Volume 40 - Società Italiana di Pediatria

Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160• Pp. 47-108
EditorialE
Prospettive in Pediatria: innovazione nella tradizione
L’integrazione delle conoscenze tra neonatologia e chirurgia neonatale
CHirUrGia NEoNatalE (a cura di C. Fabris)
Volume 40
159-160
Luglio-Dicembre 2010
Cosa c’è di nuovo in chirurgia neonatale?
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia mini-invasiva neonatale?
Cosa c’è di nuovo a proposito di ernia diaframmatica congenita?
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite necrotizzante?
GENEtiCa (a cura di G. andria)
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
Pediatria della disabilità
FroNtiErE (a cura di a. Cao, l.d. Notarangelo, a. iolascon)
Il ciglio primario e le malattie genetiche da disfunzione ciliare
Pacini
EditorE
MEdicina
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Volume 40
159-160
Luglio-Dicembre 2010
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Pacini
EditorE
MEdicina
INDICE numero 159-160 Luglio-Dicembre 2010
editoriale
Prospettive in Pediatria: innovazione nella tradizione
L’integrazione delle conoscenze tra neonatologia e chirurgia neonatale
Giovanni Corsello..................................................................................................................................................................................... 47
chirurgia neonatale (a cura di Claudio Fabris)
Cosa c’è di nuovo in chirurgia neonatale?
Claudio Fabris, Gian Battista Parigi......................................................................................................................................................... 49
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia mini-invasiva neonatale?
Mario Lima, Giovanni Ruggeri, Tommaso Gargano, Giulio Gregori, Beatrice Randi.................................................................................. 50
Cosa c’è di nuovo a proposito di ernia diaframmatica congenita?
Pietro Bagolan, Francesco Morini............................................................................................................................................................ 57
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite necrotizzante?
Gian Battista Parigi, Lorenzo Bertolini..................................................................................................................................................... 62
genetica (a cura di Generoso Andria)
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
Iris Scala, Carla Ungaro, Generoso Andria .............................................................................................................................................. 68
Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
Nicola Brunetti-Pierri............................................................................................................................................................................... 79
Pediatria della disabilità
Giuseppe Zampino, Angelo Selicorni ...................................................................................................................................................... 89
Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Il ciglio primario e le malattie genetiche da disfunzione ciliare
Anna D’Angelo, Brunella Franco........................................................................................................................................................... 102
Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 47-48
eDIToRIALe
Prospettive in Pediatria:
innovazione nella tradizione
L’integrazione delle conoscenze tra neonatologia
e chirurgia neonatale
Prospettive in Pediatria ha sempre svolto un ruolo importante di approfondimento scientifico di alto profilo, riuscendo a coniugare la comunicazione delle novità emergenti nei diversi campi della ricerca biomedica applicata alle discipline dell’area pediatrica, con la divulgazione
delle loro ricadute sulla pratica clinica. Una risorsa come Prospettive in Pediatria fa parte del patrimonio culturale migliore della Pediatria
italiana e della Società Italiana di Pediatria in particolare sul quale la SIP deve continuare la sua politica di investimento, puntando su due
fattori da rendere sinergici oltre che integrati: innovazione e tradizione. Alla struttura di base della rivista, che si regge su una formula di
successo (raccolta di articoli multidisciplinari su grandi temi, specialistici, rubriche “Frontiere” e “Focus” su argomenti di grande impatto
culturale) potranno aggiungersi di volta in volta, editoriali, tavole rotonde e dibattiti su grandi temi di orientamento per la pediatria italiana
in evoluzione, in una ottica di contenitore di idee e di posizioni “politiche” per la pediatria, un think tank di orientamento politematico. L’innovazione dei mezzi di comunicazione (la rivista va proposta anche on line), i collegamenti con altri strumenti e riviste scientifiche del panorama ampio e variegato della letteratura scientifica nazionale e internazionale potranno ulteriormente arricchire Prospettive in Pediatria.
La qualità dei processi formativi non può prescindere in molte aree di aggiornamento specialistico da una impostazione multidisciplinare,
che preveda la condivisione di una tematica da parte di specialisti con competenze diverse nella gestione di quella patologia o di quella
condizione clinica o biologica.
La neonatologia può a buon diritto essere considerata ormai una “disciplina nella disciplina”. È infatti una branca specialistica non di
organo o di apparato, ma per fascia d’età, come la pediatria, sia pur con la limitazione al primo mese di vita postnatale e al periodo
(ormai temporalmente sempre più ampio) della prematurità. Oggi il limite minimo di età gestazionale per la sopravvivenza è compreso
tra la 22a e la 23a settimana di gestazione; le percentuali di sopravvivenza per i neonati di peso alla nascita < 1500 grammi (VLBW) si
aggirano intorno al 90%, con variazioni in rapporto alle diverse realtà epidemiologiche ed assistenziali. Gli interventi medici in questa
categoria di neonati estremi pretermine devono essere calibrati tenendo conto che sono diretti a soggetti con processi di crescita, differenziazione e sviluppo ancora in itinere, con una definizione epigenetica spesso incompleta, con funzioni biologiche ancora inespresse
o solo parzialmente attive.
Concetti tradizionali quali prematurità ed immaturità, uno riferito alla precocità della nascita e l’altro alla insufficiente maturazione biologica,
si fondono nelle categorie di neonati con peso ed età gestazionale molto o estremamente basse, delineando condizioni di estrema fragilità
biologica e clinica. In questi neonati è grande la suscettibilità alla comparsa di patologie acute, sia di ordine medico che chirurgico, e di
danni strutturali ad emergenza postneonatale e variamente invalidanti. Le percentuali di esiti, in termini di disabilità maggiori quali paralisi
cerebrali, ritardi cognitivi, deficit sensoriali visivi e uditivi rilevanti, nei nati con età gestazionale inferiore a 28 settimane o con peso < a 1000
grammi sono ancora elevate, tali da indurre disabilità e handicap in circa il 50% dei casi, anche in rapporto alla presenza di fattori di rischio
addizionali quali ritardo di crescita intrauterino, gemellarità con discordanza di crescita, infezioni perinatali con corioamnionite. La gestione
delle problematiche neurologiche in questi neonati parte da lontano, dalla degenza in terapia intensiva neonatale, prevede l’integrazione dei
genitori nelle strategie assistenziali, comprende la somministrazione precoce di latte materno, include quell’insieme di procedure oggi note
con il termine di “care neonatale” o meglio di “care neonatale individualizzata” noto con l’acronimo NIDCAP. Contenimento, care posturale,
metodo “kangaroo”, “minimal and gentle touch”, trattamento del dolore sono termini e presidi ormai di ampia diffusione nelle UTIN con
risultati vantaggiosi anche sul piano della acquisizione delle performances cliniche e neurologiche di neonati con rischio così elevato di
patologie ad esordio perinatale.
Competenze e conoscenze specialistiche dell’area pediatrica non sempre sono direttamente esportabili o applicabili in epoca neonatale,
soprattutto nei neonati estremamente pretermine, in cui sono numerose le patologie collegate con un arresto o con alterazioni dei processi
di sviluppo per nascita pretermine e/o per comparsa di patologie correlate. Lo sviluppo embriologico, ed in minor misura anche quello fetale,
sono orientati per periodi critici, per fasi cioè di alta velocità di differenziazione, la cui alterazione può determinare un arresto dei processi
evolutivi o la comparsa di danni anatomici e funzionali irreversibili o non completamente reversibili malgrado gli interventi di abilitazione
e recupero. Patologie multifattoriali quali la displasia broncopolmonare o la retinopatia del pretermine in questi soggetti hanno un profilo
diverso dalle relative patologie rispetto a 20 o anche a 10 anni fa, quando prevalevano in questi organi i danni secondari a processi flogistici.
Oggi i quadri clinici corrispondenti sono caratterizzati da alterazioni strutturali e funzionali dovute alla interruzione dei processi evolutivi per
l’estrema prematurità. Molti di questi danni sono persistenti per l’impossibilità di garantire la regolare evoluzione morfostrutturale in epoche
successive a quelle previste dalla programmazione genetica e metabolica. È infatti ormai documentato che la prematurità, così come la
malnutrizione fetale e neonatale, possono modificare i delicati processi di definizione epigenetica cellulare rispetto. Le modalità di identificazione e di gestione clinica devono tenere conto di questi eventi in grado di alterare in modo così sensibile la storia naturale dei neonati
estremamente pretermine e delle patologie di cui sono affetti.
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eDIToRIALe
La chirurgia neonatale, oggetto di una ampia sezione in questo numero di Prospettive in Pediatria con interventi di alto profilo clinico e scientifico, è una disciplina che richiede esperienza e competenze specifiche non desumibili dalla esperienza chirurgico-pediatrica tout court, ma
frutto di una conoscenza dei processi biologici che accompagnano lo sviluppo fetale e neonatale e di una competenza acquisita sul campo.
Il neonatologo e il chirurgo neonatale devono interagire sin dalla vita intrauterina quando gli accertamenti diagnostici in epoca prenatale
abbiano rilevato la presenza di un difetto strutturale di natura malformativa o vascolare, che richiede comunque un intervento chirurgico
postnatale (oggi va considerata anche la possibilità di accessi chirurgici in epoca preenatale per alcune patologie quali ad esempio i difetti
del tubo neurale).
Counselling multidisciplinare e comunicazione di diagnosi vanno espletate in equipe, coinvolgendo il ginecologo che ha operato la diagnosi
prenatale, il neonatologo e quando necessario il chirurgo pediatra che dovranno affrontare la gestione clinica alla nascita e nelle fasi immediatamente successive. Insieme devono interagire per la definizione di ubicazione, timing e modalità del parto. Pensiamo a quanti risultati
ha prodotto in termini di prevenzione dei danni neonatali la gestione integrata tra ostetrico e neonatologo attraverso la somministrazione di
steroidi antenatali alle donne a rischio di parto pretermine. RDS di grado elevato, ma anche encefalopatia ipossico-ischemica, enterocolite
necrotizzante (NEC) e pervietà del dotto arterioso (PDA) si sono notevolmente ridotte grazie alla diffusione di questa semplice ed economica
procedura, validata sia dalla clinica che dalle evidenze. In una ottica di counselling multidisciplinare diviene spesso indispensabile anche
l’intervento del genetista, del neuropediatra e di altre figure professionali per definire sul piano diagnostico ed eziologico la patologia malformativa rilevata ed impostare protocolli di prevenzione familiare. La consulenza genetica consente oggi di definire sempre più spesso il
rischio di ricorrenza, le possibilità di diagnosi preconcezionale o prenatale (con imaging e con i test genetici sia citogenetici che molecolari
tra loro integrati), l’identificazione di portatori nei genitori, nella fratria o in altri componenti del nucleo familiare.
Se diverse patologie chirurgiche neonatali “classiche” sono legate ad alterazioni genetiche o malformative (ileo da meconio, megacolon
agangliare o i difetti di parete addominale e le malformazioni anorettali), altre sono collegate con la prematurità o con altre patologie neonatali correlate. L’enterocolite necrotizzante e l’idrocefalo postemorragico sono esempi di condizioni diffuse tra i nati estremi pretermine,
sulle quali oggi possiamo intervenire con possibilità di successo nettamente superiori rispetto a solo alcuni anni orsono. La NEC, malattia
multifattoriale in cui prematurità estrema (< 26 settimane), asfissia perinatale e ritardo di crescita intrauterino (peso alla nascita < 1000
grammi) sono gli attori principali di una cascata di eventi flogistici potenzialmente destruenti per la mucosa e per la parete intestinale, richiede un approccio chirurgico nel 20-40% dei casi. Anche alla luce di queste percentuali e dei rischi elevati di mortalità si sono avviati una
serie di ricerche tese a identificare e promuovere interventi rivolti alla prevenzione della NEC. L’uso esclusivo di latte materno o in alternativa
di donna (latte umano donato) nelle prime due settimane di vita postnatale, l’uso di lattoferrina, di alcuni probiotici (Lactobacillus GG) e, se
saranno confermate le evidenze, anche di EGF (epidermal growth factor), peptide in grado di modificare l’espressione genica degli enterociti
rendendoli meno vulnerabili al danno ipossico, sono correlati con una riduzione statisticamente significativa della incidenza di NEC nelle
categorie di neonati a più alto rischio.
I notevoli progressi tecnologici raggiunti anche nel campo della neonatologia, con la messa a punto di tecniche di indagine diagnostica più
precise e sofisticate, con la diffusione di attrezzature innovative caratterizzate da elevati livelli di digitalizzazione e di informatizzazione sia
diagnostiche (di imaging) che di trattamento (ventilatori ad alta frequenza, HFO, ossido nitrico, ipotermia cerebrale, esami Doppler sonografici pluridistrettuali, l’uso di nuovi farmaci spesso off-label) hanno ampliato l’orizzonte culturale del neonatologo oltre che il suo armamentario
clinico-assistenziale. Anche in ambito chirurgico la definizione di nuovi approcci terapeutici quali le terapie mini invasive, e la laparoscopia
in particolare, o le tecniche eseguite in epoca fetale, consentono di ampliare il ventaglio delle opportunità di cura e di guarigione di patologie
destruenti sul piano anatomico organi e apparati in via di maturazione.
L’approccio clinico alle patologie neonatali oggi non può non tendere verso una individualizzazione dei percorsi diagnostici ed assistenziali,
nonostante la diffusione di protocolli e linee guida, frutto di esperienze multicentriche e avanzate, che danno una sorta di orientamento
generale sui percorsi di fondo validati e sicuri. La medicina personalizzata sarà probabilmente la medicina del futuro, di un futuro ormai
prossimo, che utilizzerà sempre di più le applicazioni e le informazioni derivate dalla medicina genomica. La ricerca di polimorfismi del
DNA (SNIPS) permette già oggi di identificare soggetti con diversa modalità di risposta alla somministrazione di farmaci (farmacogenomica)
e di nutrienti (nutrigenomica). La ulteriore diffusione di indagini a livello di mRNA (trascrittomica), di proteine (proteomica) e di metaboliti
(metabolomica) renderà questi approcci più precisi, consentirà di identificare individualmente lo stato di salute e la presenza di patologie,
variazioni qualitative e quantitative legate a diversità di maturazione, di differenziazione e di sviluppo di vari organi e tessuti, in rapporto alla
prematurità e ad altri fattori condizionanti.
La formazione, in ambiti di così elevata specializzazione, non può non seguire percorsi multidisciplinari integrati, sia nel contesto di eventi
residenziali, che nella formazione a distanza (FAD) e nelle riviste scientifiche, con l’obiettivo di favorire le sinergie operative e l’omogeneità
dei livelli di conoscenza. Prospettive in Pediatria ha il compito di favorire il raggiungimento di obiettivi di alta formazione attraverso la qualità
dei suoi contenuti, coniugando la sua prestigiosa tradizione editoriale con una scelta di tematiche e con una impostazione editoriale al passo
con le esigenze di una pediatria moderna e in continua evoluzione.
Giovanni Corsello
Vice-Presidente della Società Italiana di Pediatria
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Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 49
ChIRURGIA NeoNATALe
Cosa c’è di nuovo in chirurgia neonatale?
Claudio Fabris, Gian Battista Parigi
Cattedra di Neonatologia, Dipartimento di Scienze Pediatriche, Università di Torino; * Chirurgia Pediatrica, Università
di Pavia e IRCCS Fondazione Policlinico “S. Matteo”, Pavia
Cosa c’è di nuovo in chirurgia neonatale? Di primo acchito una simile domanda potrebbe determinare un imbarazzato silenzio: in fin
dei conti, si sarebbe indotti a rispondere dopo un’affrettata e superficiale considerazione, un’atresia dell’esofago od un’ernia diaframmatica congenita vengono operati oggi esattamente come dieci
o vent’anni fa. Approfondendo invece appena un poco l’analisi si
può scoprire come di acqua ne sia passata parecchia anche sotto i
ponti dei chirurghi pediatri, e come oggi l’approccio chirurgico del
neonato sia non solo tecnicamente ma soprattutto concettualmente
diverso da quello di anni or sono. Questa “novità” che caratterizza
l’attuale operato del chirurgo pediatra si può condensare nell’aforisma “perseguire il massimo risultato terapeutico con la minima
aggressività possibile”: in altri termini, cercare dove possibile di
guarire il bambino con la sola terapia conservativa, e dove divenga necessario l’intervento chirurgico adottare le tecniche le meno
invasive possibili.
Risulta evidente come un simile atteggiamento implichi la necessità
di una strettissima collaborazione con il patologo neonatale in ogni
fase non solo del trattamento in senso stretto, ma anche dello studio
delle cause e dei meccanismi patogenetici sottesi all’espressione
clinica della malattia, così da poter intervenire ove possibile alla sua
stessa radice e non invece sulle sue forme conclamate.
I tre lavori presentati in questo numero della Rivista dedicato alle novità in chirurgia neonatale dettagliano come questo nuovo approccio, estremamente rispettoso del piccolo paziente, trovi una pratica
applicazione nell’attività clinica quotidiana.
L’articolo del prof. Lima presenta gli aspetti più squisitamente tecnici della chirurgia mini-invasiva neonatale, resi possibili non solo
dall’introduzione di strumenti sempre più miniaturizzati ed adeguati
alle dimensioni ed alla fisiologia del neonato, quali “mini insufflatori”
per la CO2, ma anche da modificazioni nelle tecniche anestesiologiche capaci di far fronte alle problematiche inerenti la conduzione di
un intervento in toraco- od in laparoscopia neonatale. Verrà quindi
descritto, sulla base di un’esperienza diretta, come sia oggi possibile
riparare un’atresia esofagea in toracoscopia, oppure un’atresia intestinale con tecnica videoassistita ed estrinsecazione transombelicale del segmento atresico – tecnica che può essere concepita come
un’evoluzione del trattamento laparoscopico puro – oppure ancora
come adattare alle forme “lunghe” di malattia di Hirschsprung ad
evoluzione clinica neonatale la tecnica di riparazione esclusivamente per via transanale – anche questa minimamente aggressiva – introdotta nel 1998 da De la Torre-Mondragòn per le forme “corte”.
La chirurgia miniinvasiva neonatale trova inoltre applicazione nel
campo delle malformazioni polmonari congenite, di quelle anoret-
tali alte (ad integrazione dell’intervento di anorettoplastica sagittale
posteriore proposto da De Vries e Peña, altro brillante esempio di
approccio chirurgico di gran lunga meno invasivo di quelli in precedenza utilizzati), del reflusso gastroesofageo refrattario alla terapia
medica, della gastrostomia video-assistita.
L’articolo del prof. Bagolan affronta invece una patologia, l’ernia
diaframmatica congenita (EDC), in cui l’interazione fra patologo e
chirurgo neonatale deve essere strettissima, al fine di portare il neonato all’indispensabile intervento chirurgico nelle condizioni che gli
possano garantire la migliore prognosi possibile, pure in presenza
di una patologia ancora gravata da una significativa mortalità. Verranno quindi affrontati i complessi problemi di ventilazione e perfusione polmonare che caratterizzano questa malformazione, con un
excursus sulle tecniche farmacologiche e ventilatorie attualmente più
promettenti, così come sperimentate in uno dei Centri italiani con
la maggiore esperienza in materia. Per sottolineare ulteriormente gli
aspetti di “novità” nelle opzioni terapeutiche oggi disponibili verranno
inoltre presentate le promettenti prospettive offerte dalla chirurgia
feto endoscopica prenatale nei casi di EDC di particolare gravità.
L’articolo del prof. Parigi infine si sofferma sulle più recenti acquisizioni in tema di eziopatogenesi dell’enterocolite necrotizzante (NEC)
e sulle conseguenti nuove possibilità terapeutiche tese a prevenire
l’insorgenza della perforazione intestinale, e quindi a scongiurare la
necessità di un intervento chirurgico, seguendo appunto i dettami
di un approccio terapeutico il meno aggressivo possibile. Una tale
impostazione enfatizza ancora di più la necessità di una sinergia
assoluta fra patologo neonatale e chirurgo neonatale, così che l’integrazione fra l’opera dei due raggiunga il fine (per noi solo apparentemente paradossale) di guarire il paziente lasciando inoperoso il
chirurgo. Nel caso invece avvenga la perforazione e si renda quindi
necessario operare, verranno descritte le tecniche possibili e sottolineato come, talvolta, la ricerca di un approccio meno invasivo
di quello tradizionale non porti a risultati incoraggianti ma piuttosto
a sconfortanti delusioni. È il caso del drenaggio peritoneale inteso
come soluzione chirurgica definitiva per la NEC in sostituzione della
laparotomia, ipotesi che gli studi randomizzati più recenti tendono ad
invalidare, dimostrando una volta ancora come la strada alla ricerca
di nuove e meno invasive strategie terapeutiche non sia sempre in
discesa e priva di buche.
La ricerca di una sempre minore aggressività costituisce quindi la
declinazione in linguaggio chirurgico pediatrico della nota massima
di Giovenale, che dovrebbe essere sempre tenuta ben presente da
chiunque si dedichi alla cura dei bambini: “Maxima debetur puero
reverentia” (Giovenale, Satire, XIV, 47).
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Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 50-56
ChIRURGIA NeoNATALe
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia
mini-invasiva neonatale?
Mario Lima, Giovanni Ruggeri, Tommaso Gargano, Giulio Gregori, Beatrice Randi
Chirurgia Pediatrica, Università di Bologna-Ospedale Policlinico “S. Orsola”, Bologna
Riassunto
La chirurgia mini-invasiva rappresenta uno dei più importanti progressi chirurgici dell’ultimo secolo. Riducendo le incisioni a piccoli accessi, tale approccio
garantisce minor morbilità, dolore post-operatorio, sviluppo di aderenze e cicatrici.
Attualmente la maggior parte degli interventi in ambito pediatrico ha una variante chirurgica endoscopica.
Sebbene l’impiego della chirurgia mini-invasiva nel bambino dall’ultima decade sia in costante sviluppo, non si è assistito allo stesso in ambito neonatale
a causa del soma del paziente e del timoroso impatto cardio-respiratorio del pneumoperitoneo. Negli ultimi 10 anni, le innovazioni tecniche e lo sviluppo
nella strumentazione hanno reso le procedure endoscopiche effettuabili e sicure anche in epoca neonatale.
Ad oggi l’approccio mini-invasivo si estende sia alla patologia toracica neonatale che a quella addominale. Patologie congenite quali l’atresia esofagea, le
lesioni cistiche polmonari congenite, le atresie del piccolo intestino, le malformazioni ano-rettali e la malattia di Hirschsprung vengono attualmente trattate
con approccio mini-invasivo.
Questo articolo riassume l’impiego della chirurgia mini-invasiva in ambito neonatale.
Summary
Minimally invasive surgery has been one of the most important advances in surgery in the last century. This approach ensures the reduction of morbidity,
post-operative pain, adhesions and scarring by reducing the incisions to small punctures.
Nowadays almost all paediatric operations have an endoscopic surgical variant.
Although the use of minimally invasive surgery in older children has expanded steadily over the past decade, it has not been used widely in newborn due to
their small size and concern about the impact of carbon dioxide pneumoperitoneum on cardiopulmonary function. In the last ten years, technical innovations
and advancement in instrumentation have made endoscopic procedures safer and easier in newborns.
Actually minimally invasive surgery is being performed in both the neonatal chest and abdomen. Congenital neonatal deformities including oesophageal atresia,
congenital pulmonary cystic lesions, small bowel atresia, ano-rectal malformations, Hirschsprung disease are now being managed with endoscopic surgery.
This article summarized the status of these techniques in newborns.
Introduzione
La chirurgia neonatale è passata negli ultimi trent’anni da atto eroico a sicura ed ordinaria routine ed offre oggi un recupero non solo
“quoad vitam” ma anche “quoad functionem”, aspetto non trascurabile in un paziente con lunga aspettativa di vita. Grazie a tale guadagno in sopravvivenza ma soprattutto in guarigione, l’attenzione
del chirurgo si è rivolta ad altre problematiche, portando alla ricerca
di un approccio mini-invasivo anche nel trattamento di patologie
neonatali.
Lo sviluppo di tale approccio in ambito pediatrico e soprattutto neonatale è progredito più lentamente a causa della necessità di strumentario laparo-toracoscopico adatto al soma del piccolo paziente.
Inoltre la diffusione della chirurgia mini-invasiva è stata inizialmente
accolta da gran parte dei chirurghi pediatri con scetticismo per una
serie di fattori che possono essere sintetizzati come segue:
• in campo pediatrico le incisioni chirurgiche “tradizionali” apparivano già di dimensioni “molto ridotte”;
• nella pratica medica quotidiana il dolore post-operatorio in età
pediatrica, e soprattutto neonatale, è stato sottostimato per lungo tempo;
• nessuna singola patologia in età pediatrica ha un impatto epidemiologico-sociale paragonabile alla colelitiasi dell’adulto (la
colecistectomia laparoscopica può essere interpretata come la
prima spinta alla diffusione delle tecniche mini-invasive).
50
L’introduzione dell’adeguato strumentario, l’evidenza e la diffusione della sicurezza e dei benefici delle tecniche mini-invasive anche
nel neonato hanno portato negli ultimi 10 anni alla diffusione della
chirurgia mini-invasiva non solo in ambito pediatrico ma anche in
quello neonatale. Ad oggi complesse patologie quali l’atresia esofagea, le atresie intestinali, il megacolon congenito agangliare, le malformazioni ano-rettali, le lesioni cistiche polmonari possono essere
trattate con approccio mini-invasivo.
In questo lavoro esponiamo le moderne applicazioni neonatali della
chirurgia laparo-toracoscopica.
Toracoscopia
Le conseguenze cliniche secondarie ad accessi toracotomici sono
ormai ben documentate: scapola alata, asimmetria della parete toracica, fusioni costali, scoliosi, anomalie nello sviluppo del seno e
dei muscoli pettorali.
Già dai primi anni ’50 alcuni chirurghi pediatri iniziarono a proporre accessi alternativi, nel tentativo di minimizzare le conseguenze dell’impatto
chirurgico. Nel 1991 Soucy et al. proposero “the muscle-sparing thoracotomy”. Con questa tecnica, divaricando i piani muscolari, si evita la
sezione degli stessi. Nel 1998 Bianchi ed al. pubblicarono l’approccio alla
cavità toracica mediante una toracotomia ascellare. Nel 1979 è stato per
la prima volta descritto l’utilizzo della toracoscopia in pazienti pediatrici.
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia mini-invasiva neonatale?
L’approccio toracoscopico, finalizzato all’asportazione o alla riparazione di anomalie intra-toraciche, dimostra numerosi vantaggi
estetici ma soprattutto funzionali rispetto alle procedure condotte
con la classica toracotomia. Inoltre la toracoscopia si è dimostrata
vantaggiosa nel decorso post-operatorio in termini di minore dolore
e precoce ripresa della funzionalità respiratoria.
Gli interventi toracoscopici possono essere condotti in ventilazione
monopolmonare (mediante intubazione selettiva del bronco che deve
essere escluso o mediante l’utilizzo di bloccatori endobronchiali); la
stessa insufflazione di CO2 nello spazio pleurico aiuta nel creare la
camera operativa intra-toracica.
È sconsigliato l’utilizzo della toracoscopia nei neonati con scarsa
tolleranza alla ventilazione monopolmonare, che presentino uno stato respiratorio instabile o nei neonati ipercapnici secondariamente
all’eccessivo assorbimento pleurico di CO2. Tuttavia la toracoscopia
si è dimostrata essere ben tollerata dalla maggior parte dei pazienti
pediatrici ed anche in epoca neonatale.
la possibilità di detendere le cisti sovradistese mediante incisione
delle stesse con un’immediata ripresa respiratoria del neonato (Fig.
2 a, b). Il trattamento definitivo (lobectomia o resezione atipica) viene
eseguito intorno al VI mese di vita (Lujan, 2002; Lima, 2005).
Trattamento toracoscopico dell’atresia esofagea
Il trattamento chirurgico dell’atresia esofagea consiste nella realizzazione dell’anastomosi esofagea primaria, previa sezione dell’eventuale fistola tracheo-esofagea.
Nel 1999 è stato descritto il primo caso di atresia esofagea corretta
per via toracoscopica in un paziente di 8 mesi (Lobe, 1999). Poco
dopo Rothenberg descrisse la correzione toracoscopica di 8 neonati
affetti da atresia esofagea con fistola tracheo-esofagea distale (Rothenberg, 2002).
Toracoscopia diagnostica
Non è utilizzata di frequente dati i progressi in campo radiologico
però, in pazienti selezionati, la visualizzazione della cavità toracica
può talvolta essere d’aiuto nell’iter diagnostico (per esempio in caso
di neoformazioni di origine ignota).
Biopsia polmonare toracoscopica
Nel caso di neonati con patologie polmonari di origine sconosciuta può
essere necessario, a fini diagnostici, l’esecuzione di una biopsia polmonare che attualmente può essere condotta toracoscopicamente (Fig. 1).
La toracoscopia nel trattamento della malformazione
adenomatoide cistica a manifestazione neonatale
Tra le patologie polmonari neonatali, la malattia adenomatoide cistica polmonare può ad oggi godere dei vantaggi delle tecniche toracoscopiche.
Questa malformazione è attualmente diagnosticata nella maggior
parte dei casi in epoca prenatale. Alla nascita rimane prevalentemente asintomatica ma talvolta può essere causa di emergenze neonatali. Infatti la sovradistensione delle cisti, componenti la
malformazione, può determinare la compressione del parenchima
polmonare sano adiacente alla lesione, determinando un quadro di
insufficienza respiratoria ingravescente. La toracoscopia offre oggi
a
b
Figura 1.
Biopsia polmonare toracoscopica in neonato affetto da deficit della proteina D del Surfactante.
Figura 2 a, b.
Incisione toracoscopica di cisti sovradistese in malformazione adenomatoide cistica neonatale con insufficienza respiratoria.
51
M. Lima et al.
L’approccio mini-invasivo toracoscopico per la correzione dell’atresia esofagea ripercorre fedelmente i medesimi tempi chirurgici della tecnica tradizionale: isolamento, legatura e sezione della fistola
(qualora presente) seguita dall’anastomosi termino-terminale primaria dei due monconi esofagei (Fig. 3 a, b) (Lima, 2007).
Le controindicazioni assolute all’approccio toracoscopico all’atresia
esofagea sono: ipertensione polmonare, grave prematurità (peso alla
nascita < 1500 gr) o precedente chirurgia per la correzione del difetto.
Ad oggi nel mondo sono circa 40 i neonati affetti da atresia esofagea con fistola distale trattati con approccio toracoscopico. I risultati ottenuti sono sovrapponibili alla tecnica tradizionale in termini
di ripresa dell’alimentazione, degenza ospedaliera e complicanze
a
b
Figura 3 a, b.
Correzione toracoscopica di atresia esofagea: a. anastomosi esofagea
completata; b. controllo a circa un mese di distanza dall’intervento: esiti
cicatriziali appena percettibili.
52
post-operatorie e risultano vincenti in termini estetici ma soprattutto funzionali. In particolare la correzione dell’atresia esofagea
toracoscopica permette una migliore esposizione e visualizzazione
dell’intera regione mediastinica posteriore, un minor traumatismo
meccanico polmonare, con una più rapida ripresa respiratoria postoperatoria. Di certo l’esecuzione di un’anastomosi esofagea primaria intracorporea risulta tecnicamente impegnativa, pertanto l’intervento è attualmente eseguito solo in centri d’esperienza in ambito
chirurgico mini-invasivo neonatale.
Laparoscopia
L’approccio laparoscopico prevede la creazione di una camera di
lavoro endoaddominale mediate l’insufflazione intraperitoneale di
CO2. Il successo degli interventi laparoscopici è strettamente dipendente dalla chiara visualizzazione delle strutture endoaddomianali.
L’assorbimento peritoneale di CO2 è però particolarmente elevato
in età neonatale pertanto non risulta infrequente uno stato di secondaria acidosi respiratoria, correggibile incrementando la ventilazione/minuto. L’aumento della pressione endoaddominale indotta
dal pneumoperitoneo può inoltre compromettere il ritorno venoso,
determinando un quadro ipotensivo. La pressione endoaddominale
non deve superare nel neonato valori di 6 mmHg in quanto valori
superiori sono scarsamente tollerati in epoca neonatale.
Alcune problematiche nell’approccio laparoscopico sono peculiari
del neonato. In età pediatrica, nella maggior parte delle procedure, il
trocar (i trocars sono gli strumenti che, dopo la creazione del pneumoperitoneo, perforando la parete addominale, consentono il transito degli strumenti operatori) di dimensioni maggiori è posizionato,
per ragioni estetiche, attraverso la cicatrice ombelicale. Nel neonato, persistendo il moncone ombelicale, l’accesso viene eseguito in
posizione sovra o sotto-ombelicale. A causa del modesto spessore
dello strato muscolare della parete addominale neonatale è stato
necessario sviluppare tecniche per assicurare i trocar alla parete
addominale e per evitare il dislocamento degli stessi durante le manovre di introduzione ed estrazione degli strumenti. Inoltre la già
citata scarsa tolleranza del neonato al pneumoperitoneo ha richiesto
lo sviluppo di insufflatori che potessero adeguare le pressioni ed il
flusso dei gas ai parametri neonatali.
Ostruzioni intestinali congenite neonatali:
trattamento video-assistito
Le steno-atresie del piccolo intestino sono la causa più frequente di
occlusione intestinale in epoca neonatale.
Negli ultimi 10 anni si sono delineate due principali correnti di pensiero riguardo al trattamento mini-invasivo di forme steno-atresiche
del piccolo intestino: la continuità intestinale può essere stabilita
con un approccio laparoscopico, che prevede il confezionamento
di un’anastomosi intestinale intracorporea, o viceversa laparoscopicamente assistito (per intervento chirurgico laparoscopicamente
assistito si intende ogni procedura chirurgica eseguita con un iniziale approccio mini-invasivo a cui segue il completamento della
procedura stessa con i visceri esteriorizzati dall’addome attraverso
l’accesso della laparoscopia o una mini-laparotomia). Ad oggi solo
forme steno-atresiche duodenali sono state trattate per via laparoscopica mentre nessun trattamento laparoscopico puro di forme
digiuno-ileali è stato completato, data la necessità nella quasi totalità dei casi di tapering del moncone intestinale prossimale.
Sia forme steno-atresiche duodenali che digiuno-ileali sono state
trattate ad oggi con un approccio laparoscopicamente assistito.
Nel 2001 è stato descritto il primo trattamento laparoscopico di una
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia mini-invasiva neonatale?
forma di atresia duodenale. Questo è anche il primo caso descritto
in letteratura di anastomosi intestinale laparoscopica eseguita in età
neonatale. Dal 2000 al 2004 sono state descritte 17 correzioni di
atresia duodenale laparoscopica con un tasso di conversione del
23,5%. La presenza di malformazioni associate ne rappresenta la
causa principale. La correzione laparoscopica di forme atresiche
duodenali si è inoltre dimostrata gravata da un alto tasso di complicanze post-operatorie (46,1%): deiscenza dell’anastomosi (30,7%),
stenosi da eccessivo utilizzo di cauterizzatori (7,7%) e perforazione
colica iatrogena (7,7%). Queste le ragioni dell’introduzione del trattamento laparoscopicamente assistito, che può essere interpretato
come un’evoluzione del trattamento laparoscopico puro (Bax, 2001;
Gluer, 2002; Rothenberg, 2002; Steyaert, 2003; Frantizides 2006).
Il trattamento video-assistito prevede l’individuazione laparoscopica
del tratto steno-atresico, guidati dalla discrepanza di calibro dell’intestino a monte rispetto all’intestino a valle del segmento malformato, e l’esteriorizzazione di questo dalla breccia ombelicale. La resezione del tratto steno-atresico e l’anastomosi intestinale vengono
quindi eseguite a cielo aperto (Fig. 4 a, b, c, d) (Yamatacha, 2004).
Rispettato il timing del classico trattamento chirurgico delle forme
steno-atresiche del piccolo intestino, le cardiopatie congenite associate alle forme atresiche duodenali rappresentano la principale
controindicazione al trattamento laparoscopico; tuttavia la chirurgia
mini-invasiva è reputata ad oggi eseguibile in sicurezza nella maggior parte dei pazienti affetti da anomalie congenite cardiologiche,
ad esclusione delle cardiopatie dotto-dipendenti.
Ad oggi la tecnica video-assitita si dimostra affidabile e garantisce
una rapida canalizzazione dei pazienti con precoce alimentazione.
Le complicanze sono sovrapponibili per tipo e frequenza a quelle del
trattamento chirurgico laparotomico.
In conclusione, il fascino del trattamento laparoscopico puro pare
ad oggi gravato da notevoli ed intuibili difficoltà tecniche intraoperatorie con tangibili ripercussioni post-operatorie. L’approccio videoassistito pare di scelta nel trattamento chirurgico alle steno-atresie
del piccolo intestino in quanto aggiunge, ai vantaggi della chirurgia
laparoscopica, la sicurezza diagnostica e terapeutica della tecnica
laparotomica classica.
a
b
c
d
Fundoplicatio laparoscopica e confezionamento
di gastrostomia video-assistita
In età neonatale è necessario procedere al confezionamento di
gastrostomia per patologie piuttosto polimorfe quali le neuropatie
severe, l’atresia esofagea nella suo forma “long gap” e le malformazioni vascolari, emangiomi o linfangiomi cervicali.
Figura 4 a, b, c, d.
Correzione video-assistita di una forma di atresia digiunale: a, identificazione laparoscopica del tratto atresico; b. esteriorizzazione dalla breccia
ombelicale; c. resezione-tapering ed anastomosi intestinale a cielo aperto; d. controllo a circa un mese di distanza dall’intervento: ottimi esiti
cicatriziali.
53
M. Lima et al.
La maggior parte delle gastrostomie sono finalizzate all’alimentazione
del paziente. In alcuni casi (neuropatie severe con importante reflusso
gastro-esofageo che tende a manifestarsi con ricorrenti polmoniti ab
ingestis) può essere necessario associare alla gastrostomia l’esecuzione di una fundoplicatio. La tecnica più frequentemente utilizzata è
la fundoplicatio sec. Nissen (manicotto gastrico a 360°).
Il confezionamento di una gastrostomia video-assistita può essere
realizzato con un solo trocar, utilizzando un’ottica operativa (ottica
dotata di un canale attraverso il quale è possibile inserire strumenti operativi), oppure con due trocar di cui il primo ombelicale per
l’ottica mentre il secondo, posizionato nella sede dove si intende
impiantare la gastrostomia, servirà per introdurre una pinza atraumatica con cui afferrare lo stomaco. Quindi, identificato ed afferrato
il punto esatto in cui si vuole eseguire la gastrostomia, si procede
all’esteriorizzazione del tratto di parete gastrica. Questa viene abboccata nel punto di mezzo tra parete costale sinistra ed ombelico,
eventualmente sede di accesso del secondo trocar. Una volta incisa
la parete gastrica, si posizionerà il presidio gastrostomico.
Ad oggi molti chirurghi pediatri preferiscono l’approccio laparoscopico alla tecnica di gastrostomia endoscopica percutanea (PEG)
che prevede la puntura transparietale ed il passaggio della sonda
nutrizionale mediante ausilio endoscopico endoluminale gastrico.
Questo perché la tecnica video-assistita garantisce la visualizzazione dell’intero quadrante superiore sinistro dell’addome ed in questo
modo è possibile guidare il corretto posizionamento del foro gastrostomico ed evitare di ledere strutture limitrofe (colon in primis).
L’esecuzione di una fundoplicatio laparoscopica sec. Nissen prevede
il posizionamento di 4 trocar, data la necessità di divaricare il fegato.
Si procede quindi alla mobilizzazione dell’esofago distale, alla preparazione della finestra retroesofagea, attraverso la quale si esegue
il passaggio di parte del fondo gastrico per la creazione del manicotto. Il fondo gastrico viene quindi fissato su se stesso creando un
manicotto a sciarpa intorno all’esofago (Fig. 5) (Sampson, 1996).
Trattamento laparoscopico del megacolon congenito agangliare
Il trattamento delle patologie benigne del colon è certamente uno
dei campi di applicazione delle moderne tecniche laparoscopiche in
età pediatrica; in questo ambito il megacolon congenito agangliare o
Morbo di Hirschsprung (HD) rappresenta, insieme alle malformazioni
ano-rettali, la patologia malformativa congenita in cui vi è indicazione al trattamento laparoscopico.
Il trattamento del HD prevede la resezione del tratto colico agangliare distale, l’anastomosi del “neoretto” all’ano, preservando lo sfintere anale ed evitando danni alle strutture genitourinarie.
Fino alla metà degli anni ’90 il trattamento chirurgico d’elezione del
HD consisteva nell’intervento, ideato nei primi anni ’60 da Soave (De
La Torre-Mondragòn, 1998), di retto-sigmoidectomia extramucosa con
abbassamento endorettale (pull-through) “asettico” del colon, seguito
da anastomosi colo-anale spontanea e resezione differita del cilindro
mucoso-colo-rettale abbassato ed esteriorizzato dal perineo.
Oggi le forme classiche di megacolon agangliare vengono trattate in
epoca neonatale, o comunque entro i primi mesi di vita, con un pullthrough extramucoso per via trans-anale eseguito in tempo unico (Georgeson, 1995). Tale approccio viene integrato da un tempo laparoscopico,
indispensabile nelle forme in cui il tratto agangliare superi il retto.
L’intervento prevede un tempo laparoscopico, durante il quale viene
eseguita la mobilizzazione del tratto colico da abbassare (Fig. 6 a),
ed un tempo perineale, in cui si esegue la dissezione del piano rettale per via extramucosa. La via extramucosa garantisce il risparmio
delle strutture nervose pelviche genitourinarie, delle fibre muscola-
a
b
Figura 5.
Fundoplicatio sec. Nissen laparoscopica.
54
Figura 6 a, b.
Approccio laparoscopico del Morbo di Hirschsprung. a, mobilizzazione
colica laparoscopica; b, anastomosi colo-anale.
Cosa c’è di nuovo a proposito di chirurgia mini-invasiva neonatale?
ri con relativa innervazione dello sfintere anale. Si procede quindi
al pull-through del colon sino a raggiungere la sede della biopsia
risultata sicuramente normogangliare (Fig. 6 b). Infine si realizza
l’anastomosi colo-anale. Al termine dell’intervento, l’esplorazione
laparoscopica assicura il corretto pull-through del colon, escludendo
torsioni dello stesso sul mesentere (Georgeson, 1995).
La chirurgia laparoscopica riveste oggi un ruolo fondamentale non
solo nel trattamento del HD ma ancora prima nella fase diagnostica di tale patologia. Infatti laparoscopicamente è possibile eseguire
biopsie coliche multiple e stabilire così anche il livello dell’aganglia.
Le biopsie coliche possono essere condotte per via laparoscopica
oppure video-assistita. È infatti possibile laparoscopicamente esteriorizzare tratti colici dalla breccia ombelicale e, a cielo aperto, procedere poi all’esecuzione di biopsie coliche extramucose.
I principali vantaggi delle metodiche mini-invasive, rispetto alla tecnica classica, sono la riduzione del dolore post-operatorio, la più
rapida ripresa della funzione intestinale e dell’alimentazione con una
significativa riduzione della degenza post-operatoria ed il minor sviluppo di aderenze post-operatorie.
I risultati in termini di regolarizzazione del ritmo defecatorio, di continenza e l’incidenza di complicanze intra e post-operatorie sono sovrapponibili al trattamento chirurgico “classico” (Lima, 2002; Lima, 2007).
Pull-through anorettale laparoscopicamente assistito
per la correzione delle malformazioni ano-rettali
Il trattamento di scelta per la correzione chirurgica delle malformazioni ano-rettali (MAR) alte ed intermedie è l’anorettoplastica sagittale posteriore proposto da De Vries e Peña e qualunque tecnica
venga proposta deve essere paragonata, per giustificarne l’utilizzo,
ai risultati dell’approccio sagittale posteriore.
Nel 2000 Georgeson descrisse una valida alternativa chirurgica:
l’anorettoplastica laparoscopicamente assistita (Georgeson, 2000).
Il pull-through anorettale video-assistito prevede un primo tempo
addominale laparoscopico volto ad isolare e liberare il moncone
rettale, previa legatura dell’eventuale fistola retto-uretrale o rettovescicale (Fig. 7 a). Il secondo tempo è perineale. Si procede quindi
a repertare ed abbassare il moncone isolato, che viene quindi aperto
ed anastomizzato alla cute della regione anale.
Grazie all’esecuzione della dissezione pelvica del retto per via laparoscopica, all’ausilio dell’elettromiostimolatore, non solo durante
il tempo perineale ma anche quello laparoscopico, questa metodica
permette di ridurre l’entità della dissezione perineale e di posizionare
il retto al centro del complesso muscolare (Fig. 7 b). Questo minimizza
il traumatismo sulle delicate strutture pelviche, portando un ulteriore
passo avanti nel trattamento di questa patologia (Lima, 2006).
Trattamento laparoscopico delle cisti ovariche in età neonatale
Le cisti ovariche sono la tumefazione ovarica più frequente nel neonato
e le loro possibili complicanze (torsione della cisti o dell’annesso corrispondente, rottura della cisti, sanguinamento intracistico o autoamputazione della cisti stessa), che possono insorgere anche in epoca prenatale, costituiscono una delle principali cause di intervento neonatale.
La maggior parte delle cisti ovariche è monolaterale e risultante
dall’iperstimolazione dei follicoli ovarici da parte delle gonadotropine fetali, degli estrogeni materni e delle gonadotropine corioniche
placentari. In accordo con la classificazione di Nussbaum possono essere divise sulla base dell’obiettività ecografia in semplici, ad
aspetto completamente anecogeno, e complicate, caratterizzate da
livelli fluido-corpuscolati, setti e parete ecogena.
La sempre più frequente diagnosi ecografica prenatale consente di
scegliere l’atteggiamento terapeutico appropriato. Qualora il diame-
a
b
Figura 7 a, b.
Approccio laparoscopico alle MAR. a, chiusura laparoscopica della fistola; b, elettrostimolazione musolare transcutanea per l’individuazione
del neoano.
tro sia inferiore ai 40 mm, in assenza di segni di complicanza, si
impronterà un atteggiamento conservativo basato sul monitoraggio
ecografico evolutivo; in caso di diametri superiori o segni di sopraggiunte complicanze verrà programmato il trattamento chirurgico.
Nell’ambito di questa strategia diagnostica e terapeutica la laparoscopia si pone a cavaliere, consentendo in sede di intervento di
conseguire un ulteriore approfondimento della diagnosi, escludendo
macroscopicamente la presenza di eventuali formazioni teratomatose dell’ovaio, e ponendosi quale trattamento terapeutico rispettoso
della mini-invasività soprattutto nel neonato.
La terapia prevede l’asportazione della cisti, tentando di preservare il
più possibile il parenchima ovarico. Pertanto si può procedere in caso di
forma semplice al solo svuotamento laparoscopicamente guidato della
cisti (intervento indicato soprattutto in caso di coesistente patologia
ovarica controlaterale). Nelle forme complicate è nella maggior parte
dei casi necessaria l’ovariectomia per il riscontro di stati di ischemia
avanzata con assenza totale di parenchima ovarico residuo; si può altrimenti procedere all’asportazione della cisti marsupializzandola.
55
M. Lima et al.
L’intervento di cistectomia o di ovariectomia può essere condotto con
approccio laparoscopico puro o video-assitito (Fig. 8). Quest’ultimo
prevede: l’esplorazione laparoscopica, l’esteriorizzazione della gonade
attraverso l’incisione ombelicale, previo svuotamento del contenuto
cistico attraverso puntura transparietale video-guidata, e l’esecuzione
a cielo aperto dell’intervento tradizionale (Van der Zee, 1995).
Conclusioni
La chirurgia mini-invasiva è in continuo sviluppo nelle sue applicazioni
neonatali. Malgrado la diffusione e costante crescita delle tecniche
toraco-laparoscopiche neonatali, la letteratura attuale, che sostiene
la sicurezza e l’efficacia di tale approccio, è basata su numeri relativamente piccoli di pazienti studiati. Nonostante ciò, sono attualmente
evidenti il guadagno all’approccio laparo-toracoscopico neonatale ma
anche i caratteri peculiari del neonato che devono essere riconosciuti
e rispettati per mantenere e migliorare i buoni risultati finora ottenuti.
Figura 8.
Trattamento chirurgico video-assistito in un caso di cisti ovarica complicata.
Box di orientamento
• La chirurgia neonatale negli ultimi 30 anni si è distinta per il guadagno in sopravvivenza ma soprattutto in guarigione, portando l’attenzione del
chirurgo ad altre problematiche: la ricerca di un approccio mini-invasivo anche nel trattamento di patologie neonatali. Le innovazioni tecniche
hanno reso le procedure endoscopiche effettuabili e sicure anche in epoca neonatale. Ad oggi l’approccio mini-invasivo si estende sia alla patologia
toracica neonatale che a quella addominale.
• L’approccio toracoscopico dimostra numerosi vantaggi estetici ma soprattutto funzionali rispetto alle procedure condotte con la classica toracotomia. La toracoscopia si è dimostrata vantaggiosa non solo per una migliore visione dei distretti anatomici soprattutto mediastinici ma anche nel
decorso post-operatorio in termini di minore dolore e precoce ripresa della funzionalità respiratoria. Ad oggi l’approccio toracoscopico in epoca
neonatale può assumere non solo finalità diagnostiche, ma anche terapeutiche in caso di malformazioni adenomatoide cistica polmonare a manifestazione neonatale e per la correzione dell’atresia esofagea.
• Analoghi vantaggi sono da attribuire alle procedure laparoscopiche, soprattutto in termini di precoce risoluzione dell’ileo paralitico. Le steno-atresie
del piccolo intestino, il megacolon congenito agangliare, le malformazioni ano-rettali alte e le cisti ovariche vengono attualmente trattate routinariamente per via laparoscopica.
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** Gli Autori descrivono l’approccio laparoscopico nel trattamento delle cisti ovariche neonatali; il trattamento laparoscopico si dimostra ben tollerato in età neonatale e permette di
superare la controversia tra l’atteggiamento conservativo ed il precoce trattamento chirurgico. Infatti l’esplorazione laparoscopica rappresenta ad oggi un fondamentale potenziamento diagnostico, permettendo un buon passaggio a misure terapeutiche se necessario.
*Yamatacha, Koga H, Shimotakahara A, et al. Laparoscopy-assisted surgery for prenatally diagnosed small bowel atresia: simple, safe and virtually scar free. J Pediatr
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Corrispondenza
Mario Lima, Clinica Chirurgica Pediatrica, Università di Bologna, via Massarenti 11, 40138 Bologna. Tel. +39 051 6364985 – 390689. Fax +39 0516363657. E-mail: [email protected]
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Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 57-61
ChIRURGIA NeoNATALe
Cosa c’è di nuovo a proposito di ernia
diaframmatica congenita?
Pietro Bagolan, Francesco Morini
UOC Chirurgia Neonatale, IRCCS Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, Roma
Riassunto
L’ernia diaframmatica congenita è una patologia che presenta ancora numerose controversie sia dal punto di vista patogenetico che di trattamento. Nuove
conoscenze, acquisite dalla fine degli anni ’80 a oggi sotto il profilo più specificamente diagnostico, terapeutico e di outcome, hanno portato in alcuni
specifici settori a rivoluzionare l’approccio al feto ed al neonato affetto. Obiettivo di quest’articolo è di portare all’attenzione le più recenti conoscenze in
questo affascinante e controverso capitolo della neonatologia e pediatria.
Summary
Congenital diaphragmatic hernia is a still controversial disorder, from pathogenesis to treatment and outcome. In the last 30 years, new concepts have been
introduced in the fields of congenital diaphragmatic hernia pathogenesis, diagnosis, treatment and follow-up. Aim of this review is to highlight the most
recent advances in this controversial and intriguing chapter of neonatology and pediatrics.
L’ernia diaframmatica congenita (EDC) è stata descritta per la prima
volta nel 1679 da Riverius, definita e classificata nei suoi diversi tipi
quasi cento anni dopo da Morgagni, nel 1761, accuratamente descritta nella sua forma anatomopatologica più classica da Bochdalek
nel diciannovesimo secolo, trattata con successo in un bambino al
di sotto delle 24 ore di vita nel 1946. Numerose nuove conoscenze,
acquisite dalla fine degli anni ’80 a oggi sotto il profilo più specificamente diagnostico, terapeutico e di outcome, hanno portato in alcuni
specifici settori a rivoluzionare l’approccio al feto ed al neonato affetto. Obbiettivo di questo articolo è quello di portare all’attenzione le
più recenti conoscenze in questo affascinante e controverso capitolo
della neonatologia e pediatria.
È questa l’ipotesi della ipotesi dual hit secondo la quale la patogenesi
è legata ad un doppio insulto nel corso dello sviluppo: il primo (molto
precoce, antecedente alla chiusura completa del diaframma) dovuta ad
una non precisata noxa patogena ambientale su entrambi i polmoni durante la delicata fase del branching; il secondo, tardivo, dovuto all’effetto
meccanico compressivo sul polmone omolaterale all’ernia (Fig. 1).
Aspetti genetici
Nonostante l’esatta eziopatogenesi dell’ernia diaframmatica congenita (EDC) rimanga ancora sconosciuta, è sempre più evidente che
Etiopatogenesi
La gravità della EDC è legata alla presenza e dimensione del difetto ma anche all’ipoplasia polmonare e all’ipertensione polmonare persistente, vere responsabili dell’alta mortalità nei casi con
forma severa di malattia. Non è ancora definito, a oggi, l’evento
patogenetico responsabile del difetto diaframmatico e dell’ipoplasia polmonare. Classicamente si ritiene che, una volta stabilitosi il difetto diaframmatico, l’ipoplasia segua come fenomeno
secondario dovuto all’effetto compressivo dei visceri erniati sul
polmone del lato affetto.
Recenti lavori, sul modello sperimentale di EDC basato sulla somministrazione di nitrofene (potente erbicida) sollevano l’ipotesi
secondo la quale il danno iniziale sarebbe rappresentato dall’ipoplasia polmonare mentre l’ernia sarebbe successiva ed eventualmente aggravante. Dopo esposizione al nitrofene infatti, 100%
degli animali esposti presentano ipoplasia polmonare bilaterale
(di grado variabile a seconda della dose e del tempo di esposizione) mentre una percentuale inferiore presenta l’ernia diaframmatica. Quanto osservato farebbe concludere che l’ipoplasia
polmonare non solo è più frequente ma anche antecedente allo
stabilirsi dell’ernia. Successivamente la crescita, già anomala,
del polmone omolaterale sarebbe ulteriormente penalizzata per
la compressione.
Figura 1.
Ipotesi patogenetica del dual hit per l’ernia diaframmatica congenita. 1: primo insulto: fattori genetici ed ambientali inducono l’ipoplasia polmonare in
particolare sul branching bronchiale e vascolare dei polmoni. 2: secondo insulto: difetto erniario ed effetto compressivo sul polmone in fase di sviluppo.
(da Keijzer, Liu J, Deimling J, et al. Dual-hit hypothesis explains pulmonary hypoplasia in the
nitrofen model of congenital diaphragmatic hernia. Am J Pathol 2000;156:1299-306, mod.)
57
P. Bagolan, F. Morini
una componente genetica svolge un ruolo nel suo sviluppo. Esistono
in tal senso diverse linee di evidenza, qui di seguito ricordate (Holder,
2007).
L’EDC si associa spesso ad altre anomalie congenite, il cui pattern
ricorrente suggerisce una sindrome genetica. In alcune di queste
sindromi, come quella di Donnai-Barrow o quella di Fryns, l’EDC
è una caratteristica cardinale della sindrome. In altre sindromi
(Beckwith-Wiedemann, Simpson-Golabi-Behemel) la prevalenza di
EDC è minore, ma comunque superiore a quella riportata nella popolazione generale. È importante che il pediatra conosca la presenza e
le caratteristiche di queste sindromi genetiche, dato l’ovvio impatto
sulla prognosi e sul counselling.
Studi recenti suggeriscono che alcune forme di aneuploidia si associano comunemente con l’EDC (trisomie 13, 18, 21, e la sindrome
di Turner). Esistono regioni che appaiono maggiormente coinvolte.
Sono frequentemente riportate delezioni a carico di 1q41-q42, 3q22,
4p16, 8p23, 8q22, 11p13 e 15q26. Inoltre, sono state descritte duplicazioni ricorrenti a carico di 1q25-q31.2, 4q31, 22pter-q11 e la
tetrasomia 12q (sindrome di Pallister-Killian). Queste regioni potrebbero contenere geni la cui aploinsufficienza o aumentata espressione è causa primitiva o predisponente dello sviluppo dell’EDC.
Studi recenti su modello animale e su pazienti affetti da EDC suggeriscono infine che alcuni geni possono svolgere un ruolo importante
nella patogenesi dell’EDC (COUP-TFII, WT1).
Gestione prenatale
È compito del team, compreso il neonatologo, inquadrare il caso specifico, comunicare la diagnosi, informare sulle diverse opzioni terapeutiche, accompagnare la coppia lungo il decorso della gravidanza, porre
indicazione a ulteriori indagini diagnostiche ed eventuali atti terapeutici
in utero, pianificare tempi e modalità del parto, assistere il feto-neonato
nell’intero arco del suo delicato percorso perinatale, assicurare il follow
up a distanza (de Buys Roessingh, 2009; Aite, 2006).
La percentuale dei casi con diagnosi prenatale varia tra il 40% e
il 60%. Nella nostra personale esperienza, oltre l’80% dei casi è
riscontrata in utero, grazie probabilmente a una “rete” e un programma definiti (Bagolan, 2004). I segni ecografici sono lo shift
del mediastino, e la presenza di anse intestinali ripiene di liquido
nell’emitorace affetto. L’ernia diaframmatica destra può essere più
difficile da riconoscere, data l’ecogenicità molto simile tra fegato e
polmone. È importante inquadrare la severità del caso attraverso
lo studio degli indicatori a disposizione, in particolare l’LHR (lung
to head ratio ossia rapporto tra area del polmone del lato sano e
circonferenza cranica) e l’erniazione del fegato in torace.
Trattamento in utero
Il trattamento prenatale dell’EDC e dell’ipoplasia polmonare è oggi
una realtà clinica in una selezionata categoria di bambini con EDC.
La possibilità di selezionare i casi a prognosi peggiore è il prerequisito fondamentale per il trattamento in utero. I criteri cui attualmente
viene fatto riferimento sono: 1) liver up (fegato in torace); 2) LHR;
3) O/E LHR (Observed/Expected LHR: rapporto tra LHR osservato
e quello atteso per l’epoca gestazionale). Limiti della misurazione
dell’LHR sono di essere operatore-dipendente e la sua variazione
con l’età gestazionale. Per questo è oggi calcolato il rapporto tra LHR
osservato nel paziente e quello atteso per la sua età gestazionale.
La sopravvivenza aumenta con l’aumentare dell’O/E LHR passando
da 0% di sopravvivenza (nei casi con valore osservato inferiore al
15% dell’atteso) a oltre l’80% di sopravvivenza (nei casi con valore
osservato ≥ al 50% dell’atteso) (Donè, 2008).
58
La storia del trattamento in utero della EDC parte nel 1984 con i lavori
del gruppo di Harrison. Il primo caso trattato con successo è del 1990.
L’approccio era open e richiedeva la laparotomia e l’isterotomia della
madre, l’esteriorizzazione del feto con laparo/toracotomia e la riparazione chirurgica del difetto diaframmatico. La tecnica ha mostrato
nel tempo i suoi limiti e dunque è stata abbandonata. Nuova speranza terapeutica prenatale è nata dall’osservazione che l’ostruzione
tracheale (OT) induce iperplasia del polmone fetale, premessa per il
possibile superamento della grave ipoplasia polmonare sempre riscontrata nelle forme fatali di EDC. L’effetto favorevole dell’ostruzione
tracheale è stato ampiamente studiato nell’animale: 1) l’OT accelera
la crescita del polmone con l’aumentato numero di alveoli e di vasi
capillari; 2) la crescita interessa anche l’albero vascolare, con effetto
positivo sull’ipertensione polmonare; 3) l’OT troppo prolungata riduce il numero di pneumociti di tipo II (con conseguente riduzione del
surfattante polmonare) e va dunque calibrata nella durata; 4) l’effetto
positivo della OT è influenzato anche da altri fattori (grado dello sviluppo polmonare, la durata dell’ostruzione, l’utilizzo di farmaci (steroidi
e terbutalina); 5) l’effetto iperplasizzante è probabilmente legato alla
tensione indotta sul parenchima polmonare.
La prima applicazione clinica della occlusione tracheale è del 1998.
I risultati non sono stati brillanti, soprattutto per l’aggressività della
tecnica. Ulteriore passo in avanti è stato ottenuto con le nuove tecnologie interventistiche mini invasive video ed eco assistite (FETENDO).
Le prime esperienze sono state tuttavia ancora deludenti (Golombeck,
2006) poiché rimaneva sostanzialmente irrisolto il problema della rottura precoce delle membrane, edema polmonare, parto pretermine,
lesioni placentari oltre che danni irreversibili sulla trachea ed il nervo
laringeo causati dalla clip metallica usata per “ostruire” la trachea.
Grazie ai progressi della tecnologia è oggi possibile ottenere la completa occlusione della trachea utilizzando un semplice palloncino che
viene portato, gonfiato e lasciato in trachea per il tempo necessario a
produrre i suoi effetti positivi di iperplasia polmonare (Deprest, 2005).
L’esperienza USA (FETENDO clip/baloon) è sintetizzata in uno
studio randomizzato (in cui sono stati inclusi i feti con liver up e
LHR < 1,4 misurato tra 22a e 27a sett di EG), condotto tra il 1999 ed
il 2001 (Harrison, 2003). Lo studio non ha dimostrato differenza significativa di sopravivenza tra il gruppo degli 11 pazienti trattati con
OT (mista con clip e palloncino) e quello dei 13 pazienti trattato con
metodica convenzionale alla nascita (77% e 73% rispettivamente).
È stato inoltre documentato un alto tasso di prematurità nel gruppo
trattato con OT (età media alla nascita 30,8 settimane).
L’esperienza EU (FETO) ha ottenuto risultati migliori sulla OT (solo
con palloncino) pur se attraverso uno studio multicentrico prospettico ma non randomizzato (sono stati inclusi feti a maggior rischio
con liver up ed LHR < 1,0, misurato tra 26 e 28 settimane di EG, in
EDC sinistra). Lo studio riporta una sopravvivenza significativamente migliore nei trattati con OT (57%, 28 casi) rispetto ai controlli
(11%, 27 casi). Ulteriore miglioramento della sopravvivenza è stata osservata nei casi in cui è stato possibile asportare il palloncino
prima della nascita (sopravvivenza del 67%) rispetto a quelli in cui
lo stesso è stato rimosso al momento del parto (sopravvivenza del
33%). Positivo è stato anche il risultato in termini di riduzione degli
effetti collaterali sul feto, di buona tocolisi e di conseguente miglioramento del rischio di parto pretermine (età gestazionale media di
33,5 e fino a 37 settimane negli ultimi 20 casi riportati). La tecnica di
occlusione con palloncino è oggi eseguibile con una singola cannula
di 10Fr (3,5 mm) di diametro e un fetoscopio di 1,2 mm, in anestesia loco-regionale e senza laparotomia. Mediamente la procedura
necessita oggi di 20 minuti. La donna è riferita al centro europeo
(Lovanio, Londra, Barcellona), sottoposta alla procedura mininvasiva
Cosa c’è di nuovo a proposito di ernia diaframmatica congenita?
(in anestesia epidurale) tra la 26a e 28a sett di EG. Il plug tracheale
è lasciato in sede per circa 4-6 settimane. Trascorso il periodo si
procede, con tecnica analoga, alla rimozione dello stesso (intorno
alla 34a sett di EG) e la donna è rinviata, per il parto e le cure neonatali, nel paese di residenza, dove segue il protocollo di assistenza
neonatale intensiva e chirurgica.
Il ruolo del trattamento prenatale (FETO) nei casi di EDC può essere
sintetizzato come di seguito riportato:
• Indicazione convincente: ipoplasia polmonare “severa” (LHR
0,6-1). Sono bambini che, a fronte di una sopravvivenza attesa
≤ 15% con trattamento convenzionale alla nascita, migliorano la
stessa fino a ≥ 60% dopo trattamento FETO.
• Indicazione possibile: ipoplasia polmonare “intermedia” (> 1
LHR < 1,3). Hanno in Europa una sopravvivenza attesa di circa
il 60% se trattati convenzionalmente alla nascita, percentuale
tuttavia ben inferiore a quella osservata nei feti con LHR anche
inferiore (LHR 0,8-0,9) ma trattati con FETO. Questa osservazione ha rappresentato la premessa per l’avvio di uno studio
randomizzato (TOTAL trial).
• Indicazione incerta: ipoplasia estrema (LHR < 0,6) indicazione esistente ma con risultati ancora non convincenti. La FETO ha, infatti,
a oggi consentito di portare la sopravvivenza di questi casi dallo
0% (con trattamento convenzionale alla nascita) al solo 17% dopo
FETO. È verosimile che in questi casi vada avviato uno studio per
il trattamento prenatale molto precoce (< 24 sett.).
Gestione pre-operatoria e stabilizzazione
del paziente con EDC
È oggi generalmente ritenuto che i neonati affetti da EDC rappresentino una emergenza rianimatoria, più che chirurgica. Pertanto, è
tendenza comune di non operare questi pazienti in emergenza ma
solo dopo aver raggiunto una loro “stabilizzazione”.
La maggior parte dei pazienti con EDC presenta un grave distress respiratorio, ipossia (che a sua volta peggiora il quadro d’ipertensione
polmonare) e l’instaurarsi così di un circolo vizioso che conduce al
peggioramento progressivo degli scambi gassosi, fino alla impossibilità di ventilare e ossigenare il paziente. È stato riportato che l’intervento chirurgico precoce induce un peggioramento della compliance
respiratoria e degli scambi gassosi polmonari, mentre l’intervento
chirurgico dopo un periodo di “stabilizzazione”, migliora il trend di
sopravvivenza in questi bambini. La definizione di “stabilizzazione” è
ancora controversa in termini obbiettivi. La maggior parte degli autori
tende a dare a questa il significato di raggiungimento e mantenimento
di un equilibrio ventilatorio e perfusorio con parametri assistenziali
(ventilatori e farmacologici) non estremi. I parametri presi in considerazione per definire la raggiunta stabilità sono molteplici ed estremamente variabili e comprendono parametri ventilatori (PIP, Pressione di
picco inspiratorio; PEEP, Picco di pressione di fine espirazione; MAP,
pressione media respiratoria, FiO2, % di O2 nell’aria inspirata; FR, frequenza respiratoria), dati emogasanalitici (SaO2, PCO2, pH), parametri
pressori (Pressione Arteriosa Media); shunt destro-sinistro (differenza
di SaO2 rilevata al braccio sinistro rispetto al destro.
Altrettanto controverse sono in letteratura le procedure da porre
in atto per “stabilizzare” il paziente con EDC. La ventilazione convenzionale oggi si avvale della cosiddetta “ventilazione gentile” per
ridurre il danno iatrogeno (pneumotorace, sviluppo di danno polmonare ventilatore-dipendente, broncodisplasia polmonare) che contribuisce alla morbilità polmonare e alla mortalità dei pazienti con EDC.
Questa modalità ventilatoria è stata promossa da studi del 1985 di
Wung e collaboratori. Non esistono a oggi tuttavia studi randomizzati
e controllati che abbiano comprovato la superiorità di questo tipo di
ventilazione rispetto a quella che impiegava alte pressioni ventilatorie con lo scopo di indurre alcalosi e combattere così l’ipertensione polmonare. Con lo stesso principio volto a ridurre il barotrauma,
negli anni ’80 è stata introdotta la ventilazione ad alta frequenza, in
particolare oscillatoria (HFOV).
È in corso attualmente il primo studio randomizzato e controllato
mirato al confronto tra ventilazione convenzionale ed alta frequenza
oscillatoria esclusivamente nei neonati con EDC.
Nei primi anni ’70, è stato iniziato l’impiego dell’ossigenazione extracorporea di membrana (ECMO) nei neonati affetti da insufficienza respiratoria severa. Questa è una metodica complessa (e non scevra da gravi
complicanze). È generalmente utilizzata come trattamento “estremo” in
quei pazienti che non hanno risposto alla terapia convenzionale massimale. Esistono pochi studi randomizzati che analizzano i vantaggi (o gli
svantaggi) dell’ECMO nei neonati con EDC e insufficienza respiratoria
severa. Da questi non emerge un vantaggio significativo dell’ECMO.
Una recente revisione sistematica della letteratura, con meta-analisi
degli studi sia retrospettivi che prospettici pubblicati, ha tentato fornire
risposte più realistiche (Morini, 2006) e suggerisce (su complessivi 2043
pazienti) che l’ECMO potrebbe fornire un vantaggio in termini di sopravvivenza. Tuttavia, la metanalisi dei soli studi prospettici (complessivi 39
pazienti) porta a concludere che l’ECMO è in grado di fornire un miglior
risultato, solo nel breve termine, nei bambini con CDH.
La stabilizzazione del paziente si avvale anche di terapie farmacologiche volte al trattamento dell’ipertensione polmonare. Anche per
queste non esistono studi che ne dimostrino l’utilità in maniera univoca. Il farmaco più frequentemente utilizzato è l’ossido nitrico (NO)
per via inalatoria. L’NO è un potente vasodilatatore, attivo elettivamente sul letto vascolare polmonare, molto efficace nei neonati con
ipertensione polmonare persistente. Tuttavia, l’effetto si dimostra
solo transitorio nei neonati affetti da EDC.
Altri farmaci vasodilatatori sono utilizzati nell’ipertensione polmonare
(Mohseni-Bod, 2007) sono: 1) Sildenafil, inibitore della fosfodiesterasi
5, un enzima che inattiva il GMPc che è a sua volta fondamentale nella
funzione di una proteinchinasi (PKG) che attiva i canali del potassio calcio dipendente; 2) Bosentan, inibitore del recettore dell’endotelina-1. Il
network formato dall’endotelina-1 e dai suoi recettori svolge un ruolo fondamentale nella regolazione del tono vascolare, anche a livello
polmonare; 3) Epoprostenolo: analogo endovenoso della prostaciclina
(PGI2), stimola l’enzima adenilato ciclasi che aumenta la concentrazione del GMPc e quindi il suo effetto positivo sulla vasodilatazione polmonare. Esistono poche evidenze in letteratura sull’uso di questi farmaci e
sono soprattutto studi sull’impiego in combinazione.
La stabilizzazione dei pazienti con EDC in termini ventilatori e anche
perfusori polmonari rimane l’elemento chiave della cura di questi
pazienti. Tuttavia, ancora oggi, i livelli di evidenza per l’utilizzo delle
diverse metodiche e farmaci rimangono bassi e per lo più centrati
sull’esperienza del singolo centro. Ulteriore incertezza nasce dalla definizione di stabilità. È pertanto necessario che nel futuro la
ricerca clinica e di base rivolgano l’attenzione al disegno di studi,
possibilmente collaborativi e multicentrici, volti di stabilire l’utilità
obbiettiva delle diverse metodologie proposte.
Correzione chirurgica dell’EDC
Timing
La possibilità di differire l’intervento è stata studiata e confermata da lavori, compresi due trials randomizzati, che hanno messo a
59
P. Bagolan, F. Morini
confronto indicatori quali la sopravvivenza e la necessità di ricorrere all’ECMO tra casi operati in urgenza (< 12h) e quelli operati più
tardivamente (> 24 h o > 96h). Tutti concludono per l’assenza di
risultati significativamente migliori nei casi trattati in modo differito
rispetto a quelli trattati in urgenza. I pazienti più critici sono sottoposti all’intervento chirurgico nella stessa terapia intensiva neonatale (Bagolan, 2004; Betremieux, 2004; Lago, 2005) per evitare che
fattori negativi, quali lo stesso trasporto e la variazione della temperatura ambientale, possano interferire negativamente sulla precaria stabilità clinica. Non raramente inoltre la ventilazione ad alta
frequenza oscillatoria (HFOV), cui sono sottoposti, e non è possibile
nel blocco operatorio centrale poiché richiede ventilatori di norma
utilizzati solo presso la TIN.
Attualmente l’intervento chirurgico è pressoché ovunque differito
almeno di 24-48 h dalla nascita (e comunque a stabilizzazione ottenuta) per permettere un migliore equilibrio ventilatorio ed emodinamico del bambino. Non esistono tuttavia evidenze certe che questa
linea di condotta sia superiore rispetto a quella di una correzione
chirurgica in emergenza del difetto diaframmatico.
Approccio e tecnica
La tecnica utilizzata dal 90% dei chirurghi è quella di una incisione
sottocostale dal lato dell’ernia. Tutti i visceri erniati (intestino, colon,
stomaco, a volte anche fegato e rene) sono riportati in addome, manovra che permette di mettere bene in evidenza i margini del difetto
diaframmatico. Questo, dopo rimozione dell’eventuale sacco erniario presente nel 10%-20% dei casi, viene chiuso con punti staccati
di sutura non riassorbibile secondo tecniche differenti in base alle
dimensioni del difetto: il difetto piccolo è corretto mediante sutura
diretta dei margini muscolari; il difetto ampio richiede spesso il posizionamento di un patch artificiale (politetrafluoroetilene, polipropilene, dacron) (Bagolan, 2004) confezionato in modo da ristabilire una
cupola diaframmatica il più naturale possibile e non sotto tensione.
Sono allo studio materiali biologici cellulari ottenuti partendo da amniociti mesenchimali (Fuchs, 2004) e tecniche in grado di produrre
tessuto muscolare che forniscono ulteriori speranze per la disponibilità di materiali in grado di accrescersi con il paziente.
Una nota particolare va fatta per i casi con ernia diaframmatica recidiva, la cui incidenza varia tra il 14% ed il 22% (Rowe, 2003). Gli
studi dedicati a questo aspetto specifico sono pochi e risulta dunque
difficile giungere a conclusioni certe. Fattori di rischio di recidiva
sono stati indicati l’ernia destra, il difetto ampio, la necessità di ricorrere a patch o a ECMO, la mancata asportazione di un sacco erniario
eventualmente presente. Nei casi trattati con patch la percentuale di
recidiva è riportata intorno al 40%. La latenza tra intervento primario
e recidiva dell’EDC è in media di 4-8 mesi, con range tra 0,2 e 16
mesi. Il trattamento di una recidiva può essere differito nel tempo
quando il paziente sia pressoché asintomatico ovvero il rischio del
reintervento sia considerato superiore al beneficio della correzione
immediata. In questi casi il monitoraggio clinico e radiologico deve
essere molto attento.
Merita infine un breve cenno la tecnica mininvasiva, laparo o toracoscopica, recentemente proposta per la minoranza dei casi di
ernia a basso rischio vitale: stomaco in addome, minimo supporto
ventilatorio, assenza di ipertensione polmonare.
Il lavoro di gruppo del team è essenziale per stabilire tempistica e
strategia chirurgica. La stabilizzazione preoperatoria e la successiva
correzione in elezione sono divenuti atteggiamento comune nei centri
che principalmente si occupano di questa patologia. Nonostante que-
60
sto non esistono ancora certezze su quali siano i tempi ottimali per
l’approccio chirurgico. Con la possibilità di aumentare le percentuali di
sopravvivenza anche ai casi più gravi, ulteriore attenzione deve essere
posta al rischio di recidiva dell’ernia diaframmatica come parte integrante del follow up a distanza, essenziale e fortemente raccomandato
da tutti coloro che si dedicano al trattamento di questa delicata e grave anomalia congenita (Bagolan, 2007; de Buys Roessingh, 2009).
Prognosi a distanza
Con il miglioramento della sopravvivenza si è assistito a un parallelo aumento della morbilità a lungo termine. La maggior parte degli
adolescenti con pregressa EDC sono sostanzialmente sani. Tuttavia,
una proporzione significativa di pazienti presenta sequele polmonari
a lungo termine, che si ritiene dipendano dalla l’ipoplasia polmonare e dal grado di danno polmonare (Bagolan, 2007). I problemi
più frequentemente riscontrati nei pazienti con EDC a lungo termine sono la malattia polmonare cronica (circa il 50% dei pazienti),
le infezioni polmonari ricorrenti (circa il 40%), i sintomi asmatici e
asmatico-simili. Inoltre questi pazienti possono manifestare della
anomalie subcliniche di esami diagnostici dell’apparato respiratorio
quali disturbi del rapporto ventilazione/perfusione alla scintigrafia
polmonare, anomalie alla radiografia del torace, quali l’iperinflazione polmonare, ipertrasparenza, ridotta vascolarizzazione polmonare,
ernia ricorrente (circa 20% dei pazienti) (Dotta, 2007).
Altra possibile sequela a lungo termine è quella neurologica, con
possibile ritardo di sviluppo motorio, cognitivo o comportamentale.
La sordità neuro-sensoriale è presente con una prevalenza variabile,
ma riportata anche nel 100% di casistiche isolate. L’impiego dell’ECMO sembra essere un fattore facilitante. Altri potenziali responsabili
sono i farmaci ototossici, quali la furosemide, antibiotici aminoglicosidici e gli agenti di blocco neuro-muscolare. È interessante tuttavia notare che, in uno studio recente sulla patogenesi della sordità
neurosensoriale in pazienti con ernia diaframmatica, il solo fattore
indipendente e significativamente associato allo sviluppo di sordità è risultato essere l’età del paziente. Ciò suggerisce la possibile
predisposizione dei pazienti con ernia diaframmatica a una sordità
neurosensoriale a insorgenza tardiva e progressiva (Morini, 2008).
Anche gli aspetti gastrointestinali fanno parte delle possibili sequele
a distanza dei pazienti con EDC. Circa il 40% dei pazienti operati per
EDC sviluppa reflusso gastro-esofageo (RGE), e la metà di questi
necessita di un intervento chirurgico. Il fattore maggiormente predisponente allo sviluppo di RGE sembra essere la dimensione del
difetto diaframmatico e la necessità di utilizzare una placca sintetica per la sua correzione. Lo scarso accrescimento è riportato in
circa un terzo dei pazienti, nonostante un apporto calorico adeguato
(Bagolan, 2007). L’avversione orale al cibo, ulteriore problema a distanza riscontrato in questi bambini, è riportata in circa il 20% dei
pazienti. Altra possibile complicanza e sequele della sfera gastrointestinale è rappresentata dall’occlusione intestinale, dal volvolo (secondario alla malrotazione intestinale, frequente in questi pazienti),
dall’ischemia intestinale (secondaria alla compressione delle anse al
momento della riduzione in addome).
Infine, questi bambini possono sviluppare a distanza deformità della parete toracica (circa il 30%) e della colonna vertebrale (circa il
30%), soprattutto quando è stato necessario l’impiego di materiale
sintetico per la chiusura del difetto diaframmatico. La maggior parte di questi bambini non necessita tuttavia di intervento chirurgico
ortopedico.
Cosa c’è di nuovo a proposito di ernia diaframmatica congenita?
Box di orientamento
Nonostante gli innumerevoli sforzi volti a comprendere le diverse sfaccettature dei pazienti con EDC, dalla patogenesi al follow-up e nonostante l’introduzione di nuove modalità terapeutiche, siamo ancora lontani dall’aver risolto il problema EDC. Tuttavia, alcuni punti fermi sembrano poter esservi:
• è sempre più evidente che una componente genetica svolge un ruolo nel suo sviluppo.
• Degli innumerevoli potenziali indici prognostici prenatali, quelli che sembrano essere i più affidabili sono la presenza di fegato in torace, il LHR e il
LHR osservato in rapporto a quello teorico per l’età gestazionale.
• Il trattamento prenatale dell’EDC e dell’ipoplasia polmonare è oggi una realtà clinica in una selezionata categoria di bambini con EDC.
• L’EDC è una emergenza rianimatoria e non chirurgica. Pertanto, la stabilizzazione dei pazienti con EDC in termini ventilatori e anche perfusori polmonari rimane l’elemento chiave della loro cura.
• Attualmente l’intervento chirurgico è pressoché ovunque differito almeno di 24-48 h dalla nascita (e comunque a stabilizzazione ottenuta) per
permettere un migliore equilibrio ventilatorio ed emodinamico del bambino.
• Il lavoro di gruppo del team neonato logico-chirurgico è essenziale per stabilire tempistica e strategia chirurgica.
• Con la possibilità di aumentare le percentuali di sopravvivenza anche ai casi più gravi, l’evidenza di sequele a lungo termine e la loro non trascurabile prevalenza, si pone la necessità assoluta di un follow-up a lungo termine, multispecialistico e in grado di affrontare precocemente le manifestazioni cliniche a distanza, e di considerare con attenzione la qualità di vita, limitando e ricoveri ospedalieri allo stretto necessario e prevenendo
le complicanze.
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** Articolo che tratta in maniera approfondita le problematiche del follow-up a
distanza facendo un aggiornamento sulla prevalenza delle morbilità a distanza nei
pazienti con ernia diaframmatica congenital. Propone tra l’altro uno schema di followup a distanza per I diversi apparati-sistemi.
Bétrémieux P, Gaillot T, de la Pintière A, et al. Congenital diaphragmatic hernia: prenatal
diagnosis permits immediate intensive care with high survival rate in isolated cases.
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** Articolo interessante per chi volesse approfondire il tema del trattamento prenatale
dell’ernia diaframmatica congenita.
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and in utero therapy of isolated congenital diaphragmatic hernia. Prenatal Diagnosis
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Corrispondenza
Pietro Bagolan, UOC Chirurgia Neonatale, IRCCS Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, piazza S. Onofrio 4, 00165 Roma. Tel. +39 06 68592523.
Fax +39 06 68592513. E-mail: [email protected]
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Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 62-67
ChIRURGIA NeoNATALe
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite
necrotizzante?
Gian Battista Parigi, Lorenzo Bertolini*
Chirurgia Pediatrica, Università di Pavia e IRCCS Fondazione Policlinico “S. Matteo”, Pavia;
*
Scuola di Specializzazione in Chirurgia Pediatrica, Università di Pavia
Riassunto
Secondo la teoria patogenetica classica formulata nel 1969 da J.R.Lloyd, l’enterocolite necrotizzante nel neonato prematuro (NEC) dovrebbe essere
l’evento finale di un “cascata” che, partendo da un’ischemia intestinale “da stress”, induce alterazioni nella barriera mucosa intestinale con traslocazione
e colonizzazione batterica della parete, perforazione e morte. Nuove ipotesi patogenetiche vedono invece la NEC come il risultato finale di una serie di
squilibri indotti dall’immaturità del sistema gastrointestinale, delle funzioni digestive, della regolazione circolatoria, delle difese immunitarie del neonato.
La vascolarizzazione intestinale è alterata in seguito a sovvertimenti nel sistema di regolazione vascolare intrinseco ed estrinseco; la barriera mucosa è
alterata in conseguenza a squilibri fra segnali pro-infiammatori ed anti-infiammatori, che aggravano le lesioni della parete sino a determinarne la completa
distruzione; la flora intestinale è squilibrata in favore dei batteri patogeni tanto da alterare le difese immunitarie intestinali. L’evento scatenante della NEC
dovrebbe essere quindi un’apoptosi degli enterociti, seguita dallo scatenarsi della risposta infiammatoria come evento finale.
Le misure preventive della NEC includono l’allattamento al seno, il ricorso a probiotici e ad antibiotici, l’incremento delle difese immunitarie mediante
supplementazione di IgA, l’infusione di EGF, GCSF e EPO ricombinante per ostacolare l’apoptosi e la somministrazione di L-arginina e/ o glutammina per
migliorare la regolazione del flusso vascolare intestinale.
Le possibili opzioni chirurgiche includono la laparotomia con resezione del segmento necrotico seguita da enterotomia o anastomosi primaria, oppure il
drenaggio peritoneale primario (PPD) in anestesia locale, oppure la tecnica clip & drop. Il PPD ha guadagnato popolarità come trattamento risolutivo della
NEC perforata, benché recenti lavori abbiano posto in dubbio questo approccio in favore della classica laparotomia.
Summary
According to the original pathogenetic theory formulated in 1969 by J.R.Lloyd, necrotizing enterocolitis (NEC) in the premature newborn should be the
final event of a “cascade” involving intestinal ischemia, alterations of mucosal barrier, bacterial translocation and colonisation, perforation and death.
New pathogenetic hypotheses describe NEC as the final common result of a series of imbalanced processes linked to the immaturity of GI tract motility,
digestive ability, circulatory regulation, barrier function and immune defence of the newborn. Intestinal vascularisation is imbalanced due to an alteration
in the intrinsic and extrinsic vascular regulation system; mucosal barrier is altered due to an imbalance between pro-inflammatory and anti-inflammatory
signalling, contributing to intestinal damage breaking the intestinal barrier; intestinal flora is heavily altered, thus disarranging intestinal immune defences
(microbial-epithelial cross-talk). Initiating step in NEC should therefore be intestinal epithelial apoptosis, followed by inflammation as the final step.
Prevention of NEC includes breast feeding, enteral treatment with probiotics and antibiotic prophylaxis, IgA supplementation, infusion of EGF, GCSF and
recombinant EPO to oppose apoptosis and infusion of L-arginine and/or glutamine to improve regulation of the intestinal vascular flow.
Surgical options include laparotomy with resection of the necrotic segment followed by enterostomy or primary anastomosis, or primary peritoneal drainage
(PPD) in local anaesthesia, or “clip & drop” technique. PPD gained popularity as a sole treatment of the perforated NEC, although recent reports questioned
this approach in favour of the formal laparotomy followed either by enterostomy or primary anastomosis.
Cosa sappiamo dal passato
La prima descrizione della patologia oggi conosciuta come enterocolite necrotizzante neonatale (NEC) venne pubblicata nel 1944
dal noto pediatra svizzero Heinrich Willi, di Basilea. La sua casistica
constava di 62 neonati, tutti deceduti per perforazione intestinale;
non venne avanzata alcuna ipotesi eziopatogenetica.
Venticinque anni dopo, nel febbraio 1969, James R. Lloyd – chirurgo
pediatra all’Harper Children’s Hospital di Detroit, Michigan – dopo aver
osservato che le cause della perforazione gastrointestinale nel neonato “continuano ad essere avvolte nel mistero” respinse la definizione
di “spontaneo” (che come l’analogo termine “idiopatico” maschera
elegantemente la nostra assoluta ignoranza sulle reali cause sottese
ad un evento patologico) ed avanzò per primo l’ipotesi che la perforazione intestinale in neonati solitamente prematuri e sottoposti a procedure rianimatorie più o meno complesse e ripetute fosse legata a
meccanismi vascolari riconducibili al cosiddetto diving reflex (riflesso
d’immersione o “dei pescatori di perle”), per cui all’atto dell’immersione il flusso ematico viene deviato dai distretti che meglio possono tol-
62
lerare un’ipossia prolungata (mesenterico, renale e periferico) a quelli
più suscettibili di danni ipossici (cerebrale e cardiaco).
Applicando il concetto del diving reflex alla distribuzione ematica
di un prematuro sottoposto a manovre rianimatorie, Lloyd dedusse
che “…le perforazioni del tratto gastrointestinale sono il risultato di
una necrosi ischemica correlata ad un meccanismo di difesa contro
l’asfissia caratterizzato da un’ischemia circolatoria selettiva che inizia ad attivarsi in presenza di stress, ipossia o shock” (Lloyd, 1969).
La nuova ipotesi venne in seguito perfezionata, attribuendo il meccanismo
della perforazione non alla sola ischemia in quanto tale, ma all’indebolimento della barriera mucosa che l’ischemia determinerebbe, con conseguente traslocazione batterica, colonizzazione della parete intestinale
(confermata radiologicamente dallo sviluppo di pneumatosi – Fig. 1), necrosi, perforazione e morte: un meccanismo eziopatogenetico unidirezionale “a cascata” che sino a pochi anni fa venne accettato non solo come
plausibile ma anche come esaustivo di tutti gli aspetti del problema.
L’esperienza clinica via via accumulata nella gestione e nello studio dei
neonati affetti da NEC indusse però negli ultimi tempi a formulare alcune
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite necrotizzante?
Figura 1.
Rx addome diretto
in neonato con NEC
stadio II-B – Addome disteso; evidenti
segni di pneumatosi
intestinale diffusa, in
particolare ai quadranti di sinistra.
domande cui l’ipotesi “ischemica” non poteva rispondere: perché non si
è mai verificata una NEC in utero, ad onta dei possibili insulti ischemici
fetali alla base ad es. delle atresie intestinali? Perché quanto più grave è
la prematurità, tanto più lungo è l’intervallo prima dell’esordio dei sintomi
di NEC? Perché il segmento intestinale più frequentemente interessato è
l’ileo distale, mentre il “riflesso d’immersione” colpisce indifferentemente
tutto l’intestino? Perché talvolta si verificano delle “microepidemie”
di NEC, se la patogenesi è solo su base ischemica? Perché i neonati
allattati al seno sono meno proni a sviluppare una NEC?
Si rese quindi evidente la necessità di rimettere radicalmente in discussione quanto prima ritenuto come assodato. Come Lloyd nel 1969
si era proposto”… to dispel the myth of spontaneous perforation…”,
così trentasei anni dopo Neu – a mo’ di nemesi storica – respinge
la teoria del diving reflex con lo stesso termine, demolendo “… the
‘myth’ of asphyxia and hypoxia-ischemia as primary causes of necrotizing enterocolitis” (Neu, 2005); lo stesso Autore conclude mestamente che “… necrotizing enterocolitis is one of the most enigmatic
diseases in the fields of neonatology and pediatric surgery.”
Le più recenti nozioni in tema di patogenesi
L’attenzione è stata sinora posta essenzialmente sul primo meccanismo, cui sono da attribuire tutte le modificazioni nella distribuzione
dell’apporto ematico derivanti da fattori esterni alla parete intestinale,
in primis quelli conseguenti al “diving reflex”. Ancora ad alterazioni nel
meccanismo estrinseco sono probabilmente da ascrivere l’aumentata
incidenza di NEC nei neonati da madri che hanno fatto uso di cocaina in gravidanza (effetto vasocostrittore mediato dalla norepinefrina)
(Kilic et al., 2000) e nei prematuri affetti da cardiopatie congenite
(Pickard et al., 2009). Nell’ambito dei meccanismi “estrinseci” infine può essere in qualche modo ricondotta una particolare situazione
anatomica che probabilmente giustifica l’aumentata localizzazione di
NEC a carico dell’ileo distale-cieco. Quest’area è infatti stata definita
come uno “spartiacque” fra l’area vascolarizzata dall’arteria mesenterica superiore tramite l’arcata di Riolano e quella irrorata da rami
provenienti dalla mesenterica inferiore; i circoli anastomotici in questa
sede sono meno ricchi e sviluppati che negli altri segmenti, e pertanto
quest’area sarebbe più prona a subire insulti ischemici (Fig. 2).
Sembra invece sia il secondo meccanismo, quello intrinseco, ad essere maggiormente chiamato in causa nello sviluppo di una NEC. Il flusso vascolare a livello della parete intestinale è infatti regolato da un’interazione dinamica tra stimolo di costrizione mediato da endotelina-1
(ET-1) - un peptide vasoattivo e mitogenico prodotto principalmente
dall’endotelio - e stimolo di dilatazione mediato da ossido nitrico (NO),
il più potente vasodilatatore nella circolazione intestinale neonatale.
Nella tipica lesione della parete intestinale della NEC la vasocostrizione ha sicuramente un ruolo patogeneticamente di rilievo; quanto
non risulta ancora ben chiaro è se il fattore patogenetico primario sia
un’ischemia con conseguente lesione della mucosa da cui il rilascio
di citochine infiammatorie, od il processo opposto per cui uno stato
infiammatorio determinerebbe il rilascio di citochine da cui vasocostrizione e lesione della mucosa (Nowicki, 2005).
Alterazioni nella barriera mucosa
La mucosa intestinale è composta da un singolo strato di cellule
epiteliali che costituiscono una sorta di interfaccia fra i contenuti
tossici endoluminali e le strutture subepiteliali. Tale barriera blocca
la traslocazione dei batteri dal lume intestinale alla circolazione attraverso barriere anatomiche e difese biochimiche ed immunitarie.
Le barriere anatomiche sono costituite da uno spesso strato di mucina che ricopre le cellule strettamente interconnesse fra loro (tight
Secondo i più recenti studi l’evolversi della NEC, anziché essere l’ultimo evento di un meccanismo “a cascata” scatenato da un fenomeno ipossico-ischemico, dovrebbe essere visto come il risultato finale
comune ad una serie di complesse interazioni patologiche derivanti
dall’immaturità di numerosi organi ed apparati, tipica dell’età neonatale. Al fine di presentare schematicamente questo intricato quadro
eziopatogenetico entro un modello già noto e in qualche modo familiare al lettore, verranno riproposti i tre momenti causali un tempo
considerati “classici” nel determinismo della NEC, e cioè l’alterazione nella vascolarizzazione dell’intestino, l’alterazione nella barriera
mucosa e l’alterazione nella flora batterica endoluminale con conseguente traslocazione intraparietale, sottolineando però a chiare
lettere come questi tre aspetti non debbano essere considerati l’uno
conseguente cronologicamente e etiologicamente all’altro (modello
“lineare”), ma piuttosto come interagenti in una perversa sinergia
esitante nella perforazione intestinale (modello “circolare”).
Alterazioni nella vascolarizzazione intestinale
La vascolarizzazione intestinale è controllata da due meccanismi,
uno estrinseco e l’altro intrinseco.
Figura 2.
Segmento intestinale resecato in NEC stadio III-B: le lesioni più marcate sono a carico dell’ileo distale, francamente necrotico, del cieco e
dell’ascendente. È riconoscibile in basso a sinistra l’appendice.
63
G.B. Parigi, L. Bertolini
junctions); la netta diminuzione nella produzione di mucina che si
verifica nel prematuro determina un aumento della permeabilità intestinale e della adesività batterica, il che facilita la traslocazione dei
batteri patogeni dal lume alla parete intestinale.
Le difese biochimiche ed immunitarie sono costituite dai prodotti
delle cellule di Paneth (lisozima, fosfolipasi A2, defensina α e β,
catelicidine). Nel prematuro le cellule del Paneth sono nettamente
diminuite, e quindi è pure diminuita la produzione di defensina, peptide con azione microbicida deputato al controllo della popolazione
batterica endoluminale (Lin et al., 2008).
Il neonato, in particolar modo se prematuro, non è in grado di regolare adeguatamente la risposta infiammatoria dell’intestino, con
esiti più lesivi che protettivi. Uno squilibrio quindi tra emissione di
segnali pro-infiammatori e anti-infiammatori da parte di componenti intrinseci alla parete intestinale contribuisce al danno che
porta alla distruzione della parete stessa: se infatti predomina l’attività proinfiammatoria su quella antiinfiammatoria si verifica una
risposta esagerata che determina rilascio di ossidanti e di proteasi
che danneggiano chimicamente la barriera mucosa. Nel caso della
NEC vengono attivati una serie di mediatori dell’infiammazione,
quali il Tumor Necrosis Factor Alpha (TNF-α) ed il Platelet Activating Factor (PAF), che determinano lo scatenamento dell’apoptosi
nelle cellule mucose (Thompson et al., 2008); è stato inoltre dimostrato il rilascio abnorme di citochine infiammatorie (IL-6, IL-8,
IL-12, IL-18) (Caplan et al., 2005).
I danni indotti dall’esagerata risposta infiammatoria sono ulteriormente aggravati da un indebolimento dei meccanismi di protezione
della barriera mucosa, sempre legato all’immaturità del neonato, che
dovrebbero essere invece fisiologicamente presenti e mediati da:
Epithelial Grow Factor (EGF) ed heparin-binding EGF (HB-EGF), fattori
antiapoptosi ed antagonisti delle citochine proinfiammatorie IL-6 ed
IL-8; citochine antiinfiammatorie (IL-10 e IL-12); eritropoietina (EPO),
antagonista dell’ NO e dell’apoptosi; fattore di stimolazione dei granulociti (GCSF), pure antagonista dell’apoptosi (Clark et al., 2005).
Un’ulteriore possibile fonte di lesioni della barriera mucosa, recentemente studiata in un modello di NEC nel ratto, chiama in causa alterazioni nel ciclo enteroepatico degli acidi biliari (AB). Questi vengono
assorbiti dalla mucosa dell’ileo distale (una delle sedi preferite di localizzazione della NEC) e reinfusi nella circolazione portale mediante
un complesso meccanismo mediato da diverse sostanze: a) per primo interviene l’ABST (apical sodium dependent bile acid transporter) che trasporta gli AB dal lume intestinale all’interno dell’enterocita; b) qui gli AB si legano ad una proteina, l’ileal bile acid binding
protein (IBABP), che li trasporta all’altra estremità dell’enterocita; c)
da qui infine gli AB vengono immessi nella circolazione portale per
azione dell’organic solute transporter (OST α e β). Quando inizia a
svilupparsi una NEC, il correlato aumento di TNF-α incrementa la
produzione degli AB e deprime invece quella dell’IBABP, così che
l’enterocita non è più capace di liberarsi dalla quantità di AB che
vanno accumulandosi nel suo interno: in breve tempo quindi la citolisi determinata dall’eccesso di AB distrugge non solo l’enterocita
ma anche la barriera mucosa, inducendo in tal modo l’innescarsi
della cascata infiammatoria – apoptotica che scatena una NEC conclamata (Halpern et al., 2008).
Alterazioni nella composizione della flora intestinale
La NEC non si verifica “in utero”, il che implica la necessaria ipotesi di
un coinvolgimento dei batteri intestinali nella sua patogenesi. Inoltre,
sebbene la malattia sia solitamente sporadica, se ne sono occasionalmente osservate “epidemie” nel contesto di una TIN, il che suggerisce l’esistenza di un fattore trasmissibile coinvolto nel determinismo
64
dell’evento, ipotesi ulteriormente corroborata dal fatto che in questi
casi un agente infettivo comune viene solitamente isolato dalle feci,
dal sangue e dal liquido peritoneale (Boccia et al., 2001).
I nati pretermine che assumono latte artificiale e che vengono trattati precocemente con antibiotici a largo spettro sono esposti alla flora
patologica dell’ambiente ospedaliero (Bacteroides, Clostridium perfrigens, Enterobacteriaceae) che determina un’eccessiva crescita
batterica e un’anormale colonizzazione del tratto intestinale, con un
totale sovvertimento del “microbial-epithelial cross talk” fisiologico.
Un nuovo possibile modello eziopatogenetico
Alla luce di così numerosi e mutuamente interagenti meccanismi
eziologici, la patogenesi della NEC non può più essere collegata
al modello a cascata lineare di Lloyd, ma piuttosto a un modello
non-lineare, interattivo, circolare e multifattoriale, influenzato anche
dall’immaturità della risposta immunitaria del neonato.
Un neonato prematuro ricoverato in TIN è esposto alla flora potenzialmente patogena nosocomiale, e spesso presenta episodi di apnea
e bradicardia. Antibiotici a largo spettro vengono abitualmente somministrati a scopo profilattico, con abbattimento della flora microbica intestinale anaerobia, che normalmente funge da barriera alla
crescita e colonizzazione di batteri Gram negativi potenzialmente
patogeni. Al posto del latte materno vengono spesso somministrati
latti in formula, che forniscono un substrato per la crescita batterica
e non contengono tutti i fattori protettivi posseduti dal latte materno. La scarsa peristalsi del tratto gastroenterico favorisce inoltre la
crescita di batteri patogeni: in base alla carica e virulenza di questi
ultimi e alla presenza o assenza di danno mucosale, i microorganismi attraversano la barriera mucosa. La scarsità delle difese immunitarie specifiche e non-specifiche, unitamente a episodi di riduzione della perfusione ematica della mucosa con conseguente suo
danneggiamento, riduce significativamente le difese antimicrobiche.
Vengono così prodotte citochine pro-infiammatorie che, attivando un
processo flogistico locale, aumentano la permeabilità della mucosa
permettendo in tal modo la traslocazione di microorganismi e dei
loro prodotti tossici, con ulteriore danno mucosale fino alla necrosi a
tutto spessore e alla perforazione (Grave et al., 2007).
È possibile prevenire la NEC?
Parametri clinici predittivi
Sono da tempo noti alcuni parametri clinici predittivi della NEC: il rischio
di sviluppare la malattia NEC aumenta di 13 volte nei prematuri in cui
vi è necessità di ricorrere ad una ventilazione assistita, di 6,4 volte in
quelli in cui non si è fatto ricorso a nutrizione entrale con latte materno,
di 28,6 volte in quelli in cui entrambi i fattori sono presenti rispetto a
quelli in cui questi fattori non si sono verificati (Gregory, 2008). Logica
conseguenza di queste osservazioni è stato il tentativo di identificare
una serie di parametri numerici che consentissero di prevedere in modo
statisticamente attendibile la possibile evoluzione di una NEC. È stato a
questo fine condotto un raffinato studio statistico su 473 neonati affetti
da pre-NEC o NEC (Moss et al., 2008), che ha consentito di identificare
all’analisi univariata 12 parametri predittivi per la malattia, presentati in
Tabella I in ordine di significatività statistica (valore della p).
L’analisi multivariata dei parametri indagati non ha invece permesso
di formulare un modello statistico capace di predire con certezza
l’evoluzione di una NEC: paradossalmente, il dato più interessante
emerso dallo studio è che la maggioranza delle variabili un tempo
ritenute significative perde in realtà di significato una volta sottoposta ad un rigoroso studio statistico prospettico (Tab. II).
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite necrotizzante?
Tabella I.
Parametri clinici predittivi per NEC (da Moss et al., 2008, mod.).
Distensione della parete addominale associata a dolore (<0,001) – fig. 3
Gas nella vena porta (0,002)
Pneumatosi intestinale (0,002) – fig. 4
Acidosi metabolica (ph < 7,3) alla diagnosi (0,004)
Età della madre < 20 anni (0,004)
Batteriemia gram – (0,02)
Massaggio cardiaco e/o rianimazione farmacologica alla nascita (0,02)
Sesso maschile (0,02)
No alimentazione enterale prima della diagnosi (0,03)
Presenza di neutrofili immaturi (> 5% della conta totale) e piastrinosi (0,05)
Peso alla nascita < 1000 g (0,06)
Batteriemia gram + (0,07)
Tabella II.
Parametri clinici non più ritenuti predittivi per NEC.
Fattori materni: ecografia prenatale anormale, diabete, ipertensione o uso
di steroidi durante la gravidanza, parto indotto o vaginale
Fattori perinatali: apgar 1 min < 6, ossigenoterapia, ventilazione con pallone di ambu, intubazione
Fattori postnatali: apnea/bradicardia, sangue nelle feci, nutrizione parenterale prima della diagnosi, modalità, tipo e numero di modifiche nell’alimentazione enterale, uso di farmaci vasopressori o steroidei
Dati di immagine: ileo paralitico, distribuzione anomala del gas intestinale, emorragia intraventricolare, presenza di pda
Dati di laboratorio (valori rilevati alla diagnosi): gb > 12.000, Ht < 30,
fungemia.
Modalità preventive
La Tabella III riassume le correlazioni fra i fattori eziologici della NEC
e le possibili conseguenti modalità preventive.
La modalità preventiva più immediata e naturale è il ricorso all’allattamento materno: nozione da tempo acquisita empiricamente, ma
di cui sono state solo da poco dimostrate le basi biologiche (Caplan,
et al. 2005; Meinzen et al., 2009). Il latte materno infatti contiene
EGF, protettore della barriera mucosa; contiene PAF acetilidrolasi,
che distruggendo il PAF ne impedisce l’azione proinfiammatoria;
incrementa la concentrazione di IL-10 e la relativa azione antiinfiammatoria, e diminuisce quella di TLR-4 e la relativa azione pro
infiammatoria; è ricco in probiotici.
L’azione dei probiotici nella prevenzione della NEC si esplica incrementando la resistenza della parete intestinale alla traslocazione batterica,
incrementando la competizione contro i batteri patogeni ed aumentando
le difese immunitarie dell’organismo. Una recente meta-analisi relativa
a nove studi randomizzati che hanno nell’insieme reclutato 1425 neonati ha confermato che nel gruppo trattato con probiotici per via enterale si
è verificata una significativa riduzione nell’incidenza della NEC avanzata
e nella conseguente mortalità (Alfaleh et al., 2009).
La supplementazione di glutammina e/o di arginina somministrate
per via parenterale od enterale ha dimostrato facilitare il ripristino
delle alterazioni nella barriera mucosa e del recupero della capacità
di assorbimento intestinale, oltre che a ridurre il tasso di infezioni e
conservare la funzionalità epatica (Kul et al., 2009).
L’infusione di EPO ricombinante per contrastare la distruzione della
barriera mucosa mediata dall’apoptosi è stata testata in una coorte
di 483 prematuri, 223 dei quali trattati e 260 controlli: l’incidenza
Figura 3.
Parete addominale tesa e
translucida, con evidente
reticolo venoso, in NEC
avanzata.
della NEC è diminuita dal 10,8% al 4,6% (12/260 vs. 4/223) (Ledbetter et al., 2000).
Nuove modalità farmacologiche di prevenzione della NEC sono state
studiate finora solo nell’animale da esperimento: somministrazione
di pentossifillina, inibitore del TNF-a (testato nel ratto) o di PAF-acetilidrolasi, enzima degradante il PAF (testato nel ratto), per contrastare l’eccesso di azione pro infiammatoria e di induzione di apoptosi
(Frost et al., 2008); somministrazione di nitroglicerina, precursore
del NO, per riequilibrare il controllo della vascolarizzazione alterato
in senso vasocostrittivo per un eccesso relativo di ET-1 da deficit di
NO (testato nel coniglio) (Graf et al., 1997).
Sulla base di una ampia revisione casistica, Yurdak conclude che le
misure preventive per la NEC che hanno confermato la loro efficacia sono l’allattamento al seno, gli steroidi prenatali e probabilmente i
probiotici; promettenti l’EPO ed il GCSF somministrati per via enterale;
deludenti i risultati forniti da immunoglobuline per via enterale, acidi
grassi poliinsaturi, arginina e glutammina. Ancora validi i classici presidi terapeutici costituiti da digiuno, nutrizione parenterale, antibiotici
ad ampio spettro e, in caso di perforazione, chirurgia (Yurdak, 2008).
Qual è il ruolo attuale della chirurgia nella NEC?
Risulta evidente da quanto sin qui esposto che la prospettiva futura
per la chirurgia della NEC è quella di scomparire progressivamente
dalla scena, in quanto il successo della “terapia eziologica preven-
Figura 4.
Aspetto intraoperatorio dell’ileo in prematuro affetto da NEC sottoposto
ad intervento chirurgico prima della perforazione (stadio III-A). È bene
evidente una pneumatosi diffusa della parete intestinale.
65
G.B. Parigi, L. Bertolini
Tabella III.
Fattori eziologici della NEC e loro possibile prevenzione.
Alimentazione con latte artificiale: Alimentazione al seno, supplementazione con fosfolipidi del latte artificiale
Alterazioni flora batterica: Trattamento enterale con Bifidobacterium infantis, profilassi antibiotica per via enterale
Immaturità della risposta immunitaria: Supplementazione di IgA
Distruzione della barriera mucosa mediata da fenomeni di apoptosi: Terapia postnatale precoce con desametasone; infusione di EGF, GCSF ed EPO
ricombinante per contrastare l’apoptosi
Controllo della vascolarizzazione alterato in senso vasocostrittivo per un eccesso relativo di ET-1 da deficit di NO, eventualmente mediato su base genetica (carenza di L-arginina): somministrazione di L-arginina e/o glutammina
tiva” descritta al paragrafo precedente dovrebbe sperabilmente interrompere il processo patologico ben prima che questo evolva sino
alla necrosi intestinale, momento in cui la chirurgia diventa indispensabile. Dato però che tale momento è ancora purtroppo presumibilmente lontano, quando l’intestino è perforato non si può fare a
meno dell’opera del chirurgo, che può ricorrere ad una delle strategie descritte in Tabella IV. Secondo alcuni ricercatori anzi il momento
ottimale per l’intervento si pone appena prima della perforazione,
quando il paziente raggiunge lo stadio III-A sec. Welsh e Kliegman
ma non è ancora perforato (stadio III-B) (Parigi et al., 1994).
La discussione sul momento ottimale per procedere ad intervento
chirurgico – se cioè appena prima della perforazione o solo dopo
che questa si sia verificata – è stata di fatto superata dalla necessità, imposta dai protocolli degli studi randomizzati, di attendere
la perforazione prima di procedere a qualsiasi atto chirurgico così
da uniformare le condizioni di partenza dei diversi bracci di studio.
Questi studi si sono resi necessari per dirimere l’alternativa che nel
corso degli ultimi trent’anni ha suscitato un acceso dibattito clinico,
cioè se nei VLBW e ELBW affetti da NEC perforata dia risultati migliori la laparotomia classica (LAP) oppure il posizionamento di un
drenaggio peritoneale (primary peritoneal drainage, PPD).
Il PPD venne descritto per la prima volta da Ein nel 1977 come procedura di emergenza nei pazienti troppo instabili per sopportare un
intervento chirurgico laparotomico; nel tempo tuttavia la metodica divenne sempre più frequentemente intesa ed utilizzata come trattamento definitivo anziché come misura temporanea. L’acme del dibattito si
raggiunse nel 2002, quando a breve distanza di tempo apparvero sul
Journal of Paediatric Surgery due studi prospettici, con risultati assai
simili ma conclusioni del tutto opposte. L’uno concludeva che il PPD è
l’opzione di scelta nel trattamento dei neonati con segni di pneumoperitoneo o di NEC avanzata, indipendentemente da peso ed EG: la laparotomia, ove necessaria, andava comunque praticata in seconda istanza, una volta raggiunta la stabilità dei parametri clinici (Demestre et al.,
2002). L’altro, con una casistica quasi del tutto analoga alla precedente
per caratteristiche dei pazienti e per risultati, concludeva invece che la
strategia di prima scelta era rappresentata dalla laparotomia in quanto
consentiva una precoce rimozione della contaminazione peritoneale e
dell’intestino necrotico, la correzione dell’acidosi e una più rapida canalizzazione, con ciò determinando un miglior risultato finale ed una
più breve ospedalizzazione (Camberos et al., 2002).
Si rendeva quindi evidente la necessità di organizzare uno studio
randomizzato prospettico che fosse in grado di superare il bias di
assegnazione ai due bracci LAP o PPD e di portare a conclusioni
possibilmente oggettive e condivisibili.
Il primo di questi studi fu quello pubblicato da Moss sul New England
Journal of Medicine, che raccoglieva l’esperienza di 15 centri USA
per un totale di 117 neonati VLBW e di EG < 34 settimane osservati
in un periodo di 5 anni. L’outcome valutato a breve distanza era la sopravvivenza a 90 giorni dall’intervento, a lunga distanza la dipendenza dalla NPT a 90 giorni e la durata dell’ospedalizzazione. L’indagine
consentì di rilevare un indice di mortalità sostanzialmente uguale fra
i pazienti sottoposti a PPD (19/55, 34,5%) rispetto a quelli trattati con
laparotomia e anastomosi primaria (22/62, 35,5%); anche gli outcomes a distanza non presentarono differenze significative. La naturale
conclusione era che il tipo di opzione chirurgica non influenzava la
sopravvivenza nei pazienti con NEC perforata, e che in ultima analisi la
PPD, molto meno invasiva e molto più semplice tecnicamente di una
laparotomia, era la scelta migliore (Moss et al. 2006).
Queste conclusioni vennero però poco dopo contraddette da un secondo trial randomizzato condotto da Rees e Pierro su 69 prematuri < 1000 g affetti da NEC perforata, 35 dei quali trattati con PPD e
34 con LAP in 31 Ospedali di 13 Paesi europei. In 26 dei 35 neonati
del braccio PPD (74,3%) si rese indispensabile una laparotomia secondaria per peggioramento delle condizioni cliniche, in media 2,5
giorni dopo posizionamento del drenaggio (range 0,4 – 21); in 4 dei
35 casi (11,4%) il PPD fu da solo sufficiente alla guarigione; i 5 rimanenti (14,3%) andarono incontro ad esito infausto. La sopravvivenza a
6 mesi risultò pari al 51,4% (18/35) nei PPD ed al 63,6% (21/33) nei
LAP. La conclusione è stata che il PPD non migliora la sopravvivenza
nei neonati ELBW con perforazione intestinale (Rees et al., 2008).
Una sostanziale differenza tra lo studio americano e quello euro-
Tabella IV.
Opzioni chirurgiche nella NEC.
Laparotomia con resezione del tratto necrotico ed enterostomia
Richiede di necessità un secondo intervento per la chiusura della stomia, dopo circa 6-8 settimane. Alto tasso di complicanze: stenosi della stomia,
laparocele e ernia parastomale, infezione di ferita, prolasso della stomia, invaginazione, occlusione, sepsi.
Laparotomia con resezione del tratto necrotico ed anastomosi primaria.
Evita le complicanze della stomia ed il reintervento per la sua chiusura, minore morbilità post-operatoria, più rapida reintroduzione della alimentazione
entrale, riduzione dei tempi di degenza. Complicanze: deiscenza dell’anastomosi, ulteriori perforazioni.
Drenaggio peritoneale percutaneo (PPD)
Procedura rapida e poco invasiva eseguibile in anestesia locale, indicata in ELBW in condizioni critiche. Presidio temporaneo allo scopo di detendere la
pressione endoaddominale e drenare il versamento peritoneale per ottenere un miglioramento delle condizioni generali prima dell’intervento laparotomico. Utilizzata anche come procedura potenzialmente risolutiva senza ulteriori interventi.
Clip and drop-back
Soluzione di compromesso fra PPD ed enterostomia in pazienti VLBW in condizioni critiche con interessamento segmentale multiplo: resezione del/dei segmento/i
necrotico/i, chiusura temporanea delle anse resecate con clip e loro riposizionamento in addome. Reintervento con anastomosi 48-72 dopo (Vaughan et al 1996).
66
Cosa c’è di nuovo a proposito di enterocolite necrotizzante?
peo è che nel primo solo 5/55 casi (9%) richiesero una laparotomia
secondaria, dato che – a differenza del secondo – non venivano
considerate indicazioni alla laparotomia l’instabilità emodinamica,
l’insufficienza respiratoria o l’acidosi ingravescente. La salvage laparotomy era cioè prevista ma non incoraggiata, sulla scorta di dati
della letteratura che ne negavano la validità.
I lavori più recenti tendono comunque ad affermare la superiorità della
LAP sul PPD: nei 52 prematuri osservati da Baird (25 PPD e 27 LAP) la
mortalità a 30 giorni risultò pari al 32% PPD e 7,4% LAP; dei 25 pazienti inizialmente sottoposti a PPD, 16 (64%) richiesero una salvage laparorotomy. Nella recentissima metaanalisi di Sola et al., (e-pub 2009)
condotta su 5 studi per un totale di 523 casi (273 PD, 250 LAP), una
raffinata analisi statistica consente di concludere che il PPD presenta il
55% di excess mortality rispetto alla LAP, con ciò ponendo una pesante
ipoteca sulla concezione del PPD come possibile terapia definitiva della
NEC: tranne che in alcuni selezionati (e fortunati !) casi di ELBW guariti
con il solo drenaggio, questo dovrebbe essere semplicemente considerato come misura temporanea prima della laparotomia.
Una revisione attualmente in corso della nostra esperienza in merito
conferma questa posizione, che peraltro sostenevamo da tempo (Parigi
et al., 1994), che vede la laparotomia seguita da anastomosi immediata
come intervento di scelta quando appena possibile. È in via di sviluppo
un nuovo studio randomizzato internazionale organizzato dal gruppo di
ricerca del Great Ormond Street Hospital di Londra, teso a valutare se
questa strategia chirurgica sia valida su basi statisticamente significative e non solo sull’ “apprezzamento” personale del singolo chirurgo (A.
Pierro, comunicazione personale). Dobbiamo quindi attendere ancora
qualche tempo prima di disporre di una risposta ragionevolmente conclusiva su come si debba esplicare al meglio il nostro ruolo di chirurghi
nel trattamento della NEC: questo in attesa di quelle misure preventive
che – in un più o meno lontano futuro – dovrebbero fare della NEC
“chirurgica” un capitolo chiuso nella storia della medicina.
Box di orientamento
• La NEC è probabilmente la conseguenza di squilibri indotti nel neonato, particolarmente se prematuro, dall’immaturità del sistema gastrointestinale,
delle funzioni digestive, della regolazione circolatoria e delle difese immunitarie.
• Il suo evento scatenante è rappresentato dall’apoptosi degli enterociti che determinano una risposta infiammatoria come evento finale.
• Può essere prevenuta da: allattamento al seno, probiotici ed antibiotici, IgA, EGF, GCSF e EPO ricombinante, L-arginina e/o glutammina.
• Possibili opzioni chirurgiche: laparotomia con resezione del segmento necrotico ed enterotomia o anastomosi primaria, oppure drenaggio peritoneale primario, probabilmente meno efficace.
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fra laparotomia e drenaggio peritoneale. Conclude per una sostanziale equivalenza
fra le due tecniche.
Moss RL, Kalish LA, Duggan C et al. Clinical parameters do not adequately predict outcome
in necrotizing enterocolitis: a multi-institutional study. J Perinatol 2008;28:665-74.
** Accurato e statisticamente solido studio multicentrico sui più comuni parametri
clinici della NEC, la cui da tempo acquisita attendibilità predittiva e prognostica risulta
invece spesso infondata (ad es. l’intubazione perinatale o l’emochezia).
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** Fondamentale studio randomizzato internazionale che porta ad una conclusione
forse definitiva circa le migliori prospettive prognostiche offerte dalla laparotomia nei
confronti del drenaggio peritoneale.
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Corrispondenza
Gian Battista Parigi, Chirurgia Pediatrica, IRCCS Policlinico “S. Matteo”, 27100 Pavia. E-mail: [email protected]
67
Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 68-78
GeNeTICA
Malattie genetiche rare (ma tante):
nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
Iris Scala, Carla Ungaro, Generoso Andria
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli
Riassunto
Dal 2007 ad oggi sono state identificate circa 120 nuove sindromi genetiche e 330 nuovi geni implicati nella patogenesi di sindromi genetiche già note.
La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base delle sindromi genetiche è importante per comprendere la patogenesi delle manifestazioni cliniche
associate, per definire la prognosi e per la ricerca di nuovi approcci terapeutici.
Un importante carico assistenziale è rappresentato dalle malattie rare, che sono per oltre l’80% rappresentate da malattie genetiche, spesso associate a
quadri clinici complessi e in molti casi disabilità anche gravi. In molte regioni italiane si stanno creando e implementando reti assistenziali per la gestione
integrata dei pazienti affetti da malattie rare. Pertanto i pediatri del territorio saranno sempre più attivamente coinvolti nella presa in carico dei “malati
rari”, in collaborazione con i rispettivi centri di riferimento. Data la numerosità e la complessità delle malattie genetiche è importante, quindi, che i pediatri
conoscano gli strumenti di informazione e di aggiornamento, presenti anche su Internet, circa le novità nel campo delle malattie genetiche affinché siano
sempre più preparati ad affrontare i problemi dei loro pazienti affetti da sindromi genetiche e a collaborare nel migliore dei modi con i Centri di riferimento.
Uno dei motori di ricerca di facile consultazione è il portale Orphanews di Orphan Europe, che pubblica online newsletters organizzate in varie sezioni: editoriali, nuovi geni, nuove sindromi, nuove terapie, eventi congressuali ecc. I temi oggetto di questa revisione sono stati selezionati analizzando in particolare
le newsletters pubblicate su questo portale da gennaio 2007 a marzo 2010.
Summary
Since 2007, approximately 120 new syndromes and 330 new genes responsible for known genetic syndromes have been identified. The discovery of the
molecular mechanisms of genetic diseases provides clues to clarify the pathogenesis of the associated clinical features, to define prognostic factors and
to develop new therapeutic approaches. These genetic disorders are generally rare or very rare, have complex clinical spectrums and are often associated
with severe disability. Presently most Italian regions are organizing special diagnostic and therapeutic networks dedicated to rare diseases. Consequently, all
health care providers, including family pediatricians will be involved in the management of patients affected by rare disorders in collaboration with the Regional Referral Centres. The Internet provides very efficient tools to better understand genetic disorders and update the knowledge. Besides the well known
PubMed, a good source of information on rare diseases is offered by Orphanews of Orphan Europe, which gives insights on new syndromes, new genes and
new therapies for rare disorders. This review provides an example of the wealth of knowledge mainly provided by Orphanews in the last three years.
Introduzione
Oggi la genetica clinica pediatrica si identifica in buona parte con il capitolo delle malattie rare, che sono per l’80-85% di origine genetica e
esordiscono in alta percentuale in età pediatrica. Esse rappresentano
una sfida per il sistema sanitario poiché hanno spesso un quadro clinico complesso, sono poco conosciute e sono in molti casi associate
a disabilità, anche grave. Per tali ragioni, la materia della malattie rare
è stata inclusa tra gli obiettivi prioritari di rilevanza nazionale (legge n.
279/2001) e molte Regioni si sono attivate o si stanno attivando per
creare o implementare reti assistenziali per la presa in carico di soggetti
con malattia rara e definire percorsi diagnostico-terapeutici, con iniziative integrate e condivise tra le Regioni. Lo sviluppo di reti assistenziali
per malattie ad alta complessità assistenziale, quali le sindromi genetiche, coinvolge tutta l’area dell’assistenza sanitaria, dal centro di riferimento ai presidi e agli operatori del territorio. Poiché la maggior parte
delle sindromi genetiche esordisce in età pediatrica, i pediatri si troveranno sempre più ad essere attivamente coinvolti nella gestione dei
malati rari, in collegamento e integrazione con i centri di riferimento.
Oggi le famiglie ed i pazienti con malattia rara hanno sviluppato maggiore consapevolezza della malattia rispetto a qualche anno fa, anche
grazie all’attività delle associazioni di malati, chiedono maggiore assistenza e supporto e costituiscono una sfida per i pediatri dei centri
di riferimento e del territorio. La numerosità e la complessità delle
malattie genetiche non consente che tutti i pediatri ne abbiamo una
68
conoscenza approfondita, ma è importante che essi conoscano gli
strumenti di informazione e di aggiornamento per sostenere al meglio
i bisogni dei propri assistiti con malattia genetica rara.
Obiettivo
Quest’articolo mira a far conoscere ai pediatri alcuni strumenti di
aggiornamento presenti in Internet e quindi di facile consultazione,
che informano sulle novità nel campo delle malattie genetiche rare.
Utilizzando questi siti, si riporteranno alcuni esempi di nuovi geni
e di nuove sindromi che offrano spunti di riflessione non solo per
la pratica clinica, ma anche per la comprensione di meccanismi di
malattia o di pathways fisiologici. Saranno poi revisionate malattie e
sindromi genetiche (con esclusione delle classiche malattie metaboliche da deficit enzimatici del metabolismo intermedio) per le quali
sono in corso studi pre-clinici e trial per nuove terapie farmacologiche, discutendo brevemente le evidenze finora ottenute.
Mutazioni di più di 2000 geni sono state associate a specifiche malattie ereditarie, molte delle quali sono poco conosciute. Molti dei
geni coinvolti fanno parte di vie di trasduzione del segnale, implicate
nella crescita, proliferazione o differenziazione di cellule nel corso
dello sviluppo e dell’omeostasi tissutale. Mutazioni di questi geni
possono infatti causare disordini che vanno da malformazioni congenite al cancro. Per i disordini mendeliani, la relazione causale tra
mutazione e malattia può offrire opportunità dirette di manipolazio-
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
ne di segnali intracellulari. In questa revisione, saranno riportati gli
esempi più recenti di utilizzo di piccole molecole (qui denominata
“Terapia Molecolare”) nelle malattie monogeniche.
• identificazione di nuove funzioni o meccanismi molecolari di
prodotti proteici o pathways.
Di seguito si riportano alcuni esempi rilevanti.
Nuovi geni implicati nella patogenesi del ritardo dello sviluppo
psicomotorio, sindromico e non.
In relazione allo scopo dell’articolo, si è scelto deliberatamente di Il ritardo mentale è un disordine comune che interessa circa il 3%
non utilizzare esclusivamente il classico motore di ricerca PubMed della popolazione generale.
(www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed) a vantaggio di altri siti, quale il Nel corso degli ultimi tre anni sono stati identificati numerosi geni reportale Orphanews (http://www.orpha.net/actor/cgi-bin/OAhome. sponsabili di ritardo mentale associato o meno a sindromi genetiche.
php?Ltr=EuropaNews) di Orphan Europe, che consiste in newsletters Le forme di ritardo mentale definite “non sindromiche” sono più frepubblicate online a cadenza mensile e organizzate in sezioni riassun- quentemente ereditate con modalità autosomica recessiva. Nel petive dedicate a Editoriali, Nuovi Geni, Nuove Sindromi, Nuove Terapie, riodo esaminato in questa revisione sono stati riconosciuti sei geni
oltre che a congressi o corsi d’aggiornamento sulle malattie rare. Ogni implicati, l’ultimo dei quali, recentemente identificato (TRAPPC9)
articolo riassunto in Orphanews contiene inoltre un link diretto con modula l’attività del fattore di trascrizione NF-kB (Mir et al., 2009).
l’articolo originale pubblicato in PubMed e un link con Orphanet (www. Tra le forme di ritardo mentale sindromico a trasmissione autosomica
orpha.net), strumento che fornisce preziose informazioni in italiano recessiva di particolare interesse è la sindrome C, una sindrome rara,
caratterizzata da ritardo mentale e anomalie congenite multiple quasulle caratteristiche generali di una particolare malattia genetica.
Per la selezione degli articoli e degli argomenti oggetto di questa li trigonocefalia, sinostosi della sutura metopica, anomalie facciali e
revisione, sono state analizzate tutte le newsletters pubblicate da scheletriche. Il gene identificato è CD96 che codifica per una proteina
componente della superfamiglia delle immunoglobuline e implicata nei
gennaio 2007 a marzo 2010.
Tra i siti italiani, segnaliamo il portale dedicato alle malattie rare meccanismi di adesione e crescita cellulare (Kaname et al., 2007).
e farmaci orfani dell’Istituto Superiore di Sanità, in cui è possibile Sono state descritte almeno 215 condizioni di ritardo mentale ereditate
inserire anche una ricerca per malattie o farmaci specifici e trovare con modalità X-linked e sono stati identificati ben 83 geni coinvolti, codile ultime novità in campo clinico o di ricerca di base, oltre che infor- ficanti proteine aventi differenti funzioni come quelle di rimodellamento
mazioni su congressi o iniziative nazionali e internazionali in tema di cromatinico, formazione delle sinapsi e trafficking intracellulare. In particolare un nuovo gene identificato in una sindrome con ritardo mentale
malattie rare (www.iss/cnmr).
associato a epilessia, autismo e macrocefalia è RAB39B, una proteina
con attività GTPasica appartenente alla famiglia delle proteine RAB, proNuovi geni, nuove sindromi e approcci terapeutici
teine coinvolte nel trafficking vescicolare intracellulare. RAB39B è una
innovativi
proteina neurono-specifica ed è localizzata a livello dell’apparato del
Golgi; in presenza di una sua ridotta attività si assiste ad una significaDal 2007 ad oggi sono state identificate almeno 118 nuove sindromi
tiva riduzione dei bottoni presinaptici, che suggerisce un suo ruolo nella
genetiche, 10 nuove malattie metaboliche, 331 nuovi geni implicati nella
formazione delle sinapsi (Giannandrea et al., 2010).
patogenesi di sindromi genetiche già note e 29 geni responsabili di maUn meccanismo patogenetico peculiare di ritardo mentale, sindrolattie metaboliche note (Tab. I). In questa revisione non verranno trattate
mico e non, ereditato con modalità X-linked è associato a mutazioni
le malattie ereditarie del metabolismo, in genere causate da un’alteradel gene UPF3B, proteina implicata nel meccanismo di regolazione
zione di una tappa enzimatica implicata in una via metabolica nota, e
post-trascrizionale mediato dal mRNA nonsenso, un processo usato
per le quali, al contrario di quanto succede per le sindromi genetiche, è
in tutte le cellule dell’organismo, atto a prevenire l’espressione di propiù semplice identificare gli approcci diagnostici e terapeutici.
teine tronche. Tale gene è coinvolto nella sindrome di Lujan-Fryns
(sindrome associata ad alta statura di tipo marfanoide, dismorfismi
Nuovi geni responsabili di sindromi genetiche note
È importante conoscere i meccanismi molecolari alla base di quadri facciali e problemi comportamentali) e nella sindrome FG, caratterizzata da una serie di sintomi, quali ipotonia congenita con ritardo
sindromici per:
• unamigliorecomprensionedellapatogenesidellemanifestazio- dello sviluppo motorio e del linguaggio, disturbi gastrointestinali come
reflusso gastro-esofageo e stipsi, e diplegia spastica (Tarpey et al.,
ni cliniche;
• una migliore correlazione genotipo-fenotipo, soprattutto per 2007), sintomi comuni anche alla sindrome di Opitz-Kaveggia.
quelle sindromi con eterogeneità genetica e per la definizione di In un ristretto numero di pazienti con sindrome FG, presentanti un
sottogruppi omogenei dal punto di vista genetico, anche al fine fenotipo specifico sovrapponibile a quello della sindrome di OpitzKaveggia, sono state identificate mutazioni del gene MED12; lo
di definire e sperimentare nuovi approcci terapeutici;
stesso gene era stato già in precedenza associato alla sindrome di
• definizionedellaprognosi;
Metodologia
Tabella I.
Nuovi geni responsabili di sindromi genetiche note, nuove sindromi, nuovi geni responsabili di malattie metaboliche note e malattie metaboliche
di recente identificazione (OrphaNews Europe).
Nuovi geni responsabili
di sindromi note
Nuove sindromi
Nuovi geni responsabili
di malattie metaboliche note
Nuove malattie metaboliche
2007
81
23
7
7
2008
80
39
9
2
2009
139
48
13
1
2010
31
8
0
0
69
I. Scala et al.
Opitz-Kaveggia e codifica per una proteina coinvolta nella regolazione trascrizionale mediata dagli ormoni tiroidei (Piluso et al., 2009).
Nuovi geni implicati in patologie oculari
La retinite pigmentosa (RP) è una distrofia retinica ereditaria clinicamente e geneticamente eterogenea, causata dalla perdita dei
fotorecettori e caratterizzata da depositi retinici di pigmento visibili
all’esame del fondo oculare. Generalmente la forma più comune è
quella non sindromica e le modalità di trasmissione sono autosomica dominante e recessiva, legata all’X e digenica. Finora sono stati
identificati circa 50 geni/loci responsabili di malattia; di particolare
interesse è il gene TOPORS, identificato recentemente in una forma
di RP autosomica recessiva. Il prodotto genico è una ubiquitina ligasi
(E3) ed è coinvolta quindi nel meccanismo di degradazione delle
proteine mediante proteasoma. L’espressione ubiquitaria di TOPORS
e la mancanza di proteina mutata nei pazienti suggeriscono un meccanismo patogenetico di aploinsufficienza (cioè insufficiente quantità di prodotto genico, causata da una mutazione in eterozigosi) piuttosto che di effetto negativo dominante (Chakarova et al., 2007).
Il glaucoma congenito primario è una patologia a trasmissione autosomica recessiva che esordisce nel primo anno di vita. È caratterizzata da un’aumentata pressione intraoculare che può determinare
danno del nervo ottico, aumentate dimensioni dei globi oculari e perdita della vista permanente. Il glaucoma congenito primario è bilaterale
nell’80% dei casi, il 25% dei quali sono diagnosticati nel primo mese
di vita, mentre il 60% nei primi 6 mesi di vita. È stato identificato un
gene responsabile, LTBP2, che codifica per una proteina appartenente
alla famiglia di proteine di legame del TGF-beta, le quali sono proteine
della matrice extracellulare con domini multipli (Ali et al., 2009).
La cataratta congenita è un’opacità del cristallino in grado di interferire significativamente sulla sua trasparenza, insorge nei primi sei
mesi di vita, ovvero nel periodo critico dello sviluppo visivo. La cataratta congenita è ancora una delle principali cause di cecità in età
pediatrica, essendo responsabile di circa il 10-15% di tutte le cecità
infantili. Nelle forme autosomiche dominanti di cataratta congenita
sono state identificate mutazioni del gene CHMP4B che codifica per
una proteina essenziale per il trasporto intracellulare delle vescicole
endosomiali (Shiels et al., 2007).
Nuovi geni in sindromi osteodisplastiche (brachidattilia di tipo
B e osteopetrosi autosomica recessiva)
La brachidattilia di tipo B (BDB) è una malformazione congenita
rara, caratterizzata da ipoplasia o aplasia delle parti terminali delle dita (dal 2° al 5° dito), con assenza completa delle unghie delle
mani. Nella maggior parte dei casi è stata riportata una trasmissione
autosomica dominante. La BDB è dovuta alle mutazioni del gene
ROR2 (receptor tyrosine kinase-like orphan receptor 2), localizzato
sul cromosoma 9q22. In alcuni pazienti senza mutazioni nel gene
ROR2 e con quadro clinico caratterizzato anche da sinfalangismo
prossimale e sinostosi carpale sono state identificate alterazioni della proteina Noggin, coinvolta nella formazione dei somiti durante il
periodo embrionale (Lehmann et al., 2007).
Un nuovo gene, RANKL è stato associato all’osteopetrosi autosomica
recessiva, malattia causata da un difetto dello sviluppo o della funzione degli osteoclasti e pertanto caratterizzata da un aumento della
densità ossea. Il gene RANKL codifica per un fattore di crescita cruciale
per la differenziazione delle cellule in osteoclasti. Il trapianto di cellule
staminali ematopoietiche è inefficace in questi pazienti, poiché le cellule trapiantate non sono in grado di differenziarsi in osteoclasti. Pertanto
la somministrazione di fattori di crescita potrebbero rappresentare una
potenziale terapia per questa patologia (Sobacchi et al., 2007).
70
Le ciliopatie: nuovi geni
Negli ultimi anni si sta espandendo un gruppo di sindromi plurimalformative, caratterizzate da una comune alterazione della funzione delle
ciglia e pertanto definite “ciliopatie” (Fig. 1). Le ciglia e i flagelli sono
estroflessioni filiformi e flessibili della membrana plasmatica, simili a
peli, presenti sulla superficie di alcune cellule animali. La struttura citoscheletrica interna (assonema) di ciglia e flagelli è identica ed è costituita da 9 coppie di microtubuli disposti ad anello attorno a due microtubuli
non accoppiati al centro. Questa struttura, detta 9+2, si ritrova in quasi
tutte le forme di ciglia e flagelli eucariotici ed è specializzata per il movimento cellulare. Le coppie esterne di microtubuli sono collegate tra loro
da due braccia di dineina e da connessioni proteiche di nexina. Le ciglia
svolgono un ruolo cruciale in diversi pathways di trasduzione del segnale, quali Wnt e Hedgehog (coinvolti nello sviluppo embrionale), e PDGF
(platelet-derived growth factor) (D’Angelo et al., 2009). Tra le ciliopatie, la principale è la sindrome di Joubert, a trasmissione autosomica
recessiva e caratterizzata da una malformazione congenita del tronco
cerebrale e un’agenesia o ipoplasia del verme cerebellare, che esita in
difetti della respirazione, nistagmo, ipotonia, atassia e ritardo nelle tappe
dello sviluppo motorio. Altri segni occasionali sono la distrofia retinica, la
nefronoftisi e la polidattilia. La diagnosi si basa sui segni clinici principali
(ipotonia, atassia, ritardo dello sviluppo e aprassia oculomotoria), che
devono essere associati ad un segno neuro-radiologico patognomonico rivelato dalla risonanza magnetica cerebrale, noto come `segno del
dente molare’, conseguenza dell’ipoplasia del verme cerebellare. Finora
sono stati associati alla malattia sette geni, tutti implicati nella funzione
delle ciglia. Altre sindromi associate sono la sindrome di Meckel, una
rara sindrome autosomica recessiva a prognosi infausta caratterizzata
da malformazioni del SNC (encefalocele), polidattilia, rene multicistico
ed epatopatia duttale. Tale sindrome ha in comune con la sindrome di
Joubert il coinvolgimento possibile di 2 geni (MKS3 e MKS4) anch’essi
coinvolti nella funzione ciliare (Baala et al., 2007). Un’altra ciliopatia è
la sindrome di Jeune caratterizzata da severa insufficienza respiratoria, degenerazione retinica, malattia cistica renale e polidattilia; il gene
mutato è IFT80 che codifica per una proteina coinvolta nel trasporto
intraflagellare (Beales et al., 2007). Altre sindromi identificate con mutazioni in geni implicati nella funzione ciliare sono la sindrome di BardetBiedl, caratterizzata da obesità, retinopatia pigmentaria, polidattilia postassiale, micropene, disturbo del linguaggio con ritardo dello sviluppo
psicomotorio, malattia renale. Alcuni geni identificati come MKS1, MKS3
e CEP290 sono in comune con la sindrome di Meckel e la sindrome di
Joubert (Leitch et al., 2008). Infine in una forma di sindrome di Joubert
Figura 1.
Principali sindromi associate a difetto delle ciglia cellulari (ciliopatie).
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
con un pattern di trasmissione X-linked sono state identificate mutazioni
del gene OFD1, precedentemente associato alla sindrome oro-faciodigitale di tipo 1 e alla sindrome di Simpson-Golabi-Behmel di tipo
2. La sindrome oro-facio-digitale di tipo 1 è caratterizzata da dismorfismi facciali (bozze frontali prominenti, asimmetria facciale, ipertelorismo), anomalie del cavo orale (pseudoschisi del labbro superiore, palatoschisi, schisi linguale, palato ogivale, frenuli linguali soprannumerari
e anomalie dentarie) e delle dita (sindattilia, brachidattilia, clinodattilia,
polidattilia). Le malformazioni cerebrali e il rene policistico sono comuni.
La sindrome di Simpson-Golabi-Behmel di tipo 2 è la forma grave della
sindrome ed è caratterizzata da anomalie multiple, idrope fetale e letalità. La malattia polimalformativa comprende anomalie cranio-facciali
(macrocefalia, ipertelorismo, palato ogivale o palatoschisi), anomalie
gastrointestinali e genito-urinarie e difetti scheletrici agli arti superiori e
inferiori. Il gene OFD1 implicato nelle tre sindromi descritte codifica per
una proteina coinvolta nel legame con una proteina ciliare chiamata libercilina. L’assenza completa di tale legame causa sindromi più severe,
quali la sindrome oro-facio-digitale di tipo 1 e la sindrome di SimpsonGolabi-Behmel di tipo 2. Viceversa la riduzione di tale legame determina
la sindrome di Joubert (Coene et al., 2009).
Novità sulla sindrome di Cornelia De Lange e la sindrome CHARGE
La sindrome di Cornelia De Lange, è caratterizzata da note dismorfiche con ritardo mentale di gravità variabile, anomalie delle
mani e dei piedi, ritardo di crescita severo ad esordio prenatale e talvolta malformazioni renali e cardiache. Quasi tutti i casi sono sporadici. È stata osservata occasionalmente una trasmissione familiare
autosomica dominante. Sono state individuate mutazioni causative
nei tre geni implicati nella coesione dei cromosomi (complesso della
coesina). Il gene NIPBL è mutato per il 50% dei pazienti ed è il gene
più rilevante della sindrome. Recentemente sono stati identificati
due geni, SMC1A e SMC3, associati a forme meno severe; tali geni
codificano per due subunità del complesso delle coesine, complesso
multiproteico che tiene uniti i cromatidi fratelli a livello dei loro centromeri e lungo numerosi punti dei loro bracci. Tali mutazioni sono
associate ad un fenotipo più lieve, poiché le proteine mutate vengono normalmente sintetizzate, ma la formazione del complesso delle
coesine è alterata. (Deardorff et al., 2007; Selicorni et al., 2007).
La sindrome di Kallmann e la sindrome CHARGE (coloboma, difetto
cardiaco, atresia della coane, ritardo di crescita e dello sviluppo, ipoplasia dei genitali, anomalia delle orecchie/sordità) sono due distinti
disordini dello sviluppo che condividono alcuni aspetti fenotipici quali
l’ipogonadismo e le alterazioni dell’olfatto. La sindrome di Kallmann è
più frequentemente associata a mutazioni dei geni KAL1 e FGFR 1; di
recente però sono state identificate mutazioni anche del gene CHD7,
gene già implicato nella patogenesi della sindrome CHARGE. Pertanto
si può dire che la sindrome di Kallmann rappresenta una variante allelica più lieve della sindrome CHARGE (Kim et al., 2008).
promozione della sopravvivenza e nella modulazione del metabolismo
cellulare. Le più note sindromi genetiche associate ad un’aumentata
attivazione della cascata RAS/MAPK sono la neurofibromatosi di 1,
la sindrome di Noonan, la sindrome LEOPARD, la sindrome di Costello e la sindrome cardio-facio-cutanea (Zampino et al., 2008). Di
recente identificazione è la sindrome di Legius, sindrome trasmessa
con modalità autosomica dominante (Brems et al., 2007) e causata
da mutazioni di SPRED1, gene codificante una proteina di regolazione negativa della cascata RAS/MAPK; i pazienti affetti presentano un
quadro clinico simile alla neurofibromatosi di tipo 1 senza però le manifestazioni tumorali (Muram-Zborovski et al., 2010).
Mutazioni di RAF1, responsabili di un’aumentata attivazione del pathway di RAS, sono state associate ad un’aumentata incidenza di
cardiomiopatia ipertrofica nei pazienti con sindrome di Noonan e
sindrome LEOPARD (Pandit et al., 2007), un interessante esempio di
correlazione genotipo-fenotipo.
Inoltre, il gene B-RAF, responsabile della sindrome cardio-facio-cutanea,
è generalmente associato ad un grave ritardo mentale. In realtà recentemente sono state identificate nuove mutazioni dello stesso gene nei
pazienti con sindrome LEOPARD senza compromissione dello sviluppo
psicomotorio. Ciò significa che mutazioni di B-RAF non sono necessariamente associate a deficit intellettivo (Koudova et al., 2009).
Processo di ubiquitinazione
Un pathway di notevole interesse è quello relativo al processo di ubiquitinazione proteica, meccanismo che permette la degradazione delle proteine mediata dal proteasoma (Fig. 3). È stato identificato un
nuovo gene deleto nella sindrome di Williams (TRIM50) che codifica
per una ubiquitina ligasi E3; altre sindromi coinvolte sono l’atrofia muscolare spinale a trasmissione X-linked e la sindrome RIDDLE (Radiosensitivity, Immunodeficiency, Dysmorphic features, and Learning
Difficulties), una sindrome di recente identificazione caratterizzata da
immunodeficienza e radiosensibilità (Stewart et al., 2009).
Notch, Wnt e Hedgehog
Altri pathway recentemente implicati nella patogenesi di quadri sindromici sono quello di Notch, Wnt e Hedgehog, coinvolti nelle interazioni cellulari durante lo sviluppo embrionale.
Mutazioni di proteine coinvolte nel pathway di Notch, importante per
la formazione dei somiti, sono state associate alla disostosi spondilocostale, sindrome caratterizzata da brevità del tronco, emivertebre
ed anomalie di allineamento delle coste. Ciò è secondario ad un’alterazione dello sviluppo dei somiti durante il periodo embrionale.
Alterazione del pathway di Wnt è stato associato alla displasia odonto-onico-dermica e alla sindrome di Goltz (ipoplasia dermica focale) caratterizzata da diversi sintomi cutanei e da una varietà di ano-
Il ruolo di pathways cellulari nella patogenesi di diverse
sindromi genetiche
RAS/MAPK
Negli ultimi anni sono stati identificati alcuni geni codificanti proteine
componenti di svariati pathways cellulari, molte delle quali appartenenti allo stesso pathway e responsabili di sindromi genetiche differenti. Uno dei più noti è quello della cascata RAS/MAPK, una cascata
cellulare che vede coinvolte diverse proteine con funzione serina-treonina chinasi (Fig. 2). RAS è una proteina con attività GTPasica che ha la
funzione di trasdurre il segnale dei recettori tirosina chinasi attivati da
diversi segnali, quali ormoni, vari fattori di crescita e l’insulina. Quindi
è una proteina cruciale nella regolazione del differenziamento, nella
Figura 2.
Cascata RAS/MAPK e sindromi correlate.
71
I. Scala et al.
Figura 3.
Degradazione proteica mediata dal sistema ubiquitina-proteasoma. Le
proteine danneggiate vengono selettivamente processate dal sistema
ubiquitina-proteasoma. La proteolisi controllata è cruciale per la regolazione di numerosi processi cellulari tra cui la progressione del ciclo cellulare, la trasduzione del segnale, l’apoptosi, la presentazione dell’antigene
e il controllo di qualità della sintesi proteica. La proteolisi mediata da ubiquitine consiste in due fasi: la coniugazione di catene di poli-ubiquitine
(Ub) al substrato proteico e la proteolisi da parte del proteasoma. Nella
prima fase, sono coinvolte 3 classi di enzimi: l’enzima attivante le Ub (E1),
gli enzimi di coniugazione (E2s) e le ligasi (E3s). Nella seconda fase, le
proteine poli-ub sono riconosciute e degradate dal proteasoma.
malie oculari, dentarie, del SNC, del sistema urinario, gastrointestinale
e cardiovascolare. Infine la sindrome di Carpenter (acrocefalopolisindattilia) caratterizzata da saldatura precoce delle suture metopica
e sagittale, cardiopatia, obesità e malformazioni delle mani e dei piedi,
è stata associata a mutazioni del gene RAB23 che codifica per un enzima che regola negativamente il pathway Hedgehog, implicato nella
strutturazione embrionale degli arti (Jenkins et al., 2007).
Sindromi di recente identificazione
Negli ultimi anni sono state riconosciute numerose sindromi genetiche
con l’identificazione dei geni patogeni associati. Ciò ha consentito non solo
di ampliare le nostre conoscenze in campo di genetica e di conoscere la
funzione di numerosi geni in passato ignoti, ma anche di porre un numero
sempre maggiore di diagnosi di sindrome genetica, anche in quella quota
di pazienti precedentemente non diagnosticati. Quasi sempre non viene
specificato il nome della sindrome riconosciuta, ma viene descritto solo il
quadro clinico associato al gene in causa. In Tabella II sono riassunte alcune nuove sindromi identificate dal 2007 ad oggi, in particolare sindromi
con fenotipo dismorfico-malformativo, rilevabile clinicamente.
Nuove terapie per le malattie genetiche: la ricerca
al letto del malato
Generalità
Nel caso delle malattie genetiche, rare, orfane e con meccanismo patogenetico spesso ancora da chiarire, i risultati della ricerca di base sono
cruciali per lo sviluppo di terapie che, in alcuni casi di particolare gravità,
vengono sperimentate direttamente o molto rapidamente nell’uomo.
Infatti, la conduzione della ricerca clinica per le condizioni genetiche rare
è molto complessa, perché la popolazione di pazienti è poco numerosa,
geograficamente distante e spesso rappresentata da gruppi vulnerabili
come bambini o soggetti con disabilità mentale. Per regolamentare la
ricerca, soprattutto in campo terapeutico, tenendo conto delle problematiche intrinseche della materia e riconoscendo le difficoltà di con-
72
durre studi con adeguata potenza statistica, il Committee for Medicinal
Products for Human Use (CHMP) ha prodotto delle linee guida per la
conduzione di trial clinici in piccole popolazioni (http://www.emea.europa.eu/pdfs/human/ewp/8356105en.pdf). Questa standardizzazione è
molto importante per interpretare risultati di trial internazionali. Di particolare supporto sono e saranno i registri dei pazienti, perché possono
fornire controlli storici, informazioni sulla storia naturale della malattia e
facilitare il reclutamento di pazienti in trials. Per tali motivi, i registri sono
anche fortemente sostenuti dalle associazioni di pazienti. In quasi tutte
le regioni italiane esistono già registri per malattie rare e nelle altre si
stanno implementando questi programmi.
Per lo sviluppo di terapie innovative per malattie genetiche rare, i costi
per lo sviluppo sono il problema maggiore. Nell’Unione Europea, sono
stati introdotti incentivi economici, come ad esempio la garanzia di
esclusività sul mercato, per lo sviluppo di farmaci orfani per malattie
rare, definendo farmaci orfani molecole destinate alla cura di una condizione con prevalenza inferiore a 5:10000 abitanti o quei prodotti che
per ragioni economiche non sarebbero sviluppati senza incentivi.
Di seguito si riportano le novità terapeutiche, in fase pre-clinica e clinica, per alcune malattie genetiche: da queste esperienze si evince il
concetto che, conosciuta la patogenesi della malattia, molte terapie
già in uso per altre patologie possono adattarsi anche alle malattie
genetiche rare e che lo stesso principio attivo può essere utilizzato
per più patologie genetiche (Tab. III).
Terapie “molecolari” in quadri sindromici con predisposizione
a tumori e fenotipo neurologico
Sclerosi tuberosa
La sclerosi tuberosa è una malattia a trasmissione autosomica recessiva con una prevalenza di circa 1:10 000 nati e caratteristiche cliniche
variabili, che includono convulsioni, ritardo mentale, autismo e tumori
benigni in diversi organi (Crino PB, 2006). Le donne con sclerosi tuberosa sono anche a rischio di sviluppare la linfangioleiomiomatosi
(LAM), complicanza caratterizzata da degenerazione cistica del polmone e proliferazione di cellule anomale chiamate LAM. Mutazioni di due
geni, TSC1 e TSC2, causano la malattia. I prodotti proteici di entrambi i
geni formano un complesso che inibisce mTORC1 (mammalian target
of rapamycin complex 1), un mediatore di processi cellulari quali crescita, autofagia e progressione di ciclo cellulare (Huang et al., 2008). Il
deficit di TSC1 o TSC2 attiva mTORC1 che induce la crescita tumorale.
La rapamicina (Sirolimus) è un inibitore di mTORC1 e viene utilizzato
nella pratica clinica come immunosoppressore nei trapianti d’organo.
Quando i ricercatori hanno dimostrato che il Sirolimus normalizzava la
funzionalità di mTORC1 nei topi con deficit di TSC1/2 e che la crescita
tumorale era inibita, sono stati intrapresi studi clinici di fase II per valutare l’efficacia del Sirolimus nel prevenire la LAM in pazienti con sclerosi
tuberosa, sia negli USA che in Europa (Bissler et al., 2008; Davies et
al., 2008). Essi hanno dimostrato in effetti una significativa riduzione
della complicanza. Studi preclinici in modelli animali suggeriscono che
l’inibizione di mTORC1 migliora anche il fenotipo neurologico, ovvero le
funzioni cognitive, l’organizzazione neuronale e le convulsioni (Ehninger
et al., 2008; Zeng et al., 2008). Studi clinici randomizzati controllati sono
in corso con l’obiettivo di valutare l’efficacia del Sirolimus per il trattamento di questi disturbi neurologici.
Malattia di Huntington
L’inibizione di mTORC1 è stata anche proposta come strategia terapeutica di malattie neurodegenerative come la malattia di Huntington,
la cui patogenesi è legata alla formazione di aggregati proteici anomali
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
Tabella II.
Alcune nuove sindromi genetiche identificate dal 2007 ad oggi (da OrphaNews Europe).
Sindrome
Quadro clinico
Gene
Funzione
Anno
Sindrome contratturale
congenita e letale
Contratture articolari multiple, micrognatia, atrofia delle corna
anteriori spinali
PIP5K1C
Pathway fosfatidilinositolo
2007
RNF135
Interazioni proteina-proteina e
proteina-DNA
2007
PTEN
Fosfatidilinositolo3,4,5,trifosofato 3-fosfatasi
2007
Severa osteoporosi, brevità delle ossa lunghe, placche sclerotiche bianche, faccia arrotondata,
torace a forma di barile
LEPRE1
Prolina-3-idrossilasi 1
2007
Ritardo mentale, enteropatia, sordità, neuropatia periferica, ittiosi e cheratodermia
AP1S1
Complesso AP-1 (legame
clatrina-vescicola)
2008
Eccessiva crescita e disturbo del liguaggio
Sindrome di SOLAMEN
Dismorfismo, crescita segmentale, malformazioni vascolari e
linfatiche, lipomatosi, nevo lineare epidermico
Ritardo mentale con
dimorfismo ad eredità materna
Ritardo mentale a imprinting materno, ipotonia, faccia allungata
KCNK9
Canale del K+
2008
Sindrome malformativa
cerebrale X-linked
Microcefalia, ipoplasia cerebrale, ritardo mentale severo
CASK
Proteina che interagisce con il
fattore di trascrizione TBR1
2008
Distrofia muscolare congenita
Miopatia nel primo anno di vita
LMNA
Lamina (stabilità del nucleo,
struttura della cromatina,
espressione genica)
2008
Forma
Spondilocheirodisplastica di
Ehlers-Danlos
Cute iperelastica e sottile, iperlassità delle piccole articolazioni, sclere
blu, atrofia dell’eminenza tenar, dita allungate e sottili, platispondilia
con bassa statura moderata, osteopenia, metafisi allargate
SLC39A13
Trasportatore di zinco
2008
HOXA2
Fattore di trascrizione Homeobox A2
2008
NF1 microduplicazione
Ritardo mentale, calvizie precoce, ipoplasia dentaria, dimorfismi
facciali minori, cardiopatia
NF1
RAS-MAPK
2008
Sindrome SERKAL
Inversione sessuale (femmina-maschio), disgenesia renale,
surrenale e polmonare
WNT4
Proteina implicata nello sviluppo
gonadico femminile
2008
Microduplicazione 8q12
Ipotonia, RSPM, perdita di peso, anomalia di Duane, malformazione
di Mondini con associata sordità, anomalie auricolari, difetti dei setti
interatriali e interventricolari
Microduplicazione
8q12
Sindrome MACS
Macrocefalia, alopecia, cute lassa, scoliosi
Micrognazia AR, ipoacusia e parziale palatoschisi
Bassa statura, microcefalia, ritardo dello sviluppo osseo, ritardo del linguaggio, lieve o assente
dimorfismo facciale
Sindrome da difetto di
TMCO1
Dismorfismo cranio-facciale(brachicefalia, sinofria, orecchie
a basso impianto, iperplasia gengivale) anomalie scheletriche
(deformità della scapola, anomalie delle coste, pectus
excavatum), ritardo mentale
Microcefalia, epilessia ad esordio precoce, RSPM
(Gil et al., 2008). In modelli murini è stato dimostrato che Sirolimus
riduce gli aggregati proteici, probabilmente stimolando l’autofagia, e
migliora alcune anomalie comportamentali. Più recentemente, è stato individuato un nuovo potenziale target terapeutico per la malattia
di Huntington e altre malattie neurodegenerative, denominato TFEB
(transcription factor EB), determinante per la biogenesi lisosomiale e
la degradazione di complessi proteici tra cui quelli responsabili della
malattia di Huntington (Sardiello et al., 2009).
Neurofibromatosi tipo 1
L’esperienza clinica della neurofibromatosi esemplifica la difficoltà
di estrapolare i dati ottenuti in modelli animali all’uomo.
La neurofibromatosi tipo 1 è una condizione autosomica dominante, caratterizzata da manifestazioni neurocutanee e specifici deficit neuropsicologici. È causata da mutazioni del gene NF1, un oncosoppressore che regola la cascata di RAS. Incrementi di RAS sono stati associati a difetti della
plasticità neuronale e difetti di apprendimento nei modelli murini di NF1.
La cascata di RAS può essere inibita da inibitori della farnesil transferasi e
da inibitori del 3-idrossi-3-metilglutaril coenzima A (HMG-CoA) reduttasi,
come la sinvastatina. L’utilizzo di queste molecole per soli pochi giorni in
2009
RIN2
Trafficking endocitico
2009
NSD1
Fattore di trascrizione
2010
TMCO1
Non nota
2010
PNKP
(polinucleotide-chinasi 3’
fosfatasi) Riparo del DNA
2010
modelli murini NF1 ha indotto la normalizzazione della funzione cognitiva
(Guilding et al., 2007). Purtroppo, l’utilizzo della sinvastatina in bambini
con NF1 per 3 mesi non ha prodotto alcun miglioramento delle funzioni
cognitive nel gruppo trattato rispetto al placebo (Krab et al., 2008).
Neurofibromatosi tipo II: l’efficacia del bevacizumab nell’uomo
Una sordità neurosensoriale progressiva è una seria complicanza della
Neurofibromatosi tipo II, una condizione genetica associata all’insorgenza di schwannomi bilaterali e tumori benigni del nervo acustico. In uno
studio pubblicato nel 2009 su 10 pazienti con neurofibromatosi tipo II
(età 16-53 anni), l’utilizzo del bevacizumab, un anticorpo monocloale
anti-VEGF (fattore di crescita dell’endotelio vascolare) causava una riduzione degli schwannomi vestibolari e un miglioramento dell’udito in
circa la metà dei pazienti. Gli effetti collaterali osservati sono stati lievimoderati e non hanno comportato l’interruzione della terapia in nessuno
dei soggetti arruolati (Plotkin et al., 2009).
Terapie innovative per la sindrome di Marfan
La sindrome di Marfan è caratterizzata da anomalie scheletriche, cardiovascolari ed oculari con una incidenza di 1:5000 individui. È causata
73
I. Scala et al.
Tabella III.
Terapie innovative per le malattie genetiche (da OrphaNews Europe).
Malattia
Principio attivo
Fase di studio
Risultato
Sclerosi Tuberosa
Rapamicina (Sirolimus)
Clinica
Riduzione della linfangioleiomiomatosi (LAM)
Pre-clinica
Miglioramento delle funzioni cognitive
Malattia di Huntington
Rapamicina (Sirolimus)
Pre-clinica
Riduzione di aggregati proteici, miglioramento di alcune anomalie comportamentali.
Neurofibromatosi tipo I
Sinvastatina
Pre- clinica
Normalizzazione della funzione cognitiva
Clinica
Nessun vantaggio rispetto al placebo
Neurofibromatosi tipo II
Bevacizumab
Clinica
riduzione degli schwannomi vestibolari e un miglioramento
dell’udito in circa la metà dei pazienti
Sindrome di Marfan
Losartan
Clinica
Rallentamento della dilatazione della radice aortica
Perindropil
Clinica
Rallentamento della dilatazione della radice aortica
Losartan
Pre-clinica
Miglioramento dell’architettura e funzione muscolare
Perindropil
Clinica
Aumento della sopravvivenza
PTC-124
Clinica
Trial in corso
Ciclosporina A
Clinica
Aumentata rigenerazione muscolare
Minociclina o doxiciclina
Pre-clinica
Aumento della sopravvivenza e della crescita
Ritardata insorgenza di paralisi
Sindromi con craniosinostosi
SiRNA (in utero)
Pre-clinica
Correzione della craniosinostosi
Sindrome di Treacher Collins
Inibitore di p53 (in utero)
Pre-clinica
Correzione delle anomalie cranio-facciali
Acondroplasia
Paratormone (in utero)
Pre-clinica
Ridotto la morte e migliorato la crescita dei condrociti
Ritardo mentale legato all’X
Inibitori di PAK
Inibitori di SIRT1
Minociclina
Pre-clinica
Miglioramento delle performance
Fenobam
Pre-clinica; Clinica
Buoni risultati in fase pre-clinica;
Studio pilota nell’uomo per valutazione sicurezza
L-acetilcarnitina
Clinica
Miglioramento di deficit di attenzione ed iperattività
EGCG (epigallocatechingallate)
Pre-clinica
Promuove la plasticità neuronale e migliora alcune performance cognitive nel topo
Donezepil
Clinica
Risultati da confermare
Picrotossina
Pre-clinica
Miglioramento di alcune funzioni cognitive e performance
Memantina
Pre-clinica
Miglioramento delle performance
Peptidi neuroprotettivi alla madre
(NAPVSIPQ e SALLRSIPA)
Pre-clinica
Prevenzione del ritardo mentale nei nati con sindrome di
Down
Sindromi progeroidi
Pravastatina
Acido zoledronico
Clinica
Trial in corso
Atassia teleangectasia
Betametasone
Clinica
Miglioramento sindromi neurologici
Sindrome di Prader-Willi
Ormone della crescita
Clinica
Miglioramento obesità ed altezza finale
Sindrome di Noonan
Ormone della crescita
Clinica
Miglioramento altezza finale
Sindrome da delezione 22q13
Insulina intra-nasale
Clinica
Miglioramento della motricità sia fine che grossolana, delle
funzioni cognitive e della comunicazione non verbale
Amaurosi congenita di Leber
SCID
Terapia genica
Clinica
Prolungata espressione del gene trasdotto; recupero funzionale; nessun effetto avverso severo
Distrofia di Duchenne legata all’X
Distrofia di Becker
Distrofia congenita di Ullrich
Miopatia di Bethlem
Sindrome di Down
da mutazioni del gene FBN1 che codifica per la fibrillina 1. Questa proteina è importante per l’integrità meccanica degli organi ed apparati,
in particolare quello vascolare. La dilatazione progressiva della radice
aortica (che porta alla dissecazione) è la principale causa di mortalità
nei pazienti con la sindrome di Marfan. Studi recenti hanno dimostrato
che l’aneurisma dissecante dell’aorta insorge non solo come risultato
dell’alterazione del tessuto connettivale per il deficit di fibrillina 1, ma
anche per l’interazione anomala tra fibrillina 1 e TGF-beta (transforming
growth factor beta) (Jones et al., 2008). Il TGF-beta è normalmente
sequestrato dalla fibrillina 1 ed è rilasciato in maniera strettamente
controllata. Riduzioni della fibrillina 1 portano quindi ad un eccesso di
74
TGF-beta che promuove processi quali la degradazione della matrice
extracellulare. Studi precedenti avevano dimostrato che il trattamento
di modelli animali con anticorpi neutralizzanti il TGF-beta riduceva significativamente la dilatazione della radice aortica (Neptune et al., 2003),
ma tali anticorpi neutralizzanti non sono a tutt’oggi disponibili per uso
umano. Tuttavia, l’attività del TGF-beta può essere ridotta anche mediante inibitori dei recettori dell’angiotensina II tipo 1 come il Losartan,
ampiamente usato come antipertensivo, dimostratosi estremamente
efficace in modelli animali di malattia nella prevenzione dell’aneurisma
aortico (Martin et al., 2007; Zhang et al., 2009; Habashi et al., 2006).
Nel 2008, è stato pubblicato il primo trial con Losartan in un piccolo nu-
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
mero di pazienti con sindrome di Marfan (18 casi) che ha dimostrato un
significativo rallentamento della dilatazione della radice aortica (Brooke
et al., 2008). Sulla scorta di tali risultati incoraggianti, sono in corso altri
trial clinici sull’uso del Losartan nella sindrome di Marfan.
Infine, uno studio clinico randomizzato controllato in doppio cieco su
17 pazienti con sindrome di Marfan ha anche dimostrato l’efficacia
del Perindropil, un ACE inibitore, nel ridurre la dilatazione aortica
(Ahimastos et al., 2007).
Nuovi approcci terapeutici per le distrofie muscolari
Il Losartan potrebbe essere rilevante anche per la terapia di altre condizioni genetiche quali la distrofia di Duchenne e la distrofia muscolare
di Becker, condizioni alleliche con ereditarietà legata al cromosoma X.
Nelle fasi precoci di malattia la degenerazione delle cellule muscolari è
bilanciata da una rigenerazione, che diventa tuttavia sempre più inefficace con la sostituzione di fibre muscolari con tessuto fibrotico. Questo processo è stato associato ad un incremento dell’attività del TGFbeta (Cohn et al., 2007; Sun et al., 2009). Uno studio in modelli murini
knockout per il gene della distrofina trattati con Losartan ha dimostrato
un miglioramento dell’architettura e funzione muscolare attraverso il
mantenimento della rigenerazione muscolare (Cohn et al., 2007).
Il Perindropil invece si è dimostrato efficace, in un follow-up di 10
anni, nell’aumentare la sopravvivenza in bambini con distrofia muscolare trattati precocemente (Duboc et al., 2007).
È importante qui segnalare anche le sperimentazioni cliniche in bambini
con distrofia di Duchenne e Becker, affetti da mutazioni non-senso, ovvero
inducenti un segnale di stop prematuro nella proteina interessata, la distrofina (circa il 10-15% dei pazienti). Il farmaco utilizzato, chiamato PTC124,
è in grado di forzare la lettura (read-through) del codone di stop, riducendo
l’accuratezza del riconoscimento codone-anticodone a livello ribosomiale,
un meccanismo simile a quello indotto dagli amminoglucosidi, ma con minori effetti tossici. Numerosi trials clinici sono in corso (www.clinicaltrials.
gov), alcuni dei quali terminati. A marzo 2010, l’azienda produttrice del
farmaco ha annunciato che l’analisi preliminare dei dati di efficacia di uno
degli studi in corso non ha evidenziato un significativo miglioramento clinico nel gruppo dei bambini trattati rispetto a quelli non trattati. In particolare, nelle 48 settimane di studio, il test del cammino in sei minuti (6MWT), la
metodica più utilizzata per la valutazione della prestazione fisica in questi
soggetti, non ha mostrato significative variazioni tra i due gruppi. Anche se
il farmaco è stato ben tollerato e nessun bambino ha dovuto sospendere
il trattamento per eventi avversi, lo studio è stato sospeso e sono in corso
le valutazioni di tutti gli altri parametri, come la funzione cardiaca. (fonte: www.salutedomani.com). Questa categoria farmacologica è in fase di
sperimentazione anche in altre patologie causate da stop prematuro della
proteina, quali la fibrosi cistica e l’emofilia A e B (www.clinicaltrials.gov).
Un approccio alternativo, in corso di sperimentazione, è l’uso di molecole
in grado ripristinare la corretta sintesi della proteina mutata in pazienti con
delezioni del gene della distrofina (exon-skipping) (Guglieri et al., 2010).
Questi approcci innovativi rappresentano terapie di prima generazione
volte alla correzione di specifiche mutazioni nell’uomo, fornendo la base
per la cosiddetta ‘medicina personalizzata’.
La distrofia muscolare congenita di Ullrich e la miopatia di Bethlem
sono distrofie muscolari causate da mutazioni di geni codificanti per
il collagene tipo VI. I mioblasti dei pazienti presentano alterazioni
morfologiche e funzionali di mitocondri che inducono apoptosi in seguito all’aumento della permeabilità della membrana mitocondriale
interna. Queste alterazioni possono essere normalizzate dal trattamento con ciclosporina A, un immunosoppressore ampiamente
utilizzato nella pratica clinica. Gli autori riportano i risultati di uno
studio pilota con cliclosporina A in 5 pazienti con mutazioni del collagene VI, nei quali, dopo un mese di terapia, è stata dimostrata una
normalizzazione della funzione mitocondriale e aumentata rigenerazione muscolare su biopsie muscolari (Merlini et al., 2008).
Nella distrofia muscolare congenita, causata da mutazioni dell’alfa-laminina, si è testato in modelli murini l’uso della minociclina o doxiciclina,
derivati delle tetracicline, che hanno effetti antiapoptotici nell’uomo. Negli
animali trattati si è osservato un incremento della sopravvivenza, della
crescita e una ritardata insorgenza di paralisi (Girgenrath et al., 2009).
Sindrome dell’X-fragile
Numerosi sono gli approcci terapeutici, ancora in modelli animali, volti
alla cura del ritardo mentale legato all’X da mutazione del gene FMR1, la
forma più frequente di ritardo mentale ereditario. In base alle conoscenze
fisiopatologiche sulla malattia, le molecole in fase di studio sono le seguenti: inibitori di PAK, una chinasi attiva nella morfologia dendritica, la
cui funzione è aumentata nella malattia; inibitori di SIRT1, un enzima implicato nel silenziamento del gene mutato, che inducono la riattivazione
del gene; la minociclina, un analogo delle tetracicline, già utilizzata in trial
clinici per l’ictus, la sclerosi multipla e altre malattie neurodegenerative.
Questi approcci hanno tutti mostrato un miglioramento della morfologia
dendritica e un miglioramento delle performance nei modelli animali utilizzati (Bilousova et al., 2009; Hayashi et al., 2007; Biacsi et al., 2008).
Resta tuttavia da stabilire l’efficacia e la sicurezza di tali molecole
nell’uomo.
In uno stato più avanzato è invece la sperimentazione con il Fenobam, un antagonista dei recettori del glutammato mGluR5. In
modelli animali di sindrome di X-fragile il farmaco si è dimostrato
efficace nel migliorare le performance cognitive. Sulla scorta di questi risultati, nel 2009 è stato condotto il primo studio pilota nell’uomo
per la valutazione della sicurezza senza rilevare reazioni avverse.
Questi risultati incoraggiano lo sviluppo di ulteriori trial clinici per
verificare l’efficacia del farmaco (Berry-Kravis et al., 2009).
Infine, si segnala uno studio in doppio cieco dimostrante l’efficacia
dell’L-acetilcarnitina nel ridurre i disturbi da deficit di attenzione ed
iperattività presente nella sindrome dell’X-fragile (Torrioni et al., 2008)
Sindromi progeroidi e inibizione dei gruppi farnesili
Le sindromi progeroidi sono malattie genetiche rare caratterizzate dall’insorgenza precoce di segni dell’invecchiamento. Sono causate da mutazioni del gene LMNA, codificante per le proteine lamina A e C, proteine di
sostegno del nucleo cellulare. L’accumulo di prelamina A, come conseguenza di un’alterazione del processo di maturazione, è una peculiarità
delle sindromi progeroidi associate a mutazioni nel gene LMNA e sembra
essere il principale meccanismo patogenetico. In Italia, è partito uno studio clinico di fase III, approvato dal Comitato etico dell’Azienda Ospedaliera Policlinico Tor Vergata di Roma e finanziato dall’Agenzia Italiana
del Farmaco (AIFA), che prevede l’utilizzo di una statina (pravastatina) in
associazione con un bifosfonato (acido zoledronico), entrambi disponibili
in commercio e in grado di inibire la formazione di un gruppo farnesile
ritenuto responsabile della tossicità della prelamina A. Sarà molto interessante conoscere i risultati di questo trial anche alla luce dei risultati
incoraggianti precedentemente ottenuti in fase pre-clinica.
Atassia-teleangectasia e betametasone
L’atassia-teleangectasia è una patologia neurodegenerativa che si manifesta principalmente durante la prima decade con lesioni telangectasiche, nistagmo, disartria, areflessia, invecchiamento precoce e alterazioni
intellettive. Si osservano anche episodi di cadute e difficoltà nella deambulazione, oltre ad un’incidenza elevata di infezioni polmonari, di alcuni
tipi di neoplasie e del diabete. È causata da mutazioni del gene ATM,
implicato nella riparazione del DNA. In seguito ad una prima segnalazione
di un drammatico miglioramento dei sintomi neurologici in un paziente
75
I. Scala et al.
trattato con un breve ciclo di betametasone (Buoni et al., 2006), è stato
condotto uno studio su sei pazienti con atassia-teleangectasia trattati con
betametasone per via orale per 10 giorni al dosaggio di 0.1 mg/kg/die.
I risultati hanno dimostrato un miglioramento nelle abilità verbali e nella
coordinazione motoria (Broccoletti et al., 2008), probabilmente mediati da
un incremento della capacità antiossidante cellulare (Russo et al., 2009).
Trattamenti sperimentali ‘in utero’ per la prevenzione
di malformazioni congenite
Molti disordini mendeliani sono caratterizzati da malformazioni congenite derivate da uno sviluppo anomalo nel corso dell’embriogenesi.
Studi recenti in modelli murini hanno dimostrato che terapie mirate ‘in
utero’ possono essere utilizzate per trattare sindromi malformative.
Craniosinostosi: l’uso rivoluzionario dell’RNA interference
La sindrome di Apert è caratterizzata da craniosinostosi e sindattilia
delle mani e dei piedi ed è causata da mutazioni attivanti del gene del
recettore del fattore di crescita dei fibroblasti tipo 2 (FGFR2). La proteina mutata aumenta la cascata di trasduzione del segnale delle MAPK.
Nel 2006, è stato sviluppato il primo modello murino di sindrome di
Apert con craniosinostosi. In questo modello animale, nel 2007, si sono
ottenuti i primi risultati incoraggianti utilizzando una metodologia rivoluzionaria mutuata direttamente dalle ultime conoscenze della biologia
molecolare: il silenziamento genico mediante RNA interference. L’RNA
interference (interferenza dell’RNA, RNAi) è un meccanismo mediante il
quale alcuni frammenti di RNA a doppio filamento interferiscono (e spengono) l’espressione genica. In questi modelli animali, è stato utilizzato
un RNAi per silenziare il gene mutato, ottenendo una normalizzazione
della via delle MAPK ed una completa correzione del fenotipo (Shukla
et al., 2007). Questi risultati sono molto rilevanti poiché altre patologie
genetiche, nel loro complesso non rare, sono caratterizzate da incrementi della via delle MAPK tra cui la sindrome cardio-facio-cutanea, la
sindrome di Costello e la sindrome di Noonan (Aoki et al., 2008).
Nonostante questi risultati incoraggianti, bisogna riconoscere che la
terapia delle sindromi malformative presenta ancora difficoltà significative per la traslazione delle ricerche alla pratica clinica, legate
soprattutto alla necessità di una diagnosi prenatale precoce e al rischio di teratogenicità legata al farmaco.
Sindrome di Treacher Collins: inibitori della proteina p53
correggono le anomalie cranio-facciali in modelli murini
La sindrome di Treacher Collins è un disordine congenito dello sviluppo
cranio-facciale derivante da mutazioni di TCOF1. La proteina p53 ha un
ruolo importante nella patogenesi di queste malformazioni. Nel topo, l’inibizione di p53 in utero previene le anomalie cranio facciali, tracciando una
strada per una possibile terapia anche nell’uomo (Jones et al., 2008).
Trattamento in utero dell’acondroplasia in modelli murini
mediante paratormone
L’acondroplasia è una ben nota causa di bassa statura con arti corti. È
causata da mutazioni attivanti del gene FGFR3. Vari studi suggeriscono
che l’origine della malattie risiede in un’alterazione della proliferazione e differenziamento dei condrociti. Due ricercatori giapponesi hanno studiato in vitro l’effetto del paratormone sulla crescita dei femori
di embrioni di topo affetti. In 4 giorni, l’ormone ha ridotto la morte dei
condrociti e ha migliorato la crescita, individuando nel paratormone un
potenziale farmaco per successivi studi in vivo (Ueda et al., 2007).
La sindrome di Down
La sindrome di Down è una cromosomopatia derivante dalla presenza
dalla trisomia del cromosoma 21. Le manifestazioni cliniche della sin-
76
drome derivano in parte dell’effetto dose dei geni presenti sul cromosoma 21 ed in parte dell’effetto di tale trisomia su altri geni presenti su
altri cromosomi. Ne deriva che, nonostante notevoli sforzi, un approccio
terapeutico efficace risulta estremamente complicato. Nonostante ciò,
negli ultimi anni si stanno ottenendo risultati incoraggianti in modelli animali, rilevanti anche in relazione alla frequenza della sindrome
(1:700-1000 nati vivi) e all’incremento della vita media dei soggetti
con sindrome di Down. Al di là dei dismorfismi e di alcune malformazioni congenite, il problema clinico di maggiore impatto, comune
a tutti i pazienti, è il ritardo mentale ed è per questo che le terapie
mirate a migliorare i deficit cognitivi rappresentano l’obiettivo principale. Attualmente si stanno seguendo tre approcci per lo sviluppo di
farmaco-terapie: 1. correggere le disfunzioni di singoli geni presenti
sul cromosoma 21, reputati importanti nella patogenesi; 2. correggere
determinati fenotipi; 3. correggere pathway perturbati.
Nell’ambito della prima strategia, risultati incoraggianti derivano
dall’inibizione di un gene presente nella regione critica della sindrome di Down (DYRK1A) da parte di un composto naturale a spiccata azione antiossidante, chiamato EGCG (epigallocatechingallate),
un estratto del tè verde che è in grado di promuovere la plasticità
neuronale e migliorare alcune performance cognitive nel modello
murino (Xie et al., 2008).
Nell’ambito del secondo approccio, si segnalano: 1. un trial clinico con
il Donezepil, un farmaco anticolinesterasico approvato per la malattia
di Alzheimer, con risultati non definitivi, da confermare in studi ulteriori (Kishnani et al., 2009); 2. una sperimentazione nel modello murino
con picrotossina, un antagonista GABAA, con miglioramento di alcune
funzioni cognitive e performance (Fernandez et al., 2007); 3. uno studio
con un antagonista del recettore NMDA, memantina, un farmaco approvato per uso umano nell’Alzheimer (Costa et al., 2008)
Nell’ambito della terza strategia, uno studio recente in modelli murini di
sindrome di Down ha dimostrato che l’esposizione embrio-fetale a peptidi neuroprotettivi (NAPVSIPQ e SALLRSIPA) previene il ritardo mentale nei
nati con sindrome di Down (Toso et al,, 2008; Vink et al., 2009).
Quali le difficoltà della terapia “molecolare”?
L’individuazione di un target molecolare alterato e la sua successiva correzione è un approccio diretto e, tutto sommato, semplice per ottenere
la normalizzazione di un segnale e quindi di un processo cellulare. Infatti,
si sono già ottenuti risultati incoraggianti per diverse malattie genetiche.
Tuttavia, già su base teorica, si possono riconoscere diversi ostacoli, da
valutare attentamente in fase pre-clinica. Le vie di trasduzione del segnale
sono modulate da stimoli multipli, quindi potrebbe essere difficile modulare la dose per ottenere la risposta molecolare desiderata con il rischio,
per importanti network cellulari, di effetti collaterali. Un esempio è dato
dal Sirolimus che può causare trombocitopenia, anemia, ipopotassiemia,
ipofosfatemia, ipercolesterolemia, iperglicemia, ipertrigliceridemia. Pertanto, i potenziali effetti collaterali potranno restringere la selezione dei
pazienti, la dose o la durata della terapia e andranno commisurati alla
gravità della patologia che si intende curare. Infine, la ridondanza nelle
vie di traduzione del segnale potrebbe limitare l’efficacia della terapia.
Terapie di supporto nelle sindromi genetiche: l’esempio della
terapia ormonale
Da alcuni anni, la terapia ormonale sostitutiva si sta applicando anche
ad alcune sindromi genetiche caratterizzate da bassa statura e/o disgenesia delle gonadi. Un esempio classico è la sindrome di Turner, per la
quale è ormai ben accertato il beneficio della terapia con ormone della
crescita (GH) per migliorare l’altezza finale e la necessità in molti casi di
indurre la pubertà con terapia estrogenica (Hjerrild et al., 2008).
Anche per la sindrome di Prader-Willi si sta valutando il rapporto rischio-
Malattie genetiche rare (ma tante): nuovi geni, nuove sindromi e nuove terapie
beneficio della terapia con ormone della crescita. La sindrome di PraderWilli è caratterizzata, oltre che da disturbi dell’apprendimento e ipotonia
– particolarmente marcata nei primi 2 anni d’età -, da obesità e bassa
statura. In questi pazienti, la terapia con GH migliora l’obesità e l’altezza
senza effetti collaterali, apparentemente anche in pazienti con scoliosi, una
controindicazione classica alla terapia con GH (Goldstone et al., 2008)
Per la sindrome di Noonan, caratterizzata da bassa statura, segni dismorfici e cardiopatia congenita, uno studio, pubblicato nel 2009, suggerisce un beneficio clinico della terapia con ormone della crescita in
età prepuberale in termini di altezza finale (Romano et al., 2009).
Un’esperienza interessante è infine quella riportata da ricercatori tedeschi che hanno sperimentato l’uso di insulina intra-nasale in 6 bambini con la sindrome da delezione 22q13, caratterizzata da ritardo
mentale, particolarmente marcato a livello espressivo-verbale, ipotonia, dismorfismi. La premessa per l’utilizzo di insulina è che questa,
oltre a modulare l’omeostasi glucidica, agisce da neuropeptide modulando la plasticità neuronale. Il trattamento giornaliero per un anno
in questi bambini con delezione 22q13 ha prodotto un miglioramento
della motricità sia fine che grossolana, delle funzioni cognitive e della
comunicazione non verbale (Schidt et al., 2009). Ovviamente, dato il
piccolo numero di pazienti, questo studio fornisce solo un’indicazione
di possibile efficacia, da confermare in studi multicentrici più ampi.
Terapia genica e trial clinici: alcuni esempi
Notevoli sono gli sforzi della comunità scientifica internazionale per
lo sviluppo di terapie geniche per patologie umane. Numerosi studi
sono ancora in fase pre-clinica. Qui si riportano due esempi in cui la
terapia genica è stata applicata con successo nell’uomo: l’amaurosi
congenita di Leber e l’immunodeficienza severa combinata (SCID)
L’amaurosi congenita di Leber è una retinopatia ereditaria, causa di
cecità. In tre pazienti affetti, l’iniezione subretinica di vettore virale ade-
no-associato contenente il gene RPE65, mutato nei pazienti, ha indotto
un recupero duraturo della funzione visiva (1 anno e mezzo all’ultimo
follow-up) senza significativi effetti collaterali (Simonelli et al., 2010).
L’immunodeficienza severa combinata (SCID), dovuta al deficit
del gene adenosina deaminasi (ADA), è un’immunodeficienza fatale.
In 10 bambini affetti sono state infuse cellule midollari CD34+ trasdotte con un vettore retrovirale esprimente il gene ADA. In un periodo medio di follow-up di 4 anni i pazienti trattati hanno avuto una
duratura espressione del gene trasdotto ed un recupero della funzionalità cellulare T e della risposta anticorpale (Aiuti et al., 2009).
Conclusioni
In conclusione, oltre ai pediatri dei Centri di riferimento per patologie rare,
i pediatri ospedalieri o di libera scelta incontreranno sempre più nella
loro vita professionale pazienti con malattia rara, per la maggior parte di
natura genetica, e si troveranno ad affrontare emergenze mediche (ad
esempio in pronto soccorso), oppure a rispondere a richieste di chiarimenti sul decorso della malattia oppure a gestire terapie sperimentali in
collaborazione con i Centri di riferimento. Infine, nell’ambito dei percorsi
diagnostici-terapeutici che in ogni regione di stanno sviluppando per le
malattie rare, il pediatra si troverà a svolgere una funzione di attore nelle
reti assistenziali. Ovviamente, non è possibile conoscere le specificità di
ciascuna malattia rara che, come emerge dai paragrafi precedenti, sono
caratterizzate da quadri clinici peculiari e approcci complessi. Tuttavia,
conoscendo gli strumenti giusti di informazione, ciascun medico potrà
tenersi aggiornato o approfondire tematiche riguardanti quella specifica
malattia rara di cui è affetto il proprio paziente. L’informazione e la formazione di tutti gli attori del panorama assistenziale sarà la premessa per un
dialogo costruttivo ed efficace, che avrà come risultato la miglior gestione
possibile del paziente.
Box di orientamento
• Dal 2007 ad oggi sono state identificate ben 118 nuove sindromi genetiche e 331 nuovi geni implicati nella patogenesi di sindromi genetiche già note.
• La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base delle sindromi genetiche è importante per comprendere la patogenesi delle manifestazioni
cliniche associate, per definire la prognosi e per la ricerca di nuovi approcci terapeutici.
• In molte regioni italiane si sta cercando di creare o di implementare la formazione di reti assistenziali per la gestione integrata dei pazienti affetti
da malattie rare. Pertanto i pediatri del territorio saranno sempre più attivamente coinvolti nella gestione dei “malati rari” in collaborazione con i
loro centri di riferimento.
• Uno dei motori di ricerca di facile consultazione è il portale Orphanews di Orphan Europe, che consiste in newsletters pubblicate online organizzate
in sezioni riassuntive dedicate ad Editoriali, nuovi geni, nuove sindromi, nuove terapie.
• Nel caso delle malattie genetiche la conduzione di trial clinici per lo sviluppo di nuove terapie è molto complessa, perché la popolazione di pazienti
è poco numerosa, geograficamente distante e spesso rappresentata da gruppi vulnerabili come bambini o soggetti con disabilità mentale.
• Molte terapie già in uso per altre patologie possono adattarsi anche alle malattie genetiche rare e lo stesso principio attivo può essere utilizzato per
più patologie genetiche.
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Corrispondenza
Generoso Andria, Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, via S. Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail: [email protected]
78
Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 79-88
GeNeTICA
Progressi nell’analisi del genoma umano:
la rivoluzione è cominciata
Nicola Brunetti-Pierri
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli e Telethon Institute of Genetics and Medicine, Napoli
Riassunto
I progressi delle tecnologie basate su array e di sequenziamento del DNA hanno enormemente migliorato le capacità di analisi del genoma umano e stanno
rapidamente rivoluzionando il campo della ricerca medica e della diagnostica molecolare. La possibilità di analizzare ‘single nucleotide polymorphisms’
(SNPs) su larga scala ha consentito di individuare numerose varianti nucleotidiche associate ad un aumentato rischio di malattie comuni. L’analisi mediante
array del DNA ha condotto alla scoperta di numerose variazioni genomiche (duplicazioni e delezioni) submicroscopiche definite ‘copy number variants’
(CNVs) e all’identificazione delle cause di un vasto numero di sindromi e ‘malattie genomiche associate’ a ritardo mentale e malformazioni congenite.
Tuttavia la nostra comprensione delle conseguenze cliniche associate a numerose CNVs rimane ancora limitato e molte di esse hanno al momento significato clinico incerto. L’interpretazione e il ‘counselling’ genetico sono anche complicati dal fatto che numerose CNVs sono state associate ad aumentata
suscettibilità allo sviluppo di malattie complesse, come schizofrenia, autismo, malattie infettive e malattie autoimmuni.
Se fino a pochi anni fa il sequenziamento completo del genoma umano era estremamente laborioso e richiedeva anni di lavoro e ingenti risorse, di recente
sono stati riportati i primi successi, in tempi rapidi e a costi decisamente inferiori, del sequenziamento di ultima generazione dell’intero genoma umano in
soggetti sani e affetti da malattie Mendeliane. Questi progressi stanno aprendo scenari finora impensabili e al tempo stesso importanti dilemmi diagnostici.
Summary
Advances in DNA microarray and sequencing technologies have vastly increased our ability to interrogate the human genome. These rapid changes are not
only affecting research but also revolutionizing DNA diagnostics. High-throughput single-nucleotide polymorphism (SNP) genotyping is being widely applied
in genome-wide association studies (GWAS) with successes in the identification of common variants that confer risk for common diseases. Array-based
technologies has led to the discovery of extensive submicroscopic chromosomal variations (deletions and duplications), defined as copy number variants
(CNVs), in the population and the delineation of several previously unrecognized syndromes, known as ‘genomic disorders’. Unfortunately, our comprehension of the phenotypic consequences of CNVs is limited and several of them are still of uncertain clinical significance. The interpretation and the genetic
counselling are also complicated because several CNVs are detected in normal individuals, although they are clearly associated with increased risks for a
wide variety of human diseases ranging from neuropsychiatric conditions, such as autism and schizophrenia, to autoimmune diseases and susceptibility
to infectious diseases.
A tremendous improvement in the DNA sequencing technology has led in the last few months to several applications of whole human genome sequencing
in medical diagnosis. These applications of high-throughput genotyping and array-based DNA sequencing technology resulted in important successes in
diagnostic analyses of rare mutations but are also raising significant diagnostic dilemmas.
Introduzione
Tecniche di indagine del genoma umano:
Negli ultimi anni c’è stato uno straordinario avanzamento delle metodiche prospettiva storica
di indagine del DNA che ha enormemente migliorato il nostro livello di
comprensione del genoma umano. Fino a pochi anni fa, le principali fonti
di variazioni del genoma umano erano ristrette ai polimorfisfmi eterocromatinici, facilmente visibili in microscopia ottica all’analisi dei cromosomi
e ai ‘single nucleotide polymorphisms’ (SNPs) identificati mediante tecniche di sequenziamento tradizionale del DNA. Il progetto HapMap, che
ha catalogato più di 3.1 milioni di SNPs nel genoma umano depositati
nel ‘Single Nucleotide Polymorphism database’ (dbSNP; http://www.ncbi.
nlm.nih.gov/projects/SNP), ha facilitato l’individuazione di numerose varianti nucleotidiche e l’identificazione di un vasto numero di SNPs associati ad un aumentato rischio di malattie comuni. La scoperta di numerose ‘copy number variants’ (CNVs), come duplicazioni e delezioni, presenti
nel nostro genoma ha drasticamente mutato la nostra percezione delle
variazioni genomiche strutturali e delle cause di malattie Mendeliane e
malattie complesse. Le tecniche del ‘comparative genomic hybridization
(CGH) microarray’ e ‘whole genome sequencing’ consentono un’analisi del genoma umano a risoluzione praticamente illimitata e offrono la
possibilità di comprendere le cause e i meccanismi responsabili delle
variazioni inter-individuali e di malattie Mendeliane e complesse.
Le prime analisi del genoma umano sono state effettuate intorno al 1956
mediante visualizzazione al microscopio dei cromosomi, quando Tjio e
Levans osservarono per la prima volta che le cellule umane contengono
46 cromosomi (Tijo e Levan, 1956). Pochi anni dopo furono identificate
le principali anomalie numeriche dei cromosomi responsabili di patologie nell’uomo: la sindrome di Down causata da trisomia 21 (Lejeune
et al., 1959), di cui lo scorso anno si è celebrato il 50° anniversario
della sua caratterizzazione citogenetica (Neri e Opitz, 2009), e le trisomie 13 e 18 (Edwards et al., 1960; Patau et al., 1960). In questa fase
della citogenetica, nuove sindromi venivano identificate e caratterizzate
analizzando fenotipi di pazienti con le stesse anomalie cromosomiche
(approccio ‘genotype first’). Nel 1970 con le tecniche di bandeggio potevano essere visualizzate bande chiare e scure all’interno di ciascun
cromosoma, aprendo così la strada all’identificazione di traslocazioni e
altre anomalie strutturali del genoma, con un potere di risoluzione di più
di 5 Mb (Caspersson et al., 1970). Con lo studio dei cromosomi ad alta
risoluzione fu poi possibile identificare anomalie di dimensioni ancora
inferiori, comprese tra 3 e 5 Mb. Le tecniche di citogenetica molecolare,
79
N. Brunetti-Pierri
‘fluorescent in situ hybridization’ (FISH), hanno aumentato ulteriormente
il potere di risoluzione delle indagini genomiche consentendo l’identificazione di anomalie cromosomiche submicroscopiche associate a
specifiche sindromi, come le sindromi di Williams e DiGeorge. La FISH
ha permesso inoltre l’identificazione di delezioni nelle regioni subtelomeriche responsabili di numerose sindromi associate a ritardo mentale.
La FISH però è un’analisi indirizzata a specifiche regioni cromosomiche
ed essendo locus-specifica, consente di interrogare il genoma in una regione molto specifica e limitata che è selezionata sulla base del fenotipo
clinico (approccio ‘phenotype first’).
Comparative Genomic Hybridization
La metodica dell’array ‘comparative genomic hybridization’ (CGH) è
stata sviluppata per migliorare il potere di risoluzione dell’analisi rispetto all’analisi cromosomica tradizionale e permette di identificare
riarrangiamenti genomici submicroscopici, paragondando il DNA del
paziente con un DNA di controllo (Zuffardi et al., 2006). Nei primi
approcci di questa metodica, perdite (‘losses’) e acquisizioni (‘gains’)
di materiale genomico venivano identificati al livello di risoluzione dei
cromosomi in metafase, in quanto il campione di DNA genomico del
paziente veniva ibridizzato a cromosomi normali in metafase (Kallioniemi et al., 1992). Questa tecnica si rivelò molto utile nello studio dei
tumori con riarrangiamenti cromosomici multipli. Successivamente,
i cromosomi normali furono sostituiti da sonde di ‘bacterial artificial
chromosome’ (BAC) distribuite su supporti solidi. In questo metodo,
denominato ‘array’ CGH, i frammenti di genoma umano (nella forma di BAC o di oligonucleotidi nella versione con maggiore potere
di risoluzione) sono legati ad un supporto solido di vetro e il DNA
Figura 1.
Potere di risoluzione delle indagini per lo studio del
genoma umano. Gli ‘spots’ verdi dell’array CGH indicano due regioni genomiche contententi duplicazioni.
FISH = fluorescence in situ hybridization; CGH = comparative genomic hybridization.
80
del paziente e del controllo, marcati in maniera differenziale, vengono applicati sull’array (Albertson e Pinkel, 2003). Gli array basati
su BAC non possono identificare CNVs di dimensioni inferiori a 50
Kb, mentre gli array basati su oligonucleotidi forniscono una maggiore risoluzione e una più accurata definizione dei limiti delle CNVs
(Fig. 1). Lo sviluppo e la diffusione dell’array CGH a scopo diagnostico
e di ricerca ha prodotto una proliferazione di nuove sindromi con un
tasso simile a quello registrato agli albori della citogenetica classica
(Lejeune e Turpin, 1961) e ripropone il modello ‘genotype first’, nel
quale l’identificazione e la caratterizzazione di una sindrome avviene
analizzando con attenzione i fenotipi clinici di pazienti con la stessa
anomalia genomica (Ledbetter, 2008), come per esempio è avvenuto
per le sindromi da delezioni/duplicazioni della regione 1q21.1 (Brunetti-Pierri et al., 2008; Mefford et al., 2008).
Le tecniche di analisi di genoma umano tendono sempre più a
convergere e ad esempio, gli array basati su SNPs possono essere
utilizzati per valutare il numero di copie genomiche. Questi array
differiscono dagli array CGH perché in questa metodica soltanto il
genoma del paziente è ibridizzato al supporto solido. Nell’analisi degli SNP array, l’intensità degli SNPs, paragonata ad un set standard
di intensità degli SNPs derivato da controlli normali, indica perdite o
acquisizioni di numero di copie genomiche. Oltre a fornire informazioni su CNVs, gli SNP array consentono anche di identificare disomie uniparentali e perdita di eterozigosità.
L’array CGH si è dimostrato uno strumento decisivo per l’elucidazione dell’eziologia di sindromi genetiche. Per esempio la scoperta del
gene responsabile per la sindrome CHARGE (‘coloboma, heart defects,
atresia of the choanae, retardation of growth/development, genital
abnormalities, ear abrnormality’), che ha resistito per anni all’identifi-
Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
cazione con metodi tradizionali, è stata molto facilitata dall’array CGH.
Il gene CHD7 responsabile della malattia è stato infatti individuato grazie all’identificazione di pazienti con delezione sul cromosoma 8q12
e successivo sequenziamento dei geni contenuti in questa regione
nei pazienti senza microdelezioni (Vissers et al., 2004). In maniera
analoga, è stato identificato il gene B3GALTL come responsabile della
sindrome di Peters-plus, associata ad anomalie dello sviluppo oculare,
dismorfismi facciali, labiopalatoschisi, bassa statura e variabile ineteressamento cognitivo (Lesnik Oberstein et al., 2006).
Copy Number Variants
Le CNVs vengono definite come alterazioni in eccesso o in difetto,
rispetto ad una popolazione di controllo, di una regione cromosomica
di dimensioni comprese tra 1000 paia di basi (1 Kb) fino a diverse Mb
(Eichler et al., 2007). Il database delle varianti genomiche umane (Database of Genomic Variants, http://projects.tcag.ca/variation/) raccoglie varianti strutturali di almeno 1 Kb, ma la maggioranza delle CNVs
umane hanno probabilmente dimensioni ridotte (Perry et al., 2008). Il
limite di 1 Kb è stato infatti stabilito in maniera arbitraria tenendo conto del limite di risoluzione dei metodi utilizzati per l’identificazione delle CNVs. Le CNVs interessano circa il 12% del genoma (Redon et al.,
2006) e perciò rappresentano una fonte più significativa di variazione
rispetto agli SNPs. Sembra che le duplicazioni siano più frequenti delle
delezioni (Redon et al., 2006). Tuttavia, nonostante i numerosi studi,
il numero totale, la posizione, la grandezza, il contenuto genico e la
distribuzione nelle popolazione delle CNVs non è stata ancora completamente chiarita. Il meccanismo principale che genera CNVs sembra
essere la ricombinazione omologa non-allelica (NAHR) che si verifica
in meiosi tra sequenze ripetute, denominate ‘low copy repeats’ (LCRs).
Queste sequenze, molto diffuse nel genoma umano, sono identiche
per il 98-99% (Sharp et al., 2006) e sono il substrato delle delezioni o
duplicazioni del segmento di DNA genomico tra esse compreso (Fig.
2). In aggiunta alla NAHR, sono stati individuati anche altri meccanismi
responsabili di riarrangiamento genomico (Lee et al., 2007).
Le CNVs possono comprendere numerosi geni, parti di geni ma possono anche essere prive di sequenze codificanti (denominate ‘deserto
genico’). Il principale meccanismo attraverso il quale i riarrangiamenti
genomici producono specifici fenotipi è essenzialmente dovuto ad alterazioni del dosaggio genico, causate da variazioni del numero di copie
geniche o degli elementi regolatori dell’espressione genica (Fig. 3).
Figura 2.
La ricombinazione omologa non-allelica (NAHR) si verifica in meiosi tra
‘low copy repeats’ (LCRs), sequenze identiche per il 94-99% che sono
il substrato delle delezioni o duplicazioni del segmento di DNA genomico tra esse compreso.
Figura 3.
Meccanismi patogenetici delle CNVs.
Il completamento della sequenza consenso del genoma umano
(Lander et al., 2001; Venter et al., 2001) ha permesso di concludere
che solo una piccola frazione del genoma spiega la diversità fenotipica e la diversa suscettibilità alle malattie tra gli individui. Infatti
due individui diversi, provenienti da aree differenti del globo, hanno
le loro sequenze genomiche identiche per ~99,9% (International
Human Genome Sequencing Consortium, 2004). Il progetto HapMap
ha aperto uno scorcio importante sulle variazioni inter-individuali del
genoma documentando più di 3,1 milioni di SNPs e la loro interrelazione in soggetti di controllo (Frazer et al., 2007). Questo importante catalogo delle variazioni umane ha facilitato enormemente i
cosiddetti studi di associazione, denominati studi di ‘genome wide
association’ (GWA), che hanno associato specifici SNPs alla diversità fenotipica ed alle malattie comuni (Sanna e Uda, 2009). Finora
sono stati pubblicati oltre 450 studi di questo tipo e oltre 2000 SNPs
o loci genetici sono stati associati a patologie umane. Tuttavia la
maggioranza dei fattori di rischio per malattie complesse hanno un
effetto modesto con ‘odds ratio’ inferiori a 1,5. Inoltre gli SNPs finora
81
N. Brunetti-Pierri
identificati non riescono ancora a spiegare la gran parte della frazione ereditabile delle malattie complesse e spesso i risultati ottenuti
in un determinato gruppo etnico non sono stati confermati in una
differente popolazione. Sia le due versioni disponibili della sequenza
umana consenso (Lander et al., 2001; Venter et al., 2001) che lo
studio HapMap (Frazer et al., 2007) riportano le variazioni genomiche esclusivamente in termini di SNPs, mentre le CNVs non sono
rappresentate. La generazione della sequenza completa del genoma diploide di soggetti di controllo e di affetti, che conterrà anche
questo importante gruppo di variazioni genomiche, potrà aiutarci a
comprendere a pieno la natura delle variazioni genetiche coinvolte
nelle malattie. Questo obiettivo, che fino a pochi anni fa era difficilmente immaginabile, sembra oggi essere alla portata dei laboratori
che utilizzano il ‘next generation sequencing’ che, al contrario del
metodo Sanger (Sanger et al., 1977), consente un’analisi dell’intero
genoma in tempi rapidi e a costi decisamente inferiori.
Oltre a svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo di varie patologie, le
CNVs sono un importante fattore coinvolto nella diversità fenotipica
tra gli individui e nell’evoluzione umana. Per esempio, la delezione del
locus P nella regione 15q11, coinvolta nelle sindromi di Prader-Willi
o Angelman, può determinare ipopigmentazione (Lee et al., 1994).
Le CNVs che coinvolgono il gene CCL3L1 invece sono implicate nella
suscettibilità all’HIV-1 e hanno una distribuzione geografica che è
probabilmente il risultato di un adattamento a determinate condizioni ambientali (Gonzalez et al., 2005). Un ulteriore esempio del ruolo
delle CNVs nell’adattamento all’ambiente riguarda il numero di copie
del gene dell’amilasi salivare che correla positivamente con i livelli
di proteina nella saliva in popolazioni che hanno un elevato consumo
di amido nella loro dieta (Perry et al., 2007).
Le CNVs possono anche avere un ruolo protettivo per le manifestazioni
cliniche di una malattia. Per esempio, un aumentato numero di copie
del gene SMN2 è associato ad un fenotipo più lieve di atrofia muscolo-spinale (Feldkotter et al., 2002). Il ruolo delle CNVs nel modulare
l’espressività delle malattie Mendeliane è stato finora poco approfondito e probabilmente verrà meglio elucidato nei prossimi anni.
Interpretazione dei risultati dell’array CGH
In citogenetica tradizionale, l’identificazione di un riarrangiamento
cromosomico, sopratutto se de novo, è considerato la causa del ritardo mentale o delle anomalie congenite. Tuttavia la scoperta che
CNVs sono comuni nella popolazione umana rende problematico
stabilire se un dato riarrangiamento è responsabile di malattia. Nel
caso di CNVs identificate mediante array CGH, per stabilirne il ruolo
patogenetico, è necessario dimostrare che esse non siano presenti
nella popolazione di controllo o se presenti, abbiano una frequenza inferiore nella popolazione normale. In generale, CNVs che sono
presenti de novo, sono estese e ricche di geni hanno maggiori probabilità di essere causative. Tuttavia vi sono eccezioni essendo state
riportate CNVs estese e contenenti dozzine di geni associate ad un
fenotipo apparentemente normale (Redon et al., 2006). Lo sviluppo
di database che catalogano le CNVs benigne (Database of Genomic
Variants, http://projects.tcag.ca/variation/) sono un importante ausilio per l’interpretazione di CNVs riscontrate in ambito diagnostico.
Utili sono anche i cataloghi di CNVs clinicamente rilevanti incluse
nei database DECIPHER (DatabasE of Chromosomal Imbalance and
Phenotype in Humans using Ensembl Resources, https://decipher.
sanger.ac.uk) (Firth et al. 2009) ed ECARUCA (European Cytogeneticists Association Register of Unbalenced Chromosome Aberrations,
http://agserver01.azn.nl:8080/ecaruca/ecaruca.jsp). Tuttavia va
considerato che CNVs classificate come benigne possono smasche-
82
rare mutazioni recessive presenti sull’altro allele e che determinate
CNVs possono risultare patogeniche se associate ad altre varianti
genomiche (CNVs o SNPs). Sembra inoltre probabile, anche se non
ancora provato, che almeno una porzione delle CNVs classsificate come benigne possano avere un fenotipo minimo. Infine, alcune
CNVs classificate come benigne possono in effetti essere associate
a malattie con ridotta penetranza o con esordio tardivo. Ad esempio,
delezioni di PMP22 causano la neuropatia ereditaria con predisposizione alla paralisi da compressione (HNPP), una condizione che è
asintomatica durante tutta la vita nella maggior parte degli individui
portatori della delezione e non può essere esclusa la possibilità che
soggetti portatori di questa CNVs, così come altre CNVs associate
a malattie con penetranza incompleta o ad esordio tardivo, siano
inclusi nella popolazione dei cosiddetti ‘controlli normali’.
Malattie genomiche
L’analisi di routine dei cromosomi è stata praticata con successo negli
ultimi 50 anni per indagare le cause di ritardo mentale, malformazioni congenite e dismorfismi facciali, sopratutto quando una specifica
sindrome non era immediatamente identificabile. L’analisi cromosomica infatti può essere richiesta per conferma diagnostica, come nel
caso della sindrome di Down, ma è più spesso eseguita per analizzare
l’intero genoma, al livello di risoluzione della metafase, per escludere anomalie strutturali e sbilanciamenti cromosomici, possibilmente
responsabili del fenotipo del paziente. Nel complesso, gli studi con
cariotipo e FISH sono in grado di identificare sbilanciamenti cromosomici in circa il 10% dei pazienti con ritardo mentale. L’analisi mediante
array CGH consente la valutazione simultanea di centinaia o migliaia
di loci genomici e ha un potere diagnostico superiore, che dipende dal
grado di copertura genomica delle sonde dell’array. Per esempio gli
array basati su BAC, incrementano il potere diagnostico nei pazienti
con ritardo mentale di circa il 10% (Shaffer e Bui, 2007; Stankiewicz e
Beaudet, 2007), e questo può essere ulteriormente aumentato con gli
array basati su oligonucleotidi. Tuttavia una limitazione dell’array CGH
è che questa metodica non permette di identificare riarrangiamenti
bilanciati come inversioni e traslocazioni.
Le variazioni del numero di copie nel genoma umano erano note da
decenni per loci come, ad esempio, quelli dell’α-globina (Flint et al.,
1986), della distrofia muscolare di Duchenne (Francke et al., 1985) e
dei geni delle opsine rosse e verdi (Nathans et al., 1986). Il concetto di
‘malattie genomiche’ è nato nel 1991 con la scoperta che duplicazioni
genomiche che coinvolgono il gene PMP22 sono la causa più comune
della malattia di Charcot-Marie-Tooth (Lupski et al., 1991). Le malattie
genomiche sono infatti dovute ad alterazioni del dosaggio di uno o
più geni causate da riarrangiamenti, come NAHR (Sharp et al., 2006)
o altri meccanismi (Lee et al., 2007), favoriti da specifiche caratteristiche dell’architettura genomica. Le malattie genomiche sono spesso
sporadiche, ossia causate da riarrangiamenti de novo, e il tasso di
mutazione locus-specifico varia tra 10-4 e 10-5, ed è pertanto almeno
da 1,000 a 10,000 volte più frequente di quello delle mutazioni puntiformi (Lupski, 2007). In generale, le malattie genomiche hanno incidenze simili nelle diverse popolazioni, sebbene variazioni strutturali di
specifiche regioni genomiche, che sono più frequenti in alcuni gruppi
etnici, possono predisporre a specifici riarrangiamenti. Per esempio,
la delezione di 500-600 Kb nella regione 17q21.31 fiancheggiata da
LCRs, associata a ritardo mentale e ad una facies caratteristica (Tab. I),
origina in presenza di una inversione che è riscontrata nel ~20% della
popolazione Europea (Koolen et al., 2006).
La presentazione clinica delle malattie dovute a delezioni tende ad
essere più uniforme e più severa rispetto a quella delle malattie geno-
Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
miche da duplicazioni, che hanno spesso caratteristiche più subdole
e spesso possono non essere riconosciute clinicamente. Considerato
l’impatto meno significativo sul fenotipo, le duplicazioni sono probabilmente meno soggette a una pressione selettiva e questo potrebbe
spiegare la loro elevata prevalenza nella popolazione normale.
Le malattie genomiche possono essere dovute a un singolo gene
all’interno della CNV che è responsabile della maggior parte o di tutto
il fenotipo, come ad esempio nel caso della malattia di Charcot-MarieTooth di tipo 1A e la duplicazione di PMP22 o nel caso della sindrome
di Smith-Magenis, dovuta a mutazioni nonsense o frameshift nel gene
RAI1 (Slager et al. 2003) o a delezioni della regione che contiene il
gene RAI1. Infine le malattie genomiche possono essere dovute a geni
multipli, come ad esempio nel caso delle sindromi di Williams-Beuren
e di DiGeorge (Tab. I). L’identificazione di pazienti con mutazioni puntiformi in geni contenuti nella regione critica delle malattie genomiche
ha permesso di stabilire il contributo di geni specifici alle manifestazioni cliniche delle malattie genomiche. Per esempio mutazioni del
gene dell’elastina, contenuto nella regione critica della sindrome di
Williams-Beuren, causano stenosi valvolare sopra-aortica e anomalie
del sistema connettivo (Curran et al., 1993) identiche a quelle osservate nella sindrome di Williams-Beuren. Mutazioni del gene TBX1 nel-
la regione 22q11.2 sono associate alla gran parte dei difetti osservati
nella sindrome di DiGeorge, come dismorfismi facciali, anomalie cardiache, ipoplasia timica, insufficienza del velo palatino, palatoschisi e
ipocalcemia (Yagi et al., 2003). Sebbene altri geni nella regione critica
di entrambe le sindromi siano probabilmente implicati nel fenotipo
neurocognitivo, i pazienti con mutazioni puntiformi dell’elastina e di
TBX1 hanno chiaramente dimostrato il ruolo di questi geni nel fenotipo
delle due sindromi.
Le CNVs possono causare malattia anche mediante un effetto posizionale. In questi casi la distruzione di sequenze regolatorie contenute nelle
CNVs causa un’alterazione del dosaggio di geni situati al di fuori del
segmento deleto o duplicato (Henrichsen et al., 2009a; Henrichsen et
al., 2009b; Merla et al., 2006). Questo tipo di meccanismo è analogo
all’effetto di posizione causato da traslocazioni bilanciate e può essere
implicato nella patogenesi di una malattia quando il punto di rottura è
situato fino a 1 Mb di distanza dal gene causativo. Per esempio, la sindrome di Cooks, caratterizzata da onicodistrofia, anonchia, brachidattilia
del V dito, agenesia o ipoplasia delle falangi distali delle mani e dei piedi,
è dovuta ad una duplicazione di una regione di circa 2 Mb di ‘deserto
genico’ contenente però una sequenza regolatoria del gene SOX9, che
non è incluso nella regione duplicata (Kurth et al., 2009). Pertanto le ma-
Tabella I.
CNVs associate a sindromi neurogenetiche.
Sindrome
OMIM
Locus
del(1)q21.1
612474
1q21.1
dup(1)q21.1
612475
Williams-Beuren
194050
7q11.23
dup(7)q11.23
609757
Angelman
105830
Prader-Willi
176270
dup(15)q11-q13
608636
Miller-Dieker
247200
dup(17)p13.3
613215
Smith-Magenis
182290
Potocki-Lupski
610883
Neurofibromatosi di tipo 1
162200
del(17)q21.31
Riarrangiamento
Gene
Referenze
del
HYDIN (?), geni multipli
dup
HYDIN (?), geni multipli
Brunetti-Pierri et al., 2008;
Mefford et al., 2008
del
ELN e geni multipli
Peoples et al., 2000
dup
Geni multipli
Berg et al., 2007
del mat, UPD15 pat
UBE3A
Matsuura et al., 1997
del pat, UPD15 mat
Geni multipli
Amos-Landgraf et al., 1999
dup
Geni multipli
Clayton-Smith et al., 1993
del
LIS1
Cardoso et al., 2003
dup, trip
LIS1, YWHAE
Bi et al., 2009
del
RAI1
Chen et al., 1997
dup
RAI1
Potocki et al., 2007
17q11.2
del
NF1 e geni multipli
Lopez Correa et al., 2000
610443
17q21.31
del
CRHR1, MAPT1
Koolen et al., 2006; ShawSmith et al., 2006
DiGeorge/VCFS
188400
22q11.2
del
TBX1, COMT e geni multipli Edelmann et al., 1999
dup(22)q11.2
608363
dup
Geni multipli
Ensenauer et al., 2003
del(22)q13
606232
22q13.3
del
SHANK3/PROSAP2
Durand et al., 2007
Rett
312750
Xq28
del
MECP2
Amir et al., 1999
Rett-like
300260
dup, trip
MECP2
Van Esch et al., 2005
Pelizaeus-Merzbacher
312080
Xq22.2
dup, del
PLP1
Lee et al., 2006
Atrofia muscolo-spinale
253300
5q13
del
SMN1, SMN2
Lefebvre et al., 1995
Leucoditrofia autosomica dominante
169500
5q23.2
dup
LMNB1
Padiath et al., 2006
Charcot-Marie-Tooth 1A
118220
17p12
dup
PMP22
Chance et al., 1994
HNPP
162500
del
PMP22
Chance et al., 1994
Parkinson
168601
4q21
dup, trip
SNCA
Singleton et al., 2003
Alzheimer
104300
21q21
dup
APP
Rovelet-Lecrux et al., 2006
Malattie neuropsichiatriche
15q11-q13
17p13.3
17p11.2
Malattie neurodegenerative
Abbreviazioni: del = delezione; dup = duplicazione; tri = triplicazione; mat = materna; pat = paterna; UPD = isodisomia uniparentale; VCFS = sindrome velocardiofaciale;
HNPP = neuropatia ereditaria con predisposizione alla paralisi da compressione.
83
N. Brunetti-Pierri
nifestazioni fenotipiche sono dovute ad alterazioni del dosaggio genico
di SOX9 causate dalla duplicazione della sequenza che ne regola i livelli
di espressione (Fig. 3).
Un ulteriore meccanismo attraverso il quale un riarrangiamento genomico può determinare malattia è attraverso lo smascheramento di
mutazioni recessive (Bisgaard et al., 2009). Tale meccanismo è stato
spesso proposto ma raramente descritto e pone problemi rilevanti per
l’interpretazione delle CNVs, incluse quelle classificate come benigne,
se esse contengono un gene responsabile di malattia recessiva (Fig. 3).
CNVs e malformazioni congenite
Le CNVs sono una causa importante di difetti congeniti, come evidenziato da uno studio in neonati con malformazioni congenite in cui è stata
riscontrata un’alta percentuale di CNVs patologiche de novo (Lu et al.,
2008). In questo studio l’array CGH, usato per analizzare 638 neonati
con una varietà di difetti congeniti, comprendenti dismorfismi facciali,
anomalie congenite multiple, malformazioni cardiache e palatoschisi, ha
riscontrato CNVs patogeniche nel 20% dei pazienti (Lu et al., 2008). In
pazienti con sospetto clinico di anomalia cromosomica, il tasso di rilevamento di CNVs de novo aumentava fino a ~67%, pari a circa tre volte il
tasso pubblicato per gli studi con cariotipo standard. CNVs hanno anche
un ruolo importante nelle malformazioni cardiache isolate (Erdogan et
al., 2008; Greenway et al., 2009) e sindromiche (Breckpot et al., 2010)
e sono state implicate nella patogenesi di labiopalatoschisi (Shi et al.,
2009) e delle ernie diaframmatiche (Scott et al., 2007).
In conclusione, l’array CGH è uno strumento diagnostico importante
nei neonati con difetti congeniti multipli, in cui il riconoscimento di
specifiche sindromi è spesso complicato da presentazioni atipiche,
dall’assenza di molte delle caratteristiche suggestive e dalle comorbidità presenti nel caso di prematurità.
CNVs e spettro di disordini neuropsichiatrici
Un discreto numero di CNVs è stato associato ad un ampio spettro
di fenotipi neuropsichiatrici comprendenti ritardo mentale, autismo
e disordini dello spettro autistico, schizofrenia ed epilessia. L’analisi
delle CNVs in gruppi di pazienti affetti da questi disordini, ritenuti clinicamente distinti, ha mostrato sorprendentemente che essi
sono associati ad un pool comune di CNVs e quindi probabilmente
condividono una base patogenetica comune. Queste CNVs sono infatti arricchite per geni coinvolti nella trasmissione sinaptica, come
SHANK3, neurexin 1 e le neuroligine (Sebat et al., 2007).
Una di queste CNVs, la microdelezione della regione 15q13.3, contenente il gene CHRNA7, codificante per un recettore nicotinico
dell’acetilcolina, è stata associata a una significativa eterogeneità
clinica comprendente ritardo mentale, dismorfismi facciali e digitali, comportamenti aggressivi e uno spettro di disordini psichiatrici
(Ben-Shachar et al., 2009; Sharp et al., 2008). Microdelezioni della regione 15q13.3, così come quelle che coinvolgono la regione
16p13.11, sono state riscontrate anche in individui con epilessia
generalizzata idiopatica isolata (de Kovel et al., 2010; Helbig et al.,
2009). Delezioni di questa regione e delle regioni 1q21.1, 15q11.2
e 22q11.2 (regione critica della sindrome di DiGeorge) sono infine
state associate in maniera significativa (odds ratio > 17) anche ad
un aumentato rischio di schizofrenia (Stefansson et al., 2008).
Vari studi hanno mostrato l’importanza delle CNVs nell’eziologia
dell’autismo e dei disordini dello spettro autistico (Sebat et al., 2007;
Szatmari et al., 2007). Nel caso dell’autismo, molte delle CNVs riportate sono uniche per singoli individui o famiglie e pertanto è difficile
84
stabilirne il ruolo patogenetico. Tuttavia una CNV di ~600 Kb di un segmento genomico del cromosoma 16p11.2 è stata riscontrata nel ~1%
dei casi di autismo (Kumar et al., 2008; Weiss et al., 2008). Delezioni
e duplicazioni di questa regione sono state anche associate ad un
disordine neurocognitivo con epilessia, anomalie congenite e micro- o
macrocefalia rispettivamente (Shinawi et al., 2009). Inoltre, delezioni
della regione 16p11.2, che si sovrappongono alla regione implicata
nell’autismo e includono il gene SH2B1 coinvolto nel signalling della
leptina e dell’insulina, sono state recentemente associate a obesità ad
esordio precoce (Bochukova et al., 2010; Walters et al., 2010).
Quest’ampia varietà di fenotipi associati alla medesima CNV e il fatto che molte delle CNVs identificate in vari disordini neuropsichiatrici
sono presenti a bassa frequenza anche in soggetti apparentemente
sani, fanno ipotizzare l’esistenza di ulteriori fattori genetici o ambientali responsabili per lo sviluppo della malattia. Quali siano questi fattori
è oggetto di intenso studio. Recentemente è stato notato che delezioni della regione 16p12.1, presenti in pazienti con ritardo mentale
e autismo, sono spesso ereditate da un genitore non-affetto e sono
frequentemente associate a una seconda e più estesa delezione o
duplicazione che interessa altre regioni genomiche (Girirajan et al.,
2010). Questa osservazione suggerisce un modello di malattia simile
a quello sviluppato per in cancro del tipo ‘double-hit’, in cui un’alterazione genomica è necessaria ma non sufficiente allo sviluppo della
malattia e la presenza di una seconda lesione genomica determina lo
sviluppo del fenotipo clinico. Questo modello è possibilmente applicabile anche ad altre sindromi da delezioni o duplicazioni e alle malattie
multifattoriali associate a CNVs (Girirajan et al., 2010).
CNVs e malattie multifattoriali
Il modello predominante per la comprensione della patogenesi delle
malattie è stato finora basato su quello dell’anemia a cellule falciformi,
in cui la mutazione di una singola base nucleotidica altera la sequenza
amminoacidica e risulta nella sintesi di una proteina non funzionante
(Pauling et al., 1949). Secondo questo modello, sostituzioni a carico
di una singola base nucleotidica sono la principale causa di variazione del genoma umano e di malattia. Il progetto HapMap (Frazer et
al., 2007) ha in effetti condotto all’identificazioni di numerosi SNPs
associati ad un aumentato rischio di malattie complesse (Manolio e
Collins, 2009). Tuttavia negli ultimi anni è progressivamente emerso
che le CNVs rappresentano un’ulteriore importante e potenzialmente più rilevante fonte di variabilità del genoma e di suscettibilità alle
malattie. Un crescente numero di pubblicazioni infatti supportano il
ruolo delle CNVs in un’ampia varietà di malattie complesse come ad
esempio HIV, asma, malattia di Crohn (McCarroll et al., 2008), psoriasi
(Hollox et al., 2008) e lupus eritematoso sistemico (Yang et al., 2007)
(Tab. II). È interessante notare che le CNVs coinvolte in malattie infettive e autoimmuni sono particolarmente arricchite per geni coinvolti
nell’infiammazione e nella risposta immune. Per esempio, CNVs che
includono il gene CCL3L1, codificante per una chemochina che è il più
potente ligando del recettore CCR5 dell’HIV-1, sono state implicate
nella patogenesi di varie malattie autoimmuni come artrite reumatoide e diabete mellito di tipo 1. Un numero ridotto di copie di CCL3L1 è
stato associato a suscettibilità all’infezione da HIV-1 e a una più rapida
progressione dell’HIV (Gonzalez et al., 2005). Un aumentato numero
di copie di CCL3L1 invece è associato ad un effetto protettivo per la
malattia di Kawasaki (Burns et al., 2005) (Tab. II).
Le CNVs possono manifestarsi clinicamente in presenza di specifiche circostanze ambientali. Per esempio, una delle CNVs più comuni
determina la presenza o assenza del gene RHD che causa l’assenza dell’antigene Rh nei globuli rossi (Avent et al., 1997). Sebbene
Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
Tabella II.
CNVs e malattie multifattoriali.
Malattia
Enfisema
Asma
Locus
Riarrangiamento
Gene
Referenze
5p15.33
dup
SDHA
Choi et al., 2009
7q22.1
del
MUC17
Choi et al., 2009
1q13.3
del
GSTM1
Brasch-Andersen et al., 2004
22q11.2
del
GSTT1
Brasch-Andersen et al., 2004
Infarto acuto del miocardio e stroke
6p21.3
del
C4B
Blasko et al., 2008
Vasculiti ANCA+
1q23
del /dup
FCGR3B
Fanciulli et al., 2007
Lupus eritematoso sistemico
1q23
del
FCGR3B
Aitman et al., 2006
6p21.3
del
C4
Yang et al., 2007
Malattia di Kawasaki
17q11.2
dup
CCL3L1
Burns et al., 2005
Pancreatitire cronica
7q35
tri
PRSS1
Le Marechal et al., 2006
Morbo di Crohn
5q33.1
del
IRGM
McCarroll et al., 2008
8p23.1
del
HBD-2
Fellermann et al., 2006
Psoriasi
8p23.1
dup
HBD-2
Hollox et al., 2008
Artrite reumatoide
17q11.2
dup
CCL3L1
McKinney et al., 2008
Suscettibilità malaria
16p13.3
del
α-globin
Flint et al., 1986
Suscettibilità HIV
17q11.2
del
CCL3L1
Gonzalez et al., 2005
Ipercolesterolemia familiare
19p13.2
del/dup
LDLR
Wang et al., 2005
Obesità
16p11.2
del
SH2B1
Bochukova et al., 2010
Abbreviazioni: del = delezione; dup = duplicazione; tri = triplicazione; ANCA = anti-neutrophil cytoplasmatic antibody.
l’assenza dell’antigene Rh sia una variante completamente normale,
essa può causare un aumentato rischio di malattia emolitica neonatatale nel feto Rh-positivo in una madre Rh-negativa precedentemente esposta all’antigene Rh. Un altro interessante esempio di
interazione genotipo-ambiente riguarda le CNVs che interessano il
gene CYP2D6 codificante per il citocromo P450, che contribuisce ad
importanti variazioni nel metabolismo di numerosi farmaci, inclusi
antidepressivi triciclici, inibitori del riassorbimento della serotonina,
antipsicotici, antiaritmici, β-bloccanti, antiemetici, antiistaminici e
oppioidi analgesici. Duplicazioni della regione contenente il gene
CYP2D6 infatti determinano un metabolismo ultrarapido di questi
farmaci e pertanto una ridotta efficacia terapeutica, mentre le delezioni possono predisporre ad un aumentato rischio di effetti collaterali tossici (Ingelman-Sundberg et al., 2007).
Sequenziamento di ultima generazione
Le nuove tecnologie promettono di aumentare drammaticamente l’efficienza e abbassare significativamente i costi del sequenziamento del
DNA. Vari metodi, denominati sequenziamento di ultima generazione
(‘next generation sequencing’), sono stati sviluppati per il sequenziamento su larga scala (‘high-throughput’) e sono basati su principi
differenti rispetto ai metodi tradizionali di sequenziamento del DNA basati sulla terminazione controllata della polimerasi del metodo Sanger
(Sanger et al., 1977). In questi approcci il DNA genomico, predisposto
su specifici supporti, viene amplificato in situ in maniera clonale e sequenziato usando varie strategie. Queste metodiche consentono l’analisi simultanea di > 1 milione di molecole per saggio (Metzker, 2010).
La sequenza aploide del genoma umano prodotta dallo Human Genome
Project è una sequenza consenso di un pool di campioni di DNA. La
sequenza diploide del genoma umano è al momento disponibile solo
per pochi soggetti di differenti gruppi etnici (due Caucasici, un Asiatico e
un Africano) (Bentley et al., 2008; Levy et al., 2007; Lupski et al., 2010;
Wang et al., 2008; Wheeler et al., 2008). Il progetto ‘1000 genomes’,
sostenuto da un consorzio internazionale, si ripropone di generare un
catalogo completo delle variazioni (SNPs e CNVs) del genoma umano,
sequenziando l’intero genoma di almeno 1000 individui di differenti aree
del globo (http://www.1000genomes.org/page.php). Questo progetto ci
aiuterà a comprendere a pieno la natura delle variazioni genetiche coinvolte nella diversità fenotipica e nelle malattie umane. Il sequenziamento
di un singolo genoma da parte dello Human Genome Project ha impiegato diversi anni per il suo completamento, ma le nuove tecnologie di
sequenziamento del DNA consentiranno di completare il progetto ‘1000
genomes’ in tempi più brevi e a costi decisamente inferiori.
Fino ad oggi i geni responsabili di malattie Mendeliane sono stati identificati per la maggior parte mediante clonaggio posizionale
basato su studi di linkage e sequenziamento di geni candidati. Recentemente, il sequenziamento dell’intero genoma con metodiche
di ultima generazione ha dimostrato che è possibile identificare il
gene responsabile di malattie Mendeliane avendo a disposizione un
piccolo numero di campioni di DNA di soggetti affetti e senza avere a
disposizione dati di linkage (Choi et al., 2009; Ng et al., 2009). Usando due approcci differenti ma entrambi basati su sequenziamento
di ultima generazione, è stato di recente identificato il gene DHODH
come responsabile della sindrome di Miller, conosciuta anche come
disostosi acrofacciale post-assiale, una rara malattia autosomica
recessiva. In un caso il gene è stato identificato analizzando tutto il
genoma e nell’altro limitandosi all’analisi dell’‘exome’, ossia di tutti
gli esoni di tutti i geni umani (Ng et al., 2010; Roach et al., 2010). Nei
prossimi anni questo tipo di approccio si rileverà certamente importante per identificare le basi molecolari di altre rare malattie Mendeliane di cui ancora non è noto il gene responsabile. È interessante
notare che i due soggetti affetti dalla sindrome di Miller, provenienti
da una stessa famiglia e studiati con questi approcci, avevano una
storia di infezioni ricorrenti e il sequenziamento del loro genoma ha
dimostrato la presenza di mutazioni nel gene DNAH5, responsabile
85
N. Brunetti-Pierri
della discinesia ciliare primaria (Olbrich et al., 2002). L’identificazione di queste mutazioni ha permesso di stabilire la causa delle
infezioni che pertanto non sono una manifestazione della sindrome.
Un ulteriore esempio che illustra lo straordinario potenziale diagnostico delle metodiche di sequenziamento di ultima generazione è stato
recentemente utilizzato per stabilire la diagnosi molecolare di CharcotMarie-Tooth nel Dr. Jim Lupski, genetista del Baylor College of Medicine,
Houston, USA, affetto dalla malattia. Dopo sequenziamento dell’intero
genoma e analisi delle sequenze codificanti dei geni già noti per essere
coinvolti in malattie neurologiche, sono state identificate mutazioni nel
gene SH3TC2 come responsabili della malattia. Un’interessante informazione ottenuta da questo studio è stata che il paziente analizzato è
risultato portatore di almeno 16 mutazioni in geni coinvolti in malattie
autosomiche recessive (Lupski et al., 2010). La trasmissione delle numerose informazioni ottenute mediante queste metodiche di indagini
ha implicazioni importanti per la consulenza genetica.
Conclusioni e prospettive
Le nuove tecniche di indagine del genoma umano hanno enormemente aumentato le nostre conoscenze sul ruolo del genoma nelle variazioni fenotipiche, nell’evoluzione e nelle malattie
umane. Numerosi studi illustrano chiaramente che le CNVs, oltre
ad essere responsabili di un numero sempre maggiore di malattie genomiche, predispongono anche allo sviluppo di malattie
complesse e indicano come i nuovi metodi di analisi del genoma
hanno uno straordinario potenziale diagnostico che si estende
in un vasto ambito pediatrico. Nello studio delle malattie multifattoriali, l’integrazione dei dati di SNPs e CNVs ci aiuteranno a
stabilire nel prossimo futuro con maggiore precisione i fattori
che determinano il rischio e la patogenesi delle malattie comuni.
Queste nuove metodiche di studio fanno però anche sorgere problemi
e dilemmi nell’interpretazione dei risultati ottenuti soprattutto in ambito diagnostico. L’interpretazione di molte CNVs è incerta e metodiche
di array CGH con più elevato potere diagnostico identificano anche un
maggior numero di varianti con significato incerto. Le metodiche di
sequenziamento dell’intero genoma poi pongono ulteriori domande:
per esempio, gli individui analizzati devono ricevere informazioni su
tutta o solo parte della loro sequenza? Come vanno interpretate e trasmesse le informazioni relative a malattie con esordio tardivo in età
adulta o le informazioni relative allo stato di portatore?
Studi approfonditi sulle variazioni genomiche e un’attenta caratterizzazione clinica dei soggetti arruolati come controlli ci consentiranno
di formulare risposte più precise a questi importanti quesiti che al
momento rimangono senza risposte definitive.
Ringraziamenti
L’Autore ringrazia la dott.ssa Lucia Perone per i commenti al manoscritto.
Box di orientamento
• L’array comparative genomic hybridization (CGH) è una metodica di indagine del genoma umano con alto potere di risoluzione ed è in grado di
identificare riarrangiamenti genomici submicroscopici non visualizzabili mediante analisi dei cromosomi tradizionale.
• L’analisi mediante array CGH ha un potere diagnostico che dipende dal grado di copertura genomica delle sonde dell’array. Per gli array basati su
BAC, il potere diagnostico nei pazienti con ritardo mentale è di circa il 10% superiore a quello dell’analisi cromosomica e mediante FISH.
• Al contrario dell’analisi cromosomica tradizionale, l’array CGH non permette di identificare riarrangiamenti bilanciati come inversioni e traslocazioni.
• Lo sviluppo e la diffusione dell’array CGH ha permesso l’identificazione di un vasto numero di sindromi precedentemente sconosciute. Oltre all’identificazione di copy number variants (CNVs) patogenetiche, l’array CGH conduce anche all’identificazione di CNVs benigne o di significato al momento incerto.
• CNVs presenti de novo, estese o ricche di geni hanno maggiori probabilità di essere causative del fenotipo clinico.
• Database che catalogano le CNVs benigne (Database of Genomic Variants, http://projects.tcag.ca/variation/) sono utili nell’interpretazione di CNVs.
• Le CNVs producono specifici fenotipi clinici attraverso alterazioni del dosaggio genico, dovute a variazioni del numero di copie geniche o di elementi
regolatori dell’espressione genica.
• In ambito pediatrico l’array CGH è uno strumento diagnostico importante nei neonati con difetti congeniti multipli e nei pazienti affetti da un ampio
spettro di fenotipi neuropsichiatrici, comprendenti ritardo mentale, autismo e disordini dello spettro autistico, schizofrenia ed epilessia.
• Le CNVs rappresentano un’importante fonte di suscettibilità alle malattie complesse, come malattie autoimmuni e infettive.
• Le nuove tecnologie di sequenziamento del DNA, denominate sequenziamento di ultima generazione (next generation sequencing) consentono
l’analisi dell’intero genoma umano in tempi rapidi e a costi contenuti.
• Il sequenziamento dell’intero genoma mediante metodiche di ultima generazione permette di identificare il gene responsabile di malattie Mendeliane.
• Le nuove metodiche di indagine del genoma umano, come array CGH e next generation sequencing pongono problemi e dilemmi importanti nell’interpretazione dei risultati ottenuti e per la consulenza genetica.
Glossario
• Comparative genomic hybridization (CGH) array: metodo per l’analisi di perdite o acquisizioni di materiale genomico.
• Copy Number Variant (CNV): alterazione, in eccesso o in difetto rispetto ad una popolazione di controllo, di una regione cromosomica di grandezza
compresa tra 1 Kb e diverse Mb.
• Database of Genomic Variants: database delle CNVs benigne (http://projects.tcag.ca/variation/).
• Genome wide association (GWA) study: studio di associazione tra SNPs e malattie multifattoriali.
• Low copy repeats (LCRs): blocchi di sequenze ripetute con omologia reciproca molto alta (94-99%) e di grandezza compresa tra 200-400kb.
• Malattia genomica: malattia causata da un’alterazione del genoma che risulta in perdita o acquisizione di geni che sono sensibili al dosaggio.
• Progetto HapMap: catalogo esaustivo dei SNP presenti nel DNA genomico di popolazioni etnicamente diverse.
• Single Nucleotide Polymorphism (SNP): variazione di una singola base nucleotidica.
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Progressi nell’analisi del genoma umano: la rivoluzione è cominciata
Bibliografia
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Corrispondenza
Nicola Brunetti-Pierri, Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, via Pansini 5, 80131 Napoli. Tel. +39 081 6132361. Fax +39 081 5609877.
E-mail: [email protected]
88
Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 89-101
GeNeTICA
Pediatria della disabilità
Giuseppe Zampino, Angelo Selicorni*
Centro di Riferimento per le Malattie Rare e Congenite, Dipartimento di Scienze Pediatriche Medico-Chirurgiche
e Neuroscienze dello Sviluppo, Policlinico Universitario “A. Gemelli”, Roma; * Ambulatorio Genetica Clinica Pediatrica,
Clinica Pediatrica Università Milano Bicocca, Fondazione MBBM, A.O. S. Gerardo, Monza
Riassunto
Il principale obiettivo di questa revisione è evidenziare l’importanza dell’approccio pediatrico al bambino con condizione genetica disabilitante ad elevata
complessità assistenziale. Per lungo tempo confinata a riabilitazione o cure palliative, l’assistenza del bambino con disabilità dovrebbe essere affrontata,
in termini preventivi e curativi, allo stesso modo di un bambino senza disabilità. Nonostante la numerosità delle singole rare condizioni, che sottende un
ampio scenario di problematiche cliniche, è possibile capitalizzare verso patologie di sistema/organo che più frequentemente coinvolgono il bambino sia
con disabilità congenita che acquisita. La complessità assistenziale è legata essenzialmente al coinvolgimento di numerosi sistemi strettamente connessi
e solo una gestione multidisciplinare coordinata può essere efficace. Inoltre il coinvolgimento di aspetti medici insieme ad aspetti psicologici e sociali,
che si intrecciano, obbligano il pediatra ad un’apertura multisettoriale. Il pediatra di famiglia, tramite bilanci di salute ad hoc può rilevare problematiche
cliniche trasversali comuni, evitare che si instaurino complicanze prevenibili per quella condizione, verificare che il progetto assistenziale sviluppato dai
diversi operatori socio-sanitari sia sostenibile da bambino, famiglia e sistema-paese. Il ruolo del pediatra ospedaliero o del centro di riferimento consiste
nel coordinare interventi di diversi specialisti d’organo, gestire l’emergenza e sviluppare strategie di trattamento calibrate sul bambino/famiglia. Il problema maggiore si pone quando il bambino diventa adulto. La mancanza di figure mediche che abbiano competenza di gestione sulla patologia disabilitante
congenita nell’adulto, pone le famiglie drammaticamente orfane di supporto. Una delle maggiori sfide è garantire continuità di assistenza creando nella
medicina dell’adulto figure competenti in tale settore.
Summary
The principal aim of this paper is to underline the importance of the pediatric approach to children with highly complex congenital conditions. For a long
time the assistance to disabled child has been limited to rehabilitation or palliative care. The disabled child needs preventive and curative assistance, that
means a pediatric approach. In spite of big number of rare conditions, it is possible to sum up the pathologies which most frequently involve children with
congenital but also acquired disabilities. The complexity of the assistance is due especially to the involvement of numerous strictly connected systems,
therefore multidisciplinary and well coordinated approach is needful. The coexistence of medical problems together with psychological and social aspects
obliges the pediatrician to have a multisectorial view. The family pediatrician should use health balance to reveal the clinical problems frequent in a specific
disability in order to avoid the most common complications of that condition, and to verify if the care project developed by social and medical operators is
sustainable for the child, the family and the Country. The role of the hospital pediatrician consists in coordinating the interventions of different specialists,
managing the emergencies and developing the treatment strategies calibrated for every single child and family. Situation gets worse when the child grows
up. The lack of medical figures competent to manage congenital disabled conditions in adult age lives the family without support. Therefore one of our most
important tasks is to give the disabled children continuative care. To reach this aim, the creation of competent medical figure is indispensable.
Introduzione
Le malattie croniche ed in particolare quelle disabilitanti ad elevata
complessità rappresentano la nuova sfida ma anche la grande opportunità per la pediatria tali da ridefinire la natura e lo scopo della
pratica pediatrica e delle politiche di salute infantile.
La riduzione ed il controllo della patologia infettiva associati alla sopravvivenza di condizioni in precedenza considerate letali (prematurità estrema, tumori cerebrali, alcune sindromi malformative) hanno
incrementato la portata delle malattie disabilitanti. A ciò si aggiunge
il bisogno espresso dai genitori di bambini con patologie croniche di
una maggiore attenzione pediatrica nella gestione delle problematiche dei loro figli (Marchetti et al., 1995).
Inoltre nell’ultimo decennio si è preso atto della portata delle malattie rare che sono divenute obiettivi prioritari di rilevanza nazionale
(legge n. 279/2001). Le malattie rare vengono identificate dal punto
di vista epidemiologico come condizioni che colpiscono 1 persona
ogni 2000. In realtà la rarità di una condizione non significa scarso
impatto socio-sanitario, per due motivi: il primo è che queste condizioni sono moltissime, tra 7000 e 8000, e quindi il numero totale dei
pazienti che ne è affetto è elevato; il secondo è che la rarità rende
più difficile il percorso diagnostico-assistenziale. Per salvaguardare
il principio di equità dell’assistenza per tutti i cittadini, tenuta presente la complessità di queste condizioni, molte Regioni si sono
attivate per organizzare una rete assistenziale costituta da centri
specialistici di riferimento e presidi territoriali in collegamento.
Parlare di malattie rare come entità unica significa anche trovare strategie di intervento sugli aspetti comuni. Le malattie rare nella maggior
parte dei casi sono disabilitanti, ad elevata complessità assistenziale
e di origine genetica con esordio in età pediatrica, e pertanto ben si
comprende quanto la pediatria sia coinvolta nella loro gestione.
Definizione
Quando nel 2001, in USA, l’Institute of Medicine e l’Agency for Health Research and Quality dovettero definire le condizioni che in
termini epidemiologici, peso sanitario e risorse da utilizzare risultavano prioritarie, identificarono “the children with special health
care needs”. Tale definizione, coniata dal Maternal and Child Health
Bureau e accettata dall’American Academy of Pediatrics (AAP), designa i bambini ad aumentato rischio di sviluppare una condizio-
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G. Zampino, A. Selicorni
ne cronica con coinvolgimento fisico, mentale,
comportamentale o emozionale che richiedono
una serie di servizi che per tipologia e quantità non sono quelli normalmente richiesti da un
bambino (AAP, 2005).
Nella definizione del bambino con bisogni speciali è insita una struttura piramidale che si accresce in termini di gravità e di complessità di
approccio (Fig. 1).
Il primo concetto che emerge è la cronicità. Una
malattia è definita cronica in base alla sua durata, maggiore di 3 mesi. Può variare in termini
di gravità e di impatto sulla vita quotidiana e, in
genere, richiede un approccio prevalentemente sanitario. Tra le condizioni croniche esistono
quelle con una limitazione funzionale che può
determinare disabilità. Il concetto di disabilità
apre verso una visione sociale; si intende disabile il bambino che ha una limitazione nelle sue
abilità tale da ridurne la partecipazione alle atti- Figura 2.
vità quotidiane (andare a scuola, giocare, avere Più frequenti patologie di un bambino con cerebropatia di qualsiasi origine.
vita di relazione). L’articolo 1 della convenzione
UNICEF sui diritti delle persone con disabilità revello di sofferenza genitoriale poiché insinuano il senso della colpa per
cita : “le persone con disabilità includono quanti
hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo aver generato un figlio imperfetto e alienano l’istinto di eternificazione.
termine che, in interazione con varie barriere, possono impedire la In questo ambito l’approccio è multidimensionale, in cui la dimensione
loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di sanitaria, quella culturale e quella umana si devono integrare.
eguaglianza con gli altri”. È importante osservare che la disabilità Esiste poi l’estremo della disabilità, in quelle condizioni spesso genetinon è definita come un dato oggettivo e immutabile ma come la che, fortemente disabilitanti, ad elevata complessità assistenziale, talrisultante tra l’interazione di una problematica intrinseca al soggetto mente rare da essere poco o affatto conosciute, che non permettono
ed una risposta esterna che può accrescere (barriere) o ridurre la risposte in termini di eziologia e prognosi, e fanno sentire il genitore isoreale misura della disabilità cioè la piena ed effettiva partecipazione lato, privo di confronto o - ancora peggio - destabilizzato. Qui l’approccio
della persona alla società. In questo ambito c’è la necessità di un rimane multidimensionale e solo il tempo può fornire risposte. Si tratta
approccio multisettoriale dove il settore sanitario (pediatra e neurop- del tempo indispensabile per arrivare ad una diagnosi, per comprendere
sichiatra infantile) lavori a stretto contatto con il settore educativo tutti i problemi del bambino, ma soprattutto il tempo necessario al geni(scuola) e sociale (risorse del territorio) al fine di ridurre le barriere. tore per riconoscere in quel bambino il proprio figlio.
Tra le disabilità quelle complesse vedono il bambino coinvolto per Se la situazione è così grave da limitare lo stato di vita del bambino,
numerose funzioni; consideriamo, ad esempio, un quadro di severa allora la dimensione diventa essenzialmente spirituale e riguarda il
cerebropatia con ritardo mentale, epilessia, difficoltà motorie, respi- significato, il valore, lo scopo e il mistero dell’esistenza umana.
ratorie, nutrizionali (Fig. 2). In questo ambito è necessario un approccio multidisciplinare, con i diversi specialisti attivati e coordinati.
Tra le disabilità complesse, quelle di origine genetica accrescono il li- Centralità della famiglia
I genitori di bambini ad alta complessità assistenziale hanno responsabilità che differiscono da quelle dei genitori di bambini sani. Sono responsabili della “cura” del loro bambino, ma questa “cura” ha un significato
e una problematicità diversi. Devono rapportarsi con servizi sanitari,
educativi, sociali e nello stesso tempo bilanciare le loro risorse umane
ed economiche con il peso dei problemi da affrontare. Inoltre i genitori
di un bambino “raro” non possono avvalersi di un’esperienza comune di
gestione dei problemi quotidiani. Fare il bagnetto ad un bambino è facile,
farlo ad un bambino affetto da atrofia muscolo-spinale (SMA) è ben più
arduo ed i genitori, nel tempo diventano forzatamente i veri esperti della
condizione del loro bambino. Dato il ruolo vitale che le famiglie giocano
nel provvedere alla cura del bambino con malattie complesse è fondamentale che il medico riconosca la loro posizione centrale confrontandosi con loro ed includendoli in tutti gli aspetti dell’assistenza.
Il livello di stress che il genitore deve affrontare è notevole ed implica
una maggiore fragilità. Secondo uno studio di Brehaut et al. (2004),
i genitori di bambini con paralisi cerebrale presentano una quantiFigura 1.
Relazione tra tipologia di bisogni speciali (ascisse) e complessità di ap- tà più elevata di disturbi quali dolore alla schiena, emicrania, ulcere
gastriche/intestinali e segni di stress comparando con altri genitori.
proccio (ordinate).
90
Pediatria della disabilità
Così i genitori di bambini dipendenti da strumenti tecnologici soffrono
maggiormente di ansia, depressione, frustrazione, isolamento sociale,
deprivazione di sonno e depressione. C’è una stretta associazione tra
lo stato di salute e benessere dei bambini con bisogni speciali di cura
e quello dei loro genitori e viceversa (Lach et al., 2009).
Reichman et al. (2008) hanno cercato di analizzare l’impatto della
presenza di un figlio con disabilità all’interno della famiglia. Le conseguenze spaziano a tutti i livelli e coinvolgono genitori, fratelli sani e
famiglia allargata. La presenza di un figlio con disabilità condiziona le
relazioni tra i coniugi, le scelte di lavoro, economiche, di programmazione futura della vita familiare, anche a livello del percorso educativo
e scolastico degli altri figli sani. Vengono influenzate notevolmente sia
le scelte riproduttive che la partecipazione stessa alla vita sociale da
parte della famiglia. Peraltro la gestione positiva o problematica di tutte queste questioni ha una importante relazione di ritorno sullo stato di
salute e sul benessere dello stesso figlio con disabilità.
inadeguata coordinazione dell’assistenza. Errori medici sono eventi
prevenibili e sembrano essere più alti nei bambini disabili in relazione
alla complessità della loro assistenza (Sacchetti et al., 2000; Slonim
et al., 2003). Se si considera che questi bambini sono ospedalizzati 4
volte di più dei bambini normali e che la loro ospedalizzazione dura
mediamente 8 volte di più, l’impatto sul sistema sanitario è alto.
Da uno studio di due larghe coorti di bambini con e senza difetti congeniti seguiti per 17 anni, si rilevano interessanti dati sulle cause di mortalità e di morbilità (Tab. I). In particolare il dato sugli incidenti induce ad
una riflessione; 88 bambini con difetti congeniti contro 60 bambini normali hanno subito un incidente che si è rilevato letale. La pediatria ha
lavorato molto sulla prevenzione degli incidenti domestici nel bambino
normale ma poco si è fatto per la prevenzione degli incidenti domestici
nel bambino ipovedente, ipoacusico, o con problemi di motilità. E questo lascia di nuovo la famiglia sola nella ricerca di strategie.
Complicanze
Portata del problema
I pattern delle malattie croniche nell’infanzia sono sia complessi che
dinamici. Nell’età pediatrica le malattie croniche importanti sono più
rare ma più eterogenee che nell’adulto. La rapida progressione nella
prevenzione delle malattie acute e nelle conoscenze che permettono di tenere in vita quei bambini che in precedenza presentavano
condizioni definite letali, rendono l’epidemiologia della disabilità
dell’infanzia molto più dinamica di quella degli adulti. Questo ha una
profonda implicazione nell’organizzazione dei servizi.
I bambini con bisogni speciali hanno una prevalenza che va dal 13%
al 16%. Se consideriamo quelli con una condizione disabilitante, la
prevalenza è stimata intorno all’8% (Newacheck et al., 2005), mentre i bambini con una condizione congenita disabilitante hanno una
prevalenza dello 0,5% (Mastroiacovo e Costantino, 2007).
Negli Usa i bambini con bisogni speciali assorbono tra il 70-80%
della spesa per la salute pediatrica (Newacheck et al., 2005), hanno
una probabilità 3 volte aumentata di aver necessità di un ricovero in
terapia intensiva che nel 32% dei casi è dovuto a cause prevenibili
(Dosa et al., 2001). Degli eventi potenzialmente prevenibili, 64% sono
dovuti a deficienze del sistema assistenziale, in particolare ad una
Una patologia disabilitante può essere fattore di rischio per la comparsa di “condizioni secondarie”, dove secondario indica una relazione temporale non una relazione di gravità. Il termine “condizione”
è usato per suggerire che vi sono diversi esiti riguardanti non esclusivamente la sfera medica o fisica ma anche la sfera emozionale,
sociale e ambientale. Le condizioni secondarie possono essere più
importanti e coinvolgenti di una diagnosi primaria stabilizzata e hanno implicite conseguenze negative, come ad esempio lo sviluppo di
nefroblastoma nella sindrome di Beckwith-Wiedemann o l’evoluzione dell’aneurisma nella sindrome di Marfan. L’elemento clinico più
rilevante delle condizioni secondarie è la prevedibilità. Le condizioni
secondarie non fanno necessariamente parte delle manifestazioni
della diagnosi principale, ma quelle a rischio di sviluppare (Lollar,
2004). L’identificazione delle condizioni prevenibili rimane uno dei
più importanti obiettivi della Pediatria della disabilità.
Interventi
Nel 1967 negli USA fu coniato il temine “Medical Home” che in 40
anni è divenuto il modello di assistenza dei bambini con bisogni spe-
Tabella I.
Causa di morte, non legate ad anomalie congenite e problemi perinatali, in una coorte di 45.000 bambini con difetti congeniti e 45.000 bambini
senza difetti congeniti.
Condizioni
Infezioni
Tumori
Endocrinopatie
Emopatie
Malattie mentali
Patologie SNC
Patologie cardiovascolari
Patologie respiratorie
Patologie gastrointestinali
Patologie genitourinarie
Patologie ectodermiche
Malattie multisistemiche
Incidenti
Totali
Bambini senza difetti congeniti
N. morti
% Mortalità
%
Bambini con difetti congeniti
N. morti
% Mortalità
%
11
22
6
2
1
12
3
12
2
0
0
60
60
181
6,1
12,1
3,3
1,1
0,5
6,6
1,7
6,6
1,1
0
0
33,1
33,1
45
58
49
9
7
105
49
88
51
11
2
101
88
663
6,8
8,7
7,4
1,4
1
15,8
7,4
13,2
7,7
1,6
0,3
15,2
13,3
Da Agha et al., 2006, mod.
91
G. Zampino, A. Selicorni
Tabella II.
Principi nodali del “Patient-Centered Medical Home”.
Pediatra di famiglia – porta avanti la relazione: primo contatto, continuità e integrazione dell’assistenza
Pediatra del centro specialistico – porta avanti la cura, a livello pratico il responsabile del team
L’assistenza è coordinata e/o integrata attraverso il sistema complesso di assistenza sanitaria, facilitata dai registri, dall’informazioni provenienti dalla
tecnologia, dagli scambi di informazioni sanitarie, ecc. L’assistenza è fornita in un modo culturalmente e linguisticamente appropriato.
Qualità e Sicurezza sono i punti centrali del medical home:
• il processo di pianificazione dell’assistenza è guidato da una relazione empatica e robusta tra medico, paziente e famiglia
• decisioni sono evidence-based o si basano su linee guide quando disponibili
• miglioramento continuo della qualità valutato tramite misure di performance
• partecipazione del paziente alle decisioni cliniche e valutazione del feedback
• supporto tecnologico per ottimizzare l’assistenza, misure di performance, informazione al paziente e implementazione della comunicazione
• pazienti e famiglie partecipano praticamente ad attività che migliorano le attività
Potenziamento dell’accesso all’assistenza utilizzando diversi sistemi di prenotazione (telefono, email, fax)
Pagamento appropriato riconosce il valore aggiuntivo fornito al paziente. La struttura del pagamento dovrebbe:
• riconoscere il lavoro che medico e staff non medico svolgono fuori della visita face-to-face
• riconoscere il lavoro di coordinamento dell’assistenza
• sostenere l’adozione e l’utilizzo di informazioni tecnologiche sanitarie per miglioramento della qualità
• sostenere e potenziare sistemi di comunicazione come e-mail sicura e consulenze telefoniche
• riconoscere il valore del lavoro medico associato con il monitoraggio dei dati clinici a distanza
• fornire incentivi per miglioramento della qualità misurabile e continua
Norlin C: www.medicalhomeportal.org
ciali e che prevede come obiettivo il fornire un’assistenza “accessibile, continua, globale, centrata sulla famiglia, coordinata, empatica
e culturalmente idonea” (www.medicalhomeportal.org). Su questi
principi si basa il sistema operativo che enfatizza nel coordinamento
la buona riuscita di una cura globale, come sintetizzato in Tabella II.
La corretta presa in carico assistenziale del bambino con disabilità complessa prevede una integrazione funzionale efficace tra gli
aspetti clinico internistici, quelli riabilitativi ed educativi e quelli psicosociali. In questa sede ci limiteremo ad approfondire e discutere
le problematiche inerenti al primo di questi punti focali, mantenendo
fermi i principi ispiratori del Medical Home.
piano assistenziale dovrebbe essere accessibile alla famiglia e a tutti i
membri del team assistenziale (AAP, 1999).
La pianificazione della dimissione è un elemento chiave del coordinamento assistenziale. L’organizzazione dei servizi domiciliari con
infermiere preparate, la disponibilità dei dispositivi medici (ventilatori, aspiratori, pompe nutrizionali) oltre che il training della famiglia
nella gestione domiciliare, richiedono tempo ed energia.
La pediatria ospedaliera dovrebbe familiarizzare con tubi enterostomici, tracheotomie, cateteri venosi centrali, supporti respiratori
non invasivi e derivazioni in termini di indicazioni, complicazioni e
gestione a lungo termine (Srivastava et al., 2005).
Tra i maggiori problemi che la pediatria ospedaliera si trova ad affrontare, quello respiratorio è forse il più cruciale. Lo sviluppo di
problematiche respiratorie fino alla malattia polmonare cronica e
sue sequele rappresentano una delle maggiori cause di morbilità e
mortalità nel bambino con disabilità (Reddihough et al., 2001). Schematicamente si possono distinguere le problematiche respiratorie
in due grossi gruppi eziologici: le problematiche legate all’aspirazione e quelle legate alla malfunzione della cassa toracica (Fig. 3;
Pediatria ospedaliera
Il ruolo della pediatria ospedaliera nella gestione delle numerose
problematiche di salute del bambino è fondamentale e non può fare
a meno di un approccio coordinato. Assistenza coordinata all’interno
dell’ospedale significa coinvolgimento di numerosi specialisti attivati e competenti nella gestione, nella pianificazione del trattamento e
nel monitoraggio degli esiti.
C’è necessità di un responsabile, identificabile
dalla famiglia, a cui afferiscano le informazioni
e a cui spettino i compiti di attuare in maniera
sostenibile le indicazioni date dagli specialisti e
di definire le priorità assistenziali. A lui è affidato
anche l’incarico di organizzare l’assistenza evitando duplicazioni dei servizi, di condividere le
informazioni tra gli operatori sanitari e i familiari,
di pianificare la dimissione (Percelay, 2003).
Operativamente sono utili riunioni multidisciplinari, come un forum per il coordinamento
dell’assistenza, in cui si stabiliscano obiettivi
comuni per l’ospedalizzazione, lo sviluppo e
la revisione dei piani di trattamento, la definizione dei criteri di dimissione del paziente.
L’aggiornamento dei piani di assistenza avviene includendo una lista di problemi del paziente, di elementi chiave della storia clinica Figura 3.
e di interventi terapeutici attuati e possibili. Il Patologia respiratoria nel bambino con disabilità.
92
Pediatria della disabilità
BOX 1.
Tracheostomia.
Dimensioni della cannula
tracheostomica
Cura della cannula
Aspirazione
Formazione dei genitori
Non dovrebbe comprimere mucosa tracheale per
non creare erosione parete tracheale.
La parte terminale deve essere collineare con la
trachea altrimenti la sua punta può essere ostruita
dalla mucosa.
Complicanze:
Erosione mucosa
Ostruzione esofagea
Fistola tracheoesofagea
Fistola tracheoinnominata
Dipende da
- Dimensione della trachea
- Indicazione alla tracheotomia:
a) larga per prevenire aspirazione
b) piccola se ventilazione solo notturna
- Resistenza vie respiratorie superiori
- Bisogno di parlare e mantenere clearance
Cuffiata se:
a) Aspirazione
b) Solo ventilazione notturna
c) Ventilazione a pressioni alte
La frequenza del cambio cannula è variabile da
Vantaggi di cambi frequenti:
settimane a mesi
a) evita infezioni
b) evita granulomi
c) riduce occlusioni da secrezioni viscose
Svantaggi:
a) streching dello stoma se cannula cuffiata
b) disconfort per il bambino
Mantenere pulita la cannula assicura pervietà delle Frequenza è in relazione a:
vie aere
a) densità e quantità di secrezione,
b) capacità di tossire,
c) maturità dello stoma
Lavare e disinfettare bene il catetere e le mani
Definire in precedenza la profondità di aspirazione.
Usare un catetere largo in relazione alla cannula
Usare pressione di aspirazione tra 80-100 mmHg
La transizione dall’ospedale a casa ha successo in a) la formazione deve essere individualizzata al bambino e alla famirelazione alla possibilità della famiglia a gestire la
glia
tracheostomia
b) usare un manichino con tracheostomia per dimostrazioni. L’uso di
diagrammi decisionali può aiutare
c) verifi
verificare
care che a casa sia presente l’occorrente per la gestione della tracheotomia prima di dimettere il bambino.
d) ogni genitori o tutore dovrebbe dimostrare di aver appreso e saper
fare prima della dimissione.
American Thoracic Society, 2006
Box 1, 2). Disfunzione oromotoria e reflusso gastroesofageo (RGE)
possono determinare aspirazione di cibo, saliva o succo gastrico
nel tratto respiratorio causando infezioni ricorrenti. A volte si tratta
Box 2.
Opzioni terapeutiche per ridurre l’ipersalivazione.
Eliminazione o controllo di alcuni fattori:
• Carie, malocclusione grave;
• Controllo posturale;
• Ostruzioni e infiammazioni delle vie aeree superiori.
Terapia oro motoria
Trattamento farmacologico
• Anticolinergici (scopalamina per via inalatoria, orale o trans dermica;
atropina solfato)
• Simpaticomimetici (glicopirrolato ha meno effetti collaterali che altri
anticolinergici)
• Antidepressivi triciclici (amitriptilina, imipramina)
Tossina A botulinica iniettata nelle ghiandole salivari
Chirurgia
• Legatura dei dotti parotidei
• Escissione delle ghiandole sublinguale e sub mandibolare
Complicanze
• Secchezza delle fauci determina: progressione delle carie e gengivostomatiti
di importanti episodi di aspirazione che danno un chiaro quadro di
polmonite, altre volte si tratta di microaspirazioni che sono misconosciute poiché nel tempo il riflesso di protezione delle vie aeree può
diventare tollerante. Queste aspirazioni silenti possono determinare
bronchiectasie, fibrosi, alterazione dello scambio ventilazione-perfusione, caratteristiche della malattia polmonare cronica (Waltz e Katz,
2004). Le aspirazioni ricorrenti possono presentarsi come wheezing
e tosse e possono essere interpretate come asma. Il trattamento
passa attraverso il controllo della disfagia, della scialorrea e del reflusso gastroesofageo (Fig. 4; Box 3-7).
La disfagia può essere trattata con riabilitazione oromotoria e controllo posturale Box 7. Se il trattamento riabilitativo è poco efficace
o necessita di tempi lunghi, si rende necessaria una via alternativa
a quella orale. Il sondino naso gastrico va utilizzato per brevi periodi,
come nei bambini in cui la disfagia è transitoria, altrimenti è necessario il posizionamento di un tubo gastrostomico. Nei bambini con
problemi oromotori con funzione intestinale conservata ma con rischio di aspirazione per reflusso gastro-esofageo non controllato da
terapia medica, è necessaria la gastrostomia con funduplicatio o la
gastrodigiunostomia. Entrambe queste procedure non sono scevre
da rischi con complicanze presenti nel 4-39% dei casi e mortalità
tra l’1-3% dei casi, ma sono efficaci nel ridurre l’ospedalizzazione
per reflusso e per polmoniti da aspirazione in circa il 70% dei casi
93
G. Zampino, A. Selicorni
A volte alla base di polmoniti sta il mancato controllo o l’aumento della
salivazione. Per ridurre la secrezione salivare è possibile utilizzare farmaci anticolinergici, ma il loro uso è limitato dagli effetti collaterali; in
alternativa si utilizza l’iniezione di tossina botulinica nelle ghiandole parotidee e sottomandibolari che ha un effetto di circa 6 mesi (Benson e
Daugherty, 2007). In casi estremi è possibile rimuovere la ghiandola sottomandibolare e legare i dotti salivari (Box 2). Tuttavia, queste procedure
determinano xerostomia con conseguenti gengivostomatiti e carie.
Le alterazioni della funzione della gabbia toracica sono dovute essenzialmente alla debolezza dei muscoli intercostali e diaframmatici, che si ritrova in neuropatie motorie e distrofie muscolari, come
pure alla scoliosi severa che spesso è presente nei bambini con
cerebropatia o in quelli con displasie ossee e connettivali. La funzionalità polmonare evidenzia un quadro restrittivo caratterizzato da
una riduzione della capacità polmonare totale, vitale e funzionale
residua (De Troyer et al., 1980). Nelle condizioni con indebolimento
muscolare anche la tosse può essere inefficace. L’ipoventilazione
che ne consegue, determina aree atelettasiche, più frequenti infeBox 4.
Antropometria alternativa per bambini che non possono stare in piedi.
Peso
Altezza
Figura 4.
Deficit nutrizionale.
(Srivastava et al., 2009). Se il bambino presenta una ridotta funzionalità intestinale, diventa utile la nutrizione parenterale (Fishman e
Bousvaros, 2004; Sleigh and Blocklehurst, 2004).
*
Peso del genitore con figlio in braccio sottratto del peso del
genitore
Bilancia con sedia o letto
Misura delle braccia allungate (Span)*
Misura del braccio (acromion-olecrano)*
Misura della gamba
(bordo del malleolo mediale-piatto tibiale interno)*
Misura del segmento superiore*
Misura derivata dalla lunghezza della tibia: L della tibia dalla testa fino al malleolo mediale x 3,28+30,8 cm = statura ideale**
Handbook of Antropometry, Hall et al., edition 2009.
Feinberg et al., Pediatr Clin N Am 2008;551343-58.
**
Box 3.
Deficit selettivi indotti da farmaci.
Farmaci
Antibiotici
Anticonvulsivanti
Diuretici
Corticosteroidi
Lassativi
Sulfonamidi
Tranquillanti
Stimolanti
94
Nutrienti coinvolti
Minerali
Lipidi
Proteine
Vitamina D
Vitamina K
Vitamina B-6
Vitamina B-12
Acido Folico
Calcio
Potassio
Magnesio
Calcio
Acido folico
Calcio
Fosforo
Glucosio
Sodio
Vitamine liposolubili
Vitamina C
Proteine
Acido folico
Ferro
Effetti
Prevenzione
Riduzione temporanea assorbimento, distruzione Probiotici
flora batterica
Riducono assorbimento e immagazzinamento
Integrazione dietetica con vitamine e minerali
Perdita di elettroliti
Alimenti e liquidi ad elevato contenuto di
potassio e magnesio
Trattamenti lunghi riducono calcio e fosforo e Supplementare con calcio e vitamina D, dieta
modificano livelli glucosio e sodio
iposodica normoglucidica, controllo pressorio
Riducono assorbimento
Integrazione vitaminica. Dieta ricca di fibre
Promuovono cristallizzazione vitamina C nella Non dare vitamina C ad alte dosi.
vescica. Inibiscono sintesi proteica. Riducono Integrare con ferro e folati
livello di ferro e folati
Aumentano appetito
Riducono appetito
Pediatria della disabilità
Box 5.
Valutazione Apporto Nutrizionale.
Informazioni Ottenute nella Pratica Pediatrica Comune
Tipo e quantità di alimenti consumati in un pasto
Particolari Considerazioni per i Bambini con Disabilità
Il bambino può perdere cibo dalla bocca per problemi oro-motori o vomito.
Necessaria osservazione del pasto
Preparazione del pasto e del latte è abbastanza standard
Ricette possono essere modificate per aggiunta di grassi, zuccheri o
proteine.
Necessaria valutazione della preparazione che includa ingredienti, quantità
e modo di preparazione e conservazione
Frequenza e durata dei pasti
L’evento pasto può essere particolarmente lungo, utile diario alimentare per
almeno 3 giorni.
Necessaria osservazione del pasto
Indipendenza del bambino a ottenere cibo
Il bambino è dipendente da altri.
Necessario capire se chi alimenta può identificare fame o sazietà del
bambino
Livello di attività
Definire se il bambino è iperattivo o con motilità ridotta per stabilire richieste
energetiche
Percezione del genitore dell’importanza della nutrizione nel determinare lo Comprendere il grado di stress che i genitori sperimentano nell’alimentare
stato di salute
il proprio bambino.
Box 6.
Incoordinazione oromotoria. Quando è necessario orientarsi verso un’alimentazione enterale non orale.
Segni e Sintomi nel Bambino
Incapacità ad assumere almeno l’80% dei bisogni energetici o 90% dei
liquidi per bocca
Indicatori di malnutrizione (crescita, laboratorio, storia clinica)
Infezioni respiratorie ricorrenti o polmoniti da aspirazione
Segni e Sintomi Riportati dalla Famiglia
Tempo dei pasti prolungato fino a quasi tutta la giornata
Frustrazione durante la nutrizione con poco tempo rimanente per una
interazione positiva con il bambino
Interruzione del pasto per la presenza di malessere nel bambino come
tosse, pianto, soffocamento
Storia di malattia da RGE resistente a trattamento medico
Segnali di aspirazione del pasto
Storia di perdita di peso che non è corretta dall’alimentazione orale per un
periodo di 3 mesi (meno per il lattante)
Box 7.
Intervento riabilitativo sull’alimentazione del bambino disabile.
Adeguata posizione durante il pasto:
• capo deve essere in posizione centrale
• capo deve essere lievemente inclinato e il collo non esteso
• seduta deve essere stabile e sostenuta
• ginocchia piegate
• piedi sostenuti
Garantire ambiente confortevole e sicuro:
• bambino deve essere tranquillo
• chi alimenta deve focalizzare l’attenzione sul bambino
• livello di rumorosità non deve distrarre il bambino
• elementi che distraggono il bambino mentre mangia (televisione e giochi) devono essere ridotti al minimo
• temperatura e luminosità devono essere adeguati
Alimenti con specifica consistenza per stimolare sensazioni oro motorie e masticazione
Schede alimentari appropriate per bambini con problemi attentivi e comportamentali che interferiscono con l’alimentazione
Alimenti che cambiano per densità e consistenza per massimizzare capacità oromotorie e ridurre la fatica
Tecniche di terapia oromotoria fuori dal pasto per alcuni problemi come l’integrazione propriocettiva
Valutare se l’approccio propriocettivo e neurofisiologico sia adeguato
Terapia per problemi oromotori specifici come il rilassamento muscolare del labbro superiore
Tecniche speciali di alimentazione che si avvalgono di strumentario specifico
Sostenere e creare una interazione positiva tra famiglia e bambino durante il pasto
Verificare che il lavoro di educazione e di counselling sia appropriato per la famiglia
Indagini diagnostiche aggiuntive
95
G. Zampino, A. Selicorni
zioni e danno polmonare. Il riconoscimento precoce di questi problemi è importante al fine di instaurare un trattamento di sostegno
tramite tecniche assistite per la tosse, per la pulizia delle secrezioni
e per il miglioramento dell’ossigenazione e della ventilazione.
Nei bambini con una grave ostruzione delle vie aeree, in quelli che
non riescono a proteggere le vie aeree per incoordinamento oromotorio e che sono sottoposti a ventilazione meccanica per lungo tempo, si rende necessaria la tracheostomia. Normalmente il bambino
dovrebbe rimanere in ospedale finché lo stoma matura ed è possibile cambiare la cannula. La scelta della cannula è fondamentale per
il buon esito della tracheotomia. La sua dimensione e forma devono
essere tali da non causare la compressione della mucosa tracheale,
da prevenire l’aspirazione e da permettere un flusso translaringeo
per la vocalizzazione e la clearance della muscosa Box 1 (American
Thoracic Society, 2006)
Da queste premesse di nuovo emerge la complessità delle problematiche mediche del bambino con disabilità e la necessità di
affrontarle in maniera coordinata e multidisciplinare (pneumologi,
gastroenterologi, neuropsichiatri infantili, chirurghi, ORL, ortopedici,
fisioterapisti, nutrizionisti e riabilitatori della disfagia).
Pediatria di base
Il concetto di salute non si limita al benessere fisico ma include anche quello psichico e sociale. Pertanto un bilancio di salute deve
essere immaginato in un più ampio contesto e alla valutazione clinica, perno per attuare interventi medico-assistenziali, è necessario
affiancare la valutazione di determinanti di tipo sociale, ambientale
ed economico che condizionano, insieme a quello sanitario, lo stato
di salute del bambino e della sua famiglia.
Il lavoro del pediatra di territorio dovrebbe uscire dalle pareti
dell’ambulatorio ed estendersi verso tutto quello che è la vita del
bambino. In questo modo, può meglio prevenire o ridurre l’impatto
delle “condizioni secondarie” sul bambino e sulla famiglia e può più
efficacemente incoraggiare comportamenti che promuovano la salute (Liptak e Revell, 1989).
I bilanci di salute rimangono la strategia più forte per raggiungere
questo obiettivo (Tab. III). Il bilancio di salute è infatti un incontro personalizzato, periodico, programmato e documentato tra il bambino e i
suoi genitori con il responsabile della sua salute che conosce la storia
naturale della condizione di cui è affetto il bambino, con lo scopo di:
a) valutare lo stato di salute del bambino per identificare disturbi
già in atto ma sfumati o inapparenti per trattarli, se necessario;
b) fornire indicazioni di educazione sanitaria anticipando i possibili
problemi, le caratteristiche di sviluppo e i vari bisogni di salute;
c) mettere in atto specifici interventi di prevenzione.
La conoscenza della condizione del bambino avviene tramite uno
stretto legame tra i centri specialistici e il pediatra di famiglia ed
è sostenuta da documentazione clinica e informazioni culturali che
passano in maniera bidirezionale.
Ma quali sono le priorità che il pediatra di famiglia deve garantire
nei confronti del bambino con condizione disabilitante complessa e
della sua famiglia?
La nutrizione è sicuramente il maggior impegno assistenziale della
famiglia di un bambino con importante cerebropatia. La malnutrizione rimane uno dei problemi principali del bambino con disabilità presentandosi nell’90% dei casi (Tedeschi, 2005). Un sintetico
approccio alla patologia nutrizionale è illustrato nella Figura 4. I
parametri di crescita sono gli indicatori indispensabili della nutrizione e vanno inseriti, quando possibile, nelle specifiche curve di
popolazione (sindromi di Down, Noonan, Cornelia de Lange, Wolf,
Acondroplasia). Quando non è possibile effettuare le normali valu-
96
Tabella III.
Bilancio di salute. Ad ogni visita.
Osservare insieme ai genitori i progressi del bambino
1. La famiglia si sente aiutata adeguatamente ? Può essere fatto di più?
2. Lo sviluppo fisico del bambino è normale (curve adatte)?
3. L’alimentazione e il ritmo sonno-veglia sono adeguati?
4. Le vaccinazioni – tutte – sono in regola?
5. Lo sviluppo psico-motorio del bambino è nei limiti della sua
condizione (relazione del riabilitatore)?
6. L’anamnesi o la visita hanno messo in evidenza segni di una
patologia più frequente nei bambini con quella sindrome specifica o
con quella disabilità?
7. Sono stati programmati o fatti gli esami di controllo?
8. I trattamenti proposti in precedenza sono adeguati ai reali bisogni?
9. Sono state proposte nuove terapie?
10. Il consiglio genetico e le strategie di diagnosi prenatale sono stati
formulati e compresi?
tazioni antropometriche, è necessario utilizzare strategie di misura
alternative (Box 4). Particolare attenzione deve essere posta a deficit
nutrizionali selettivi che frequentemente sono dovuti all’interazione
con i numerosi farmaci che i bambini con cerebropatia epilettogena
devono assumere (Box 3) e che possono essere compensati con
adeguata supplementazione. È importante verificare se il bambino
è a rischio di aspirazione di alimenti o se presenta una sintomatologia che orienti verso un reflusso gastroesofageo come pure è
importante monitorare, tramite diario alimentare, l’apporto calorico
e i volumi degli alimenti assunti (Box 5) (Cohen et al., 2004). Come
già detto in presenza di disfagia, inadeguata assunzione di alimenti
e/o condizioni ad elevato catabolismo, si rende necessaria una nutrizione enterale. È importante ricordare che le richieste energetiche
dei bambini con condizioni congenite disabilitanti talvolta non sono
le stesse di quelle di una popolazione normale.
Frequentemente il bambino con disabilità presenta problematiche di
sonno che il pediatra di territorio dovrebbe individuare per indirizzare il bambino nei centri specializzati (Fig. 5; Box 8)
Il pediatra di territorio deve sorvegliare sull’immunizzazione. Alcuni
studi hanno evidenziato che la copertura vaccinale è ridotta nei bambini con cerebropatia (copertura 63%); in particolare si è notato che
la copertura è inversamente proporzionale alla gravità della cerebropatia (Ayyangar, 2002). Eppure, specie in questi bambini dovrebbe
essere garantita una copertura vaccinale più ampia in relazione al
maggiore coinvolgimento respiratorio e alla loro più elevata fragilità.
In particolare dovrebbero eseguire vaccinazioni antipneumococca,
antimeningococcica e antiinfluenzale. Per i bambini con condizioni
metaboliche è possibile avere un quadro completo sulle strategie
vaccinali nel lavoro di Kingsley et al. (2006).
Tutte le strategie preventive che vengono adottate nel bambino
normale a maggior ragione devono essere adottate nel bambino con disabilità poiché assumono un particolare valore. Consideriamo ad esempio l’importanza della fluorazione nel bambino
cerebropatico in cui non può essere garantita un’adeguata igiene
dentale. Eppure la quantità e la complessità dei problemi che il
bambino presenta mette in secondo piano gli interventi preventivi
necessari.
Il pediatra di famiglia è il conoscitore delle risorse del territorio, la
figura che meglio può verificare se il bambino ha un adeguato inserimento scolastico e se scuola e centro di riabilitazione interagiscono efficacemente. Il pediatra di famiglia è anche la figura che
Pediatria della disabilità
Figura 5.
Patologia del sonno nel bambino con disabilità.
meglio può a capire se la famiglia ha un adeguato sostegno sociale
e può garantire l’adeguamento delle risorse del territorio ai bisogni
del bambino/famiglia.
Ricerca
L’importanza di comprendere e migliorare l’assistenza del bambino
con disabilità è ampiamente riconosciuta, ma la ricerca al momento
ha fatto poco per migliorare o misurare la qualità delle cure ricevute
da questi bambini.
La ragione principale sta nel fatto che le condizioni disabilitanti sono
numerose ed eterogenee, ognuna delle quali con un relativamente
piccolo numero di bambini affetti. Studi fatti in un singolo centro se focalizzati su una
particolare diagnosi, soffrono del fatto che
il campione è piccolo e i risultati possono
essere difficilmente generalizzabili.
Recentemente i ricercatori si stanno orientando maggiormente verso definizioni
“consequence-based” della disabilità nel
tentativo di capitalizzare sulle similitudini
tra le diverse diagnosi e permettere studi statisticamente più robusti con una più
grande rilevanza clinica (Perrin, 2002; Srivastava et al., 2005).
Se immaginiamo che le nostre decisioni
cliniche dovrebbero partire da “evidence”,
nell’ambito delle condizioni disabilitanti
le “evidence” sono scarse. Prendiamo un
esempio semplice: otite media e sindrome di Down. Se facciamo una metanalisi
di studi sull’otite media in età pediatrica,
tutti i clinical trials escludono bambini con
la sindrome di Down e difetti cranio facciali (poiché potenzialmente più a rischio
e meno responsivi ai trattamenti), allora
come si deve trattare un bambino con
otite e sindrome di Down considerando che fa parte di una delle
popolazioni a rischio?
Se mancano “evidences” le tappe successive che portano alle nostre
decisioni cliniche diventano meno stabili e si assiste ad una grande
variabilità di convinzioni documentata da un’enorme variabilità nella
pratica clinica ed un ampio rapporto di cure inappropriate (Fig. 6).
Le soluzioni stanno nel selezionare processi assistenziali altamente
prioritari, costruendo ricerche evidence-based che portino a linee
guida condivise da un team multidisciplinare di operatori sanitari.
Una volta generata e condivisa, la linea guida può essere modificata in relazione alle necessità di ogni singolo paziente. Misurando,
Box 8.
Classificazione degli eventi respiratori durante il sonno.
OstRuttivi
Apnea
Ipopnea
Sforzi respiratori che determinano risveglio
Limitazioni di flusso
Russamento
Ipoventilazione
CentRali
Apnea
Ipoventilazione
Respiro Periodico
Misti
Apnee Miste
Apnea espiratoria prolungata con cianosi
Respiro “Apneustico”
Assenza di flusso aereo oronasale di ogni durata con sforzo respiratorio persistente
Distinguibile riduzione del flusso oronasale per due o più respiri con sforzo respiratorio persistente spesso
accompagnato da desaturazione di O2 o risveglio
Incremento dello sforzo respiratorio con riduzione del flusso che determina risveglio, seguito da scomparsa
dello sforzo e normalizzazione del flusso
Appiattimento del segnale inspiratorio sul rilevatore del flusso nasale
Rumori inspiratori grossolani
pCO2 > 50 mmHg per più del 10% del tempo totale di sonno o pCO2 > 53 mmHg e accompagnato da
respiro paradosso o eventi ostruttivi
Assenza di flusso aereo oronasale per almeno 20 secondi senza sforzo respiratorio; eventi più brevi sono
considerati se associati a risveglio, desaturazione o bradicardia
pCO2 > 50 mmHg per più del 10% del tempo totale di sonno o pCO2 > 53 mmHg e accompagnato da
riduzione dello sforzo respiratorio
Successione di almento 3 apnee centrali di diversi secondi separati da un periodo di 20 secondi di respiro
normale
Cessazione di flusso con componente centrale e ostruttiva
Prolungamento dell’espirazione oltre la capacità funzionale residua
Marcato prolungamento dell’inspirazione
97
G. Zampino, A. Selicorni
essere in molti casi assai scarso rendendo difficile la stessa valutazione clinica;
• puòesseredifficileavererapidamenteun’ideaglobalemaprecisa dei molti problemi concomitanti del paziente e della sua storia
clinica spesso lunga e articolata;
• ilpersonaledelserviziospessoèimpreparatoatrattarequesto
genere di pazienti soprattutto in termini di conoscenza della storia naturale delle diverse e rare condizioni di base.
A fronte di queste difficoltà le problematiche che possono portare il
bambino con disabilità all’accesso al Pronto Soccorso possono essere di 3 tipi:
• problematiche cliniche pediatriche generiche, non riferite alla
Figura 6.
condizione di base né alla disabilità;
Fattori che influenzano le nostre decisioni cliniche.
• problematicheclinichecomunietrasversaliaibambinicondisabilità (vedi sopra)…
imparando, e soprattutto eliminando le variazioni provenienti dai
• problematichespecifichedellacondizionedibasepertipologia
professionisti.
e/o frequenza.
Ovviamente la decisione di quale sia il tipo di situazione dipende
Sfide
da una conoscenza da parte del medico della storia naturale della
Sino a qui abbiamo riportato le problematiche dell’assistenza quoti- condizione di base, situazione per nulla scontata per un medico di
diana al bambino con bisogni speciali di cura, ma due ulteriori grossi pronto Soccorso.
La Tabella IV elenca una serie puramente esemplificativa di complicapitoli meritano la nostra attenzione:
canze sindrome-specifiche che devono essere considerate nella dia• ilproblemadellagestionedell’emergenza;
gnosi differenziale di sintomi di presentazione generali ed aspecifici.
• latransizionedall’etàpediatricaall’etàadulta.
Le sindromi malformative sono caratterizzate dalla presenza a volte
assai frequente di malformazioni maggiori e/o di complicanze meGestione dell’emergenza
Ricerche pubblicate in letteratura segnalano che i bambini con alta diche. La conoscenza di queste informazioni diventa ovviamente incomplessità assistenziale presentano un numero di accessi ai servi- dispensabile nell’approccio diagnostico e nel trattamento ai pazienti
zi di Emergenza doppio rispetto ai bambini senza disabilità. Anche la con queste stesse patologie per interpretarne i sintomi all’arrivo in
percentuale di ricoveri conseguenti a questi accessi è significativa- un Pronto Soccorso.
Il problema centrale che si pone è quindi molto chiaro.
mente più alta rispetto alla popolazione pediatrica generale.
Come informare il medico di pronto Soccorso della complessa situazioCiò che può accadere, e non raramente, è che questi accessi non siano
ne clinica del bambino e della storia naturale della sua patologia?
sempre legati a vere e proprie urgenze mediche ma a problematiche
Alla prima parte della domanda l’AAP risponde in modo chiaro decliniche differibili. Il ricorso al Pronto Soccorso è in questi casi la dimofinendo la necessità di costruire per ogni paziente una “Emergency
strazione di una scarsa possibilità di accesso o di uno scarso utilizzo
Information Form (EIF)”, cioè un documento medico che riassuma
delle risorse assistenziali di base e/o di un cattivo controllo delle proin modo organico le problematiche mediche del bambino, le terablematiche croniche da parte dei responsabili delle cure del paziente.
pie che esegue, i presidi sanitari che utilizza (ventilazione, alimenQuesto dato risulta evidente dallo studio di Raphael et al. (2009) in cui
tazione) e le attenzioni clinico terapeutiche che necessita. Questo
gli autori hanno definito la probabilità di accesso al sevizio di emer- strumento è stato inizialmente proposto nel 1999 e riaffermato nel
genza in relazione alla presenza/assenza di un programma di medical 2002. Un recente articolo pubblicato nel 2010 ne ha richiamato la
home ed all’etnia di origine della famiglia. I risultati dimostrano chiara- necessità e discusso nel dettaglio caratteristiche e modalità di utimente che vi è certamente un differente uso dei servizi di emergenza in lizzo (AAP, 2010). In particolare, questa pubblicazione ha sottolineato
relazione all’etnia della famiglia del soggetto, ma anche che la presen- e discusso necessità e modalità di utilizzo di una form sia informaza di un efficace servizio di medical home riduce queste disparità.
tica che affidata al paziente (CD, chiavina USB, documento in carSempre in quest’ottica Pollack et al. (2007) hanno riportato i risultati ta plastificata), regole e doveri per il suo aggiornamento e ricadute
di un progetto di valutazione dell’uso dei servizi di emergenza in pratiche dei processi a vari livelli per la qualità dell’assistenza del
un’ampia popolazione di bambini del Michigan con “bisogni spe- bambino stesso (non ultima la possibilità di aver definito con docuciali di cura”. Lo studio della durata di 2 anni valutava la riduzione mento condiviso con genitori e/o caregivers le scelte da mettere in
dell’utilizzo del pronto soccorso in un consistente numero di pazienti atto nei momenti di fine vita). Il documento dell’AAP discute anche
arruolati in un programma accurato di assistenza primaria che pre- le indicazioni da porre in atto in caso di evento catastrofico naturale
vedeva una definizione di un piano di trattamento individualizzato di entità più o meno rilevante (la stessa sospensione dell’erogazione
e l’identificazione di un coordinatore locale delle cure. Gli autori della corrente elettrica può rappresentare per un paziente ventilato
segnalano una riduzione di circa un quarto degli accessi in Pronto un evento di grande emergenza e di grande rischio).
Soccorso con un notevole risparmio economico ma anche con un Per quanto riguarda il problema dell’informazione accurata dei mechiaro miglioramento dell’assistenza di base ai pazienti.
dici di Pronto Soccorso sulla storia naturale delle diverse condizioni,
Ulteriori problemi dell’accesso, proprio ed improprio, ai servizi di non vi sono ancora elementi di chiarezza ed uniformità. Alcune assoEmergenza possono essere così sintetizzati:
ciazioni di genitori stanno generando in modo autonomo schede in• glioperatoridelserviziodiprontoSoccorsononsonoabituatia dividuali o materiale informativo riferito alle problematiche di emerconfrontarsi con un livello di collaborazione e di comunicazione genza primaria dei pazienti affetti da (quelle) specifiche condizioni.
con il bambino disabile che, nonostante l’età anagrafica, può Il sito web Orphanet sta iniziando a sviluppare una sottosessione di
98
Pediatria della disabilità
Tabella IV.
Potenziali complicanze sindrome specifiche di fronte a sintomi di presentazione pediatrica comune in pronto Soccorso.
Sintomo di presentazione
Dolore toracico
Addominalgia
Sindrome malformativa
S di Marfan
S Williams
Addominalgia
Addominalgia
Apnea
Apnea
S. Cornelia de Lange
S. Ehlers Danlos
S. Prader Willi
S Apert, Pfeiffer, Acondroplasia, CHARGE
Ipotonia, emiplegia ad insorgenza acuta S.Down, Mucopolisaccaridosi, Acondroplasia
Cefalea
S Williams,
Neurofibromatosi tipo 1
S Williams
S Williams
Cefalea
Claudicatio arti/ sintomatologia
crampiforme, scarsa autonomia motoria
Improvviso calo del visus
S Marfan, S Stickler
Improvviso calo del visus
Neurofibromatosi tipo 1
Peggioramento progressivo del visus
S Cohen, S Bardet Biedl,
S Alstrom
Dolore/ impotenza funzionale ad un arto Osteogenesi Imperfecta
Sudorazione, tremore, crisi convulsiva
S Silver Russel
Crisi tetanica
Microdelezione 22q11.2
“Emergency guidelines”, al momento in fase di implementazione e
disponibile solo per un ristrettissimo numero di condizioni (nove).
Nell’ottica di un corretto uso delle strutture di Emergenza risulta
molto interessante un’esperienza australiana riportata da Sutton et
al. (2008) in cui è stato istituito un servizio informativo telefonico gestito da nurses preparate ad hoc sia sulla tematica delle condizioni
provocanti o correlate alla disabilità, sia esperte di triage e procedure d’urgenza in pronto Soccorso. Il Servizio era attivo 24 ore su 24
e permetteva ai genitori di ricevere informazioni telefoniche che potevano portare a: 1) una soluzione del problema evitando l’accesso
al pronto Soccorso; 2) l’invio a strutture assistenziali (dedicate) non
a carattere d’urgenza; 3) l’invio al Pronto Soccorso con preavviso
dell’arrivo del paziente alla struttura e la descrizione della tipologia
di problema di base e d’urgenza.
In un’attività di 4 anni che ha arruolato 220 pazienti si è osservato:
• unaumentodellechiamatealserviziopiùspessoinorarinotturni/festivi;
• una riduzione dell’accesso al pronto Soccorso post chiamata
(dal74% al 50%);
• unariduzionedrasticadeitempidiattesadelpazientealPronto
Soccorso;
• unnotevolegradodisoddisfazionemediadell’utenza(8,3inuna
scala 1-10).
Tutto ciò ha consentito un risparmio di 122000 dollari australiani in
visite non effettuate in Pronto Soccorso a fronte di un costo totale del
programma di 166000 dollari australiani/anno. Il costo del programma
annuale pro paziente è stato modesto (750 dollari australiani) a fronte
di un costo pro visita in Pronto Soccorso di 340 dollari australiani.
Quanto sin qui discusso dimostra quindi come la complessità assistenziale dei pazienti con disabilità renda le condizioni di urgenza una vera e
propria sfida assistenziale e quanto sia il lavoro che deve essere impostato per dare una risposta adeguata a questo genere di necessità.
La transizione assistenziale dall’età pediatrica a quella adulta
Il problema della diagnosi e dell’assistenza della persona giovane
Complicanza medica
Pneumotorace spontaneo / dissecazione aortica
Diverticolite intestinale, diverticolite vescicale,
ischemia anse intestinali
Volvolo su mal rotazione intestinale
Rottura intestinale
Centrale o ostruttiva
Ostruttiva peggiorata o meno da infezioni alte vie
respiratorie
Compressione acuta tronco-encefalica da anomalia
scheletrica della giunzione atlanto-occipitale
Crisi ipertensiva (ipertensione essenziale o secondaria
a stenosi dell’arteria renale
Stroke cerebrale
Stenosi arteriosa asse iliaco femorale
Distacco di retina
Compressione chiasma da glioma n. ottico
Evolutività di retinite pigmentosa
Frattura patologica
Ipoglicemia da scarsa tolleranza al digiuno
Ipocalcemia da ipoparatiroidismo
adulta affetta da malattia rara con bisogni assistenziali particolari
sta diventando di giorno in giorno più pressante e attuale.
I notevoli progressi della rianimazione neonatale, della chirurgia pediatrica e, più in generale, dell’assistenza pediatrica stessa, hanno
modificato in modo sensibile e significativo la sopravvivenza della
gran parte delle condizioni sindromiche; la mortalità precoce si è
infatti drasticamente ridotta e la sopravvivenza di queste persone
rispetto a quella media della popolazione generale è decisamente
aumentata. Un esempio eclatante è rappresentato dall’aspettativa
di vita delle persone affette da S di Down passata dai 9 anni del
1929, ai 12 del 1940, ai 40 del 1997 ed ai 60 del 2009 (Coppus et
al., 2008). Certamente una variabile di grossa importanza in termini di sopravvivenza è rappresentata dalla presenza/assenza e dalla
gravità del ritardo mentale (RM). Bittles et al. (2002) in un ampio
studio australiano dimostrano un’aspettativa di vita media delle persone con RM pari a 68,6 anni contro una media di 75,6 per il sesso
maschile ed 81 per il sesso femminile nella popolazione generale.
La sopravvivenza media è peraltro in funzione della gravità del RM
essendo pari a 74 anni nelle persone con RM lieve, 67 per quelle con
RM moderato e 58 per quelle con RM grave/severo.
Un altro elemento da considerare è che nell’assoluta maggioranza
dei casi queste persone, fortunatamente, non vengono più istituzionalizzate ma vivono all’interno dei rispettivi nuclei familiari o in
piccole comunità protette.
Tutti questi elementi hanno portato ad un aumento delle necessità
assistenziali specialistiche di questi soggetti ed all’assoluta evidenza
dell’importanza di una competenza che vada ben oltre l’età pediatrica.
Se è vero che “il bambino non è un piccolo adulto” è altrettanto vero
che “un paziente adulto non è un bambino cresciuto”.
L’American Society of Adolescent Medicine definisce la transizione
dall’età pediatrica a quella adulta un “trasferimento programmato di
un adolescente/giovane adulto affetto da malattia cronica”. Questo
processo deve avere degli obiettivi molto chiari di qualità e continuità assistenziale, deve essere centrato sul paziente e sulla sua
99
G. Zampino, A. Selicorni
famiglia e deve essere un processo flessibile e adeguato al grado di
sviluppo del paziente.
La sensibilità e l’attenzione della medicina dell’adulto a queste
tematiche non è affatto elevata. Suris et al. (2009) recentemente
segnalano come la transizione venga spesso vissuta dai medici di
medicina generale come un mero trasferimento.
Lotsein et al. (2009) hanno invece valutato con estrema attenzione il
livello di discussione delle tematiche inerenti la transizione da parte
dei responsabili delle cure in ambito pediatrico in 18198 adolescenti
americani con bisogni speciali di cura. In particolare le interviste mirate effettuate avevano come obiettivo il verificare se vi fosse stata
discussione riguardo a: 1) i futuri responsabili delle cure; 2) i futuri
bisogni assistenziali; 3) la futura copertura assicurativa, 4) una maggior responsabilizzazione nel progetto di cura da parte dell’adolescente. Solo nel 41% dei casi tutti questi punti erano stati discussi.
Le problematiche aperte sono molteplici. La medicina pediatrica ha
infatti consuetudine di rapportarsi con i genitori del bambino ed è
pertanto molto orientata al rapporto con la famiglia mentre la medicina dell’adulto ha un’impostazione più mirata al rapporto individuale con il paziente, pensato come soggetto autonomo ed in grado
di autodeterminarsi. Questo rende quindi più complesso l’approccio
al paziente con disabilità che frequentemente ha nei genitori o nei
tutori legali i referenti principali del percorso terapeutico.
Le stesse strutture sanitarie della medicina adulta non sono organizzate ed orientate ad accogliere pazienti non autosufficienti, scarsamente o non collaboranti e dipendenti, quali i giovani adulti con bisogni speciali di cura. Anche la consapevolezza dell’esistenza di questo
genere di pazienti e di queste problematiche cliniche, sia da parte
della medicina dell’adulto che della psichiatria, è ancora insufficiente.
A rendere la situazione ancora più complessa va segnalato che la
stessa disponibilità di informazioni circa la storia naturale ed i protocolli di follow-up è ancora molto limitata per la gran parte delle condizioni rare ad insorgenza pediatrica come ad esempio le sindromi
malformative complesse.
Il problema poi della transizione, esattamente come quello della presa
in carico pediatrica, va ben oltre il “semplice” piano medico e spazia nei
confronti dello sviluppo del maggior livello di autonomia personale possibile (autodeterminazione, capacità di gestione dei rapporti, delle risorse
economiche, autonomia abitativa ecc.), dell’inserimento occupazionale
migliore possibile e del fronteggiare e gestire problematiche nuove e tipiche dell’età adolescenziale ed adulta come quella della sessualità.
Il problema dell’adeguata gestione della transizione è quindi molto
delicato.
I bisogni della famiglia sono forti e molteplici e spaziano da una
continuità relazionale con i referenti principali per il percorso di cura,
ad una continuità informazionale tra i vari attori del percorso per
arrivare ad una continuità multidirezionale che deve tener conto dei
diversi ambiti in cui vive e si muove la persona con disabilità.
La tabella 5 elenca gli ostacoli più importanti ad una efficace transizione secondo quanto pubblicato da Burdo-Hartman et al. nel 2008.
La transizione tra età pediatrica ed età adulta appare quindi sempre
Tabella V.
Ostacoli maggiori della transizione.
•
•
•
•
•
•
Bassa richiesta isolamento/sociale del paziente e della famiglia
Difficoltà nell’identificare referenti dell’età adulta
Resistenza dell’adolescente
Resistenza della famiglia
Mancanza di supporto istituzionale
Difficoltà comunicative con referenti adulti
100
Tabella VI.
Vantaggi del coordinamento dell’assistenza.
Famiglia
↓ Problemi e frustrazione
↑ Senso di collaborazione
↑ Soddisfazione nel team
Bambino
↓ Giorni di ospedalizzazione/numero visite
↓ Assenza a scuola
↑ Accesso alle risorse necessarie
Staff
↑ Comunicazione
↑ Efficienza dell’assistenza
↑ Ruolo professionale/flusso conoscenza
Sistema
↓ Duplicazione
↓ Frammentazione
↑ Comunicazione e efficienza
più come un percorso articolato che deve essere attivato a livello adolescenziale dai responsabili delle cure e deve coinvolgere in modo pieno la famiglia, il paziente (ove possibile) e i referenti dell’età adulta.
Ciò che deve essere chiaro sin dall’inizio di questo cammino è stato
ben definito da Olsen et al. (2004): l’obiettivo della transizione è lo
sviluppo di un “life (not illness) plan”.
Conclusioni
Il panorama italiano si presta bene per diventare efficace nella gestione del bambino disabile. La presenza di una pediatria di territorio competente dei bisogni del bambino e delle risorse familiari e
sociali, se ben integrata con centri specialistici che provvedono ad
una gestione multidisciplinare delle diverse problematiche sanitarie,
permetterebbe una gestione ottimale del bambino con disabilità.
Il lavoro di coordinamento e di comunicazione tra questi due assi fondamentali è il punto di svolta per una buona gestione. Il coordinamento
degli interventi deve essere considerato uno strumento terapeutico/
assistenziale come l’utilizzo del respiratore per il neonatologo o della chemioterapia per l’oncologo pediatra. Come tale ha un suo tempo
ed un suo costo, ha bisogno di mezzi e di persone. L’oggettivazione
del vantaggio dell’assistenza coordinata è ben dimostrata in termini
economici, in termini di soddisfazione dei familiari, in termini di crescita culturale del team (Tab. VI). La spesa di un’assistenza coordinata è
compensata dal notevole risparmio che il sistema sanitario ha in termini di riduzione dei costi legati alle complicanze e allo sperpero di risorse
(Antonelli et al., 2008). La dimostrazione dell’efficacia del modello di
assistenza integrata permette di pensare ad una sua attuazione sul
territorio nazionale, ma la pediatria italiana è preparata ad accettare la
sfida che la disabilità pone in termini professionali, culturali e umani?
Ringraziamenti
Si ringraziano la fondazione Mariani per il sostegno offerto all’ambulatorio di genetica clinica di Monza; John C. Carey (Genetic Clinic), Nicola Longo e Lorenzo Botto (Metabolic Clinic), Nancy Murphy (Clinic of
Complex Children), Chuck Norlin (director of Medical Home Program)
del Primary Children Hospital di Salt Lake City (Utah-USA) per averci
dato l’opportunità di un confronto professionale ed umano sulla disabilità, l’“Associazione Italiana Sindrome di Costello e Cardiofaciocutanea per aver permesso questo confronto e l’“Associazione Sindrome
di Crisponi e Malattie Rare” per aver permesso l’attivazione del primo
dottorato di ricerca sulla “Pediatria della Disabilità”
Pediatria della disabilità
Box di orientamento
• L’assistenza del bambino con disabilità congenita necessita di una visione pediatrica preventiva e curativa che non si discosta da quella che si ha
per il bambino normale.
• L’elevata complessità assistenziale risiede nel coinvolgimento di numerosi sistemi strettamente intrecciati che richiedono un approccio multidisciplinare coordinato.
• La disabilità non è una malattia è una condizione e il trattamento si avvale di un approccio non solo sanitario ma anche sociale.
• Il pediatra di famiglia e quello ospedaliero, anche se con differenti mansioni hanno un ruolo centrale nella gestione del bambino con disabilità. è
necessaria una figura nella medicina dell’adulto che possa permettere la transizione.
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Corrispondenza
Giuseppe Zampino, Centro di Riferimento per le Malattie Rare e Congenite, Dipartimento di Scienze Pediatriche Medico-Chirurgiche e Neuroscienze
dello Sviluppo, Policlinico Universitario “A. Gemelli”, largo Gemelli 8, 00168 Roma. Tel. +39 06 30154584. E-mail: [email protected]
101
Luglio-Dicembre 2010 • Vol. 40 • N. 159-160 • Pp. 102-108
FRoNTIeRe
Il ciglio primario e le malattie genetiche
da disfunzione ciliare
Anna D’Angelo*, Brunella Franco* **
Telethon Institute of Genetics and Medicine (TIGEM), Napoli; ** Genetica Medica, Dipartimento di Pediatria,
Università Federico II, Napoli
*
Riassunto
Le ciglia sono organelli filiformi che protrudono dalla superficie della maggior parte delle cellule eucariotiche. Fino a poco più di un decennio fa, esse
erano considerate organelli vestigiali. Numerosi studi hanno però dimostrato il loro ruolo cruciale come meccano-, osmo- e chemio- sensori importanti per
la trasduzione di diverse vie di segnalazione quali Hedgehog e Wnt. Le ciglia possono avere diverse strutture e funzioni rendendo la loro classificazione
complessa. In questo studio focalizzeremo l’attenzione sul ciglio primario e sulle malattie dovute all’inattivazione di geni che codificano per proteine ciliari.
Queste malattie, denominate ciliopatie sono caratterizzate da alcune similarità fenotipiche, quali la malattia cistica renale, ed il coinvolgimento oculare e
scheletrico. Numerosi geni responsabili delle ciliopatie sono stati identificati e di molti è stata definita la funzione. Lo scopo di questo lavoro è descrivere,
utilizzando la letteratura scientifica, le più recenti scoperte sul ciglio primario e le ciliopatie ad esso associate mettendo in luce le caratteristiche comuni ai
vari disordini e gli aspetti ancora da investigare.
Summary
Cilia are filiform organelles protruding from the cell surface of almost all eukaryotic cells. They were considered for long period just vestigial organelles.
Many studies demonstrated their crucial role as mechano-, osmo- and chemo-sensors. Cilia can have different structures and functions making their classification highly complicate. In this study, we will focus on the primary cilium and the consequences of its defect. The primary cilium acts as an antenna for
the cell, and several important pathways such as Hedgehog and Wnt are transduced through it. Impairment or dysfunction of one ciliary protein alone can
cause complete loss of cilia or the formation of abnormal cilia leading to ciliopathies. These disorders can affect many organs at different levels of severity
and are characterized by high genetic heterogeneity and a wide spectrum of phenotypes. To date, many ciliary genes have been identified and studies to
determine their function have been performed. The state of the art on the primary cilia studies reveals a very intricate scenario. The aim of this review is
to evaluate the recent advances in cilia function and in primary cilium ciliopathies shedding light on the common features of ciliopathies and the aspects
that still should be investigated.
Metodologia seguita
Le fonti bibliografiche alla base di tale revisione sono state tratte
da ricerche in PubMed, NCBI (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/sites/
entrez?db=PubMed) inserendo come parole chiave: “primary cilium”; “ciliopathy”, “cilium”. Le ricerche bibliografiche sono state
effettuate fino al 15 gennaio 2010. Accanto a pubblicazioni peerreviewed sono state prese in considerazione revisioni redatte da
autorevoli ricercatori del settore.
Obiettivi
L’articolo descrive i più rilevanti sviluppi nel campo delle ciliopatie
con particolare attenzione alle funzioni del ciglio primario. Il mondo
delle ciliopatie è piuttosto complesso dato che spesso i fenotipi clinici si sovrappongono e gli stessi geni ciliari possono essere mutati
in diverse malattie. L’articolo si propone di offrire un aggiornamento
sulle malattie da disfunzione ciliare evidenziandone le caratteristiche comuni e le unicità.
Struttura e funzioni principali delle ciglia
Le ciglia protrudono dalla superficie cellulare e sono delimitate da
una membrana, contigua con la membrana plasmatica della cellula,
che si estende nello spazio extracellulare. Esse sono composte da
una parte centrale, chiamata assonema, costituita da microtubuli e
102
da numerose proteine ad essi associati. L’assonema è una struttura
ordinata caratterizzata da 9 coppie di microtubuli periferici arrangiati intorno ad una zona centrale che può contenere o meno una
coppia centrale di microtubuli. Si distinguono dunque, in base alla
composizione dei microtubuli, due tipi di strutture: tipo 9+2 o tipo
9+0 e studi recenti indicano che entrambe le tipologie possono avere funzioni motili e sensoriali (Wilson et al., 2009).
Le ciglia di tipo 9+2 hanno generalmente dei ponti di dineina che
legano tra di loro le coppie di microtubuli ed altre strutture necessarie per la motilità dell’assonema (Satir e Christensen, 2007) e
sono quindi motili, mentre la maggior parte delle ciglia di tipo 9+0
mancano di tali ponti e sono non motili. La ciglia motili si muovono
mediante l’attività motrice della dineina, che permette di far scorrere i doppietti di microtubuli. Alla base dell’assonema c’è il corpo
basale, costituito da una coppia di centrosomi immersi nel materiale pericentriolare. La zona più esterna del corpo basale costituisce il centro di nucleazione dei microtubuli. Durante la ciliogenesi
le ciglia si allungano dal corpo basale aggiungendo nuove subunità
dell’assonema all’estremità distale. Poiché la sintesi proteica non
avviene all’interno delle ciglia, i componenti del ciglio devono essere
trasportati utilizzando particelle macromolecolari che si spostano
lungo i microtubuli dell’assonema. Tale meccanismo viene definito
trasporto intraflagellare (IntraFlagellar Transport, IFT).
La distribuzione dei tipi di ciglia nell’organismo è varia a seconda
della loro funzione. Ad esempio nel nodo embrionale di topo, la
ciglia primarie sono un insieme di ciglia con struttura 9+0 e 9+2
Il ciglio primario e le malattie genetiche da disfunzione ciliare
con funzioni sia motili, per generare un flusso anti-orario del fluido extra-embrionale nell’area nodale, che sensoriali (Nonaka et al.,
1998; Basu e Brueckner, 2008). Le ciglia dell’epitelio respiratorio e
quello dell’ependima sono motili con una strutura 9+2 per garantire
il flusso di liquidi. Le ciglia non motili 9+2 sono presenti su neuroni
olfattoriali. Tra i differenti tipi di ciglia ci sono le ciglia 9+4 della
placca notocordale dell’embrione di congilio (Feistel e Blum, 2006).
Le ciglia dell’epitelio renale, le ciglia che connettono i fotorecettori
e quelle delle isole pancreatiche sono non motili 9+0 e sono dette
anche ciglia primarie.
Il numero delle ciglia può variare tra i diversi tipi cellulari. Le ciglia
motili 9+2 sono presenti in diverse centinaia sulla superficie delle
cellule epiteliali mentre le ciglia primarie 9+0 sono generalmente
solitarie. In questo studio focalizzeremo l’attenzione sul ciglio primario che ha una struttura 9+0 ed è presente come singolo organello
sulla superficie cellulare. Esso non è presente durante tutta la vita di
una cellula ma si assembla soltanto quando la cellula non è in mitosi; si tratta quindi di un organello altamente dinamico. Ogni ingresso
nel ciclo cellulare è preceduto dal riassorbimento del ciglio primario
(Quarmby e Parker, 2005).
Le ciglia primarie sono presenti su una gran varietà di tipi cellulari
come i colangiaciti dei dotti biliari, le cellule epiteliali dei tubuli renali,
le cellule del pancreas endocrino, la tiroide, i neuroni, i fibroblasti ed
i condrociti. Alcuni esempi di tessuti che presentano ciglia primarie
sono illustati nella Figura 1A-C. Nella Figura 2A è rappresentata una
sezione trasversale della struttura dell’assonema 9+0 non motile.
Una lista di cellule e tessuti che contengono ciglia è consultabile al seguente indirizzo http://www.bowserlab.org/primarycilia/cilialist.html.
La funzione del ciglio primario nella maggior parte dei tessuti è sconosciuta. Nel rene essi sono organelli meccano-sensori che rilevano
il fluido nel lume del tubulo (Singla e Reiter, 2006). Nel fegato, le ciglia primarie sono presenti sui colangiociti e funzionano come meccano-, osmo- e chemio-sensori nei dotti biliari intraepatici (Masyuk
et al., 2008). Negli utlimi anni, la crescente attenzione sulle ciglia ha
stimolato la creazione di numerosi database (http://www.ciliaproteome.org; http://www.ciliome.com) che includono dati genomici e
proteomici sulla loro composizione (Ostrowski et al., 2002; Gherman
et al., 2006; Inglis et al., 2006).
Figura 1.
Ciglia primarie in diversi tessuti di topo. (A) Un ciglio primario del nodo
embrionale di topo visualizzato mediante microscopia a scansione. Barra di misura: 1 µm. (B) Ciglia primarie su colangiociti in un dotto biliare
epatico murino. Le ciglia sono state rivelate con un anticorpo anti-alfa
tubulina acetilata (verde). Barra di misura: 50 µm. (C) Ciglia primarie su
cellule neuronali dell’ippocampo adulto (regione CA1) di topo. Le ciglia
sono state rivelate con un anticorpo anti-adenilil ciclasi III (rosso). Barra
di misura: 20 µm. In entrambi i pannelli i nuclei sono stati rivelati con
4’,6-diamidino-2-phenylindole (DAPI) e le frecce bianche indicano le
ciglia primarie.
Vie di segnalazione trasdotte attraverso il ciglio
primario
Figura 2.
Schema del ciglio primario e delle principali via di segnalazione da esso
trasdotte. (A) Sezione trasversale di un ciglio primario con struttura
9+0. Da notare la presenza delle nove coppie di microtubuli periferici e
l’assenza della coppia centrale. (B) Rappresentazione schematica della
cellula con il nucleo (in grigio) ed il ciglio primario composto da corpo
basale (in giallo) ed assonema (linea nera marcata). Alla cellula arrivano
vari segnali extracellulari che interagiscono con proteine che si trovono
sul ciglio (C). Attraverso tali proteine, i segnali vengono trasdotti all’interno della cellula fino ad arrivare al nucleo attivando una serie di vie di
segnalazione (C).
Studi recenti dimostrano che il ciglio primario è coinvolto in diversi
meccanismi (revisionati in Berbari et al., 2009; D’Angelo e Franco, 2009; Gerdes et al., 2009). In particolare, il ciglio primario si
comporta come un’antenna cellulare captando segnali dall’esterno
e trasmettendoli poi all’interno della stessa. Le vie di segnalazione
trasdotte attraverso il ciglio primario studiate in maniera più approfondita sono la via di Hedgehog e quella di Wnt. Nella Figura 2B-C
è rappresentato uno schema della cellula con il ciglio primario che
capta i segnali dall’ambiente extracellulare per attivare le vie di segnalazione.
La via di segnalazione di Hedgehog molto conservata dal punto di
vista evolutivo regola importanti processi dello sviluppo. I maggiori
componenti della via sono i tre ligandi Sonic hedgehog (Shh), Indian
hedgehog (Ihh) e Desert hedgehog (Dhh), i due recettori di membrana, Patched1 (Ptc1) e Smoothened (Smo), ed i fattori di trascrizione
Gli che sono gli effettori della via stessa. In assenza dei ligandi, la
proteina transmembrana Ptc1 inibisce Smo e di conseguenza il segnale non viene trasdotto e Gli3 è costantemente processato proteoliticamente nella forma di repressore Gli3R. Il legame al ligando
Ptc1 induce il rilascio di Smo, che inibisce il processamento di Gli3
portando all’accumulo della forma di attivatore Gli3A che a sua volta
regola geni bersaglio a valle. Diversi studi supportano la relazione
tra ciglio primario e la via di segnalazione di Hedgehog (Glazer et
al., 2010; Corbit et al., 2005; May et al., 2005; Rohatgi et al., 2007;
Kovacs et al., 2008; Liem et al., 2009). In assenza del segnale di
Shh, Ptc1 localizza al ciglio primario e previene l’accumulo di Smo
all’interno del ciglio primario. Quando la via di segnalazione è attivata, Shh lega Ptc1 e Ptc1 lascia il ciglio primario, permettendo l’accumulo di Smo nello stesso. Dunque, le ciglia primarie funzionano
come chemiosensori per rilevare la presenza extracellulare di Shh
(Rohatgi et al., 2007). Mutazioni in due proteine del complesso IFT,
Ift172 and Ift88, causano gli stessi difetti di specificazione nel tubo
neurale osservati nei mutanti con inattivazione di Shh (Huangfu et
al., 2003). L’inattivazione del gene Ofd1, che codifica per una pro-
103
A. D’Angelo, B. Franco
teina del corpo basale, mostra difetti del tubo neurale simili a quelli
osservati nei mutanti di Shh e presenta un’alterazione del processamento di Gli3, suggerendo che potrebbe agire attraverso la via di segnalazione di Shh (Ferrante et al., 2006 e BF, risultati non pubblicati).
Inoltre, le proteine IFT sono richieste per l’attivazione di Gli e per il
processamento proteolitico di Gli3A in Gli3R (Huangfu et al., 2003;
Haycraft et al., 2005; Huangfu e Anderson, 2005; Liu et al., 2005;
May et al., 2005). Le proteine Gli2 e Gli3 localizzano all’estremità del
ciglio nelle culture primarie di abbozzo d’arto (Haycraft et al., 2005).
Inoltre, i componenti IFT sono fondamentali per il traffico dei componenti della via di segnalazione di Hh attraverso il ciglio (Ocbina e
Anderson, 2008). Tutti questi studi hanno chiaramente dimostrato
che il segnale di Hedgehog viene captato e trasdotto all’interno della
cellula attraverso il ciglio primario.
Le ciglia primarie trasducono segnali per un’altra importante via,
la via di segnalazione di Wnt che è divisa in una via canonica ed
una non canonica, conosciuta come via di segnalazione di Planar
Cell Polarity, (PCP). Inversin è considerato l’interruttore molecolare
tra le due vie di segnalazione (Simons et al., 2005) ed è localizzato
al ciglio primario delle cellule epiteliali renali, dei fibroblasti e della
ghiandola pituitaria (Morgan et al., 2002; Watanabe et al., 2003).
Inversin è responsabile della degradazione di Dishevelled (Dvl) che
causa il passaggio alla via di segnalazione di PCP. Inoltre, Dvl è essenziale per il posizionamento apicale dei corpi basali (Park et al.,
2008). Due studi hanno dimostrato che il ciglio primario ha un ruolo
nel reprimere la via di segnalazione di Wnt/β-catenin (Gerdes et al.,
2007; Corbit et al., 2008). Il corpo basale è un importante regolatore della trasduzione del segnale di Wnt e difetti in questo sistema
possono contribuire alle ciliopatie umane. La subunità anterograda
motoria Kif3a reprime la via canonica di Wnt. Gli studi riportati hanno
dimostrato che il segnale di Wnt, nelle sue due vie, passa attraverso
il ciglio primario.
D’altra parte, un recente studio ha però dimostrato che le ciglia primarie non sono richieste per la via canonica di Wnt nell’embrione di
topo (Ocbina et al., 2009). Tali dati, in contrasto con studi precedenti,
potrebbero però essere spiegati dal possibile ruolo tessuto specifico
delle ciglia primarie. Inoltre, potrebbe essere che la via di segnalazione di Wnt sia trasdotta attraverso il ciglio primario soltanto in
precise fasi dello svilluppo.
Altri studi sono necessari per chiarire il ruolo di Wnt e del ciglio
primario nel corso dello sviluppo.
Le malattie genetiche da disfunzione ciliare
Mutazioni nei geni umani delle ciglia danno origine ad un ampio
spettro di malattie denominate ciliopatie che sono caratterizzate da
caratteristiche fenotipiche comuni e che includono differenti tipi di
malattie: alcune letali in età embrionale, alcune associate a disordini
multisistemici fino a malattie che si manifestano in maniera preponderante in alcuni organi (Badano et al,. 2006; Bisgrove e Yost, 2006;
Fliegauf et al., 2007; Sharma et al., 2008; Cardenas-Rodriguez e
Badano, 2009; Lancaster e Gleeson, 2009; Tobin e Beales, 2009).
Nelle ciliopatie diversi organi possono essere affetti con i conseguenti quadri fenotipici suggerendo una funzione tessuto-specifica
del ciglio primario. Inoltre, molto geni ciliari sono mutati in più di una
ciliopatia, indicando un’interazione tra le proteine. Le proteine ciliari
potrebbero avere anche altri ruoli in aggiunta a quelli strettamente
correlati al ciglio primario. Tutte queste osservazioni fanno capire
la complessità e la variabilità delle ciliopatie. Una lista di ciliopatie
associate a mutazioni in geni del ciglio primario è riportata nella
Tabella I.
104
Un tratto comune alle ciliopatie è la malattia cistica renale. La malattia da rene policistico costituisce una delle più frequenti malattie genetiche nell’uomo ed include la forma autosomica dominante
(ADPKD), caratterizzata da un esordio clinico in età edulta, la forma
autosomica recessiva (ARPKD) e la Nefronoftisi (NPHP). Studi in vivo
hanno dimostrato che le due proteine PKHD1 e PKD2, responsabili
rispettivamente di ARPKD e ADPKD, potrebbero funzionare in una
via di segnalazione molecolare comune (Kim et al., 2008). Ad oggi,
i meccanismi molecolari considerati responsabili per le cisti renali
sono l’incremento di proliferazione cellulare e/o la perdita della polarità cellulare (Fischer et al., 2006; Jonassen et al., 2008; Shibazaki et
al., 2008). NPHP è una malattia autosomica recessiva caratterizzata
da rene policistico (revisionata in Hildebrandt et al., 2009; Simms et
al., 2009). Mutazioni nei geni NPHP causano difetti nei meccanismi
di segnalazione come la via non canonica di Wnt (revisionate in Hildebrandt et al., 2009). Recentemente, Shiba e collaboratori hanno
dimostrato che la proteina Inv, le cui mutazioni sono associate a
NPHP di tipo 2 è localizzata al segmento prossimale del ciglio primario (Shiba et al., 2009). NPHP6/CEP290 codifica una proteina centrosomale ed è la causa di NPHP di tipo 6 e della sindrome di Joubert
di tipo 5. Le mutazioni in NPHP6/CEP290 causano JBTS con o senza
coinvolgimento renale (Helou et al., 2007). Inoltre, il rene policistico
è presente anche nella sindrome di Meckel-Gruber (MKS), nella sindrome di Joubert (JBTS), nella sindrome di Bardet-Biedl (BBS) e nella sindrome Oro-facio-digitale di tipo I (OFDI). L’obesità ed il diabete
sono presenti in pazienti affetti da BBS o dalla sindrome di Almström
ma assenti nelle altre ciliopatie. La degenerazione retinica si manifesta nella sindrome Senior-Loken (SLSN) e nella JBTS oltre che
nelle ciliopatie retiniche (Retinite pigmentosa di tipo 1 o di tipo 3).
Studi recenti hanno dimostrato che i geni responsabili della MKS
svolgono un ruolo nella corretta formazione delle ciglia e nella trasduzione del segnale di Shh (Tammachote et al., 2009; Weatherbee
et al., 2009). Diversi feti MKS hanno mostrato mutazioni nei geni
della BBS, indicando una possible interazione genetica tra i geni
MKS e BBS (Karmous-Benailly et al., 2005). Mutazioni in CC2D2A,
un gene della MKS, sono presenti anche in pazienti affetti dalla JBTS
(Mougou-Zerelli et al., 2009). Recenti studi hanno dimostrato che
mutazioni in MKS3 sono presenti in pazienti affetti da rene policistico a modalità di trasmissione recessiva, NPHP o JBTS (Gunay-Aygun
et al., 2009). Dunque, la maggior parte dei geni MKS è mutata in
altre ciliopatie suggerendo un’interazione genetica tra i geni ciliari
(Baala et al., 2007a; Baala et al., 2007b; Delous et al., 2007; Frank
et al., 2008). Il confine tra le varie ciliopatie è difficile da stabilire.
Infatti, anche mutazioni ipomorfe di MKS3/TMEM67 causano NPHP
con fibrosi epatica (NPHP11; Otto et al., 2009).
Le ciglia hanno un ruolo importante anche nella retina. Difetti nella loro funzione possono causare ciliopatie retiniche revisionate in
Adams et al., 2007; Ramamurthy e Cayouette, 2009. I fotorecettori
sono composti da un segmento esterno ed uno interno connessi da
un ciglio 9+0 altamente specializzato chiamato “ciglio connettore”.
Le due proteine RP1 e RPGR associate con retinite pigmentosa (RP)
localizzano entrambe in prevalenza al ciglio connettore (Liu et al.,
2002; Hong et al., 2003). La proteina RP associata ai microtubuli
è mutata nella RP di tipo 1 (Guillonneau et al., 1999; Sullivan et
al., 1999; Liu et al., 2004). I pazienti affetti da SLSN, un disordine
raro autosomico recessivo, sono affetti sia da NPHP che da malattia oculare progressiva. I geni responsibili per SLSN sono NPHP1,
NPHP4, NPHP5/IQCB1 e CEP290, che sono gli stessi geni mutati in
altre ciliopatie come NPHP e JBTS (Caridi et al., 1998; Otto et al.,
2002; Otto et al., 2005; Helou et al., 2007). La JBTS è una ciliopatia
caratterizzata da un’ampia eterogeneità genetica e variabilità nel-
Il ciglio primario e le malattie genetiche da disfunzione ciliare
Tabella I.
Una lista di ciliopatie associate a mutazioni in geni del ciglio primario.
Malattia
Trasmissione
ereditaria
Caratteristiche patologiche
numero
OMIM
Sindrome di MeckelGruber
Autosomica recessiva
Malformazioni cerebrali,
249000
polidattilia, cisti renali ed epatiche 607361
611134
611561
612013
Gene
Referenza
MKS1, BBS13
MKS3, TMEM, JBTS6
MKS4, CEP290, JBTS5
MKS5, RPGRIP1L, JBTS7
MKS6, CC2D2A
Kyttala, 2006
Smith, 2006
Baala, 2007
Delous, 2007
Tallila, 2008
Forma dominante del
Autosomica dominante Rene policistico
Rene Policistico (ADPKD)
601313
173910
PKD1
PKD2
EPKDC,1994
Peters, 1992
Forma recessiva del
Rene Policistico (ARPKD)
Autosomica recessiva
Rene policistico
606702
PKHD1
Ward, 2002
Nefronoftisi di tipo 1
(giovanile)
Autosomica recessiva
Cisti renali, fibrosi epatica,
displasia renale
607100
NPHP1
Hildebrandt, 1997
Nefronoftisi di tipo 2
(infantile)
602088
NPHP2, INV
Otto, 2003
Nefronoftisi di tipo 3
(adolescente)
608002
NPHP3
Olbrich, 2003
Nefronoftisi di tipo 4
607215
NPHP4
Otto, 2002
Nefronoftisi di tipo 5
602937
NPHP5/IQCB1I
Otto, 2005
Nefronoftisi di tipo 6
610142
NPHP6/CEP290
Helou, 2007
Nefronoftisi di tipo 7
611498
NPHP7, GLIS2
Attanasio, 2007
Nefronoftisi di tipo 8
610937
NPHP8, RPGRIP1L
Delous, 2007; Wolf, 2007
Nefronoftisi di tipo 9
609799
NPHP9, NEK8
Otto, 2008
Sindrome di Joubert 1
Sindrome di Joubert 4
Sindrome di Joubert 5
Sindrome di Joubert 6
Sindrome di Joubert 7
Autosomica recessiva
Anomalie del SNC, cisti renali,
malformazioni del cervello e della
retina
608629
609583
610188
610688
611560
AHI1
NPHP1
NPHP6/CEP290
MKS3, TMEM, JBTS6
MSK5, RPGRIP1L, JBTS7
Valente, 2006
Parisi, 2004
Sayer, 2006
Baala, 2007
Delous, 2007; Arts, 2007
Retinite pigmentosa 1
Autosomica recessiva
Degenerazione retinica
180100
RP1
Sullivan, 1999
Retinite pigmentosa 3
Recessiva legata al
cromosoma X
300389
RPGR
Meindl, 1996
Sindrome Senior-Loken
di tipo 1
Autosomica recessiva
266900
NPHP1
Caridi, 1998
Sindrome Senior-Loken
di tipo 4
606996
NPHP4
Otto, 2002
Sindrome Senior-Loken
di tipo 5
609254
NPHP5/IQCB1
Otto, 2005
Sindrome Senior-Loken
di tipo 6
610189
NPHP6/CEP290
Helou, 2007
Disfunzioni renali e
degenerazione retinica
Sindrome Orofaciodigitale di tipo I
Dominante legata al
cromosoma X
Malformazione della faccia, della
cavità orale e delle dita, cisti
renali
311200
OFD1
Ferrante, 2001
Sindrome di Bardet-Biedl
Autosomica
recessiva
Cisti renali, obesità, anosmia,
distrofia retinica, infertilità
maschile, situs inversus, diabete
209901
606151
608845
600374
603650
604896
607590
608132
607968
610148
602290
610683
609883
609883
BBS1
BBS2
BBS3, ARL6
BBS4
BBS5
BBS6, MKKS
BBS7
BBS8, TTC8
BBS9, PTHB1
BBS10
BBS11, TRIM32
BBS12
BBS13, MKS1
BBS14, CEP290
Mykytyn, 2002
Nishimura, 2001
Chiang, 2004
Mykytyn, 2001
Li, 2004
Katsanis, 2000
Badano, 2003
Ansley, 2003
Nishimura, 2005
Stoetzel, 2006
Chiang, 2006
Stoetzel, 2007
Leitch, 2008
Leitch, 2008
Sindrome di Almström
Autosomica recessiva
Retinite pigmentosa, sordità,
obesità e diabete mellito
203800
ALMS1
Hearn, 2002; Collin, 2002
Short-rib polydactyly
Autosomica recessiva
Ipoplasia toracica, coste ed arti
corti, polidattilia, anomalie viscerali
263530
SRPS
Cavalcanti, 2009;
Piane, 2009
105
A. D’Angelo, B. Franco
la severità dei fenotipi (revisionati in Valente et al., 2008; Doherty,
2009; Parisi, 2009). Tali dati suggeriscono che le disfunzioni ciliari
possano provocare un gruppo di fenotipi correlati.
OFDI è una malattia dello sviluppo di tipo dominante legata al cromosoma X con letalità nei maschi. Le pazienti femmine presentano
un quadro fenotipico complesso che oltre al rene policistico include
malformazioni della cavità orale, della faccia, delle dita e malformazioni del SNC (Macca e Franco, 2009). OFD1, il gene responsibile
di questa malattia genetica, codifica per una proteina localizzata al
corpo basale/centrosoma (Romio et al., 2004; Giorgio et al., 2007).
L’inattivazione del gene ha dimostrato che Ofd1 è richiesto per la
formazione del ciglio primario al nodo embrionale e per la specificazione dell’asse destro-sinistro (Ferrante et al., 2006).
Le caratteristiche genetiche e cellulari delle BBS sono state recentemente analizzate e discusse (Zaghloul e Katsanis, 2009). BBS
mostra una modalità di trasmissione piuttosto complicata, l’eredità
triallelica, in cui tre mutazioni sono necessarie e sufficienti a due
loci contemporaneamente in alcune famiglie per mostrare il fenotipo
(Katsanis et al., 2001). La maggior parte delle proteine BBS localizza al complesso corpo basale/centrosoma formando un complesso
multi-subunità che sembra regolare il traffico vescicolare, dipendente da RAB8, delle proteine di membrana dall’apparato del Golgi alla
membrana ciliare (Nachury et al., 2007). Studi condotti sia nell’uomo che in altri modelli animali hanno dimostrato che le proteine BBS
sono coinvolte in meccanismi cellulari associate a microtubuli (Kim
et al., 2004; Kulaga et al., 2004; Ou et al., 2005; Yen et al., 2006).
ALMS1, il gene mutato dei pazienti affetti da sindrome di Almström
codifica per una proteina che localizza sia al corpo basale che ai
centrosomi (Hearn et al., 2005). Studi in vitro hanno dimostrato che
ALMS1 è importante per la ciliogenesis (Li et al., 2007). Infine, la
Sindrome da coste corte e polidattilia (Short-rib polydactyly) comprende un gruppo di displasie scheletriche. Recentemente è stata
individuata una mutazione in pazienti affetti da tale sindrome nel
gene che codifica per la proteina Ift80, coinvolta nel trasporto in-
traflagellare all’interno del ciglio primario (Cavalcanti et al., 2009).
Mutazioni nel gene PCNT che codifica per la pericentrina sono state
identificate in una displasia scheletrica denominata Nanismo primordiale osteodisplastico di Majewski (Piane et al., 2009).
Conclusioni e prospettive
Nel giro di un decennio sono stati compiuti passi da gigante nello
studio e nella comprensione delle ciglia.
Le ciglia primarie sembrano svolgere ruoli cruciali fungendo da
sensore dell’ambiente esterno per la cellula. Esse sono in grado di
mediare la trasduzione di importanti vie di segnalazione. Gli studi rivelano che la funzione delle ciglia potrebbe essere organo-specifica
o addirittura tessuto-specifica.
È chiaramente dimostrato che il ciglio primario svolge un ruolo
fondamentale per il corretto sviluppo embrionale ma poco è noto
riguardo alla sua funzione in epoca adulta. Qual’è il ruolo del ciglio primario quando un organismo si è sviluppato correttamente?
In pratica, pochi studi sono stati condotti al momento riguardo alla
sua funzione nel mantenimento e nell’omeostasi di un organismo
adulto.
L’inattivazione di geni importanti per il corretto funzionamento del
ciglio provoca difetti diversi nei vari organi in relazione al loro ruolo
in finestre spazio temporali specifiche nei diversi tessuti. Tale osservazione unitamente a quanto esposto in questo studio rendono conto della complessita del mondo delle ciliopatie. Ulteriori studi sulla
funzionalità ciliare in condizioni fisiologiche e patologiche saranno
necessari per fare luce sulla classificazione delle ciliopatie al fine di
facilitarne una corretta diagnosi.
Ringraziamenti
Si ringrazia la Fondazione Italiana Telethon ed EUCILIA (grant EUCILIA-HEALTH-F2-2007-201804).
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Il ciglio primario, fino a poco tempo fa considerato un organo vestigiale, è in realtà un organello fondamentale per la cellula. Una non corretta funzionalità delle ciglia porta a malattie denominate ciliopatie che sono geneticamente e fenotipicamente molto eterogenee.
Cosa si sa adesso
Recenti studi hanno messo in evidenza che vie di segnalazione importanti per il corretto sviluppo dell’organismo vengono trasdotte attraverso il ciglio
primario. Di conseguenza le ciliopatie sono caratterizzate da fenotipi complessi con problemi dello svliluppo (ad es. anomalie scheletriche, malformazioni cerebrali) associati ad anomalie oculari (retiniti pigmentose) e frequentemente malattia cistica renale. Inoltre recenti studi hanno dimostrato
mutazioni in un gene importante per la funzione ciliare possono causare quadri fenotipici e quindi ciliopatie diverse suggerendo un’interazione genetica
tra di loro.
… e per la pratica clinica
L’identificazione di numerosi geni che quando mutati causano ciliopatie, associata ad una migliore definizione clinica del fenotipo ed al miglioramento
delle tecniche diagnostiche hanno permesso una più corretta classificazione delle ciliopatie. Disfunzioni del ciglio primario dagli stadi iniziali dello
sviluppo causano gravi quadri malformativi per i quali è difficile prospettare soluzioni terapeutiche definitive. Studi sulla funzione del ciglio primario
possono consentire nuove prospettive terapeutiche che siano in grado di migliorare le condizioni di vita dei pazienti.
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Corrispondenza
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