Oriente e Occidente dall'unità alla rottura: tra Costantino e Romolo Augustolo Il mondo romano dalla morte di Costantino a Teodosio Un progetto fallito. Alla sua morte, avvenuta nel 337, Costantino lasciò l'Impero ai tre figli. Tra questi, però, si sviluppò fin dal primo momento una lotta senza esclusione di colpi, che alla fine lasciò in vita il solo Costanzo II, imperatore unico dal 350 al 361. L'ultimo discendente di Costantino, Giuliano, esercitò infine per breve tempo il sommo potere fra il 361 e il 363. Giuliano aveva dato prova di grandi doti militari combattendo in Gallia contro tribù germaniche. Gli fu fatale, però, la spedizione in grande stile organizzata contro i persiani e mirante a consolidare la frontiera in quel delicato scacchiere: morì infatti proprio agli inizi della guerra e l'improvvisa scomparsa dell'imperatore determinò il fallimento della spedizione, cosa di cui i persiani approfittarono prontamente per sconfinare in territorio romano. Con Giuliano si estinse definitivamente anche la dinastia del primo imperatore cristiano. Gli unni e la crisi alle frontiere. Sotto i successori di Giuliano, la strategia romana in Oriente si limitò alla costante ricerca di un cessate il fuoco sempre precario con l'Impero persiano, ma le zone perdute non furono mai più riconquistate. Intanto, una nuova crisi si prospettava subito al di là del confine danubiano. Gli unni, una popolazione nomade che proveniva dal cuore dell'Asia, iniziò verso la metà degli anni settanta a spostarsi verso occidente, premendo sulla tribù germanica dei visigoti. Cavalieri abilissimi, gli unni evitavano i grandi scontri utilizzando la tattica del "colpisci e fuggi" ed erano di inaudita ferocia nelle loro scorrerie, che facevano terra bruciata e non risparmiavano nessuno. Di fronte a questa minaccia, i visigoti si videro costretti a chiedere ospitalità all'interno dei confini romani. La disfatta di Adrianopoli. L'imperatore d'Oriente Valente (364-378) non aveva scelta: in quel momento, l'Impero non era in condizioni di impedire alle tribù germaniche l'accesso nei propri territori, senza contare che i visigoti avrebbero potuto costituire un cuscinetto utile per attutire il possibile impatto degli unni. Ma la coabitazione fra i nuovi arrivati e le autorità romane si rivelò immediatamente problematica e il malcontento dei visigoti assunse in breve tempo l'aspetto di una vera e propria rivolta. In questa situazione già tesissima, Valente affrontò lo scontro senza attendere rinforzi dall'imperatore d'Occidente e nel 378 i romani subirono ad Adrianopoli, in Tracia, una sconfitta tremenda, nella quale lo stesso imperatore perse la vita. Lo shock fu disastroso anche sul piano psicologico: il mito dell'invincibilità romana e della superiorità sui "barbari" ne uscì definitivamente incrinato. L'Impero non era mai stato così vulnerabile, mentre le forze che premevano alle frontiere e all'interno dei confini apparivano ogni giorno più difficili da controllare. I goti accolti entro i confini. Dopo Adrianopoli, il nuovo imperatore d'Oriente Teodosio (378-395), succeduto a Valente, non ebbe altra scelta che formalizzare la presenza dei visigoti all'interno del territorio imperiale, accordando loro, nel 382. il permesso di insediarsi nel territorio della Tracia. Giuridicamente, la posizione dei goti era quella di "federati", cioè di stranieri regolarmente residenti sul suolo romano, sulla base di un patto che li vincolava a precisi obblighi nei confronti dello stato tante, primo fra tutti quello di non attaccare i sudditi dell'Impero e di contribuire semmai alla difesa delle frontiere nell'area di loro spettanza. Una prima comunità romano-germanica. La propaganda ufficiale presentò questa scelta come una mossa strategica vincente, che impostava su basi nuove e più vantaggiose il problema della gestione dei "barbari": questi venivano integrati nell'Impero senza colpo ferire e, da nemici che erano, diventavano difensori praticamente a costo zero. Ma la realtà era ben diversa: il sistema della federazione infatti, se sul momento conteneva la pressione avversaria, rappresentava un'arma a doppio taglio, perché i popoli accolti nei confini erano inevitabilmente portati ad alzare il prezzo della loro neutralità o della loro collaborazione. Negli anni successivi, molti goti ascesero a posizioni di potere nell'esercito e nella burocrazia, al punto che si può parlare, nell'ultimo scorcio del IV secolo, del formarsi in Oriente di una classe dirigente etnicamente mista, romanogermanica: un processo che fu bruscamente interrotto, come vedremo, dalla reazione antibarbarica sviluppatasi dopo la morte di Teodosio. Teodosio e il cristianesimo come religione di stato. Dopo la breve parentesi di Giuliano, detto “l’Apostata” per avere sconfessato la religione cristiana e avere tentato di ripristinare il paganesimo come religione dell’impero, epurando i cristiani dai quadri della classe dirigente, la scelta del potere politico a favore del cristianesimo si irrigidì, mentre la nuova religione guadagnava altri consensi fra gli strati elevati della popolazione urbana. Il processo raggiunse il culmine con Teodosio: con l'editto di Tessalonica del 380, subito dopo la sua ascesa al trono d'Oriente, egli proclamò infatti il cristianesimo l’unica religione riconosciuta all'interno dell'Impero. Contestualmente, venivano disposte una serie di misure punitive che colpivano tanto gli eretici - e dunque i cristiani che sostenevano dottrine non riconosciute dalla chiesa - quanto, soprattutto, i pagani. Erano provvedimenti che non solo miravano a proibire le manifestazioni del culto (in particolare il sacrificio animale, elemento essenziale di quasi tutte le cerimonie pagane), ma tendevano a strangolare proprio le istituzioni religiose che tenevano in vita il culto stesso: vietando, per esempio, i finanziamenti ai santuari e ai templi, incamerando a favore del fisco i loro patrimoni, sciogliendo i collegi sacerdotali a Roma e in tutte le province e così via. Le persecuzioni cristiane. Già sotto gli immediati successori di Costantino la politica di tolleranza verso il cristianesimo si era trasformata, poco a poco, in una attiva azione di intolleranza verso i pagani, azione sollecitata e stimolata dagli stessi intellettuali cristiani. Fu però con Teodosio che si moltiplicarono le manifestazioni persecutorie nei confronti dei pagani. Esse comprendevano anche casi di distruzioni ai danni di templi e altri edifici del culto pagano, così come di vero e proprio linciaggio di intellettuali e filosofi non allineati con il nuovo corso religioso. Chiesa e impero al tramonto del mondo antico. Nei decenni successivi, lo spazio di manovra della chiesa, almeno in Occidente, si ampliò ulteriormente. Nella crisi e poi nel crollo del potere politico, la chiesa, con il suo papa, i suoi vescovi, la capillare presenza sul territorio, rimase di fatto l'unica istituzione in grado di assicurare l'ordine, l'assistenza alle classi povere e in alcuni casi persino la difesa militare delle città. Teologi e intellettuali cristiani elaboravano intanto la teoria della superiorità del potere del vescovo rispetto alla stessa autorità imperiale, ponendo le premesse per una disputa che si protrarrà durante tutto il Medioevo. Con Costantino, gli imperatori avevano abbracciato la nuova religione sperando di sfruttare il consenso della chiesa e dei suoi fedeli, allo scopo di consolidare la propria autorità; ora il clero si prendeva la rivincita ed era il potere politico a divenire un'emanazione di quello della chiesa. La sottomissione di Teodosio ad Ambrogio. Un episodio illustra bene la nuova situazione. Durante dei tumulti scoppiati nel 390 a Tessalonica, in Grecia, furono uccisi alcuni funzionari imperiali e Teodosio, appresa la notizia, ordinò per punizione che i militari massacrassero migliaia di tessalonicesi inermi. A Milano Ambrogio reagì fermamente: denunciò l'insensata enormità della rappresaglia e negò i sacramenti all'imperatore fino a che non avesse compiuto un atto pubblico di pentimento. A quanto ne sappiamo, Teodosio tenne duro per un po', poi domandò la riammissione nella chiesa e si umiliò davanti ad Ambrogio. Un episodio forse gonfiato dalle fonti cristiane, ma tale da rendere chiaro a tutti quali erano i nuovi rapporti di forza fra potere civile e potere ecclesiastico. La successione a Teodosio. Nel 383, tutto il territorio dell'Impero passò nelle mani del solo Teodosio. Fu l'ultimo imperatore a governare sia sull'Oriente che sull'Occidente: nel 395, quando morì, l'Impero tornò infatti nuovamente a dividersi tra i suoi due figli, l'Occidente a Onorio (all'epoca undicenne e posto per questo sotto la guida del generale di origine vandala Stilicone), l'Oriente ad Arcadio (a sua volta minorenne). Da allora in poi, i destini dell'Oriente e dell'Occidente andarono sempre più differenziandosi. L'Occidente da Teodosio a Romolo Augustolo L'offensiva dei visigoti in Italia. Dopo la morte di Teodosio (395), nell'Impero d'Oriente la scelta dell'integrazione con i germani fu sconfessata e prevalse la linea intransigente di chi voleva la loro espulsione dall'esercito e da tutti i posti di potere. Fiutata la congiuntura sfavorevole, nel 401 gruppi di visigoti guidati da Alarico lasciarono la loro riserva in Tracia e penetrarono in territorio italico. Di fronte alla nuova minaccia, Onorio trasferì la corte imperiale a Ravenna, difesa da vaste paludi e dotata di un porto che assicurava i collegamenti con Costantinopoli, e dunque meglio attrezzata di Milano per resistere a un attacco. In questa prima fase la pressione dei visigoti fu contenuta grazie all'abilità di Stilicone, il tutore di Onorio, che comandava le truppe romane d'Occidente. Per proteggere l'Italia, però, Stilicone dovette sguarnire altri fronti, come quello renano, con il risultato di abbandonare la Gallia a nuove invasioni di popolazioni germaniche. Di questa nuova crisi approfittò l'aristocrazia senatoria per accusarlo di complicità con gli invasori: Stilicone fu liquidato (408), nell'illusione suicida di poter fare a meno del generale "barbaro". Il sacco di Roma. Alarico non incontrò allora più ostacoli, nel 410 pose l'assedio a Roma, mentre Onorio rimase barricato a Ravenna. Nell'agosto di quell'anno Roma fu espugnata e per tre giorni le truppe alari ciane la sottoposero a un sistematico saccheggio. Il sacco di Roma da parte dei visigoti ebbe un impatto scioccante. Per la prima volta la città veniva violata dall'epoca dell'invasione gallica, esattamente ottocento anni prima, e, pur non essendo più da tempo la capitale politica dell'Impero, conservava agli occhi dei contemporanei un insostituibile significato simbolico: era la culla della civiltà latina, il cuore originario dell'Impero, nonché la sede più prestigiosa della cristianità occidentale. Il suo saccheggio rappresentò quindi un trauma incancellabile per gli uomini che ne furono testimoni o anche semplicemente ne sentirono parlare, appena attenuato dalla leggenda (diffusa da fonti di parte) secondo cui i visigoti risparmiarono dalla devastazione le chiese cristiane. La dissoluzione dell'Occidente: Gallia e Spagna. Ma in quegli anni terribili era tutto l'Occidente che si sbriciolava, mentre una dopo l'altra tutte le province cadevano nelle mani degli invasori germanici. Le forze dell'esercito erano ormai largamente insufficienti, anche perché i barbari non abbandonavano i territori imperiali dopo averli saccheggiati, ma puntavano ormai a insediarsi stabilmente nelle aree conquistate. Così, nel 406-407, mentre i visigoti tenevano sotto pressione le forze di Stilicone in Italia, i vandali e altre stirpi germaniche avevano sfondato il confine renano, penetrando in Gallia e di lì in Spagna. Nella Gallia meridionale sì stanziarono i visigoti reduci dal saccheggio di Roma, lungo il corso del Rodano i burgundi, nel nord penetrarono i franchi. Formalmente i visigoti erano federati, in realtà trattavano da pari a pari con l'autorità imperiale. Altri gruppi di visigoti scesero nella penisola iberica, occupata anche da svevi e vandali. La dissoluzione dell'Occidente: dalla Britannia all'Africa. Nello stesso torno di anni fu la volta della Britannia. Quest'isola lontana era stata persa e riconquistata molte volte dai romani, dall'epoca di Cesare in poi; all'inizio del V secolo, di fronte alle minacce delle tribù germaniche sul confine renano, fu inevitabile trasferire sul continente le truppe che la presidiavano, abbandonandola al suo destino. Intorno al 430, dopo aver ultimato l'occupazione della Spagna, gruppi di vandali al comando di Genserico passarono lo stretto di Gibilterra invadendo i territori romani d'Africa. Fino a quel momento, l'Africa era rimasta immune dalle invasioni; era la terra di elezione dei grandi latifondisti romani, aveva una vita urbana ricca e vivace e una chiesa forte e prestigiosa. L'attacco dei vandali dì Genserico fu però devastante: già nel 439 cadeva in mani vandale Cartagine, che per alcuni decenni era stata la città più colta dell'Occidente. Negli anni successivi, inoltre, i vandali d'Africa crearono - unici fra i nuovi padroni dell'Impero - una potente flotta, con la quale prima minacciarono e poi conquistarono Sicilia, Sardegna e Corsica. Gli unni di Attila. Non era ancora finita. A metà del V secolo gli unni, che abbiamo già incontrato mentrespingevano i visigoti verso la frontiera romana, avviarono sotto il loro sovrano Attila una spinta espansionistica che li portò ad aggredire dapprima la Gallia, dove furono sconfitti ai Campi Catalaunici nel 451, poi, nel 452, direttamente l'Italia. Per un attimo si temette per la stessa Roma, ma gli unni dovettero ritenersi soddisfatti dei saccheggi compiuti nella pianura padana e si ritirarono nelle loro sedi. L'annosuccessivo la morte di Attila comportò il rapido declino della breve potenza unna. 455: il secondo sacco di Roma. Ma il sollievo fu di breve durata. Nel 455 i vandali di Genserico approdarono sulle coste del Lazio, risalirono il Tevere e attaccarono Roma. Questa volta il saccheggio fu molto più devastante di quello compiuto meno di mezzo secolo prima da Alarico: la città fu messa a ferro e fuoco per quindici lunghissimi giorni. I vent'anni che seguirono il secondo saccheggio di Roma furono lo stadio terminale della lunga agonia che travagliava l'Occidente. Nessun imperatore fu più in grado di opporsi alle truppe germaniche che si muovevano indisturbate attraverso la penisola e spesso la difendevano da altre invasioni, sostituendo un esercito ufficiale che non esisteva più. 476: la fine. L'epilogo giunse allorché Oreste, un aristocratico romano, nel 475 proclamò imperatore il giovanissimo figlio Romolo, soprannominato spregiativamente Augustolo, letteralmente "il piccolo Augusto"; dopo pochi mesi di governo il nuovo imperatore venne deposto da Odoacre, il generale che comandava le truppe germaniche in quel momento di stanza in Italia. Odoacre però non volle nominare un nuovo sovrano a lui più gradito e neppure assumere personalmente il ruolo di imperatore. Preferì inviare le insegne imperiali a Costantinopoli, all'imperatore Zenone, sottomettendo implicitamente la propria autorità a quella dell'unico potere credibile sopravvissuto al collasso dell'Occidente e accontentandosi del titolo di re, che valeva solo agli occhi della popolazione non romana. Era il 476: quattro secoli e mezzo dopo la morte di Augusto, nell'anno 1229 dalla fondazione della città, l'Impero di Roma cessava di esistere.