La lezione pedagogica della filosofia

A
Paolo Giove
La lezione pedagogica della filosofia
Prefazione di
Francesco Bellino
Aracne editrice
www.aracneeditrice.it
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Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale
www.gioacchinoonoratieditore.it
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via Sotto le mura, 
 Canterano (RM)
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
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I edizione: giugno 
Indice

Prefazione
Francesco Bellino

Introduzione

Capitolo I
Ha (ancora un) senso la filosofia?
.. Filosofia e senso comune,  – .. La non–credibilità pedagogica della filosofia, .

Capitolo II
Che cos’è la filosofia?
.. I topoi genealogico–epistemologici della filosofia,  – .. La
filosofia come “assurdo”,  – .. La filosofia come “reazione”,  – .. La filosofia come “rivolta”, .

Capitolo III
Le lezioni pedagogiche della filosofia
.. La lezione agapatica,  – .. Lezione storica,  – .. La
lezione esistenziale,  – .. La lezione epistemologica,  –
.. La lezione cognitiva, .

Capitolo IV
La filosofia come “Questione di vita”
.. La consulenza filosofica: una “questione di vita” in pratica, .

Prefazione
F B∗
Animato da una forte passione filosofica e da coerenza e vis
teoretica, il giovane filosofo Paolo Giove in questa sua interessante opera restituisce alla filosofia la sua anima pedagogica,
ormai smarrita, se non propria estinta soprattutto con la progressiva sostituzione della “filosofia” con le “scienze umane” e
della “pedagogia” con le “scienze dell’educazione”. Non discute, infatti, dell’annoso rapporto epistemologico tra pedagogia
e filosofia, ma va nel cantiere della filosofia, per coglierne il
senso profondo.
Ripercorrendo un po’ tutta la storia del pensiero filosofico, i suoi luoghi, le sue lezioni (agapica, storica, esistenziale,
epistemologica, cognitiva), riscopre le radici antiche, ma sempre attuali della pratica filosofica. La filosofia è in crisi, oggi,
perché « non è più una questione di vita, per gli uomini, per il
mondo, per tutto ». Il nucleo della filosofia non è il discorso o il
meta–discorso, che riflette su tutte le forme di discorso umano
(scientifico, tecnico, politico, artistico, quotidiano e anche filosofico), come nell’età moderna e nell’accademismo, ma la vita.
Tutta l’antichità ha riconosciuto in Socrate un filosofo, se non il
filosofo per antonomasia, più in virtù della sua vita e della sua
morte che dei suoi discorsi.
Giove recupera la grande lezione della filosofia classica, che
ha concepito la filosofia come pratica, come arte di vivere e
di orientare la propria esistenza attraverso il pensiero. Essa ci
∗
Ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo
Moro”.


Prefazione
insegna, come scrive Jules Evans nel bel libro, Filosofia per la vita
e altri momenti difficili. Come Socrate & Co. possono aiutarti a star
meglio, tanto apprezzato anche dall’Autore, alcune cose spesso
tralasciate dai moderni sistemi educativi: « Come si governano
le emozioni, come si affronta la società, come si deve vivere » e
anche sull’arte dell’autoaiuto.
Al di là di tutte le divergenze delle varie scuole e orientamenti c’è una profonda unità tra i pensatori, che è la fiducia nella
razionalità umana e nella capacità della filosofia di migliorare la
nostra vita.
La filosofia è pratica filosofica e quindi, per Giove, pedagogia
tout court per la vita, della vita e sulla vita.
Introduzione
La filosofia non è un tempio,
ma un cantiere.
Georges C
La lezione pedagogica della filosofia non è l’ennesimo libro di
epistemologia pedagogica, perché l’intento di questo lavoro
non vuol essere tanto un ripristino epistemologico inerente al
complesso e problematico rapporto — ormai millenario — tra
pedagogia e filosofia (anche se mi sarà inevitabile, nel successivo capitolo, fare qualche salubre richiamo in merito) quanto
invece vuol essere quello di re–stituire alla filosofia una sua,
ormai, smarrita, se non proprio estinta, “anima pedagogica”
che si è volatizzata per questioni che vedremo successivamente.
Questo libro, pertanto, è nella sua fattispecie l’ennesimo libro
di Filosofia dell’educazione, o meglio un libro di “educazione
filosofica” per dirla con Costanzo Preve. Ora, partendo da tale
consapevolezza, la filosofia si riporta e si dona nella vivente
esperienza di senso, un’ esperienza in cui l’uomo non si coglie, si percepisce, si connota, si evidenzia, si capta attraverso
un mondo “eventuale” o “causale” (queste sono le sfere dello
psicologico, del sociologico, del tecnologico, ecc.); bensì invece egli s’incontra con tali esperienze di senso come una realtà
che assume una propria soggettività reale. Ne consegue, allora,
che il valore (di senso) pedagogico della filosofia fa si che « la
vera misura dell’uomo, allora, non è una nozione ripetitiva
di umanità [. . . ], ma è piuttosto il dinamismo che spinge ogni
realtà personale a protendersi verso l’agire, il fare, il costruire, il


Introduzione
maturare, ecc. » . Ciò sta ad indicare, significativamente, che la
filosofia è un valore (prima ancora di essere un’azione, un sistema, un pensiero e quant’altro) dell’umano sull’umano; quindi
se la filosofia si esprime (e si è sempre espressa) nell’umano essa
giunge a cogliere lo statuto ontologico, e successivamente esistenziale, in cui viene posta l’enfasi (sull’eccedenza?) dell’uomo
sull’umano.
Cosa sta ad indicare tutto ciò?
Se provassimo a chiedere ad un medico che cos’è la “vita”, egli ci risponderebbe con argomentazioni (sicuramente
ed inevitabilmente) tecniche, diciamo pure che ciò si può anche stare data la sua formae mentis. Analogo discorso vale se
porgessimo domande affini ad altri specialisti (ingegneri, biologi, sociologi, giuristi, ecc.); ma il problema sorgerebbe se
domandassimo ad un filosofo che cos’è la “vita”, la “scienza”,
la “cultura”, ecc. Ora, il medico — al pari degli altri specialisti
— per poter operare ogni giorno, ha bisogno di “accontentarsi”
di definizioni minime e parziali che ritagliano il proprio oggetto epistemologico d’applicazione. Viceversa al filosofo questo
“accontentarsi” minimalista gli calza stretto, anzi non li calza
proprio molto spesso. Pertanto, in ossequio a tali considerazioni se prendessimo in considerazione dimensioni, spazi, ambiti
di natura medica, ingegneristica, economica, politica, sociale,
religiosa, culturale e via scorrendo; ci renderemmo conto che
tutte queste dimensioni, questi spazi, questi ambiti pongono
filosoficamente il problema della (loro) possibilità di essere e di
esistere in un complesso “avvenire–divenire” in cui cresce la
presa di consapevolezza di un riconoscimento che costituisce
un punto fermo sul quale viene a crearsi una “data” ontologia che, a sua volta, si apre proprio sull’umano che si esprime
nell’umano. Ne consegue allora che: tale constatazione di natura
ontologica denota anche il fatto di come la filosofia, in se stessa,
ha la peculiarità di arrivare alla verità attraverso pensieri interagenti che, trasformandosi in varie sfaccettature, formano una
. G. M, Soggetività e critica in pedagogia, La Scuola, Brescia , p. .
Introduzione

certa intersoggettività delle conoscenze e dei saperi che fanno
fronte a quelle dimensioni, ambiti e spazi. Pertanto, se volessimo proprio ridurre sic et simpliciter lo scopo da me prefisso
nel presente lavoro, vorrei e dovrei far ricordare che la filosofia
non è solo ed esclusivamente (la) storia di sé e delle proprie
rappresentazioni della realtà a cui soggiace (tautologicamente)
una e/o la verità di qualcosa che si conclude solipsisticamente
in un riduttivismo ateleologico fine a se stesso o nelle modalità
di un realismo (ed ottimismo) ingenuo o nelle modalità di uno
scetticismo asettico. Questo perché la filosofia sa benissimo che
il fine non coincide mai con la fine. Rilanciare pedagogicamente
il ruolo e l’importanza educativa formativa che, nel corso dei
secoli, la filosofia ha sempre avuto (e continua ad avere) vuol
dire in primis ri–considerare il fatto che: ciò che danneggia,
perché grava al pari di un macigno, la filosofia, oggi come oggi,
è una certa vaporizzazione delle conoscenze e dei saperi a cui
e verso cui la stessa filosofia fa fronte. Ed infatti sotto questo
aspetto non si può dar torto a F. Volpi quando ha notato che:
La filosofia si è sempre sviluppata sotto vari protettorati [. . . ]. Ma il
rischio che si corre in questa disciplinarizzazione — delle numerose
filosofie al genitivo che sorgono in quantità: filosofia della medicina,
filosofia dello sport, filosofia della moda, filosofia del design, filosofia
di questo e di quello — è di ridurre la riflessione filosofica a una
nobile anabasi, a una ritirata strategica delle grandi questioni per
rifugiarsi in problemi di dettaglio. Da sempre, invece, la filosofia si è
contraddistinta come forma eccelsa di pensiero trasversale, capace
di inventarsi ragioni per dubitare dell’evidente, di andare alla radici
e di mirare all’interno.
E questi “problemi di dettaglio” non sono forse quelle dimensioni, quegli ambiti e quegli spazi in cui si ritagliano i
relativi oggetti epistemologici d’applicazione? La causa, allora, tra le varie, è rintracciabile all’interno di quell’embrionale
sviluppo esorbitante dei mass media ausiliati dalla stravagante
prepotenza tecnologica che ha prodotto, per l’appunto, quel. F. V, Il nichilismo, Laterza, Bari , p. .

Introduzione
la specializzazione (se non proprio iperspecializzazione) dei
saperi e delle conoscenze che, a loro volta, hanno comportato dei meriti e dei demeriti su che cos’è la Weltanschauung
filosofica. E a questo punto non si può più pensare « la filosofia come coltivazione di linguaggi e problemi totalmente altri
rispetto al vivere quotidiano » , ed infatti da ciò scaturisce il
fatto–problema che la filosofia è (ri)apparsa e (ri)emersa all’interno di tale (iper)specializzazione dei saperi e delle conoscenze
come “genere letterario”. Perché? In quanto essa (ri)apparsa e
(ri)emersa come “domanda di senso” in modo frammentato,
snodato, frastagliato e dissociato proprio in quelle dimensioni,
in quegli ambiti e spazi iperspecializzati sia di natura umanistica
che scientifica. Non per questo la filosofia (ri)appare e (ri)merge
all’origine degli altri processi conoscitivi come, per utilizzare un
espressione di Husserl, una “dimensione regionale” dei saperi.
Dimensione regionale in quanto la filosofia si configura, nasce, si
evidenzia, si connota, prende corpo ed anima, tra un “sospetto”
ed un “problema”. Ed è chiaro che in questo scenario l’odio
e l’amore, al tempo stesso, che si può nutrire e coltivare per
la filosofia è congenitamente insito nel contravvenire all’antica
regola: « Non disturbare il cane quando dorme ». Ebbene, tale
“contravvenire” non è un puro e semplice “gusto anarchico”
fine a se stesso, bensì è la presa di coscienza di come la filosofia
sia una forma di sapere libero.
Il vero problema, pertanto, se sin ora non lo si è adeguatamente afferrato, è: che tipo di sapere è la filosofia? Rispondere a
questa domanda può essere relativamente “facile” o “difficile”,
in quanto la filosofia può essere un sapere utile (al pari delle
altre scienze) o inutile.
Ed è proprio questa la “posta in gioco” della filosofia, oggi
come oggi, ed ecco perché il presente lavoro si propone di investigare, di analizzare, di valutare verso quale possibile ricerca di
senso (e cioè verso quale tipo di lezioni pedagogiche ci apporta
e ci ha sempre apportato la filosofia durante il corso del suo
. G. V, Della realtà, Garzanti, Milano , p. .
Introduzione

sviluppo, viaggio, cammino). Tale “posta in gioco”, in questo
lavoro, è indirizzata ed articolata nell’analisi di una complessa e
ricca indagine pluridisciplinare le cui istanze e risultanze vengono assunte in un discorso pedagogicamente impegnato a saper
mediare criticamente, riflessivamente e problematicamente,
quelli che sono i principi, i processi, i fini, i metodi stessi che
la filosofia (nel corso del suo sviluppo) ha rivolto alla lettura
delle sue molteplici implicazioni in vista del problema educativo
dell’uomo e dell’intera umanità. Sarà forse “ovvio” per qualcuno, almeno credo, che la “lettura di tali implicazioni”, verso
cui la ricerca del presente lavoro è improntata, vada al di là di
ogni tentazione dogmatica di intendere in modo cumulativo e
lineare la crescita umana, specie poi se la si affronta sotto un
profilo pedagogico e filosofico (educativo). Perché? Perché, da
questo punto di vista, sono sempre più convinto che l’esperienza storica (e non soltanto storica) della filosofia e del fare
filosofia — indipendentemente se in modo professionale (il
mondo accademico) o “dilettantesco” che sia — offra sempre
un inesauribile lezione a chi da essa (la filosofia) ha sempre
voglia di imparare, di migliorare e di cambiare.
Ecco perché il titolo del presente libro, La lezione pedagogica della filosofia, non è stato dettato dal caso, perché specie
nell’epoca in cui viviamo, assistiamo, giorno dopo giorno, ad
un impressionante calo del sapere umanistico rispetto a quello
tecnico–scientifico; e pertanto studiare oggi la filosofia è un atto
di riflessione pedagogicamente impegnativo che ci conduce ad
una nobile riscoperta formativa del “come” e del “perché” delle
cose. E non forse questo ritorno al perché e al come delle cose
significa re–interrogare la filosofia, ri–scomodarla, ri–pensarla,
spodestarla, ri–valutarla per quello che è stata, per quello che è,
per quello che sarà? Questo, forse, “eterno ritorno” (nostalgico?) al “perché” ed al “come” delle cose muove partendo dalla
convinzione che nella formazione (del pensiero, dell’anima,
del corpo, ecc.) dell’uomo non ci si può “accontentare” della
sterile constatazione che la “vita è”; perché come ci ha insegnato M. Heidegger: accettare l’esserci senza indagare l’essere

Introduzione
è un pericoloso inizio. La lezione pedagogica della filosofia,
sotto questi aspetti, non si “accontenta” al mero problema del
significato delle cose che, di volta in volta, assume qualificazioni
diverse ed opposte in senso all’attività pensante dell’uomo: la
sola capace di scoprire il senso ed il valore delle cose medesime. Ma tale lezione sa pure che riducendo l’uomo a mera
risultante di esperienze mai definite, lo conduce verso una decentralizzazione del proprio Sé in balia di un fluttuare continuo
e frustrante tatonnements senza possibilità di riscatto. In quanto
occorre sempre ricordare che:
Nell’ordine dell’educazione l’uomo stesso è il fondamento e il fine
del discorso [. . . ]. Questo significa sempre riproporre l’esigenza di
rimettere la pedagogia in presenza del suo fondamento filosofico,
prima che scientifico [. . . ]. Il discorso pedagogico deve ritrovare continuamente il proprio livello fondativo in una capacità di domanda
prima che di risposta, di interrogazione prima che di progettazione.
La capacità di domanda e di interrogazione trova, inevitabilmente, la propria leva d’Archimede nella filosofia. Ed ecco
perché occorre ridare corpo e anima a questo immenso cantiere che è la filosofia, attraverso quello che sarà il titolo del
primo capitolo di questo libro: Ha (ancora un) senso la filosofia?
E pertanto invito i lettori a considerare il successivo capitolo
come un prosequio della presente introduzione.
. G. M, op. cit., pp. –.
Capitolo I
Ha (ancora un) senso la filosofia?
Se la filosofia fosse vuoto formalismo
si esaurirebbe in mezz’ora.
G W F H
Ha scritto P. Feyerabend:
I filosofi oggi sono solo più dei funzionari del pensiero e degli amministratori del concetto [. . . ]. Si lodano a vicenda, sono lodati o
criticati da altri funzionari (fisici, biologi, sociologi, premi Nobel),
cioè, in ogni caso sono considerati; il loro stipendio non è affatto
cattivo e la loro “immagine dell’essere umano” si adatta perfettamente a quella situazione e a quelle manifestazioni concrete dell’essere
umano che incontrano nelle aule, negli uffici, nelle conferenze, nei
laboratori e nelle chiacchiere scientifico–filosofiche da caffè.
Infatti, non possono forse i filosofi — non solo oggi, ma
precisamente dalla loro prima comparsa — come figure al
quanto strane di un’umanità non pratica, cioè come pazzi e
ammattiti, di norma estranei al mondo, lontani dalla vita e
incapaci nelle faccende quotidiane?
Viene spontaneo chiedersi se lo scetticismo congenito e/o
artificiale che si prova per la filosofia (e per gli stessi filosofi)
non sia il frutto di una certa “colpa culturale” connessa a quel
processo di accademizzazione della stessa filosofia che, di conseguenza, gli ha fatto perdere quello specifico pragmatismo
. P. F, Erkenntnis fur freie Menschen, cit. in G.B. A, La
consulenza filosofica, tr. it. Feltrinelli, Milano , p. .
. G.B. A, op. cit., p. .


La lezione pedagogica della filosofia
pedagogico per cui è nata. L’accademizzazione della filosofia
ha reso la stessa filosofia una forma di sapere iperspecializzato,
sovente chiuso in vere e proprie “pippe mentali”, e che pertanto
l’utilità pedagogica della stessa si è completamente smarrita.
Sulla scorta dell’interrogativo che rappresenta il titolo del presente capitolo, occorre porsi un’altra domanda basilare: qual
è oggi la forma di pensiero sulla quale affidarsi e basarsi per
una qualche responsabilità del pensare? In un contesto filosofico–
culturale come quello italiano (ma non solo italiano, oramai),
ad esempio, forse caratterizzato da un orientamento storicista, sembra difficile comprendere le motivazioni e le ragioni
per le quali la filosofia oggi può ancora dirci o non dirci qualcosa in guisa ad una cultura ed una civiltà. Non sarà allora
mica esagerato constatare il fatto di come la filosofia in Italia,
e nelle corrispettive università italiane, si è spesso arenata in
propaggini di spessore più speculativo che emotivo (dove per
emotivo non intendo l’affidarsi alla balia delle onde sensazionali
del fortuito e dell’estemporaneo o l’affidarsi ad un certo sentimentalismo illogico che intacca la corretta speculazione di un
pensiero che pensa ciò che vive e vive ciò che pensa), con il
risultato di mantenersi in un certo tipo di status quo alquanto
mediocre rispetto al pensiero europeo e mondiale in generale.
Tale status quo ha condannato la speculazione filosofica italiana
(e non solo italiana, ripeto) ad un certo provincialismo che ha
rappresentato l’effetto di un certo storicismo (sì, proprio quello
storicismo condannato da K. Popper). Nel contesto internazionale, allora, non è obsoleta ed insensata l’osservazione di Pietro
Prini quando ha notato che la filosofia del Novecento « non è
più in buoni rapporti con se stessa » , sia perché forse i filosofi sono in disaccordo sulle linee metodologiche da adottare,
sul contenuto e sull’oggetto, sia perché (come conseguenza
di ciò, forse) il loro impegno teoretico non corrisponde più
adeguatamente a quella “responsabilità del pensare”. Pertanto,
. P. P, Il “tradimento dei chierici”, in A.V., Dove va la filosofia italiana, (a
cura di) J. J, Laterza, Bari , p. .
. Ha (ancora un) senso la filosofia?

in tale prospettiva la lezione pedagogica terrificante della filosofia è quella relativa alla responsabilità del pensare che non
investe soltanto un livello individuale, ma soprattutto investe
un livello preoccupatamente problematico sia sul piano politico
che sociale. Assumersi la responsabilità del pensare significa
compiere una prima operazione di riscatto per la filosofia verso
ogni forma di appiattimento solipsisticamente estetico e storicista; significa condurre il pensiero (teoretico) a ri–pensare se
stesso in termini metarazionali, metacognitivi, metacomunicativi, metalinguistici, ecc. In Italia, dunque, nella nostra attuale
situazione attivare un insegnamento della filosofia vuol dire
in prima istanza riattivare un investimento (culturale e spirituale) di fiducia nei riguardi degli studenti, insegnando loro
a saper apprendere e a saper pensare in modo radicale che esula
dal mero esercizio logico asettico ed impersonale del fare e del
vivere la filosofia così come l’accademizzazione ha fatto. Ma è
chiaro che il mio appello, il mio auspicio, il mio invito, la mia
esortazione non si rivolgono provincialisticamente al mondo al
mondo accademico e scolastico, ma si rivolgono soprattutto a
tutti coloro che vogliono imparare ad apprendere dalla filosofia
delle preziosissime e mai tramontate (forse per alcuni) lezioni
pedagogiche sotto il profilo cognitivo, etico, esistenziale culturale, storico e quant’altro (questo è il criterio di fondo a cui e
verso cui lo scrivente si vuol imbattere nel presente libro). Sul
processo di accademizzazione della filosofia, e sulla sua relativa
non–credibilità pedagogica, già nelle lezioni che M. Heidegger
tenne a Friburgo tra il  e il , si mette in evidenza da
parte del filosofo tedesco una certa “pericolosità formativa” da
parte dell’Università circa l’insegnamento della filosofia e della
sua “utilità”. Infatti scrive Heidegger:
L’università non può fungere da criterio per la “formazione“ di una
situazione fondamentale del filosofare [. . . ]. È indispensabile che
si faccia chiarezza sul senso e sul diritto della tradizione [. . . ]. La
tradizione deve essere o non essere normativa. Normativa per cosa?
Per l’università di oggi [. . . ]; la questione è che cosa sia propriamente in se stesso ciò di cui si ipotizza questa revisione normativa:

La lezione pedagogica della filosofia
quale “parte”, quale componente dell’università e cioè in se stessa
propriamente in questione? Di che cosa ne va propriamente in e per
l’università? Si è detto che essa è un contesto vitale, cioè qualcosa in
cui si vive, che s’intende con questo “vivere”, nell’università?
Il pericolo che Heidegger, e non solo lui, rintracciava già in
quegli anni riguardo la filosofia è stato, a mo’ di profezia, realizzato appieno: la filosofia oggi è innanzitutto la filosofia accademica che porta con sé elevate dosi di tecnicismo, specialismo e
settorializzazione.
Che ne pensano gli accademici? ma lo pensano? quale ruolo pedagogico possiamo oggi conferire alla filosofia? qual è il
“contesto vitale” della filosofia, dato che oggigiorno si presenta
come genere letterario frantumato, disarticolato, snodato nelle
riviste, nei giornali, nei blog, su Facebook, in radio, in televisione, nei Festival e negli Happining di vario genere? Allora:
se vogliamo veramente restituire alla filosofia quella smarrita
“anima pedagogica” d’un tempo, se vogliamo pertanto rendergli un servizio riconoscendole la sua importanza pedagogica,
se riteniamo che essa sia davvero importante in seno al suo inesauribile ruolo educativo nella scuola e nella società, dobbiamo
farla finita con la “retorica a buon mercato”.
A ragion veduta di tale retorica a buon mercato oggi l’insegnamento della filosofia non è esente dalla caduta di motivazioni
che investono più in generale le discipline scolastiche ed il conseguente bisogno di riconsiderare tale insegnamento a partire
dal vissuto degli allievi. Stando, pertanto, alle considerazioni di
P. Feyerabend, M. Heidegger e quant’altri ancora, si evince che:
la filosofia esercitata solo nelle aule scolastiche e nell’università
serve soltanto alla mera riproduzione concettualistica di se stessa
(sarebbe a dire, metaforicamente parlando, come un pazzo che si
dà sempre ragione). Occorre fare un passo indietro, ricordandoci
che la filosofia non è mai cresciuta nell’aria sterilizzata ed asettica
dei laboratori del pensiero universitario, e che dalla fine del XIX
. M. H, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, tr. it. Guida,
Napoli , p. .
. Ha (ancora un) senso la filosofia?

secolo questo è un fatto che non può essere ignorato. Non si
vuol — per carità! — demonizzare l’accademizzazione della filosofia ma quantomeno cercare una forma intermedia tra filosofia
accademica e filosofia pratica, quella filosofia che è parte vitale
della vita, che ci ricorda che Socrate ed Eraclito vivevano come i
nostri attuali “barboni”, che i Cinici all’epoca erano i nostri attuali
“Punk–bestia”, che Talete non aveva nessuna professione in mano
e si arrangiava ed adattava a fare qualunque mestiere per vivere,
che Spinoza era un ottico, ecc. Non per questo un certo Gerd B.
Achenbach nel  fondò la prima associazione mondiale per la
consulenza filosofica con sede a Bergisch Gladbach, nei pressi di
Colonia, con l’obiettivo di ripristinare l’antico ruolo pedagogico
che un tempo la filosofia svolgeva nelle strade di Atene e della
Grecia in generale.
Lo stesso Achenbach circa il rapporto tra filosofia accademica e filosofia pratica ci invita a riflettere sul fatto che:
I filosofi, senza la costrizione di dover dividere se stessi in due parti
— una mente studiosa interessata alla filosofia da un lato, e, dall’altro,
un resto filosoficamente non interessante, non istruibile, non portato
per lo studio [. . . ] —; possono imparare a vivere, a fare esperienza,
a riflettere, a litigare, a dubitare, a interrogare, a fare tentativi, a
tessere i pensieri, a sperimentare, ad amare e a disdegnare lo spregio
e il disprezzo di tutto ciò. In altre parole, la filosofia universitaria
avrebbe dovuto svilupparsi da istituzione del pensiero a istituzione
del pensatore, poiché la forma concreta della filosofia è il filosofo, o,
come ho detto in un altro luogo: è la consulenza filosofica. In breve:
la filosofia diviene consulenza nel filosofo, come quell’essenza che pensa
dia logicamente insieme gli altri. Con ciò dovrebbe essere espressa
anche la sfida della consulenza filosofica alla filosofia accademica.
La consulenza filosofica è la filosofia accademica che si pone la
sfida attraverso la pretesa pratica. Infatti può esserci anche una teoria
filosofica senza una pratica — e c’è, come è noto —, però non c’è una
consulenza filosofica senza la filosofia, che, senza preparare il terreno
alla pratica, senza prima addestrarla o istituirla, istruisce se stessa
nel momento in cui tenta di portare filosoficamente all’esperienza
ciò che accade nella pratica.
. G.B. A, op. cit., p. .