Mutilazioni genitali femminili: riflessioni teoriche e pratiche

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Nicola Pasini (a cura di), Mutilazioni genitali femminili: riflessioni teoriche e
pratiche: Il caso della regione Lombardia, Milano, Regione LombardiaFondazione ISMU, 2007.
Indice
Premessa,
di Gian Carlo Abelli
pag.
11
Introduzione,
di Nicola Pasini
»
15
Parte prima
Analisi teorica
»
25
1. Le mutilazioni genitali femminili. La riflessione etico-politica,
di Roberta Sala
»
27
2. Cicatrici significative. Un approccio antropologico
alle tecniche di modifica permanente del corpo,
di Lidia Calderoli
»
47
3. Corpo, salute e differenze di genere. Riflessioni sociologiche sulle mutilazioni genitali femminili,
di Lia Lombardi
»
89
Parte seconda
Un’indagine qualitativa in Lombardia
»
125
4. Introduzione metodologica,
di Silvia Bianchi
»
127
5. Le modificazioni dei genitali femminili a Milano e
Brescia. Risultati della ricerca e proposte,
di Barbara Caputo
»
135
2
6. (Ri)conoscere le Mgf. Riflessioni sulle possibilità di
quantificare un fenomeno elusivo,
di Alessio Menonna e Livia Ortensi
pag.
187
Appendice: La situazione internazionale:
analisi critica,
di Roberta Sala
»
195
Bibliografia
»
203
Gli autori
»
213
Le pubblicazioni dell’Osservatorio Regionale
per l’integrazione e la multietnicità
»
215
3
2.
Cicatrici
significative.
Un
approccio
antropologico alle tecniche di modifica permanente
del corpo
di Lidia Calderoli
Questo studio ha per oggetto gli interventi tecnici attraverso i quali viene modificato in modo permanente il corpo umano, per renderlo conforme a un modello ideale. La mia attenzione si concentrerà sulle rappresentazioni soggiacenti a tali tecniche1.
In moltissime società esistono pratiche di modifica permanente del corpo.
In moltissime società si vedono le modificazioni praticate dagli altri popoli
come “mutilazioni” e le proprie come “perfezionamenti”, occultando così in
qualche modo il carattere culturale delle pratiche altrui nel primo caso e quello cruento delle proprie nel secondo caso.
Nell’attuale contesto globalizzato la denominazione “mutilazioni genitali
femminili” (Mgf), ufficializzata dall’Oms2 ed entrata a far parte del linguag1
. Il presente testo costituisce la versione, notevolmente rielaborata e ampliata, di una mia precedente pubblicazione, cfr. Calderoli, 1993.
2
. Per una prospettiva antropologica critica della nozione di “mutilazioni genitali femminili”
cfr. Ciminelli, 2002. L’Oms, congiuntamente a Unicef e Fnuap (Fondo delle Nazioni Unite per
la Popolazione) fornisce la seguente definizione: “le mutilazioni genitali femminili comprendono tutti gli interventi che producono un’ablazione parziale o totale degli organi genitali esterni
della donna o qualsiasi altra mutilazione degli organi genitali femminili che sia praticata per
ragioni culturali o di altro tipo e non a fini terapeutici” (Oms, 1998: 6). La tipologia proposta
dalle tre organizzazioni è la seguente:
“Tipo I Escissione del prepuzio con o senza escissione totale o parziale del clitoride. Tipo II
Escissione del clitoride con escissione parziale o totale delle piccole labbra. Tipo III Escissione
totale o parziale dell’apparato genitale esterno e sutura/restringimento dell’apertura vaginale
(infibulazione). Tipo IV Diverse pratiche non classificate quali la puntura, la foratura o
l’incisione del clitoride e/o delle labbra, l’allungamento del clitoride e/o delle labbra, la cauterizzazione tramite bruciatura del clitoride e dei tessuti circostanti, la scarificazione dei tessuti
che circondano l’orifizio vaginale (“angurya”) o l’incisione della vagina (“gishiri”),
l’introduzione di sostanze o di erbe corrosive nella vagina ai fini di restringerla o di provocare
un sanguinamento, e qualsiasi altra pratica che rientri nella definizione di mutilazione genitale
femminile di cui sopra” (Oms, 1998: 7). Secondo Grassivaro Gallo, che preferisce parlare di
Modificazioni Genitali Femminili (MoGF) la nozione di mutilazione non è applicabile alle mo-
gio corrente occidentale, mostra bene il posto assegnato nella nostra società ad
alcune pratiche in uso presso una minoranza della popolazione nel mondo: esse sono considerate come pratiche “barbare” e violente, che ledono la dignità
e il corpo della donna. Il dibattito attuale sull’argomento sembra orientato a
proporre un significato globalizzato e uniforme di tali pratiche: esse diventano
i significanti inequivocabili della sottomissione femminile. In questo processo
di attribuzione di significati, si tende a trascurare che presso le popolazioni in
cui tali pratiche sono (oppure erano) ancora in uso, esse rivestono (o rivestivano) un senso variabile, non riconducibile necessariamente a quest’unica interpretazione oggi presente in occidente nel senso comune. Sembra dunque
che le violente ripercussioni emotive suscitate da tali pratiche in chi non ha
familiarità con esse, renda impossibile percepirne qualsiasi altro valore simbolico.
Quale può essere l’apporto dell’antropologia nell’affrontare questo argomento? Per allinearsi all’unanime condanna non è certo necessario essere antropologi. Ma l’antropologo ha il dovere di ricordare l’esistenza di una pluralità di significati, e di esplorarli in un’ottica comparativa che metta in rilievo
non soltanto somiglianze e differenze fra le diverse pratiche, inserendole nel
loro contesto, ma che sviluppi una riflessione critica sulle nozioni usate comunemente nell’interpretarle. Se è vero che uno delle caratteristiche
dell’antropologia è quello di essere un sapere critico è bene esercitare questo
sapere anche per affrontare tale argomento. Questo non implica che
l’antropologo non possa prendere posizione o mobilitarsi poi operativamente
per combattere tali pratiche3, ma significa che l’antropologo deve innanzitutto
essere all’ascolto ed esercitare, in una fase di comprensione del fenomeno, un
decentramento temporaneo dalle proprie categorie, un relativismo metodologico che non corrisponde ovviamente ad un relativismo etico. Preciso del resto che, da un punto di vista personale, non sono favorevole alla perpetuazione di tali pratiche.
Obiettivo di questo saggio è quello di applicare un’ottica decentrata nel
trattare questo argomento, di andare oltre lo choc culturale – che i media ten-
dificazioni genitali di tipo espansivo (cfr. Grassivaro Gallo, Conclusione: strategie di eradicazione delle Modificazioni Genitali Femminili, intervento alla Giornata di studio contro le pratiche tradizionali nocive alla salute delle donne, organizzata presso il Dipartimento di psicologia
generale dell’Università di Padova il 4 maggio 2005. Atti di prossima pubblicazione).
3
. È il caso, ad esempio, di antropologhe come Carla Pasquinelli, impegnata con l’Aidos (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) e Sylvie Fainzang che negli anni Ottanta del secolo
scorso ha svolto ricerche nell’area di Parigi, in un gruppo di lavoro del Ministero dei Diritti della donna.
2
dono a enfatizzare in maniera scandalistica4 e poco fruttuosa ai fini
dell’incontro tra culture – per realizzare una riflessione antropologica.
Obiettivo di questo lavoro, inoltre, è ricollocare le modificazioni genitali
femminili nel più generale contesto delle modificazioni permanenti del corpo
(in diverse culture, infatti, anche altre parti del corpo femminile possono essere oggetto di modifica) e ricordare che esse fanno parte di un processo di differenziazione di genere, che può attuarsi attraverso diversi tipi di intervento,
corporei o extra corporei. Solo situando tali operazioni in un quadro comprendente la concezione del corpo, maschile e femminile, e del suo sviluppo, si
può affrontare la loro comprensione. Così è importante ricordare che tra le
operazioni in Occidente percepite come particolarmente cruente, oltre
all’infibulazione5, possono annoverarsi interventi su altre parti del corpo (come ad esempio in passato la fasciatura dei piedi delle donne cinesi) o sui genitali maschili (subincisione australiana6). Nondimeno – e questo è per noi più
difficile da percepire – la chirurgia estetica occidentale opera anch’essa in
maniera cruenta, soprattutto sulle donne. Concepita come una pratica di miglioramento, all’insegna di un modello di corpo che deve essere sempre giovane e “naturale”, la sua artificialità è semplicemente occultata7. Anche se, di
recente, si assiste a una spettacolarizzazione dell’operazione, nelle trasmissioni televisive che propongono le immagini del “prima” e del “dopo”, si propone in realtà una sintetica e sdrammatizzata immagine dell’intervento chirurgico (come se si trattasse di una sorta di gioco di prestigio)8. Si possono poi citare pratiche non chirurgiche di modellazione progressiva e pratiche alimenta4
. Per un’analisi delle Mgf nella stampa cfr. Cenci, Manganelli, 2000.
. L’infibulazione è “la creazione di un’ostruzione vulvare permanente che lascia un piccolo
orifizio residuo, abitualmente posteriore, che permette la fuoriuscita delle urine e del flusso mestruale. Essa è ottenuta per accostamento delle piccole o grandi labbra, i cui bordi preliminarmente messi a vivo sono riuniti lungo la linea mediana per facilitarne il congiungimento. Essa
comporta sempre attualmente un’escissione simultanea di grado variabile, che non era invece
sempre presente in passato” (Erlich, 1986: 23-24) Nella definizione Oms l’infibulazione corrisponde ad una “mutilazione genitale di terzo tipo”.
6
. La subincisione è un “operazione rituale su un iniziato maschio che consiste nell’incisione o
nella perforazione totale o parziale dell’uretra lungo l’estremità inferiore del pene, dal meato
urinario fino all’innesto dello scroto, per mezzo di un coltello di pietra o d’osso.” (Remotti, Fabietti, 2001: 726).
7
. Si noti che la chirurgia estetica non figura nella tipologia Oms delle mutilazioni genitali
femminili, il piercing invece rientra nel quarto tipo. Non figurano ugualmente le operazioni sui
neonati intersessuati (Ciminelli, 2002). Negli Stati Uniti la chirurgia estetica vaginale è attualmente un settore in espansione. Molto richiesti sono la ricostruzione dell’imene, il lifting delle
labbra e l’ingrandimento del punto G (Vissière, 2006). Sembra sottointesa alla nozione di Mgf
una distinzione tra un “noi” e un “loro” (Walley, 1997).
8
. Ad esempio le trasmissioni televisive italiane Bisturi, nessuno è perfetto, su Italia 1 e Extreme makeover, su Rai2 (Galvani, 2004).
5
3
ri che possono arrivare a effetti letali. Se una fotomodella occidentale può morire per l’eccessivo rigore della sua dieta dimagrante, così un pastore dinka
può morire in seguito all’ingozzamento (gavage) a base di latte, a cui si è sottoposto per alcuni mesi consecutivi nell’immobilità totale. I modelli proposti
dalla moda occidentale, non sono, insomma, potenzialmente, meno pericolosi
di quelli delle competizioni dinka (dove la pinguedine sembra simbolo di benessere e prestigio sociale).
Esplorare il valore simbolico variabile di tali pratiche, anche grazie all’uso
di testimonianze etnografiche passate e attuali: questo può essere il contributo
specifico dell’antropologia nell’affrontare tali argomenti9.
2.1 Preambolo
2.1.1 Il corpo e i suoi confini
Il corpo, come già indicava Marcel Mauss, è un oggetto di studio che richiede
un triplice approccio: fisiologico, psicologico e sociologico (Mauss, 1950). È
proprio perché mette in relazione in maniera unica il fisico, il sociale e
l’individuale, che può essere terreno di sovrapposizione di esperienze sociali e
individuali (Polhemus, 1978).
La distinzione tra un corpo “biologico” e un corpo socializzato attraverso
modificazioni e aggiunte si rivela peraltro problematica nel momento in cui
ogni cultura elabora un sapere specifico riguardante, ad esempio, le modalità
di riproduzione e l’origine stessa del corpo. Tutte le culture elaborano un sapere sul corpo e questo non può essere studiato astraendolo dalla costruzione
sociale della realtà.
L’antropologia medica ha evidenziato con grande chiarezza come il corpo
sia una costruzione culturale anche nel sapere biomedico (fatto che non è per
nulla evidente al senso comune occidentale). La biomedicina, in effetti, è solo
uno tra i tanti saperi che riguardano il corpo, e anche i suoi modelli mutano
nel tempo: l’apprendimento a “vedere”, distinguere, le parti del corpo (vene,
arterie, nervi, vasi linfatici, ecc.) in una lezione di anatomia, costituisce un
lungo processo tutt’altro che immediato (Good, 1999).
Se si tiene conto di tutto ciò è evidente la difficoltà di definire il corpo, le
sue parti e i suoi confini in maniera univoca, e questo fatto ha diverse ripercussioni sulla nozione stessa di “mutilazione”. La nostra società ha chiamato
9
. Per una rassegna e una messa in prospettiva storica ed etnografica, cfr. Fusaschi, 2003.
4
“mutilazioni” operazioni effettuate in altre società dove esse sono, al contrario, pensate come dei “perfezionamenti”, ottenuti tramite l’ablazione di parti
considerate anormali ed estranee a un corpo “ideale”.
Parti del corpo come l’appendice, le tonsille, l’ugola, le adenoidi, il prepuzio maschile non sono forse stati considerati in diverse società, tra cui anche
la nostra, come parti “inutili”. “accessorie” oppure addirittura “nocive” a seconda del periodo storico, provocando, di contro, successive “battaglie” per la
loro preservazione?10 E di recente operazioni come l’episiotomia e il parto cesareo non sono stati da alcuni considerati come una “mutilazione medicalizzata” quando eseguite di routine per semplificare il parto?11 Lo statuto liminale
di alcuni elementi del corpo è presente in diverse culture e investe parti variabili. Addirittura alcune parti del corpo sembrano passare, nell’interpretazione,
dall’inesistenza a una sorta di raddoppiamento. Si pensi all’inesistenza
dell’imene sostenuta da alcuni enciclopedisti (Couchard, 2003) e la si accosti
a quella costruzione corporea di un imene “culturale” rappresentata
dall’infibulazione somala (così è stata considerata da diversi antropologi, ad
esempio Hayes, 1975).
Le differenti parti del corpo vengono reinterpretate su basi funzionali, mitologiche o altro ancora e la loro interpretazione viene a reinscriversi sul corpo, talvolta sotto forma di marchio, di amputazione, di deformazione, talvolta
invece rendendo una parte “sacra” e inviolabile12. Così, quella che sembrerebbe essere la differenza “naturale” tra i sessi necessita, in molte società di una
reiscrizione, di una reinterpretazione che si opera sul fisico stesso, sui genitali
o su altre parti del corpo.
Del resto, gli avvenimenti biologici (nascita, pubertà, gravidanza e morte)
costituiscono l’oggetto principale dei riti che li sottolineano e li commentano,
e con i quali l’interpretazione torna a iscriversi sul corpo stesso (Augé, 1983).
In questo senso vanno le interpretazioni che vedono nell’escissione del clitoride (Diasio, 2000) e nella subincisione maschile australiana con la sua periodica incisione (Bettelheim, 1971; Ashley-Montagu, 1974) la creazione di una
sorta di mestruazione artificiale.
10
. Riguardo la triade appendicite-tonsille-circoncisione, considerate come “operazioni rituali”,
cfr. Erlich, 1990. Per i movimenti anti-circoncisione maschile cfr. Silverman, 2004.
11
. Un ginecologo intervistato nel corso di questa ricerca ha messo in luce questo aspetto, riferendoci dell’esistenza di un’associazione italiana sensibile a questi temi, che ha proprio lo scopo di approfondire il discorso delle evidenze scientifiche. Marsden Wagner ha evidenziato
l’aspetto mutilatorio di alcune tecniche biomediche: “milioni di donne americane hanno sofferto mutilazioni genitali femminili, un taglio non necessario di genitali al parto, da parte di medici” (Wagner, 2000).
12
. Si pensi al fatto che diversi tatuatori occidentali, per ragioni che essi considerano di deontologia professionale, non tatuano volto, mani e genitali.
5
Questa reinscrizione – operazione artificiale, sia essa esibita o occultata –
viene in un certo senso “naturalizzata” in quanto percepita come parte integrante della persona, e la sua realizzazione viene vista come una pratica ovvia
e naturale. È forse proprio questa naturalizzazione che rende così difficile un
discorso molto elaborato su tali pratiche e una presa di distanza critica. È da
questa loro naturalizzazione e incorporazione, forse, che deriva la loro tenacia, la loro forza simbolica, il fatto che siano vissute come assolutamente “necessarie”. L’escissione “è”, scrive Christine Bellas Cabane, pediatra francese
che ha svolto ricerche antropologiche in Mali: “L’escissione è un’evidenza
nella vita della donna, come sposarsi e partorire. L’escissione “è”, è tutto (...)
Per la popolazione, escindere è naturale tanto quanto tagliare il cordone ombelicale” (Bellas Cabane, 2001-2002: 112,148).
La percezione stessa dei genitali modificati viene interiorizzata come qualcosa di “normale”. Così una ginecologa italiana intervistata in questa ricerca,
che ha lavorato alcuni anni in un paese del corno d’Africa dove si pratica
l’infibulazione, riferisce di essere stata chiamata a visitare una donna i cui genitali presentavano delle anomalie: si trattava in realtà semplicemente di una
donna non infibulata; un fatto talmente insolito per il personale sanitario locale da essere interpretato come una patologia.
Nelle diverse società, dunque, si concepiscono in maniera differente i limiti del corpo, e il corpo sembra “resistere” a qualsiasi definizione interculturale
precisa (Polhemus, 1978). Tuttavia, ovunque si ritrova in maniera costante un
“pensiero della conformità corporea” (David-Merard, 1985) ovvero la necessità di adeguarsi a un modello ideale (quale che sia).
2.1.2 Le modificazioni permanenti del corpo
Ogni società pensa il corpo a modo suo e cerca di renderlo conforme all’idea
che vi prevale. Tutto avviene come se il corpo, fin dalla nascita, non fosse
considerato mai perfetto e, dunque, come se fosse sempre necessario un intervento umano al fine di renderlo “conforme”, di “perfezionarlo” appunto.
Mauss ha qualificato tutte queste pratiche come “cosmetica” e le ha incluse
non soltanto nella rubrica delle “arti”, ma anche in quella dei “culti privati individuali”, in quanto “riti dell’ornamentazione” (Mauss, 1967: 97; 235). Tale
autore ha suddiviso le operazioni “cosmetiche” in “permanenti” e “temporanee” (ibidem: 97-98). La “cosmetica permanente”13 del corpo comprende ope13
. I limiti tra il “permanente” e il “ temporaneo” tuttavia non sono sempre netti. Alcuni tatuaggi devono essere rinnovati periodicamente ed alcune parti del corpo, una volta forate, possono
richiudersi col tempo. Inoltre è opportuno ricordare che vestiti e cosmetica temporanea possono
6
razioni quali i tatuaggi14, le scarificazioni15, le cicatrizzazioni16, i marchi a
fuoco, le deformazioni (dei tessuti molli o ossei)17, la limatura e l’estrazione
dei denti, le ablazioni, le forature, la circoncisione18, l’escissione (o clitoridectomia)19 e l’infibulazione20.
Tra queste tecniche Mauss (ibidem) distingue ancora le “deformazioni” e
le “cicatrici” (quando le operazioni determinano dei risultati visibili a livello
tegumentario). Su queste ultime soprattutto ho basato questo lavoro. La focalizzazione del mio studio sulle “cicatrici”, che ho chiamato “segni permanenti
del corpo” (o “modificazioni permanenti del corpo”), è dettata da alcune considerazioni:
− le ferite causate da questo tipo di cosmetica possono essere viste come delle “soglie”, luoghi di uscita di sostanze (sangue, carne) e luoghi di entrata
di una materia esterna. Dal punto di vista simbolico esse permettono dunque di studiare un tipo particolare di interazione tra il corpo e il mondo esterno.
− l’operazione ha un carattere subitaneo e molto doloroso, a differenza delle
deformazioni progressive. Questo sembra implicare una risonanza simbolica specifica, per la scansione temporale che determina e per la concentrazione della sensazioni dolorose in un momento limitato.
avere funzioni molto simili a quelli dei marchi permanenti (ad esempio, se li si guarda come
segni di identità); una pittura del corpo rinnovata quotidianamente può avere molte affinità con
i tatuaggi.
14
. “Il tatuaggio consiste nell’inserire del pigmento sotto la pelle e richiede arnesi di puntura
(come spine vegetali, lische di pesce, aghi di cactus, conchiglie ed ossi, fino ad aghi d’acciaio e
aghi elettrici” (Turner 1994: 567).
15
. Per “scarificazioni”, si intendono quei tagli, più o meno lunghi, prodotti intenzionalmente. Il
termine è stato spesso impiegato dagli antropologi in un senso più esteso che comprende le “cicatrizzazioni” (cfr. nota seguente).
16
. Le “cicatrizzazioni” sono, secondo la definizione di Turner, che le distingue dalle scarificazioni, la “procurata formazione di cheloidi, fortemente rilevate, con cicatrici spesso arrotondate
o ovali dovute all’abbondante produzione di collagene nello strato dermico” (Turner, 1994:
567).
17
. Si intende per “deformazioni” le modificazioni ottenute in maniera progressiva nel tempo,
attraverso pratiche di manipolazione manuale o grazie all’impiego di strumenti che costringono
il corpo. Le pratiche di deformazione dei genitali esterni femminili (ad esempio il longininfismo, ovvero l’allungamento delle piccole labbra), nella tipologia Oms corrispondono a “mutilazioni genitali di quarto tipo”.
18
. Per “circoncisione” si intende l’ablazione totale o parziale del prepuzio maschile.
19
. Il termine di “escissione”, secondo la definizione di Erlich, “designa molteplici varietà di
operazioni che distruggono, in diverse maniere, le strutture erettili e le piccole labbra” (Erlich,
1986: 23) . A seconda delle parti oggetto di escissione si avrà, secondo la definizione Oms di
cui sopra (cfr. nota 2), una “mutilazione genitale femminile” di primo, secondo o terzo tipo.
20
. Per un ampia rassegna e tipologia delle pratiche, cfr. Borel, 1992.
7
Uno studio delle operazioni sul corpo deve rendere conto sia delle motivazioni che sostengono la pratica, sia del processo di creazione del segno e dei suoi
significati, sia del risultato grafico o plastico ottenuto e dei significati (estetici,
sociologici, mitologici, ecc.) che vi sono associati.
Tuttavia, in questo saggio, ho privilegiato il segno in quanto “azione”,
“processo”, perché questo approccio mi sembra d’importanza fondamentale
per la comprensione del valore che gli viene attribuito, ma anche perché la letteratura antropologica che ha esaminato il segno dal punto di vista del risultato grafico o plastico, ha considerato prevalentemente il suo valore distintivo
(segno di status).
Gli esempi raccolti nel presente testo riguardano, in gran parte, l’Africa
sub-sahariana sono stati scelti per illustrare il modo in cui certe fasi e dettagli
delle operazioni possono acquisire un significato. Vorrei dunque suggerire,
attraverso tali esempi, alcune percorsi di riflessione sui marchi corporei e in
particolare sulle rappresentazioni socio-culturali sottese al processo della loro
produzione21.
Abbinare una riflessione su segni visibili, come tatuaggi e scarificazioni, e
segni abitualmente nascosti come le modificazioni genitali femminili, permette di riflettere in maniera comparativa su tali pratiche, che peraltro in alcuni
casi fanno parte di un’unica serie. In tal modo si evitano interpretazioni che,
incentrandosi unicamente sul trattamento di una parte del corpo, rischiano di
far perdere di vista il suo senso all’interno di un intervento complessivo.
Inoltre tenuto conto della difficoltà incontrata nel raccogliere commenti articolati e approfonditi sul senso complessivo di tali pratiche, soffermarsi sulle
tecniche può permettere di rilevare dettagli significativi che possono svelare il
senso sotteso o sommerso.
2.2 Il segno come azione o processo
Riferendosi a diverse operazioni – quali le circoncisioni, le scarificazioni, le
avulsioni dei denti, i tatuaggi, ecc. – Arnold Van Gennep ha sottolineato come
l’“idea di sezione, di foratura” sia legata al rito di “separazione”22 e come le
21
. Poiché le fonti non sono esaustive, ho presentato, in funzione del materiale etnografico disponibile, l’interpretazione dei nativi, oppure quella dell’antropologo, o entrambe. Nella misura
in cui il soggetto dell’interpretazione è sistematicamente precisato, il mio approccio non mette
in discussione la distinzione, cruciale nel metodo antropologico, tra l’interpretazione degli attori sociali e quella dell’antropologo.
22
. I riti di passaggio, secondo Van Gennep, sono costituiti da tre fasi: separazione, margine (o
limine) e aggregazione (Van Gennep, 2002: 10).
8
tracce indelebili che ne risultano corrispondano ad un’“aggregazione” definitiva ad un gruppo determinato (Van Gennep, 1969)23. Il concetto di “soglia”
elaborato da Van Gennep nella sua analisi dei riti di passaggio, e da lui utilizzato in particolare nello studio del simbolismo dello spazio (passaggi materiali di soglie), può, a mio avviso, essere applicato proficuamente al corpo umano. Si può vedere nelle operazioni di sezione, foratura, ecc. non solo un atto di
separazione, dato dal loro carattere subitaneo, ma anche la creazione di
un’interfaccia, poiché il taglio mette in contatto l’interno e l’esterno del corpo.
La pelle assume allora una dimensione di limite, di frontiera tra il corpo individuale e la società e la ferita diventa la soglia, il luogo di comunicazione tra i
due.
Secondo Mary Douglas “ogni esperienza che l’uomo ha di struttura, margini o confini è pronta ad essere adoperata come simbolo della società” (Douglas, 1975: 177) e il corpo è il centro di sperimentazione fondamentale di una
struttura complessa e dei suoi limiti; luogo privilegiato di espressione della
società di cui diverrebbe una sorta di immagine, diventa un “simbolo naturale”, una struttura concettuale. “Ogni struttura concettuale è vulnerabile ai suoi
confini. Ci si dovrebbe aspettare che gli orifizi del corpo simboleggino i suoi
punti di speciale vulnerabilità” (ibidem: 186).
Secondo Mauss (1967) è precisamente la protezione degli orifizi corporei,
luoghi pericolosi, che motiva operazioni quali le deformazioni dell’apertura
dell’occhio, della bocca (con dei piattelli), l’avulsione di denti, la forature di
orecchie, del naso, ecc.24 E anche se alcune operazioni creano, in effetti, nuove aperture nel corpo – orifizi artificiali questa volta – talvolta associati simbolicamente agli orifizi naturali, anche le aperture artificiali (benché intenzionalmente provocate) costituiscono dei confini pericolosi, e sono soggette a tabù e a una regolamentazione (almeno al momento della loro esecuzione).
Con i suoi segni naturali e artificiali il corpo è sempre il supporto di valori
sociali, anche grazie alla dinamica tra interno ed esterno che si viene a creare.
Così Edmund Leach (1981) scrive che con l’ablazione di una parte del corpo
si preserva la purezza delle categorie sociali. Douglas (1975) introduce l’idea
di un “corpo vaso” i cui liquidi vitali non devono essere sparsi o diluiti poiché
ciò che rischia in realtà di essere minacciata, in realtà, è l’integrità del gruppo
23
. “Ne viene fuori un individuo mutilato dell’umanità comune attraverso un rito di separazione
(di qui l’idea del tagliare, del perforare ecc.) che, automaticamente, lo aggrega a un gruppo determinato e in modo tale che, poiché l’operazione lascia segni indelebili, l’aggregazione risulta
definitiva” (Van Gennep, 2002: 63).
24
. Tra i Somali, che praticano l’operazione dell’infibulazione, tutti gli orifizi naturali del corpo
devono essere protetti contro i principi malefici che potrebbero entrarvi (Erlich, 1986; cfr. anche Boddy, 1982 riguardo all’infibulazione in Sudan).
9
sociale. Ad esempio, in una società a discendenza patrilineare, la donna – che
rappresenterebbe la porta di accesso al gruppo – con l’adulterio introdurrebbe
sangue impuro nel lignaggio. È questo tipo di interpretazione che sembra riproporsi, da parte di diversi autori, a proposito dell’infibulazione, considerata
come un modo per proteggere l’integrità del gruppo (Diasio, 2000; Boddy,
1982)25.
2.2.1 Il segno incorporato e l’efficacia simbolica
Ma in quale modo, e in virtù di quale potere, il segno corporeo diviene luogo
privilegiato del simbolismo sociale? Tale domanda solleva due tipi di questioni: quella più generale dell’efficacia simbolica (l’importanza dell’aspetto
materiale in un processo di significazione che è soprattutto metaforico), e
quella più specifica delle implicazioni emotive e sensoriali legate all’utilizzo
simbolico del corpo (tanto al livello dell’espressione che del contenuto). Questo ci riporta alla questione dell’identità e necessita di un’analisi psicofisiologica.
La “ferita simbolica” opera un cambiamento materiale e irreversibile nel
corpo dell’iniziato, cambiamento che è, dunque, lungi dall’essere soltanto
“rappresentato” e “comunicato” per mezzo di un segno esterno al corpo (come
ad esempio, la fede nel matrimonio occidentale). Come ha sostenuto Jean
Pouillon in una circoncisione “non si tratta di rendere manifesta una trasformazione già avvenuta, ma di garantire una trasformazione futura. Il simbolo
non è più allora soltanto significativo, esso è anche efficace” (Pouillon, 1971:
236).
Michel Cartry esprime un’idea simile a proposito della pettinatura rituale
delle ragazze gourmantché (Burkina Faso) in occasione del menarca:
L’iscrizione di un segno sul corpo non ha soltanto valore di messaggio ma costituisce
uno strumento d’azione che agisce sul corpo stesso (Cartry, 1968: 224).
25
. “Nawal El Sadaawi (1980), rifacendosi a Enghels, ne ha dato [dell’infibulazione] una spiegazione marxista: nelle società con eredità patrilineare la castità femminile protegge la proprietà privata, assicurandone il passaggio ai figli legittimi eredi dell’uomo” (MacCormack, 1994:
104).
10
Si tratta dunque qui di distinguere tra un “segno”26, la cui funzione è essenzialmente quella di informare, e un “simbolo” che opera delle trasformazioni,
al contempo materiali e ideali. Se la causalità della trasformazione è immaginaria – poiché è per convenzione culturale che si associa una trasformazione
sociale con una trasformazione fisica – per l’iniziato è solo attraverso
l’operazione fisica della circoncisione che può avvenire la trasformazione in
un uomo. Si vede dunque, con estrema chiarezza, come in questo caso
“l’efficacia sociale sia pensata come naturale” (Pouillon, 1971: 236).
Ed è forse proprio l’aspetto materiale e corporeo del simbolo a permettere
che i valori culturali che vi sono associati possano essere percepiti come “naturali”. Il tipo di ambiguità, o di sovrapposizione, tra rappresentazione e realtà
che ne deriva, sembra essere alla base del rito in generale.
In effetti, secondo Valerio Valeri (1981), il rito sarebbe precisamente caratterizzato da un modo speciale di sperimentare le immagini. È la forza più o
meno grande delle “cornici psicologiche” che oppongono le azioni ordinarie a
quelle straordinarie che differenzia tra loro rito, gioco e arte. Nel rito, infatti,
la rappresentazione e la realtà sarebbero meno distinte che nell’arte e nel gioco.
Nel caso dell’iniziato che crede alla necessità della circoncisione, è precisamente l’equivalenza che egli effettua tra la rappresentazione socialmente
codificata della trasformazione operata dall’operazione ed il cambiamento fisico stesso, il quale conferisce a quest’avvenimento la sua dimensione rituale.
Ecco quanto scrive Pouillon (1971) a proposito delle “ferite simboliche”:
“il paradosso della cultura è che gli adulti la impongono [nda: una soluzione
culturale al bimorfismo sessuale] come naturale, lasciando al contempo trasparire la sua arbitrarietà” (Pouillon, 1971: 243). La percezione di questa arbitrarietà è dovuta al fatto che nel rito, come in ogni altra forma simbolica, esiste una consapevolezza della rappresentazione culturale, della presenza di un
registro diverso da quello della quotidianità, anche se l’avvenimento è vissuto
in parte come “reale” (Valeri, 1981).
L’aspetto materiale del simbolo – in questo caso la trasformazione concreta del corpo dell’iniziato – rende questa sovrapposizione possibile e “naturalizza” un fatto che, al contrario, è culturale. Questa naturalizzazione è visibile,
ad esempio, nell’interpretazione che alcune donne egiziane possono fornire di
comportamenti molto comunemente riscontrati tra gli italiani, quale quello di
26
. Utilizzerò la parola segno con un senso generale, per indicare un qualsiasi elemento materiale (ad esempio tracce grafiche o plastiche) che diventi supporto di un qualsiasi significato. La
stessa parola verrà utilizzata tra virgolette, quando verrà invece inteso nella sua accezione linguistica: “Si ha un segno quando, per convenzione linguistica preliminare, un segnale qualsiasi
viene istituito da un Codice come significante di un significato” (Eco, 1973: 140).
11
“baciarsi per strada”. Esse si domandano infatti se questi comportamenti – assolutamente non abituali nel loro paese – non siano forse dovuti al fatto che le
donne italiane non siano state escisse27. Questo esempio mostra bene come un
comportamento dovuto alla cultura (il fatto di non baciarsi per strada) venga
considerato il risultato diretto di un’operazione fisica, dunque di
un’“incorporazione”. Siamo dunque in presenza, anche in questo caso, di
quella sovrapposizione tra natura e cultura che è propria di tante pratiche simboliche.
Questo aspetto materiale del simbolismo già era stato percepito da Arnold
Van Gennep (2002). Riferendosi al simbolismo delle soglie, egli sottolineava
infatti l’importanza del “passaggio materiale”28 nella sua analisi dei riti di passaggio.
I significati simbolici, lungi dall’avere una relazione arbitraria con il loro
significante, sono spesso legati da una relazione di interdipendenza con la materia e la forma di quest’ultimo29. La materia, ma anche il processo concreto
della sua trasformazione30, diventano il fulcro del simbolismo, sebbene questo
possa svilupparsi in diverse direzioni. Van Gennep aveva individuato nelle
operazioni sul corpo degli elementi tipici dei riti di passaggio, e altri antropologi, successivamente, si sono focalizzati sul carattere subitaneo delle operazioni, produttrici di una scansione temporale. Ma se l’importanza del processo
è stata frequentemente sottolineata dal punto di vista della temporalità (ovvero, della durata), pochi ricercatori hanno considerato il processo con altre prospettive, distinguendo più in particolare le differenti tecniche di modifica del
corpo.
27
. Queste interpretazioni mi sono state riferite da una donna egiziana intervistata nel corso di
questa ricerca, nel 2006.
28
. “Un terzo punto, infine, mi pare importante: si tratta dell’identificazione del passaggio attraverso le differenti situazioni sociali con il passaggio materiale, con l’entrata in un villaggio o in
una casa, con il passaggio da una stanza all’altra, o con l’attraversamento di strade o piazze. È
proprio per questo che così frequentemente il passare da un’età o da una classe a un’altra si esprime ritualmente con il passaggio sotto un portico, o con un’“apertura delle porte”. Soltanto
di rado si tratta di un “simbolo”; il passaggio ideale infatti per i semicivilizzati è propriamente
un passaggio materiale. Infatti all’interno dell’organizzazione sociale generale dei semicivilizzati esiste una separazione materiale dei raggruppamenti speciali.” (Van Gennep, 2002: 168).
29
. Coquet (1988-1989), analizzando una statua di divinazione bwa, fornisce un buon esempio
della maniera in cui le correlazioni tra significante e significato sono, nell’interpretazione simbolica, non arbitrarie.
30
. Cartry (1968) ha sottolineato come, per interpretare gli ideogrammi della calebasse (zucca)
dell’escissione, sia necessario vedere la genesi della loro esecuzione, il “simbolismo dinamico”
di cui parlava Griaule. Carpenter (1961), a proposito delle sculture degli esquimesi, ugualmente
riporta l’importanza che può rivestire il processo della loro produzione.
12
2.2.2 Le tecniche come significanti
Se non è solo a livello della visibilità del segno che la tecnica è significativa31,
appare dunque necessario considerare il processo di produzione dei segni. Tatuaggi, scarificazioni, cicatrizzazioni, ablazioni, forature, ecc., nonché differenti tappe del processo tecnico della loro produzione possono essere il supporto di significati diversificati. Victor Turner, ad esempio, ha formulato
l’ipotesi che la velocità di esecuzione di tatuaggi e scarificazioni si presti a un
utilizzo simbolico specifico:
Forse la relativa rapidità della scarificazione e della cicatrizzazione è uno dei motivi
per cui esse figurano così spesso nei riti di passaggio e in altri rituali religiosi e terapeutici, dal momento che segnano letteralmente un netto contrasto fra la condizione
precedente dell’iniziando e quella successiva. Se tali riti richiedono un periodo piuttosto lungo di isolamento, l’operazione del tatuaggio, più lenta e complessa, può tuttavia procedere più agevolmente (Turner, 1994: 565).
In questo passo troviamo lo sviluppo dell’idea di Van Gennep, dove il fattore
“tempo” si rivela essere una componente importante del significato32.
Non si tratta qui di sostenere l’ipotesi di un significato universale delle diverse operazioni, ma di mostrare in quale modo esse possano assumere dei valori distinti a seconda delle culture. La serie delle tecniche di modifica del
corpo può formare, nel suo complesso, un sistema. È dunque a livello di questi sistemi (e non delle singole tecniche) che si potrebbe pensare una comparazione interculturale.
Nell’ambito di una stessa cultura, le differenti fasi di un’operazione possono essere investite di significati specifici, suscettibili di essere correlati tra loro. È il caso delle scarificazioni bwaba in Burkina Faso, descritte da Michèle
Coquet e Luc Régis (1984). Régis (1985) ha mostrato come la natura della
tecnica, e non soltanto la qualità plastica del segno, sia suscettibile di
un’analisi semiologica. La tecnica assieme al gesto che la produce possono
essere letti come “significanti”.
31
. Ad esempio, tra i Tiv, le iscrizioni tegumentarie sono considerate piuttosto degli abbellimenti e sembrano dipendere da mode che variano a seconda delle generazioni. Ed è proprio la tecnica usata per produrre il marchio, assieme alla localizzazione sul corpo, a caratterizzare i segni
dei diversi gruppi di età (Bohannan, 1956).
32
. Turner (1994) aggiunge che i tatuaggi, come le pitture del corpo, sarebbero utilizzati a fini
decorativi, mentre i tagli e le scarificazioni sarebbero più strettamente connessi a fattori religiosi e a riti di “life-crisis”. Tuttavia questo tipo di generalizzazione non sembra convincente, anche perché i valori simbolici ed estetici del segno possono coesistere. Inoltre, è possibile trovare numerosi esempi in cui le scarificazioni hanno valore decorativo e i tatuaggi sono eseguiti in
contesto rituale.
13
Così tra i Bwaba, attraverso il rito della scarificazione del viso e del sangue versato, il neonato è liberato, separato, dall’antenato che esso incarna.
Coquet e Régis avanzano l’ipotesi che il segno “scarificato” esprima dunque
plasticamente la separazione verticale del bambino dal mondo sotterraneo,
mentre il “tatuaggio” – che deriva dall’introduzione nelle ferite, qualche giorno dopo la scarificazione, della fuliggine ottenuta dal legno – lo legherebbe
simbolicamente al mondo terrestre della boscaglia.
Talvolta sono le differenti fasi dell’operazione di modifica del corpo, oppure le differenti tecniche compresenti nella stessa cultura, che possono rivestire significati specifici. E per poterli cogliere sembra utile analizzare alcune
delle tappe coinvolte nel processo di creazione dei segni corporei. Al fine di
mostrare come alcune azioni possano rivestire un significato, presenterò qui
qualche esempio riguardante alcune delle fasi principali di tali operazioni.
2.2.3 Creare delle aperture: tranciare, tagliare, forare, pungere, ecc.
Il gesto iniziale con il quale si produce la ferita può talvolta essere solo il gesto preliminare all’introduzione di una sostanza o di un oggetto. Tale gesto
può tuttavia, in certi casi, rivestire un significato particolare nel contesto del
sistema simbolico costituito dall’operazione (considerata come processo e
come risultato). Ad esempio, come abbiamo visto, Van Gennep associa questo
gesto alla fase di separazione dei riti di passaggio.
Tra i Bwaba, la scarificazione “libera” il nuovo nato dall’antenato che esso
incarna (Coquet, Régis, 1984). Tra i Dogon, al momento della circoncisione e
dell’escissione, si taglia il “filo di Dio”, vale a dire il legame che si ritiene esistere tra il neonato e la terra e che parte dal prepuzio maschile o dal clitoride
(punto da cui si sviluppa anche il corpo del bambino). Si pensa inoltre che
queste due parti del corpo sostengano rispettivamente l’anima (femminile o
maschile) che deve allontanarsi dal bambino. Quest’ultimo viene infatti al
mondo con entrambi i principi sessuali ed è solo dopo la circoncisione o
l’escissione che può assumere il suo sesso definitivo (Griaule, 1978)33.
Tra i Bambara, il tatuaggio delle gengive e del labbro inferiore delle donne
ha il fine di insegnare loro a controllare la parola (un controllo di cui esse sarebbero prive per natura). Anche le spine utilizzate per l’operazione rinforza33
. L’estensione di questo tipo di simbolismo a tutte le società africane che praticano
l’escissione del clitoride è già stata criticata da diversi antropologi. Si vedano, ad esempio, Ciminelli, 2002; Muller, 1993 e Gruenbaum, 2001. Anche la falsa simmetria – biologica e simbolica – esistente tra circoncisione maschile ed escissione del clitoride è già stata evidenziata
(Sindzingre, 1977; Fainzang, 1985 ed Héritier, 2002).
14
no e articolano questo simbolismo globale: “le spine di n’zegene per mezzo
delle quali questi elementi sono inoculati nelle carni, sono il simbolo della riserva spinta fino al mutismo, perché questo vegetale possiede delle proprietà
stupefacenti” (Zahan, 1963: 46).
2.2.4 Trattamento delle sostanze organiche (sangue e parti del corpo)
perdute durante l’operazione
L’intervento sul corpo implica generalmente una perdita di sangue e di alcune
parti corporee che, a seconda delle rappresentazioni che vi sono associate,
possono essere soggette a diversi trattamenti. Questi, che agiscono su sostanze
organiche ormai separate dal corpo, possono in alcuni casi essere considerati
parte integrante del processo tecnico, nella misura in cui si ritiene che essi incidano sulla riuscita dell’operazione. In altri casi, per quanto non indispensabili per la riuscita dell’operazione, essi possono comunque contribuire a rendere più intelligibile il sistema di rappresentazioni in cui essa si inscrive.
Tra i Bwaba, ad esempio, il sangue derivante dalle scarificazioni e dalle
escissioni è raccolto in una buca. Il sangue è in tal modo offerto alla “donna
dalla mano chiusa” figura mitica, per metà divina, per metà umana, che ha rivelato la pratica delle scarificazioni agli uomini. Questa sorta di offerta sacrificale, il cui valore è confermato dal simultaneo sacrificio di animali, sarà ulteriormente ricompensata dalla guarigione delle ferite. Coquet e Régis ipotizzano che la perdita di sangue del bambino e l’introduzione di fuliggine nelle
ferite rappresentino una sorta di scambio tra gli uomini e l’essere mitico. I
Bwaba, inoltre, distinguono differenti qualità di sangue e utilizzano quindi per
“i lavori di sangue” tre tipi di strumenti: il coltello per i sacrifici (per la messa
a morte di animali sacrificali), il rasoio “dei vecchi” (per il taglio del cordone
ombelicale), le lame (per l’escissione e la scarificazione)34.
Tra i Nuba de Sud-est, in Sudan, la scarificazione (creazione di “cicatrizzazioni”) delle donne in occasione dei primi segni della pubertà, del menarca
e dello svezzamento del loro primo bambino, è praticata fuori dal villaggio,
sulle rupi, perché questo sangue è considerato impuro (Faris, 1972).
Tra i Marka del Mali, invece, il sangue derivante dalla marcatura a fuoco
del viso è dotato di virtù positive – variabili a seconda dell’occasione specifica che dà luogo alla pratica – e le donne che assistono all’operazione
l’utilizzano per massaggiarsi il corpo. Così, nel corso della marcatura a fuoco
che segue l’escissione, il sangue che cola a terra è raccolto dalle anziane, che
34
. Per un’analisi semiotica di una di queste lame, cfr. Coquet, 1983.
15
lo strofinano sui propri marchi per sentirsi ringiovanite e fortificate; le bambine non ancora escisse si cospargono con esso il sesso per non soffrire troppo
quando verranno operate. E ancora con esso le donne in età fertile si massaggiano il ventre per favorire la fecondità o per facilitare il parto nel caso che
siano gravide. Il sangue rimasto sugli strumenti utilizzati per l’escissione e la
marcatura del viso viene leccato affinché i nervi motori – che si pensa che abbiano il clitoride come punto terminale – possano “risalire” nel corpo. In maniera analoga, il sangue delle scarificazioni successive al matrimonio e al primo parto è utilizzato dalle donne con altre finalità specifiche. In occasione
delle scarificazioni successive al matrimonio, che testimoniano la deflorazione, il sangue viene raccolto dalle sorelle della sposa per introdurlo nel loro
sesso, al fine di rimanere vergini fino al matrimonio. E il sangue delle scarificazioni che seguono il primo parto viene utilizzato dalle donne che non hanno
mai partorito, per cospargersi il ventre e il sesso al fine di avere un parto più
facile (De Ganay, 1949).
Oltre alle proprietà specifiche attribuite al sangue, da questi esempi emerge
un uso che ne fa un trait d’union tra generazioni diverse, nonché un modo di
trasferimento delle virtù del sangue da un individuo all’altro.
Questo appare anche, ad esempio, nel caso dell’ablazione rituale del prepuzio clitorideo tra i Kétu (sottogruppo Yoruba) della Nigeria35, nel corso di
un rituale collettivo. L’operatore, dopo l’ablazione, con un rasoio marca tre
tratti sul braccio sinistro delle iniziate (per abbellirle) e poi tre sulla spalla sinistra della donna “sponsor”36. Questo gesto è chiamato: “condividere la pena
del rasoio” (Babatunde, 1998) e permette di creare, attraverso la mescolanza
del sangue, un legame simbolico tra le due donne.
Si noti come, nel caso marka e nel caso kétu, l’operazione sui genitali si
accompagni a marchi indelebili eseguiti nelle parti del corpo più visibili e che,
alla fine dell’operazione, ne testimoniano l’effettuazione.
In altri casi possiamo per contro interpretare la perdita del sangue nel contesto di un modello relativo al funzionamento interno del corpo. Nel caso della subincisione praticata tra i Kwoma della Nuova Guinea, ad esempio, il taglio longitudinale del pene e la sua periodica incisione, venivano praticati per
liberare l’uomo dal cattivo sangue, un’operazione che le donne, secondo le
concezioni locali, grazie alle mestruazioni, non hanno bisogno di praticare
(esse si liberano naturalmente; Ashley-Montagu, 1974).
35
. L’escissione del prepuzio clitorideo è eseguita durante un rito collettivo tenuto prima del
matrimonio, verso i vent’anni di età (Babatunde, 1998: 114). In questo stesso periodo le ragazze sono sottoposte a un regime ingrassante.
36
. Lo sponsor è la donna che assiste la ragazza durante l’iniziazione.
16
Come per il sangue, si possono osservare anche per le parti del corpo oggetto di ablazione diversi trattamenti. Tra i Marka, i clitoridi sono messi in un
sacchetto di paglia e seppelliti (De Ganay, 1949); tra i Tiv della Nigeria, i
prepuzi dei circoncisi sono bruciati perché non vengano mangiati dai maiali
(Bohannan, 1954). Tra i Dìì del Camerun, i prepuzi dei circoncisi – ma solo
quelli di coloro che sopportano stoicamente la prova – verranno utilizzati nei
riti di circoncisione successivi, come ingrediente di medicine che mirano a
rendere coraggiosi i ragazzi. Secondo Jean-Claude Muller (1993), questo dettaglio mostra come il prepuzio rappresenti decisamente un attributo maschile,
ben diversamente da ciò che avviene nelle rappresentazioni dogon, che del
prepuzio fanno una parte femminile da eliminare.
Si segnala anche un uso “magico” dei clitoridi. Con essi, infatti, alcune exciseuses maliane fabbricano creme – molto richieste soprattutto dalle cantanti – che hanno il potere di far innamorare gli uomini, procurare fortuna e successo. Altre exciseuses, invece, consegnano le parti escisse alle madri delle
operate, che le seppelliranno (Bellas Cabane, 2001-2002).
Tra i Kétu della Nigeria, i prepuzi clitoridei delle ragazze vengono raccolti
e seppelliti entro l’altare degli antenati. Emmanuel Babatunde interpreta questa pratica come un’offerta sacrificale da parte delle ragazze, nella quale le
parti organiche “simbolizzano la loro personalità che esse donano nella speranza di ricevere in cambio l’abbondanza di vita” (Babatunde, 1998: 124). Le
donne Kétu spiegano, in effetti, che le parti escisse vengono scambiate con la
fonte della fecondità (ibidem: 168-169).
In Mali l’emorragia che si verifica al momento dell’escissione del clitoride
o del parto è considerata normale e segno di buona salute, nonché dotata di
una virtù purificatrice (Bellas Cabane, 2001-2002). Il getto di sangue successivo all’escissione è indice del fatto che l’“osso” è stato tolto, e dunque certezza del fatto che non ricrescerà (ibidem). Tali dettagli rendono palese
l’esistenza di una interpretazione del corpo umano e del suo funzionamento
ben diversa da quella proposta dal sapere biomedico.
2.2.5 Introduzione di sostanze
Con l’operazione non soltanto ci si separa di una parte del proprio corpo, ma,
in alcuni casi, si ricevono anche sostanze dall’esterno. Questo apporto può,
come si è già visto per i Bwaba, essere parte integrante del simbolismo.
I Boscimani praticano incisioni sulla schiena e sulle braccia per inserirvi
della carne bruciata. In tale modo essi credono di poter acquisire la forza e
l’agilità della selvaggina (Paulme, 1973).
17
In Burundi, nelle colline Rutonde, i diversi tipi di segni indelebili (scarificazioni, cicatrizzazioni, marchi a fuoco) possiedono finalità, destinatari e operatori distinti. La scarificazione chiamata indasago è eseguita in momenti critici: ad esempio, nel caso un capo famiglia, divenuto ricco, tema l’invidia dei
vicini, tutta la famiglia si sottoporrà all’opera dell’indovino (alapfumu), il
quale, dopo aver praticato delle incisioni, vi introdurrà una “medicina” preparata con della cenere. Talvolta l’applicazione di questa medicina sulle scarificazioni viene rinnovata nel tempo, anche dopo la cicatrizzazione stessa delle
ferite. I ragazzi si praticano, l’uno con l’altro, un tipo di scarificazione chiamata trik, con inserzione della cenere di un uccello particolarmente rapido,
per essere più forti e più veloci, oppure quella di un altro uccello dalla lunga
coda, nel caso che desiderino conquistare una ragazza37.
Tra i Bambara, durante l’operazione del tatuaggio femminile, si fa penetrare nelle gengive e nelle labbra un balsamo (composto di burro vaccino e di
carbone ottenuto dal legno di gwele) che contribuisce a conferire disciplina
alla bocca, intesa come l’organo della parola. Zahan scrive:
Il burro di vacca evoca in effetti le nozioni di facilità e di untuosità assieme a quella di
malleabilità, di addomesticamento e di educazione. Esso è la facilità, per il suo carattere grasso; si avvicina alla formazione e addestramento a causa del ruminante da cui
proviene e che, da questo punto di vista, è considerato dai Bambara come il miglior
animale domestico. In quanto al carbone di “gwele”, esso è in relazione con il riserbo
e il segreto a causa del suo colore; esso esprime ugualmente forza e resistenza, in virtù dell’albero da cui è ottenuto, che passa per avere il legno più solido che si conosca
(Zahan, 1963: 46).
2.2.6 Chiudere, cicatrizzare
Dopo l’operazione, oltre all’applicazione di sostanze cicatrizzanti, possono
essere applicate una serie di prescrizioni riguardanti l’alimentazione e le norme di comportamento – ad esempio l’isolamento – il cui scopo sarebbe quello
di contribuire alla guarigione delle ferite e di ottenere dunque un risultato finale perfetto. Presento qui di seguito qualche esempio del valore che possono
assumere tali prescrizioni.
Una volta che l’operazione del tatuaggio della bocca è terminata, la ragazza bambara, imbavagliata con un tessuto color indaco che le copre la bocca,
deve restare in reclusione una settimana, senza parlare a nessuno e uscendo
solo la notte. Si pensa che se qualcuno la incontrasse durante il giorno, la boc37
. Le notizie sono tratte da un’intervista effettuata nel 1990 a Parigi a Bonaventura Mageza,
originario di Gitega, in Burundi.
18
ca risulterebbe macchiettata di rosa, come il sesso del cavallo kale (ibidem).
Tutte queste prescrizioni, l’isolamento e il mutismo richiesto, come il bavaglio sulla bocca, sembrano mostrare e rafforzare uno dei valori simbolici
dell’operazione: quello di insegnare alla donna a porre dei limiti alla sua parola.
Tra i Bwaba, se il sangue versato nel corso delle operazioni non venisse
raccolto nell’apposita buca, le ferite del bambino rischierebbero di non cicatrizzare e il bambino potrebbe morire. Per questo motivo la donna del lignaggio dei fabbri che pratica queste operazioni si preoccupa di riportare il sangue
del bambino al villaggio nel caso in cui essa abbia eseguito l’operazione
all’esterno di questo. Secondo l’ipotesi di Coquet e Régis la cicatrizzazione si
presenterebbe come una sorta di ricompensa da parte di un essere mitico, per
il sangue che gli è stato offerto (Coquet, Régis, 1984).
Tra i Kétu una speciale medicina è applicata sulle ferite delle ragazze dopo
l’operazione dell’escissione del prepuzio clitorideo. Alcuni ingredienti di tale
medicina, il giacinto e le lumache, sono usati con intenti omeopatici: come il
fiore si chiude al contatto, così le ferite si rimargineranno, come le lumache
non possono avere emorragie (non essendo dotate di sangue), così le ferite
non sanguineranno a lungo (Babatunde, 1998).
La creazione di aperture sul corpo e la loro chiusura, nonché il trattamento
delle sostanze corporee fuoriuscite – sostanze offerte in sacrificio alle divinità,
scambiate o riutilizzate all’interno della società umana, assimilate per le loro
virtù, eliminate perché impure, trasformate da negative in positive – costituiscono l’ampio corollario delle modificazioni corporee. Queste operazioni tecniche implicano perdite e acquisizioni di sostanze attraverso “passaggi” del
corpo creati artificialmente, e tali entrate e uscite sono investite di significati
diversi a seconda delle società. Tali aspetti possono contribuire a una comprensione del senso che, in ogni società, viene attribuito a queste pratiche.
2.2.7 La postura
Un altro aspetto del processo tecnico suscettibile di chiarire il senso generale
della modifica corporea riguarda la postura degli operatori e dei pazienti.
Ad esempio, tra i Moose (Mossi) del Burkina Faso (regione dello Yatenga), come ha evidenziato Suzanne Lallemand (1986), durante l’esecuzione
delle scarificazioni ventrali, l’operatrice, la ragazza operata e la parente che
l’assiste, assumono la stessa disposizione riscontrabile al momento del parto.
Come la donna in travaglio, la ragazza è seduta sui talloni con il corpo chinato
all’indietro. Lungi dall’essere fortuito, questo schema posturale ha suggerito a
19
Lallemand l’idea che le scarificazioni delle ragazze moose intrattengano un
doppio rapporto con le loro future gravidanze. Da un lato l’operazione costituisce una sorta di allenamento pedagogico attraverso il quale l’operata impara a padroneggiare il dolore: come nel parto, il dolore è ritmico e procede dal
basso ventre all’alto, ma a differenza del parto esso è il risultato di una scelta
volontaria e di un intervento umano; la ragazza, infatti, può scegliere se farsi
scarificare o no, decidendo lei stessa il momento dell’operazione. D’altro canto, per gli uomini che ammirano il risultato decorativo dell’operazione, le cicatrizzazioni sul ventre evocano le potenziali gravidanze della ragazza.
In Sierra Leone, la postura della donna durante l’escissione è la stessa che
quella tenuta durante il parto, così come uguali sono il luogo, il tipo di operatrice e di pubblico, ovvero membri della società segreta delle donne. Secondo
Carol MacCormack “i due avvenimenti sono logicamente legati in quanto parte di uno stesso messaggio, benché essi siano temporalmente distanti” (MacCormack, 1994: 104).
In Somalia, l’immobilità, associata a un periodo di isolamento e alla postura richiesta per la cicatrizzazione successiva all’infibulazione, sono ottenuti
legando le gambe saldamente tra loro con corde o strisce di tessuto per alcune
settimane (Dirie, Miller, 1998). Farà seguito l’acquisizione di una nuova postura e l’apprendimento di un nuovo modo di muoversi, motivato all’inizio,
anche dal timore di vedere riaprirsi le ferite (ibidem; Pasquinelli, 2000). L’atto
di legare le gambe dalle anche alle ginocchia è descritto, ad esempio, da Villeneuve (1937), che mette in luce come esso si ripeterà, assieme a una parziale
reinfibulazione, dopo il parto (un coltello viene utilizzato dapprima per praticare l’infibulazione, poi per deinfibulare in occasione del primo rapporto sessuale e infine prima del parto). La medicalizzazione dell’infibulazione, deinfibulazione e parto, cominciata in Somalia una ventina d’anni fa, sembra conservare il rapporto idealmente esistente tra questi avvenimenti, artificiali e fisiologici, che punteggiano la vita di una donna.
Negli esempi sopra citati le posture adottate nel corso delle differenti operazioni (rituali o estetiche) indicano non solo una certa coerenza interna
dell’insieme delle “tecniche del corpo” (cfr. Mauss, 1950), ma anche le loro
correlazioni simboliche. Siamo in presenza di una “serie” di trasformazioni,
incentrate sul corpo femminile, che scandiscono e organizzano gli avvenimenti biologici che lo riguardano. Negli esempi citati, la serie sembra convergere
verso l’avvenimento del parto.
20
2.3 Alcune implicazioni sensoriali ed emotive delle operazioni
Tattoos are feelings,
That we have deep inside,
No matter how large we have them,
It still coincides.
(Bob Burgos, The tattoo)38
Se è possibile concepire il rito come una sorta di metafora la cui esecuzione
materiale presenta un carattere di necessità, ci si può interrogare
sull’importanza della materia soggetta a trasformazione nel rito, ovvero cercare di comprendere come e perché, tra tutte le materie possibili, il corpo possa
rappresentare un caso particolare, così come sostiene Mary Douglas.
Victor Turner (1976) ha sottolineato che nel rito la più piccola unità – che
egli chiama “simbolo” – è costituita, a livello del suo significato, di un “polo
sensoriale” e di un “polo ideologico”. Sarebbe proprio a causa di questa caratteristica bipolare, attraverso la quale le emozioni associate alla fisiologia umana vengono associate a dei valori sociali, che il simbolo e il rito sarebbero
“efficaci”. Il rito rappresenta in tal modo per Turner quel meccanismo identificato da Durkheim come il passaggio dall’obbligatorio al desiderabile:
Norme e valori, da una parte, si saturano di emozione, mentre le emozioni immediate
ed elementari si nobilitano al contatto con i valori sociali. La ripugnanza della costrizione sociale si muta in “amore della virtù” (Turner, 1976: 54).
Sembrerebbe allora che esista un aspetto psico-fisiologico che rende il simbolo corporeo emotivamente più pregnante. Se il polo sensoriale del simbolo di
cui ha parlato Turner si situa a livello del significato, cosa avviene quando il
corpo stesso è il supporto della significazione, come nel caso delle modificazioni permanenti del corpo? Si può pensare che l’emozione legata alla fisiologia umana, che in questo caso non è solamente evocata ma direttamente sperimentata attraverso il corpo, renda il simbolo ancora più potente ed efficace e
che, in un certo senso, il suo polo sensoriale ne risulti rafforzato. Si tratta di
una forma di conoscenza evidentemente “incorporata”39. L’osservazione di
Turner mi sembra potersi applicare al nostro ambito di studio. Che particolarità può avere un segno che ferisce e rappresenta allo stesso tempo?
38
39
. Il testo di questa canzone si trova in Steurs, 1981.
. Sulla nozione antropologica di incorporazione, cfr. Csordas, 2003.
21
2.3.1 Il dolore
Il dolore è il corollario inseparabile dei segni permanenti del corpo e svolge
un ruolo cruciale nella loro produzione. In effetti il dolore non è, in molti casi,
soltanto una conseguenza inevitabile, ma anche una necessità, a causa del suo
valore formativo di prova e della sua azione trasformatrice.
Un tratto comune a un gran numero di queste operazioni, se non vengono
eseguite nei primi anni di vita, è l’attitudine richiesta da parte di coloro che la
subiscono: il dolore provato, infatti, non deve essere manifestato in alcun modo. Se così fosse, l’operato/a e la sua famiglia subirebbero una sanzione sociale, ovvero la vergogna. Si noti che questa norma vige non solo durante le iniziazioni, dove il carattere di prova costituito dal dolore è stato commentato
ampiamente, ma anche in quelle operazioni considerate semplicemente “estetiche”.
Lallemand (1986) ipotizza che la realizzazione delle scarificazioni ventrali
delle ragazze moose – situate temporalmente tra altri due avvenimenti,
l’escissione e il parto in cui il rapporto con il dolore è completamente differente – costituirebbero una sorta di preparazione ai dolori del parto. Infatti,
mentre in occasione dell’escissione (eseguita tra i cinque e gli otto anni di età)
la bambina, immobilizzata dai parenti, urla di dolore, nessun segno di sofferenza viene manifestato al momento del parto. Durante l’operazione di scarificazione, affrontata stoicamente tra i tredici e i diciotto anni, il dolore non è il
risultato di una coercizione diretta – sociale o naturale – ma di una scelta deliberata, anche se in parte culturalmente determinata, in quanto spetta alla ragazza di decidere di sottomettersi all’operazione e di sceglierne il momento.
Questo aspetto volontario della pratica, nonché la sua valenza estetica richiama un altro caso, questa volta di tatuaggio, che sembra presentare alcune analogie con l’esempio descritto da Lallemand. È il caso – da me rilevato nel
1991 – delle ragazze haal-pulaar’en (Peul) del Senegal (regione di Fouta Tôro) che decidono di farsi tatuare il labbro inferiore, generalmente all’insaputa
dei genitori; questi infatti, per quanto la madre sia spesso al corrente del progetto, vi si opporrebbero. Esse organizzano la loro fuga in un altro villaggio,
dove spesso si presentano con un nome falso per evitare che i genitori, eventualmente partiti alla loro ricerca, le possano identificare. Una volta trovata la
specialista (una donna haal-pulaar’en o sarakolé appartenente ad un gruppo
endogamo di artigiani delle pelli o dei metalli), la ragazza subisce la dolorosa
22
operazione40. L’opposizione dei genitori e l’esecuzione del tatuaggio in un villaggio diverso dal proprio sarebbero dovute, tra le altre cose, anche al rischio
principale che quest’ultimo comporta: una debolezza nel corso della lunga operazione e la sua eventuale interruzione macchierebbero ignominiosamente
la reputazione della ragazza e di tutta la famiglia. L’episodio verrebbe addirittura ricordato di generazione in generazione. Più spesso, tuttavia, una volta
che la ragazza ha superato questa prova con dignità, la famiglia ne sarà fiera
(in passato arrivava perfino ad organizzare una festa in suo onore).
Alcuni aspetti tecnici dell’operazione di tatuaggio in Africa sono riconducibili esattamente alla necessità di arrivare al controllo del dolore. Tanto tra i
Peul del Senegal che tra quelli del Burkina Faso (Peul Djelgôbé della regione
di Soum), una caratteristica dell’operazione del tatuaggio delle labbra è il gesto che l’amica41 dell’operata esegue ritmicamente, battendo il petto di
quest’ultima con la mano, e in genere allo stesso ritmo del picchiettamento dei
fasci di spine sul labbro. Questo gesto, sebbene non sia quello che produce direttamente l’inserimento del pigmento, riveste una funzione nell’operazione e
può essere considerato come parte integrante della tecnica di tatuaggio. Nelle
due popolazioni si dice che questo aiuta la ragazza a sopportare il dolore42.
Nel caso di tatuaggio appena descritto, così come nel caso delle scarificazioni moose, il confronto con il dolore assume un valore fondamentale. In entrambi i casi, infatti, innanzitutto si nota che il momento dell’operazione non è
stabilito socialmente, ma è deciso dalla ragazza, all’inverso di ciò che succede
per l’escissione o altre operazioni eseguite in contesti iniziatici. Inoltre, la pratica non sembra essere strettamente obbligatoria, in quanto non tutte le ragazze vi si sottopongono. Infine, al segno viene attribuito un valore principalmente estetico. Nondimeno, il tributo di sofferenza pagato nell’operazione e il rigore delle norme sociali che impongono di subirla nel più completo stoicismo
sembrano indicare che, dietro al valore decorativo del segno, si nasconda
qualcosa di più profondo.
A tal proposito, sembra possibile ipotizzare l’esistenza di un rapporto tra
l’età, la scelta “volontaria” e il dolore e che sia spesso possibile reperire
40
. Negli anni Settanta del secolo scorso l’operazione era molto di moda e dava luogo a feste
collettive che non sembravano più esistere negli anni Novanta. Ho potuto assistere personalmente a un’operazione di tatuaggio nel 1991 a Bokidjavé (cfr. film-video, Calderoli, Tatouage
au Fouta Tôro, 1993) e a Parigi, presso popolazioni haal-pulaar’en (Peul) e sarakolé.
41
. Molto spesso le ragazze, per andare a farsi tatuare, partono in coppia.
42
. In Burkina Faso un informatore mi ha spiegato che i colpetti sul petto servono a evitare che
il sangue si arresti nel cuore durante l’operazione, Questo esempio mostra chiaramente che la
rappresentazione del funzionamento del corpo umano può influenzare gli aspetti tecnici. Ho
potuto osservare un’operazione di tatuaggio in Burkina Faso nella regione di Soum, nel villaggio di Diguel, abitato da Peul e Dogon, nel 1991.
23
all’interno della serie di trasformazioni simboliche del corpo – nelle diverse
società – un’operazione pensata come volontaria. In occasione di tale operazione, l’individuo assume su di sé la necessità della prova dolorosa. L’aspetto
volontario dunque può essere, in certi casi, costitutivo della pratica tradizionale stessa, e non il risultato dell’indebolimento di una tradizione. La volizione è
più evidente nel caso in cui le motivazioni sono principalmente estetiche, ma,
benché meno palese, è presente anche nei riti iniziatici, di cui costituisce un
motore importante e strettamente legato al dolore.
Forse può sembrare strano sostenere che l’aspetto volontario sia presente
in pratiche iniziatiche, casi esemplari della normatività sociale. Tuttavia è
possibile rilevare come il gioco iniziatico sia costituito da una sorta di sfidatrappola che porta l’individuo ad aderire all’iniziazione piuttosto che a subirla,
ad affrontarla piuttosto che ad esserne la vittima. Perché, se la prova è obbligatoria, l’imperturbabilità richiesta di fronte al dolore (impensabile da ottenerla in maniera passiva) richiede uno sforzo di volontà che implica automaticamente l’assenso dell’iniziato alla prova stessa, nonché all’ethos43 del gruppo
che ne è il presupposto.
Ma l’età in cui l’individuo fa propria la necessità della prova dolorosa può
non corrispondere necessariamente alla età in cui si è legalmente maggiorenni, e questo ovviamente costituisce problema nell’ambito della nostra società.
Diverse testimonianze rendono conto dell’importanza attribuita da alcune madri somale alla volontà espressa delle bambine di essere infibulate (Pasquinelli, 2000)44, così come di alcuni casi di ragazze o donne, i cui genitori non avevano voluto farle escindere, che decidono loro stesse di farsi operare, per “essere come le altre” (Bellas Cabane, 2001-2002 e allegato 14/29). D’altro canto
è da segnalare la generale tendenza nelle famiglie africane a spostare queste
operazioni ad un’età sempre più giovane, fatto che priva tale operazione del
valore di rito di passaggio, e che situa il senso di tale segno più come marchio
distintivo di genere (Fainzang, 1985)45.
43
. Per éthos qui intendo “l’espressione di un sistema culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui”. (Fabietti, Remotti, 2001: 270).
44
. Una donna somala, residente in Italia, riferendosi all’infibulazione afferma: “Oggi c’è
un’altra mentalità, mia figlia è di un’altra generazione. Dipenderà da lei, se quando avrà sei anni mi chiederà di farla gliela farò, con l’anestesia però.” (Pasquinelli , 2000: 45). Pasquinelli
riferisce inoltre il carattere volontario dell’operazione rivendicato da diverse donne somale intervistate in Italia (ibidem).
45
. Si tratta, per Fainzang, più precisamente di una “iscrizione dei rapporti tra i sessi” (Fainzang,
1985: 125).
24
Il dolore connesso alle operazioni sul corpo implica che il segno diventi testimonianza della sofferenza affrontata. In tal modo tra i Tiv, per i quali i segni
tegumentari rappresentano soprattutto decorazioni destinate ad attirare l’altro
sesso, il valore estetico è in realtà inestricabilmente legato al valore della prova dolorosa. Infatti, interrogato sul dolore provato durante la scarificazione,
un Tiv riferiva a Bohannan: “Certamente è doloroso! Quale ragazza guarderebbe un uomo se le sue scarificazioni non gli fossero costate dolore?”. E Bohannan commentava così: “la probabile sofferenza è il metro attraverso il quale i Tiv valutano la scarificazione, un secondo metro è il bell’aspetto che le
scarificazioni conferiscono al volto valorizzando la personalità” (Bohannan,1956: 121).
Il segno rende visibile il dolore, e in questo senso è bidirezionale: da un lato agisce sull’individuo e lo trasforma, dall’altro testimonia il dolore della
prova agli occhi della collettività46.
Tra i Marka, i segni indelebili iscritti sul viso delle donne sembrano proprio rispondere alla necessità di “rendere visibile”. Il marchio a fuoco delle
guance e del mento ha la funzione di testimoniare che sono stati subiti i dolori
dell’escissione, della deflorazione e del primo parto. Per i Marka, inoltre, la
sofferenza è creatrice di forza e le scarificazioni che l’attestano, al contempo,
la conservano in esse. Il coraggio delle bambine durante la scarificazione è
fonte di energia per la casa. Per questo motivo, durante la marcatura che segue
l’escissione, le anziane tamburinano con una bacchetta sul pilastro centrale
della casa, al fine che il coraggio delle bambine vi si accumuli (De Ganay,
1949). Questo esempio mostra non soltanto la necessità di analizzare le modificazioni permanenti del corpo come sistema globale, ma lascia anche intravedere come all’interno di una serie di “marcature” proprie al genere femminile alcune possiedano funzioni specifiche. Così, rispetto all’escissione, i segni del viso delle donne marka sembrano assumere il valore di un messaggio
diretto e forte per la collettività, a causa della loro visibilità pubblica. A volte,
altri segni materiali extracorporei sembrano attestare la capacità di sopportazione del dolore. Sempre in Mali, ad esempio, è registrato l’uso di collocare
una noce di cola tra i denti della ragazza che viene escissa, e di controllare,
dopo l’operazione, la misura del suo stoicismo in base ai segni che vi sono
impressi (Bellas Cabane, 2001-2002).
46
. A questo proposito mi sembra interessante accennare alla distinzione operata da Michael
Houseman (1986; 1999) tra due tipi di dolore riscontrabili nelle iniziazioni Beti del Camerun:
quello “inintellegibile e degradante” e quella “sensato e onorevole”. Le scarificazioni eseguite
sulla schiena, nella prima parte del rito, corrisponderebbero proprio a quest’ultimo; il male è
glorificato dal segno di fronte alla collettività.
25
Tra i Dìì del Camerun che praticano una “pseudo-escissione” (il clitoride
viene tirato e il contorno della vagina punzecchiato), il dolore momentaneo
viene invece usato per spiegare alla bambina che soffrirà allo stesso modo se
non ritarderà e se non opporrà una certa resistenza all’uomo con cui avrà un
rapporto sessuale (Muller, 1993). Il valore educativo della sofferenza in Africa (Bellas Cabane, 2001-2002) sembrerebbe dunque essere parte integrante
del valore dei segni, visibili e non.
Ed è precisamente questo valore del dolore che non viene accettato nella
società occidentale; le operazioni sui genitali femminili sono interpretate e rifiutate anche in questa prospettiva. Ad esempio, una ginecologa del bresciano
commenta così le proposte di sostituzione simbolica dell’infibulazione:
Sul piano simbolico, che tu debba sanguinare da una tua parte genitale è come la lacerazione imenale per essere vergini o non vergini dal punto di vista cattolico. Sul piano
simbolico non cambia [...] Tu devi avere un atto di sofferenza, di perdita di sangue,
con il significato che ha il sangue [...] Se io devo perdere del sangue per accedere ai
rapporti sessuali, altrimenti non sono accettata dalla mia comunità, la simbologia è
pesante. Io devo perdere una parte di me, il sangue, per essere accettata. Io sono con47
traria .
Anche per questo aspetto appare allora evidente il valore antinomico che possono assumere le modificazioni genitali femminili in un contesto occidentale:
si passa da una valorizzazione del dolore, come modo di affermare l’identità
individuale a una svalorizzazione del dolore inteso come un oltraggio alla persona48.
Inoltre, come ha bene illustrato Bellas Cabane (2001-2002) risulta opportuno considerare anche una concezione diversa di “maltrattamento” del bambino. In Mali, da diverse donne, sembra essere considerato un maltrattamento
il fatto di lasciare la bambina bilakoro (lett. “bambino non circonciso”), ovvero non escissa, in quanto questa si sentirà esclusa. L’autrice cita, in effetti, il
caso di due ragazze di quattordici anni che decidono di farsi operare proprio
perché si sentono diverse dalle altre. Secondo Bellas Cabane, l’interpretazione
che vede le pratiche di escissione come finalizzate alla negazione del piacere
non corrisponderebbe alla finalità originaria di tali pratiche, e rappresentereb-
47
. Intervista realizzata nel corso di questa ricerca, nel 2005.
. Un’altra antinomia fondamentale riguarda la parte del corpo valorizzata/svalorizzata. Per
una rassegna della concezioni, storicamente e culturalmente variabili, dei genitali femminili,
alla luce delle quali capire il senso delle modificazioni espansive e riduttive, cfr. Couchard,
2003.
48
26
be, invece, una sovrainterpretazione di quel controllo di sé che è il corollario
frequente di queste operazioni (ibidem)49.
2.3.2 L’azione sul corpo e l’identità individuale
La resistenza al dolore costituisce una sorta di negazione del corpo attraverso
la quale si afferma la volontà e l’identità individuale. “Chiunque sia insensibile alla sofferenza è capace di comandare alla propria bocca e a sé stesso”, dicono i Bambara a proposito delle auto-flagellazioni iniziatiche” (Zahan, 1960:
99).
Ancora, le ferite alla base di tutte queste modificazioni permanenti del
corpo ci colpiscono troppo per non portarci a pensare che esse contengano in
sé un valore fondamentale, quale che sia la rappresentazione veicolata dalla
grafia o dalla forma plastica. Di fronte a dei visi solcati da lunghi tagli, c’è la
tentazione di vedere il segno allo stato puro, “primario”, nel suo significato
essenziale: la ferita, dolorosa e irreversibile. Gregory Bateson (1976) ha proposto di considerare lo stile come una fonte di informazioni e come un significato fondamentale dell’opera d’arte. Assumendo questa prospettiva, sembrerebbe possibile considerare che le operazioni di modifica del corpo producano
uno stile, uno stile “doloroso”, lo stile “ferita”.
In Occidente si può ritrovare un eco, seppure tenue, di questo valore essenziale del segno. In Italia, i giovani cittadini che negli anni Ottanta si tatuavano spesso dichiaravano che ciò che più li ha motivati è l’idea di “avere un
tatuaggio”, e non quello di essere decorati con una specifica immagine50. Se le
connotazioni mitologiche trasgressive tipicamente occidentali (evocazione di
mondi avventurosi, di personaggi quali marinai, prigionieri, gente della malavita, motociclisti, ecc.) hanno un incidenza su questo desiderio, l’aspetto di
prova o di sfida è nondimeno presente. Si potrebbe dire, con uno slogan forse
ormai un po' datato, che “il mezzo è il messaggio” (McLuhan, 1964).
Così, in fondo, le polemiche sorte in Italia a seguito alla proposta di sostituzione simbolica dell’infibulazione, da operare eventualmente nell’ambito di
strutture sanitarie pubbliche51, sembrano mostrare il valore estremamente im49
. Per una discussione degli effetti delle operazioni sulla sessualità femminile, cfr. Gruenbaum,
2001; Bellas Cabane, 2001-2002 e Catania, Hussen, 2005.
50
. Le seguenti considerazioni sono basate sul lavoro di ricerca da me condotto nel 1987 nelle
città di Milano e Bologna.
51
. Riguardo tale proposta, cfr. Catania, Abdulcadir (2004; 2005). Per un commento antropologico critico a tale proposta, cfr. Busoni (2005). La proposta del medico somalo era quella di
operare, per evitare l’infibulazione, una puntura del prepuzio del clitoride con fuoriuscita di
qualche goccia di sangue (con uso locale di crema anestetica).
27
portante dell’azione simbolica al di là della sua forma concreta. Aver o non
aver praticato tale azione simbolica sembrerebbe, sia per chi sostiene che una
puntura è sufficiente, sia per chi sostiene che non dovrebbe essere praticata,
più importante del tipo di operazione realizzata, ovvero puntura oppure amputazione e cucitura. Quest’azione risulta essere un simbolo così potente che i
gruppi che si sono opposti, anche solo alla puntura, temono che
l’ufficializzazione di quest’ultima potrebbe avere ripercussioni sui movimenti
contro le Mgf in Africa. La sola presenza della pratica in Occidente, infatti,
potrebbe indebolire la forza della motivazione al cambiamento nell’Africa
stessa dove si potrebbe pensare: “se anche in Italia si eseguono operazioni sui
genitali femminili, perché noi dovremmo smettere?”52. Se avere o non aver
subito un’operazione diventa più importante della qualità (“mutilatoria” o
meno, secondo i canoni stessi della biomedicina) dell’operazione, allora è
chiaro che nessuna mediazione è più possibile, e che il cambiamento deve
passare per un’interruzione brusca della pratica.
Si assiste oggi a un fenomeno paradossale: mentre movimenti giovanili hanno
portato alla ribalta, e poi alla moda, pratiche come tatuaggi, piercing, branding53, si legifera in molti paesi europei e africani contro le Mgf (in Italia
quest’anno è stata approvata una legge specificamente dedicata ad affrontare
il problema). Così, le ostetriche di Milano54, possono trovarsi a fronteggiare al
momento del parto, non solo (rari) casi di donne africane infibulate, ma anche
la sorpresa di piercing e tatuaggi praticati sui genitali di donne italiane. Tuttavia il tatuaggio dei genitali è percepito come un fatto “un po’ meno barbaro”
rispetto alle pratiche di escissione o infibulazione, in quanto si pensa sia stato
fatto, per libera scelta, in età adulta. Fra l’altro è bene notare, a questo proposito, come ragazzi italiani minorenni esprimano oggigiorno il desiderio di tatuarsi, forarsi55 oppure di sottoporsi alla chirurgia estetica, e talvolta chiedono
ai propri genitori la firma di consenso per potersi presentare da un professionista.
Se alcune di tali pratiche occidentali di trasformazione del corpo sembrano
andare nel senso di una trasgressione, ed altre sembrano tradurre una spinta
alla conformità, bisogna tuttavia considerare come queste connotazioni mutino nel tempo. Un movimento continuo di trasformazione del senso attribuito
52
. Da una conversazione con una donna somala avvenuta nel corso di questo lavoro.
. Branding: marchio a fuoco; il disegno viene impresso tramite uno stampo di acciaio rovente.
54
. Interviste realizzate nel quadro di questa ricerca nel 2005.
55
. Riguardo al piercing tra gli adolescenti dal punto di vista psicologico, cfr. Pietropolli, Charmet, 2000.
53
28
al tatuaggio nella società occidentale, lo ha portato a trasformarsi da gesto trasgressivo in pratica estetica. Ma la sua estetica, in cui il carattere artificiale e
la presenza del segno sono fondamentali, si differenzia nettamente da quella
della chirurgia estetica, che potremmo definire come un’estetica “del naturale”56.
La chirurgia estetica e altre pratiche di modellazione del corpo – come ad
esempio, pratiche sportive quali il body-building, oppure alimentari come le
diete – infatti, rappresentano in maniera più evidente la tendenza alla conformità. Ma forse il tatuaggio e le altre pratiche di modifica del corpo appaiono
complementari ed esprimono appieno come, all’interno della stessa società,
convivano non solo estetiche diverse, compatibili tra loro, ma anche, attraverso di esse, la spinta alla conformità e l’affermazione di un’identità individuale. Ed è proprio perché, per lungo tempo, il tatuaggio è stato malvisto nella
nostra cultura, che esso ha potuto assumere una funzione di rivendicazione
dell’unicità individuale e che è stato apprezzato dai giovani. Attraverso questo
gesto trasgressivo si è affermata una volontà personale che forse, in altre culture, si è manifestata attraverso la prova dolorosa, come se la negazione – della norma o del corpo – fosse il modo più adatto a consolidare l’identità individuale.
2.4 Alcune interpretazioni antropologiche riguardanti le modificazioni del corpo come “segni di identità”57
Gran parte delle osservazioni etnologiche riguardanti le operazioni di modifica del corpo sottolineano il valore del “marchio” dal punto di vista del risultato, e non da quello del processo di creazione del segno. Numerosi autori hanno descritto i marchi corporei – e in particolare le scarificazioni del volto –
come segni di identità “tribale” o “etnica” e come segni di uno “status”. Se
l’operazione sul corpo contribuisce a identificare l’individuo o il gruppo,
spiegare le operazioni sul corpo con la necessità di rendere conto di uno status
mi pare solo parzialmente soddisfacente.
I segni sul corpo possono essere “letti” per identificare colei o colui che li
porta. Questo, tuttavia, non implica che alle origini, la pratica tradizionale abbia avuto un fine identificativo. In maniera evidente, in uno stesso segno possono coesistere molteplici funzioni o significati (ad esempio, estetici, magico56
. La connotazione trasgressiva che il tatuaggio possedeva negli anni Settanta e Ottanta del
secolo scorso è decisamente diminuita e attualmente, il tatuaggio, sempre più diffuso, è considerato da molti giovani soltanto un abbellimento originale. Esso è diventato una moda.
57
. Per una trattazione più dettagliata, cfr. Calderoli, 1990-1991.
29
religiosi, profilattico-terapeutici). È inoltre opportuno notare come, qualora un
segno anche corrispondesse ad uno status particolare, ad una tappa della vita
sociale, o ad un momento preciso dello sviluppo fisico, tale correlazione non
sia sempre presente in tutte le società, né sia sempre esplicita o codificata. A
volte, si verifica perfino che il segno iscritto sul corpo sia totalmente dissociato dalle tappe della crescita sociale dell’individuo.
Alcune delle interpretazioni del marchio corporeo come segno di status
hanno messo l’accento sulla cesura temporale introdotta dal segno (Leach,
1981; Mead, 1962), cesura che segnalerebbe i passaggi della crescita sociobiologica dell’individuo e delimiterebbe delle categorie sociali (ad esempio,
classi di età o gruppi statutari specifici).
L’indelebilità del segno, in relazione alla sua funzione di marchio di status,
è stata interpretata da altri come l’associazione irrevocabile dell’individuo al
suo ruolo sociale (Lévi-Strauss, 1958; Brain, 1979) e del suo posizionamento
nel tempo (controllo sull’unione matrimoniale, legge dell’esogamia). In altri
termini, rendendo manifesto lo status dell’individuo, il segno costituirebbe
dunque un mezzo per ricordare e rafforzare il divieto di matrimonio
all’interno del proprio gruppo (Lang, 1905 citato in Zeller, 1951: 1036).
Molte di queste interpretazioni hanno forse il difetto di prendere in considerazione solo alcuni tipi di segni, e solo alcune delle loro caratteristiche (talvolta sul piano della materia e della forma, talvolta sul piano del significato).
Infatti, se è verosimile che i segni sul corpo siano in rapporto con
l’espressione dell’identità, non pare tuttavia ancora possibile, alla luce delle
ricerche finora svolte, generalizzare i loro significati.
È inoltre, opportuno sottolineare, come il valore distintivo di un segno si crei,
in maniera contingente, per contrasto, per differenza, dove un gruppo si confronta con un altro gruppo. Così, paradossalmente, proprio il rapporto con la
cultura occidentale ha potuto provocare dinamiche identitarie che hanno portato alla ipervalorizzazione di pratiche escissorie. È il caso, riportato da Bellas
Cabane in Mali, di un aide soignant che spiega: “La gente vuole continuare a
escindere perché è il costume e inoltre non vogliono che le donne di qui siano
come le europee!” (Bellas Cabane, 2001-2002: 98). L’autrice interpreta questo fenomeno come una “cristallizzazione del sentimento identitario” (ibidem:
155). In maniera analoga, una donna egiziana residente a Milano così interpreta il motivo che spinge gli occidentali a far interrompere alle donne africane le operazioni sui genitali: “Eh, per farci diventare come voi!”58. Con una
dinamica simile, in Kenia, proprio la rivolta al potere coloniale e alle indica58
. Intervista realizzata nel corso di questa ricerca, nel 2006.
30
zioni dei missionari portarono, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso,
ad una valorizzazione dei riti escissori, rivendicati da Jomo Kenyatta (primo
presidente del Kenia indipendente) come eredità nazionale (Kenyatta, 1977;
Fusaschi, 2003; Gruenbaum, 2001).
Ancora, nel caso si parli di identità, appare opportuno considerare come i
contatti tra culture non siano esclusivi dell’attuale mondo globalizzato. Anche
i segni indelebili hanno testimoniato, in passato e in diverse società, dello
scambio e delle influenze tra generi, gruppi, etnie, o intere nazioni, nonché
della dinamica culturale che li costituisce, in maniera contingente e non assoluta.
2.4.1 Trasmigrazioni di segni, mutamenti dei significati
La permanenza del segno indelebile riguarda l’individuo (sul piano della forma) e dunque il tempo individuale, ma non il tempo della società. Forme e significati, che variano diacronicamente, devono essere studiati in una prospettiva dinamica, cercando di capire come l’interazione tra culture produca cambiamenti. Il contatto con la cultura occidentale e la colonizzazione hanno portato in Africa delle trasformazioni profonde, tra cui la scomparsa progressiva
di molte pratiche tradizionali di modificazione del corpo, ma anche, talvolta,
la loro rivitalizzazione come pratiche di valorizzazione identitaria. Anche il
contatto con altre società non occidentali, vicine o lontane, ha determinato interruzioni o nuove acquisizioni di segni sul corpo59.
Se esistono alcuni segni “etnici” abbastanza caratteristici e identificabili,
esistono anche fenomeni di mode che portano all’adozione, da parte di un certo gruppo, di segni indelebili di cui si fregiano altre popolazioni. Così, ad esempio tra gli Azande, la circoncisione non era una pratica tradizionale, ed è
stata adottata imitando le popolazioni vicine verso la fine del Diciannovesimo
secolo (Evans-Pritchard, 1962); si diceva infatti, che le donne mostrassero una
netta preferenza per gli uomini circoncisi (Czekanwski, 1924). Anche tra i
Moose, all’epoca in cui Eugène Mangin li descrisse (1910), la circoncisione
non era una pratica corrente. Alcuni bambini vi si sottomettevano motivati
dalla curiosità e dalla propaganda efficace che Peul e Yarsé facevano di questa pratica (Mangin, 1921).
59
. Ad esempio, Pasquinelli cita l’influenza, in Somalia, delle correnti fondamentaliste islamiche, provenienti dell’Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, nel promuovere la sostituzione
dell’infibulazione con la meno invasiva sunna (Pasquinelli, 2000).
31
In Sudan alcuni gruppi nomadi praticanti la “sunna” (escissione di parte
del clitoride e/o prepuzio) hanno cominciato, a causa del contatto con le popolazioni circostanti, a praticare l’infibulazione (Gruenbaum, 2001)60.
Nel sud della Nigeria il tatuaggio realizzato con aghi sembra abituale ed è
praticato da professionisti che – a differenza di coloro che eseguono le scarificazioni – sono personaggi eccentrici e non propriamente “integrati”. Il tatuaggio si acquisisce in città e i clienti possono scegliere, a partire da modelli cartacei, le immagini che preferiscono. Possono essere realizzate anche delle
scritte (Adepegba, 1977). Tutto ciò richiama immediatamente i “tattoo studio”
occidentali, e l’ipotesi di Adepegba (ibidem) che questa tecnica sia dovuta ai
contatti (attraverso marinai o schiavi liberati) con l’Occidente sembra essere
più che plausibile.
In Nigeria, i Dagarba di Sankana hanno motivato la creazione di nuove
scarificazioni del viso dicendo che i segni di identificazione tribale avevano
perduto ragione d’esistere con la dominazione inglese e con la pace che regnava nella nazione (Armitage, 1924).
Talvolta l’acquisizione del tipo di fregio permanente dell’etnia vicina traduce un’amicizia e una ricerca di fusione. È il caso descritto da Abiola F. Iroko (1980) della scarificazione facciale degli Zarma, chiamata “kotti”. Essa fu
adottata da un principe songhay (discendente della dinastia reale del regno di
Gao) riconoscente verso gli Zarma che, nel Diciannovesimo secolo combatterono al loro fianco contro le invasioni marocchine e tuareg. Un caso come
questo invita alla prudenza nell’interpretare la comunanza delle scarificazioni
come prova di una comunanza etnica.
I Dinka che vanno a vivere nella società Nuer per integrarvisi devono sottomettersi al rito di scarificazione, benché dotati già dei propri marchi (i Nuer
sostengono che le scarificazioni dinka non sono dolorose come le loro). In
questo modo, sulla loro testa, si avrà una sovrapposizione di segni etnici differenti61. Dunque, benché il segno che sanziona l’identità collettiva sia, in questo caso, incancellabile, attraverso la sovrapposizione di altri segni si ottiene
una modifica del suo valore iniziale di appartenenza.
In alcuni casi il contatto tra gruppi produce varianti. Così, secondo
l’interpretazione di Muller, tra i Dìì del Camerun, che come abbiamo visto
praticano una finta escissione, “tutto avviene come se – in virtù della prossimità geografica o dell’incorporazione delle donne gbaya nell’etnia Dìì, o per i
60
. Gruenbaum arriva a ipotizzare che l’infibulazione rappresenti, nella zona del Sudan in cui ha
svolto le sue ricerche, una sorta di “marker” di gruppi etnici privilegiati, emulato da coloro che
aspirano a uno status di classe più elevato (Gruenbaum, 2001).
61
. Comunicazione personale di Rupert Hasterok, antropologo che ha svolto ricerche in Sudan,
raccolta nel 1990.
32
due fattori congiunti – le donne Dìì avessero reinterpretato l’escissione gbaya
e deciso che non conveniva loro.” (Muller, 1993). Ugualmente, tra le varianti
nate recentemente, si annoverano in Sudan nuove tecniche di sunna e di infibulazione praticate da levatrici, dove si lascia intatto il clitoride (Gruenbaum,
2001).
In altri casi si può assistere ad una completa inversione del valore delle operazioni, quando il segno positivo del gruppo diventa un segno che ha un valore negativo È il caso testimoniato a Dasima (in Nigeria) dai marchi etnici,
scomparsi perché ricordavano i marchi imposti con la forza dai mercanti di
schiavi (Armitage, 1924). Allo stesso modo, in Sudan, alcuni Dinka scolarizzati portano protesi dentarie in sostituzione dei due incisivi inferiori che gli
erano stati estratti verso l’età dei sei-otto anni62.
In maniera analoga, in Francia, da alcuni anni le donne africane escisse
possono rivolgersi al chirurgo per un’operazione ricostruttiva del clitoride
(crf. Debras, 2006). Resta da verificare se tali operazioni, che noi definiamo
“ricostruttive”, siano unicamente da considerarsi tali o non possano invece
anche avere, per le donne che vi si sottopongono, un valore “integrativo” nei
confronti della società in cui desiderano inserirsi. Ma va sottolineato anche
come alcune donne, durante tali operazioni, rivivano angosciosamente i ricordi dell’escissione (Debras, 2006): chi ci dice, dunque, che tale operazione non
sia dunque anche l’ennesima di una serie di interventi che rendono la donna
progressivamente conforme al suo ruolo, alla sua immagine eventualmente
anche di partner sessuale? Solo una ricerca specifica, e l’ascolto delle voci di
queste donne, potrà mettere in luce il senso da attribuire a queste pratiche ricostruttive.
Nel caso i segni siano l’espressione di uno status, essi talvolta sembrano
sfuggire al loro destinatario previsto, diffondendosi all’esterno del gruppo dei
detentori ufficiali. Così i marchi iniziatici maschili possono essere, in alcuni
casi, adottati dalle donne. In alcuni gruppi dinka, ad esempio, le scarificazioni
della testa che i ragazzi ottengono nel corso dell’iniziazione possono essere
acquisite per libera scelta da alcune ragazze, per vanità o per la volontà dei
genitori desiderosi di procurare loro dei pretendenti agiati (Caravita, 1968).
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, solo una parte degli uomini portava ancora questi incancellabili ricordi iniziatici, poiché la pratica era sempre
più abbandonata dalle popolazioni scolarizzate: si diceva allora che una donna
scarificata non potesse sposare un uomo che non lo fosse, altrimenti si sarebbe
rischiato che fosse lei a comandare in famiglia63.
62
63
. Comunicazione personale di Rupert Hasterok, raccolta nel 1990.
. Comunicazione personale di Rupert Hasterok, raccolta nel 1990.
33
Un caso inverso è invece riscontrato tra i Peul del Senegal, dove il tatuaggio che, come già si è visto, attiene principalmente al dominio femminile, talvolta è adottato anche dagli uomini. Coloro che si sottomettono a questo doloroso rituale al fine di rimediare a un difetto naturale di pigmentazione delle
labbra, oppure per semplice vanità, saranno molto apprezzati dalle donne, ma
oggetto di scherno da parte degli altri uomini.
È utile anche menzionare il fatto che in diversi paesi africani nuovi riti sono stati creati recentemente con l’intento di sostituire le operazioni sui genitali
delle donne con pratiche culturali che lasciano intatto il loro corpo, oppure, in
altri casi, con operazioni che tendono a proporre versioni meno invasive di
quelle tradizionali. E questo al fine di arrivare a una graduale interruzione delle pratiche stesse. Si parla allora dei cosiddetti “riti alternativi” o di “operazioni simboliche” (Grassivaro Gallo, Fusto, 2005).
Gruenbaum cita in Kenia, la “circoncisione con le parole” dove nel corso
di una settimana di reclusione le ragazze vengono istruite sul loro futuro ruolo
di donne (Gruenbaum, 2001). Cristiana Scoppa (2005) fornisce l’interessante
descrizione di un rito alternativo collettivo in Gambia, dove viene piantato ed
affidato un albero ad ogni madre, ed ad ogni bambina vengono consegnati dei
regali. In Mali si assiste, nel 1996, alla creazione di una grande cerimonia di
“deposizione dei coltelli” da parte di venticinque exciseuses, alla presenza dei
rappresentanti di Ong internazionali (Bellas Cabane, 2001-2002). Un rito alternativo all’infibulazione, in Somalia, viene descritto da Mana Sultan e Pia
Grassivaro Gallo (2005) nelle sue successive trasformazioni. Proposto dapprima sotto forma di un’escissione ridotta rispetto all’infibulazione (sunna
gudnin), esso si trasforma in una puntura del clitoride, diventando infine una
simulazione dell’operazione: un infermiere/a (oppure un’ostetrica tradizionale), si reca nella casa della neonata, ma non pratica in realtà nessuna puntura.
Questo verrà rivelato alla bambina quando sarà più grande.
Se alcuni riti vengono creati esplicitamente ex novo, altri, che si ripropongono come versioni modificate dei riti tradizionali, celebrano molto positivamente il cambiamento e l’innovazione, esplicitandoli in quanto tali nel corso
della cerimonia. Così, ad esempio, nel caso somalo appena citato della sostituzione dell’infibulazione con la sunna, alla fine della festa un momento importante è costituito dalla dichiarazione che le donne fanno riguardo alla scelta di praticare la sunna e non l’infibulazione. In tal modo, a mio avviso, il
cambiamento viene integrato nel senso globale del rito e valorizzato in quanto
tale. Tali esempi mostrano bene come la tradizione sia un processo continuamente in fieri, e possa essere qualcosa di tutt’altro che immutabile e ineluttabile.
34
Tali riti di sostituzione simbolica sono stati proposti anche in Europa, dove
tuttavia il valore della sostituzione – in una società dove tali pratiche non sono
tradizionalmente presenti – rischia di assumere un significato totalmente diverso da quello che può assumere in un paese africano. La proposta di un “rito
simbolico alternativo” da parte del medico somalo Abdulcadir Omar Hussen
nell’ambito del servizio sanitario fiorentino ha suscitato violente reazioni e
polemiche. Non intendo qui discutere dell’opportunità di tale proposta (realizzata con l’intento, è bene ricordarlo, solo di una “riduzione del danno”, e non
certo di una diffusione della pratica), che ha già suscitato un’ampia letteratura
ed è comunque stata bocciata. Vorrei solo proporre qui qualche osservazione
riguardante specificamente il funzionamento di tali “simboli” sostitutivi, e le
concezioni di simbolismo che sembrano esservi sottese.
Le polemiche concernenti le operazioni di sostituzione simbolica si sono
arenate, a mio avviso, su una concezione un po’ naïf del simbolismo: l’idea
che esso risponda ad un codice immutabile, e che possa prescindere da un
supporto materiale. La proposta di Hussen, malgrado quello che è stato asserito al proposito, non conservava affatto intatto il simbolismo della pratica (si è
spesso discusso nell’ambito di tale polemica, dell’opportunità o meno di
“mantenere il simbolo”). Nel momento in cui al posto di un’amputazione viene praticata una puntura con anestesia locale, i significati sono già totalmente
modificati – seppure nella cornice di una continuità, necessaria a proporre
questa pratica come una forma di mediazione culturale o se vogliamo di transizione culturale. Ed è in questo significato mediatore che si esplica, a mio
avviso, il simbolismo di tale pratica sostitutiva. A più riprese, i semiologi e gli
antropologi hanno mostrato come il simbolismo sia un dispositivo cognitivo
che permette la costruzione e l’organizzazione dei significati e non
un’associazione fissa di un significato a un significante. Inoltre esso è spesso
strettamente correlato al supporto materiale che lo alimenta, dunque non appare verosimile che ad una variazione del significante possa corrispondere una
sostanziale immutabilità del significato associato.
In questa arena ormai internazionale, dove movimenti locali di donne africane
si coordinano e interagiscono con movimenti internazionali (ad esempio Ong
e Oms) sul tema delle Mgf64, dove molti governi di paesi di lunga tradizione
escissoria o infibulatoria hanno recentemente preso posizione contro le pratiche di Mgf65, è bene ricordare che il significato attribuito alle pratiche è comunque variabile e ancora oggetto di negoziazione all’interno dei vari paesi.
64
65
. Riguardo ai movimenti internazionali contro le Mgf, cfr. Walley,1997 e Livio, 2000.
. Sul dibatto globale sulla questione Mgf, cfr. Walley, 1997.
35
Possiamo immaginare che il discorso ufficiale proposto dai governanti possa
non ritrovare un eco immediato nei villaggi africani della “brousse”66. Vanno
citate situazioni localizzate in cui è presente un doppio discorso, uno ufficiale
e uno più nascosto oppure semplicemente informale. Autrici come Christine J.
Walley in Kenia e Bellas Cabane in Mali lo testimoniano.
Bellas Cabane, pediatra francese, racconta il suo incontro, in Mali, con un
gruppo di exciseuses “pentite” e “riconvertite” alla fabbricazione di sapone.
Le loro risposte stereotipate, arricchite di dettagli raccapriccianti, le davano
l’impressione di essere state imparate a memoria. In seguito alla loro richiesta
di tessuti, in cambio della loro disponibilità a riceverla, l’autrice, sempre più a
disagio per la situazione, si trae d’impaccio proponendo invece in cambio una
visita pediatrica gratuita ai loro bambini. La proposta viene prontamente accolta e l’autrice si trova davanti, tra gli altri casi, alla sorpresa di due bambine
di nove e quindici mesi con un’infezione delle ferite procurate da
un’escissione recente. Questo “incidente”, sconcertante e significativo, ha
permesso poi alla pediatra e alle donne presenti di creare una situazione di vero scambio e dialogo (Bellas Cabane, 2001-2002).
Walley, antropologa statunitense che insegnava nel 1988 in una scuola di
un villaggio keniota, raccoglie in classe testimonianze scritte sulla pratica della clitoridectomia – vietata dal 1982 – ma ancora eseguita nel contesto di un
rituale collettivo. Alcune studentesse asseriscono, in questi temi, che “la pratica era cattiva perché proibita dal presidente Moi e dalla cristianità” (Walley,
1997). In un contesto meno formale, altre studentesse, commentando le foto
prese dalla loro insegnante durante le loro proprie iniziazioni, esprimevano
pareri differenti, tra cui l’importanza di tale pratica (ibidem).
Qual è la forza di questa tradizione, così radicata, che resiste anche al discorso biomedico e a quello delle autorità ufficiali? Sembra opportuno, nel
panorama attuale, tenere presente e fare i conti con l’esistenza di questo doppio discorso, o di questa pluralità di voci (dipendenti anche dal contesto, pubblico o privato), ed essere consapevoli della difficoltà di una ricerca antropologica sui significati di tali pratiche. Queste, qualora bandite ufficialmente,
risultano ancora esistenti, in maniera più o meno sommersa, a seconda dei paesi e dei casi.
66
. Questa è stata la mia esperienza personale. Nel 1991 sono stata condotta, a sorpresa, mentre
mi trovavo in un villaggio del Burkina Faso molto distante dalla capitale, ad assistere
all’escissione di una neonata, quando campagne di sensibilizzazione contro la pratica, erano già
state avviate da tempo. Segno certo che le campagne ufficiali non arrivavano neanche a ottenere il debole effetto di nascondere le pratiche, ancora effettuate.
36
2.5 Genere, dominazione maschile e violenza
Non è possibile ripercorrere in questa sede la letteratura antropologica riguardante il tema della dominazione maschile e quello della violenza. A tal proposito vorrei comunque limitarmi a sottolineare brevemente alcuni punti connessi alla tematica in oggetto, e in particolare alla variabilità dei significati delle
operazioni sul corpo, problematici e dunque interessanti.
Come si è visto, il marchio indelebile non corrisponde necessariamente ad
una forma di controllo della società sull’individuo, e la volontà dell’individuo
di acquisire il segno sembra, in diversi casi, tutt’altro che secondaria. Le medesime osservazioni possono essere compiute anche in relazione ai segni specifici al genere.
Diversi studi sulle modificazioni genitali femminili hanno suggerito che
interpretare tali pratiche come una forma di dominazione maschile è una semplificazione riduttiva (Gruenbaum, 2001; Couchard, 2003)67. Il marchio naturalmente può corrispondere a forme di potere sul corpo femminile, ma esso
può costituire, in alcuni casi, anche una forma di potere per chi lo acquisisce
(MacCormack, 1994; Bellas Cabane, 2001-2002). Alcune donne somale intervistate, residenti in Italia, hanno sottolineato con fierezza la loro autonomia
evidenziando come possano circolare liberamente senza dover essere accompagnate dai mariti, come invece accade alle donne egiziane: “da noi uomo e
donna sono uguali!» 68. Una di loro così ha commentato la loro condizione
“privilegiata”: “abbiamo barattato la nostra libertà con... [l’infibulazione]”69.
Da diversi esempi sembra emergere l’idea che il controllo corporeo possa, in
alcuni casi, essere inversamente proporzionale al controllo sociale sulla persona (diversamente da ciò che suggerisce la tesi di Mary Douglas).
Il controllo della fecondità sarebbe all’origine della dominazione maschile:
poiché gli uomini non possono procreare, tenderebbero ad appropriarsi di tale
potere esercitando un controllo sulle donne (Héritier, 1996; 2002). Se si considerano alcuni esempi etnografici si vede come la serie di operazioni eseguite
successivamente sul corpo femminile sembra convergere verso il parto (che
spesso viene evocato a vario titolo nelle operazioni) e/o costituire una preparazione al matrimonio (cfr. ad esempio i casi già descritti supra, Lallemand,
1986; MacCormack, 1994; Cartry, 1968; Villeneuve, 1937). In diverse popo67
. Gruenbaum fa notare che la maggior parte delle culture che non praticano le modificazioni
genitali femminili sono patriarcali, ed è difficile dunque stabilire una relazione causale diretta
(Gruenbaum, 2001).
68
. Intervista realizzata nel corso di questo lavoro, nel 2005.
69
. Intervista realizzata nel corso di questo lavoro, nel 2005.
37
lazioni l’operazione della clitoridectomia è motivata dal timore che il clitoride
possa ostacolare il parto, oppure nuocere, per contatto, al neonato (Michèle
Cros, 1990; Bellas Cabane, 2001-2002). Secondo Babatunde, che riprende
l’interpretazione dell’escissione del prepuzio fornita dalle donne Kétu, questa
operazione rappresenterebbe una sorta di offerta sacrificale in cambio della
fecondità (Babatunde, 1998). E l’accesso al matrimonio, in effetti, sembra essere uno dei problemi cruciali da affrontare in molti paesi dove viene promossa la cessazione della pratica di operazioni sui genitali, in quanto si teme che
la donna non operata non riesca sposarsi (cfr. Gruenbaum, 2001:). Pasquinelli
(2000; 2001) mette direttamente in rapporto tali pratiche con il sistema di
scambio matrimoniale e con quell’istituzione chiamata “il prezzo della sposa”
(brideprice o bridewealth). Nella sua interpretazione ciò che è implicato e valorizzato nello scambio matrimoniale è la verginità e l’integrità della donna.
Tuttavia questa interpretazione non sembra applicabile per tutte le società,
specie in quelle dove la verginità non è oggetto di una valorizzazione. Il tema
delle fecondità sembra comunque costituire un nodo centrale nelle pratiche di
modificazione dei genitali femminili, anche se questo non permette ancora di
conferire un significato uniforme a tali pratiche.
L’interpretazione che vede una simmetria tra escissione e circoncisione maschile è stata criticata a più riprese da diversi antropologi (Sindzingre, 1977;
Fainzang 1985; Héritier, 2002). La questione sembra essere quello di un “di
più” e di un “di meno” implicati dalle operazioni (cfr. Héritier, 2002; Fainzang, 1985): ciò che costituisce problema, e che dunque deve essere eliminato
nel corpo femminile, è un turgore, quello rappresentato dal clitoride, che deve
attenere solo al sesso maschile e che per contro viene messo in risalto dalla
circoncisione. Tale turgore corrisponderebbe alla “potenza virile”, alla forza,
che dovrebbe rimanere una prerogativa del genere maschile70. Se l’escissione
non è la causa della dominazione maschile, essa ne può nondimeno essere
considerata un sintomo (Héritier, 2002). L’ipotesi sembra dunque sovrapporsi,
almeno parzialmente, con quella presente nel senso comune. Tuttavia è bene
ricordare come l’esistenza di modificazioni genitali espansive, diffuse nella
zona africana dei Grandi Laghi (Malawi, Uganda), sembri andare nel senso
70
. Waris Dire, fotomodella somala, scrive: “Gli uomini mi hanno derubato, tolto la mia forza e
lasciata invalida” [...] Il mio scopo è quello di aiutare le donne d’Africa. Vorrei vederle diventare forti e non più deboli, poiché la pratica dell’escissione le indebolisce, sia fisicamente che
affettivamete” (Dirie, Miller, 1998: 279) .
38
opposto, creando una tumescenza comparabile a quella del pene eretto (Couchard, 2003; Bettelheim, 1971)71.
Se in diverse popolazioni viene espressa l’idea che le operazioni sui genitali costituiscano un modo per controllare la sessualità femminile, in alcuni
casi tuttavia – e non solo quelli delle modificazioni espansive – tale controllo
non va necessariamente nel senso di una riduzione della sessualità. Presso alcune popolazioni si pensa infatti che l’escissione del clitoride possa produrre
un aumento del piacere sessuale (Bellas Cabane, 2001-2002; Droz, 2000). Il
controllo della fecondità, in effetti, non passa necessariamente per la soppressione del piacere femminile e/o attraverso la valorizzazione della verginità: in
diverse popolazioni dell’Africa sub-sahariana è testimoniato l’uso, codificato
dalla tradizione, di relazioni prematrimoniali. I bambini che nascono tali unioni temporanee vengono considerati a tutti gli effetti come “figli legittimi”
della coppia sposata (Fainzang, 1985; Oms, 1998).
Studi attuali, di stampo femminista e non, sembrano concentrarsi sempre più
sul gruppo delle donne e delle madri come principali autrici e sostenitrici di
pratiche di modificazione genitale femminile (Couchard, 2003; Ginsburg,
1991). Madri che provano ribrezzo, a volte loro malgrado, nella visione dei
genitali non operati delle proprie bambine, oppure madri che non osano vederli durante e dopo le operazioni (cfr. Bellas Cabane, 2001-2002; Pasquinelli,
2000). Couchard suggerisce che la rinuncia a tali tradizioni potrà effettuarsi
solo attraverso il gruppo delle donne unite (Couchard, 2003).
Ancora, è utile considerare come, anche per gli uomini, esistano prove dolorose, talvolta fortemente invasive, che permettono loro di diventare uomini
ed avere accesso al matrimonio. Società con discendenza patrilineare e a potere maschile, come ad esempio quelle australiane, hanno imposto tali prove agli uomini (MacCormack, 1994). Possono incidere anche considerazioni di
tipo estetico: come abbiamo visto, tra i Tiv l’uomo si scarifica per piacere
all’altro sesso. E, tra i Nuba, dove gli uomini non si scarificano, essi sono tenuti a pagare le scarificazioni alle loro mogli. Ciò non necessariamente esprime il loro potere: se non lo facessero, infatti, le loro mogli potrebbero ripudiarli e cercarsi un altro uomo72.
71
. Riguardo alle modificazioni genitali espansive, cfr. Grassivaro Gallo, Villa, 2004; White,
1953; Bettelheim, 1971; Roberts, 1986; Erlich, 1986. Si segnala inoltre l’intervento di Debora
Morob Modificazioni genitali femminili in Malawi: primo resoconto di un’indagine sul campo
alla Giornata di studio contro le pratiche tradizionali nocive alla salute delle donne, organizzata
presso il Dipartimento di psicologia generale dell’Università di Padova, il 4 maggio 2005. Atti
di prossima pubblicazione).
72
. Tra i Nuba è soltanto l’ultima, e la più dolorosa, delle scarificazioni – quella che dopo lo
svezzamento del primo bambino segna la ripresa di una vita sessuale attiva – che deve essere
39
Sono più cruente e frequenti le operazioni “culturali” sul corpo femminile
o su quello maschile? Sembra difficile stabilire un bilancio conclusivo di fronte alla gamma assai estesa delle pratiche esistenti o esistite. Sono segni di potere o di subordinazione? Anche questo non è così evidente. Probabilmente
sono “armi a doppio taglio”, e la modalità di acquisizione del segno, volontaria o meno, modifica di molto il loro valore e il loro significato.
Francesco Remotti, a proposito di tali interrogativi, accosta il pensiero di
due antropologi, David Gilmore e Marilyn Strathern. Secondo Gilmore (1993)
sarebbero soprattutto gli uomini ad avvertire l’esigenza della costruzione culturale del proprio genere, in alcune società proprio tramite prove cruente che
lasciano segni indelebili sul corpo (in altre il percorso di raggiungimento
dell’ideale di virilità non sembra essere strutturato). Questo perché l’uomo avrebbe, rispetto alla donna, un percorso di crescita meno strutturato dalla natura. Tale ipotesi, tuttavia, va integrata con altre considerazioni e non implica
affatto, secondo Remotti, che la donna sia “naturalmente costruita” o più vicina alla natura che alla cultura. L’equazione donna-natura è stata a giusto titolo
criticata, ad esempio da Strathern (1993). Risulta evidente, anche dagli esempi
etnografici sopra riportati, che gli avvenimenti biologici che riguardano il
corpo della donna sono oggetto di un’incessante elaborazione culturale e di un
trattamento sociale. Secondo Strathern la finalità di alcuni riti iniziatici da lei
osservati in Nuova Guinea sarebbe quella di “fare incompletezza”, ovvero di
rendere sostanzialmente diversi i due sessi, e dunque farli diventare complementari: proprio la loro incompletezza permetterebbe il loro incontro e la generazione di altri esseri umani (ibidem).
Remotti riprende da Strathern l’idea del “fare incompletezza”, reinterpretandola ed estendola, in qualche modo, alla cultura in generale. La cultura, secondo Remotti, crea incompletezza in quanto seleziona in maniera arbitraria,
tra le forme virtualmente possibili di umanità, una forma determinata. Essa,
quindi, “dà foggia” all’umano secondo modelli che possono essere morali ed
estetici, ma così facendo ne scarta altri, rinunciando ad altre forme di umanità.
In questa doppia dinamica della cultura – scegliere e scartare – si ritrovano i
germi di quella che appare essere la “violenza” o la “disumanità” di alcune
operazioni sul corpo, ad esempio durante le iniziazioni. Se la cultura viene più
che mai “incorporata” in tali pratiche, l’operazione di eliminazione di possibilità si traduce, in maniera cruenta, in tagli ed ablazioni, i quali esemplificano
in maniera concreta una componente della dinamica culturale. In tale prospetpagata all’operatrice. Abitualmente è il marito che si occupa del pagamento, altrimenti rischierebbe di essere rifiutato dalla moglie, che potrebbe sostituirlo con un altro uomo. È proprio con
la promessa di pagare queste scarificazioni che gli uomini possono “rubare” le donne ai loro
mariti (Faris, 1972).
40
tiva antropologica la disumanità (pensiamo a quante volte si parla di “barbarie” a proposito di Mgf) non è più la prerogativa dell’Altro, ma in qualche
modo viene riconosciuta come parte stessa della cultura, di tutte le culture.
Scrive Remotti:
Il “fare umanità”, è sempre, anche, un “fare disumanità”.[...] Gli esseri umani hanno
da costruire se stessi. Ma costruire comporta in primo luogo un’operazione di selezione a cui è impossibile sottrarsi, e quindi un eliminare, distruggere, far fuori una serie
di possibilità. […] C’è “violenza”, per quanto camuffata, nella soppressione delle
possibilità; c’è anche “crudeltà” nel modo in cui si induce o costringe ad abbandonare
l’infanzia (che è appunto l’insieme delle possibilità non ancora realizzate); c’è o ci
può essere “errore” nel prendere una strada, anziché un’altra […]. (Remotti, 2000:
160-161)
Le pratiche sul corpo che mirano al raggiungimento di un ideale, come altre
pratiche culturali, hanno dunque sempre una doppia valenza, propositiva e
“violenta”, costruttiva e mutilante. Si tratta solo di riconoscerlo, e di esserne
consapevoli. È dunque opportuno imparare a percepire, al di là della “naturalizzazione” delle nostre pratiche sul corpo, il loro valore costrittivo e talvolta
violento. La modificazione chirurgica di un seno a scopo estetico, ad esempio,
non può forse essere vista come una “mutilazione” di una parte del corpo sensibile e specificamente femminile, comparabile ad alcune pratiche di modificazione genitale?
La frontiera che stabilisce come situare una pratica, tra le “mutilazioni” o
tra i “perfezionamenti”, sembra essere mobile per natura, variando in funzione
del punto di vista. È dunque importante ricordare che essa varia anche in funzione delle situazioni di potere, di egemonia culturale o religiosa che si vengono a determinare73. È opportuno forse segnalare che i movimenti internazionali contro le pratiche nocive alla salute della donna hanno come riferimento il sapere biomedico, e che in alcuni paesi africani, nella sostituzione
delle pratiche di infibulazione con forme meno invasive, svolge un ruolo attualmente l’influenza di alcune correnti dell’Islam contemporaneo74.
Al termine di questo percorso antropologico risulta evidente la problematicità
di un’assegnazione unica di significato alle varie pratiche di modificazione
(genitale e non) del corpo. Emerge, inoltre, come i significati non siano im73
. Erlich sostiene che, nella nostra società, la circoncisione maschile non è abitualmente considerata una “mutilazione” in quanto è praticata nell’ambito di due religioni di rilievo; il termine
“mutilazione” potrebbe avere, in effetti, una connotazione ingiuriosa verso mussulmani ed ebrei
(Erlich, 1990).
74
. Sul tema, cfr. Pasquinelli, nota 68.
41
mutabili e come possano trasformarsi, assieme alle forme che li supportano.
Vorrei infine sottolineare, a conclusione di questo contributo, quali siano
l’importanza e l’utilità dell’antropologia nei progetti di intervento. Mi riferisco alla necessità di applicare un’ottica decentrata che permetta una migliore
comprensione dei contesti in cui le modificazioni del corpo vengono effettuate. La comprensione e l’ascolto infatti appaiono come il preliminare imprescindibile e indispensabile strumento per un qualsiasi progetto di intervento.
42
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