creare grandi difficoltà per i difensori, senza però riuscire a fare cadere la città. A causa del cattivo tempo, la flotta fu molto danneggiata e dovette rientrare definitivamente in Sicilia. Sempre nel 1321, Federico aveva fatto incoronare il figlio Pietro come reggente e suo successore, attirandosi le ire di papa Giovanni XXII, che scagliò l’interdetto sulla Sicilia (lo tolse solo nel 1334, poco prima di morire). Il trattato di Caltabellotta più che una soluzione definitiva rappresentò un tentativo di tregua che consentiva ai due re di preparasi per un ulteriore svolgimento dell’azione politica e militare.10 La Sicilia usciva da questo periodo di incertezze particolarmente indebolita. Infatti, il continuo stato di guerra con gli Angiò aveva reso impossibile qualsiasi tipo di crescita economica. Le città costiere erano continuamente esposte alle scorribande e alle razzie della marina angioina. L’entroterra era arretrato e in mano ai grandi feudatari. I mercanti catalani e del nord Italia, presenti sull’isola, erano interessati esclusivamente al commercio del grano incentivando, in questo modo, la monocultura e indebolendo il sistema agrario. Particolarmente critica era, anche, la situazione religiosa. I beni ecclesiastici, prima dell’arrivo degli aragonesi sull’isola, era stati oggetto delle aggressioni degli angioini e, successivamente, da parte dei baroni, tanto che la Chiesa giunse a considerarsi il capro espiatorio della società. Federico cercò con ogni mezzo di trovare il giusto equilibrio tra la propria intensa religiosità e il desiderio di trattare la Chiesa con la dovuta deferenza. Scrive Backman: Caltabellotta liberò d’un sol colpo due decenni di energia spirituale repressa nella popolazione, sia nelle classi sociali alte che in quelle più umili, giacché un interdetto ecclesiastico aveva proibito a lungo in Sicilia la celebrazione dei sacramenti che erano ritenuti necessari per la salvezza. Tutti i sostenitori del regime catalano (per non dire il regime stesso), inoltre, erano stati denunciati ripetutamente e scomunicati da ogni papa fin da quando, il 7 maggio 1282, Martino IV li aveva paragonati alla folla che aveva voluto la crocifissione di Cristo. Ad ogni modo i Siciliani, animati dal fatto che erano riusciti a scacciare gli Angioini con successo, difficilmente avrebbero potuto sostenere un tale castigo con serenità. Il divieto di celebrazioni dei sacramenti era stato assoluto [...] Le conseguenze furono enormi. La lunga separazione della Chiesa suscitò nei Siciliani più anziani grande ansia, risentimento e incertezza [...] Che beneficio avevano tratto all’indipendenza politica conquistata, se in quel processo avevano perso la loro anima? Gli anni del Vespro furono costellati da paure di 10 A. De Stefano, Federico III d’Aragona, cit., pp. 127-128. La Sicilia di Federico III d’Aragona 113 questo genere e i numerosi doni destinati alle chiese locali e ai monasteri erano un riflesso di questa preoccupazione.11 Federico, che fin dalla sua giovinezza, si era mostro pio e animato da un grande spirito religioso, dal 1305 divenne discepolo di Arnaldo di Villanova, un medico catalano, divenuto mistico, che aveva trovato rifugio in Sicilia dopo essersi inimicato, a causa delle sue teorie, sia il re d’Aragona Giacomo II sia il pontefice. Arnaldo aveva identificato in Federico di Sicilia il «re eletto da Dio», di cui si parla nelle profezie di Gioacchino da Fiore, che avrebbe avuto il gravoso compito di condurre tutta la cristianità contro le armate dell’Anticristo, la cui venuta era ormai imminente. Divenuto consigliere spirituale del re, Arnaldo, durante il suo soggiorno siciliano, dedicò al suo sovrano un tratto, l’Allocutio Christini. In questa, partendo dall’asserzione che l’uomo è l’unico essere creato da Dio in grado di comprenderne il piano della salvezza, il principe ha il compito di portare a termine i cambiamenti e le riforme necessarie per la purificazione della cristianità. Arnaldo, dunque, esorta Federico ad intraprendere una riforma della vita spirituale siciliana e ad amministrare il regno con uno spirito conforme ai doveri del perfetto re cristiano. Dal 1305 in poi, infatti, tutta la corte siciliana partecipò al programma di riforma spirituale del sovrano, incrementando la restaurazione ecclesiastica, la fondazione di chiese e aumentando lo sforzo per sradicare la corruzione nell’amministrazione. Nel 1310, in occasione di un suo secondo soggiorno in Sicilia, Arnaldo compose un altra opere per re Federico, l’Informació espiritual, scritta in lingua catalana, dove esorta il sovrano a mantenere un impegno più rigoroso nella riforma personale e ad una osservanza dei due maggiori doveri di un veri re cristiano: promuovere l’utilità pubblica e garantire la giustizia a tutti i sudditi, ricchi o poveri, nativi o stranieri. Anche alla regina Eleonora vennero affidati, nell’Informació espiritual, due compiti fondamentali: durante le periodiche visite agli indigenti la regina avrebbe dovuto indossare, insieme alle sue due ancelle, vesti di lino, in modo da simboleggiare la Fede accompagnata dalla Speranza. In secondo luogo, la regina avrebbe dovuto censurare tutti quei libri che erano incentrati sulla vita mondana e avrebbe dovuto leggere, in vernacolo, alla prole reale, la Sacre Scritture ogni domenica e in tutte le festività. La corte rispose con grande entusiasmo alle iniziative di Arnaldo, redigendo una nuova legislazione che rispecchiava in pieno i consigli del medico catalano e che per lungo tempo furono catalogate tra i suoi scritti.12 Il periodo di tregua che segue Caltabellotta è caratterizzato, anche, dall’espansionismo siciliano verso le coste africane e il mar Egeo. 11 C. R. Backman, Declino e caduta della Sicilia medievale. Politica, religione ed economia nel regno di Federico III d’Aragona Rex Siciliae (1296-1337). Edizione italiana a cura di A. Musco, Palermo 2007, pp. 179-180. 12 Ibid., pp. 193-197. 114 Salvatore D’Agostino La prima occasione per Federico si presentò nel 1305. Gli abitanti dell’isola di Gerba, feudo dell’ammiraglio Lauria, dopo la sua morte, erano insorti, istigati dal signore di Tunisi. Federico, allora, decise di intervenire in aiuto di Ruggerone, figlio dell’ammiraglio, che si trovava presso la corte siciliana. Scrive De Stefano: pervenutane notizia alla Corte siciliana, presso la quale trovavasi Ruggero (o Ruggerone) figlio del grande ammiraglio, questi, con l’aiuto di re Federico, apparve nella primavera dello stesso anno con 6 galere armate nelle acque della grande Sitri. Ma già i Saraceni, avuto sentore della spedizione siciliana, avevano si dalla metà di marzo abbandonato l’isola ai cristiani.13 In realtà re Federico non riuscì mai ad assicurarsi il controllo definitivo dell’isola, sempre turbolenta, fino a quando, nel 1336, fu costretto ad abbandonare l’impresa. Federico non fu più fortunato nella riscossione del tributo, dovuto da Tunisi, sin dall’epoca dei normanni, al re di Sicilia. Su di esso vantavano diritti, stabiliti nei recenti trattati, sia il re di Francia sia il re d’Aragona, oltre che quello di Napoli e di Sicilia. Le mire espansionistica della Sicilia si rivolsero anche verso l’oriente, che da sempre aveva attirato le attenzioni degli isolani. Dopo la pace di Caltabellotta si presentò l’opportunità: l’imperatore bizantino, Andronico II Paleologo, chiese l’appoggio della Sicilia contro i Turchi che minacciavano, da tempo, la Grecia. I siciliani, ansiosi di reindirizzare l’ampio numero di mercanti catalani, utili ed indispensabili durante la guerra ma pericolosi durante il periodo di pace, e degli almogàvers, un gruppo specializzato della fanteria catalana, che non conosceva altra attività che la guerra, accolsero l’invito dell’imperatore. La «Compagnia Catalana», mandata in suo aiuto, ottenne numerose vittoria contro i Turchi, tanto che lo stesso l’imperatore era preoccupato che Ruggero da Flor, comandate della Compagnia, aspirasse, per se e i suoi compagni, ad una ricompensa maggiore di quella pattuita. Andronico, allora, comandò l’omicidio di Ruggero. Questo provocò il risentimento della Compagnia, che si alleò con i Turchi contro cui aveva combattuto fino al quel momento. Nel 1311, la «Compagnia Catalana» invitò Federico a dichiararsi sovrano del ducato di Atene. Federico nominò il figlio Manfredi, duca di Atene e, l’altro figlio, illegittimo, Alfonso Federico, capitano-generale del ducato. L’idea di Federico di mantenere il controllo del ducato e di usarlo come base per estendere il suo dominio in oriente fu subito evidente. Tuttavia la presenza siciliana in Grecia comportò un ulteriore peso sulle già scarse risorse del regno e inasprì la posizione di papato e angioini. Entrambi intendevano minare la base economica e politica della Sicilia 13 A. De Stefano, Federico III d’Aragona, cit., p. 130. La Sicilia di Federico III d’Aragona 115 invadendo, o minacciando di invadere, l’isola o il ducato d’Atene. La Sicilia beneficiò poco di questi domini orientali. L’impossibilità di stabilire una relazione efficace tra il regno e il ducato, fecero si che questo diventasse per la Sicilia un peso che più una fonte di benefici, un territorio debole che continuava a mantenersi grazie alle continue elargizione del demanio regio.14 La tensione tra aragonesi e angioini continuava a rimaneva tesa. Questa si inasprì nuovamente quando Federico III decise di appoggiare la campagna in Italia del nuovo imperatore Enrico VII di Lussemburgo. Papa Clemente V, che si trovava lontano da Roma, nominò suo vicario Roberto d’Angiò al fine di tutelare i propri domini e la fazione guelfa messi in serio pericola da questa nuova alleanza. Federico, intanto, inviava i suoi ambasciatori per concludere gli accordi con l’imperatore. Questi, nominò Federico III ammiraglio della flotta imperiale, prefetto delle regioni costiere e comandante supremo delle forze marittime. Nel 1313 Federico salpava con la sua flotta, compresa quella pisana, alla volta delle coste calabre, dove in pochi giorni riuscì a conquistare Reggio. Nonostante le vittorie riportate il re di Sicilia fu costretto a dirigersi verso Gaeta, per ordine dell’imperatore, dove tutte le forze si sarebbero congiunte e avrebbero tentato di varcare i confini del regno angioino. Mentre la flotta si dirigeva verso il luogo stabilito per il ricongiungimento Federico III fu raggiunto dalla notizia della prematura morte dell’imperatore Enrico.15 Federico si trovò nuovamente solo contro i molti nemici coalizzati contro di lui e tutte le sue ambizioni subirono una battuta d’arresto e fu costretto a ritornare in Sicilia. Nel decennio che va dalla morte di Enrico VII alla venuta di Ludovico il Bavaro, Federico, che da sempre aveva impresso alla sua politica un carattere aggressivo ed espansionistico, si ripiegò su se stesso preoccupato di difendersi dai continui tentavi di Roberto d’Angiò di riconquistare l’isola.16 Scrive Testa: E invece Roberto, che ormai aveva deciso di rinnovare la guerra contro Federico perché aveva cospirato con Enrico alla sua rovina, furibondo ed eccitato non solo dallo stimolo che già da tempo lo faceva smaniare di occupare la Sicilia, ma anche di vendicare la recente ingiuria, si affrettava ad utilizzare contro Federico quello stesso esercito che aveva pronto per respinger le forze di Enrico [...] Mentre Federico disponeva queste cose a sua protezione, aveva infuso coraggio in Roberto un responso sull’esito della spedizione, dato dagli indovini consultati da alcuni cardinali [...] secondo cui avrebbe preso la Sicilia 14 C. R. Backman, Declino e caduta, cit., pp. 59- 63. F. Testa, Vita e opere di Federico II, cit., pp. 166-169. 16 A. De Stefano, Federico III d’Aragona, cit., p. 184. 15 116 Salvatore D’Agostino e ne avrebbe riportato le spoglie.17 Nel 1327 morì Giacomo II re d’Aragona. In quello steso anno un altro imperatore preparava una campagna militare in Italia: Ludovico il Bavaro. A differenza del suo predecessore Enrico, Ludovico era in aperto conflitto con il papato e un deciso sostenitore della fazione ghibellina. Federico, nonostante la precedente avventura si fosse dimostrata un fallimento, cercò un’alleanza con il nuovo imperatore. Il 17 marzo 1326, a Messina, i delegati delle due parti siglarono un trattato di alleanza difensiva e offensiva. L’accordo prevedeva, anche, che Elisabetta, figlia di re Federico, andasse in moglie a Stefano, futuro duca di Baviera, secondogenito dell’imperatore. L’alleanza, secondo una clausola, sarebbe entrata in vigore solo se Ludovico fosse giunto in Italia entro l’anno. Ciò non avvenne, poiché l’imperatore era impegnato a pacificare la Germania, e l’accordo decadde. L’anno successivo, 1327, ne fu firmato un altro, identico nei termini a quello di Messina, ma questa volta perpetuo. Questa alleanza nelle intenzioni di Ludovico doveva principalmente servirgli alla deposizione del papa e a sconfiggere la resistenza dei suoi nemici in Italia; per Federico, invece, questa doveva servire ad indebolire la potenza angioina ma non intaccare l’autorità spirituale della Chiesa della quale egli si dichiarò sempre figlio sincero e devoto.18 Nel 1328 Ludovico, a Roma, nominò un anti papa e si fece incoronare imperatore. Vista la situazione favorevole, la flotta siciliana, comandata da re Pietro, figlio di Federico, il 6 agosto, salpò alla volta di Roma dove avrebbe dovuto ricongiungersi con l’esercito imperiale. Ma la speranza dei siciliani fu tradita. Infatti, Ludovico decise di abbandonare Roma. I futuri incontri tra le due delegazioni si rivelarono un fallimento. Il 28 settembre, l’imperatore con il suo esercito e le sue insegne abbandonarono l’Italia. Pietro, con la sua flotta, decimata da una violenta tempesta, face ritorno in Sicilia. Federico morì il 25 giugno del 1337. Il re di Sicilia aveva dichiarato nel testamento di voler esser sepolto a san Francesco nella città di Barcellona, accanto al fratello Alfonso d’Aragona e alla madre Costanza. Tale allontanamento da Palermo sarebbe stato inaccettabile per i siciliani e quindi modificò le sue volontà e dispose per una sepoltura nella cattedrale nel capoluogo. La salma venne quindi tumulata provvisoriamente nella Cattedrale di Catania, in attesa traslazione a Palermo. A causa del perdurare della guerra del Vespro la salma rimase definitivamente a Catania. Scrive De Stefano: 17 18 F. Testa, Vita e opere di Federico II, cit., pp. 170-171. A. De Stefano, Federico III d’Aragona, cit., p. 223. La Sicilia di Federico III d’Aragona 117 […] L’aquila che, secondo l’espressione della letteratura profetica, aveva affrontato con tanta baldanza il leone, appariva ora stanco ed inerte. Il suo animo si andava riempiendo di tristezza […] Quante occasioni mancate che erano sembrate decisive, quante speranze tramontate erano parse certezza. Dopo 40 anni di regno, colmo di avvenimenti drammatici e di situazioni impensate, dopo aver lottato con parecchi papi, e aver avuto alleati o nemici parecchi re ed imperatori, dopo essere stato più di una volta sfiorato dall’ala della vittoria, egli era appena riuscito a difendere e salvaguardare l’indipendenza del regno, e solo a prezzo della prosperità del paese. Lasciava, è vero, il trono al suo figliuolo Pietro ma un trono più che mai sbattuto dalle tempeste […] Il suo animo era colmo di ansie, di preoccupazioni, di timore, per il presente e ancor più per l’avvenire, quando, nel maggio del 1337, egli aveva voluto recarsi a Castrogiovanni per passarvi l’estate. Per via, a Resuttana, un grave malore lo colse improvvisamente. Presago della sua fine imminente, volle essere trasportato a Catania, presso le reliquie di Sant’Agata, a cui egli era particolarmente devoto. Ma tra Paternò e Catania, in un convento di Cavalieri di S. Giovanni, il 25 giugno 1337, moriva.19 19 Ibid., p. 244-245. Vincenzo M. Corseri Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento. Cusano e Piccolomini a Basilea Il presente contributo1 è volto a sfatare – anche se in un preciso ambito fattuale e cronologico, quello del Concilio ecumenico di Basilea (1431-1449) – gli idola ereditatici da una certa storiografia che vuole mostrarci il Quattrocento ancora come il secolo dell’ottimismo ad oltranza. Grazie alle recenti analisi di alcuni eminenti storici della cultura filosofica e religiosa dell’Umanesimo italiano – come Eugenio Garin, Kurt Flasch, Remo L. Guidi ecc. –, è stato finalmente possibile far emergere le veridiche peculiarità di quest’epoca, contrassegnata da fragilità, dal continuo riproporsi dell’idea della morte, dal problematicismo esistenziale degli uomini più rappresentativi; è una condizione socio-culturale, quella del XV secolo, indubbiamente complessa, sfaccettata e drammatica, che può essere considerata per prima cosa in riferimento «allo smarrimento del popolo ad opera di una classe politicoecclesiastica senza idee (impressionanti risultano le stroncature dei papi), e nell’attesa sofferta per una palingenesi che avrebbe dovuto rinnovare un mondo, ormai, inabile a risollevarsi».2 La fase inquieta, quella della storia europea ed italiana in particolare, è, pertanto, una fase che presenta una società in continua tensione in cui molti maturano la dolente consapevolezza di aver perso ogni orientamento, «di sentirsi sbattuti dalla violenza di grandi acque, di non ricevere congrue garanzie dagli studia humanitatis, di vivere in una posizione altalenante tra dialettica della fede e la diffidenza del raziocinio, tra voglia di darsi a gesti intrepidi e quella di deprimersi con capitolazioni pusillanimi».3 Vedremo come questa condizione riguarderà, tra luci e ombre, anche l’attività 1 Questo scritto è stato anticipato, in versione ridotta, su «Mediaeval Sophia» 7 (gennaio-giugno 2010). Si ringraziano i proff. Walter A. Euler, dell’Institut für Cusanus-Forschung di Treviri, e Sandro Mancini, dell’Università degli Studi di Palermo, per gli emendamenti e i consigli seguiti alla lettura del testo. 2 R. L. Guidi, L’inquietudine del Quattrocento, Roma 2007, p. 6 ss. 3 Ibid. 120 Vincenzo M. Corseri politica e speculativa di Nicola Cusano ed Enea Silvio Piccolomini, due indiscussi protagonisti di quel periodo storico. Entrambi, seppure su piani operativi diversi, rappresenteranno il meglio della cultura umanistica europea intervenuta, in un perfetto connubio di vita activa e vita contemplativa, a risolvere una tra le più difficili questioni politico-culturali del tempo. Ed è su questo sfondo che si delineeranno le figure di questi due prelati che, in un certo senso, pur agendo visibilmente tra perplessità ed evidenti contraddizioni, si faranno latori della presa di coscienza della loro epoca. Nel febbraio del 1432, a meno di dieci anni dal conseguimento della laurea in diritto (con il titolo di doctor decretorum) nella prestigiosa Università di Padova, e dopo essere stato a Colonia, dove fu attivo come giurista e docente di diritto canonico presso l’Università locale (1425 ca.),4 Cusano si presenta al Concilio di Basilea, come cancelliere e segretario del conte Ulrich von Manderscheid, per sostenere, in qualità di canonista, la causa del suo signore – che aspira all’arcivescovado di Treviri, contestatogli da Giacomo di Sierck, eletto dalla maggioranza del capitolo. In quella sede, sebbene perda la causa, riuscirà a farsi apprezzare come brillante oratore e raffinato canonista al punto da diventare, poche settimane dopo il suo arrivo, su delega del Concilio, membro della Deputazione della fede.5 Affronterà, quindi, la “questione Boema” nelle sue Epistolae ad Boemos e, nel mese di novembre, presenterà il primo libro di quello che sarà il suo capolavoro politico ed ecclesiologico, il De concordantia catholica,6 un’opera dedicata allo scottante tema del conciliarismo e della riforma dell’Impero. A Basilea, nei primi anni Trenta del XV secolo, si raccolsero le voci più autorevoli della cultura e della politica ecclesiastica europea: giuristi, teologi, i vescovi delle maggiori diocesi d’Europa, diversi cardinali.7 I Padri conciliari, in aperta polemica con il ruolo che la figura del pontefice è andata assumendo in epoca tardo-medievale, a Basilea convengono sulla ferma convinzione che solo Cristo ha una autorità reale, assoluta, sulla Chiesa e che l’esplicito ruolo del Concilio è quello di rappresentare un 4 Nella città tedesca, il giovane giurista ebbe parallelamente modo di iscriversi alla facoltà di Filosofia e Teologia e, con buona probabilità, di conoscere e frequentare, fin da quel periodo, Eimerico da Campo, che, di lì a poco (1428), sarebbe diventato magister, poi cancelliere e rettore di quell’Università. 5 Per una guida introduttiva al pensiero e alla figura storica di Nicola Cusano, cfr. G. Federici Vescovini, Il pensiero di Nicola Cusano, Torino 1998; si veda anche il prezioso volumetto di G. Santinello, Introduzione a Nicolò Cusano, Bari-Roma 20086. 6 De concordantia catholica. I-III, edidit atque emendavit G. Kallen, Hamburgi 1964/1965/1959. L’edizione cui faremo riferimento per i passi riportati in traduzione italiana è: La concordanza universale, in Opere religiose, a cura di P. Gaia, Milano 2009 (la mondadoriana collana “I classici del pensiero”, vol. 64, ripropone, in una nuova veste tipografica, l’edizione Torino 1971). 7 Una sintetica quanto esauriente presentazione storica e teorico-politica del Concilio di Basilea è quella pubblicata dalla Cambridge University Press a firma di A. Black: Monarchy and Community. Political Ideas in the Later Conciliar Controversy (1430-1450), Cambridge 1970. Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento... 121 potere derivante direttamente da Cristo. I conciliaristi, insomma, sostengono che la sovranità della Chiesa prima di tutto si basa sul potere conferito da Cristo agli apostoli e che la figura di Pietro ha fondamentalmente un ruolo di primus inter pares, con una funzione esclusivamente rappresentativa. Il Concilio, quindi, una volta riunito, deve essere autosufficiente e autonomo su tutti i fronti decisionali, in quanto riceve la sua forza dal potere di legare e di sciogliere concesso da Cristo alla Chiesa e al sacerdozio. Inoltre Cristo è certamente presente in mezzo ai Padri riuniti nel suo nome, ed è lo Spirito Santo ad ispirarli quando essi sono unificati nella concordia. I capisaldi del movimento conciliare basileese, i fattori che ne hanno caratterizzato il percorso storico verranno a fondarsi inizialmente su due punti d’appoggio: 1) il potere pontificio che si era configurato troppo, nella sua struttura organizzativa, all’impianto dell’Impero medievale; 2) il bisogno, all’interno della Chiesa, di una vera e propria riforma religiosa che non era mossa da una precisa divergenza dogmatica, bensì dalla paradossale lotta volta, nello specifico, ad attuare la tanto necessaria riforma. Questo può ben essere inteso come il risultato di un lungo processo religioso che potremmo simbolicamente far cominciare dall’epistola con la quale san Colombano, scrivendo a papa Bonifacio IV, ammetteva, nel pontefice, la possibilità di errare. È un cammino che passa, poi, dalla condanna che Onorio I subisce da ben tre Concili, e che prosegue, quindi, con il processo che in Francia, durante la lacerante lotta contro Bonifacio VIII, dimostra l’incompetenza di qualsiasi tribunale, facendo maturare l’idea che solo il Concilio potesse essere l’unico tribunale competente.8 I modelli teologici sono diversi. Si pensi, ad esempio, alla strenua difesa del conciliarismo da parte di Corrado di Gehlhausen nel corso del Concilio di Costanza (1414-1418), o alla Epistola pacis nella quale Enrico di Langenstein propone il trasferimento del potere ai fedeli. È, quest’ultima, una prospettiva ripresa e opportunamente meglio articolata da Jean Gerson, nel De potestate Ecclesiae, allorquando sostiene con chiarezza che l’autorità che Cristo conferisce a Pietro e ai suoi successori risiede principalmente nell’organo che rappresenta la Chiesa universale (catholica), il Concilio Ecumenico.9 Dal termine del Concilio di Costanza, dovranno trascorrere ancora sette anni perché la Chiesa stabilisca di affrontare coralmente i principali problemi (interni ed esterni a essa) che si andavano via via drammaticamente sviluppando nel Mediterraneo cristiano di quegli anni. In Germania la tensione tra i principi era forte, con evidenti ripercussioni di carattere religioso e sociale all’interno dell’intero territorio tedesco. In Boemia l’eresia hussita non è ancora stata domata, e, a Oriente, le pressioni turche spingono a promuovere una crociata in difesa della cristianità. Il 8 H. Jedin, Breve storia dei Concili. I ventuno Concili ecumenici nel quadro della storia della Chiesa, Brescia 2006. 9 G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Brescia 1981 (in partic., pp. 9-46). 122 Vincenzo M. Corseri Concilio di Basilea, convocato da Eugenio IV e aperto ufficialmente nel 1431, fu presieduto sin dall’inizio dal cardinale-legato Giuliano Cesarini.10 Giurista insigne, uomo di grande equilibrio e dalla profonda visione unitaria della Chiesa, Cesarini fu professore presso l’ateneo di Padova almeno fino il 1421 e lì ebbe come devoto scolaro Nicola Cusano, che gli dedicherà in seguito le tre fondamentali opere della sua produzione giovanile: il De concordantia catholica, il De docta ignorantia11 e il De coniecturis.12 Egli ebbe un compito estremamente delicato, a Basilea: quello di moderare le tensioni emerse fra i Padri conciliari in seguito all’imprudente decisione del papa di sciogliere il Concilio per convocarlo in una più vicina città italiana.13 Tra quelle dei principali intellettuali accorsi a Basilea per sostenere la causa conciliare, la personalità di Enea Silvio Piccolomini merita di sicuro un’attenzione particolare. A condurre il giovane umanista – nato alle porte di Siena, a Corsignano, l’odierna Pienza, nel 1404 –14 nella città del Concilio è l’incarico, da poco conseguito, di segretario di Domenico Capranica. Questi era stato eletto cardinale da Martino V e poi si era visto revocare da Eugenio IV la nomina conferitagli dal predecessore. Al Concilio era andato, dunque, per rivendicare il diritto del suo porporato. Partendo per Basilea al seguito di Capranica, Enea sapeva bene che si sarebbe messo contro la volontà del papa e che sarebbe stato costretto dagli eventi ad abbracciare cause sempre più radicali. Al pari di Cusano, il senese a Basilea si farà valere per vivacità di pensiero, il coraggio delle scelte e le non comuni doti oratorie che caratterizzeranno sempre la sua attività di politico e di religioso: un talento che poco meno di trent’anni dopo lo porterà al soglio di Pietro con il nome di Pio. Negli anni di Basilea egli servì diversi vescovi, tutti accomunati da una certa diffidenza nei confronti del pontefice e «il conciliarismo, vivendo il Piccolomini circondato da persone fortemente ostili a Roma, doveva pian piano conquistarlo definitivamente».15 Ma lasciamo momentaneamente la descrizione dettagliata dei complessi fatti 10 J. Gill, Personalities of the Council of Florence and other Essays, Oxford 1964, pp. 95-103; M. Watanabe, Authority and Consent in Church government: Panormitanus, Aeneas Sylvius, Cusanus, in «Journal of the History of Ideas» 33,2 (1972), pp. 217-236. 11 De docta ignorantia, ediderunt Ernst Hoffmann et Raymundus Klibansky, Lipsiae 1932. 12 De coniecturis, ediderunt Iosephus Koch et Carolus Bormann, Ioannes Gerhardo Senger comite, Hamburgi 1972. 13 C. Vasoli, La maturità del pensiero teologico umanistico in Italia, in G. d’Onofrio (a cura di), Storia della Teologia, vol. III, Casale Monferrato 1995, pp. 201-218 (par. 1: Il concilio di FerraraFirenze e il confronto teologico tra Latini e Greci). 14 Tra i moltissimi scritti dedicati alla vita di E. S. Piccolomini, si ricordino almeno: E. Garin, Ritratto di Enea Silvio Piccolomini, in Ritratti di umanisti, Firenze 1967, pp. 9-39; L. M. Veit, Pensiero e vita religiosa di Enea Silvio Piccolomini prima della sua consacrazione episcopale, Roma 1964; G. Paparelli, Enea Silvio Piccolomini: l’umanesimo sul soglio di Pietro, Ravenna 1978; M. Pellegrini, Pio II, in Enciclopedia dei papi, vol. II, Roma 2000, pp. 663-685. 15 L. M. Veit, Pensiero e vita religiosa di Enea Silvio Piccolomini, cit., p. 117. Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento... 123 del Concilio. Ci preme puntualizzare, adesso, alcune idee essenziali della concezione ecclesiologica cusaniana, riferendola, nella prospettiva di una sintetica “lettura in parallelo”, alle scelte mosse, sempre in ambito ecclesiologico, da Piccolomini, ai drammi spirituali da loro vissuti, e, infine, alla “svolta”16 attuata da entrambi, in un secondo momento, a favore del partito papale. Nel suo celebre trattato sulla Chiesa, Niccolò da Cusa espone un’indagine sulla concordia universale articolata in tre libri.17 Nel primo, l’autore avvia una investigatio de ecclesia; nel secondo si sofferma ad analizzare la materia principalis Conciliorum; nel terzo – aggiunto in un secondo momento – riflette sul de sacro imperio, elaborando il proprio discorso anche in base ad alcuni spunti suggeriti dalla lettura del Defensor pacis marsiliano.18 L’obiettivo fondamentale dell’opera cusaniana è quello di dare al Concilio di Basilea alcuni suggerimenti concreti finalizzati a risollevare la situazione generale della Chiesa, ivi accorsa attraverso i suoi più autorevoli rappresentanti, che certamente non era tra le più felici. Con la sua opera, Cusano propone diverse soluzioni ecclesiologiche – in un’ottica rigorosamente concordista –, non velleitarie, restando in continuità con la fede della Chiesa e della Tradizione; tanto più che egli sottopone questo lavoro all’auctoritas del Concilio, offrendo a tutti i presenti la libera facoltà di accettarlo o meno. Una ricerca sulla concordia universale – sottolinea giustamente Giuseppe Alberigo –19 richiede, nell’argomentazione di Cusano, un’analisi dell’unione del popolo fedele con l’anima (sacerdozio) e il corpo (Impero) della Chiesa. Tale unione è appunto la Chiesa cattolica, intesa nelle sue articolazioni interne, nella natura intrinseca su cui si costituisce, nel suo fondamento. Dice Alberigo: Cusano lascia intravedere, sia pure molto sinteticamente, la propria prospettiva ecclesiologica, caratterizzata da una composizione di elementi tipicamente medievali con altri attinti alla tradizione più antica ma presentati in modo da rispondere a esigenze profonde del rinnovamento in atto nella cristianità oc- 16 J.W. Stieber, The “Hercules of the Eugenians” at the crossroads: Nicholas of Cusa’s decision for the pope and against the Council in 1436/1437. Theological, political and social aspects, in I. Bocken (Ed.), Conflict and Reconciliation. Perspectives on Nicholas of Cusa, Leiden 2004, pp. 221255. 17 Per una panoramica sul pensiero e la biografia di Nicola Cusano, si dimostra ancora utile la monografia di E. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues (1401-1464). L’action - La pensée, Paris 1920: rist. anast., Frankfurt am M. 1963 (in part. pp. 33-139); si veda, oltre la lucida introduzione di P. Gaia alla raccolta, in traduzione italiana, delle Opere religiose, cit., pp. 19-76, anche: A. Landi, Niccolò Cusano, riformatore a Basilea, in M. Thurner (hrsg.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, Berlin 2002, pp. 305-313. 18 G. Santinello, Da Marsilio a Niccolò Cusano: insegnamenti da un trapasso storico, in «Studia Patavina» 27 (1980), pp. 296-299. 19 G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, cit., pp. 241-354. 124 Vincenzo M. Corseri cidentale. Non si può non sottolineare l’impostazione essenzialmente unitaria, ma nel medesimo tempo articolata e dinamica che deriva all’ecclesiologia cusaniana dal preporre una trattazione della Chiesa come insieme composito, in cui spiccano come fattori costitutivi il clero (anima) e l’Impero (corpo), insieme costituito però dall’intero popoli dei fedeli. Ne consegue che la Chiesa non può essere ridotta al corpo sacerdotale né alla res publica christiana, ma ha una consistenza propria nella fede.20 Certamente, il De concordantia, offrendo un punto di vista più ampio sulla Chiesa e sulla contingenza dei problemi ad essa intrinseci, favorisce una luce superiore che elimina le principali incognite e tenta, al contempo, nell’incessante ricerca di una superiore unità dialettica, di presentare la Chiesa come una «profonda e divina armonia» la cui concordanza «è il principio secondo il quale si armonizzano l’uno (l’unico Signore) e i molti (i molteplici sudditi)». Una concordanza – si badi – che deriva anche dalla tradizione canonistica e che concepisce questo concetto come opposto di contrarietas:21 Se il nome della Chiesa deriva dall’essere questa unione ed un’assemblea vivente nella concordia, si può pensare che essa sia costituita dalla fraternità, della quale niente propriamente è più contrario che la divisione, cioè lo scisma. Infatti sebbene il filo che lega la Chiesa in unità sia l’unica fede, tuttavia la varietà delle opinioni sostenute senza ostinazione può talvolta coesistere con tale unità.22 Cusano affronta, nel confutare l’autocrazia pontificia (romana e papalista), una disamina storica serrata in cui evidenzia con cura le principali differenze fra la ecclesia catholica, la Chiesa universale con la sua rappresentanza nel Concilio, e la ecclesia romana (definita in alcune parti del trattato anche sedes apostolica o cathedra romana), ovvero il papa, la diocesi di Roma, o ancora, talvolta, l’intera Chiesa metropolitana romana insieme al patriarcato romano d’Occidente. Si appella, inoltre, agli scritti dei Padri della Chiesa e rifiuta esplicitamente le tesi dei curialisti romani, atte a tutelare la classica tesi che vuole che la legittimità del Concilio dipenda totalmente dal papa e che nessun decreto sia valido senza il consenso positivo e la conferma formale del pontefice. Il pensatore di Cusa – interpretando le idee e le speranze dei maggiori esponenti della “teologia progressista” riunitasi a Basilea – afferma nel secondo libro del De concordantia che anche il pontefice deve indefettibilmente sottostare al giudizio della maggioranza, dato che egli è solo membro del sinodo, e che non potrebbe mai rappresentare da solo, pur essendone vescovo universale e rector, 20 Ibid., p. 303. Ibid., p. 302. 22 N. Cusano, La concordanza universale, in Opere religiose, cit., libro I, cap. 5, p. 151 ss. 21 Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento... 125 la volontà dell’intera Chiesa: Perciò quando il Concilio ecumenico – nel quale si riuniscono i vescovi ed i legati per discutere e risolvere problemi sui quali, nei propri concili provinciali, emersero dei dubbi e delle incertezze che resero impossibile il consenso di tutti i membri – ha emesso dei decreti relativi a questioni che in qualunque modo riguardavano la salvezza dei fedeli – purché il Concilio sia stato regolarmente e legittimamente convocato, vi abbiano partecipato tutti i membri convocati, sia stato celebrato con la massima libertà e sia terminato correttamente con il consenso unanime di tutti i membri –, tale Concilio, come attesta la storia, non ha mai errato, poiché rappresenta in modo più prossimo e immediato tutta la Chiesa cattolica, e poiché, attraverso i vescovi delegati, esprime il consenso di tutti i fedeli. […] E sebbene abbia addotto molte testimonianze e molti scritti dei santi Padri, secondo cui il potere del pontefice romano viene da Dio, mentre secondo altri viene dall’uomo e dai concili ecumenici, tuttavia la conclusione a cui pervenni, e che mi pare una via di mezzo che armonizzi le posizioni contrastanti dei testi, tende in sostanza ad affermare che il potere del pontefice romano, con le sue caratteristiche di preminenza, priorità e primato, venga da Dio attraverso la mediazione dell’uomo e dei concili, cioè mediante il consenso espresso nell’elezione.23 È una visione della Chiesa, quella che Cusano sostiene nei suoi interventi basileesi pronunciati nel corso dei primissimi anni del Concilio, condivisa anche da Piccolomini, tenendo conto – è ovvio – delle rispettive sensibilità e della diversa formazione culturale di provenienza. Entrambi hanno chiaramente percepito le vere dimensioni dei conflitti e le diverse tensioni che, su piani differenti, andavano rimodellando l’immagine europea. L’uno e l’altro, incaricati nel tempo delle più importanti missioni diplomatiche, seguendo un’evoluzione parallela, partecipano molto attivamente e con immensa attenzione alle principali attività del Concilio. Di comune accordo con Cusano, Enea sostiene che la Chiesa è il corpo stesso di Cristo e, alla stregua di molti conciliaristi, afferma pure che essa trova una sua piena e adeguata rappresentanza solo nel Concilio generale. Egli è anzitutto un umanista. La sua è una formazione prevalentemente letteraria e politica, “toscana” insomma, e non teologica e giuridica, così come la si deve intendere invece per Cusano. Da buon umanista, ed essendo per carattere amante della libertà e dei diritti della persona, il futuro pontefice si sente incline a difendere la posizione conciliarista che trasformava il Concilio in un legittimo e autorevole parlamento ecclesiastico in cui possono accedere anche i laici come lui. Egli ritiene che il ruolo del papa, all’interno della Chiesa, sia anzitutto “amministrativo” e “rappresentativo” e che la superiorità assoluta spetti al Concilio: «la Chiesa è superiore 23 Ibid., libro II, cap. 34, pp. 376-377. 126 Vincenzo M. Corseri al romano Pontefice così come il figlio è inferiore alla propria madre».24 Piccolomini riesce subito a farsi ammirare, con i suoi discorsi, come oratore di talento e si procura molto presto la benevolenza di buona parte dei Padri. Passa successivamente al servizio di Bartolomeo della Scala, vescovo di Frisinga, e, nelle sue prime sortite, elogia l’autorità del pontefice, pur assumendo, al contempo, verso il papa una posizione piuttosto indifferente: in piena sintonia con l’ambiente conciliare che incontra. Rafforza la propria amicizia con il vescovo di Novara, il potente Bartolomeo Visconti, conciliarista convinto e fratello del Duca di Milano, a quel tempo ostile a Eugenio IV, e diventa infine segretario del cardinale Niccolò Albergati, per conto del quale si reca in missione presso il re di Scozia. Rientrato a Basilea, la sua vivace cultura umanistica e il suo talento di oratore gli guadagnano l’importante carica di “abbreviatore” del Concilio, cioè di estensore dei documenti ufficiali. Il 26 giugno del 1439, il Concilio depone papa Eugenio IV. Piccolomini, difensore convinto della causa conciliare, è nominato poi maestro delle cerimonie del conclave scismatico che eleggerà l’antipapa Felice V – l’ultimo antipapa della storia della Chiesa – nella persona del compassato Amedeo VIII di Savoia (del quale Piccolomini diviene, com’era prevedibile, segretario). Nel giro di qualche anno, tuttavia, il vivace umanista si rende conto della precarietà del partito scismatico e, inviato dal Concilio alla Dieta di Francoforte (1442), si mette al servizio dell’imperatore Federico III, che lo incorona poeta e gli dà un impiego a Vienna nella cancelleria imperiale. Inizia qui un veloce percorso à rebours, che, cominciando da un graduale distacco da Felice V, lo avrebbe portato nel giro di pochi anni a un riavvicinamento definitivo alla curia di Roma. Il 1445 è l’anno dell’implorato perdono al papa Eugenio IV. L’incontro fra questi due grandi esponenti della Chiesa romana, in uno dei momenti più tesi e appassionanti della sua storia, viene descritto da Piccolomini con parole che meritano tutta la nostra attenzione. Egli è davvero un figlio esemplare del suo tempo. Il suo è un attivismo che sottende maggiormente ad una filosofia dell’agire più che alla contemplazione. Da una parte abbiamo il giovane umanista che diventerà, poco dopo un decennio, Pio II: il grintoso pontefice che cercherà di attenuare la traumatica catastrofe costantinopolitana (1453) con un’intensa attività politica e religiosa volta a favorire la costituzione di una «lega italica» e con l’esplicito obbiettivo di dichiarare una crociata contro il Turco in modo da ristabilire, anche se sappiamo che il progetto non avrà mai un suo seguito, il «trionfo dello spirito sulla brutalità della forza». Dall’altra c’è il veneziano Eugenio IV (Gabriele Condulmer), l’autoritario pontefice che si fa latore, in contrasto al movimento conciliare, di una concezione del papato di indubbia ascendenza medievale e che dopo una lotta serrata, durata più di un quindicennio, riuscirà ad avere la meglio sul Concilio ristabilen- 24 Aeneas Sylvius Piccolominus (Pius II), De Gestis Concilii Basiliensis Commentariorum: Libri II, edited and traslated by D. Hay and W. K. Smith, Oxford 1967. Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento... 127 do una centralizzazione romana del potere. Enea nel suo capolavoro storiografico, i Commentarii,25 vergato quando sarà già pontefice, tratteggia in terza persona i momenti peculiari di quest’incontro con le seguenti, memorabili parole: Quando Enea, dunque, si trovò al cospetto di Eugenio, e fu ammesso a baciargli i piedi, le mani e il viso, presentò le lettere credenziali e, invitato a parlare, così disse: “Santissimo presule, prima di riferire il messaggio di Cesare, dirò poche parole al mio riguardo. So che sono state fatte giungere alle tue orecchie molte voci su di me non favorevoli e che non conviene ripetere. Ma coloro che ti hanno parlato di me non hanno mentito. Durante il mio soggiorno a Basilea io ho detto, scritto e fatto molte cose contro di te. Non lo nego. Ma la mia intenzione non era di nuocere a te, quanto piuttosto di giovare alla Chiesa di Dio. Perseguitando te, io pensavo di prestare ossequio a Dio. Sbagliai, chi potrebbe negarlo? Ma sbagliai assieme a non pochi altri, e non dico di poco conto. Ho seguito l’esempio di Giuliano cardinale di Sant’Angelo,26 di Niccolò arcivescovo di Palermo,27 di Ludovico Pontano notaio della tua curia, che erano reputati acuti interpreti e maestri della verità. E c’è bisogno che ricordi l’Università di Parigi e altre scuole del mondo, che numerose ti furono avverse? Chi non avrebbe errato in compagnia di persone tanto autorevoli? È vero, lo confesso, che quando io mi accorsi dell’errore dei Basileesi, non passai subito dalla tua parte, come molti fecero; e invece, temendo di cascare d’uno in altro errore – poiché spesso avviene che chi vuole evitare Cariddi finisca per cadere su Scilla – mi unii a coloro che si tenevano neutrali, per evitare di passare da un estremo all’altro senza prima aver riflettuto e meditato a lungo. […] Ora eccomi qui: ti prego di perdonarmi, perché ho peccato di ignoranza”. Eugenio rispose: “Sappiamo che hai mancato gravemente verso di noi. Ma non possiamo non perdonare a chi confessa di avere errato. La Chiesa è una madre pia che non risparmia la giusta punizione a chi non riconosce i propri errori, ma a chi li confessa sempre concede il perdono. Tu ormai possiedi la verità. Bada di non abbandonarla. […] Ora sei in una situazione in cui puoi difendere la verità ed essere di aiuto alla Chiesa […]”.28 Quella appena descritta dall’allora alto funzionario della cancelleria asburgica, è una rappresentazione emblematica del realismo dell’uomo del Quattrocento. La sua è la fede nel fare etico dell’uomo, nella virtus, nel positivo operare che da questa 25 L’edizione di riferimento in lingua italiana, con testo latino a fronte, de I commentarii di E. S. Piccolomini è quella a cura di L. Totaro, 2 voll., Milano 2008. 26 Il cardinale Giuliano Cesarini. 27 Il grande canonista siciliano Niccolò Tudeschi, detto il Panormitano; cfr. M. Watanabe, Authority and Consent in Church government: Panormitanus, Aeneas Sylvius, Cusanus, cit. 28 E. S. Piccolomini, I commentarii, cit., pp. 59-61. 128 Vincenzo M. Corseri ne scaturisce, fosse anche in ambito religioso. Piccolomini, una volta incoronato pontefice, sarà anche un grande costruttore e protettore delle arti e delle lettere, un politico e un artista convinto di poter cogliere la cifra essenziale di ogni evento, la dimensione dinamica della storia percepita nel suo perenne, ininterrotto rinnovamento. In un certo senso, sebbene la sua azione politica sarà sempre sostenuta da un profondo zelo religioso e dal rigore etico previsto dalla dottrina della Chiesa, lo stesso cambiamento di prospettiva nei confronti delle posizioni, sempre più tese ed esasperate, dei Padri conciliari avverrà anche nell’attività politica e teologica di Nicola Cusano. A Basilea egli segue personalmente ogni fase del Concilio, procedendo sulla linea dell’attuazione di una Ecclesiae Reformatio in capite et in membris. Nel 1434 si presenta all’intera assemblea conciliare la questione dell’ammissione – e della presidenza – dei tre legati papali inviati da Eugenio IV a Basilea. Cusano, in quell’occasione, è invitato a fornire un parere tecnico, data la delicatezza del caso, e rende pubblico il De auctoritate praesidendi in concilio generali29 in cui sintetizza opportunamente le parti peculiari del suo De concordantia catholica; vi esprime le sue tesi con precisione ed elasticità argomentativa e usa uno stile di scrittura piano, diretto, icastico nella formulazione giuridica dei temi ivi esaminati. Egli infatti distingue ammissio dei legati (che è una necessità, altrimenti il concilio sarebbe nullo) da praesidentia – scrive Pio Gaia nella sua introduzione all’edizione italiana degli scritti religiosi del filosofo –, e questa a sua volta è considerata in due accezioni, come praesidere concilio (e questo compete solo a Cristo, vero capo del concilio) e come praesidere in concilio. Quest’ultima praesidentia può essere autoritativa e giudicativa (che spetta solo alla Chiesa e quindi al concilio stesso), oppure direttiva, ordinativa e ministeriale, cioè una presidenza onorifica con poteri organizzativi e direttivi dei lavori conciliari, senza alcun diritto giurisdizionale o potere decisionale, e questa spetta al papa come supremus in administrazione, e quindi ai suoi legati.30 Pochi anni dopo, nella lettera a Rodrigo Sánchez de Arévalo (1442),31 egli definisce il cambiamento di rotta che lo induce a passare dalle teorie conciliariste analizzate nel De concordantia alla teorizzazione della cosiddetta «supremazia papale».32 Alcuni lo considerano, senza giri di parole, un vero e proprio tradimento, 29 De auctoritate praesidendi in concilio generali, ed. G. Kallen, Heidelberg 1935; per un’edizione in lingua italiana, cfr. N. Cusano, Trattato del Maestro Nicolò Cusano sul potere presidenziale nel Concilio generale, in Opere religiose, cit., pp. 549-563. 30 P. Gaia, Introduzione a N. Cusano, Opere religiose, cit., p. 48. 31 N. Cusano, Opere religiose, cit., pp. 597-616. 32 Per un’analisi meticolosa della delicata questione della “supremazia papale”, inquadrata nell’ambito della riflessione politico-filosofica cusaniana tra “repraesentatio” e “complicatio”, cfr. M. Merlo, Vinculum concordiae. Il problema della rappresentanza nel pensiero di Nicolò Cusano, Milano Religione e politica in Europa nella prima metà del Quattrocento... 129 ma la critica più attenta ha saputo evidenziare di questa scelta gli aspetti più drammatici, essendo quella di Cusano una visione dell’esistenza radicata in una vivente coincidentia oppositorum – principio fondamentale del neoplatonismo – che va considerata come «un segno, estremamente importante, di una notevole “disponibilità” intellettuale e di una rara capacità di accogliere ed accompagnare con una singolare riflessione critico-creativa, le profonde mutazioni sociostrutturali delle varie contingenze storiche».33 Con le tensioni interne, la deposizione di Eugenio IV e l’elezione di un antipapa, il Concilio, attuando il cosiddetto “piccolo scisma” d’Occidente, dimostra – rileva Cusano – di non essere più la sede ideale per discutere ponderatamente dei problemi costitutivi della Chiesa del tempo. Il pensatore tedesco in questa lettera muove un discorso che parte da una nuova concezione metafisica della realtà in cui nell’unità del Verbo di Dio è unitariamente contenuto tutto ciò che è molteplice. Il Verbo, esplicandosi nel molteplice, origina gli esseri finiti. Ed essi “partecipano” all’unico essere assoluto che è presente in tutto ciò che è. Ecco una chiara elaborazione della metafisica della processualità, che, in chiave ecclesiologica, Cusano riesce ad applicare al rapporto che unisce la Chiesa a Cristo, la cui grazia viene ad irraggiarsi e dispiegarsi (explicatio) nel mondo (“Chiesa invisibile”). Nell’ambito della “Chiesa visibile”, il nostro afferma invece che non c’è nessun potere assoluto al di fuori del potere del sommo Dio e che il potere del papa è anch’esso, a suo modo, assoluto, in quanto in esso è compendiata la Chiesa stessa.34 Qui si apre una nuova fase del pensiero di Nicola Cusano, uomo di Chiesa e filosofo, improntata ad una dinamica tensione innovatrice che, anche a seguito della redazione di un altro importante capolavoro filosofico-religioso, il De pace fidei, includerà in questo originalissimo percorso speculativo concetti fondamentali quali pax, concordantia, harmonia, tutti rapportabili costantemente al tema principale di una convergente concordantia tra ratio e fides. Ed è anche in virtù di questa raffinata visione della Chiesa che Enea Silvio Piccolomini, una volta eletto papa della Chiesa cattolica (1458), chiamerà Cusano a Roma come Legato pontificio e Vicario generale in temporalibus a conferma che, seppure intesi nelle loro differenze, i loro spiriti furono sempre accomunati da una complementare visione della vita.35 1997 (in part., cap. 6, pp. 167-201). 33 M. L. Arduini, “Ad hanc supermirandam harmonicam pacem”. Riforma della chiesa ed ecumenismo religioso nel pensiero di Nicolò Cusano: il De pace fidei, in «Rivista di Filosofia neoscolastica» 72,2 (1980), pp. 224-242. 34 N. Cusano, Lettera a Rodrigo Sánchez de Arévalo, in Opere religiose, cit., p. 607. 35 Wilhelm Baum ha problematizzato la concordia discors umanistica intercorsa tra Cusano e Piccolomini in un suo recente, documentatissimo lavoro: Nikolaus von Kues und Enea Silvio Piccolomini – eine Humanistenfreundschaft?, in M. Thurner (hrsg.), Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, cit., pp. 315-337. Flavia Buzzetta Aspetti della magia in epoca tardo-medievale Premessa Nell’affrontare alcuni aspetti salienti di un tema vasto e complesso quale è quello delle forme e dei caratteri della magia nel corso del Medioevo, ritengo utile specificare l’approccio metodologico con il quale prendo in esame questa particolare forma di sapere. Assumo la magia come una specifica forma organizzata di sapere, una visione del mondo in cui confluiscono e si integrano tradizioni ed elementi culturali eterogenei. In tale prospettiva, la “magia”, assunta nel suo senso più lato, nelle stratificazioni della sua configurazione e nella complessità del suo statuto, costituisce un interessante capitolo della storia del pensiero medievale e rinascimentale, presentandosi come una specifica modalità di interpretazione del reale, come un peculiare tipo di “razionalità”, scevra da preconcette valenze negative, sottesa all’elaborazione di una strutturata visione del mondo in cui concorrono un complesso di istanze fisiche, cosmologiche, metafisiche, teologiche, etiche, antropologiche. Nel mio intervento, guardando in generale all’epoca basso-medioevale e umanistico-rinascimentale, mi soffermo su alcuni tratti generali della magia, assunta nei suoi aspetti filosofici e nei princìpi che ne fondano lo statuto. In tale ottica, miro a mostrare come, nell’epoca presa in esame, la magia si presenti, in generale, come una determinata forma di sapere, legata alle prospettive della deificatio hominis, essenzialmente caratterizzata da risvolti pratico-operativi, secondo cui il mago è visto come dominator mundi, capace di riprodurre, sulla base di conoscenze esoteriche, le dinamiche dell’atto divino creativo, manipolando e trasformando in vari modi il reale sulla base di un complesso di tecniche e atti rituali. In questo mio intervento prendo in esame aspetti della magia vista come sapere complesso, stratificato in una frastagliata molteplicità di conoscenze e tradizioni esoteriche tra loro interrelate. In particolare, faccio riferimento alle tradizioni dotte della magia, con particolare riferimento alle elaborazioni filosofiche medievali nelle quali essa diviene un sapere scientificamente fondato, come “magia naturale” (magia naturalis), secondo un modello che ha in Giovanni Pico della Mirandola uno dei suoi più insigni teorici; ma guardo alla magia popolare, classificabile anche come 132 Flavia Buzzetta “stregoneria”, consistente in una varietà di pratiche rituali i cui testi di riferimento sono costituiti da ricettari e manuali di magia operativa. Ciò nella consapevolezza della manifesta labilità e della natura puramente indicativa del confine tra magia “dotta” e magia “popolare”. Guardando all’universo magico medievale e procedendo per exempla, dedico anche qualche cenno ad aspetti di magia alchemica, con riferimento alle tecniche per la manipolazione dei corpi in vista della creazione di esseri artificiali. Forme della magia medievale Richard Kieckhefer, nel suo saggio su La magia nel Medioevo, nel prendere in esame i caratteri peculiari della magia in epoca medievale, con riferimento a questioni di definizione la presenta come un crocicchio in cui convergono e da cui si diramano religione, superstizione e scienza.1 L’aspetto religioso della magia è visto nel fatto che essa è caratterizzata da un particolare tipo di ritualità i cui destinatari possono essere entità spirituali, naturali o celesti; l’elemento superstizioso è ravvisabile nel fatto che nella magia confluiscono credenze popolari, di cui essa si alimenta; la componente scientifica, invece, va colta nel fatto che la magia medievale, in talune sue teorizzazioni, si lega alle coordinate delle scientiae medievali: in particolare, mi riferisco in quest’ultimo caso alla “magia naturale” (magia naturalis), la quale mira ad agire sulle virtutes occulte della natura, sulla base di una loro retta conoscenza, e può essere considerata come una branca della filosofia della natura. In questa prospettiva, la magia naturale si presenta come una disciplina epistemologicamente strutturata che s’inquadra in un complesso di coordinate fisico-cosmologiche e metafisico-teologiche. Ma la magia, secondo una possibile lettura, è a suo modo scienza anche in quanto è vista, per certi versi, come un prodromo della moderna rivoluzione scientifica. Sul piano tipologico e definitorio, se per un verso la magia si presta ad essere analizzata in rapporto ad altro, con riferimento a configurazioni culturali relative agli orizzonti della religione, delle credenze popolari e della conoscenza scientifica, per altro verso va anche considerata e studiata come un fenomeno a sé stante, nel suo peculiare statuto identitario. Come tale, in epoca medievale, la magia, fatta oggetto di riflessione teorica, appare fondamentalmente contrassegnata da una valenza sapienziale. Tale valenza è già colta nel nome stesso di magia, derivato dal nome greco di magheia, con il quale si indicava un complesso di conoscenze sapienziali tradizionali dei Persiani, in una prospettiva in cui la magia, nobilitata e assunta come retaggio culturale intrinsecamente positivo, è distinta dalla goeteia, la quale invece 1 R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, trad. it. di F. Corradi, Roma-Bari 2004, pp. 3-5. Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 133 indica un complesso di spregevoli pratiche e tecniche rituali fondate sull’evocazione del potere dei demoni. Esemplare, al riguardo, è l’osservazione di Giovanni Pico della Mirandola, il quale, nel distinguere la magia demoniaca (goeteia) dalla magia naturale (magheia), presenta quest’ultima, sulla scorta di una particolare fruizione di fonti greche, come “perfetta e somma sapienza”: i Greci, avendole entrambe presenti, chiamano l’una stregoneria [goeteia], non degnandola affatto del nome di Magia [magheia], quasi somma e compiuta sapienza. Infatti, come dice Porfirio, in lingua persiana mago significa quello che da noi è interprete e cultore di cose divine.2 E altrove afferma: questo vocabolo “mago” non è né latino né greco, bensì persiano, e nella stessa lingua persiana significa ciò che presso noi è il sapiente [sapiens]. Sapienti presso i Persiani sono lo stesso che presso i Greci sono detti filosofi, così chiamati da Pitagora che prima li chiamava sapienti.3 Se quindi, per un verso, in determinati contesti del pensiero medievale la magia è vista come una forma di sapere, come la “sapienza” nella sua più alta espressione, per altro verso talvolta resta ambigua e problematica, di fatto se non di principio, la sua distinzione e separazione dalla magia demoniaca (la quale, potremmo dire, in una certa ottica costituisce una pseudo-magia). Sul piano teorico, s’impone comunque la differenza tra l’unica vera magia intesa, in quanto “sapienza”, come un sapere lecito, intrinsecamente positivo, radicato nella verità, il quale non si oppone ma anzi si lega alla religione cristiana, e la magia demoniaca, rigettata come illecita ed esecrabile, in quanto fondata sulla potenza del male e contraria alla vera religione. Se come “magia naturale” la magia tardo-medievale si presenta come legittimanente praticabile, secondo altre sue connotazioni essa, nella sua costitutiva ambiguità, oscilla tra il lecito e l’illecito. Secondo una possibile classificazione tipologica, la magia tardo-medievale, nelle sue varie manifestazioni, si presenta come una “magia destinativa”: Nicolas Weill-Parot utilizza l’espressione di magie adressative per indicare una prassi magica rivolta a un destinatario intelligente – sia esso spirito, angelo o demone –, capace di decodificare il messaggio rituale che il mago gli invia e di agire di conseguenza. Forme di magia destinativa sono la magia ermetica e la magia angelica. La magia ermetica, così chiamata perché i testi in cui è espressa sono 2 Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, Pisa 1985 (riproduzione anastatica del testo pubblicato originariamente a Firenze nel 1942), p. 53. 3 Joannis Pici Mirandulani Apologia, Francesco del Tuoppo, Napoli 1487, p. 51 (traduzione italiana mia). 134 Flavia Buzzetta attribuiti prevalentemente alla figura mitica di Ermete Trismegisto, è soprattutto una magia astrale finalizzata a captare le potenze degli spiriti celesti; ne è un esempio il Picatrix. La magia angelica, invece, ha come interlocutori gli angeli e i demoni. Una forma di magia angelica è la magia salomonica, la quale, secondo la tradizione testuale, è una sapienza rivelata in cui si utilizzano sigilli e caratteri magici per attirare gli angeli o i demoni. Un altro tipo di magia angelica è l’ars notoria (con testi attribuiti alle figure esemplari di re Salomone e di Apollonio), la quale è una sorta di arte della memoria in cui l’operatore invoca le potenze spirituali recitando ritualmente i nomi degli angeli, al fine di raggiungere un grado superiore di conoscenza. Può essere considerata come una forma di magia angelica la cosiddetta ars paulina, la quale è un tipo di ars notoria caratterizzata dal rituale salomonico. Va notato come nel Medioevo tali forme di magia appaiano spesso difficilmente distinguibili e separabili, segnate come sono da scambi reciproci, commistioni, condivisioni di pratiche ed elementi caratterizzanti. Elemento costante della magia è la sua configurazione come attività rituale tecnico-poietica, come una prassi taumaturgica legata al conseguimento di effetti giudicati come mirabili. Un profilo generale della magia, ad esempio, è prospettato da Jean-Patrice Boudet, per il quale la magia si configura come un’attività capace, tramite riti, procedimenti occulti e artifici tecnici, di produrre fenomeni considerati come straordinari allo stato delle credenze religiose e conoscenze naturali di contesti di una data epoca.4 La magia è un “sapere pratico”. Come tale, essa fa riferimento a una base di conoscenze che fondano la prassi rituale, la quale, in ogni caso, si presenta come l’aspetto basilare e caratterizzante della magia. La magia può essere considerata come un sapere “ergetico”, con un termine coniato da Amos Funkenstein e mutuato da Moshe Idel, il quale, nello specifico contesto della magia ebraica, lo utilizza per definire “un tipo di conoscenza ottenuto attraverso l’azione”.5 La magia come scientia: la “magia naturale” Con la riflessione sulla magia naturale in autori medievali, si assiste comunque allo sforzo di determinare, sul piano di una dotta teorizzazione filosofica, lo specifico statuto epistemologico, i fondamenti cosmologico-metafisici, le modalità procedurali e le autentiche finalità del sapere magico. Nel corso del Basso Medioevo si assiste nell’Occidente latino, all’elaborazione di una teoria filosofica della magia, 4 J.-P. Boudet, Entre Science et Nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIIe-XVe siècle), Paris 2006, p. 119. 5 M. Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, trad. it. di A. Salomoni, Torino 2006, p. 18. Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 135 alla luce di talune coordinate concettuali della coeva filosofia della natura. Diffusamente indicata nei secoli altomedievali con l’espressione di ars magica con riferimento al suo statuto di prassi operativa, la magia a partire dal XIII secolo comincia ad essere inquadrata nei suoi legami strtutturali con la “scienza della natura” ed è ripensata nei suoi fondamenti teorici sulla base di un insieme di istanze riconducibili al neoplatonismo e all’ermetismo. Questa tendenza alla sistematizzazione “scientifica” della magia è riscontrabile soprattutto nella cultura di corte, in particolare nei circoli intellettuali attivi durante le regnanze di Federico II e di Alfonso X, e appare legata alla fruizione di testi magici arabi e ebraici che per la prima volta vengono tradotti in latino. Ricordiamo, ad esempio, le traduzioni latine di testi magici di varie tradizioni culturali, come il Picatrix e il Sefer Raziel, effettuate alla corte di Alfonso X, le quali ricoprono un’importanza rilevante negli sviluppi del pensiero magico nei secoli successivi. Il Picatrix, che è una traduzione latina di un testo arabo noto con il titolo di Gayat al-hakim, “Il fine del saggio”, è un trattato di magia astrale.6 In quest’opera ritroviamo vari elementi che confluiscono nella teorizzazione tardo-medievale della magia. L’anonimo autore presenta la magia, che egli chiama “nigromanzia” (distinta dalla “necromanzia”, che è una forma di divinazione attraverso l’evocazione delle anime dei morti), in termini di scienza. Tale magia è presentata come una scienza operativa, il cui esercizio è in potere dell’uomo e le cui opere difficilmente possono essere da questi comprese, in quanto essa è una scienza “troppo profonda per l’intelletto”. Come tale, la nigromanzia è una scienza esoterica, relativa a cose nascoste che solo pochi uomini sono in grado di spiegare la magia descritta nel Picatrix ha dunque il peculiare carattere sapienziale di una scienza occulta, che si occupa di ciò che è nascosto alla maggior parte degli uomini. Scienza pratica che riguarda il corpo e lo spirito, il materiale e l’immateriale, la nigromanzia ha anche una parte teorica, consistente nell’astrologia, vista nelle sue implicazioni magiche, in quanto lo studio della “posizione delle stelle fisse”, delle “figure celesti” e delle “forme dei cieli” è fondamentalmente finalizzato alla fabbricazione di talismani capaci di veicolare le forze astrali. Oltre che delle virtutes astrali, la nigromanzia si occupa anche delle virtutes delle “parole”, le quali sono considerate come dotate di un’intrinseca virtù magica. La potenza performativa di tipo magico-rituale propria delle parole caratterizza la nigromanzia come una forma di prassi magica che utilizza il linguaggio per produrre mutamenti e trasformazioni nella realtà. Le “parole” magiche, diffuse nelle varie tradizioni e contesti della magia antica e medievale, possono essere suoni vocalizzati tanto significativi quanto non significativi. Nelle loro varie forme e applicazioni, Per una traduzione italiana di questo trattato cfr. P. A. Rossi (a cura di), Picatrix. Ghayat alhakim: “Il fine del saggio” dello Pseudo Maslama Al-Magriti, Milano 2000. 6 136 Flavia Buzzetta esse concorrono a formulare una magia della voce che mira a riprodurre l’atto divino della creazione. Un altro testo fondamentale per le teorie medievali della magia è un’opera araba di al-Kindi, tradotta in latino con il titolo di De radiis, ma nota anche come la Teoria delle arti magiche.7 Secondo l’autore, la realtà è attraversata da raggi che legano tra loro le varie regioni dell’essere in una fitta trama occulta di interconnessioni, di influssi e di corrispondenze. Gli enti celesti e terrestri agiscono mediante raggi e tutto ciò che accade nel mondo elementare è causato da questi. Il sapiente deve conoscere i rapporti causali di interazione radiale tra gli agenti e i riceventi. La magia è conoscenza dei legami occulti tra il mondo elementare e le sfere celesti, della trama segreta di rapporti che legano le varie regioni del cosmo in un tutto unitario, organico e armonico, in cui le varie parti sono interconnesse tra loro secondo rapporti di “simpatia” e di “antipatia”. I legami cosmici fondati sulle interazioni radiali degli astri e la peculiare compenetrazione di cause ed effetti – secondo cui le cause si trovano negli effetti e gli effetti nelle cause – rendono possibile la prassi magica. Se dunque nel Picatrix la magia è assunta come “scienza”, in particolare come scienza delle virtù occulte che animano il cosmo, nel De radiis ricorre la teoria della causalità magica basata sui vincoli simpatetici che uniscono i vari piani del reale. Il legame tra la simpatia universale e la prassi magica, già teorizzato nell’ambito del neoplatonismo greco, diviene un motivo ricorrente della magia tardo-medievale intesa come scienza. Esso si riscontra nella già menzionata “magia naturale”, teorizzata nel XIII secolo per la prima volta da Guglielmo d’Alvernia. La magia naturalis o nigromantia secundum phisicam studia le virtutes naturali ed è considerata come una parte della “scienza naturale”. La “magia naturale” in Giovanni Pico della Mirandola Massimo teorico della “magia naturale”, tra il tramonto del Medioevo e l’alba del Rinascimento, può essere considerato Giovanni Pico della Mirandola, il quale, nel suo progetto di codificazione di un sapere universale che segni la pax philosophica, include una specifica trattazione tematica della magia quale specifica tradizione sapienziale di grande dignità e d’intrascurabile importanza. Nelle opere di Pico, fondamentalmente nella trilogia legata alle vicende del periodo romano, costituita dalle Novecento Conclusioni, dall’Orazione (nota anche con il titolo Sulla dignità dell’uomo) e dall’Apologia, è rintracciabile, a mio avviso, una coerente e omogenea teoria filosofica generale della magia, vista nei suoi fondamenti teorici universali e Per una traduzione italiana di quest’opera cfr. Ya’qub Ibn Ishaq al-Kindi, De Radiis. Teorica delle arti magiche, a cura di E. Albrile e S. Fumagalli, Milano 2001. 7 Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 137 nei suoi rapporti costitutivi con la “parte pratica della scienza della cabala”, anch’essa concepita in termini magici. Un elemento basilare della teoria pichiana della magia, funzionale alla sua piena riabilitazione e valorizzazione sapienziale, è la nota distinzione tra la magia demoniaca, falsa e dannosa, condannata come illecita, e la magia naturale, intrinsecamente salutare, accolta e difesa come lecita: Tutta la Magia che si pratica presso i moderni e che la Chiesa a buon diritto respinge non ha nessuna solidità, nessun fondamento, nessuna verità. Essa dipende, invero, dalla mano dei nemici della prima verità, potenze di queste tenebre: e tali potenze spargono tenebre di falsità su intelligenze disposte al male.8 La Magia naturale è lecita, non sottoposta a divieti […].9 Se la magia demoniaca si fonda sul potere malvagio dei demoni, la magia naturale agisce invece sulle strutture profonde e sulle forze occulte della natura in base a una retta conoscenza delle leggi che la regolano, al fine di conseguire legittimi benefici di tipo essenzialmente spirituale. Intesa come magia naturale, la magia è concepita come uno specifico versante della scienza naturale, le cui operazioni si svolgono in conformità ed entro i limiti dell’ordine naturale stabilito da Dio. Pensata come la pars practica della scientia naturalis, la magia naturale rientra di diritto nell’ambito del sapere universale come una specifica disciplina “filosofica” incentrata sull’attività della ragione e trova il suo fondamento nella strutturazione simpatetica della natura, concepita come una totalità organica attraversata da una rete di occulte corrispondenze che legano insieme e coordinano le varie parti che la costituiscono. La magia naturale opera per agentia naturalia, unificando e attualizzando le virtutes che in natura sono separate tra loro, ma potenzialmente congiungibili, e allo stato potenziale e seminale, e dunque attualizzabili: non vi è nè in cielo nè in terra virtù allo stato potenziale e separata che il mago non possa portare allo stato attuale e unificare.10 Le meraviglie dell’arte magica non avvengono che per unione ed attuazione di cose che in natura esistono allo stato di potenza e di separatezza.11 […] come il contadino sposa gli olmi alle viti, così il Mago marita la terra al cielo, e cioè le forze inferiori alle doti e alle proprietà superne.12 Giovanni Pico della Mirandola, Conclusiones nongentae. Le novecento tesi dell’anno 1486, a cura di A. Biondi, Firenze 1995, p. 117 (Conclusione magica secondo opinione propria I). 9 Ibid. (Conclusione magica secondo opinione propria II). 10 Ibid., p. 119 (Conclusione magica secondo opinione propria V). 11 Ibid. (Conclusione magica secondo opinione propria XI). 12 De hominis dignitate, cit., p. 57. 8 138 Flavia Buzzetta Il mago, dunque, “marita il mondo”, congiunge le virtù terrene a quelle celesti, obbedendo alle leggi che regolano la natura. In tale visione, attestata in molto pensiero umanistico (per esempio in Marsilio Ficino), se la natura è vista in qualche misura come regnum hominis, l’uomo, come mago, è visto come naturae ministrum, fedele servitore e amministratore della natura, sottoposto alle sue leggi e al Creatore che le ha istituite. Si riscontra, così, una chiara formulazione del topos rinascimentale secondo cui il mago, con la sua arte, è interprete della magia della natura e agisce in osservanza delle leggi divine. Nella sua strutturazione pratica, la magia naturale ha per Pico un fine essenzialmente contemplativo e una destinazione teologico-religiosa: attraverso le trasformazioni causate per artem in seno alla natura, infatti, la magia naturale permette di scoprire nei segreti della natura le mirabili azioni di Dio e, in tal modo, conduce al perfezionamento delle acquisizioni della scienza naturale (intesa come filosofia della natura), di cui essa costituisce la più nobile parte (nobilissima pars). Come tale, la magia naturale non soltanto è “filosofia”, ma costituisce “l’assoluto compimento della filosofia naturale” (naturalis philosophiae absoluta consummatio), “l’apice e il fastigio dell’intera filosofia” (apex et fastigium totius philosophiae), di una filosofia vista come preparazione della teologia. In quest’ottica, per Pico, la magia naturale, operando sulla natura e scoprendo in essa meravigliose opere divine, conduce al riconoscimento della gloria del Dio creatore e ordinatore della “mondana dimora”; gloria della quale, secondo il testo di Isaia 6:3, “sono pieni i cieli e la terra”, cioè i due piani della natura su cui la magia agisce. In ciò la magia promuove “il culto e l’ardente amore rivolti all’Artefice”. Così si rivela come intrinsecamente benefica, salutare, salvifica, perfettamente conciliabile con la fede cattolica, imponendosi come un prezioso segmento dell’itinerario che conduce a Dio quale fine ultimo dell’uomo. Per Pico quindi l’efficacia della magia naturale, intesa come scienza, è legata all’intervento umano sulle virtutes naturali sulla base di una retta conoscenza del suo ordine interno; il fine della magia è indicato nell’elevazione a Dio, nell’ambito di un percorso di progressiva trasformazione morale, sapienziale e spirituale; l’esercizio della magia consiste non in una sottomissione della natura a un dominio dispotico dell’uomo, ma in una salutare sottomissione dell’uomo alla natura, che è da lui amministrata, e a Dio, che è il Creatore dell’ordine naturale e che è conoscibile nella sua gloria tramite la prassi magica. In Pico la magia naturale pichiana è strettamente connessa alla “cabala pratica” (cabala practica) la quale costituisce quale parte operativa della cabala, l’antica sapienza iniziatica ebraica che il Mirandolano interpreta in chiave cristiana. La cabala pratica è il fondamento e, insieme, il coronamento della magia naturale, dalla quale si distingue per la sua base teorica e per la modalità della sua prassi operativa. Ogni operazione magica, secondo Pico, risulta efficace in quanto si rivela strutturalmente congiunta a una concomitante operazione cabbalistica (opus cabalae): «nes- Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 139 suna operazione di magia può essere di efficacia alcuna, se non abbia annessa l’opera cabbalistica, esplicita o implicita».13 La costitutiva dipendenza della prassi magica dall’annessa prassi cabbalistica è dovuta alla capacità di quest’ultima di operare su piani del reale e livelli di causalità superiori a quelli su cui è capace di agire la prima, con riferimento alle Sefirot (le originarie Manifestazioni della Divinità, diffusamente tematizzate nei testi della qabbalah ebraica), ai Nomi divini, alle Intelligenze angeliche. Pico rinvia in questo caso all’assunto metafisico, di stampo neoplatonico, secondo cui nella concatenazione causale le cause gerarchicamente inferiori, sulle quali agisce la magia naturale, dipendono dalle cause gerarchicamente superiori, sulle quali invece agisce la cabala pratica; cause, queste ultime, che manifestano una maggiore estensione causale rispetto alle inferiori, e che agiscono mediatamente in queste. Se il raggio d’azione della magia naturale, operante sulle cause secondarie, non supera i limiti della natura, quello della cabala pratica, operante sulle cause primarie, va oltre quest’ultima, elevandosi agli agenti soprannaturali. Se infatti i termini di riferimento della prassi magica sono le virtutes naturales, quali potenze latenti disseminate da Dio nella natura per il bene dell’uomo “contemplativo”, i termini di riferimento della prassi cabbalistica sono invece le superiori virtutes spirituales delle intelligenze angeliche, delle manifestazioni sefirotiche, dei nomi divini. Ciò, in ogni caso, sullo sfondo di una visione unitaria ed organica della totalità della realtà, secondo la quale i vari piani di essa, pur secondo una distinzione tra immanenza e trascendenza e una dialettica tra continuità e separatezza, manifestano una trama occulta di rapporti, e tutto è a suo modo in tutto. Va notato come per Pico la magia naturale, assunta quale parte pratica della scienza naturale e riconosciuta come sapienza legittima e salutare, nelle sue operazioni dipenda fondamentalmente da Dio, dispensatore di virtutes agli “uomini contemplativi di buona volontà”: Qualsiasi opera che susciti stupore, sia essa di tipo magico o di tipo cabalistico o di qualsiasi altro genere, deve in primissima istanza essere riferita a Dio glorioso e benedetto, la cui grazia fa piovere quotidianamente acque sopracelesti di mirabili virtù sopra gli uomini contemplativi di buona volontà.14 Alcune pratiche dell’arte magica “popolare” La teoria pichiana della magia, incentrata sul peculiare legame tra la magia 13 14 Conclusiones nongentae, cit., p. 119 (Conclusione magica secondo opinione propria XV). Ibid. (Conclusione magica secondo opinione propria VI). 140 Flavia Buzzetta naturale e la cabala pratica, elabora il modello di una magia cabalistica, articolata in varie parti distinte e interconnesse, operante sui vari piani del reale sulla base di una pluralità di procedure e tecniche rituali. In questa dotta teorizzazione della magia confluiscono e si raccordano elementi provenienti da eterogenee tradizioni magiche, ripensati in un tentativo di legittimazione e di fondazione scientifica. Si potrebbe anche dire, anzi, che la magia “dotta” trae i suoi materiali da quella “popolare”, secondo processi di fondazione teorica e di rimodulazione del loro senso. Riguardo alla cultura magica tardo-medioevale, dunque, se appare criticamente possibile distinguere tra magia dotta e magia popolare, si riscontra in ogni caso uno stretto rapporto tra questi due ambiti. Può essere classificata come popolare un tipo di magia dai risvolti essenzialmente pratici: l’uomo, grazie agli artifici magici, produce degli effetti mirabili con cui modifica a proprio vantaggio la realtà. L’operatività magica è rivolta all’utile; essa assicura la guarigione dalle malattie e il benessere fisico, la ricchezza, l’amore, il successo nelle proprie attività, il superamento delle difficoltà e il raggiungimento di fini prefissati, ma può essere utilizzata anche per arrecare danno a cose e persone. Tale magia, nella sua operatività, non fornisce spiegazioni sulle cause degli effetti che essa è in grado di produrre, le quali possono essere ignorate dall’operatore. Le fonti medievali di quest’arte magica sono costituite da vari testi che per lo più rimandano in misura rilevante alla sincretistica tradizione magica greco-romana della tarda antichità e consistono in raccolte di varie formule e ricette, non accompagnate da esplicazioni teoriche relative alla loro efficacia. Alcuni esempi: Se pronuncerai il nome a un posseduto da un demonio e accosterai al suo naso zolfo e bitume, immediatamente parlerà e il demonio si allontanerà.15 Se vorrai uccidere un serpente, devi dire: «Fermati! Tu sei Aphyphis». Prendi il cuore da un ramo verde di palma, dividilo in due e pronuncia per sette volte il nome; immediatamente il serpente si spezzerà e scoppierà.16 Nelle due ricette sopra citate, accompagnate dalle relative indicazioni d’uso, abbiamo come elementi caratterizzanti del rituale magico finalizzato al conseguimento di benefici (la guarigione dalla possessione demoniaca, l’uccisione di un animale giudicato pericoloso quale è un serpente) il legame sinergico tra le potenzialità della natura e le potenzialità del linguaggio, la virtus naturalis e la virtus verborum: alla sapiente manipolazione rituale di elementi naturali (zolfo e bitume nel primo caso, il ramo della palma nel secondo caso) è associata la recitazione rituale sterotipata di elementi e formule linguistiche dal valore pratico-performativo (il nome 15 Testo contenuto in G. Luck (a cura di), Arcana Mundi, vol. I, Magia, Miracoli, Demonologia, Milano 2005, p. 171. 16 Ibid. Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 141 dell’indemoniato nel primo caso; l’ordine di arresto e il nome magico nel secondo caso), il cui concorso permette di raggiungere i risultati desiderati. Traggo un altro esempio dai testi magici della Genizah del Cairo: nel nome del Signore di Israele. Possa aiutarci in ciò che facciamo: riguardo ad Abul: possa il Signore benedire il tuo negozio e l’opera delle tue mani […] Nel nome di (sigillo) io ti invoco, invoco le sante lettere di indirizzare ogni uomo e donna e ogni mercante nel negozio di […].17 In questo caso si evidenzia un tipo di magia linguistica di matrice ebraica, dalle manifeste finalità pratiche legate all’utile materiale negli affari, caratterizzata dal ricorso alla recitazione di formule rituali legate all’uso di sigilli (in ebraico chotam) in cui sono incise lettere magiche, connesse al nome del Signore. La potenza benefica del Nome divino è veicolata dalle lettere dell’alfabeto ebraico in cui esso si esprime, sapientemente combinate. Va ricordato che le lettere, specialmente quelle ebraiche, con le loro valenze numerologiche (secondo una connessione tra la magia del linguaggio e la magia aritmetica) e le relative tecniche di combinazione e permutazione, costituiscono dei ricorrenti strumenti operativi della magia. Particolarmente rilevante è l’incidenza delle lettere nella magia cabalistica ebraica, quale magia basata sull’occulta potenza poietico-performativa del linguaggio, capace di riprodurre la potenza demiurgica dell’atto linguistico divino della creazione e del governo del mondo. Un interessante esempio di magia popolare basata sulla fruizione delle potenzialità del linguaggio, è contenuto nel manoscritto di Wolfsthurn. Per liberare un indemoniato, l’autore suggerisce di leggere una formula in latino e greco “maccheronici” e caratterizzata dalla presenza di nomi misteriosi e parole dal significato arcano: «Amara Tonta Tyra post hos firabis ficaliri Elypolis starras poly polyque lique linarras buccabor vel barton vel Titram celi massis Metubor o priczoni Jordan Ciriacus Valentinus».18 Un altro significativo esempio si legge in un manuale di negromanzia risalente al XV secolo. Vi si trova una tecnica mirata ad ottenere uno stato di invisibilità attraverso l’invocazione di entità spirituali, accompagnata da precise pratiche rituali e catartiche e dalla riproduzione di immagini magiche: se vuoi essere invisibile e impercettibile a tutte le creature razionali e irrazionali, nel momento in cui la luna è crescente, un mercoledì, durante la prima ora 17 Il testo è riportato in L. H. Schiffman - M. D. Swartz, Hebrew and Aramaic Incantation Texts from the Cairo Genizah. Selected Texts from Taylor-Schechter Box K1, Sheffield 1992, pp. 107-108 (traduzione italiana mia). 18 Testo citato in R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, cit., p. 7. 142 Flavia Buzzetta del giorno, devi essere casto da tre giorni, i tuoi capelli e la tua barba devono essere tagliati, devi essere vestito di bianco, in un luogo segreto esterno alla città, sotto un cielo limpido, traccia nel suolo quello che ti mostro (immagine) […] inginocchiati verso Occidente e pronuncia queste parole: “io vi congiuro o Fryel, Mememil, Berith, Taraor, spiriti potenti, magnifici e illustri, nei quali io confido per la Santa Trinità, per il Dio unico, per il cielo e la terra, per tutti i principi, per il Dio in cui credete, perché voi veniate da me con grande umiltà e facciate la mia volontà essendo legati, obbligati e congiurati.” Essi risponderanno: “dicci ciò che desideri e noi ti ubbidiremo”. E tu risponderai: “voglio una cappa d’invisibilità […]”.19 Va notato che il rituale magico in questione consiste nel conseguire i mirabili risultati sperati attraverso la “legatura” degli spiriti, i quali sarebbero magicamente costretti, con tale “congiurazione”, a piegarsi alla volontà del mago e a soddisfarne le richieste con i loro poteri. Siamo così in presenza di una magia “destinativa” che si indirizza a entità spirituali per beneficiare della loro potenza nel mondo naturale. Al riguardo si può anche ricordare come nelle pratiche della magia popolare una funzione di rilievo è ricoperta dall’uso di specifici oggetti rituali costituiti da amuleti e talismani. Gli amuleti sono oggetti di origine naturale, come pietre, piante o parti del corpo di un animale, i quali presuppongono una magia simpatetica e sono illustrati in una varietà di erbari e lapidari medievali. I talismani, invece, sono oggetti artificiali, ai quali si imprime ritualmente una virtù magica, una potentia agendi. Sia gli amuleti che i talismani possono essere corredati da formule magiche che ne attivano le potenzialità. In genere, si può rilevare come gli amuleti siano considerati efficaci in quanto dotati di una virtus intrinseca, naturale, e i talismani, invece, in quanto dotati di una virtus estrinseca, artificiale, non posseduta per natura dal’oggetto, ma acquisita tramite una sua consacrazione rituale. Differenza, questa, che sovente si rivela puramente indicativa e non è priva di ambiguità. Ma l’azione magica ricorre anche all’uso di altri oggetti rituali, come le “immagini” (imagines) di vari tipi, artefatti che rinviano a una magia di tipo mimeticosimpatetico. Esse sono riproduzioni che permettono di agire sulle realtà di cui sono copie in virtù del legame di corrispondenza con esse e delle potenze spirituali attivabili tramite le immagini. Tra esse figurano anche le statutette o i disegni di uomini, predisposti per agire su essi, il cui uso appare ricorrente nella cosiddetta “magia nera”. Esempi di questa diffusa pratica magica sono contenuti nel De generatione hominis, un testo tardomedievale di magia ebraica di matrice chassidico-ashkenazita, pervenutoci nella traduzione latina effettuata dall’ebreo converso siciliano Guglielmo Raimondo Moncada alias Flavio Mitridate per Giovanni Pico della Mirandola, J.-P. Boudet, Entre Science et Nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIIe-XVe siècle), Paris 2006, p. 563 (traduzione italiana mia). 19 Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 143 contenuto nel Ms. Vaticanus Ebraicus 189 (Biblioteca Vaticana, Roma), ff. 398r509v, di cui mi sto occupando nelle mie attuali ricerche. Vi si legge, per esempio: invece con l’arte magica si fa questo: le maghe modelleranno un’immagine fatta di cera come questo o quell’uomo, e non faranno altro che pronunciare un discorso su quella [immagine], e quello che è fatto all’immagine di cera è fatto all’uomo. Se infatti si punge quella immagine in qualcuna delle sue membra, similmente [accade] all’uomo. Se la si seppellisce, l’uomo morirà e sarà seppellito, [e questo] si fa con il suo nome. E similmente si disegna sul muro un’immagine dello stesso ladro che si sospetta sia l’artefice di un furto, si pungerà l’occhio di quell’immagine con un ago e l’occhio del ladro proverà dolore. Questo perché i prefetti dell’immagine e i prefetti di chi forgia l’immagine andranno da quel prefetto che è preposto al ladro, gli indicheranno questa cosa e il prefetto del ladro farà sentire dolore al ladro.20 Nel passo sopra riportato, l’istanza secondo cui l’immagine – una statutetta o un disegno – va associata al nome di colui che è riprodotto in essa, connette la magia delle immagini alla magia del linguaggio, e l’efficacia di tale pratica magica è legata all’azione intermediaria dei prefecti, entità spirituali (angeliche o demoniache) “preposte” al mondo corporeo, le quali sono indotte ad agire in un modo o nell’altro sulla base di operazioni rituali di tipo destinativo. L’uomo, dunque, in qualche misura può controllare magicamente gli agenti spirituali preposti ad agire nel mondo, piegandoli alla propria volontà e sfruttando i loro poteri per conseguire i fini desiderati. Notevole è anche il fatto che questa pratica sia specificamente attribuita alle maghe (magae mulieres), secondo un topos dell’immaginario magico medievale che individua sovente nelle donne gli operatori della magia popolare. Un’altra pratica magica legata alla fruizione di immagini, descritta in questo trattato, è una tecnica di tipo lecanomantico, consistente nel divinare il proprio futuro tramite l’osservazione della propria immagine riflessa nell’acqua, le cui fattezze permettono di svelare la disposizione dell’angelo preposto al singolo uomo e al suo fato: c’è anche una notte nell’anno in cui se si riempie un vaso di acqua, chi guarda in esso e osserva attentamente, quando guarda e osserva, deve aprire i suoi occhi e la sua bocca e deve considerare se vede la sua immagine [riflessa] in quell’acqua. Se infatti vedrà nell’acqua l’immagine o la sua effigie con la bocca e gli occhi aperti come egli stesso li mostra, sarà certo che nel corso di quell’anno egli resterà vivo. Se invece egli mostrerà [gli occhi e la bocca] aperti e [nell’immagine] li troverà chiusi, allora [in quell’anno] non vivrà, perché il suo arcangelo, che è a sua immagine e somiglianza, si trova tra il suo volto e 20 Ms. Vat. Ebr. 189, f. 456v (traduzione italiana mia). 144 Flavia Buzzetta tra i morti. E per questo l’immagine è come l’immagine dell’angelo preposto su di lui, sotto il suo arcangelo.21 Un ultimo esempio significativo che desidero riportare in questo mio breve excursus, riguarda una particolare operazione classificabile come una pratica rituale di magia alchemica, consistente nella produzione artificiale di un essere vivente. Un’attestazione di tale pratica è contenuta nel Liber vaccae o Liber aneguemis sive leges Platonis, opera anonima di magia araba redatta intorno al IX secolo d.C. che tratta di esperimenti magici fatti su animali e fa leva su una concezione vitalisticopampsichista della natura. Le ricette di questo manuale riguardano manipolazioni di organi o umori animali o vegetali, finalizzate alla creazione di animali animati artificiali, irrazionali o razionali, da utilizzare a scopi magico-operativi. Il primo esperimento descritto nel Liber vaccae riguarda la creazione di un animale razionale. L’operatore mescola il suo liquido seminale con polvere di pietra solare e introduce il composto nel corpo vivo di una mucca o di una capra. L’essere che nascerà avrà l’aspetto di un uomo, sarà un antropoide artificiale che potrà essere utilizzato in operazioni magiche. Il sangue di questa creatura, ad esempio, può trasformare gli uomini in animali. Si tratta di una magia “organica” con cui l’uomo assurge a demiurgico imitatore dell’atto creatore divino tramite la sapiente manipolazione di ingredienti tratti dai vari regni della natura. Tecniche di manipolazione della materia finalizzata alla creazione di esseri viventi artificiali sono attestate nella tradizione ebraica, in particolare in testi riconducibili alla corrente del chassidismo hashkenazita. A differenza della tecnica esposta nel Liber vaccae, tali tecniche magiche possono essere considerate come espressioni di un’alchimia delle lettere, perché la generazione magica della vita avviene grazie a una sapiente fruizione delle lettere ebraiche (attraverso la loro combinazione e recitazione), le quali, come componenti del linguaggio poietico divino ed elementi costitutivi dell’intera realtà, si rivelano cariche di potenza creatrice. Il Commentum Sefer Yesirae, un’opera attribuibile a Rabbi Eleazar di Worms (XIII secolo), pervenutaci in una traduzione latina fatta da Flavio Mitridate per Giovanni Pico della Mirandola e conservata nel Ms. Vaticanus Ebraicus 191 (Biblioteca Vaticana, Roma), ff. 1r-12r, riporta la più antica ricetta pervenutaci per la creazione rituale di un essere vivente artificiale: qualora qualcuno voglia operare, si purificherà e indosserà abiti bianchi e non opererà solo […]. Prenda della terra vergine da un luogo incolto e ammorbidisca quella terra con l’acqua di una fonte viva e modelli una figura combinando sopra di essa [le lettere] secondo il numero dell’alfabeto e delle 221 lettere numerali per ciascun membro, come è scritto nel testo del Sefer Yetsirah, e 21 Ibid., f. 501r (traduzione italiana mia). Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 145 inizi da quello girando e pronunciando [le lettere] fino a quando abbia indotto la vita.22 La combinazione alfanumerica delle lettere ebraiche, tseruf, effettuata attraverso la tecnica combinatoria-permutativa della “rotazione alfabetica” nelle 221 combinazioni, assimilate alle “Porte della Sapienza”, permette all’uomo di vivificare la materia inerte e creare un antropoide artificiale. Con tale pratica l’uomo riproduce l’atto creativo di Dio – il quale plasma l’uomo dalla terra e lo anima con il suo soffio vitale – e in tal modo può giungere in modo “ergetico” alla conoscenza di Dio stesso. In questo testo si afferma che attraverso la combinazione misteriosofica delle lettere dell’alfabeto ebraico, capace di conferire il potere creativo, gli uomini diventano simili a Dio.23 Qualche considerazione conclusiva A conclusione di questo rapido sguardo su taluni aspetti della magia medievale, quale complessa galassia culturale in cui convergono e si mescolano elementi di svariate tradizioni magiche antiche, ritengo opportuno rimarcare la difficoltà che si registra nel tracciare differenze tipologiche e linee di confine tra tradizioni e saperi magici, i quali interagiscono tra loro, si compenetrano e si confondono. Elementi e istanze delle ricette della magia popolare entrano a far parte delle elaborazioni scientifiche nella magia dotta, in cui il mago, possessore di questo arcano “sapere pratico”, è presentato come un accorto amministratore della natura, il quale agisce in una realtà concepita come totalità organica e simpatetica, come macrocosmo segnato da virtutes occulte e abitato da entità spirituali che possono interagire con l’uomo e da cui l’uomo, in vari modi, può trarre vantaggio per il raggiungimento dei suoi scopi. Nelle sue varie ed eterogenee manifestazioni, la magia medievale, vista in una certa ottica, appare come una forma di sapere dotata di una propria ratio, di uno statuto con il quale essa tende a strutturarsi come una disciplina autonoma in cui si esprime una complessa visione del mondo nella quale, sulla scorta del concorso di elementi derivati da diverse tradizioni e contesti, concorrono e si compendiano istanze mutuate dalle credenze religiose, dalle concezioni filosofiche, dalla cultura e dall’immaginario dell’epoca. Condivido, dunque, l’opinione di Vittoria Perrone Compagni24 – espressa dalla studiosa con riferimento alla magia ermetica –, secondo Ms. Vat. Ebr. 191, f. 12r (traduzione italiana mia). Ibid., f. 10v (traduzione italiana mia). 24 Cfr. V. Perrone Compagni, La magia ermetica tra Medioevo e Rinascimento, in F. Meroi (a cura di), La magia nell’Europa moderna, Firenze 2007, p. 17. 22 23 146 Flavia Buzzetta cui la questione della magia non va posta nei termini di una contrapposizione tra progresso e superstizione, considerandola ora come anticipazione della rivoluzione scientifica, ora come superstizioso errore. In una prospettiva critica, la magia si presta ad essere inquadrata e studiata come fenomeno a sé stante, all’interno delle coordinate culturali dell’epoca presa in esame. Tracce bibliografiche Indico di seguito una selezione di studi critici, da me consultati e utilizzati, sui temi trattati in queste mie pagine: J.-P. Boudet, Entre Science et Nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIIe-XVe siècle), Paris 2006. J. N. Bremmer - J. R. Veenstra (eds.), The Metamorphosis of Magic from Late Antiquity to the Early Modern Period, Leuven-Paris-Dudley Ma 2002. G. Federici Vescovini, Medioevo Magico. La magia tra religione e scienza nei secoli XIII e XIV, Torino 2008. K. E. Grözinger, Between Magic and Religion - Ashkenazi Hasidic Piety, in K. E. Grözinger & J. Dan (eds.), Mysticism, Magic and Kabbalah in Ashkenazi Judaism. International Symposium Held in Frankfurt, Berlin-New York 1995, pp. 28-43. W. J. Hanegraaff (ed.), Dictionary of Gnosis & Western Esotericism, in collaboration with A. Faivre, R. van den Broek, J.-P. Brach, Leiden-Boston 2006, in particolare le voci Magic I: Introduction, di W. J. Hanegraaff (pp. 716-719) e Magic III: Middle Ages, di C. Fanger e F. Klaassen (pp. 724-731) M. Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, tr. it. Torino 2006. R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, tr. it. Roma-Bari 2004. F. Pastore, La ragione e l’occulto. La filosofia di fronte a scienza e magia, Milano 2009. V. Perrone Compagni, La magia ermetica tra Medioevo e Rinascimento, in F. Meroi (a cura di), La magia nell’Europa moderna, Firenze 2007, pp. 3-23. Aspetti della magia in epoca tardo-medievale.. 147 L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science during the First Thirteen Centuries of our Era, 8 voll., New York 1923-1958. J. Trachtenberg, Jewish Magic and Superstition, Phialdelphia 2004. C. Vasoli, Magia e scienza nella civiltà umanistica, Bologna 1976. C. Vasoli, Le tradizioni magiche ed esoteriche nel Quattrocento, in Id., Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Milano 2002, pp. 133-153. N. Weill-Parot, Les « images astrologiques » au Moyen Âge et à la Renaissance, Paris 2002. Ch. Wirszubski, Pico della Mirandola’s Encounter with Jewish Mysticism, Cambridge (Mass.) 1989 (trad. francese: Pic de la Mirandole et la Cabale, par J.-M. Mandosio, Paris-Tel-Aviv 2007, con note del curatore). P. Zambelli, L’ambigua natura della magia, Milano 1991. P. Zambelli, L’apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte lulliana in Pico della Mirandola e seguaci, Venezia 1995. P. Zambelli, Magia bianca e magia nera nel Rinascimento, Ravenna 2004. Salvatore Girgenti Le radici politiche e religiose dei templari: una ipotesi di ricerca Nessuna pagina della storia è così densa di misteri come quella dei templari. È stato creato per operare in Medio Oriente – ha opportunamente rilevato Markale –, ma ha agito anche in Europa occidentale. È stato un ordine religioso,ma anche militare. È stato indispensabile alla politica del papato e dei sovrani europei, ma anche una milizia parallela dai fini oscuri. È stata una associazione di monaci cavalieri pronti a morire per la fede cristiana, ma anche un gruppo di uomini che rinnegavano Gesù, che portavano con fierezza la croce rossa, ma anche che sputavano sulla croce. Il gonfalone del Tempio, il famoso baucent, era bianco e nero: non esiste un simbolo che esprima meglio la dualità, o la realtà a due facce, dell’ordine.1 Per comprendere le motivazioni per cui nacque l’Ordine del Tempio, almeno a livello ufficiale, bisogna calarsi nel clima e nell’ambiente del tempo. Le circostanze, come sappiamo, sono quelle delle crociate. Il 27 novembre 1095 papa Urbano II, parla al concilio regionale riunito a Clermon. In tale occasione, dopo aver preso una dura e violenta posizione contro quei cavalieri che vivono nella lussuria e, in contrasto con la legge della Chiesa, violano la pace di Dio, come i peggiori briganti, offre loro una possibilità di remissione: invece di battersi contro i cristiani, invece di assassinare i propri fratelli, questi cavalieri buoni solo a gratuiti ed esecrabili atti di violenza, non hanno che andare in Terra Santa a liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli. «D’ora in poi diventino Cavalieri di Cristo, coloro che non erano che briganti! Lottino a buon diritto contro i barbari, coloro che si battevano contro i loro fratelli e genitori! Otterranno la ricompensa eterna, coloro che per pochi miserabili soldi diventavano mercenari».2 L’appello è subito accolto con grande entusiasmo. 1 2 J. Markale, I templari custodi di un mistero, Sperling Kupfer, Milano 2000, p. 65. A. Demurger, I templari, un ordine cavalleresco cristiano nel medioevo, Milano 2006, p. 19. 150 Salvatore Girgenti Per capire meglio il fenomeno, ancora una volta, bisogna calarsi nel clima politico e sociale dell’Europa dell’XI secolo dove, e particolarmente in Francia, le file della piccola nobiltà e dei cavalieri sono particolarmente affollate e inquiete. Per i sovrani e per la chiesa, questi guerrieri turbolenti, sono una vera e propria spina nel fianco. Ma ecco che viene loro offerta la possibilità di soddisfare appetiti e bellicosi entusiasmi: potranno acquisire ricchezze e nuove terre e stabilirsi in regioni che diverranno di loro proprietà. Non solo, ma anziché scontrarsi con la giustizia regale ed incorrere nella riprovazione della chiesa, sono assolti in anticipo e sono sicuri di ottenere il paradiso.3 Un sistema che sarà utilizzato più volte nel corso della storia. Quando un insieme di individui diventa troppo ingombrante e minaccia una nazione dell’interno, lo si manda all’esterno. «il vantaggio è duplice: lo Stato può guadagnare nuovi territori e gli uomini mandati altrove, che sopravvivano o che muoiano, di solito non ritornano. Che liberazione!».4 Questo è il vero senso delle crociate: da un lato, sebbene rivestite di spiritualità, servono per liberare l’Europa dai cavalieri indesiderabili, e allo stesso tempo sono un investimento per il futuro. L’appello di Clermont, come dicevamo, suscita reazioni entusiaste. Una folla invasata, ma indisciplinata si mette in marcia: uccide e depreda tutte le comunità ebraiche che incontra lungo il cammino, non disdegnando di uccidere contadini cristiani e cittadini di Bisanzio. I sovrani di cui attraversano il territorio cercano di farli passare il più velocemente possibile e, a volte, non esitano a schierare contro i loro eserciti, per ridurli a più miti consigli. Finalmente il 13 luglio del 1099 conquistano Gerusalemme. Vengono quindi fondati i regni latini del medio Oriente. Molti crociati rimangono in Palestina e in Siria, ma la maggior parte fa ritorno in patria. Dopo la liberazione dei luoghi santi, i cristiani sono colti da una nuova passione: recarsi a pregare sul sepolcro di Cristo. Diventa quindi necessario proteggere questi pellegrini, visto che le strade di accesso a Gerusalemme sono esposte ad agguati da parte dei musulmani, per non dire che sono dei campi di battaglia permanenti. Baldovino, conte di Edessa e primo re di Gerusalemme, dopo la morte di Goffredo di Buglione, non ha truppe sufficienti per potere proteggere i pellegrini. Le zone occupate dai cristiani sono costantemente minacciate dai musulmani. A questo punto interviene un piccolo nobile della Champagne, Ugo de Payns. Nello stesso anno 1119 alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione, religiosi e timorosi di Dio, mettendosi a disposizione del signor patriarca per servire Cristo, professarono di voler vivere per sempre secondo le regole dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni proprietà.5 S. Runciman, Storia delle crociate, Torino 1993; J. Flori, Le crociate, Bologna 2003. Ibid., p. 67. 5 M. Barber, La storia dei templari, Casale Monferrato 2001, p. 15. Si veda anche William of Tyre, A History of deeds done beyond the sea, New York 1943. 3 4 Le radici politiche e religiose dei templari... 151 Così scrive Guglielmo di Tiro, cancelliere e poi arcivescovo di Gerusalemme. Tuttavia, poiché era nato nel 1130, non poteva conoscere le origini del Tempio. La sua testimonianza è, comunque, la più antica che possediamo. Un secolo dopo Jacques de Vitry, vescovo di Acri, torna sull’argomento e riferisce che questi cavalieri, con voti solenni pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si impegnarono a difendere i pellegrini contro i briganti e i rapinatori, a proteggere le vie di accesso a Gerusalemme e a servire come cavalieri il re sovrano. Infine, aggiunge che fecero voto di povertà, castità e obbedienza, come i canonici regolari.6 Si tratta del primo documento che riferisce dello scopo di questo nuovo ordine: controllare le vie di pellegrinaggio in Terra Santa. Ma il testo, come dicevamo, è scritto più di un secolo dopo gli avvenimenti e in realtà non abbiamo alcuna prova che de Payns e i suoi primi compagni avessero effettivamente questo compito di sorveglianza. Non si è nemmeno certi dell’anno della loro istituzione. Guglielmo di Tiro parla del 1118, ma riferendoci al Concilio di Troyes del 1128, nel corso del quale vennero codificate le regole dell’Ordine, i cronisti registrano l’evento nel nono anno dalla fondazione dell’ordine cavalleresco e, quindi, l’anno di nascita dovrebbe spostarsi al 1119. C’è addirittura chi sostiene che l’ordine sia stato fondato ancora prima del 1114 se bisogna dar credito ad una lettera, inviata dal vescovo di Chartres al conte di Champagne, che proprio in quell’anno si preparava a partire per la Terrasanta. In questa lettera, infatti, c’è un punto particolarmente interessante per l’argomento in oggetto, perché, oltre ai soliti convenevoli, il vescovo aggiungeva: «abbiamo appreso che prima di partire per Gerusalemme avete fatto voto di entrare nella “milice du Christ”, che desiderate arruolarvi in questo esercito evangelico».7 La Milice du Christ è il nome con il quale venivano indicati i templari e, certamente, non si può fare confusione con i crociati, «poiché il vescovo passa poi a parlare del voto di castità che la decisione comportava. E difficilmente un voto del genere poteva venire richiesto a un comune crociato».8 Ma il dubbio sull’anno di nascita dell’ordine è un problema di poco conto, perché ancora più strane appaiono le modalità e le motivazioni della sua fondazione. Ufficialmente ad istituire l’ordine monastico-guerriero fu Ugo de Payens, nobilotto della vecchia contea di Champagne, assieme ad altri otto cavalieri, quasi tutti nativi, tranne qualcuno proveniente dalla Borgogna, della stessa regione. Ma c’è di più. Ugo de Payens è in stretti rapporti di parentela con i Montbard, famiglia alla quale apparteneva, per parte di madre, il potente monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle. Come se ciò non bastasse, tra i membri fondatori dell’ordine figura anche Andrea di Montbard, zio dello stesso monaco. 6 Giacomo di Vitry, Historia Hierosolimitana, a cura di J. Bongars in Gesta Dei per Francos, vol. I, tomo II, Hannover 1611. 7 M. Baigent-R. Leigh-H. Lincoln, Il Santo Graal, Milano 2004, p. 8. 8 Ibid. 152 Salvatore Girgenti «L’ordine dei templari appare, dunque, sin dall’inizio come un’impresa provinciale, quasi familiare. Si forma un circolo di cospiratori che rappresentava un’unione ideale per proteggere eventuali segreti».9 Non meno emblematica è la posizione di Bernardo di Chiaravalle, che, per inciso, nutriva un culto particolare per la Madonna Nera. Fu istruito, infatti, nella chiesa di Saint Vorles, a Chatillon-sur-Seine, dove si venerava una Madonna Nera. La leggenda vuole che Bernardo, trovandosi in preghiera avanti la Vergine, chiedesse: monstra te matrem. Maria premette il seno e tre gocce di latte caddero sulle labbra di Bernardo. L’allegoria è alchemica. Essa può significare che Bernardo, nutrito del latte della Vergine Nera, si è dissetato alle fonti profonde della tradizione druidica. Infatti, egli stesso indica come propri maestri le querce e gli elci, i due alberi sacri. In un primo tempo, il monaco cistercense mostrava di disprezzare la cavalleria del suo tempo, considerandola frivola, rammollita, senza fede e priva di valori. La definiva “malizia”, cioè vera e propria peste della società. Bernardo era contro la violenza e lo spargimento di sangue. Poi, come per illuminazione divina, si registra in lui una completa inversione di rotta, trasformandosi nel teorico della guerra santa. Nel 1130 pubblica, addirittura, la Lode della nuova milizia, spianando ancora una volta la strada verso la legittimizzazione del nuovo ordine cavalleresco.10 Giunse, persino, a glorificare l’uccisione dei pagani, poiché per i templari, essendo soldati di Cristo, «la vittoria non è legata alla grandezza delle armate, ma alla forza che viene dal cielo e alla potenza delle legioni del Signore».11 Indubbiamente, Bernardo di Chiaravalle doveva godere di grosso credito all’interno della Chiesa e della cristianità in genere, poiché quanto disse e scrisse a favore dei templari non era, per quei tempi, impresa di poco conto. Un ordine religioso-cavalleresco costituiva, infatti, per la mentalità religiosa del tempo, qualcosa di scandaloso. Chi faceva parte del clero non poteva macchiarsi le mani di sangue. La sola idea di uccidere, non solo ripugnava, ma veniva rigettata. Ad un uomo consacrato a Dio non era permesso di spargere sangue, né tantomeno di darsi al saccheggio. L’ordine dei templari nacque, così, in un clima di diffidenza e di sospetto. In realtà, i templari crearono un certo imbarazzo per quanto concerne una delle distinzioni fondamentali della società medievale. I riformatori della Chiesa avevano deciso di impedire agli uomini le cui mani si fossero macchiate di sangue di toccare gli oggetti sacri. Anche nel caso di nobili cavalieri che si pentissero e che in età matura si votassero alla vita monastica, quelli che erano vissuti nel monastero sin dall’infanzia erano spesso riluttanti a riservare loro una buona accoglienza. La nostra concezione moderna, influenzata dall’idealistico lustro conferito alla cavalleria dai M. Bauer, Il mistero dei templari, Roma 2002, p. 40. A. Demurger, I templari, Milano 2006; S. Cerrini, La revolution des templiers, Perrin 2007; B. Frale, I templari, Bologna 2004. 11 M. Bauer, Il mistero dei templari, cit., pp. 35-39. 9 10 Le radici politiche e religiose dei templari... 153 romantici, vede un’armonia tra spada e altare; nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà medievale. La Chiesa non voleva avere a che fare con degli indesiderabili di tal fatta, sempre pronti a infrangere ogni legge, in particolare quella sul matrimonio. Fino ad allora la cavalleria era per molti aspetti considerata un affare illecito in cui il clero non doveva immischiarsi. Essendo questo il clima culturale del tempo, secondo il quale uomini votati allo spargimento di sangue non avrebbero dovuto essere considerati come appartenenti all’ordine clericale, fu un compito arduo per San Bernardo legittimarne la nascita. Quest’ultimo, in poche parole, doveva fare appello alle sue capacità persuasive per riuscire a trovare argomenti validi al fine di giustificare l’uccisione dei miscredenti e introdurre un’importante varietà a quella che sino ad allora era stata l’unanime dottrina della chiesa medievale: che ad un uomo consacrato a Dio non era permesso spargere sangue. Lo fece con uno dei suoi soliti metodi disincantati di discussione.12 In verità – scrisse – i cavalieri di Cristo combatterono le battaglie del loro Signore senza correre rischi, senza in alcun modo sentire di aver peccato nell’uccidere il nemico, non temendo il pericolo della loro stessa morte visto che si a dare la morte, sia il morire quando sono fatti in nome di Cristo non sono per nulla atti criminosi, ma addirittura meritano una gloriosa ricompensa […] il soldato di Cristo uccide sentendosi sicuro: muore sentendosi ancora più sicuro. Non per nulla egli porta la spada! Egli è lo strumento di Dio per la punizione dei malfattori e per la difesa dei giusti. Invero, quando egli uccide un malfattore non commette omicidio, ma malificio, e può essere considerato il carnefice autorizzato da Cristo contro i malvagi.13 Lo stesso Ugo de Payns, primo Gran Maestro dei cavalieri del Tempio, ribadì più volte che i soldati di Cristo non dovevano cedere alla tentazione di pensare di avere ucciso in preda a odio e furore, né di essersi impadroniti del bottino in preda a cupidigia, siccome i templari non odiavano gli uomini, ma l’ingiustizia umana; e quando si impadronivano del bottino dei miscredenti compivano un atto di giustizia, per via dei peccati dei miscredenti e anche perché si erano meritati il bottino con le loro fatiche: chi lavora si è guadagnato il proprio salario. Una ingenua giustificazione, che attesta come i templari dedicassero tempo ed energia al saccheggio. In maniera ancora più radicale S. Bernardo si era fatto convinto che era meglio che i miscredenti venissero uccisi, piuttosto che continuassero a incombere minacciosi sul destino dei veri credenti. All’obiezione che un cristiano non debba uccidere, 12 Sugli esordi dell’ordine templare e il ruolo di San Bernardo: F. Cardini, I poveri cavalieri di Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’ordine templare, Rimini 1992. 13 J. Markale, I templari custodi di un mistero, cit., p. 76. 154 Salvatore Girgenti Bernardo rispondeva: e allora? Se al cristiano non fosse consentito l’uso della spada in alcuna circostanza, perché mai, allora Giovanni Battista raccomandò ai soldati di accontentarsi della propria paga (Luca 3:14): perché, piuttosto, non proibì loro ogni forma di servizio militare?14 A questo punto, la domanda che dobbiamo porci è: che cosa spinse Bernardo di Chiaravalle a gettare alle ortiche le sue vecchie convinzioni e a proteggere in maniera sfacciatamente di parte il neo ordine monastico-guerriero?15 Difficile dare una risposta. Probabilmente, ma sono solo delle ipotesi, Bernardo non volle alienarsi la simpatia dei propri parenti o forse volle manifestare la propria riconoscenza a Ugo di Champagne, altra eminenza grigia dei templari, che pochi anni prima aveva donato ai Cistercensi un vasto possedimento, dove successivamente fu edificato il monastero di Clairvaux, di cui ne sarebbe diventato abate proprio Bernardo. Ma chi era il conte Ugo di Champagne? Per quello che riguarda la storia dei templari, certamente una figura enigmatica. Secondo alcuni storici della Champagne nel 1104 partì per la Terrasanta, dove rimase per ben quattro anni. Non si sa cosa fece, né il motivo per cui rimase così a lungo in Outremer. Al suo ritorno volle incontrarsi con Stefano Harding, l’abate di Citeaux, e successivamente, con frequentazioni sempre più assidue, con i rappresentanti di alcune delle più prestigiose famiglie della contea, fra cui Andrè de Montbard, zio, come abbiamo detto, di Bernardo di Chiaravalle. Nel 1114, il conte Ugo fece ritorno in Terrasanta, dove stavolta rimase appena un anno. Al suo rientro ripresero gli incontri con l’abate di Citeaux e con i suoi vassalli più fidati. Sarà una coincidenza, ma proprio in questo periodo l’ordine dei Cistercensi, prima del 1112 economicamente in uno stato paurosamente disastroso, conobbe un periodo di grande splendore e di espansione. Nel 1153, nel giro quindi di una quarantina di anni, furono, infatti, istituite poco più di 300 abbazie e, di queste, 69 dal solo S. Bernardo. Sarà sempre una coincidenza, ma nello stesso periodo in cui il conte di Champagne e l’abate Harding cominciarono frequentarsi assiduamente, i monaci cistercensi iniziarono a specializzarsi nello studio dei testi sacri ebraici, mentre già dal 1070 alla corte del conte di Champagne era fiorita una prestigiosa scuola di studi cabalistici ed esoterici. Contemporaneamente nasce l’ordine dei templari, che a sua volta, nel giro di pochi anni, acquistò un immenso potere e grandi ricchezze. Alla luce di queste considerazioni non è azzardato anticipare al 1114 l’anno di nascita dell’ordine monasticoP. Partner, I templari, Torino 1991, p.10. G. Viti (a cura di), Atti del I Convegno su I templari e san Bernardo di Chiaravalle, Certosa di Firenze 23-24 ottobre 1992, Firenze 1995. 14 15 Le radici politiche e religiose dei templari... 155 cavalleresco, tanto più che dieci anni dopo il conte di Champagne abbandonerà la sua famiglie e i suoi beni per entrare a far parte ufficialmente dell’ordine templare. È fuor di dubbio, a questo punto, che il conte di Champagne abbia giuocato in tutta questa vicenda un ruolo di primo piano, tanto che sono in molti a nutrire il sospetto che egli fu l’ideatore, il principale finanziatore e il primo vero capo dell’ordine dei templari. Probabilmente, nel corso dei suoi viaggi in Terrasanta il conte Ugo entrò in possesso di documenti riservati, che indubbiamente richiedevano riscontri più concreti; ma appare molto più convincente la tesi che lo stesse fosse già in possesso di carte e documenti dai contenuti esplosivi e che, in ultima analisi, i suoi viaggi a Gerusalemme avessero un preciso carattere esplorativo. È quest’ultima un’ipotesi che apre nuovi scenari, in quanto potrebbe portarci a reinterrogarci sulle vere motivazioni delle crociate e a smascherare le strumentali argomentazioni di un gruppo di potere all’interno della Chiesa, che facendo leva sul sentimento religioso del popolo, si illuse di potere instaurare un governo teocratico, in un progetto dai contorni alquanto nebulosi e dalle alleanze ancor meno chiare. L’esaltante epopea militare e i tragici avvenimenti che contrassegnarono la fine dell’Ordine del Tempio – come ha rilevato giustamente – finiscono inevitabilmente per catalizzare l’attenzione degli studiosi a detrimento di quella che fu la sua attività sociale, nonostante la fondamentale importanza che questa storicamente riveste. Anzi per quest’ultimo costituiva la vera missione segreta di cui i Templari erano investiti e che chiarisce il vero motivo della complicità con la Santa Sede. Secondo l’autore i vertici della Chiesa auspicavano un programma di modifica profonda della struttura della società e dei suoi meccanismi, capace di realizzare in terra la Gerusalemme celeste. Ma come riuscirci? E soprattutto come imporre ad una classe di feudatari, che rispondeva principalmente alla logica della forza e delle armi, nutrendosi soltanto di valori militari, una diversa concezione della vita? Era, quindi, necessario disporre di una forza militare in grado, oltre che di costituire un deterrente, anche e soprattutto di parlare lo stesso linguaggio della classe feudale, uno strumento, in sintesi, che fosse per sua natura parte integrante di questa classe, alla quale sarebbe divenuto impossibile contrastarlo e ignorarne i messaggi. Andava quindi creata una struttura in grado di indicare una via alternativa alla gestione del potere feudale, che costituisse un esempio concreto di quella che era la concezione cristiana della convivenza sociale, favorendo, nel contempo, la nascita di una nuova consapevolezza anche nel popolo minuto e nelle nascenti forze socio-economiche che andavano affermandosi.16 Perché l’operato templare risultasse efficace e credibile, rappresentando oltre che un esempio anche un deterrente, era sufficiente che fosse stimato, temuto e po- 16 D. Lancianese, I templari e la missione segreta, Firenze 2006, p. 85. 156 Salvatore Girgenti tente. Queste caratteristiche, che avrebbero consentito di essere prese seriamente in considerazione dai detentori del potere feudale, non potevano che essere acquisite sul campo di battaglia. Quando l’Ordine Templare fosse riuscito a imporre, con il suo coraggio e le sue imprese militari, rispetto e ammirazione al mondo feudale, allora avrebbe avuto il prestigio e la forza necessaria per agire in modo incisivo perfino là dove la battaglia andava veramente vinta, cioè nel contesto sociale. Il vero attacco al potere andava portato sul piano della società civile, determinando le condizioni necessarie e sufficienti al superamento dello stato feudale, infiltrandosi lentamente in esso fino a modificarlo radicalmente dall’interno, impadronendosi dei centri nevralgici della sua struttura, politica ed economica. Per questo motivo, «attraverso le confraternite i Templari si erano uniti con legami di fratellanza a un esteso settore della classe nobile e anche popolare».17 Bisognava sorreggere i commerci e le corporazioni, impadronirsi del flussi monetari, controllare le vie di comunicazione, la cultura, la tecnologia e la scienza, in breve tutto ciò che consideriamo fondamentale nella società moderna e che veniva completamente ignorato dal potere feudale, assorbito da ben altre preoccupazioni. In realtà, se ben ci riflettiamo questa attività sociale, economica e politica non aveva nulla a che vedere con un impegno bellico, anzi era del tutto avulsa, contrastante e stridente con la concezione cavalleresca in epoca medievale. Martin Bauer sottolinea che fu «grazie alla intercessione di Bernardo di Chiaravalle che si instaurò un rapporto simbiotico tra il papato e l’ordine e da allora i cavalieri servirono il sacro Soglio come un’armata privilegiata».18 Perché fossero alte le possibilità di successo del progetto – sottolinea ancora Lancianese – era necessario che il prestigio militare e quello religioso si mantenessero al di sopra di ogni critica e di ogni immaginazione e per questo la regola non prevedeva in alcun caso la riturata in battaglia, così come, dal punto di vista morale, imponeva ciò che al massimo grado poteva risultare convincente, e cioè una autentica e severa vita monastica. Per il Lancianese, la funzione socio-politica a cui i templari erano chiamati non poteva ovviamente essere resa di pubblico dominio e veniva giustamente custodita come il più importante dei segreti dei vertici dell’Ordine, come pure da quelli della Chiesa. L’autore, per evidenziare l’importanza che la Chiesa attribuiva al progetto e all’attività laica che i templari dovevano svolgere, invita a riflettere sui privilegi accordato all’ordine del Tempio e che in pari misura non furono mai accordati a nessun altro ordine monastico-militare, né a nessun’altra organizzazione ecclesiastica o laica, con la sola eccezione, guarda caso, dei cistercensi. Ai cappellani dell’Ordine fu persino attribuito un potere di remissione pari a quello dei vescovi. Concordiamo con il Lancianese sul fatto che all’origine dei Templari ci siano una serie di occulti obiettivi socio-politici, una vera e propria mis- 17 18 P. Partner, I templari, Torino 1991, p. 72. M. Bauer, Il mistero dei templari, cit., p. 34. Le radici politiche e religiose dei templari... 157 sione segreta, del tutto prevalente su quella che è sempre apparsa come la sua unica motivazione ufficiale, vale a dire la crociata permanente contro l’Islam. Lo stesso Louis Charpentier sottolinea che «la difesa della Terra Santa non è che un mezzo, uno strumento per conquistare il potere. L’Ordine del Tempio è il risultato finale del processo di incivilimento dell’Occidente e questo risultato era stato preparato da tempo».19 Non concordiamo, invece, sul patto segreto tra Templari e Chiesa e, in particolare, su quelle teorie che vorrebbero la nascita dei templari come filiazione di un progetto vaticano, finalizzato a scardinare il sistema feudale per l’attuazione di un sistema politico teocratico, di cui i templari rappresentavano l’attuazione pratica o, più volgarmente, il braccio armato. Non meno interessante, a questo punto, è cercare di individuare le radici religiose dei templari. Ma, come la solito, anche qui è difficile dare una risposta. Alcuni studiosi del fenomeno templare avanzano l’ipotesi che fossero molto vicini al sufismo. Ora, pur non potendo non rilevare che tra le religioni orientali il sufismo è il movimento religioso che ha più punti di contatto con il cristianesimo, il raffronto non regge. È vero che il sufismo punta a soffocare e annullare nell’uomo ogni forma di individualismo e di egoismo – così come si proponevano i templari – ma è pur vero che il forte misticismo, di cui il sufismo è caratterizzato, è lontano mille miglia dal modus vivendi dei templari. Riflettendo, come già si è evidenziato, sulla storia delle origini del potente ordine militare, valutare le possibilità di un nucleo teoretico ebraico nelle radici religiose dei templari, può anche risultare una indagine interessante. Soffermiamoci, per esempio, sulla frattura o sulla diversità che segna la linea di demarcazione tra ebraismo e filosofia greca e occidentale. La prima è incentrata sulle categorie dell’esodo, dell’esilio, del rispetto dell’altro. La seconda ha i suoi pilastri teoretici nell’ontocentrismo e nell’assorbimento dell’altro nel medesimo. Emmanuel Lévinas ha contrapposto all’itinerario di Ulisse, le cui avventure si concludono nel ritorno ad Itaca, la storia di Abramo, che lascia la sua terra per sempre per una terra sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre persino suo figlio a quel punto di partenza: alla filosofia-logos di Ulisse si contrappone la filosofia nomade di Abramo. Quello di Ulisse è un ritorno su se stesso, che si chiude a ciò che è diverso. Contestualizzando potremmo dire oggi che esprime l’incapacità e l’impotenza della filosofia contemporanea di reinventare nuovi cominciamenti, di ripartire dal nulla, condannata com’è a ripercorrere sentieri già tracciati e mete già prestabilite. All’uomo dei nostri tempi tutto ciò potrà apparire di poca importanza. Ma provate a calarvi nel clima sociale del XII secolo. All’ordine templare aderiscono cavalieri, che, pur abituati a vivere nella ricchezza e negli agi, a godere di tutti i privilegi e vantaggi che la loro appartenenza di classe riserva, decidono di rinunziare a tutto pur di adempiere alla loro missione religiosa, sociale 19 L. Charpentier, I misteri dei templari, cit., p. 75. 158 Salvatore Girgenti e politica. Molti di loro saranno massacrati e decapitati dai musulmani. Eppure, nei confronti di questi ultimi, il loro atteggiamento sarà improntato al rigoroso rispetto dei codici cavallereschi del tempo. Nei templari è alto il senso dell’onore e della giustizia. Persino gli storici musulmani del tempo, pur odiando i franchi, come comunemente chiamavo tutti i crociati, apprezzavano il senso di giustizia e di rispetto per l’altro dei poveri cavalieri di Cristo. Una politica, dunque, di massima tolleranza, aperta al dialogo e al confronto fra culture orientali e occidentali. Il Verbo, la parola era alla base del loro credo religioso. Ma è proprio nella tradizione ebraica, nel giudaismo rabbinico che la “parola” rappresenta lo spazio in cui abita la divina presenza. La stessa diversità di opinioni, spesso riscontrabile nel giudaismo rabbinico, più che negativamente, viene avvertita positivamente, in quanto la diversità di opinioni viene interpretata come la conseguenza necessaria alla ricchezza della parola di Dio. Ed ancora. La ricerca del significato “altro” rafforza l’essenza di una teologia e di una ermeneutica ricca di valori etici. L’uomo deve proporsi di allontanare da se tutto ciò che contrasta col volere di Dio e, nello stesso tempo, di consacrarsi al suo servizio, resistendo a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana. In poche parole: di obbedire ad un’etica incentrata sul servizio nei confronti del prossimo. Concetti, questi ultimi, che in larga parte ritroviamo nello Statuto dei cavalieri del Tempio. I precetti, le prescrizioni, abbondantemente presenti nei testi sacri giudaici, ma anche all’interno dell’Ordine Templare, non servono solamente a coltivare e sviluppare le più elevate qualità umane, ma contengono una carica di dinamismo morale in grado di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli fa parte. Ma non sono i soli punti in comune con l’ebraismo. A fondamento della morale troviamo l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi nella accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. Nell’ebraismo la pratica della giustizia è fondamentale nel cammino verso Dio. Nell’ingiusta crociata contro gli Albigesi, in Provenza, i templari rifiutarono di parteciparvi. Con i catari, indubbiamente, c’erano forti contrasti religiosi, ma non tali da determinare una strage. Bernardo di Chiaravalle, inviato in un primo momento per cercare di ricondurli a più miti consigli, scrisse nella sua relazione al Papa di non essere riuscito a sanare i contrasti religiosi che dividevano questi ultimi dalla chiesa romana, ma in ogni caso confessò che se tutti i cristiani si comportassero come i catari avremmo maggiori possibilità di realizzare in terra la Gerusalemme celeste. In realtà, la crociata fu un vero e proprio atto di violenza, conseguenza di una volontà finalizzata a volere affermare l’incontrastato dominio della chiesa di Roma. I templari, infatti, non solo non vi parteciparono, ma giunsero ad offrire ai catari rifugio e protezione nelle loro commende. Alcuni furono addirittura investiti del cavalierato in modo da renderli intoccabili, protetti dal mantello bianco. «i templari – era solito dire Ugo de Payns – non Le radici politiche e religiose dei templari... 159 uccidono in preda a odio e furore; non odiano gli uomini, ma l’ingiustizia umana».20 A tal proposito, potremmo ricordare un altro episodio. Nel 1252 un gran dignitario dell’Ordine, rivolgendosi a Enrico II d’Inghilterra, disse: o re, finché userai giustizia, tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai di essere re. Alcuni storici, in questa frase, hanno visto l’affermazione di un potere che neppure il papato osava reclamare tanto apertamente: quello di creare o deporre i monarchi; nella realtà, non si può non sottolineare l’alto concetto di giustizia dei templari, che li spingeva ed entrare in rotta di collisione contro tutti coloro che lo calpestavano, senza riguardi per nessuno. Come abbiamo già visto, nel loro programma di modifica profonda della società e dei suoi meccanismi, i templari dovevano innanzitutto riuscire ad essere accettati, rispettati e temuti dalla classe dei feudatari. Ma come riuscire ad imporsi a degli uomini che rispondevano principalmente alla logica delle forza e delle armi? Solamente dimostrandosi abili e temuti guerrieri potevano riuscire a guadagnarsi il rispetto dei feudatari e dei loro vassalli e in questo, come sappiamo, ci riuscirono magnificamente. Ma dovevano anche distinguersi eticamente con la loro condotta e con le loro azioni. Ecco un altro punto in comune con l’ebraismo. Secondo alcuni filosofi ebrei medievali, noi non possiamo conoscere alcun attributo di Dio, se non quello d’azione. Questi ultimi, rifacendosi a un commento talmudico e in particolare all’episodio narrato in Esodo (33-34), in cui Mosè domanda a dio di mostrargli il suo volto, quest’ultimo gli risponde che lo nasconderà in una cavità della roccia. Dio passa davanti a Mosè, che non può vederlo, e Mosè ha solamente la possibilità di guardare la traccia che il passaggio di Dio ha lasciato. Dalla traccia di Dio Mosè percepisce delle qualità divine, che sono esclusivamente morali: gli attributi d’azione, che nella realtà non indicano caratteri propri dell’azione di Dio, quanto modelli per l’uomo, norme per l’agire umano e, quindi esempi, per l’uomo. Seguire costantemente questi modelli, significa per ogni uomo, nel corso della vita, imitare costantemente nel comportamento. L’azione, quindi, per il popolo ebraico è fondamentale, tanto che è inconfutabile la constatazione che la religione ebraica è la religione dell’atto, dell’azione e non la religione del dogma o della teoria. Così come è innegabile che i templari, attraverso l’azione, abbiano portato a compimento la missione per cui erano stati creati: imitare e assimilarsi a Dio. L’apertura al confronto, la difesa del debole e l’alto senso di giustizia che ha sempre caratterizzato i templari, trovo un riscontro nella religiosità ebraica, secondo la quale conoscere Dio vuol dire adempiere al bene; amare Dio vuol dire amare gli uomini. L’azione, quindi, presuppone un atteggiamento etico dell’uomo, rivolto non esclusivamente a Dio, ma a tutto il creato e, in particolar modo, agli uomini. 20 P. Partner, I templari, cit., p.10 Filippo Grammauta La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari dall’accusa di eresia Il 13 ottobre 1307, un venerdì, per ordine del re di Francia Filippo IV detto “il Bello”, più di mille cavalieri templari presenti sul suolo francese furono arrestati contemporaneamente con la falsa accusa di eresia. All’arresto non sfuggirono i dignitari dell’Ordine, e cioè Jacques de Molay, Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, Hugues de Pèrraud, Visitatore di Francia (carica che lo poneva un gradino al di sotto del Gran Maestro), Raymbaud de Caron, Precettore d’Oltremare, Geoffroy de Gonneville, Precettore in Aquitania e Poitou, Geoffroy de Charny, Precettore in Normandia. Cominciò così, una lunga partita a scacchi tra il re di Francia e papa Clemente V. Il primo con l’aiuto dei suoi astuti ministri, primi fra tutti Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di Plaisians, ha costruito le false accuse contro l’Ordine per farlo sopprimere e impossessarsi dei suoi beni. Il secondo invece, pur costretto a cedere ai ricatti e alle pressioni del re, avrebbe voluto utilizzare l’immenso patrimonio templare per organizzare una nuova crociata. Subito sottoposti a tortura o a forte pressione psicologica, quasi tutti i Templari confessarono le gravi colpe che erano state loro addebitate. In particolare confermarono che dopo la cerimonia di accoglienza nell’Ordine, il novizio veniva portato in disparte e, lontano da occhi indiscreti, era costretto a rinnegare Cristo, a sputare sulla croce, a sottoporsi alla pratica dei baci osceni e invitato a praticare la sodomia tra i confrati qualora non fosse riuscito a superare la tentazione della carne o se qualche fratello glielo avesse chiesto espressamente. Parecchi confessarono - sia perché lo videro di persona sia per sentito dire da altri - che in occasione della celebrazione del Capitolo assieme alle altre sacre reliquie veniva esposto un idolo (detto Bafometto), di cui fornirono le più svariate descrizioni (a forma di testa di uomo, di animale, con la barba bianca e nera, con la calotta d’avorio, d’argento, con due facce, con due o con quattro piedi, ecc). Tra la fine di ottobre ed il mese di novembre anche i dignitari dell’Ordine confessarono le medesime colpe. Il Gran Maestro Jacques de Molay confessò parte delle colpe addebitate in occasione del primo interrogatorio che subì in carcere, probabilmente sotto tortura, il 24 ottobre 1307 davanti all’Inquisitore di Parigi, e le 162 Filippo Grammauta confermò il giorno successivo davanti ad una assemblea di canonici, laici e studenti universitari della Sorbona riuniti dai funzionari regi nella casa dei Templari a Parigi. A questo punto il papa, che aveva già trasferito a Poitiers la Curia pontificia, per verificare se le accuse rivolte ai Templari avessero un fondamento di verità, mandò a Parigi due cardinali di propria fiducia, Bérenger Frédol ed Etienne de Suisy, con l’incarico di interrogare i dignitari del Tempio; ma il re non diede l’assenso. Quando il 24 dicembre dello stesso anno i cardinali, questa volta autorizzati dal re, chiesero a de Molay se la confessione da lui resa era vera, il Gran Maestro ritrattò tutto, disse che quella confessione gli era stata estorta e, toltisi gli abiti, mostrò i segni della tortura che aveva subito. Scossi da quanto avevano visto e udito a Parigi, al loro rientro a Poitiers i cardinali riferirono tutto al papa, il quale nel mese di febbraio 1308 sospese dall’incarico il grande inquisitore di Parigi Guglielmo Imbert ed avocò a sé e alla Curia ogni competenza sull’inchiesta. Sentendosi sfuggire di mano l’iniziativa, il re con grande seguito armato, nel mese di maggio del 1308, si recò a Poitiers per indurre il pontefice a sciogliere l’Ordine. Per sottrarsi alle continue e costanti pressioni di Filippo IV, il papa il 29 maggio convocò un concistoro pubblico al quale parteciparono anche i funzionari regi guidati da De Nogarét e da De Plaisians, i quali in più occasioni minacciarono il papa di accusarlo di eresia se non avesse accolto le richieste del re. In tale occasione si concordò di nominare una commissione di cardinali presso la Curia di Poitiers con il compito di avviare una nuova inchiesta sui Templari. Della commissione, che sarebbe stata presieduta personalmente dal papa, avrebbero fatto parte anche i cardinali Bérenger Frédol, nipote del papa ed espertissimo canonista, ed Etienne de Suisy. Il re da parte sua, sotto minaccia del papa che si rifiutava di adottare provvedimenti contro l’Ordine se prima non gli fosse stato consentito di interrogare personalmente i Templari che continuavano a restare sotto custodia regia, volendo dare prova di grande disponibilità dispose che un folto gruppo di Templari fosse trasferito a Poitiers, dove si trovava la Curia pontificia. Pertanto, nel mese di giugno 1308, 72 Templari (scelti accuratamente fra quelli propensi ad autoaccusarsi), caricati su carri ed incatenati l’uno all’altro, lasciarono Parigi alla volta di Poitiers. Quando il convoglio giunse a Chinon (località distante da Poitiers una sessantina di chilometri) i dignitari dell’Ordine, cioè Jacques de Molay, Hugues de Pèrraud, Raymbaud de Caron, Geoffroy de Gonneville e Geoffroy de Charny, furono separati dagli altri e rinchiusi nella fortezza locale. E così mentre gli altri Templari proseguirono per Poitiers per essere interrogati, i dignitari dell’Ordine, con la scusa che erano gravemente ammalati, furono trattenuti a Chinon per impedire che il papa li potesse interrogare e magari, sentite le loro ragioni, li potesse addirittura assolvere. Con questa mossa il re voleva indebolire l’inchiesta pontificia; infatti, se il papa avesse assolto i vertici dell’Ordine, l’inchiesta regia avrebbe perso valore perché non avrebbe più riguardato i membri più rappresentativi, quelli cioè La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari... 163 che portavano le maggiori responsabilità all’interno del Tempio. Il papa, tra la fine di giugno ed i primi di luglio, interrogò di persona i Templari che erano giunti a Poitiers e alla fine impose loro di chiedere perdono per le colpe che comunque avevano commesso (anche se costretti a farlo sotto minaccia), cioè gli atti di rifiuto e di oltraggio della religione. Poi concesse loro l’assoluzione e li reintegrò nei sacramenti e nella comunione della Chiesa. Interrogando di persona i Templari, egli capì perfettamente che il rinnegamento a parole di Cristo e lo sputo sulla croce non esprimevano lo stato d’animo del novizio, ma rappresentavano un rituale d’ingresso che serviva a saggiarne la tempra; il postulante che chiedeva di entrare nell’Ordine era messo a confronto con le violenze che i musulmani compivano sui Templari catturati per costringerli a rinnegare Cristo e ad oltraggiare la croce. Terrificante ed imposto sotto minaccia di morte, il rituale era una messinscena che doveva spaventare il postulante e metterlo alla prova; ciò consentiva ai suoi superiori di verificare fin dall’inizio la tempra del futuro cavaliere e la sua capacità di autocontrollo e di subordinazione totale ai superiori. Il rituale era stato tollerato per tanto tempo perché veniva considerato formativo della recluta. Il re, che dal mese di maggio si trovava Poitiers, il 24 luglio ritornò a Parigi lasciando sul posto il fidato ministro Guglielmo de Plaisians con il compito di vigilare su eventuali iniziative che il papa avrebbe potuto assumere a favore dei Templari. Il 12 agosto 1308 il papa tenne un concistoro nel quale fece dare lettura della bolla Faciens misericordiam firmata quattro giorni prima, con cui venne indetto un concilio ecumenico da tenersi entro due anni a Vienne per discutere i problemi più urgenti della cristianità, fra cui l’indizione di una nuova crociata per la riconquista della Terrasanta e l’esame della questione templare. Lo stesso 12 agosto Clemente V emise la bolla Regnans in coelis diretta al re di Francia e agli altri regnanti della cristianità, ma dai toni duri nei confronti dei Templari. Nel concistoro si decise anche di avviare inchieste diocesane per processare i singoli Templari detenuti nelle rispettive circoscrizioni e venne nominata una commissione di otto cardinali con il compito di indagare sull’Ordine nel suo complesso; il papa, tuttavia, si è riservato il diritto di occuparsi personalmente dei dignitari del Tempio. Rasserenato così il clima di tensione che gravava su Poitiers, il 13 agosto Clemente V decretò l’inizio delle ferie estive, che sancì l’interruzione dell’attività amministrativa e giudiziaria della Curia pontificia e il rientro a Parigi dei funzionari regi rimasti a Poitiers dopo la partenza del re. Quindi, all’alba del 14 agosto inviò a Chinon Bérenger Frédol, cardinale prete del titolo dei Santi Nereo e Achilleo, Etienne de Suisy, cardinale prete del titolo di San Ciriaco in Termis e Landolfo Brancacci cardinale diacono del titolo di Sant’Angelo, con il preciso incarico di svolgere in sua vece quell’inchiesta sui dignitari templari che Filippo IV di fatto gli impediva di compiere. In tal modo il papa, che possedeva un’ottima preparazione giuridica ed era stato per molti anni un abile diplomatico, tentò di neutralizzare la mossa del re, il quale aveva relegato nella fortezza di Chinon Jacques de Molay e gli altri dignitari 164 Filippo Grammauta per evitare che potessero essere interrogati direttamente dal pontefice. A partire da sabato 17 agosto i dignitari Hugues de Pèrraud, Raimbaud de Caron, Geoffroy de Gonneville e Geoffroy de Charny vennero ascoltati dai tre cardinali in presenza di quattro notai apostolici e di quattro testimoni; il Gran Maestro Jacques de Molay venne ascoltato per ultimo il 20 agosto. Tutti confessarono le colpe ma, giurando sui sacri vangeli, abiurarono all’eresia e chiesero di essere riammessi in seno alla Chiesa. I cardinali, accogliendo le richieste dei confrati, impartirono loro il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendoli nell’unità della stessa e restituendoli alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici. Ascoltata la versione dei fatti resa dai cardinali al loro rientro a Poitiers, il papa emise una seconda versione (versione aggiornata e retrodatata) della bolla Faciens misericordiam, con la quale si ribadivano i concetti contenuti nella prima versione della bolla, ma si precisava che i vertici dell’Ordine erano stati assolti dall’accusa di eresia e che pertanto da quel momento nessuno, eccetto il papa, poteva più interrogarli. Con tale iniziativa il papa ritenne di avere preservato i dignitari templari da più gravi sciagure. Come si sa invece gli eventi volsero verso un tragico destino, che portò sul rogo, il 18 marzo 1314, il Gran Maestro Jacques de Molay ed il Precettore di Normandia Geoffroy de Charny. Per tanto tempo si è creduto che di quanto avvenne a Chinon non esistesse un vero e proprio resoconto scritto. Le notizie che si avevano sugli avvenimenti svoltisi a Chinon derivavano dall’Appendice n. 10595 – Inquisizione svolta a Chinon dai cardinali Berengario, Stefano e Landolfo, (dei documenti registrati nelle Appendici è data solo la sintesi dell’argomento, non il testo completo)1 e richiamato nell’opera che l’insigne storico tedesco Heinrich Finke pubblicò nel 1906;2 dal rapporto che Jean Bourgogne, procuratore di Giacomo II d’Aragona presso la Curia pontificia, inviò al proprio sovrano su quanto aveva appreso già sei giorni dopo la partenza dei cardinali per Chinon;3 dagli atti del processo svoltosi a Parigi nel 1309 dai quali risulta che nella seduta del 26 novembre, per consentire a Jacques de Molay di preparare un’adeguata difesa dell’Ordine, gli fu data lettura delle lettere apostoliche che definivano i poteri della Commissione che lo stava giudicando, di alcuni atti del processo e del resoconto delle sue confessioni rese a Chinon;4 dal resoconto dell’inchiesta di Chinon come trascritto nel registro di Pierre d’Etampes, membro della cancelleria di Francia, resoconto inteso come trascrizione sintetica di una comunicazione al re da parte dei tre cardinali mediante una lettera inviata al re dai cardinali Bérenger Frédol, Etienne de Suisy e Landolfo Brancacci; inviati dal papa a Chinon, i quali confermerebbero che all’interrogatorio avrebbero assistito anche gli amati cavalieri S. Portolan, Sul processo per eresia dei Templari, Ed. Penne & Papiri 1999, pp. 12-16. H. Finke, Papsttum und Untergand des Templerordens, Munster 1906. 3 B. Frale, Il Papato ed il processo ai Templari, Ed. Viella 2003, p. 146. 4 M. Barber, Processo ai Templari, Ed. ECIG 1993, p. 158. 1 2 La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari... 165 G. e G. e Jean de Jamville. Il testo è conservato nel manoscritto latino n. 10919 della Biblioteque Nationale di Parigi;5 .dalla bolla Vox in excelso, nella quale si conferma – in forma sintetica – la vicenda di Chinon.6 L’assoluzione dall’accusa di eresia era invece riportata nella versione aggiornata della bolla Faciens misericordiam.7 Nel mese di settembre 2001 la ricercatrice Barbara Frale, oggi Officiale dell’Archivio Segreto Vaticano, rileggendo per l’ennesima volta l’inventario dei documenti sul processo ai Templari conservato nel “Fondo di Castel Sant’Angelo dell’Archivio Segreto Vaticano” rimase incuriosita da un documento allegato agli atti dell’inchiesta diocesana svoltasi a Tours.8 Il Berengario del titolo dei Santi Nereo ed Achilleo citato in apertura del documento in realtà era il cardinale Berénger Frédol, nipote e braccio destro del papa nonché l’uomo più importante del collegio dei cardinali. Era improbabile che un personaggio di così alto rango si occupasse di una modesta inchiesta diocesana. Il documento certamente doveva riferirsi a qualcosa di importante. E infatti l’attenta lettura della pergamena svelò la verità: quel documento, successivamente diventato noto come La pergamena di Chinon, era la trascrizione degli interrogatori svoltisi a Chinon tra il 17 ed il 20 agosto 1308 e conteneva in forma scritta l’assoluzione dei dignitari dell’Ordine del Tempio. La pergamena (580x700 mm), portata a Roma assieme agli altri documenti sui processi ai Templari, nel 1628 venne catalogata da Giovanbattista Confalonieri (Custode dell’Archivio di Castel Sant’Angelo) in modo errato e nel 1912 venne ulteriormente censita in un dettagliato catalogo. Non la riconobbe neanche l’autorevole storico Conrad Shottmüller che pure l’avrà esaminata alla fine del XIX sec., ma che probabilmente l’avrà scambiata per un documento appartenente ad una delle tante inchieste diocesane che si svolsero in Francia contro i Templari.9 Il contenuto del documento getta una nuova luce sulla figura di Clemente V, da sempre considerato debole e succube del sovrano francese. L’Ordine del Tempio era parte integrante della Chiesa ed il papa non poteva accettarne la distruzione al solo scopo di consentire a Filippo IV di usare i suoi beni per finanziare una guerra contro il re d’Inghilterra, anch’egli cattolico. Il clero francese era soggiogato da Filippo IV ed un altro conflitto tra la Chiesa e la corona 5 Il documento originale è conservato nel manoscritto latino n. 10919 della Bibliotheque Nationale di Parigi (Cfr. B. Frale, Il Papato ed il processo ai Templari, cit., p. 151). La sua trascrizione è riportata in P. Dupuy, Histoire de l’Ordre militaire des Templiers, 1751. Si tratta di una riedizione dell’opera scritta nella prima metà del 1600 da Pierre Dupuy, Consigliere e responsabile della biblioteca del re di Francia, morto a Parigi il 26 dicembre 1651. L’opera è inoltre consultabile in forma digitalizzata all’indirizzo di Google libri: http://books.google.it 6 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, 1973, pp. 336-343. 7 Regestum Clementis Papae V, Roma 1885-1895, documento n. 3402. 8 B. Frale, Il Papato ed il processo ai Templari, Ed. Viella 2003, pp. 10-16. 9 La Pergamena di Chinon è conservata presso l’Archivio Segreto Vaticano, Archivium Arcis, Armadium D 217 (B. Frale, Il Papato ed il processo ai Templari, cit., p. 220). 166 Filippo Grammauta avrebbe causato uno scisma. Il papa non poteva rischiare che ciò accadesse e pertanto, dopo l’ultimo tentativo di assolvere i capi templari, fu costretto ad abbandonare l’Ordine al suo destino. Con la bolla Vox in excelso del 22 marzo 1312, letta pubblicamente a Vienne alla presenza dei Padri conciliari il 3 aprile 1312, l’Ordine del Tempio fu sospeso in perpetuo (ma si tratta, di fatto, di una vera e propria soppressione). Con la bolla Ad providam Christi Vicarii del 2 maggio dello stesso anno i beni dei Templari furono assegnati all’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni e immediatamente dopo, con la bolla Nuper in generali del 16 maggio, detti beni vennero trasferiti a questi ultimi, i quali negli anni successivi dovettero versare alla corona l’ingente somma di un milione di tornesi a titolo di risarcimento delle spese sostenute per sradicare l’eresia templare. Perché il documento di Chinon non fu reso noto? Come mai è scivolato misteriosamente tra i documenti dell’inchiesta diocesana svoltasi a Tours (nella cui circoscrizione ricadeva Chinon) dal momento che la vicenda in esso descritta era comunque nota, come era nota l’assoluzione dei dignitari templari, riportata nella Faciens misericordiam?. Cosa poteva accadere se il documento fosse stato divulgato integralmente? Dai documenti disponibili emerge una figura del pontefice determinato, all’inizio dell’intera vicenda, ad impedire in tutti i modi che il re si impossessasse dei beni del Tempio e ne pretendesse lo scioglimento. Sembra pure, però, che con il passare del tempo il papa maturasse la consapevolezza di non potere resistere a lungo alle pressioni di Filippo IV, che lo minacciava di accusarlo di eresia e di simonia e di aprire il processo postumo a Bonifacio VIII se non avesse accettato il suo volere. Alla fine però, accortosi che l’apparato messo in piedi dal re era risuscito a fare confessare i Templari, li abbandona al loro destino. Ma non ebbe il coraggio di farlo apertamente, tant’è che ancora nel 1308 e nel 1309, nei documenti ufficiali che si presumeva sarebbero stati letti dai Templari (i quali, fino all’ultimo, rimasero convinti che alla fine il papa li avrebbe salvati), i toni erano concilianti, mentre nei documenti diretti al re di Francia e agli altri sovrani della cristianità i toni erano certamente duri e severi nei confronti dei Templari. Probabilmente un barlume di coscienza ha indotto il papa a cercare spunti per salvare dall’accusa di eresia i vertici templari e con essi tutto l’Ordine, magari dopo avergli dato un nuovo ruolo e dopo averne riformato i costumi e la disciplina. La vicenda di Chinon sembra avvalorare questa ipotesi e la pergamena ritrovata ne sarebbe la conferma storica, ma è anche la conferma dell’ambiguità o, se si vuole, della debolezza di Clemente V. Il papa forse sperava in qualche fatto nuovo che avrebbe potuto indurre il re a desistere dal proprio progetto e l’esibizione del documento redatto a Chinon gli avrebbe consentito di presentarsi come il salvatore dei Templari. Il papa invia i tre cardinali a Chinon ad interrogare i cinque dignitari con il mandato di assolverli dall’accusa di eresia dopo il loro pentimento. Stranamente i cardinali, partiti all’alba La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari... 167 del 14 agosto da Poitiers, iniziarono gli interrogatori sabato 17 agosto. Li finiscono il 20 e subito ritornano a Poitiers per riferire al papa. Sembrerebbe che il viaggio di andata sia stato più lungo di quello di ritorno. A meno che, prima di iniziare gli interrogatori, i tre cardinali, probabilmente alla presenza dei funzionari regi, non abbiano impiegato parecchio tempo per convincere i dignitari del Tempio (che non sapevano ancora che con la Faciens misericordiam il loro destino era stato già segnato) che la loro confessione in cambio dell’assoluzione pontificia avrebbe assecondato il progetto che il papa aveva in animo di attuare per tentale di salvare l’Ordine. L’ipotesi è plausibile visto l’atteggiamento di sconforto e di stizza tenuto dal de Molay il 26 novembre 1309, quando, durante una udienza del processo diocesano che lo vedeva protagonista, gli venne letto il resoconto della confessione che lo stesso aveva reso a Chinon ai tre cardinali inviati dal papa. Ma se è così, il documento integrale che riportava in forma pubblica gli eventi di Chinon non poteva essere reso noto subito; era meglio diffondere la notizia dell’assoluzione solo attraverso documenti scritti in forma sintetica, per potere avere più tardi la possibilità di negarne parzialmente il contenuto, ovvero di renderlo pubblico integralmente se il decorso degli eventi fosse stato favorevole ai Templari. Poi le condizioni mutarono a favore del re e la pergamena di Chinon non solo non venne resa pubblica, ma scomparve tra gli atti dell’inchiesta diocesana di Tours. Le successive iniziative adottate da Clemente V contro l’Ordine del Tempio testimoniano quanto il papa fosse debole e succube di Filippo IV. La pergamena di Chinon non migliora l’immagine del papa; certifica solamente uno dei molteplici tentativi che egli mise in atto per contrastare l’arroganza e la cupidigia di Filippo IV, ma anche – alla luce degli eventi successivi – un espediente messo in atto dalla Curia pontificia per indurre i vertici templari a confessare le colpe loro attribuite. Salvatore D’Angelo La medicina nel Medioevo Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.1 Così si esprimeva nel XII secolo Giovanni di Salisbury riprendendo riflessioni di Bernardo di Chartres volendo indicare come il progresso che raggiunge una generazione di uomini sia sempre legato alle acquisizioni delle generazioni precedenti. Se guardiamo al Medioevo vediamo che appunto in quell’era sono state inventale le cose che vediamo ogni giorno: le banche, le organizzazioni no-profit, le università e gli ospedali. Ed anche il concetto di solidarietà collettiva. San Benedetto nel dettare la regola monastica creò i monasteri come luoghi di vita sobria, ma non misera, luoghi di povertà personale, del singolo monaco, ma non di indigenza o di squallore collettivo. Da questi luoghi lontani dalle città si affermò un nuovo tipo di società basata sul concetto cristiano della solidarietà collettiva. La storia della medicina nel medioevo è intrinsecamente connessa al monachesimo occidentale, perché quella che chiamiamo medicina conventuale nacque nei monasteri benedettini. Nell’Altomedioevo nei monasteri benedettini un monachus infirmarius, vedendo in loro la persona di Cristo (San Benedetto, Regula monachorum, C. 31, 4253), si prendeva cura oltre che dei confratelli malati anche dei pellegrini e dei malati estranei al monastero. Gli strumenti di cui poteva disporre questo monachus infirmarius, a prima vista, possono sembrare veramente miserevoli infatti aveva a disposizione soltanto estratti di vegetali. L’intelligenza e la sapienza nell’uso di questi rimedi erano assolutamente necessari per ottenere il risultato sperato di guarigione del malato. Soltanto con lo studio attento che Cassiodoro nel 544 nelle sue Institutiones divinarum et humanorum raccomanda ai monaci si poteva imparare le proprietà dei (rimedi) semplici e dei rimedi composti. G. Steiner, Una certa idea di Europa, Prefazione di M. Vargas Llosa, Prologo di R. Riemen, Garzanti 2006, p. 23. 1 170 Salvatore D’Angelo Et ideo discite quidem naturas herbarum com mixtionesque specierum sollicita mente tractate […] Quod si uobis non fuerit graecarum litterarum nota facundia, in primis habetis Herbarium Dioscoridis, qui herbas agrorum mirabili proprietate disseruit atque depinxit. Post haec legite Hippocratem atque Galienum latina lingua conuersos.2 Questo monachus infirmarius, pur dedicandosi all’assistenza non era un medico in senso specifico, si applicava nei limiti delle sue capacità, per rendere effettivo il principio della hospitalitas, cioè l’accoglienza dei pellegrini e l’ospitalità dei malati. Isidoro di Siviglia, dottore della chiesa, il più grande erudito del suo tempo, recentemente elevato per il suo enciclopedismo a santo patrono di Internet ci testimonia che nell’Altomedioevo le conoscenze mediche della classicità greco-romana non furono affatto perdute. Nel VI secolo Isidoro è stato l’autore dell’Etymologiae o Origines, (Originum sive etymologiarum libri viginti) che può essere considerata la prima enciclopedia della cultura occidentale. In una pagina di un manoscritto attualmente conservato a San Gallo si può notare l’argomento del quarto libro: De Medicina. Allo stesso modo come lo è per noi, per Isidoro era chiaro che la medicina razionale, potremmo dire scientifica, rappresenta il superamento delle due più arcaiche forme di medicina: quella sacrale e quella empirica. Prima Methodica Inventa est ab Apolline, quae remedia sectatur et carmina. Secunda Enpirica, experientissima id est, Inventa est ab Aesculapio, quae non indiciorum signis, sed solis constat experimentis. Tertia Logica, id est rationalis, ab Hippocrate Inventa. [2] aetatum discussis Iste enim, regionum, aegritudinum vel qualitatibus, artis curam rationabiliter est perscrutatus, infirmitatum per quam causas perscrutetur adhibita ratione, [curam rationabiliter perscrutatus est].3 La medicina ieratica o sacrale è stata la più antica forma di medicina. Esercitata da sacerdoti o da “maghi”, è basata su preghiere o formule salvifiche, su atti rituali o uso di amuleti, confina in modo evidente con la superstizione. Non dobbiamo credere che sia scomparsa perché ai giorni nostri i maghi e i guaritori la esercitano per quei creduloni che pensano che il malocchio sia all’origine delle loro malattie. Accettando questo tipo di medicina e credendo all’intervento divino Omero nell’Iliade ci dice che il dio Apollo irritato: «contra i Greci/ pestiferi vibrò dardi mortali./ Perìa la gente a torme, e d’ogni parte/ sibilanti del Dio pel campo tutto/ volavano gli strali». Le nostre conoscenze mediche attuali ci dicono che la malattia degli as- 2 Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator, Institutiones divinarum et saecularium litterarum, XXI, 1. 3 Isidorus Hispalensis, Etymologiarum sive originum, libro IV, IV. De Tribus haerresibus medicorum. La medicina nel medioevo 171 sedianti di Troia era in realtà una infezione batterica grave, verosimilmente era la morva. Fin dalla notte dei tempi l’uomo ha imparato a distinguere, in maniera empirica e casuale, erbe, radici, foglie, frutti e semi commestibili da quelli velenosi, ed ha capito appieno che gli animali hanno la capacità innata di riconoscere i vegetali velenosi, e conseguentemente ha incominciato a servirsi delle piante per curarsi. Con l’osservazione e l’esperienza l’uomo ha progressivamente scoperto le qualità curative presenti nei vegetali. Queste conoscenze sono alla base della medicina empirica, tuttavia questa forma di medicina é del tutto priva di un qualsiasi orizzonte teorico coerente. La medicina razionale, la forma più evoluta di medicina, si basa sull’osservazione e sull’esperienza, e possiede una precisa e coerente impostazione teorica. È appunto questa la nostra attuale medicina, la facciamo risalire direttamente ad Ippocrate, che visse tra il 460 e il 370 a.C. Nelle genesi di tutte le malattie Ippocrate nega in modo netto l’intervento divino. Oltre ad Ippocrate i grandi teorici della medicina greca classica sono stati: Teofrasto (371-288 a.C.), Dioscoride (40-90 d.C.) e Galeno (131-202 d.C.). Nell’Altomedioevo i monaci salvarono dalla distruzione definitiva sia le opere letterarie e filosofiche che le opere di Ippocrate, di Galeno, di Dioscoride, e per mezzo di queste si impadronirono delle conoscenze mediche dell’antichità classica, tuttavia per loro fu del tutto inevitabile accettare acriticamente l’impostazione teorica che stava alla base della medicina greco-romana, pertanto la medicina conventuale appartiene alla medicina razionale. I principi teorici della medicina di Ippocrate e di Galeno sono ripresi da Isidoro nelle Etymologiae: Sicut autem quattuor sunt elementa, sic et quattuor humores, et unusquisque humor suum elementum imitatur: sanguis aerem, cholera ignem, melancholia terram, aquam flemma. Et sunt quattuor humores, sicut quattuor elementa, quae conservant corpora nostra.4 Non dobbiamo affatto stupirci oggi della posizione dottrinale espressa nel periodo classico che semplificando moltissimo concepiva l’intero corpo umano costituito dalla mescolanza di quattro umori (sangue, flegma, bile gialla, bile nera). In questa concezione l’egemonia di uno degli umori dava origine a quattro possibili temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico o bilioso e melanconico o ipocondriaco. Ippocrate e Galeno non ebbero mai a disposizione un microscopio e non avevano le nozioni di cellula, di DNA, di ormoni, fattori di crescita, ecc. Tuttavia alla base della nostra attuale medicina c’è il principio del contraria contraris (la sostanza attiva deve avere un’azione contraria agli effetti della malattia), ed è derivato da Ippocrate, il quale utilizzava per le cure farmaci di origine vegetale, minerale, animale che provenivano dalla tradizione medica egiziana e orientale. Ad esempio 4 Ibid., V. De quattuor humoribus corporis. 172 Salvatore D’Angelo le proprietà del salice erano conosciute da Ippocrate, infatti consigliava infusi di corteccia di salice per le doglie del parto e come analgesico. Nel salice il principio attivo è l’acido salicilico che è particolarmente irritante: soltanto alla fine del XIX secolo F. Hoffmann con un processo di acetilazione ottenne l’acido acetilsalicilico, cioè l’aspirina. Ippocrate oltre che medico fu maestro di chirurgia, infatti insegnò a ridurre e immobilizzare le fratture, a incidere gli ascessi, a cauterizzare le ferite. Questo aforisma di Ippocrate è chiarissimo: ciò che i medicinali non curano, il coltello cura; ciò che il coltello non cura, il cauterio cura; ciò che il cauterio non cura, si deve considerare incurabile. Anche Achille Mario Dogliotti indimenticato maestro di cardio-chirurgia affermò che la chirurgia rappresenta il fallimento della medicina, volendo significare che la dove non è possibile una risoluzione della malattia con i farmaci è necessario che intervenga il chirurgo. Tutti i monasteri avevano al loro interno l’herbularius, il giardino delle erbe semplici in cui da 16 a venti piante erano coltivate (iris, giglio, levistico, trigonella, rosmarino, erisimo, santoreggia, salvia, rucola, cumino, finocchio, fagiolo, menta, balsamita major e rosa). Dalla più antica planimetria conosciuta (quella dell’abbazia di San Gallo dell’820) sappiamo che il monastero benedettino prevedeva: la domus medicorum, l’infermeria situata al sol levante e l’armarium pigmentorum una specie di riserva di farmaci gestita da un monaco apotecario. I monaci somministravano infusi di erbe, applicavano cataplasmi, praticavano i salassi. I petali dell’iris venivano ridotti in poltiglia e applicati in caso di contusioni. Il bulbo del giglio era considerato un rimedio efficace contro l’epilessia e si pensava che lenisse ferite e scottature (in effetti oggi si sa che contiene un lenitivo per la pelle). Si usavano le radici e i frutti di levistico o “sedano di montagna” per i suoi effetti diuretici. La trigonella o fieno greco era utilizzato nel trattamento di malattie renali ed epatiche, nelle febbri e nelle intossicazioni. Il rosmarino veniva usato come fumigante per disinfettare le stanze dei malati. L’erisimo era utilizzato per alleviare le infiammazioni della gola, per risolvere la raucedine e l’afonia conseguenti a laringiti, faringiti e tracheiti acute o croniche e in genere le irritazioni delle prime vie aeree dovute a tosse, infuenza e raffreddore. La santoreggia era usata per disinfettare le piccole ferite ed era conosciuta anche col nome di erba spezia o erba acciuga, godeva della fama di essere afrodisiaca (il nome santureja significa erba del satiro). La medicina moderna ha in parte confermato questa tradizione, riconoscendo alla santoreggia la proprietà di stimolare le funzioni cerebrali e fisiche in chi la consuma. Curaro, atropina, chinidina, colchicina, chinino, valeriana, rutina e ancora molti altri sono farmaci estratti da vegetali che sono nell’uso attuale a dimostrazione continuità dell’utilizzo dei rimedi ottenuti dalle piante. La farmacopea medievale comprendeva complessivamente sei classi di rimedi corrispondenti a stati patologici precisi: le piante contro le febbri, le piante delle donne, le piante vulnerarie, le purghe, le piante dei mal di ventre, le piante antiveleno. La La medicina nel medioevo 173 diffusione dei monasteri e delle abbazie avvenne lungo la via Francigena, il cammino di Santiago, ed altre vie di pellegrinaggio, e ciò finì con il creare una rete di luoghi di cura per tutta l’Europa. La diffusione delle conoscenze mediche fu considerata importante da Carlo Magno che con il capitolare di Thionville dell’805 ordinò l’insegnamento della medicina, in quel tempo era chiamata phisica, insieme a quello della altre arti: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica. Secondo la concezione medievale deve esserci un legame stretto tra medicina e filosofia, quindi il medico esperto dove essere uno studioso istruito nella filosofia naturale: la physica. È questa concezione quella che sta alla base dell’equivalenza terminologica tra medicina e physica, possiamo notare che l’equivalenza sopravvive nella parola inglese Physician, che indica il medico.L’ispiratore della Scuola Palatina di Aquisgrana, Alcuino di York, scrisse un ricettario medico: il ricettario di Lorsch. La parte introduttiva del ricettario sviluppa il concetto di una motivazione cristiana con cui si possono affrontare gli studi della medicina. Questo è un frammento del ricettario, conservato nel monastero di Lorsch. Dalla iniziale figura del monaco-infermiere, si arrivò progressivamente al medico-monaco. Questi medici cominciarono con il passare del tempo ad esercitare la medicina anche fuori dalle mura dei monastero. È anche sorprendente constatare come nel Medioevo hanno potuto anche operare donne con profonde conoscenze di medicina come la monaca Ildegarda di Bingen (1098 –1179), che scrisse due opere importanti: Physica (Storia naturale o Libro delle medicine semplici) e Causae et curae (Libro delle cause e dei rimedi o Libro delle medicine composte). Ildegarda per curare la febbre di qualsiasi genere prescriveva: «quando una persona ha febbre, non importa per quale motivo, prenda radici di Angelica e le pesti un po’. Così pestate o schiacciate, le copra con un mezzo bicchiere di vino e le lasci riposare tutta la notte [...] il mattino dopo aggiunga ancora un po’ di vino e ne beva ancora a digiuno, faccia questo per tre o cinque giorni e verrà guarito».5 A partire dal XI secolo nell’ambito della medicina ha origine un lento processo di differenziazione tra le figure sanitarie e quelle religiose. Si fa strada l’idea che Dio interviene non solo direttamente, ma anche col dare al medico il donum scientiae. La svolta fu influenzata dalle decisioni del Concilio di Reims del 1131, dove papa Innocenzo II proibì ai canonici e monaci di esercitare la medicina a scopo di lucro, e di quelle del 1163 a Tours dove fu proibito ai monaci l’esercizio esterno della medicina. Nell’XI secolo nacquero in Europa le prime due scuole mediche: a Salerno e a Montpellier. Nasceva nell’Occidente la medicina laica. Montpellier per il fatto di essere posta al confine con il mondo arabo accolse studiosi arabi ed anche allievi di religione islamica, ciò è testimoniato da una disposizione del 1180 di Guglielmo VII signore di Montpellier secondo la quale l’accesso agli studi doveva esse consen- 5 R. Schiller, Le cure miracolose di Suor Ildegarda, Piemme 1994, p. 77. 174 Salvatore D’Angelo tito a tutti, senza alcuna discriminazione religiosa o di etnia. La fondazione ufficiale della scuola di Montpellier si deve al cardinale Corrado, legato di papa Onorio III il 17 aprile del 1220, tuttavia l’attività di insegnamento fu certamente precedente. Non abbiamo notizie certe sull’anno di fondazione della Scuola salernitana, sappiamo che nell’820 l’arcidiacono benedettino Adelmo, proveniente da Montecassino, fondò un ospizio per malati a Salerno, tuttavia questa notizia non ci autorizza a credere che questo sia l’anno di fondazione della scuola medica. Il processo di fondazione delle scuole mediche nell’occidente cristiano avvenne con l’apporto delle conoscenze dottrinali derivate dagli autori arabi, in coincidenza con la fine della fase di espansione araba nel Mediterraneo. Rhazes e Avicenna sono stati i medici arabi più importanti del periodo che va dal IX al X secolo, e sono la diretta espressione della integrazione tra la medicina greca e gli studi arabi di fisica e chimica. Gli invasori mussulmani, dopo l’iniziale avversione verso la cultura greco-ellenistica culminata con la distruzione della biblioteca di Alessandria ordinata dal califfo Omar (furono bruciati i rotoli di pergamena di circa 750.000 volumi), si lasciarono sedurre dalla cultura greca. Gli arabi trovarono in Siria e in Persia scuole mediche nutrite dalla scienza greca ne assorbirono le conoscenze e tradussero nella loro lingua le opere dei grandi autori. La conoscenza delle opere di Rhazes e Avicenna fu fondamentale per lo sviluppo della Scuola medica salernitana, e facilitò il passaggio dalla medicina conventuale a quella laica. Rhazes (Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya al-Razi, 864 - 930) fu il primo a capire che la febbre era un meccanismo di difesa naturale del corpo umano. Criticò la teoria di Galeno riguardo al fatto che il corpo umano fosse composto da quattro umori, e che le malattie derivassero da uno squilibrio fra essi. A lui si deve la prima descrizione conosciuta del vaiolo, che ritroviamo nel al-Jadarī wa al-hasbah (Libro sul vaiolo e il morbillo). La comparsa del vaiolo è preceduta da febbre continua, dolore al dorso, prurito nel naso, assieme anche a bruciori che i pazienti sentono su tutto il corpo, gonfiore del viso che, con il tempo, va e viene, rossore intenso negli occhi, forte spossatezza i cui sintomi sono lo sbadigliare e lo stirarsi, dolore alla gola e al petto, con una leggera difficoltà nel respirare, tosse, secchezza del respiro, saliva spessa, e voce rauca, dolori e pesantezza della testa, inquietudine, nausea e un rosso intenso e brillante delle gengive. Il vaiolo è l’unica infezione virale mortale completamente eradicata, l’ultimo caso è stato individuato in Africa nel 1977. Ceppi del virus sono ancora mantenuti presso due laboratori, ad Atlanta negli USA e a Novosibirsk in Russia. Rhazes identificò: l’asma allergica, le riniti primaverili allergiche e le accomunò con il raffreddore da fieno. Fu il primo a capire che la febbre era un meccanismo di difesa naturale del corpo umano. Kitāb al-hāwī fī tibb, (Il libro che raccoglie le notizie sulla medicina) fu tradotto da Gherardo da Cremona. Questa enciclopedia in nove volumi fu conosciuta in Europa con il titolo di Continens Liber. La raccolta postuma dei quaderni di appunti di Rhazes: Al-Hāwī’ comprende osservazioni originali su malattie e le relative terapie, basate sulla sua esperienza La medicina nel medioevo 175 clinica. È stata tradotta in latino nel 1279 da Faraj ben Sālim (Ferraguth), un medico ebreo che lavorò in Sicilia alla corte di Carlo d’Angiò. Secondo un aforisma di Rhazes, “la verità in medicina è un obiettivo irraggiungibile, e l’arte descritta nei libri è ben lungi dalla conoscenza di un esperto e saggio medico”. Avicenna (Ibn Sina, 980–1037) scienziato oltre che medico scrisse il Kitab alQanun (Il canone della medicina), tradotto da Gerardo da Cremona o da Gerardo da Sabioneta in latino come Liber canonis medicinae, l’opera diverrà il manuale medico più seguito fino al 1700. Per Avicenna la medicina è la scienza per cui la salute si conserva e l’arte per ristabilirla dopo averla persa. Fu il primo medico a identificare la tubercolosi polmonare come una malattia infettiva e a riconoscerne l’associazione col diabete. Sviluppò il metodo della quarantena per limitarne la diffusione. Nel Canone introdusse la sperimentazione sistematica in fisiologia, ipotizzò la presenza dei microrganismi, raccomandò l’esecuzione di test, per ogni nuova sostanza medicinale, all’inizio sugli animali e poi sull’uomo, prima di iniziare ad usarla come medicina. Avicenna classificò le malattie, sperimentò nuovi medicamenti, si soffermò sulle misure igieniche da adottare. È considerato un precursore della medicina psicosomatica e della psicofisiologia, per il fatto che studiò con attenzione gli stati di malessere causati da forti emozioni e ideò un sistema per associare i cambiamenti del battito cardiaco con le forti emozioni, anticipando di qualche secolo i test psicanalitici. Descrisse dettagliatamente la malinconia, gli stati depressivi e certi tipi di fobie. Quando i Normanni conquistarono la Sicilia si creò un contesto fertilissimo per gli scambi tra le culture presenti: l’araba, l’ebraica e la cristiana. In Sicilia, nell’Italia meridionale ma soprattutto in Spagna si sviluppò la traduzione in latino dei manoscritti, che poi si diffusero in Occidente. Nacque la figura del “traduttore”. Importantissima fu la città di Toledo che, pur riconquistata dai cristiani nel 1085, mantenne inalterata la presenza sia della comunità araba che di quella ebraica. Raimondo, vescovo di Toledo dal 1125 al 1152, costituì una scuola di traduttori. Nel XII secolo per le traduzioni non si faceva uso di dizionari, bensì era necessaria la collaborazione di diversi personaggi: uno che conosceva l’arabo e il castigliano (per lo più si trattava di un ebreo) e l’altro che conosceva il castigliano e il latino (quasi sempre un cristiano). Gli ebrei avevano spesso la duplice funzione di traduttore e di autore in lingua araba o ebraica. Il traduttore Domenico Gundisalvi collaborava con l’ebreo cristianizzato Giovanni di Siviglia (Johannes Hispalensis), Platone Tiburtino collaborava con l’ebreo Savasorda (Abraham bar Hiyya di Barcellona). Il traduttore più produttivo fu Gherardo di Cremona (Cremona, 1114 - Toledo, 1187), che tradusse 92 opere in latino, fra cui gli Elementi di Euclide, e opere di Archimede, Apollonio, Tolomeo, Ippocrate, Galeno, Aristotele, Al-Kindi, Al-Farabi, Avicenna. Nella scuola medica di Salerno si costituì un ambiente multiculturale tanto che le lezioni venivano impartite in quattro lingue: arabo, ebraico, latino, greco. Alfano di Salerno, monaco benedettino e vescovo di Salerno nel 1058 scrisse il trattato dal titolo De quattuor humoribus, una delle prime opere della scuola salernitana. Costan- 176 Salvatore D’Angelo tino l’Africano (1015 c.-1087), originario di Cartagine, convertitosi al cristianesimo, introdusse nella civiltà latina le conoscenze della medicina araba e le opere mediche dell’antichità greca, nel 1060 fu alla corte di Roberto il Guiscardo a Salerno, successivamente si ritirò nel monastero di Montecassino, dove tradusse in latino l’Ars medica di Galeno, i commenti di Galeno agli Aforismi e Pronostici di Ippocrate, la Pantegni di Hali Abbas al-Magusi, il testo medico arabo più importante prima del canone di Avicenna, e altre opere di medici arabi (Ibn Al-Djassar), ed ebrei (Ishaq Al-Israili), spesso senza rivelare il nome dell’autore dell’opera. All’anno 1099 circa viene fatta risalire la composizione del Regimen sanitatis, opera in 380 esametri latini che raccoglie i consigli medici e le ricette della Scuola Medica Salernitana. L’impostazione teorica divenne più complessa e furono considerate come appartenenti intrinsecamente all’uomo le sette res naturales: elementi, umori, complessioni, membra, virtù, operazioni e spiriti. La teoria classificava le membra o parti principali (cervello, cuore, fegato e testicoli) e accessorie (i nervi, le arterie, le vene, i dotti spermatici). Alcune parti erano dotate di una propria autonoma facoltà (ossa, cartilagini, membrane, muscoli, grasso e carne), alte parti traevano vigore dal quelle principali (lo stomaco, i reni, gli intestini). Le tre facoltà o virtù erano l’animale,la spirituale e la naturale. Erano considerate possibili due tipi di operazioni. Nel primo tipo rientravano quelle proprie: l’appetito per il cibo e la digestione. Quelle composte, si articolano in due componenti, ad esempio, il desiderio si componeva di due facoltà, appetitiva e sensitiva. Gli spiriti erano classificati così: il primo o naturale, originato dal fegato; il secondo o vitale, originato dal cuore; il terzo o l’animale, originato dal cervello. Sonno e veglia, esercizio e riposo, fame e sete, cibo e bevande, replezione e deplezione, moti dell’animo (emozioni) erano le res non naturales. Le malattie che evolvevano in quattro fasi: principium, augmentum, status, declinatio erano classificate come res contra naturales. La guarigione si aveva con la espulsione dal corpo della materia peccans (da cui l’uso dei diuretici, dei purganti, degli emetici e del salasso, praticato sia con tagli da cui far fuoriuscire il sangue, sia con le sanguisughe). L’urina era considerata il riflesso dell’equilibrio o dello squilibrio dei quattro umori dell’organismo. Così per emettere una diagnosi, il medico osservava le urine del paziente in un vaso chiamato matula, cioè praticava l’uroscopia. Presso la scuola salernitana fu iniziata l’utilizzazione dell’alcol sotto due forme: aqua ardens a 60° e aqua vitae a 90°. Questo nuovo solvente fu ampiamente utilizzato per le preparazioni di rimedi. Numerosi furono i vocaboli usati per designarlo: anima del vino, acqua flagrante, spirito sottile, prima essenza, quintessenza. Anche la spongia o spugna soporifera, mediante la quale venivano inalate sostanze narcotiche (oppio, mandragora, ecc.) per anestetizzare i pazienti durante le operazioni chirurgiche, fu utilizzata a Salerno per indurre l’anestesia. La spugna veniva preparata imbevendola di queste sostanze narcotiche e poi essiccata: al momento dell’uso si inumidiva con acqua calda e il principio attivo veniva assunto o bevendo La medicina nel medioevo 177 il succo o per inalazione. Naturalmente il metodo comportava frequenti rischi da sovradosaggio, che potevano comportare anche la morte. Poiché la dissezione veniva condotto sperimentalmente in genere sul maiale le conoscenze di anatomia umana erano generiche. In realtà gli schemi anatomici avevano lo scopo principale di far capire la funzione degli organi più che di descriverli con accuratezza. Ciononostante alcuni termini già allora in uso, ad esempio, “congiuntiva”, “vitreo”, “cristallino”, lo sono tuttora con riferimento alle stesse parti anatomiche. Il termine “cataratta” è stato coniato nel Medioevo e traduce il termine arabo nuzul-el-ema che vuol dire “cadere in basso”. Si pensava, infatti, che la malattia fosse dovuta a strani umori, che scendevano dall’alto ad oscurare la vista. Una traccia di questo si ritrova ancora oggi nell’espressione popolare “la cataratta scende”. La pratica che maggiormente portava alla morte il malato, per azione diretta del medico, era certamente la chirurgia. Presso la scuola salernitana nell’uso delle erbe si applicava la dottrina della segnatura (analogia), secondo questa visione, nel caso di analogie di forma tra piante e corpo umano, si dovevano usare specifiche parti vegetali per curare quelle con le quali c’era una similitudine formale: similia similibus. L’iperico le cui foglie presentano una moltitudine di piccoli fori somigliano a occhi serve per le affezioni oculari. I tubercoli del colchico ricordano le dita dei gottosi. Il principio attivo, la colchicina, è specifico dell’accesso di gotta. Il salice e la Regina dei Prati (Spirea Ulmaria), crescendo in luoghi umidi sono utili contro i reumatismi, queste due piante contengono dei salicilici. coincidenza fortunata, un derivato di essi è l’aspirina. La Celidonia, secernendo un lattice giallo-arancione, è indicato nelle malattie del fegato. La foglia di Polmonaria, la cui forma ricorda quella del polmone è rinfrescante ed espettorante. Lo stesso principio analogico valeva anche per l’uso terapeutico dei cibi di origine animale, ad esempio, si mangiava il cervello per aumentare la memoria, ecc. Alla fine del XII secolo Salerno divenne il più importante centro di studi medici dell’Occidente, tanto importante che un medico salernitano, Giovanni di Castellomata di Salerno, fu il primo medico personale di un papa: Innocenzo III, come possiamo leggere nel testamento di Maria di Montpellier, moglie di Pietro III d’Aragona. La prima precisa regolamentazione statale dell’attività medica mai introdotta si deve a Ruggero II di Sicilia che nel 1140 introdusse l’esame di abilitazione alla professione di medico, successivamente gli studi di medicina e la professione medica furono riformati da Federico II nelle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1240. Secondo la legislazione federiciana chi voleva studiare la scienza medica doveva prima studiare per un triennio scienza logica. L’approvazione come medico presupponeva il superamento di un esame di stato. L’unica scuola autorizzata a rilasciare diplomi validi era la scuola medica salernitana. 178 Salvatore D’Angelo Articolo XLVI Poiché non si può mai sapere di scienza medica se prima non si sappia alquanto di logica, stabiliamo che nessuno studi scienza medica se prima non studi almeno per un triennio scienza logica. Dopo il triennio, se vorrà proceda allo studio della medicina, nel quale studi per un quinquennio, e così pure apprenda la chirurgia la quale è parte della medicina, nel tempo predetto; dopo di che, e non prima, gli si conceda licenza di praticare, previo esame secondo modalità della curia [reale] e assolutamente avendo ottenuto testimonianza magistrale in suo favore sul predetto periodo di studio. Questo medico visiterà i suoi ammalati almeno due volte al giorno e a richiesta dell’infermo una volta nella nott. Non contragga società con i preparatori [di farmaci], né accolga alcuno di essi sotto la sua protezione a spese di una certa quota di ricavato, né egli stesso abbia una propria impresa. Stabiliamo che nessun chirurgo sia ammesso a praticare se non offra dichiarazioni testimoniali di maestri, che leggono nella facoltà medica, che per un anno almeno abbia studiato quella parte della medicina, che specialmente abbia imparato l’anatomia dei corpi umani nelle scuole.6 Articolo XLIV Chiunque voglia esercitare la medicina si presenti ai Nostri ufficiali e ai giudici. A questo si provvede, affinché nel Nostro regno i sudditi non corrano pericoli per imperizia di medici. Articolo XLV Affinché nessuno osi praticare, se non sia stato approvato in commissione pubblica di maestri di Salerno. D’ora in poi nessun pretendente al titolo di medico osi affatto esercitare o praticare la medicina se non prima approvato da giudizio pubblico in commissione di maestri di Salerno. Articolo XLVII Con la presente legge stabiliamo anche che nessuno legga in medicina nel regno se non presso Salerno, né assuma nome di maestro, se non diligentemente esaminato in presenza di Nostri ufficiali e di maestri dell’arte stessa. Coloro poi alla cui fede le cose predette sono commesse, se siano provati di avere commesso frode nell’ufficio affidato, ordiniamo che siano condannati a supplizio capitale. Le Costituzioni di Melfi sono consultabili nella pagina web: http://www.museovirtualescuolamedicasalernitana.it/public/Costituzioni_di_Melfi.pdf 6 La medicina nel medioevo 179 Nel Concilio di Montpellier del 1195 si decretò la assoluta proibizione dello studio della medicina per i religiosi, tranne che per i chierici, ciò determinò la nascita nel XIII secolo delle corporazioni di maestri e studenti. Le università non sorsero dappertutto allo stesso modo: a Bologna si formò un’associazione di soli studenti, che avendo la necessità di acquisire maggiori conoscenze chiamavano i più grandi studiosi da tutta Europa e li pagano di tasca loro perché diventino i loro insegnanti. A Parigi studenti e professori (universitas magistrorum et scolarium Parisiensium) fondano insieme la loro università. Quella di Napoli venne fondata nel 1224 per iniziativa di Federico II. La corporazione degli intellettuali costituiva in ogni sede un gruppo sociale omogeneo dal punto di vista di genere. Le donne, che nell’istituzione monastica avevano avuto insieme agli uomini l’accesso alla cultura, non furono invece ammesse nelle università. Il modello adottato per le università invertiva una tradizione consolidata che aveva consentito alle Mulieres Salernitanae la frequenza della Scuola Medica Salernitana, e che in alcuni casi ne erano diventate docenti: Trotula de’ Ruggiero, Abella di Castellomata, Rebecca Guarna, Mercuriade, Costanza Calenda, e altri. Tra i medici delle università vanno ricordati: Taddeo Alderotti o Alderòtto (Firenze 1223 - Bologna 1295) che fu uno dei più illustri medici del XIII secolo. Insegnò medicina a Bologna assistette papa Onorio IV. Esigeva altissime parcelle. I Bolognesi, per i suoi meriti, lo esentarono, insieme ai suoi eredi, da qualunque tassa. Pietro Ispano (1215?-1277) che nel 1276 venne eletto Papa con il nome di Giovanni XXI. Dante lo menziona nel XII canto del Paradiso, fu autore di una serie di opere di medicina. Nel XIII secolo il monaco cistercense Giovanni da Toledo, espertissimo in erbe officinali, divenne il medico di papa Innocenzo IV, la tradizione vuole che sia stato l’inventore del pesto alla genovese. Arnaldo da Villanova (1240-1311 circa), uno dei più grandi medici dell’epoca, fu alla corte di Bonifacio VIII e lo guarì per la calcolosi renale. Matteo Silvatico, medico salernitano, che elaborò nel 1317 l’Opus Pandectarum Medicinae o Liber cibalis et medicinalis Pandectarum o semplicemente Pandette, un dizionario dei semplici di origine vegetale e minerale. L’anatomia moderna nacque in Italia ad opera di Remondino da Bologna che per primo dissecò pubblicamente i cadaveri, lasciandoci preziose tavole anatomiche (1315). L’opera di Remondino vide la luce dopo un lunghissimo periodo di silenzio che datava da Galeno. I successori di Remondino da Bologna furono: Eustachio e Silvio, il cui vero nome era Giacomo Duboys. Mondino de Luzzi discepolo di Taddeo Alderotti si laureò in medicina all’ateneo bolognese intorno al 1292. Nel 1321 diventò lettore pubblico nell’ateneo bolognese ove insegnò medicina e soprattutto tenne corsi di anatomia. Il 27 maggio 1368, il Maggior Consiglio di Venezia stabilì che il Collegio dei 180 Salvatore D’Angelo Medici e Chirurghi di Padova dovesse compiere almeno una dimostrazione annuale su un cadavere. Le lezioni di anatomia svolgevano nell’arco di due o tre settimane nel periodo più freddo dell’inverno. Tenevano la lezione tre professori (due di medicina teorica o pratica e un chirurgo): un docente leggeva l’Anatomia di Mondino de Liuzzi; l’ostensore spiegava e mostrava nel cadavere quanto asserito nel libro di testo e l’incisore incideva e dissecava il corpo). L’epidemia di peste del 1347 fu la più drammatica emergenza sanitaria del Medioevo, la malattia divenne quasi inarrestabile e tutte le cure risultarono inefficaci. Lo stesso Boccaccio, nel suo Decamerone (giornata I, introduzione), la considerò come «per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali». Un terzo della popolazione dell’Europa (venti milioni di persone) tra il 1347 e il 1351 ne fu vittima, in alcune città morì il 60% della popolazione. La prima regione europea ad essere colpita nell’ottobre 1347 fu la Sicilia. Il francescano Michele da Piazza nella Historia Siculorum riporta che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che raggiunsero il porto di Messina. Sulla peste furono elaborate stravaganti teorie e una di queste fu quella di Gentile da Foligno, medico umbro che fu egli stesso vittima del contagio e morendone a Perugia nel giugno del 1348. È conosciuta come il “Paradigma del soffio pestifero”. Secondo il Gentile il 20 marzo del 1345 esalazioni insalubri erano state risucchiate dal mare e dalla terraferma nell’aria, avevano subirono un riscaldamento ed erano state nuovamente gettate sulla terra come “venti corrotti” (aer corruptus). L’ispirazione di tale soffio pestifero era la causa della raccolta di vapori velenosi al cuore e ai polmoni, che addensandosi diventavano una “massa velenosa”, capace di contagiare altri uomini con l’aria espirata. Nel corso dell’epidemia un medico di Tolosa, Augier Ferrier, constatando l’impotenza dei medici nella cura, prescrisse la pillola ai tre avverbi: scappare via veloci, andare lontani, tornare tardi. I malati potevano morire all’improvviso e Boccaccio dice nel Decamerone (giornata I, introduzione) che molti giovani nel pieno del vigore la mattina «la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!». Dedicherò questa parte della relazione alla nascita degli ospedali nelle città. Gli ospizi per lebbrosi diffusi in tutta l’Europa non possono essere considerati come vere istituzioni assistenziali di tipo ospedaliero per il fatto che era del tutto assente qualunque intendimento di cura. La lebbra o “Morbo Fenicio” già nel 643 era un problema sanitario, infatti, l’Editto di Rotari prescriveva l’isolamento dei malati. Attorno all’anno 1000 la malattia si espanse con i commerci, i pellegrinaggi e le crociate. La sua diffusione fu favorita dall’affollamento nelle città e dalla mancanza di igiene collettiva. La malattia raggiunse tutta l’Europa e colpì: poveri e ricchi, vescovi, feudatari e re. Dopo il XIV la sua diffusione diminuì per l’espandersi della tubercolosi e per la epidemia della peste del 1300, che decimò la popolazione europea. Il primo vero ospedale cittadino fu fondato a Parigi nel 651 dal vescovo Landrio. Nel 1157 in un diploma di Luigi VII compare, in lingua francese, la denomina- La medicina nel medioevo 181 zione Hôtel-Dieu per designare questo grande ospedale di Parigi. L’Hôtel-Dieu, che è sopravvissuto a incendi, rivoluzioni, guerre, oggi offre ai parigini moderni servizi medici. Le diapositive mostrano: l’attuale ingresso dell’ospedale, i suoi giardini, l’organigramma attuale di uno dei suoi reparti. Quali dovessero essere i compiti degli ospedali ci viene detto dall’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, vissuto dal 1389 al 1459: ricovero per viandanti e poveri, luogo in cui distribuire cibo per gli affamati, orfanotrofio, ospizio per anziani e malati. La loro gestione poteva essere affidata indifferentemente ad ecclesiastici o laici. Gli edifici adibiti all’hospitalitas erano dotati di un infirmarium, con una prima sala denominata cubiculum valde infirmorum che serviva per la degenza dei malati gravi, una stanza per clisteri e salassi ed un locale con un armarium, che poteva fungere da piccola biblioteca o come farmacia, e un giardino per la coltivazione di piante medicinali. In questi luoghi venivano ospitati non solo i pellegrini in viaggio, ma anche gli orfani e i vecchi senza risorse, nonché gli infermi. Il primo ospedale in Italia fu quello di Santo Spirito in Saxia. Fu fatto costruire nel 1204 da Papa Innocenzo III (1198-1216), che affidò l’organizzazione ai Cavalieri Ospitalieri dello Spirito Santo di Gerusalemme (Chevaliers Hospitaliers du Saint-Esprit de Jérusalem), ordine cavalleresco fondato da Guy de Montpellier. Nell’ospedale era compreso il brefotrofio, ed è ancora visibile la prima ruota degli esposti. Una volta la settimana i religiosi di Santo Spirito percorrevano la città alla ricerca di infermi abbandonati, che venivano trasportati all’ospedale mediante carriole, antesignane delle moderne ambulanze. Le monache dell’Ordine attendevano alla assistenza dei malati e il cambio della biancheria avveniva, senza termini fissi, ogni volta che si rendesse necessario. A Firenze l’ospedale di Santa Maria Nuova fu fondato nel XIII secolo, più precisamente nel 1288, da Folco Portinari, il padre di Beatrice amata da Dante. La struttura era suddivisa in due aree, femminile e maschile, dove potevano avere accoglienza circa duecento ricoverati. Specialmente nel XV secolo l’ospedale godette di una notevole floridezza economica e a quest’epoca risalgono gli interventi di ampliamento dell’edificio, come l’aggiunta nel 1420 del chiostro delle Medicherie, nei primi decenni del XV secolo furono decorate le corsie. L’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena sorse nel 1090 sulla via Francigena, di fronte alla cattedrale, e fu uno dei primi esempi europei di ricovero per i pellegrini, sostenere i poveri e i fanciulli abbandonati ed ospedale, con una propria organizzazione autonoma. La sua istituzione si deve ai canonici del Duomo. È rimasto attivo fino al 1992. Uno dei suoi pazienti più famosi fu Italo Calvino, che nel 1985 vi morì. Sin dagli inizi del Trecento uno statuto ne regolava la vita e l’autonomia. Sappiamo dai dati di archivio che nel 1399 le entrate dell’ospedale ammontavano a 12.000 fiorini annui, ricavati dalla vendita del frumento e dalle alienazioni di proprietà in periodo di penuria, dalla rendita degli affitti, dalle elemosine e da altre voci. Le centinaia di registri che compongono l’archivio consentono l’analisi delle 182 Salvatore D’Angelo diverse transazioni. I documenti indicano anche la presenza, fin dalla fine del XIII secolo, di un tipo di dono “a termine”, che era un modo di donare per la propria sicurezza, garantendosi una rendita vitalizia. L’ospedale concorse alla nascita del Monte dei Pegni con 2.000 fiorini a fondo perduto, all’ospedale, in assenza del titolare o degli eredi, sarebbe andato in deposito l’avanzo del ricavato della vendita all’asta dei pegni non riscossi, nel caso esso eccedesse la somma del capitale con le spese di gestione. A seguito di lasciti e donazioni, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, l’ospedale iniziò a suddividere ed organizzare il proprio patrimonio terriero in vaste aziende agrarie denominate grance (la grancia era un fabbricato fortificato con funzioni di magazzino e di granaio). Nel tempo si pervenne ad un patrimonio enorme, che copriva vaste aree della Val d’Orcia, della Val d’Arbia, delle Masse, delle Crete e della Maremma, tanto che nel suo insieme costituiva la più grande concentrazione fondiaria dello Stato senese. Ai nostri giorni che io sappia c’è un solo ospedale che per alcuni versi può paragonarsi all’antico ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. È la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo: l’ospedale di S. Pio da Pietralcina. Alcuni benefattori hanno donato a Padre Pio nel corso degli anni alcune masserie che assicurano alla Casa Sollievo della Sofferenza l’approvvigionamento di prodotti alimentari. Una di queste masserie è un antico edificio del 1700 circondato da 70 ettari di uliveto, nel suo frantoio si produce olio di oliva biologico “estratto a freddo”. Una seconda masseria di 200 ettari di terreno, utilizzati per la coltivazione di foraggio biologico destinato all’alimentazione di circa 600 bovini, garantisce la produzione di latte, formaggi e carne per le i malati ricoverati nella Casa Sollievo della Sofferenza. In ultimo accennerò al nostro Ospedale S. Antonio Abate di Trapani che ha avuto la sua origine al tempo delle Crociate. I marinai e i crociati che non potevano continuare il loro viaggio venivano sbarcati nel porto di Trapani, ed erano ricoverati in una casa, posta in vicinanza della chiesa di S. Pietro concessa dalla famiglia Luna. A questa casa vennero aggiunte in seguito altre limitrofe, donate da altri cittadini, sicché si creò un vero ospedale con una piccola chiesa dedicata a S. Antonio. In seguito l’ospedale accolse anche i poveri della città. Il re Martino d’Aragona il 19 giugno 1399 dispose di far aggregare l’ospedale al Grande Ospedale S. Antonio di Vienne. L’amministrazione dell’ospedale fu affidata ad una deputazione composta da tre Rettori, nominati annualmente dal Senato della città. Intorno alla fine del 1400 i consoli dei marinai di Trapani acquistarono con i proventi delle elemosine un’area di proprietà dell’ebreo Macalufo de Saya, e nell’anno 1455 i nobili Giacomo Blindano Fardella, Stanislao Clavica e Girolamo Staiti Tipa decisero di far costruire un nuovo ospedale nell’area di cui avevano la disponibilità: l’attuale piazza Lucatelli. Il nome della piazza fu posto in ricordo di un benefattore dell’ospedale: il capitano Lazzaro Lucatelli, che nel 1628 lasciò un’eredità di 3000 onze per rifare la facciata dell’ospedale, il busto in pietra del donatore è tutt’oggi visibile nell’architrave. La medicina nel medioevo 183 Conclusioni Per queste manifestazioni di vitalità si può dire a ragione che “il Medioevo rappresenta il crogiolo dell’Europa e della civiltà moderna”. Secondo la mia opinione l’eredità più tangibile del Medioevo in campo medico è senza dubbio l’ospedale, come luogo privilegiato delle attività mediche complesse. Gli ospedali medievali che possedevano una propria organizzazione autonoma reclutavano medici laici mentre gli appartenenti alle diverse confraternite assicuravano lo svolgimento delle attività collaterali. Le cure dirette agli ammalati erano svolte da religiosi (monache). Accettando lasciti e donazioni si mantennero in vita, furono sostanzialmente delle opere pie la cui missione era quella di assicurare l’assistenza sanitaria ai poveri. Oggi concepiamo l’ospedale in modo del tutto diverso perché l’ospedale è per tutti e perché vi si concentra la tecnologia e la capacità professionale. Oggi non tutti gli ospedali soddisfano appieno le aspirazione dei cittadini, molti ospedali hanno perduto la cultura dell’accoglienza e le conoscenze mediche, sono diventati delle strutture utili solo a chi amministra. L’ospedale ideale deve essere visto oggi come una organizzazione assolutamente colta, nobile, disciplinata ed estremamente efficiente, dove deve predominare l’etica oltre che l’intelligenza. Ciò può essere ottenuto soltanto con una severissima selezione, sul piano etico prima ancora che professionale, di quanti operano in un ospedale. È sbagliato pensare che tutti i medici per fatto di avere scelto una nobile professione posseggano necessariamente l’animo nobile e alti principi morali. Le cronache di ogni giorno ci dimostrano molto spesso il contrario. Le notizie di pericolose distrazioni in ambito sanitario si susseguono in modo quasi inarrestabile e sono il segno di una caduta della tensione morale prima ancora che di quella professionale. Vorrei concludere con una nota personale. Il mio anziano nonno, quando gli comunicai la mia decisone di iscrivermi a medicina, ne restò inizialmente deluso, perché aveva previsto per il mio futuro l’attività di uomo di legge: di magistrato. Dopo avere ascoltato la mia decisione restò per qualche attimo in silenzio, poi con gravità mi disse: «essere medico è come essere giudice. Il giudice decide il destino di un uomo, il medico decide della vita di un uomo». Parafrasando Benedetto Croce (in Etica e politica: frammenti di etica, XV Compassione e giustizia) che ha detto: «la giustizia vera è fatta di compassione» a maggior ragione si può dire che “la medicina vera è fatta di compassione”. L’esercizio della medicina richiede intelligenza e compassione. Una delle eredità del Medioevo nella medicina è senza dubbio la compassione. Abstracts, Curricula e Parole chiave Manuela Girgenti, Filone d’Alessandria e il giudaismo rabbinico Filone d’Alessandria è considerato il principale rappresentante del tentativo di conciliazione tra cultura greca e teologia giudaica. Ma in particolare, la sua importanza, come si sottolinea in questo lavoro, consiste nella differenza che egli evidenzia tra l’esegesi letterale del testo sacro della Bibbia e quella allegorica; distinzione che permette di stabilire la funzione della filosofia nella conoscenza delle verità religiose. Inoltre, si è messo in luce come, anche dopo la scomparsa del giudaismo alessandrino, la filosofia ricompare in seno al giudaismo rabbinico, che in questo periodo si sviluppa nella sua pienezza. Philo of Alexandria is considered the main representative of the attempt at conciliation between Greek culture and Jewish theology. But in particular, his importance, as is stressed in this paper, consists in the difference that he emphasises between literal exegesis of the sacred text of the Bible and allegorical exegesis; a distinction making it possible to establish the function of philosophy in knowledge of religious truths. It is also stressed that even after the disappearance of Alexandrine Judaism, the philosophy reappears within rabbinic Judaism, which develops in its fullness in this period. Parole chiave: Filone, ebraismo, giudaismo, esegesi, rabbinismo. Key words: Philo, Hebraism, Judaism, exegesis, rabbinism. Manuela Girgenti è nata a Erice (TP) nel 1984. Si è laureata con lode in Filosofia a Palermo con una tesi dal titolo La guida dei perplessi. Maimonide tra ragione e fede. Ha conseguito un master triennale di Counseling filosofico a Roma. Ha collaborato alla terza pagina del quotidiano La Sicilia di Catania. Attualmente collabora per le pagine culturali alla rivista settimanale I Vespri di Catania. Ha pubblicato: Poesia ed estetica nel pensiero di Platone in «Rassegna Siciliana (I.S.S.P.E)» 29 (2006) e La società dell’incertezza in «Storia e Politica» 3 (2010). E-mail: [email protected] Antonio Bica, I vangeli Gnostici e il Cristianesimo delle origini La scoperta dei manoscritti gnostici ci fa conoscere il pensiero della corrente gnostica del Cristianesimo primitivo che vide il suo sviluppo dal I al IV secolo e che fu avversato dalla corrente ortodossa allora al potere. Gli insegnamenti segreti degli gnostici gettano una nuova luce e forniscono verità alternative sul Cristianesimo delle origini. The discovery of the gnostic manuscripts reveals to us the thought of the gnostic current of 186 Abstracts, Curricula e Parole chiave primitive Christianity which developed from the 1st to the 4th century and was opposed by the orthodox current then in power. The secret teachings of the gnostics afford new light and furnish alternative truth on early Christianity. Parole chiave: Gesù, gnosticismo, cristianesimo delle origini, eresie, vangeli apocrifi. Key words: Jesus, Gnosticism, early Christianity, heresies, apocryphal gospels. Antonio Bica è medico di professione. Si è laureato in Studi Orientali e si è specializzato in Scienze Islamiche, Lingua e Letteratura Araba presso la Facoltà di Studi Arabo-Islamici della Università di Napoli “L’Orientale”. E-mail: [email protected] Giuseppina Mammana, La ricerca di sé come ricerca di Dio e dell’anima nel pensiero di S. Agostino Le tappe della vita inquieta di S. Agostino rispecchiano l’itinerario del suo pensiero filosofico caratterizzato dalla ricerca di sé e di Dio. Perviene, alfine, alla consapevolezza che Dio è dentro di sé come verità assoluta. È l’Essere, che trascende l’uomo e rimane un mistero che in questa vita non è dato svelare, ma riconoscere e amare nella autenticità della propria dimensione interiore. The stages in the unquiet life of St. Augustine mirror the itinerary of his philosophical thought, characterized by the search for the self and for God. In the end he attains awareness that God is inside the self as absolute truth. It is the Being, which transcends man and remains a mystery that in this life it is not possible to disclose, but to recognize and to love in the authenticity of its own internal dimension. Parole chiave: Agostino d’Ippona, Dio, essere, amore. Key words: Augustine of Hippo, God, being, love. Giuseppina Mammana è docente di Filosofia e Storia nelle scuole superiori, ha prestato servizio nel Liceo Classico di Salemi e nell’Istituto Magistrale Rosina Salvo di Trapani. Ha insegnato nei corsi di differenziazione didattica montessoriana, organizzati dall’ Opera Nazionale Montessori e nei corsi di aggiornamento per insegnanti, indetti dal Provveditorato agli Studi di Trapani. È stata presidente dell’ENAM (Ente Nazionale Assistenza Magistrale) di Trapani. E-mail: [email protected] Fabio Cusimano: Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura Dalla scrittura alla musica, dalle arti del trivio e del quadrivio alla scuola, dall’architettura all’artigianato, dalla bonifica dei terreni alle arti mediche, dalle officine alla produzione alimentare, i monaci non solo hanno dato al mondo intero una grande lezione di saggezza e sapienza (ed ancora oggi lo fanno!), ma lo hanno fatto con uno spirito di servizio che tutt’oggi resta come un grande lascito. Il monachesimo si manifesta nella storia come un fatto unico e per certi versi “sovrumano”, che aiuta l’uomo ad incontrarsi con un Mistero che entra nel tempo e collabora con esso, che si posa accanto alla storia degli uomini accompagnandola verso destini di prosperità, di pace e di bene. Abstracts, Curricula e Parole chiave 187 From writing to music, from the arts of the trivium and the quadrivium in schools, from architecture to craftsmanship, from land reclaiming to medical arts, from workshops to food production, monks not only taught a great lesson of wisdom and knowledge to the whole world (and still do today!), but did it with a spirit of service that still today is a great legacy. Monasticism manifests itself in history as something unique and in some respects “superhuman”, which helps man to face up to a Mystery that enters time and collaborates with it, set alongside the history of men accompanying them towards destinies of prosperity, peace and good. Parole chiave: monachesimo, benedettini, San Benedetto. Key words: monasticism, Benedictine, St. Benedict. Fabio Cusimano (Palermo, 1980) si laurea con lode nel 2003 in Lettere Moderne presso l’Università di Palermo. Nel 2007 consegue la Laurea Specialistica in Informatica per le Discipline Umanistiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Nel 2008 consegue con lode e menzione il Master di I Livello in “I mestieri del libro e del documento” organizzato dall’Università degli Studi di Palermo e dall’Officina di Studi Medievali. Attualmente ha concluso le attività di ricerca per il conseguimento del Dottorato di Ricerca in “Tradizioni e istituzioni religiose di ambiente circummediterraneo. Storia, Letteratura, Diritto” presso l’Università di Messina, dove è anche Cultore della materia in Storia del Cristianesimo. È redattore delle riviste «Schede Medievali» e «Mediaeval Sophia»; collabora, inoltre, con le riviste scientifiche «Benedictina», «Informatica Umanistica», «Doctor Virtualis». Ha al suo attivo numerosi saggi e studi sulla tradizione monastica latina e su innovativi aspetti dell’informatica umanistica. E-mail: [email protected] Manuela Girgenti, Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale Lo studio dei modi in cui la giustizia è interpretata e applicata all’interno di una società può dare la misura del grado di evoluzione e di civiltà della comunità. Scopo di questo lavoro è quello di mettere in luce come il problema della giustizia, così come quello del buon governo di uno stato, è presente nel pensiero filosofico sin dall’antichità. Dai greci ai romani, all’avvento del Cristianesimo, fino al Medioevo, considerando anche il significato che la giustizia ha per l’ebraismo, viene messo in luce il rapporto tra esigenze morali e realtà dei fatti e le conseguenze dovute alle storture di un sistema giuridico causa di una “giustizia ingiusta”. The study of the ways in which justice is interpreted and applied inside a society can give a measure of the degree of evolution and civilization of the community. The purpose of this essay is to show how the problem of justice, like that of the good government of a state, is present in philosophical thought starting from antiquity. From the Greeks to the Romans, to the advent of Christianity, down to the Middle Ages, also considering the meaning that justice has for Judaism, the relationship is shown between moral demands and reality of facts and the consequences due to the crookedness of a legal system causing “unjust justice”. Parole chiave: giustizia, medioevo, diritto, antichità, legge. Key words: justice, Middle Ages, right, antiquity, law. 188 Abstracts, Curricula e Parole chiave Giuseppe Allegro, Medioevo e teologia. Scienza e ricerca di Dio Nel processo di costruzione della teologia medievale decisivo è il ruolo giocato da Alberto Magno, che si pone l’obiettivo di rendere intelligibile Aristotele ai latini, polemizzando contro i detrattori della filosofia pagana, e prima ancora da Abelardo, con il tentativo pionieristico di costruire, sui dati della rivelazione cristiana, un sapere razionale, fondato sull’uso accorto della filosofia aristotelica; un sapere nel quale la discussione dialettica trova tanto spazio da divenire metodo sistematico. Tuttavia in Abelardo, come anche in Alberto, la teologia non è solo scienza di Dio, bensì anche ricerca di Dio, che rimane ineffabile e irraggiungibile: è questa la lezione della teologia apofatica che i pensatori medievali fanno propria. In the process of construction of medieval theology a decisive role is played by Albertus Magnus, who sets himself the objective of making Aristotle intelligible to the Latins, polemicizing against the detractors of pagan philosophy, and even before by Abelard, with a pioneering attempt to construct, on the data of Christian revelation, rational knowledge, founded upon shrewd use of Aristotelian philosophy; knowledge in which dialectical discussion is given so much scope as to become a systematic method. However, in Abelard, as in Albertus, theology is not only science of God, but also a search for God, who remains ineffable and unattainable: this is the lesson of the apophatic theology that medieval thinkers make their own. Parole chiave: teologia, medioevo, Pietro Abelardo, Ugo di San Vittore, Bonaventura, Alberto Magno, scienza aristotelica. Key words: theology, Middle Ages, Peter Abelard, Hugh of Saint Victor, Bonaventura, Albertus Magnus, Aristotelian science. Giuseppe Allegro è laureato in Filosofia all’Università di Palermo e in Scienze Teologiche presso la Facoltà Teologica di Palermo, dove insegna Dottrine filosofiche. È docente di Storia e Filosofia nei Licei e Dottore di Ricerca in Filosofia. Per i tipi dell’Officina di studi Medievali ha pubblicato il volume La teologia di Abelardo fra letture e pregiudizi (1990) e numerosi articoli su autori della tradizione scolastica latina; con Guglielmo Russino ha curato la traduzione italiana del Commento di Alberto Magno alla Teologia Mistica di Dionigi l’Areopagita (Palermo 2007) e recentemente ha pubblicato il volume Teologia e metodo in Pietro Abelardo (Palermo 2010), entrambe edite dall’Officina di studi Medievali. È vicedirettore responsabile delle riviste «Mediaeval Sophia» e «Schede Medievali». E-mail: [email protected] Luciana Pepi: Alcune considerazioni sulla presenza ebraica in Sicilia nel Medioevo In questo intervento vengono proposte brevi riflessioni su alcune caratteristiche comuni alle diverse comunità ebraiche presenti in Sicilia. Mettendo insieme alcuni importanti tasselli, si cerca di far luce sulle condizioni di vita degli ebrei siciliani. Vengono evidenziati due dati molto rilevanti: la durata millenaria della presenza ebraica nell’isola, ininterrottamente dal primo secolo al quindicesimo secolo (1492) e la consistenza demografica: nel medioevo, ad esempio, vi sono in Sicilia più ebrei che nel resto d’Italia. In this paper brief reflections are made on some characteristics common to the different present Jewish communities in Sicily. Putting together some important pieces, an endeavour is made to through light on the conditions of life of Sicilian Jews. Abstracts, Curricula e Parole chiave 189 Two very important data are stressed: the millennial duration of the Jewish presence in the island, uninterruptedly from the first century to the fifteenth century (1492) and the demographic importance: in the Middle Ages, for instance. in Sicily there are more Jews than in the rest of Italy. Parole chiave: ebrei, medioevo, Sicilia, diaspora. Key words: Jews, Middle Ages, Sicily, Diaspora. Luciana Pepi si è laureata in Filosofia a Palermo, dove ha anche conseguito il Dottorato di ricerca. Ha trascorso lunghi periodi di studio all’Università ebraica di Gerusalemme, dove ha approfondito lo studio della filosofia ebraica medievale. Dal 2005 è ricercatrice presso l’università degli Studi di Palermo ed insegna: Storia del pensiero ebraico e Lingua e Cultura Ebraica. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra cui ricordiamo: Anatoli Ja’aqov, Il pungolo dei discepoli. Il sapere di un ebreo e Federico II, Introduzione, Traduzione e Note a cura di L. Pepi, (Machina Philosophorum) Officina di Studi Medievali, Palermo 2004; L. Pepi. – F. Serafini, Corso di ebraico biblico. San Paolo, Milano 2006; Lettori e Letture di Mosè Maimonide nell’Italia meridionale durante il medioevo in Materia Giudaica vol. XI, Giuntina 2007; La dignità dell’uomo nell’ebraismo in Colloqui sulla dignità dell’uomo, Aracne editrice, Roma 2007. E-mail: [email protected] Salvatore D’Agostino: La Sicilia di Federico III d’Aragona Federico III d’Aragona, terzogenito di re Pietro il Grande d’Aragona e Costanza (figlia di re Manfredi di Sicilia), già Luogotenente del Regnum per il fratello Giacomo II (1291), fu incoronato nel 1296 Re di Sicilia per volontà del Parlamento. Il suo regno fu caratterizzato prevalentemente dal continuo stato di guerra con il papato e gli Angiò di Napoli, per il riconoscimento del titolo di Re di Sicilia. Con la pace di Caltabellotta (1302) Federico ottenne il titolo di Rex Trinacriae. Alla sua morte (1337) il Regno sarebbe dovuto tornato in mano agli Angiò, legittimi detentori del titolo. Frederick III of Aragona, the third-born son of King Peter the Great of Aragona and Constance (the daughter of King Manfred of Sicily), former Lieutenant of the Regnum for his brother James II (1291), in 1296 was crowned King of Sicily at the behest of the Parliament. His kingdom was primarily characterized by a continual state of war with the papacy and with the Anjous in Naples, for recognition of the title of King of Sicily. With the peace of Caltabellotta (1302) Frederick got the title of Rex Trinacriae. On his death (1337) the Kingdom was to go back to the Anjous, the legitimate holders of the title. Parole chiave: Sicilia, Federico III d’Aragona, angioini, Vespri siciliani, Pace di Caltabellotta. Key words: Sicily, Frederick III of Aragona, Angevins, Sicilian Vespers, Peace of Caltabellotta. Salvatore D’Agostino è nato a Palermo nel 1977. Si è laureato in Filosofia nel 2004 presso l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo Scientia e Natura in Michele Scoto. Nel 2010 ha conseguito, presso l’Università degli Studi di Messina, Facoltà di Scienze Politiche, il Dottorato di Ricerca Internazionale (Ph.D.) in Storia e Comparazione delle Istituzioni Giuridiche e Politiche Europee, con una tesi dal titolo Dalla teologia alla politica. Arnau de Vilanova e Federico III d’Aragona, re di Trinacria. Attualmente collabora con L’Officina di Studi Medievali dove prosegue i suoi studi su Arnau de Vilanova e sulla dominazione aragonese in Sicilia; è redattore delle riviste «Mediaeval Sophia» e «Schede Medievali». Ha al suo attivo saggi e studi. E-mail: [email protected] 190 Abstracts, Curricula e Parole chiave Vincenzo M. Corseri, Religione e politica in Europa nella prima metà del quattrocento. Cusano e Piccolomini a Basilea Lo studio intende tratteggiare alcuni aspetti del rapporto umano e intellettuale intercorso fra Nicola Cusano ed Enea Silvio Piccolomini a partire dalle esperienze condivise durante le movimentate fasi iniziali del Concilio ecumenico di Basilea (1431-1449). Entrambi rappresentano, seppure su piani operativi diversi, la presa di coscienza della loro epoca, ovvero il meglio della cultura umanistica europea intervenuta, in un perfetto connubio di vita activa e vita contemplativa, a risolvere una tra le più complesse e drammatiche questioni politico-culturali del tempo. The essay intends to outline some aspects of the human and intellectual relationship between Nicola Cusano and Enea Silvio Piccolomini starting from the experiences they shared during the lively initial phases of the ecumenical Council of Basel (1431-1449). Both represent, though on different operational planes, achievement of awareness of their epoch, that is to say the best of European humanistic culture that intervened, in a perfect blending of active life and contemplative life, to solve one of the most complex and dramatic political-cultural issues of the day. Parole-chiave: Nicola Cusano, Enea Silvio Piccolomini, Chiesa Cattolica, Concilio di Basilea, ecumenismo, umanesimo. Key words: Nicola Cusano, Enea Silvio Piccolomini, Catholic Church, Council of Basel, ecumenicalism, humanism. Vincenzo M. Corseri, nato nel 1976 a Castelvetrano (Tp), si è laureato in filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. È redattore di «Schede Medievali» e «Mediaeval Sophia». Ha collaborato con la Facoltà Teologica di Sicilia alla redazione del Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e Teologi di Sicilia. Secc. XIX-XX (Roma-Caltanissetta 2010). Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in Filosofia (XXIII ciclo) presso il Dipartimento di Filosofia, storia e critica dei saperi (FIERI-AGLAIA) dell’Università degli Studi di Palermo, con una tesi sul linguaggio della concordantia nel pensiero politico-religioso di Nicola Cusano. Tra le sue recenti pubblicazioni, si segnala: Vis assimilativa e soggetto conoscente nell’umanesimo di Nicola Cusano, in L. Parisoli (a cura di), Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali 2010, pp. 111-122. E-mail: [email protected] Flavia Buzzetta, Aspetti della magia in epoca tardo-medievale La magia, considerata in una prospettiva generale, si presenta come una complessa forma di sapere di cui gli studi critici mettono in evidenza la ricchezza e la varietà di manifestazioni. In questa relazione la magia è considerata come una forma specifica d’interpretazione del reale e come una peculiare tipologia di “razionalità” sottesa alla elaborazione di una strutturata visione del mondo in cui concorrono istanze fisiche, cosmologiche, metafisiche, teologiche, etiche, antropologiche. Magic, considered in a general perspective, appears as a complex form of knowledge whose richness and variety of manifestations is highlighted by critical studies. In this relationship, magic is considered as a specific form of interpretation of reality and as a peculiar typology of “rationality” underlying the working out of a structured vision of the world to which physical, cosmological, Abstracts, Curricula e Parole chiave 191 metaphysical, theological, ethical and anthropological drives contribute. Parole chiave: magia medievale, Pico della Mirandola, cabala practica, magia ebraica. Key words: medieval magic, Pico della Mirandola, practica cabal, Jewish magic. Flavia Buzzetta si è laureata nel 2004 in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Nel 2006, grazie ad una borsa di perfezionamento all’estero, ha svolto ricerche sulla storia della magia rinascimentale presso l’École Pratique des Hautes Études (EPHE) di Parigi. Attualmente sta per concludere un Dottorato di ricerca in Filosofia presso il Dipartimento FIERI-AGLAIA dell’Università degli Studi di Palermo e la Mention en Religion et sistèmes de pensée presso l’EPHE di Parigi con una tesi dal titolo Aspetti della magia naturalis e della scientia cabalae nel pensiero di Giovanni Pico della Mirandola (1486-1487). Collabora con l’Officina di Studi Medievali ed ha al suo attivo saggi e studi. E-mail: [email protected] Salvatore Girgenti, Le radici politiche e religiose dei templari: una ipotesi di ricerca L’ordine monastico-militare dei templari nasce creando scandalo per quanto concerne una delle distinzioni fondamentali della società medievale, poiché chi spargeva sangue non poteva fare parte del clero. Solo l’autorità di San Bernardo può legittimare la nascita. Malgrado venga visto come l’esercito del Papa, mostra di avere un piano politico, economico e sociale che, con gli interessi della Chiesa Romana, ha ben poco a che spartire. Fra l’altro, nel loro modo di sentire religioso, i Templari presentano non pochi punti di contatto con il pensiero ebraico. The monastic-military order of the Templars came into being creating a scandal regarding one of the fundamental tenets of medieval society, since anyone who shed blood could not belong to the clergy. Only the authority of St. Bernard can legitimate its birth. Although it is seen as the Pope’s army, it proves to have a political, economic and social plan that has very little to do with the interests of the Roman Church. Among other things, in their religious sentiment, the Templars present more than a few points of contact with Jewish thought. Parole chiave: templari, Ugo di Champagne, Bernardo di Chiaravalle, ebraismo. Key words: Templars, Hugo of Champagne, Bernard de Clairvaux, Judaism. Salvatore Girgenti è nato a Palermo nel 1945. È direttore della sede dell’Officina di Studi Medievali di Trapani, docente di filosofia e giornalista. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo: La vicenda Nasi e i suoi riflessi nell’opinione pubblica, L.U.T. 1984 e La compagnia dei Bianchi di Trapani, L.U.T. 1988. E-mail: [email protected] Filippo Grammauta, La pergamena di Chinon. La prova dell’assoluzione dei dignitari templari dall’accusa di eresia Il documento conosciuto con il nome di Pergamena di Chinon rappresenta il resoconto dell’interrogatorio degli alti dignitari dell’Ordine dei Templari avvenuto nella fortezza di Chinon tra il 17 ed il 20 agosto 1308. Il documento scompare subito tra gli atti della Curia pontificia, che in quel 192 Abstracts, Curricula e Parole chiave periodo risiedeva a Poitiers. Trasportato a Roma dopo la fine della cattività avignonese, esso è stato casualmente rinvenuto dalla ricercatrice Barbara Frale tra gli atti dell’Archivio Segreto Vaticano. The document known by the name Parchment of Chinon is an account of the questioning of the high dignitaries of the Order of the Templars at the Chinon fort between among 17 and 20 August 1308. The document immediately disappears among the deeds of the pontifical Curia, which in that period resided in Poitiers. Taken to Rome after the end of the captivity in Avignon, it was found by chance by the researcher Barbara Frale among the deeds of the Vatican Secret Archive. Parole chiave: templari, Chinon, pergamena, De Molay, Filippo IV il Bello. Key words: Templars, Chinon, parchment, De Molay, Phillip IV the Handsome. Filippo Grammauta, laureato in Ingegneria Civile con 110 e lode, vive e lavora tra Palermo e Roma. Cultore della Storia antica e moderna, ha pubblicato diversi articoli sui Templari. È Presidente del Centro studi Tormargana di Roma, Direttore del Dipartimento di Archivistica e Documentale dell’Accademia Templare di Roma e Balivo della Sicilia del Gran Priorato d’Italia dell’O.S.M.T.H. (Ordo Supremus Militaris Templi Hièrosolymitani). E-mail: [email protected] Salvatore D’Angelo, La medicina nel Medioevo La medicina nel medioevo è connessa, in larga misura, al monachesimo. Al monachus infirmarius si applicava il principio della hospitalitas. I monaci si impadronirono delle conoscenze mediche dell’antichità classica, somministravano infusi di erbe, praticavano i salassi. Nell’XI secolo nacquero le scuole mediche laiche: a Salerno e a Montpellier, e successivamente le Università. L’eredità più importante é l’ospedale, luogo privilegiato delle attività mediche. Medicine in the Middle Ages is largely connected to monasticism. To the monachus infirmarius there was applied the principle of hospitalitas. The monks took over some medical knowledge from classical antiquity, administered infusions of herbs and practised bloodletting. In the 11th century lay medical schools came into being, in Salerno and Montpellier, and subsequently the universities. The most important legacy is the hospital as a privileged place of medical activities. Parole chiave: medicina, monaci, rimedi, università, ospedali. Key words: medicine, monks, remedies, universities, hospitals. Salvatore D’Angelo è nato a Palermo nel 1948. È Dottore in Medicina e Chirurgia, specialista in Medicina del Lavoro e in Malattie del Rene, Sangue e Ricambio. È stato docente di Immunologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia per gli anni accademici 2003/04 e 2004/05. È un cultore di Storia della Medicina. E-mail: [email protected] Giuliana Musotto (curatore) Giuliana Musotto è nata a Cefalù (Pa) nel 1979. Si è laureata in Filosofia nel 2003 presso Abstracts, Curricula e Parole chiave 193 l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo “Le quaestiones disputatae De dilectione Dei di Nicola di Ockham”. Nel 2008 ha conseguito, presso l’Università degli Studi di Salerno, in cotutela con l’Universidad Autónoma de Barcelona (Spagna), il Dottorato di Ricerca in Filosofia, Scienze e Cultura dell’Età Tardoantica, Medievale e Umanistica, con una tesi dal titolo “L’etica in Nicola di Ockham: aspetti filosofici ed antropologici”. Collabora, per attività di studio e ricerca, con l’Officina di Studi Medievali di Palermo. E-mail: [email protected] Indice dei nomi* a cura di Giuliana Musotto * I numeri in grassetto segnalano una comunicazione concernente l’autore. I nomi degli autori, sia antichi e medievali sia moderni e contemporanei, vengono riportati così come compaiono nel testo. A Abbagnano N., 39. Abella di Castellomata, 179. Abulafia D., 93, 94, 97, 98, 101, 102. Adelmo, arcidiacono benedettino, 174. Adeodato (figlio di Agostino d’Ippona), 40, 41. Agostino d’Ippona (pseudo), 84. Agostino d’Ippona, 9, 33-46, 67-69, 73, 84, 186. Alberigo G., 121, 123. Alberto Magno, 82, 83, 88, 89, 188. Albrile E., 136. Alcuino di York, 173. Alessandro Magno, 3, 68. Al-Farabi, Abu Nasr Muhammad, 175. Alfonso Federico di Atene, 114. Alfonso III d’Aragona, 108, 109, 116. Alfonso X di Castiglia, 135. Al-Kindi, Ya’qub Ibn Ishaq, 136, 175. Allegro G., 79-90, 188. Al-Magusi, Hali Abbas, 176. Amari M., 106, 108. Ambrogio (santo), 37, 40, 41. Amedeo VIII di Savoia, 126. Anatoli Ja’aqov, 101, 189. Andrea di Montbard, 151, 154. Andronico II Paleologo, 114. Anselmo d’Aosta, 50. Antolic P., 86. Antonino Pierozzi, 181. Antonio Abate (san), 54. Apollonio di Tiro, 134. Apollonio, 175. Apuleio, Lucio, 36. Archimede, 175. Arduini M. L., 129. Aristotele, 38, 39, 61-64, 72, 75, 81, 82, 86, 175, 188. Arnaldez R., 4. Arnaldo da Villanova, 101, 113, 179, 189. Arnobio, 36. Ashtor E., 93. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 40. Avicenna, 101, 174-176. B Backman C. R., 112, 113, 115. Baigent M., 151. Baldovino I di Gerusalemme, 150. Barber M., 150, 164. Barberis G., 57. Bartolomeo della Scala, 126. Bartolomeo Visconti, 126. Basilio abate, 49, 54. Bauer M., 152, 156. Baum W., 129. Beatrice (Portinati), 181. Beatrice d’Angiò, 108. Benedetto d’Aniane, 55. Benedetto da Norcia, 47-49, 51-55, 169, 187. Beniamino da Tudela, 91. Bérenger Frédol, 162-165. Bernardo di Chartres, 81, 169. 196 Giuliana Musotto Bernardo di Chiaravalle, 50, 53, 74, 85, 151154, 156, 158, 169, 191. Bica A., 19-32, 185, 186. Biffi I., 89. Biondi A., 137. Black A., 120. Bobbio N., 65, 66. Bocken I., 123. Bonaventura da Bagnoregio, 80, 188. Bongars J., 151. Bonifacio (san), 52. Bonifacio IV papa, 55, 121. Bonifacio VIII papa, 75, 108, 110, 111, 121, 166, 179. Bormann C., 122. Boudet J. P., 134, 142, 146. Boyer B. B., 84. Brach J. P., 146. Bréhier E., 5, 6, 8. Bremmer J. N., 146. Bresc H., 93, 100. Bruno di Colonia, 53. Bucaria N., 95. Buytaert E. M., 86. Buzzetta F., 131-147, 190, 191. C Cagiati A., 100. Calimani R., 10. Calvino I., 44, 181. Cardini F., 153. Carlo di Valois, 110. Carlo I d’Angiò, 105, 106, 108, 175. Carlo II d’Angiò, 108, 110. Carlo Magno, 49, 173. Casertano G., 59. Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio, 169, 170. Celestino V papa, 55, 108. Cerrini S., 152. Charpentier L., 157. Cicerone, Marco Tullio, 37, 65, 87. Cipriano da Cartagine, 36. Cirillo d’Alessandria, 53. Clemente di Ochrida, 53. Clemente V papa, 115, 161, 163, 165-167. Clemente VI papa, 55. Clinia di Taranto, 58. Coggi R., 72. Cohn L., 4. Colli G., 61. Colombano (san), 52, 121. Confalonieri G., 165. Corradi F., 132. Corrado cardinale, 174. Corrado di Gehlhausen, 121. Corrado IV di Sevevia, 105, 106. Corrado V di Svevia sive Corradino, 106, 109. Corseri V. M., 119-129, 190. Cosmacini G., 97. Costantino abate, 48. Costantino I imperatore, 23, 24. Costantino l’Africano, 56, 175. Costanza Calenda, 179. Costanza d’Altavilla, 105, 109. Costanza d’Aragona, 106, 110, 116, 189. Crisippo di Soli, 57. Croce B., 183. Cusimano F., 47-56, 186, 187. Cuttini E., 80. D D’Agostino S., 105-117, 189. D’Angelo S., 169-183, 192. D’Onofrio G., 122. Dan J., 146. Dante Alighieri, 105, 179, 181. De Lubac H., 79. De Ruggiero G., 2, 8, 9, 75. De Stefano A., 109, 112, 114-116. Demurger A., 149, 152. Di Cesare D., 3. Dionigi l’Aeropagita (pseudo), 84, 88, 188. Dioscoride, 171. Dogliotti A. M., 172. Dom Pérignon P., 56. Domenico Capranica, 122. 197 Indice dei nomi Domenico di Guzmán, 53. Domenico Gundisalvi, 175. E Ebbesen S., 86. Edmondo di Lancaster, 105, 106. Eimerico da Campo, 120. Eleazar di Worms, 144. Eleonora d’Angiò, 110, 111, 113. Elisabetta d’Aragona, 116. Enea Silvio Piccolomini sive Pio II papa, 119-129, 190. Enrico di Langenstein, 121. Enrico II d’Inghilterra, 159. Enrico III d’Inghilterra, 105. Enrico VI di Svevia, 109. Enrico VII di Lussemburgo, 115, 116. Epicuro, 27, 64, 65. Erberto d’Orléans, 106. Ermete Trimegisto, 134. Erodoto, 58. Etienne de Suisy, 162-164. Euclide, 175. Eugenio IV papa sive Gabriele Condulmer, 122, 126-129. Euler W. A., 119. Eustachio medico, 179. F Faivre A., 146. Fanger C., 146. Federici Vescovini, G., 120, 146. Federico di Turinga, 106. Federico I imperatore, 109. Federico II imperatore, 95-97, 101, 105, 111, 115, 116, 135, 177, 179, 189. Federico III d’Aragona, 105-117, 189. Federico III d’Asburgo, 126. Federico IV d’Aragona sive Federico III di Sicilia, 95, 98. Felice V antipapa, 126. Ferdinando II d’Aragona, 91, 104. Ferraguth di Girgenti sive Faraj ben Sālim, 175. Ferrari F., 61. Fidora A., 86. Filippo di Toucy, 111. Filippo I di Courtenay, 108. Filippo I di Taranto, 110. Filippo IV di Francia, 108, 110, 161-163, 165-167, 192. Filone d’Alessandria, 1-18, 185. Finke H., 164. Flasch K., 119. Flavio Belisario, 48. Foa A., 103. Fodale S., 110. Folco Portinari, 181. Fornero G., 39. Frale B., 152, 164, 165, 192. Francesco d’Assisi, 53. Fumagalli S., 136. Funkenstein A., 134. G Gaia P., 120, 123, 128. Galeno, 101, 170, 171, 174-176, 179. Garin E., 119, 122, 133. Gentile da Foligno, 180. Geoffroy de Charny, 161, 162, 164. Geoffroy de Gonneville, 161, 162, 164. Geraldo di Frachet, 82. Gherardo da Cremona sive Gherardo da Sabioneta, 174, 175. Ghirlanda A., 13. Giacomo Blindano Fardella, 182. Giacomo di Sierck, 120. Giacomo di Vitry, 151. Giacomo Duboys, 179. Giacomo I d’Aragona, 106. Giacomo II d’Aragona, 108-110, 113, 116, 164, 189. Gianni R., 101. Giardini G., 6. Gill J., 122. Gilson E., 80, 81. Gioacchino da Fiore, 109, 113. Giovanni Boccaccio, 180. 198 Giuliana Musotto Giovanni da Procida, 106, 110. Giovanni da Toledo, 179. Giovanni di Castellomata, 177. Giovanni di Salisbury, 81, 169. Giovanni di San Remigio, 106. Giovanni di Siviglia, 175. Giovanni Gualberto, 53. Giovanni Paolo II papa, 45. Giovanni Pico della Mirandola, 131, 133, 136-139, 142, 144, 147, 191. Giovanni XXII papa, 112. Girgenti M., 1-18, 57-77, 185, 187. Girgenti S., 149-159, 191. Girolamo Staiti Tipa, 182. Giuliano Cesarini, 122, 127. Giunta F., 106. Giustiniano imperatore, 47. Goffredo di Buglione, 150. Goitein S. D., 96. Goitien A., 93. Grammauta F., 161-167, 191, 192. Grégoire R., 50. Gregorio I Magno papa, 48, 49, 56, 87, 91. Gregorio II papa, 55. Gregorio Sinaita, 53. Gregorio VII papa, 53, 55, 75. Grözinger K. E., 146. Guglielmo d’Alvernia, 136. Guglielmo d’Aquitania, 53. Guglielmo di Nogaret, 161, 162. Guglielmo di Plaisians, 161-163. Guglielmo di Saint-Thierry, 84, 85. Guglielmo di Tiro, 150, 151. Guglielmo Imbert, 162. Guglielmo Raimondo Moncada alias Flavio Mitridate, 142, 144. Guglielmo VII di Montpellier, 173. Guidi R. L., 119. Guido Monaco, 56. Guy de Montpellier, 181. H Hanegraaff W. J., 146. Hay D., 126. Hoffmann E. 122. Hoffmann F., 172. Hugues de Pèrraud, 161, 162, 164. I Ibn Al-Djassar, 176. Idel M., 134, 146. Iibn Haqwkal, 91. Ildegarda di Bingen, 173. Innocenzo II papa, 173. Innocenzo III papa, 177, 181. Innocenzo IV papa, 105, 179. Ippia di Elide, 58. Ippocrate, 101, 170-172, 175, 176. Ireneo di Lione, 21, 24, 29. Isabella di Castiglia, 91. Ishaq Al-Israili, 176. Isidoro di Siviglia, 170. J Jacques de Molay, 161-164, 167, 192. Jean de Bourgogne, 164. Jean de Gerson, 121. Jean de Jamville, 165. Jedin H., 121. K Kallen G., 120, 128. Kieckhefer R., 132, 141, 146. Klaassen F., 146. Klibansky R., 122. Koch I., 122. Koyrè A., 58, 60. L Lagumina B., 94, 96, 104. Lagumina G., 94, 96, 104. Lancianese D., 155, 156. Landi A., 123. Landolfo Brancacci, 163, 164. Landrio vescovo, 180. 199 Indice dei nomi Lattes D., 70. Laurenti R., 62. Leibowitz Y., 99. Leigh R., 151. Lévinas E., 157. Liccaro V., 80. Lincoln H., 151. Lionti F., 95. Lowith K., 69. Lucatelli L., 182. Luck G., 140. Lucrezio, Tito Caro, 27. Ludovico il Bavaro, 115, 116. Ludovico Pontano, 127. Luigi IX di Francia, 105, 106. Luigi VII di Francia, 180. Luisa di Antiochia, 111. Lutz Bachmann M., 86. M Mabillon J., 56. Macalufo de Saya, 182. Macrobio, 87, 88. Maggioni B., 13. Maglio G., 57, 61, 62, 65, 66, 69, 75, 77. Maltese E. V., 58-60. Mammana G., 33-46, 186. Mancini S., 119. Mandonnet P., 82. Mandosio J. M., 147. Manetti D., 66. Manfredi di Sicilia, 101, 105, 106, 109, 114, 189. Mani, 37. Marcione, 24. Marco Aurelio, Antonino Augusto, 65. Marco Visconti, 112. Maria d’Ungheria, 110. Maria di Montpellier, 177. Markale J., 149, 153. Marsilio da Padova, 74-77. Marsilio Ficino, 75, 77, 123, 138. Martino II di Sicilia sive Martino I d’Aragona, 99, 182. Martino IV di Sicilia, 108, 112. Martino V papa, 122. Maslama Al-Magriti (pseudo), 135. Matteo Silvatico, 179. Mauro Abate (san), 55, 56. McKeon R., 84. Mercuriade, 179. Merlo M., 128. Meroi F., 145, 146. Metodio vescovo, 53. Mews C. J., 86. Michele da Piazza, 180. Michele Scoto, 189. Milano A., 93-99, 101. Mondésert C., 4. Mondin B., 6, 7. Mondino de Liuzzi, 179, 180. Monica (santa), 34, 38, 41. Montessori M., 35. Moricca U., 49. Morselli M., 3. Mosè da Salerno, 69. Mosè Maimonide, 70-72, 100, 101, 185, 189. Musco A., 113. Musotto G., 192. N Nabucodonosor II, 1. Nardi B., 80. Nariot di Toucy, 111. Narsete, 48. Neusner J., 12, 13. Niccolò Albergati, 126. Niccolò Tudeschi, 127. Nicola Cusano, 119-129, 190. Nicola di Ockham, 193. O Oliveri F., 104. Omar califfo, 174. Omero, 170. Onorato abate, 48. Onorio I papa, 121. 200 Giuliana Musotto Onorio III papa, 174. Onorio IV papa, 179. Ovadia da Bertinoro, 91. P Pacomio abate, 49, 54. Paparelli G., 122. Parisoli L., 190. Partner P., 154, 156, 159. Pascal B., 65. Pasquale I papa, 55. Pasquale II papa, 53, 55. Pastore F., 146. Patrizio (padre di Agostino d’Ippona), 34. Patrizio d’Irlanda, 52. Pellegrini M., 122. Pepi L., 3, 5, 7-9, 91-104, 188, 189. Perani M., 13. Perotto L., 73. Perrone Compagni V., 145, 146. Petrucciani S., 73. Pietro Abelardo, 56, 83-89, 188. Pietro d’Irlanda, 72. Pietro III d’Aragona, 106, 108, 109, 111, 112, 177, 189. Pietro Ispano sive Giovanni XXI, 179. Pietro IV d’Aragona, 116. Pines S., 102. Pio da Pietralcina, 182. Pissavino P. C., 147. Pitagora, 133. Placido monaco (san), 56. Platone, 4, 6-8, 25, 38, 39, 58-62, 83, 144, 185. Porfirio, 101, 133. Portolan S., 164. Pouilloux J., 4. Pricoco S., 49. Protagora, 58, 59. Pucci P., 6. R Radice R., 4, 5, 57. Raimondo di Toledo, 175. Ravasi G., 13. Raymbaud de Caron, 161, 162, 164. Reale G., 4, 5, 7, 58, 60, 65. Rebecca Guarna, 179. Reiter S., 4. Remondino da Bologna, 179. Renda F., 93. Rhazes, Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya, 174, 175. Riccardo di Cornovaglia, 105. Ricoeur P., 12. Riemen R., 169. Roberto d’Angiò, 110, 111, 115. Roberto il Guiscardo, 176. Rocco B., 103. Rodrigo Sánchez de Arévalo, 128, 129. Romanici A. M., 101. Romualdo (san), 53. Rosemberg A., 11. Rossano P., 13. Rossi P. A., 135. Roth C., 93. Ruffino G., 103. Ruggero da Flor, 114. Ruggero di Lauria, 106, 108-110, 114. Ruggero II di Sicilia, 97, 177. Ruggerone di Lauria, 114. Runciman S., 150. S Saadiah Gaon, 17. Salomone re, 134. Salomoni A., 134. Santinello G., 120, 123. Santo Stefano (martire), 99. Savasorda, Abraham bar Hiyya, 175. Scandaliato A., 96, 98, 100. Scazzoso P., 88. Schiffman L. H., 141. Schiller R., 173. Scholem G., 10, 11. Sciacca M. F., 39. Seneca, Lucio Anneo, 65. 201 Indice dei nomi Senger I. G., 122. Serafini F., 189. Sermoneta G., 101, 103. Shottmüller C., 165. Sigeri di Brabante, 82. Simon P., 88. Simonetti M., 49. Simonsohn S., 91-93. Simplicio abate, 48. Sirat C., 10, 15, 16, 101. Smith W. K., 126. Socrate, 38, 39, 58, 59, 83. Solomon N., 10. Spinnato E., 110. Stanislao Clavica, 182. Stefani P., 13, 101. Stefano Harding, 53, 154. Stefano II di Baviera, 116. Steiner G., 169. Stemberger G., 10-12. Stieber J. W., 123. Straus R., 96. Swartz M. D., 141. T Taddeo Alderotti sive Alderòtto, 179. Tamani G., 102. Teodorico re, 47. Teodoro Studita, 53. Teofrasto, 171. Tertulliano, Quinto Settimio Fiorente, 36. Testa F., 109, 110, 115, 116. Thorndike L., 147. Thurner M., 123, 129. Tolomeo, 175. Tommaso d’Aquino, 72-74, 89, 99. Tommaso di Cantimpré, 82. Totaro L., 127. Trachtenberg J., 147. Trasimaco, 58. Trasselli C., 93. Trotula de’ Ruggiero, 179. U Ugo de Payns, 150, 151, 153, 158. Ugo di Champagne, 154, 155, 158, 191. Ugo di San Vittore, 80-83, 188. Ulrich von Manderscheid, 120. Untersteiner M., 58. Urbano II papa, 53, 55, 149. Urbano IV papa, 106. V Vagetti M., 59. Van Den Broek R., 146. Vansteenberghe E., 123. Vargas Llosa M., 169. Vasoli C., 75, 122, 147. Veenstra J. R., 146. Veit L. M., 122. Villibrordo (san), 53. Viti G., 154. Vittore III papa, 55, 56. W Watanabe M., 122, 127. Webb C., 81. Weill Parot N., 133, 147. Wendland P., 4. Wirszubski C., 147. Wolfson H. H., 5. Z Zagrebelsky G., 74. Zambelli P., 147. Zanatta M., 64. Zenone imperatore, 47. Zonta M., 15-17, 102. Zuffi S., 66. Finito di stampare in Paceco (Tp) nel mese di Luglio 2011 Litotipografia Abate Michele di Abate Vincenzo