P. Fiorito Introduzione alla filosofia contemporanea

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1- INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
Per fornire un quadro del dibattito filosofico dell’Ottocento e del Novecento
isoleremo tre tematiche relative alla scienza, al soggetto, alla religione.
1.0 La filosofia della scienza
1.1 La scienza e la filosofia moderna
1.2 L’Ottocento. Il positivismo: la scienza come sapere assoluto ed
oggettivo
1.3 Il Novecento. La seconda rivoluzione scientifica e la scienza come
sapere relativo
LA FIOSOFIA DELLA __________
FILOSOFIA
_________________
novità scienza:
1 - __________________________
Per la filosofia del Sei-settecento la giustificazione del sapere scientifico era
risultato un nodo centrale di fronte alla novità che la scienza rappresentava sia
dal punto di vista delle conoscenze (vedi rivoluzione astronomica) che del
metodo (vedi l’utilizzo della matematica, le osservazioni, gli esperimenti, … ).
Per quanto riguarda la validità del pensiero scientifico Cartesio aveva ritenuto
che essa fosse assoluta, in quanto fondata sulla bontà divina che non
permetterebbe che le conoscenze che risultano chiare ed evidenti alla ragione
umana siano il frutto di un inganno.
Per sfuggire a tale impostazione, che faceva ancora ricorso alla metafisica
tradizionale, gli empiristi inglesi (Locke e Hume) avevano cercato di porre a
fondamento dell’acquisizione delle conoscenza la sola esperienza, finendo però
per riconoscere che in tal modo occorreva ammettere che le nostre conoscenze
poggiano su delle abitudini e quindi risultano non assolute. Infatti, se
l’esperienza ci può garantire che le nostre conoscenze si sono rivelate finora
esatte, l’aspettativa che esse valgano anche per il futuro è fondata, invece,
sull’abitudine che ha ingenerato una credenza relativa alla regolarità dei
fenomeni, che ci porta a pensare che la natura si comporti in modo uniforme.
Anche questa uniformità non è giustificata, in quanto dovrebbe riferirsi a
esperienze future che non possiamo avere. Infatti, anche la supposizione che ci
sia una somiglianza tra passato e futuro, per essere certa, dovrebbe essere
sottoposta ad esperienza la quale però si riferisce sempre al passato.
Kant, per superare tali difficoltà, sostenne che occorre ritenere le nostre
conoscenze assolute, ma solo relativamente a noi stessi e non alle cose in sé, in
quanto la conoscenza è fondata sulle strutture mentali del soggetto. Tali strutture,
essendo per Kant immutabili, se applicate ai dati dell’esperienza ci consentono
di elaborarli sempre allo stesso modo.
Nella prima metà dell’Ottocento, quando la filosofia come l’intera cultura
europea, era dominata dallo spirito romantico, il dibattito sul metodo scientifico
e sulla validità della scienza perse importanza, in quanto si riaffermò una
concezione vitalista della natura che vedeva nella natura qualcosa di dinamico,
vivo ed animato, in contrapposizione alla visione meccanicista (natura come una
enorme macchina non animata) che aveva caratterizzato il modo divedere la
natura dei filosofi e degli scienziati del Sei-settecento.
Il Positivismo, che nella seconda metà dell’Ottocento divenne la mentalità
dominante nella cultura europea, riconobbe invece un posto centrale alla scienza,
considerata come l’unica forma di conoscenza vera e fonte del progresso umano.
Tale fiducia era fondata sui successi della scienza e della tecnologia che con
l’avanzare dell’industrializzazione cominciavano a diventare sempre più un
ingrediente della vita quotidiana degli europei.
2 - __________________________
GIUSTIFICAZIONE _______________
a –Cartesio:
bontà _______________  ragione:
idee_________________________ =
conoscenza________________
b - ____________________ inglesi
esperienze  ________________ 
credenza ____________________ =
conoscenza __________________
c - __________________
_________________ del soggetto 
dati ________________________ =
conoscenza ____________________
OTTOCENTO
prima metà: ___________________
dibattito sulla scienza ____________
1
La scienza, in quanto capace di dominare la realtà, tornò ad essere considerata
capace di fornire una conoscenza vera che è tale non solo per noi ma
oggettivamente.
I positivisti, almeno quelli inglesi come ad esempio J. Stuart Mill (1806-65),
tornarono a proporre il modello empirista per cui la scienza procede tramite
l’osservazione dei fatti, dei dati giungendo attraverso delle generalizzazioni alle
leggi che regolano i fenomeni. Generalizzazioni che risultano fondate sulla
regolarità dei fenomeni naturali, la quale è essa stessa a sua volta, una
generalizzazione della nostra esperienza.
Comunque poco preoccupati di indagare la validità dei risultati della scienza,
garantiti sostanzialmente dal suo successo, i positivisti hanno rappresentato, per
molti versi, un’accettazione acritica della scienza di cui hanno esaltato le
capacità di produrre un sapere utile all’umanità e il metodo che deve essere
esteso a tutti i campi compreso l’uomo e la società. Con i positivisti
dell’Ottocento nasce la convinzione, diventata ricorrente nella nostra mentalità,
che la scienza costituisca un progresso illimitato, che essa sia un sapere assoluto
e oggettivo in grado di governare la natura, la società, l’uomo in nome di
principi che in quanto scientifici sono al di fuori di ogni sospetto
La fiducia positivista nella scienza è stata messa in crisi, a livello del dibattito
filosofico, già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento di fronte alla
rivoluzione interna allo stesso pensiero scientifico (II Rivoluzione scientifica).
Infatti, la linearità dello schema empirista fatti  osservazioni  leggi, su cui si
fondava secondo i positivisti la scienza, è stato profondamente messo in crisi, ad
esempio, dalla teoria della relatività ristretta di Einstein per la quale spazio e
tempo non sono grandezze assolute, bensì relative all’osservatore che le misura
ed al campione che questi adotta per misurarle.
In tal modo il rapporto fatti  osservazioni non può più essere pensato come
lineare, in quanto le osservazioni non sono solo determinate dai fatti ma a loro
volta interferiscono con i fatti.
Di fronte alla crisi della scienza, aperta dalla cosiddetta II Rivoluzione
scientifica (fine ‘800-inizio ‘900), nel dibattito filosofico sono emerse due
posizioni contrastanti. Da un lato vi è chi ha visto nella crisi la dimostrazione
dell’incapacità della scienza a fornire una conoscenza autentica e quindi un
motivo per prendere le distanze da essa. Dall’altro lato chi, invece, pur
accettando il carattere non assoluto della scienza ha continuato a ritenere che
essa rappresenti l’unica forma di conoscenza vera e che il compito della filosofia
sia quello di impegnarsi in un indagine critica della scienza.
All’interno di questo secondo gruppo sono state elaborate le teorie
epistemologiche che hanno caratterizzato il Novecento, ovvero l’empirismo
logico dei neopositivisti, il razionalismo critico di Popper e i cosiddetti postpopperiani.
Tutte queste teorie epistemologiche hanno comunque finito per riconoscere alle
conoscenze scientifiche o un carattere probabilistico (neopositivisti) o un
carattere non definitivo (Popper) o convenzionale, influenzato da fattori extrascientifici (post-popperiani).
Secondo i neopositivisti (Circolo di Vienna, anni ‘20-’30 del XX secolo) per
spiegare la scienza occorre riconoscere che essa dipende sia da fattori empirici (i
fatti dei positivisti) che da fattori logico-linguistici, in quanto l’osservazione dei
fatti è inevitabilmente espressa in enunciati linguistici costruiti secondo le regole
che governano l’uso dei simboli linguistici. In questo modo la scientificità di una
teoria dipende dalle procedure di verifica degli enunciati che rimandano ai fatti.
Procedura di verifica che, essendo necessariamente ristretta a un numero
limitato, di casi non può dar luogo a una certezza assoluta quanto invece a una
probabilità di conferma degli enunciati osservativi che costituiscono una certa
teoria.
K. R. Popper (1902-1994) ha contrapposto alla centralità che continuavano,
POSITIVISMO
la _________________ nella scienza
____________________(empirismo)
Fatti  osservazioni 
______________________ (leggi)
L’accettazione _________________
della scienza:
sapere _________________ in grado
di ___________________________
LA II RIVOLUZIONE ______________
Da:
_______  _____________  leggi
A:
fatti
osservazioni
NOVECENTO
crisi ___________
scienza = conoscenza
___________________
scienza = conoscenza
______________________
- 1 probabile ( _________________)
- 2 __________________ (Popper)
- 3 __________________ (_______
_____________ )
_________________ novecento
NEOPOSITIVISTI:
K. POPPER:
2
anche nell’impostazione neopositivista, a mantenere i fatti la centralità della
ragione, ammettendo che le teorie scientifiche sono congetture della nostra
mente che osserva la realtà non in modo passivo, ma attraverso aspettative e
ipotesi alla luce delle quali percepisce la realtà. Tali congetture devono essere
considerate sempre confutabili dall’esperienza e quindi non rappresentano la
verità quanto dei tentativi di approssimarsi gradualmente alla verità, non potendo
mai pervenire a una spiegazione definitiva dei fenomeni. La scienza costituisce il
teatro di lotta fra teorie rivali, nel quale hanno il sopravvento le teorie migliori
che più si avvicinano alla verità, che meglio corrispondono ai fatti.
L’epistemologia post-popperiana ha ulteriormente accentuato l’anti-empirismo,
già presente in Popper, sulla base della convinzione che non esistono fatti “puri”
che siano dati al di fuori dei nostri quadri concettuali e teorici, ma ha anche,
contro Popper, messo in evidenza come la concreta storia della scienza non
dipenda solo dalla razionalità delle teorie, la maggior approssimazione alla verità
di Popper, ma anche da condizionamenti extra-scientifici.
Così, ad esempio T. S. Khun (1922-96), ha visto nella scienza non un’attività
esclusivamente razionale quanto invece un’attività svolta da un concreto gruppo
sociale, gli scienziati, le cui convenzioni e il cui consenso sono in definitiva i
fattori che condizionano ciò che è ritenuto scientifico e ciò che non lo è.
In questo modo la scienza ha comunque finito per perdere quelle caratteristiche
di sapere certo assoluto e oggettivo che aveva per i positivisti ottocenteschi;
nello stesso tempo si cominciavano ad evidenziare anche le criticità del rapporto
uomo-natura che scienza e tecnologia aveva instaurato o della società che su tale
tecnologia si fondava, la società industriale, nonché del modello antropologico
imposto da tale società.
Nel dibattito filosofico degli ultimi quarant’anni si è delineata quindi una visione
relativistica del sapere, basata innanzitutto sul fatto che ogni teoria e ogni verità
trovati dalla ragione sono sempre “contestuali”, cioè legate a situazioni storiche,
a tradizioni e culture.
J. F. Lyotard (1924), partendo da questa concezione relativistica, ha proposto di
considerare chiusa l’età della cultura che definisce moderna in quanto sta
diventando operante un nuovo modo di pensare che, in relazione al primo, si può
chiamare postmoderno. Il moderno era caratterizzato da un sapere che attribuiva
alla scienza una funzione determinante, ritenendo che essa avesse la possibilità
di dare un senso unitario a tutti i fenomeni della nostra esperienza, e attribuiva
alla filosofia il compito di tessere una meta-narrazione attraverso la quale
unificare e legittimare la scienza stessa. Il postmoderno è, invece, caratterizzato
dal rifiuto delle meta-narrazioni e perciò del senso unitario che esse attribuiscono
al sapere.
La condizione postmoderna è, per Lyotard, contraddistinta dal rifiuto di ogni
sistema (sia di idee che politico) che pretenda di legittimare e unificare singoli
saperi e accetta il prolificare di idee e punti di vista sempre nuovi ed efficaci in
ambiti parziali, i quali non hanno bisogno di concatenarsi sistematicamente in
una teoria coerente.
In modo analogo alcuni filosofi italiani, tra cui G. Vattimo (1936), hanno
proposto di distinguere tra “pensiero forte”, che si ritiene in grado di giungere a
delle certezze assolute, a delle verità definitive, a dei significati forti, e “pensiero
debole”, che rinuncia a queste pretese ma non alla ricerca accettandone la
precarietà e rimanendo aperto a cercare nuove vie, nuovi campi d’indagini, ad
accettare la diversità, la molteplicità dei punti di vista.
POST-POPPERIANI:
T. Khun:
Dalla fiducia alla ____________:
scienza  ____________________,
società industriale, ______________
________________
TRA XX E XXI SECOLO
___________________
Moderno =
scienza in grado di ______________
tutti i fenomeni in modo __________
_________(= sistema)
____________________________ =
dal ___________________________
ai punti di vista ________________
G. Vattimo
Pensiero ____________ = certezze
_______________
____________ debole = molteplicità
____________________________
3
2.0 Il soggetto
2.1 La filosofia moderna e la scoperta del soggetto
2.2 L’Ottocento e l’individuazione del soggetto
2.3 Il Novecento e la dissoluzione del soggetto
La rivoluzione scientifica e lo sviluppo della tecnica hanno radicalmente
cambiato il rapporto uomo-mondo. Infatti, il mondo che prima rappresentava una
potenza alle cui leggi si doveva ubbidire è diventato un oggetto da dominare, un
insieme di cose a disposizione dell’uomo1.
Contemporaneamente alla riduzione del mondo a oggetto l’uomo occidentale ha
preso coscienza di essere il soggetto di questo dominio.
L’emergere della centralità del soggetto è da collegarsi anche alla formazione di
un nuovo modello di società, quello capitalista-borghese, che impone nuovi
valori, dalla proprietà privata alla libertà individuale, tutti tesi a svincolare il
soggetto dai limiti che ad esso erano posti dalla società tradizionale.
La scoperta del soggetto, sul piano filosofico, è avvenuta con il Rinascimento
(XVI sec.) quando sono state elaborate le prime concezioni dell’uomo come
artefice della propria vita, della propria storia. Così, ad esempio, Giordano Bruno
individua ciò che caratterizza l’uomo non più nel suo destino ultraterreno, bensì
in ciò che esso è riuscito a costruire con le sue mani e la sua intelligenza che
hanno fatto di lui un organismo in grado di lavorare e produrre “meravigliose
invenzioni”.
Cartesio, nel Seicento, ha per la prima volta tentato di fondare un sistema
metafisico (una spiegazione globale della realtà) che non ponesse come principio
esplicativo da cui partire Dio o il mondo bensì il soggetto. Infatti, la prima
certezza che Cartesio raggiunge, ancora prima di superare definitivamente,
ricorrendo a Dio, il dubbio dell’inganno da parte del genio malefico, è costituito
proprio dalla certezza del soggetto di esistere (Io penso, dunque sono).
Con Kant (fine ‘700) il soggetto assume un’ulteriore rilevanza in quanto le
strutture mentali del soggetto (le forme a priori) diventano ciò che legittima la
fondatezza delle conoscenze scientifiche e, inoltre, egli tenta di fondare una
morale che sia universale e assoluta a partire dalla sola ragione, intesa come ciò
che caratterizza il soggetto.
In effetti nel dibattito sei-settecentesco il soggetto rimane ancora alquanto
astratto, in quanto Cartesio lo identifica con il Pensiero, inteso come una
sostanza metafisica, e Kant, appunto, nella Ragione.
La filosofia dell’Ottocento, nella misura in cui ha cercato di superare tale
astrattezza, ha svolto una funzione di individuazione del soggetto mettendo in
rilievo aspetti opposti, quali la dimensione individuale e quella collettiva.
A esaltare la dimensione individuale, personale del soggetto hanno provveduto
sia buona parte del Romanticismo, sia autori quali, ad esempio, Kierkegaard.
Il Romanticismo, soprattutto in ambito letterario, ha individuato nelle emozioni e
nei sentimenti l’espressione della realtà interna del soggetto, portando un
contributo fondamentale alla definizione del nostro attuale concetto di
personalità vista come la sede di conflitti emotivi, processi e dinamiche interiori.
Emozioni e sentimenti di cui una delle massime espressioni è rappresentata
dall’amore visto come sintesi e completamento della personalità. Sintesi, in
quanto è l’unione tra anima e corpo, spirito e istinto, sentimento e sessualità
quali
componenti
della
personalità.
Completamento,
in
quanto
nell’identificazione con l’altro consente l’arricchimento della propria
personalità.
1
IL SOGGETTO
LA FILOSOFIA MODERNA E LA
SCOPERTA DEL SOGGETTO
Scienza e tecnica:
mondo = ____________________
+
Società _______________________
svincolare il soggetto ____________
______________________________
=
centralità del _______________
LA SCOPERTA DEL SOGGETTO
- Rinascimento
L’uomo artefice ________________
-
______________________
Il soggetto come ________________
______________________________
- Kant
1- ________________________ del
soggetto come garanzia delle
conoscenza
2 –la ragione del soggetto ________
______________________________
_________________ del soggetto
L’OTTOCENTO E
L’INDIVIDUAZIONE DEL
SOGGETTO
Sulla scoperta del soggetto ad opera della filosofia moderna vedi il capitolo “La filosofia moderna –L’emergere della soggettività”
4
Amore che in quanto aspirazione a vivere esperienze intense e travolgenti
rappresenta un tentativo di superare l’inquietudine che costituisce la condizione
interiore del soggetto, dal momento che non si sente mai pago, si sente
continuamente in contrasto con la realtà esteriore e aspira a qualcosa di ulteriore
che però sfugge continuamente.
S. Kierkegaard (1813-55), per molti versi vicino alla cultura romantica, ha
voluto fare della riflessione sulle condizioni esistenziali dell’individuo l’oggetto
principale della filosofia. Secondo il filosofo danese le due categorie che ci
consentono di analizzare queste condizioni esistenziali sono costituite dai
concetti di possibilità e di scelta, perchè ci permettono di chiarire l’angoscia che
è la condizione essenziale dell’esistenza. Angoscia che nasce sia di fronte alle
infinite possibilità di scelta dell’individuo che di fronte alle possibili
conseguenze della scelta stessa che concretizza tali infinite possibilità.
Altri autori o correnti hanno contribuito a questo processo di individuazione del
soggetto evidenziando la sua dimensione collettiva che è stata indicata da Hegel
nella dimensione storico-culturale, da Marx nella dimensione storico-sociale e
dai positivisti nella dimensione naturale-biologica.
G. W. F: Hegel ( 1770-1831) sottolinea, infatti , come l’individuo sia formato
dalla cultura del suo tempo di cui per essere veramente uomo deve condividere i
valori, i modelli di comportamento, le conoscenze, la mentalità. Egli ritiene che
quello che chiama lo Spirito oggettivo, che nel suo significato più fecondo
possiamo tradurre con cultura, sia determinato dall’epoca storica e che esso si
incarni nelle istituzioni sociali e politiche, innanzitutto nello Stato, al cui interno
avviene la formazione dell’individuo attraverso l’assimilazione dei valori e delle
conoscenze prodotte dall’umanità.
K. Marx (1818-83) ritiene, invece, che a determinare il soggetto non sia in
Filosofia moderna  ______________________ del soggetto
Ottocento  ________________________ del soggetto
1 –DIMENSIONE _______________________
a –Romanticismo: - ________________________________________________________________________________
- ________________________________________________________________________________
- ________________________________________________________________________________
b - _______________________
_______________________________________
condizione esistenziale = ____________________
conseguenze ____________________________
2 –DIMENSIONE __________________________
a - __________________: individuo formato _______________________________________ trasmessa dalle _______
__________________________________________________________________________
b –Marx: _______________________________________________________________________________________
_______________________________________________________________________________________
c - _________________: individuo determinato da _____________________________________________________
__________________________________________________________________________
5
ultima istanza la cultura in quanto, negando l’autonomia che essa assume in
Hegel, ritiene che a determinare l’epoca storica siano innanzitutto i rapporti tra le
diverse forze sociali che emergono dalle modalità in cui avviene la produzione e
la distribuzione dei beni. La classe egemone sul piano economico-sociale
impone sul piano culturale le sue idee, il suo modo di vedere il mondo e i suoi
valori che diventano quelli prevalenti e che sono anche quelli più consoni ai suoi
interessi.
Secondo il positivista H. Spencer (1820-1903), infine, a dare un volto al
soggetto è innanzitutto il fatto di essere l’espressione di un processo di
evoluzione naturale. Processo che gli consente di adattarsi sempre meglio alle
condizioni di vita che trova utilizzando il patrimonio di comportamenti e
conoscenze, in parte trasmesso per via ereditaria in parte acquisito, elaborato
dalla specie umana. Tale processo di adattamento rimane anche a livello della
vita sociale retto dal principio della selezione naturale dei più adatti determinato
dall’ambiente, ovvero dalla società stessa.
IL NOVECENTO E LA
DISSOLUZIONE DEL SOGGETTO
Per gran parte dell’Ottocento è rimasta comunque viva l’idea che fosse possibile
al soggetto, all’io, esaminare se stesso e prendere consapevolezza di ciò che egli
stesso è e che quindi la coscienza fosse come appare a se stessa nella riflessione.
Alla fine dell’Ottocento si è invece cominciato a pensare che la coscienza che
l’io ha di sé sia “falsa”e che ciò che essa manifesta non possa essere preso per
vero per il solo motivo che nell’autoanalisi appare chiaro e evidente. Si è diffuso
il sospetto che dietro e alla base degli atti coscienti esistano complesse
dinamiche che costituiscono un livello di verità più profondo, capace di
determinare gli stessi contenuti della coscienza. Secondo questo nuovo punto di
vista l’io e la coscienza sarebbero condizionati da un principio esterno all’io
stesso che è indicato da Freud nell’inconscio o da mettere in relazione alle
necessità della vita con gli altri, per Nietzsche, o all’insieme delle condizioni
materiali in cui vive il soggetto, per Marx.
Marx , infatti, ha sostenuto che a determinare l’uomo reale non è la coscienza
che ha di se stesso in quanto questa dipende dalle condizioni materiali, sociali ed
economiche, in cui l’uomo vive; al variare delle condizioni materiali muta anche
l’uomo reale e, di conseguenza, mutano le sue idee, la sua cultura, la sua
coscienza.
F. Nietzsche (1844-1900) identifica nella morale la più potente forma di
condizionamento dell’individuo in quanto essa assoggetta, dall’interno,
l’individuo agli interessi del “gregge”, degli altri. La coscienza è in questo senso
agli occhi di Nietzsche “cattiva coscienza”, in quanto strumento del dominio
dell’uomo sull’uomo, e il suo contenuto, che per Nietzsche coincide con la
morale, risponde non a valori assoluti quanto invece a logiche di dominio che
sacrificano l’individualità al gruppo sociale.
Secondo S. Freud (1856-1939) a determinare il nostro comportamento e le nostre
spiegazioni coscienti concorrono motivazioni che sfuggono del tutto alla
coscienza dell’individuo in quanto provengono da una parte della personalità di
cui il soggetto non ha coscienza: l’inconscio. L’inconscio è costituto dalle
esperienze che sono state rimosse dalla coscienza, perché inaccettabili per
l’individuo, ma che continuano, per dire così, a interferire con i suoi
comportamenti, le sue aspettative, i suoi modi di essere coscienti.
Con Marx, Freud e Nietzsche, indicati come i “maestri del sospetto” per la
ragione che abbiamo visto, inizia una nuova fase del dibattito filosofico sul
soggetto, la quale caratterizzerà di sé tutto il Novecento, e che può essere
indicata come la dissoluzione del soggetto. Infatti, nel Novecento l’immagine del
soggetto come qualcosa di originario, autentico, contrapposto al mondo esterno
viene messa in discussione e l’io tende a dissolversi nei condizionamenti che lo
costituiscono.
6
Tale messa in discussione avviene a partire dalla presa di coscienza del fatto che
l’uomo è un ente storico e questo comporta il fatto che esso muta, cambia e che
non si definisce in termini assoluti ma solo e sempre relativamente al contesto
storico che l’uomo stesso contribuisce a determinare ma a sua volta ne è
determinato.
La storicità dell’uomo, già emersa nel corso dell’Ottocento, ha assunto nel
Novecento un aspetto molto più problematico in quanto mentre Hegel,
soprattutto, ma anche Marx, vedevano nella storia il dispiegarsi di un piano che
Filosofia moderna  ______________________ del soggetto
Ottocento  _____________________________ del soggetto
Fine ________________: la scoperta della ___________________________________________
I maestri del ___________________
______________________ condizionata da un _________________________:
Marx: condizioni materiali; la coscienza dipende __________________________________________________________
Nietzsche: ______________________; morale = __________________________________________________________
______:________________;___________________________________________________________________________
Novecento  __________________________ del soggetto
1- La __________________________________ dell’uomo
La storia realizza ___________________________________________________________________________________
Critica al __________________________________________ prodotto dalla società occidentale:
a - _______________________: Vita inautentica: a -____________________________________________________
b - ____________________________________________________
c - _____________________________________________________
b –Scuola di Francoforte: ___________________: a - ___________________________________________________
b - ____________________________________________________
c - _____________________________________________________
2 –La distruzione del soggetto
a - Heidegger: la distruzione della ____________________________________________
____________________________________________________________________________________
b - ______________________________________ : l’uomo è costituito da _____________________________________
________________________________________________________
(vedi Foucault)
la rendeva razionale nella misura in cui lo realizzava, lo storicismo novecentesco
si rifiuta di scorgere nella storia uno sviluppo continuo e necessario, perché volto
7
a realizzare un qualche fine.
La storia non è volta a realizzare l’uomo in sé stesso ma semmai a realizzare un
certo modello di uomo che è quello che risulta consono al tipo di società in cui
vive ed è solo uno dei possibili modelli antropologici.
Da questo punto di vista la filosofia del Novecento è concorde nel sottoporre a
critica il tipo di uomo prodotto dalla società occidentale.
Così, per esempio, M. Heidegger (1889-1976), uno dei maggiori filosofi del
Novecento, il quale parte da un’analisi delle condizioni esistenziali, ritiene che
nella “quotidianità media”, cioè nella condizione abituale in cui vive, l’uomo
conduca una vita inautentica in cui il suo rapporto con il mondo si riduce a un
semplice utilizzare le cose, esaurendo il loro senso nei significati pratici che esse
hanno. In tale condizione di inautenticità l’uomo finisce per uniformarsi a quel
che anonimamente si dice, si pensa, si fa, aderisce in modo acritico al sistema di
credenze comuni, alle modalità comuni e banali di intendere le cose e di
rapportarsi al mondo. Annullando ogni altro possibile rapporto con il mondo e
aderendo al sistema di credenze comuni il soggetto finisce per ridurre sé stesso a
una cosa.
Collegando tale situazione esistenziale alle società tecnologicamente avanzate
del Novecento la Scuola di Francoforte (anni ’20-anni ’60 del Novecento) ha
individuato nell’uomo eterodiretto il modello antropologico tipico della società
consumista. All’uomo eterodiretto viene costantemente suggerito (attraverso la
pubblicità, le trasmissioni televisive, le campagne di persuasione che si attuano
in ogni aspetto della vita quotidiana) ciò che deve desiderare e come ottenerlo
secondo certi canali prefabbricati, delegando la responsabilità delle scelte al
sistema e sottraendosi alla difficoltà delle decisioni da prendere per progettare la
propria vita.
Heidegger nel suo indagare le condizioni esistenziali dell’uomo ha messo in
discussione la stessa netta contrapposizione tra io e mondo che sta alla base della
concezione classica delle coscienza. “L’essere nel mondo” dell’uomo, infatti,
non è descrivibile come una relazione tra due poli di cui uno è l’uomo e l’altro il
mondo, essendo in realtà inseparabili poiché non esiste un soggetto puro, un
soggetto “senza mondo”, una qualche sfera interna che lo separi, lo isoli dal
mondo. Allo stesso modo non esiste un io totalmente isolato dagli altri che entra
in comunicazione con gli altri, in quanto il mondo è sin dall’inizio un mondo
comune, condiviso con gli altri. Il mondo da un punto di vista esistenziale non è
pensabile semplicemente come le cose fuori di noi o come la cornice che le
racchiude in quanto costituisce piuttosto il campo in cui appaiono le cose e l’io,
inseparabili in quanto si danno a noi sempre insieme. Da questo punto di vista
l’io non può essere visto come una cosa dentro il mondo e quindi non può essere
nettamente distinto.
Ad una analoga distruzione del concetto di soggetto sono pervenuti lo
strutturalismo e il poststrutturalismo francese (C. Lévi-Strauss, J. Lacan e M.
Foucault) che hanno posto al centro delle loro analisi le strutture linguistiche,
culturali, sociali, economiche, antropologiche entro le quali il soggetto esiste e
nelle quali finisce per consistere. Secondo questa prospettiva tali strutture
costituiscono il sistema all’interno del quale si situa l’uomo e, in quanto
componenti principali del sistema, sono viste come ciò che ne determina il
comportamento.
M. Foucault (1926-84), che ha studiato in particolare le strutture culturali, ritiene
che l’idea stessa di un soggetto autocosciente e totalmente autodeterminato,
ovvero razionale e autoresponsabile, sia il prodotto di un certo clima storicoculturale frutto della società borghese.
Clima storico-culturale che è
determinato dal diffondersi, grazie al potere, di determinati saperi che si creano
in base all’episteme (struttura mentale tipica di una certa epoca che definisce
l’orizzonte all’interno del quale ragiona l’uomo di quell’epoca) prevalente.
Così, ad esempio, l’attribuzione, affermatasi tra XVII e XVIII secolo, della
8
razionalità quale qualità principale del soggetto ha implicato la rimozione di tutta
una serie di aspetti della personalità (sfere di razionalità, sensibilità, realtà
profonde) identificate come devianti, errori rispetto al modello, che sono stati
etichettati come follia. L’affermazione dell’equazione normalità = razionalità si
è accompagnata con l’imposizione da parte del potere della reclusione dei folli e
in seguito della medicalizzazione della follia con la creazione della psichiatria.
In questo modo il potere assoggetta l’individuo, non solo nel senso di
controllarlo, ma soprattutto vincolandolo alla propria individualità che è una
delle possibili, poiché nasce dalla rimozione di alcuni aspetti perché altri
possano essere messi in risalto.
Foucault ha indagato soprattutto i saperi che hanno come loro oggetto l’uomo e
in particolare le forme di scientificità più direttamente impegnate
nell’organizzazione delle vita sociale, come la psichiatria, l’economia politica e
la medicina, cercando di dimostrare come il potere si serva di questi saperi e di
determinate istituzioni (dalla scuola, all’esercito, al carcere, al manicomio,
all’ospedale, alla famiglia) e delle comunicazioni sociali per indirizzare il
soggetto a una certa forma di autoconsapevolezza, ad agire secondo regole che
finiscono per cristallizzare nella mentalità collettiva.
Il potere, per Foucault, non deve essere identificato solo nelle istituzioni
politiche ed economiche, come nella tradizionale visione marxista, in quanto
esso risulta qualcosa di diffuso che non sta sopra la società ma dentro. Esso è
costituito da un insieme di rapporti di forza che si stabiliscono negli apparati
amministrativi, nei luoghi di lavoro, nella scuola, negli ospedali, nei luoghi della
vita concreta degli individui, all’interno dei quali spesso l’individuo gioca ruoli
diversi e opposti di controllore e controllato, come, ad esempio il lavoratore
sottoposto a controllo sul luogo di lavoro a sua volta controllore autoritario in
famiglia.
Il Novecento ha, dunque, visto il tramonto della coscienza dell’individuo sia di
fronte al riconoscimento di altre forze interne che costituiscono la persona (vedi
l’inconscio di Freud), sia di fronte ai fattori storici costituiti dall’economia, la
società, la cultura (vedi Marx, Nietzsche, Heidegger, Foucault).
Come si produce l’AUTOCONSAPEVOLEZZA DEL SOGGETTO
come la ______________________________ collettiva diventa la ___________________________ individuale
Mentalità collettiva (_________________________)
società borghese  Soggetto = _________________ che domina _______________________________
______________: psichiatria, ____________________________________
POTERE
Istituzioni sociali:_____________________________________________________________________________
repressione + _______________________________________
Autoconsapevolezza del soggetto = __________________________________________________________
Cosa rimane dell’individualità dopo che l’idea che essa coincida con la sua
coscienza si è dissolta perché si è scoperto che essa in realtà, più che esprimere
l’individualità in sé, è il frutto delle condizioni economiche, sociali e culturali, e
quindi storiche, dell’epoca in cui vive? E ancora, quali possibilità vi sono di
riscatto, di affermazione del soggetto?
9
Secondo Nietzsche l’individualità si esprime attraverso quella che chiama la
“volontà di potenza”, vedendo in essa la capacità dell’uomo di attribuire i propri
significati alle cose, un senso al caos dell’esistenza. Prendendo coscienza della
morte di Dio, simbolo di tutte le certezze assolute, di tutte le rassicuranti visioni
che pongono il significato delle cose come un dato oggettivo insito nelle cose
stesse, l’uomo deve, secondo Nietzsche, prendere coscienza di essere egli stesso,
attraverso le proprie interpretazioni, a dare un significato alle cose, significato
che non esiste indipendentemente dalla sua volontà, che non è dato
oggettivamente.
Heidegger nel Novecento, riprendendo questi spunti niciani, ha presentato
l’uomo come “gettato”in un mondo che si sforza di comprendere ed interpretare
sulla base del linguaggio che gli è proprio.
Il linguaggio costituisce quindi l'ambito entro cui può avvenire l'incontro di uomo
e mondo (il linguaggio è la “casa dell'essere”); al variare concreto, storico dei
linguaggi variano le caratteristiche dell'apertura al mondo.
Questa intuizione è stata ulteriormente sviluppata da H.G . Gadamer (1900-2002),
che ha considerato l’interpretazione come l’atto più caratteristico dell’uomo in
rapporto al mondo, come dimensione costitutiva della sua esistenza.
In questo contesto, come d’altra parte per molte altre correnti del Novecento,
il linguaggio non appare più solo come uno strumento per la comunicazione in
quanto è esso che dà forma al pensiero. La comunicazione non è infatti
un’operazione come tante altre, diretta a scopi determinati, ma, piuttosto, è un
fatto vitale all’interno del quale può esistere e vivere una comunità umana. In un
certo senso la comunicazione precede e fonda l’esistenza umana; quando essa si
esplica attraverso la parola, nella comunicazione linguistica, l’ambiente
circostante appare in tutta la ricchezza dei suoi significati (evidenziati, appunto,
dalla interpretazione linguistica) e si rivela come il “mondo”dell’uomo.
Nell’ambito del contesto comunicativo, l’interpretazione che un soggetto dà del
mondo è naturalmente in dialogo con quella che ne dà un altro soggetto; il
gioco delle interpretazioni verte su un unico centro ideale e si arricchisce, nel
dialogo, formando una base comune, propria di una determinata comunità
linguistica. A lingue e comunità diverse corrisponderà un’apertura al mondo
diversa; una simile pluralità di prospettive sul mondo condurrà ad un infinito
arricchimento dell’esperienza umana e ad un allargamento continuo di orizzonti,
supposto il dialogo tra le persone e le culture differenti2.
Ricollegandosi ancora alle analisi di Heidegger, benché lo stesso Heidegger
abbia sconfessato una tale lettura delle sue posizioni, e riprendendo le riflessioni
esistenziali di Kierkegaard, l’esistenzialismo ateo di J.P. Sartre (1905-80) ritiene
che se non c’è una natura umana predefinita che i singoli uomini incarnano,
perché non c’è Dio a concepirla, allora l’uomo coincide con ciò che egli stesso si
2
Il linguaggio e la comunicazione costituiscono sicuramente uno dei maggiori centri d’interesse del dibattito filosofico e scientifico
odierno (si pensi, ad esempio, alla trasmissione dei codici genetici). Esso appare al centro delle riflessioni non solo dei filosofi a cui
abbiamo accennato (possiamo considerare tale impostazione come quella prevalente a livello filosofico nell’Europa continentale), ma
anche della filosofia analitica prevalente nell’area anglosassone e di numerose nuove discipline quali la linguistica, la semiologia, la
semantica, la semiotica ecc…
Le nuove scienze, che hanno scelto come oggetto di studio i segni linguistici, sembrano muoversi in un’ottica per cui la stessa
interpretazione rimanda a sua volta a una cultura che ha fissato le stesse regole d’interpretazione e ci ha insegnato, per convenzione, a
riconoscere come rilevante quello che era caso, dato di natura, o meccanismo inconscio della nostra mente (vedi lettura U. Eco
“Segni”).
Wittgenstein (1889-1951), sicuramente il filosofo che maggiormente ha contribuito a determinare il quadro in cui si muovono i
dibattiti della filosofi analitica, ha introdotto per primo il concetto di giochi linguistici, volendo con questo sottolineare l’esistenza di
una molteplicità di linguaggi, trai quali esiste solo una somiglianza di famiglia, ciascuno con regole, criteri di validità in base alle
finalità e ai contesti in cui è utilizzato. Proprio come diverse sono le regole che deve seguire un giocatore di calcio rispetto a quelle
che deve osservare un giocatore di pallavolo allo stesso modo parlare delle nostre sensazioni è ben diverso (equivale a giocare un
diverso gioco) dall’effettuare una descrizione di oggetti.
Da questo punto di vista non è necessario supporre, per studiare il linguaggio, né l’esistenza di un sistema linguistico
astratto e ideale, né, per Wittgenstein ma non per tutta la filosofia analitica, l’esistenza di una soggettività interiore o
mentale, poiché il concetto di regola rimanda ai comportamenti e al consenso pratico di un gruppo che le fa proprie.
10
concepisce e si vuole. Questa radicale messa in discussione delle certezze,
l’ateismo, si accompagna alla messa in evidenza della drammaticità delle scelte
cui ciascuno di noi si trova a compiere assumendone da solo la responsabilità.
L’individuo sceglie il proprio progetto e se ne assume la piena responsabilità nei
confronti degli altri, sebbene non possieda alcuna certezza con cui dimostrare che
tale progetto sia preferibile ad altri. Sartre approda dunque all’idea dell’impegno
come realizzazione della libertà umana. In un secondo tempo Sartre, indicherà
nel marxismo lo strumento di analisi della realtà sociale, che consente di
studiare come le condizioni storico-sociali dell’esistenza circoscrivano il campo
delle possibilità dell’individuo, e nelle lotte per l’emancipazione che ad esso si
collegano il contesto concreto in cui si collocava il suo impegno.
Per la Scuola di Francoforte la versione sartriana, che possiamo etichettare come
“forte”, dell’impegno a cambiare il mondo sembra attenuarsi, o almeno
concretizzarsi in un primo momento, nell’impegno a criticare il mondo.
Per i francofortesi l’atto di nascita dell’individualità è costituito dal diventare
consapevole dei meccanismi repressivi che il sistema esercita sugli uomini,
poiché la consapevolezza si trasforma in “capacità di resistenza”che si esprime
innanzitutto come opposizione all’irrazionalità del sistema e quindi come critica
della società presente alla luce di una futura umanità libera e disalienata, in
modo da superare la tendenza del sistema ad impedire ai suoi membri di capire a
fondo i meccanismi della repressione esercitata su di loro. Il modello utopico
della futura umanità libera e disalienata funge da stimolo allo smascheramento
delle irrazionalità e delle contraddizioni del sistema.
______________________________________________________________________________________________
____________________________________________________________:
A - ________________________________________ (Nietzsche)
__________________________________________________________________________________________________
attraverso:
_______________________________________________________________ (________________________)
_______________________________________________________________ (Gadamer)
_______________________________________________________________ (________________________)
_______________________________________________________________ (________________________)
_______________________________________________________________ (________________________)
B - _______________________________ (___________________)
____________________________________________________________________________________________________
attraverso: ______________________________________________________________ (Freud)
______________________________________________________________ (________________________)
______________________________________________________________ (________________________)
L’opposizione al sistema e la resistenza all’oppressione costituiscono dunque le
modalità attraverso cui può esprimersi l’individualità.
Per Foucault il riscatto dell’individuo è, invece, legato alla rivolta nei confronti
del potere che lo sorveglia, controlla, punisce, segrega, gli impone un’identità.
Tale rivolta non si concretizza tanto nella rivoluzione politica , quanto nella
rivolta contro i poteri diffusi nella società a cominciare da quelli più legati
11
all’esperienza quotidiana: la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro, ecc.. Nella
rivolta contro il potere gli individui rivendicano la loro volontà di sottrarsi al
potere per costruirsi da soli, come soggetti padroni di se stessi e della propria
vita; non mirano però a sopprimere il potere o a sostituirlo con uno buono, ma a
contrastarne le forme più intollerabili.
Altri autori hanno identificato il nucleo originario dell’individualità e quindi la
possibilità di un riscatto di essa seguendo invece le indicazioni sorte dall’opera
di Freud.
Per Freud il nucleo originario dell’individualità è costituito dalle pulsioni
originarie di natura biologica (fame, sessusualità , ecc..) e relazionale (amore,
odio) la cui repressione è inevitabile, almeno in una certa misura, per poter
stabilire un rapporto produttivo con la realtà e vivere in società. Le vicissitudine
di tali repressione sono però la causa della rimozione di una parte della
personalità, da cui origina l’inconscio, e del costituirsi all’interno della
personalità della coscienza, della morale che interiorizzano il controllo del
comportamenti secondo l’esigenze della società, controllo che prima era
esercitato all’autorità esterna (ad esempio dai genitori).
La salvezza per l’individuo è da ricercarsi per Freud nel maggior controllo
razionale e cosciente da parte dell’individuo delle proprie dinamiche psichiche e
in una minor repressione da parte della società.
H. Marcuse (1898-1979), uno dei rappresentanti della Scuola di Francoforte, ha
sostenuto a questo proposito che occorre distinguere tra una “repressione di
base”, costituita dalle modificazioni agli istinti strettamente necessarie per il
perpetuarsi della razza umana nella civiltà, e una ”repressione addizionale”, resa
necessaria per mantenere il dominio sociale, ovvero il dominio che viene
esercitato da un gruppo particolare allo scopo di mantenersi e rafforzarsi in una
posizione privilegiata.
Secondo Marcuse l’eliminazione del dominio sociale, del dominio dell’uomo
sull’uomo, potrebbe consentire l’eliminazione della repressione addizionale
necessaria per mantenere tale dominio e, in una società altamente tecnologica
come quella occidentale, la liberazione dell’eros, superando in questo modo
l’attuale organizzazione dell’esistenza umana in uno strumento di lavoro.
G. Deleuze (1925-95), un altro rappresentante del post-strutturalismo francese,
ha sottolineato il carattere positivo, e non negativo come pensava Freud,
dell’inconscio come desiderio o volontà di affermazione.
Egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di
sopraffazione e di dominio, ma come critica a ogni forma di potere e invito
alla trasgressione e alla liberazione del desiderio. Egli conduce una dura polemica
nei confronti della psicoanalisi freudiana, accusata di contribuire alla repressione
dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente macchine
desideranti o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto
e oggetto. Alla produzione desiderante, che si manifesta e prolifera in
maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive che
facendo leva sulle paure ingabbiano i desideri. Il desiderio è dunque una
pulsione produttiva la cui liberazione diventa il modo per sperimentare un
nuovo modo di vivere e di pensare.
12
3.0 Il problema di Dio
3.1 Filosofia e religione nell’Ottocento
3.2 Il problema di Dio nella filosofia del Novecento
IL PROBLEMA DI DIO
FILOSOFIA E RELIGIONE
NELL’OTTOCENTO
I rapporti tra filosofia e religione fino all’Ottocento sono stati caratterizzati da
quella che si può definire come convivenza scontata, poiché la filosofia si
muoveva all’interno o dell’accettazione del contenuto di verità della rivelazione Dalla ____________________ scontata:
(filosofia cristiana) o, per lo meno, della necessità di affermare una religione
1 filosofia ____________________
razionale (deismo) o , con una posizione che potremmo definire più debole, della
accettazione ________________
possibilità di affermare la ragionevole speranza dell’esistenza di Dio (Kant).
Nel corso dell’Ottocento questa accettazione della religione da parte della
2 deismo
filosofia è stata rimpiazzata da un atteggiamento critico che si è concretizzato, da
____________________________
un lato, in un’operazione di demistificazione della religione e, dall’altro, in un
3 _______________: la religione come
ripensamento della religione.
Da coloro che hanno fatto propria la demistificazione la religione è stata vista
_____________________________
come un inconsapevole autoinganno di cui ci si propone di portare alla luce
l’interesse inconfessato che le sottostà. Da coloro invece che hanno voluto alla critica alla religione
ripensare il fenomeno religioso l’insegnamento e la tradizione del cristianesimo
sono stati riletti attraverso concetti elaborati autonomamente dalla filosofia.
L’atteggiamento di demistificazione ha fatto emergere nella cultura occidentale
l’ateismo che fino ad allora era apparso se non più eretico per lo meno immorale,
in quanto asociale, e comunque dannoso se esteso alle masse. Appartengono a
questo filone filosofi quali Schopenhauer, Feuerbach e Marx.
A. Schopenhauer (1788-1861) ha visto in Dio una “menzogna consolatrice”, in
quanto serve a nascondere il fatto che in realtà la vita non ha altro scopo che
perpetuare se stessa e che il mondo non è retto da alcun piano provvidenziale
voluto da un Dio, come voleva la religione tradizionale, o da una qualche forma
di Ragione immanente, come voleva Hegel.
La credenza in Dio per Schopenhauer risulta palesemente falsa, perché il mondo
anziché essere il regno della razionalità e dell’armonia, come ci si aspetterebbe
dall’opera di un Dio immensamente potente e buono, è il teatro dell’illogicità e
della sopraffazione, infatti sia in natura che nella società vige scopertamente la
“legge della giungla”, la legge del più forte.
A smentire la religione non è dunque un ragionamento quanto invece la
constatazione che la realtà non può essere conciliata con l’esistenza di Dio e di
un piano provvidenziale.
L. Feuerbach (1804-1872) ha invece spostato il suo interesse sulla modalità di
formazione della religione, anticipando un altro degli atteggiamenti tipici
dell’ateismo contemporaneo insieme alla constatazione dell’impossibilità di
conciliare l’esistenza di Dio con la nostra esperienza del mondo.
Feuerbach vede nella religione un’alienazione in quanto creando Dio l’uomo
proietta in lui le qualità migliori della sua specie, oggettivandole in una potenza
superiore alla quale finisce per sottomettersi anche nei modi più umilianti. In
quest’ottica la religione appare a Feuerbach come un’antropologia capovolta, in
quanto attribuisce a Dio ciò che è dell’uomo e corrisponde a uno stadio infantile
dell’umanità in quanto forma indiretta di autocoscienza dell’uomo. Così come il
bambino tende a oggettivizzare se stesso, ad esempio parlando di sé in terza
persona, allo stesso modo l’umanità primitiva ha oggettivizzato in Dio
l’intelligenza e la bontà dell’uomo.
Capovolgendo l’impostazione tradizionale, agli occhi di Feuerbach, l’ateismo
appare un dovere morale, poiché consente all’uomo di liberarsi dell’autorità
esterna a cui ha voluto sottomettersi recuperando così le qualità che gli
appartengono.
Anche per M. A. Bakunin (1814-76), la figura di maggior spicco del movimento
anarchico ottocentesco, la liberazione dell’uomo inizia dall’ateismo. Infatti, per
13
conquistare la libertà, intesa come la possibilità per tutti di raggiungere una
dimensione umana compiuta che coincida con la piena autonomia, la piena
padronanza di sé e la capacità di organizzare il proprio destino insieme agli altri,
occorre eliminare le principali fonti di alienazione dell’uomo costituite dalla
religione, dalle convenzioni sociali, tra cui la morale, nonché dallo stato, e dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione. La religione poiché ammettere un
creatore significa ammettere una volontà a cui l’individuo deve per forza
obbedire e sottomettersi. Il primo atto di liberazione è, dunque, l’ateismo perché
“se Dio esiste l’uomo è schiavo”.
K. Marx (1818-83), pur condividendo l’idea di Feuerbach che non è Dio a creare
gli uomini ma l’uomo a crearlo sulla base dei suoi bisogni, ritiene che le radici
del fenomeno religioso non vadano cercate nell’uomo in sé, avulso dalla storia e
dalla società. Marx vede infatti nella religione un’ideologia, ovvero una falsa
rappresentazione della realtà che fa apparire come assoluto e universale ciò che
in realtà consente alla classe egemone di mantenere il proprio dominio.
La religione è così “oppio dei popoli”in quanto promette, ad un’umanità alienata
dalle reali condizioni di vita, la felicità, che gli è negata nell’al di qua, nell’al di
là.
Se la religione è il frutto delle condizioni storico-sociali allora essa potrà essere
superata solo quando l’uomo avrà nell’al di qua ciò che la religione gli promette
nell’al di là.
La conquista dell’autonomia dei saperi relativi alla natura, all’uomo e alla
società dalla religione si è accompagnata non solo al tentativo, tipico del Seisettecento, di proporre una religione fondata sulla ragione e non sulla
rivelazione, o all’elaborazione di posizioni atee, ma anche a un ripensamento
della religione.
In generale il ripensamento dell’atteggiamento religioso si è fondato su due
presupposti costituiti, l’uno, dal rifiuto di far coincidere la religione con un
atteggiamento esteriore o comunque di adesione a una particolare confessione, e
l’altro, dal rifiuto di relegare la dimensione religioso nell’ambito del puro
dibattito intellettuale in quanto la religione appare, più che una risposta ai dubbi
razionali dell’uomo, una risposta ai suoi problemi esistenziali.
L’autore più significativo che nell’Ottocento ha cercato di ripensare la religione
è sicuramente rappresentato da S.. Kierkegaard (1813-55).
Egli colloca, come già aveva fatto B. Pascal nel Seicento, la fede, il credere nella
dimensione esistenziale, la quale deve costituire il vero oggetto di riflessione
della filosofia. Ciò che caratterizza la nostra esistenza è, per Kierkegaard,
l’angosci a e la disperazione. L’angoscia nasce di fronte alle scelte che sono ciò
che determina il nostro essere, la nostra personalità. La perdita di se stessi,
generata dall’incapacità di scegliere e di accettare l’angoscia della scelta, genera
a sua volta la disperazione; essa consiste nello sperimentare quotidianamente la
nostra incapacità di vivere. L’unico modo per superare angoscia e disperazione è
la fede che ci fa accettare il fatto che il nostro essere si giustifica solo in Dio.
Fede che non è quindi assolutamente un fatto rituale, quanto invece una scelta
dell’individuo destinata a sconvolgere la sua vita. La fede è, infatti, scandalo e
paradosso agli occhi degli uomini; Dio non dà pace all’uomo, perché richiede di
credere in lui senza prove e garanzie, impone una scelta che non si esaurisce nel
comportamento morale, poiché richiede all’individuo la piena disponibilità a
seguirlo, disponibilità esemplificata da Abramo che per volere di Dio accetta di
sacrificare il suo unico figlio.
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FILOSOFIA E RELIGIONE NELL’OTTOCENTO
Ottocento  _________________________________________
A - _________________________________________________
(ateismo)
Schopenhauer: ____________________________________________________________________________
__________________: _____________________________________________________________________
__________________: _____________________________________________________________________
__________________: _____________________________________________________________________
B - __________________________________________________
Presupposti: 1 _____________________________________________________________________________
2 _____________________________________________________________________________
____________________: la dimensione esistenziale della fede:
____________________________________________________________________
La figura che più ha influito sull’ateismo novecentesco è stato sicuramente F.
Nietzsche (1844-1900). Secondo Nietzsche non occorre più dimostrare
l’inesistenza di Dio, quanto invece prendere atto della sua morte. Dio è morto
perché, come voleva già Schopenhauer, si è rivelato una certezza che l’uomo si
era costruito per sopportare la durezza della vita, per coprire il fatto che la vita è
caos, è priva di fini e lo sgomento che questo crea nell’uomo.
Prendere atto della morte di Dio significa innanzitutto spiegare come sia stato
possibile credere in lui. Nietzsche si impegna, dunque, a chiarire quella che
chiama la genealogia della religione, indicando le sue origini nella necessità
della società di reprimere gli istinti dell’individuo.
Prendere atto della morte di Dio significa anche, per Nietzsche, trarre le
conseguenze della sua morte, il che implica innanzitutto accettare l’idea che non
è l’al di là a dare significato all’al di qua e, quindi, individuare nella dimensione
terrena l’unica dimensione dell’uomo. La morte di Dio, inoltre, implica il fatto
che l’uomo torna ad essere libero di progettare la propria vita, di scegliersi i
propri fini. La morte di colui che garantiva il senso delle cose, l’ordine
dell’universo significa, infine, che ora è l’uomo stesso a dover dare un senso alle
cose, un senso che però non può più pretendere di essere oggettivo, assoluto.
Partendo da queste considerazioni gran parte della filosofia novecentesca appare,
come indicava Nietzsche, non tanto interessata a una giustificazione teorica
dell’ateismo quanto invece a discutere l’origine della religione o a rielaborare
una concezione del mondo, dell’uomo e della storia in un mondo in cui Dio non
c’è più (per questo secondo aspetto vedi 2. 3 “Il Novecento e la dissoluzione del
soggetto”).
Per quanto riguarda l’origine delle religione S. Freud (1856-1939) l’ha ricercata
nelle dinamiche della psiche che hanno costituito l’oggetto dei suoi studi.
Infatti, per Freud la religione deve essere considerata l’appagamento illusorio di
un desiderio infantile di protezione, costituendo il prolungamento nella vita
adulta del desiderio del bambino di essere protetto e amato dai genitori. A Dio
l’uomo attribuisce le stesse caratteristiche di onnipotenza che agli occhi del
bambino rivestono i suoi genitori e il rapporto che si instaura con Dio tende a
IL PROBLEMA DI DIO NELLA
FILOSOFIA DEL NOVECENTO
15
ripetere il rapporto di dipendenza, di ricerca di protezione caratteristiche del
bambino nei confronti degli adulti.
Freud propone quindi uno stretto rapporto fra l’esperienza psicologica del
bambino nei confronti del proprio padre e l'esperienza degli uomini nei
confronti di Dio che, con la sua onnipotenza, elimina le angosce e le insicurezze
umane. Le religioni rappresentano “un’illusione, una formazione di desiderio”
che, come nei deliri, comporta una deformazione dell’immagine della realtà,
attraverso l’introduzione della divina provvidenza e della credenza in un ordine
morale universale che, di fronte ai pericoli della vita, consente di attenuare
l’angoscia e di appagare le esigenze di giustizia
Da questo punto di vista la religione appare a Freud un delirio collettivo che
blocca l’individuo in uno stato di infantilismo psichico.
Anche nel Novecento ha trovato spazio il tentativo di ripensamento della
religione in termini consoni alla sensibilità e alla cultura contemporanea.
Ripensamento che è avvenuto sia all’interno dell’alveo del cristianesimo sia al di
fuori, dal momento che alcuni pensatori hanno riproposto una concezione della
religione senza identificarla con il cristianesimo.
Tra quest’ultimi vi è, ad esempio, M. Horkheimer (1895-1973), uno dei filosofi
della Scuola di Francoforte di ispirazione marxista, che nelle sue ultime
riflessioni ha visto nella religione un fattore positivo, in quanto accomuna gli
uomini nel desiderare che ciò che accade in questo mondo, in cui trionfa
l’ingiustizia, non rappresenti lo stadio definitivo, costituendo così una prima
forma di critica dell’esistente.
Secondo Horkheimer la bontà e la giustizia divina devono essere creduti non in
quanto dogmi, come vuole la tradizione, ma coscientemente come aspirazioni,
desideri dei fedeli.
Questo ruolo utopico della religione era stato segnalato all’interno del marxismo
non ortodosso da E. Bloch (1885-1977), il quale sostiene che la speranza, cioè
l’attesa del nuovo che apporta cambiamenti, è costitutiva dell’uomo che non è
appagato dalla realtà. La negatività del presente, che chiede di essere superata, è
alla base della speranza e la rivoluzione, che porta al superamento della
negatività, realizza la speranza.
Bloch vede nel marxismo l’erede di tutte le utopie che hanno attraversato i secoli
in mille forme diverse tra cui quella religiosa. La religione, pur dando vita alla
speranza, chiede all’uomo di alienare se stesso di fronte al potere trascendente,
di attendere il regno di Dio che si colloca oltre la vita; così essa però impedisce
di creare il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova.
La trascendenza è, invece, il carattere originario della divinità agli occhi di K.
Jaspers (1883-1969), un filosofo esistenzialista anche lui impegnato nel
ripensamento della religione al di fuori del cristianesimo.
Secondo Jaspers, l’uomo si apre alla trascendenza quando sperimenta la
caratteristica fondamentale del mondo, cioè che tutto finisce, arrivando alla
convinzione che “alla fine c’è il naufragio”. Di fronte al naufragio l’uomo
avverte l’impossibilità di essere autosufficiente e, desiderando di oltrepassare i
propri limiti, si apre alla trascendenza.
Radicalizzando il concetto di trascendenza e allontanandosi dal cristianesimo,
Jaspers sostiene che Dio non può rivelarsi perché altrimenti verrebbe meno
l’assoluta trascendenza di Dio.
All’interno del pensiero teologico che invece si è mantenuto nell’alveo del
cristianesimo, il mondo protestante si è sicuramente aperto prima al confronto
con l’ateismo e comunque con la sensibilità del mondo contemporaneo nei cui
confronti la chiesa cattolica ha mantenuto un atteggiamento di condanna almeno
fino al Concilio vaticano II (inizio anni ’60).
Parte della teologia contemporanea ha così accettato di confrontarsi con la
morte di Dio, annunciata da Nietzsche, interpretandola come il silenzio di Dio e
semmai la morte della religione. Mentre Dio nel passato era un Dio presente
16
nella storia degli uomini, incarnato in Gesù e operante con i suoi santi, i suoi
miracoli , egli nell’epoca attuale non parla più, si è nascosto agli uomini.
Questa posizione è stata elaborata dapprima nell’opera di D. Bonhoeffer (190645), dando vita negli anni ’60-’70 alla così detta teologia della morte di Dio.
Bonhoeffer sostiene che la morte di Dio e il processo di secolarizzazione del
mondo devono essere accettati prendendo le distanze dalle religioni, in quanto,
come hanno dimostrati i grandi maestri dell’ateismo, esse rappresentano la
tendenza ad aggrapparsi all’ipotesi consolatrice di un Dio tutore, di un Dio
tappabuchi nei confronti dell’uomo. È necessario riconoscere che il mondo è
diventato adulto e non ha più bisogno dell’ipotesi di Dio, ciò che prima Dio
spiegava e ora spiegato dalla scienza.
Abbandonare la religione non significa però abbandonare il cristianesimo,
essendo la religione cristiana solo una modalità, superata dalla storia, in cui si
può manifestare il cristianesimo. Infatti, il cristianesimo in sé è la fede in un Dio
che sceglie la croce e non già gli altari o i troni, è la fede in un Dio debole e
impotente.
Questa fede non può, per Bonhoeffer, coincidere con l’esperienza religiosa in
quanto chiama l’uomo a impegnarsi nel mondo, a imitare Gesù nel suo esempio
di testimonianza.
Anche la teologia cattolica, almeno nelle sue componenti più aperte al dialogo
con il mondo contemporaneo e spesso non completamente gradite alle gerarchie
vaticane, ha finito per identificare nell’impegno per migliorare il mondo
l’autentica espressione della religiosità contemporanea.
Così, ad esempio, la teologia della liberazione di G. Gutierrez (1928) ha
sottolineato che non è possibile parlare di Dio senza impegnarsi per migliorare il
mondo, senza schierarsi con chi combatte per la liberazione dei popoli oppressi
identificati nei popoli del terzo mondo. La stessa teologia, più che un discorso su
Dio, deve essere concepita come una riflessione che accompagna l’impegno e
l’azione in favore degli oppressi. Riflessione che, secondo i teologi della
liberazione, non può non servirsi del marxismo come strumento di analisi.
17
IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA DEL NOVECENTO
A –Ateismo
Nietzsche: ___________________________________________________________________:
1-
________________________________________________________________________
2-
Trarre le conseguenze della sua morte:
a - _________________________________________________________________________________
b - _________________________________________________________________________________
c - _________________________________________________________________________________
Freud: _____________________________________________________________________:
______________________________________________________________________________________________
______________________________________________________________________________________________
B - __________________________________________________________________________________
1 - __________________________________________________________________________
Horkheimer: __________________________________________________________________________________
[ __________: ______________________________________________________________________________ ]
__________: _________________________________________________________________________________
2 - ___________________________________________________________________________
a –protestantesimo - _______________________
morte di Dio = ______________________________ Cristianesimo = ____________________________________
b –_______________________ - Gutierrez
____________________________________________________________________________________________
marxismo come strumento
18
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