MISTICISMO E LOGICA - Dialettica e Filosofia

Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
MISTICISMO E LOGICA
di Raffaele Danese
1
Infatti queste cose, come sapete bene, me le
comanda il dio. E io non ritengo che ci sia
per voi, nella Città, un bene maggiore di
questo mio servizio al dio.
Socrate
Quelli della mia parte sanno bene che la
«voce» mi fu mandata da Dio, hanno visto e
conoscono questa voce. Anche il mio re e
molti altri hanno udito e visto le voci che
venivano a me.. vidi san Michele con gli
occhi del mio corpo, come vedo voi.
Giovanna d’Arco
L’ascesa sulla scala della mistica è molto
affine a quella speculativa. Si può
difficilmente tracciare una linea di
separazione tra questi due tipi di ascesa,
poiché quella mistica si muove in massima
parte sulla linea della speculazione.
Anders Nygren
1
Docente di Filosofia e Storia. [email protected]
1
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Il platonismo tra religione e politica
Nella celebre Scuola di Atene, opera realizzata da Raffaello tra il 1509 ed il 1511, il
Rinascimento ha fissato visivamente l’immagine dominante che, di Platone, il
pensiero occidentale si è costituito nei secoli. Il filosofo è, infatti, collocato al centro
della parte sinistra, ove è collocata pure la corrente orfico-pitagorica e tutti i
pensatori di orientamento mistico-religioso. Di fronte a lui, sempre al centro del
dipinto, è Aristotele, assieme ai filosofi della natura e agli scienziati, come il famoso
Tolomeo. Platone, che con la mano sinistra regge il Timeo, un trattato cosmologico
molto amato dagli umanisti, con la mano destra punta l’indice verso il cielo.
Aristotele invece, indirizza la mano verso il suolo, verso la superficie della terra. Il
significato è chiaro ed inequivocabile: Platone incarna la metafisica e, in genere, gli
interessi mistico-trascendenti; Aristotele invece, la scienza della natura e gli
2
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
interessi pratico-mondani, (non si dimentichi che, nel quadro, se Platone ha sotto il
braccio il Timeo. Aristotele regge l’Etica).
A partire da Plotino è, infatti, prevalsa
nel
pensiero
un’interpretazione
platonismo
una
occidentale
che
vede
filosofia
di
nel
natura
essenzialmente religiosa, tutta orientata
verso
la
Trascendenza.
Anche
la
patristica cristiana, influenzata proprio
dalla lettura neoplatonica, trasformerà
Platone
in
un
«Mosè
attico»,
un
pensatore pagano, inconsapevolmente
illuminato dalla Grazia. Pertanto la
scolastica medioevale scorgerà nella
filosofia platonica il pensiero religioso
per eccellenza, in cui l’immutabile e
l’eterno vengono contrapposti al mutevole ed al transeunte. Anche il Rinascimento
– e l’affresco di Raffaello è, al riguardo, esemplare – presenterà Platone come un
pensatore religioso e metafisico, sostenitore della presenza divina nel mondo. Sarà
solo nel novecento, però, che, accanto a questa lettura classica, emergerà una
nuova lettura del pensiero platonico, che ne privilegia l’aspetto politico, per cui il
fondatore dell’Accademia, diviene, più che il padre della metafisica occidentale, il
padre del totalitarismo moderno (si pensi, qui, alla interpretazione popperiana). In
realtà, noi oggi possiamo sostenere che queste due linee interpretative non si
escludono, bensì si integrano reciprocamente, proprio perché, come ben sottolinea
Giovanni Reale, esse meglio esprimono, se prese assieme, la poliedricità e la
polivalenza del filosofare platonico2. Prova ne sia la presenza, all’interno della
Repubblica, ovvero di un dialogo di natura politica, di un mito, quale il celebre mito
della caverna, in cui palesi sono i significati etico-religiosi. La caverna rappresenta,
G. Reale – D. Antiseri, IL pensiero occidentale dalle origini ad oggi. La Scuola, Brescia, 1983, Vol
I, p.97.
3
2
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
come è noto, il mondo materiale, il mondo oscuro ed illusorio, in cui gli uomini
vivono come prigionieri. Le immagini ed il linguaggio adoperati da Platone nel
costruire questo mito richiamano, per analogia, immagini e linguaggio del Fedone,
ovvero di uno dei dialoghi in cui il maggiore è il pathos religioso e spirituale
ispiratore; il lessico è esplicito: «prigionieri», «carcerati», «schiavi», «catene»,
«corpi immobilizzati» si dice degli abitanti della caverna. Analogamente, nel
Fedone, l’anima appare «tenuta stretta ed incatenata al corpo», «ogni piacere o
dolore inchioda l’anima al corpo, ve la conficca e la rende corporea», così che essa
«esce sempre dal corpo contaminata… e per questo non partecipe della
compagnia di ciò che è divino». Queste idee, che potremo, secondo l’analisi di Ugo
Bianchi, definire già «gnostiche»3, ci riconducono al mondo dei “misteri” e della
cosiddetta tradizione orfico-pitagorica, una tradizione mistico-religiosa che ha
esercitato un potente influsso sulla prima speculazione greca, fino al platonismo4.
La visione ed il logos
Da un punto di vista fenomenologico,
misticismo e logica, - binomio scelto da
Bertrand Russel come titolo di un suo
breve saggio del 1914, che abbiamo
voluto adottare come titolo anche di
questo nostro lavoro -, sembrano porsi
come due modalità di esperienza della
coscienza completamente opposte ed
antitetiche. Mentre infatti il logico parte
dal mondo fenomenico così come esso
3
Cfr. U BIANCHI, Il dualismo. Saggio storico ed etnologico. Ed. del’Ateneo, Roma, 1983, p.13-53.
ID. La religione greca UTET, Torino, 1975, p.153-7 e 209-39. Interessante, al riguardo, può essere
anche E.R.Moreau:
Dodds: I greci
e l’Irrazionale,
Gustave
Apollo
e satiri la Nuova Italia, Firenze, 1978, che, però, nega l’esistenza
di una vera “tradizione orfica”, considera Pitagorica «uno sciamano» e pone il platonismo
all’origine del «puritanesimo»
4
Non è, come si è detto – v. nota precedente – la posizione di tutti gli studiosi, ma è sicuramente
la tesi di Ugo Bianchi e Giovanni Reale, che a noi sembra la più convincente. Di quest’ultimo si
veda, sulle dottrine orfiche, il 1° volume della Storia della filosofia greca e romana, Ed. Bompiani.
4
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
è, e cerca di comprenderlo attraverso procedure di tipo discorsivo, il mistico al
contrario è animato da una «fede nell’intuito contrapposto alla conoscenza analitica
deduttiva: la fede in una forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva, in
contrasto con lo studio lento e fallibile delle apparenze esterne»5. Si parla, al
riguardo e non a caso, di illuminazione mistica, di immagini o «visioni» che
permettono alla mente umana di intuire, letteralmente, la verità, ovvero di «andar
dentro» (intus-ire) le cose stesse, cogliendone l’intima e vera natura; superando,
così, quelle barriere e intermediazioni che la ragione analitico-discorsiva,
inevitabilmente, incontra sul proprio cammino. Il mistico è, perciò, colui che «vive
nella luce piena della visione: ciò che gli altri cercano faticosamente egli lo sa,
grazie ad una conoscenza al cui confronto ogni altra conoscenza è ignoranza»6.
Soprattutto, la conoscenza basata sui sensi rischia di essere, dal suo punto di vista,
una pseudo-conoscenza che conduce solo nel pantano dell’illusione. Ecco come
una mistica famosa, Teresa d’Avila, descrive la sua esperienza:
La verità a cui faccio riferimento nel dire d’averla capita è
l’essenza della Verità, senza principio né fine, da cui
dipendono tutte le altre verità, come tutti gli altri amori da
questo Amore e tutte le altre grandezze da questa
Grandezza, benché sia un parlare oscuro il mio, in
confronto alla chiarezza con cui il Signore si degnò di
farmi intendere tutto ciò. 7
La rivelazione di cui beneficia il mistico è connessa ad una realtà che sta dietro ed
al di sopra del mondo fenomenico: «Questa realtà viene guardata con
un’ammirazione che spesso giunge all’adorazione; si sente che è sempre ed
ovunque a portata di mano, appena velata dalle manifestazioni dei sensi, pronta,
per la mente ricettiva, a risplendere in tutta la sua gloria nonostante l’evidente follia
e malvagità dell’uomo».8
5
B. Russel, Misticismo e logica, Longanesi, Milano, 1970, p.9.
Ibidem, p.10.
7
T. d’Avila, Libro della mia vita, Mondadori, Milano 1986, p.352.
8
B. Russel, op.cit., p.10
5
6
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Tale realtà però – ecco l’aspetto decisivo e caratterizzante dell’esperienza mistica –
non è facilmente esprimibile in concetti, tramite un normale e usuale discorso. Nel
brano sopracitato, abbiamo sentito come Santa Teresa dichiari come il suo «sia un
parlare oscuro», in confronto alla chiarezza della visione soprannaturale. Ecco il
punto: l’ineffabilità dell’esperienza mistica, la sua intraducibilità in un linguaggio di
tipo ordinario. E ciò perché l’esperienza del mistico, a differenza della comune
esperienza, e del linguaggio su di essa costruito, è una esperienza straordinaria
che solo lui vive e comprende pienamente.«Possiamo avvicinarci alla sua
esperienza – osserva R.A. Gilbert – in virtù dell’analogia e dell’enfasi sull’intensità,
ma non possiamo coglierne il nucleo, perché è, prima di tutto, la sua esperienza, e
non potrà mai essere la nostra; possiamo avere anche noi esperienze dello stesso
genere, ma non sarà grazie alle parole che le riconosceremo»9. Emblematica,
ancora una volta, questa dichiarazione di Santa Teresa:
Io vorrei poter dare un’idea del meno che vedevo, ma
pensando come riuscirvi, trovo che è impossibile, perché
solo la differenza tra la luce che vediamo qui e quella che
appare lì, dove tutto è luce, non permette alcun confronto;
di fronte ad essa perfino la luce del sole sembra molto
offuscata.
Insomma,
neanche
la
più
raffinata
immaginazione riuscirà mai a raffigurarsi e a descrivere
non solo quella luce, ma neppure una delle grandi
meraviglie che il Signore mi ha svelato, dandomi, insieme,
un così straordinario diletto, che non si può esprimere,
essendo tutti i sensi pervasi da un godimento di tale alto
grado e di così gran dolcezza che non ci sono parole a
dirlo, e pertanto è meglio non aggiungere altro. 10
Credere e dimostrare
9
10
R.A. Gilbert, Il misticismo, Xenia, Milano, 1994, p.92
T.D’Avila, op. cit., p. 326
6
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Poste
tali
premesse,
misticismo
ha
un
esito
decisamente
razionalistico
il
non
ed
anche
(conseguentemente)
intellettualistico:
anti-
per
la
fermezza con cui sancisce
la veridicità dei contenuti
della propria esperienza, la
fede
mistica
toglie
alla
dimostrazione razionale il
valore di garanzia assoluta
ed
esclusiva
di
verità,
divenendo il fondamento di
una verità più alta, che le
normali e profane capacità
Carl Bloch:Sermone della montagna.
dell’uomo
non
sono
in
grado di ottenere e produrre. Muta, di conseguenza, la gerarchia dei saperi e delle
relative verità: per il mistico il primato spetta sicuramente alle verità di fede, per il
razionalista alla scienza di tipo analitico – dimostrativo. Per quest’ultimo le verità
religiose sono problematiche, (ed anche fortemente dubbie), proprio perché non
prevedibili e spiegabili razionalmente. Per il mistico, invece, che guarda il mondo
sub specie aeternitatis, le verità religiose appaiono certissime, incontrovertibili,
addirittura più certe delle verità scientifiche. Ecco allora che misticismo e logica si
sono storicamente concretati (almeno nella cultura occidentale moderna) in due tipi
umani completamente diversi: il mistico, o il santo, o il veggente, e l’intellettuale
razionalista, di orientamento scettico ed empirista, al punto che se essi decidessero
– come si dice, in ossequio al politically correct oggi dominante – di voler e dover
ad ogni costo «dialogare», l’unico risultato sicuro sarebbe un dialogo tra sordi. Ciò
nonostante, esiste in tutto il pensiero occidentale, (anche in quello moderno, che di
primo acchito sembrerebbe completamente alieno da un approccio misticheggiante
7
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
e spiritualizzante alla realtà), una commistione implicita e “segreta” tra queste due
forme di relazione conoscitiva con le cose. Interessante, ci sembra al riguardo,
quanto afferma Jean Guitton:
Colpisce ritrovare in Socrate, Platone, Plotino, ma anche
nei filosofi razionalisti come Descartes, Leibniz, Spinoza e
Kant nello loro origini e fonti nascoste uno stato mistico o
qualcosa di analogo. Sono ricadute concettualizzate di
esperienze di tipo mistico. 11
Dunque anche in talune esperienze filosofiche moderne, e proprio in quelle che
costituiscono le prime tappe del processo di secolarizzazione culturale, il
misticismo è presente come in nuce, come un impulso oscuro ed iniziale alla
ricerca, poi sommerso e occultato dal profluvio dei concetti e dei ragionamenti. Più
evidente e palese la sua presenza è, invece, all’interno del pensiero greco-antico:
Socrate, Platone e Plotino, nominati da Guitton, hanno elaborato quella che
potremo anche chiamare “una mistica della ragione”. Nelle Enneadi Plotino parla
espressamente dell’estasi e della visione, da parte dell’anima umana, dell’Uno,
come egli lo definisce, cioè del principio metafisico assoluto. Afferma di aver avuto
diverse volte tale esperienza straordinaria che, in fondo, è lo scopo ultimo della
filosofia. Ma anche Platone – e torniamo all’argomento del presente saggio - non
sembra essere estraneo a tale esperienza, come attestano il Fedro e, soprattutto, il
Simposio (questa sorta di Itinerarium mentis in Deum della grecità classica). Già
dal discorso sin qui sviluppato dovrebbero essere evidenti le analogie tra il pensiero
dei mistici e quello di Platone: la verità come una visione che si dischiude agli occhi
dell’anima (visione che, pertanto, costituisce l’atto “spirituale”, o razionale –
conoscitivo per eccellenza), la fede in una realtà posta altre le illusorie apparenze
sensibili e che costituisce la realtà vera, infine, (e lo analizzeremo meglio tra breve,
proprio esaminando il più famoso mito platonico, quello della caverna), il profondo
cambiamento morale, indotto nella persona da tale esperienza interiore.
11
J. Guitton, Poteri misteriosi della fede, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.402.
8
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Il mito della caverna
Che il più famoso mito platonico abbia un significato di tipo mistico, nel senso che
esso esprima, o sottenda, un’esperienza di questo tipo, è chiaramente dimostrabile
osservando come, quando i mistici tentano di esprimere e di rendere, nei limiti del
possibile, comprensibile la loro esperienza, ricorrono alle stesse identiche immagini
del mito platonico. Ecco una testimonianza riportata da R. A. Gilbert:
«O stolti (dissi), coloro che preferiscono la notte oscura
alla vera luce e vivono in grotte e caverne, e odiano il
giorno perché mostra loro il cammino, il camino che da
quella dimora morta e oscura conduce a Dio un cammino
dove puoi seguire il Sole ed essere ancora più luminoso.
Ma siccome avevo così ingiuriato la loro follia uno allora
sussurrò: Questo Anello lo sposo lo ha forgiato per non
darlo a nessun altro se non alla sposa».12
Chi parla così è appunto, un mistico il quale aveva creduto che chiunque potesse
raggiungere l’Assoluto, il Divino, salvo poi rendersi conto che è necessario la
Grazia. (Platone, invece, penserà che è necessaria la Grazia della Dialettica,
ovvero il ragionamento epistemico concesso solo ed unicamente agli uomini
«aurei», cioè ai filosofi, uomini «pneumatici» o spirituali per eccellenza, elìte
dell’intera umanità)
Ma vogliamo, ancora e nuovamente, citare l’autobiografia di Santa Teresa, alcuni
brani della quale evocano spontaneamente celebri pagine platoniche, soprattutto
quelle in cui i beni autentici e duraturi dell’anima, vengano contrapposti ai beni falsi
ed effimeri del corpo. Anche per la Santa la verità che si dischiude alla
contemplazione dell’anima è un sole, un «sole di giustizia che la costringe ad aprire
12
R.A. Gilbert, op.cit. p.54-55
9
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
gli occhi»13. E a questo punto «l’anima vede anche l’accecamento che procurano i
piaceri, le inquietudini e gli affanni che con essi si comprano già in questa vita»14.
Si verifica, perciò, una metánoia, una «conversione», che rovescia la prospettiva
comune sul mondo e sulla felicità, e che la fa vergognare profondamente della vita
sin lì condotta15. Allora, proprio come il prigioniero della caverna platonica il quale,
dopo che ha visto ed ammirato il sole, compatisce coloro che vivono nell’illusione, scambiata per unica e vera realtà, solo perché non si è visto altro, - così si
comporta che è stato baciato dalla Grazia divina16. E proprio come il prigioniero
platonico, una volta che è stato liberato dalle catene ed aver contemplato il Sole,
non tornerebbe mai nelle basse ed oscure profondità della materia, se non fosse
spinto da un senso etico del dovere e dalla necessità di aiutare gli altri17, così il
mistico cristiano non può non rendere gli altri partecipi della Verità:
L’anima mia, dopo queste visioni, avrebbe voluto
starsene sempre lassù, e non tornare più a vivere nel
mondo, di cui le era rimasto un gran disprezzo per tutto.
Mi sembrava spazzatura, e capisco quanta bassezza sia
da parte nostra fermarsi a occuparsene. 18
Ma Dio stesso gli affida la missione di annunciare e di testimoniare quella verità
che, per grazia, gli ha rivelato:
Una volta rimasi più di un’ora in questo stato, durante il
quale mi sembrava che il Signore mi facesse vedere cose
meravigliose, standomi molto vicino, finché mi disse
13
T. d’Avila, op. cit., p. 171.
Ibidem, p. 170.
15
Ibidem, p.25,26 e 169
16
Ibidem, p.169-70 e 320-327
17
Platone, Repubblica, 519C-520A
18
T. d’Avila, op. cit., p.327
14
10
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
«Guarda, figlia mia, che cosa perdono coloro che mi sono
nemici. Non tralasciare di farglielo sapere».19
E del resto, egli steso è spinto da sincero amore verso i suoi simili; non teme perciò
nulla: irrisione, persecuzione, morte; solo l’annunciò di quella «Verità», che egli ha
già contemplato e da cui dipende la vera vita ed il destino di tutti gli uomini, diviene
sommamente importante:
Oh, Signore! Se voi mi deste modo di proclamarlo a gran
voce, non mi crederebbero lo so, come non credono a
molti che lo sanno dire ben diversamente da me, ma io,
almeno ne rimarrai soddisfatta. Mi sembra che, pur di far
conoscere una sola di queste verità, terrei in poco conto
la vita. 20
Ed ancora:
Tutto consiste nell’arrischiare la vita, ch’io molte volte
desidero perdere, e sarebbe avventurarsi a guadagnar
molto per poco prezzo, perché non si può vivere vedendo
con i propri occhi il grande inganno in cui si è indotti e la
cecità che ne consegue. 21
Così pensarono, così agirono, e così morirono, Socrate e Santa Giovanna d’Arco,
«logico» l’uno, «mistica» l’altra.
La follia della Croce
Il cristianesimo delle origini ha vissuto sulla propria pelle, tutto il contrasto che
esiste tra l’approccio mistico e l’approccio razionale alla realtà. Gli Atti degli
Apostoli raccontano, al capitolo 17, l’incontro di San Paolo con i filosofi di Atene:
dopo essersi imbattuto in dei pensatori stoici ed epicurei, viene condotto
19
Ibidem, p. 326
Ibidem, p. 172.
21
Ibidem, p. 173
20
11
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
all’Areopago dove, ritto davanti ad un altare consacrato «Al Dio ignoto», espone i
fondamenti della nuova fede alla quale egli, giudeo e fariseo, si era convertito.
Finché si limitò a parlare di un Dio unico, raccontano gli Atti, tutti i presenti lo
ascoltarono, ma non appena essi «sentirono parlare di resurrezione dei morti»,
ecco che si opposero, addirittura schernendolo. E proprio in seguito a tale
esperienza che, poco dopo, Paolo visita la comunità di Corinto «con timore e
tremore», timore suscitato senza dubbio dall’amara esperienza di Atene. Ma ciò
Andra Mantegna:Crocifissione.
nonostante egli predica la verità del Vangelo in modo chiaro e forte, perché non
teme la «sapienza del mondo»:
Annunziamo, si, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma
una sapienza non di questo mondo, né dei prìncipi di
questo mondo che vengono annientati; annunziamo una
sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo
nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la
12
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
nostra gloria. Nessuno dei prìncipi di questo mondo l’ha
conosciuta;
se
l’avessero
conosciuta,
non
avrebbe
crocefisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Cosa
che occhio non vide, né orecchio udì né mani entrò in
cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per quelli che lo
amano. Ma a noi l’ha rivelato mediante lo Spirito; lo Spirito
infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. 22
All’origine
di
ogni
rivelata
vi
religione
è,
fenomenologicamente
e
secondo la magistrale analisi di
Rudolf Otto, un’esperienza di
irruzione mondana del Divino,
percepito
come
«totalmente
Altro» e, perciò, inquietante,
“numinoso” in quanto mysterium
tremendum
cristianesimo
23
. Nel caso del
tale
irruzione
coincide con la vita del suo
fondatore, Gesù di Nazareth,
che per coloro che si professano
cristiani è «Dio fatto uomo»; tale
divinità, però si è manifestata
Caravaggio:Conversione di Saulo.
pienamente solo al momento
della resurrezione; solo allora, a
coloro che lo seguivano, Gesù è apparso anche come il Cristo, solo allora le sue
parole, spesso fraintese, sono state colte nel loro vero significato. Il Mysterium
tremendum del cristianesimo è, perciò, il suo «mistero pasquale»: esso ha,
22
23
I Corinzi, 2,6-10
R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 15-98.
13
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
letteralmente, aperto gli occhi della comunità evangelica, suscitando fede,
speranza, ma anche paura; il “numinoso” infatti è sempre “tremendo”, e perciò,
quando sul sepolcro vuoto siede un angelo simile alla folgore, i soldati di guardia
sono sconvolti e tramortiti, ed anche le donne che, dal sepolcro portano la notizia ai
discepoli, appaiono «piene di gran timore e di grande gioia insieme» (Matteo, 28,8)
Il secondo capitolo degli Atti, al versetto 43, così si esprime:
Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni
avvenivano per opera degli apostoli.
Se la manifestazione del Divino, nella persona stessa di Gesù, è all’origine della
comunità cristiana, un’esperienza mistica – una visione accecante ed una voce – è
all’origine della conversione di Saulo; è la famosa esperienza sulla via Damasco.
Ed è a partire da
questa esperienza sconvolgente che egli, da fanatico
persecutore, diviene apostolo del cristianesimo. La verità che, allora, viene da lui
proclamata, sembra sfidare tutti quei parametri che, per l’epoca, potevano essere
definiti «logici». Citiamo, ancora, le sue parole:
La parola della croce è infatti stoltezza per quelli che
vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi,
è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la
sapienza dei sapienti, e l’intelligenza degli intelligenti
riproverò. Dov’è il sapiente?. Dove lo scriba?Dove
l’intellettuale di questo mondo? Non ha forse Dio
dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché
infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo non conobbe
Dio con la sapienza, piacque a Dio di salvare quelli che
credono con la stoltezza della predicazione. E mentre i
Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza,
noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo per i Giudei,
stoltezza per i pagani; ma per i chiamati, sia Giudei sia
Greci, è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. Poiché
la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la
debolezza di Dio è più forte degli uomini. 24
24
I Corinzi, 1,18-25
14
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Le parole di San Paolo sembrano portare ad un esito che, in termini filosofici,
potremmo definire di un estremo anti- intellettualismo, od anche di irrazionalismo.
Nessuno si illuda! Se uno pensa di essere sapiente tra di
voi in questo mondo, si faccia stolto per diventare
sapiente; perché la sapienza di questo mondo è follia
davanti a Dio. Sta scritto infatti: Colui che coglie i sapienti
nella loro astuzia. E ancora: Il Signore sa che i disegni dei
sapienti sono vani. 25
Certamente, era l’esperienza mistica allo stato puro – l’esperienza di una verità
donata all’uomo dalla Grazia divina, verità che sarebbe illusorio presumere di poter
raggiungere mediante le catene dei ragionamenti – che spingeva san Paolo ad una
sfida culturale (in senso antropologico), ardita e temeraria: proclamare il valore
morale e spirituale della croce. Perché, era proprio questo che, alla mentalità
dell’epoca, doveva apparire rivoltante.
Legati ad una concezione regale e trionfalistica della divinità, né gli ebrei, né i greci
e i pagani in genere, potevano accogliere l’idea di un Figlio di Dio morto in Croce.
La crocifissione, nell’impero romano, era infatti il servile supplicium, il «supplizio
degli schiavi», la pena più infamante da cui erano perciò esclusi i nobili ed i cittadini
romani, mentre era esclusivamente comminata ai membri delle classi più basse ed
a tutti coloro che, letteralmente, erano «fuori legge», cioè al di fuori di ogni tutela
giuridica, (come – oltre agli schiavi – banditi, ribelli e briganti) Era talmente
vergognosa questa pratica della croce, che negli ambienti colti e socialmente
elevati dell’Urbe, esse divenne un tabù culturale e linguistico: è preferibile non
nominarla e neppure pensarla, così si consigliava a quanti volessero essere
veramente «eleganti».26
25
Ibidem, 3,18,23
Cfr. La croce di Gesù: scandalo e follia. Editoriale de Civiltà Cattolica, 18 settembre 1999, p.45962
15
26
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Il Vangelo descrive perciò, in mondo estremamente realistico, lo scherno degli
ebrei e di tutti gli astanti convenuti sul Gólgota: I passanti inveivano contro di lui
scotendo il capo e dicendo:
«O tu che puoi distruggere il tempio e riedificarlo in tre
giorni, salva te stesso. Se sei Figlio di Dio, scendi giù
dalla croce!».Nello stesso modo i sommi sacerdoti,
insieme agli scribi e
agli anziani,
beffeggiandolo,
dicevano: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso.
Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce e crederemo
in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi ora, se lo ama. Ha detto
infatti: “ Sono Figlio di Dio”».Nello stesso modo lo
beffeggiavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. 27
«Se sei figlio di Dio, scendi giù dalla croce!»: così si sarebbe dovuto comportare,
per la mentalità dell’epoca, un autentico “figlio di Dio”. È significativo che anche il
neoplatonico Celso, il più celebre polemista anticristiano dell’antichità; riprenda lo
stesso medesimo motivo: «come il sole illuminando tutte le cose mostra per primo
se stesso, così avrebbe dovuto fare il figlio di Dio»28, argomenta egli infatti.
E questa dimostrazione Gesù di Nazaret l’avrebbe dovuta fornire, proprio nel
momento decisivo della crocifissione: «per dare una dimostrazione della sua
divinità, egli avrebbe dovuto sparire dalla croce all’improvviso»29, provando in tal
modo, istantaneamente e magicamente, la propria sovra-umanità!.
E del resto, la morte di Gesù non poteva avere, agli occhi di un greco o di un
romano, quel fascino intellettuale che, invece, per lui aveva la morte Socrate:
mentre quest’ultimo, impersonando già la figura del saggio stoico, muore in modo
sereno ed imperturbabile, confortando addirittura egli stesso i suoi discepoli più cari
(che gli rimangono tutti fedeli fino alla fine e che vengono addirittura invitati ad
offrire un sacrificio ad Asclepio, il dio della medicina e della salute), Cristo muore
completamente solo e disperato, abbandonato dai suoi stessi discepoli, (uno dei
27
Matteo, 27, 39-44
Celso, Discorso Vero, Adelphi, Milano, 1987, p. 75
29
Ibidem, p. 80.
16
28
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
quali lo tradisce per trenta denari, ed uno altro, dopo aver giurato che lo avrebbe
sempre e comunque seguìto, lo rinnega ripetutamente). Alla fine, anche quel Padre
celeste da cui aveva ricevuto forza e potenza, sembra non curarsi minimamente di
lui («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»). Proponendo l’immagine di
un Dio incarnato, offeso ed umiliato sino alla morte più infamante, il cristianesimo
operava così una sfida antropologica inaudita ed immane; una sfida che mai
nessuno avrebbe immaginato e proposto, se non fosse stato animato dalla
certezza incontrollabile che solo l’esperienza mistica può indurre nell’animo umano.
Eros ed agápe
Questa sfida culturale gigantesca il cristianesimo l’ha potuta vincere, riordinando
dal proprio punto di vista teologico i quadri stessi della logica e della razionalità
filosofica ,( si pensi alle grandi sintesi della patristica e della scolastica, ma anche ai
sistemi della modernità, certamente materialistici ed anticristiani nei loro esiti
intellettuali, ma pur sempre “cristiani” nei loro postulati di fondo – e qui ricordiamo
l’affermazione crociana, «perché non possiamo non dirci cristiani» o l’analisi
löwithiana della parabola teoretica ottocentesca «da Hegel a Nietzsche», come di
una
progressiva
secolarizzazione
e
mondanizzazione
del
cristianesimo
medesimo30), questa sfida storica, dicevamo, il cristianesimo la poteva vincere solo
operando all’interno del mondo tardo-antico un grande cambiamento culturale: solo
mutando radicalmente la mentalità etico-religiosa, la civiltà antica al tramonto
poteva accogliere e fare sua la «follia della croce». Orbene, questa rivoluzione
culturale il cristianesimo l’ha operata a partire da quello che è, sicuramente, il suo
concetto teologico più originale: il concetto dell’amore come agápe. Certamente – e
qui torniamo nuovamente a parlare di Platone – la classicità greca aveva, con la
dottrina dell’éros (mirabilmente esposta nel Simposio), raggiunto grandi vertici
intellettuali, morali e spirituali: «l’amore platonico» descrive l’ascesa che l’anima
umana, infiammata dall’amore per le cose belle, compie salendo dal mondo fisico
30
Cfr. B: Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani” in La mia filosofia, Adelphi, Milano,
1993, p. 38-53 E K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1981
17
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
al mondo delle Idee, fino a contemplare il «Bello in sé», il Bello assoluto e divino in
cui l’anima trova il proprio pieno appagamento31. Anche se proprio il platonismo,
per la sua forte componente religiosa, è stato spesso inteso come una sorta di
avviamento al cristianesimo, c’è in realtà, tra il concetto platonico di éros e quello
neotestamentario di agápe, una profonda antitesi, un irriducibile contrasto che è
stato attentamente analizzato dal teologo protestante Anders Nygren, in uno studio
intitolato, appunto, Eros e agápe, che è così ponderoso e filologicamente accurato,
quanto denso di profondità e di
dottrina,
da
imprescindibile
capolavoro
risultare
–
un
vero
dell’ermeneutica
novecentesca, oserei definirlo –
per chiunque voglia addentrarsi
in
questo
genere
problematiche.
di
Vediamo
dunque di analizzare queste
due
nozioni
teologico
-
filosofiche, proprio seguendo
questo lavoro.
Anzitutto Nygren chiarisce il
significato
proprio
dell’eros
platonico,
individuandone
il
postulato di fondo: l’incapacità,
o meglio l’impossibilità da parte
di Dio, di amare, l’uomo, stante
Carl Bloch:Trasfigurazione di Gesù.
proprio
la
Sua
suprema
perfezione. Non a caso, a partire dall’introduzione o «prologo» al discorso
sull’amore, Socrate stabilisce la seguente verità: l’amore di qualcosa è sempre
31
Simposio, 201°-212C
18
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
desiderio di ciò di cui si è privi32. Da tale premessa deriva, come suo logico
corollario che Dio, nella sua autosufficienza e perfezione, non può amare affatto; se
infatti amasse, desidererebbe, ma se desiderasse, evidentemente sarebbe privo di
qualcosa, e se così fosse non sarebbe più perfetto, dunque non sarebbe Dio.
Tuttavia, continua Socrate, se Dio non ama, neppure gli animali amano. Ad amare
sono solo gli uomini, perciò Eros non è propriamente un dio, ma un «démone»,
cioè un essere intermedio tra l’umano ed il divino, tra male e bene che, proprio per
questo spinge l’uomo verso il divino come luogo a lui più confacente, L’uomo, cioè
la sua «anima», ha un origine «celeste»: il trauma della caduta – chiamiamolo così
– e l’imprigionamento nel corpo provocano nell’anima un oscuramento delle verità
eterne, che tuttavia rimangono latenti e che, avvertite come nostalgia del divino,
possono nuovamente aiutare l’uomo a riconquistare la sua patria perduta. Ecco che
perciò, la dottrina platonica dell’eros ha una profonda valenza soteriologica; essa
delinea ciò che nel Medioevo San Bonaventura definirà “itinerarium mentis in
Deum”: ritornare in Dio, al Creatore, partendo dalle creature e seguendo in esse,
come in una scala, le vestigia o “tracce” che Dio stesso ha in esse disseminato. Ma
queste analogie col pensiero cristiano medioevale non devono far dimenticare,
ripetiamo, le profonde differenze che sussistono col pensiero degli autori del Nuovo
Testamento. Per Platone, e per tutti i greci il «movimento» salvifico riguarda solo
l’uomo: è solo l’uomo che tende alla divinità come suo unico scopo e perfezione,
ma mai viceversa, perché, dice Socrate, «un dio non si mescola all’uomo»33. Posto
ciò, ne deriva come assurdo, logico e teologico, l’idea cristiana dell’incarnazione,
(ed ecco chiarito il passo paolino della prima lettera ai Corinzi, secondo cui la croce
di Cristo è «scandalo e follia» per i pagani). Il pensiero antico pre-cristiano rimarrà
sempre saldamente ancorato a questa idea di una «perfezione» divina, che fa
tutt’uno con la sua completa autosufficienza. Aristotele, in perfetta coerenza con
tale concezione, dirà che Dio altro non può essere che «pensiero di pensiero»,
ovvero continua ed infinita auto-rappresentazione; poiché se Dio, anche solo per un
istante, tralasciasse di pensare a sé per occuparsi del mondo, perderebbe la
32
33
Ibidem 200 A-C
Ibidem, 203 A
19
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
propria assoluta perfezione34. Questa idea del Divino verrà spezzata dalla teologia
neotestamentaria che proclamerà, invece, «Dio è amore»! Tale principio, osserva
Nygren, contiene una sorta di vera e propria metafisica dell’amore. «Dio è amore»
significa infatti che l’amore coincide con l’essenza stessa di Dio: «Egli è amore non
solo in rapporto all’umanità caduta, ma lo è già in sé»35. Esemplare è, in questo
senso, quanto dichiara la Prima lettera di S. Giovanni:
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, poiché l’amore è da
Dio e chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non
ama non ha conosciuto Dio, poiché Dio è amore. L’amore
di Dio si è manifestato tra noi in questo: Dio ha inviato il
suo Figlio unigenito nel mondo, affinché noi avessimo la
vita per mezzo di lui. In questo si è manifestato l’amore:
non noi abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi ed ha
inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati
(4,7-10).
Gli ultimi versetti del brano permettono di capire la profonda differenza che sussiste
tra l’ideale platonico dell’eros e la nuova concezione cristiana dell’amore come
agápe: mentre il primo è essenzialmente mancanza che spinge l’anima a “salire”
verso la divinità, il secondo è invece pienezza che spinge Dio a “scendere”, ad
abbassarsi verso gli uomini. Non è “acquisto” ma “dono” (grazia), che non è affatto
motivato dal valore dell’oggetto verso cui si dirige, come in Platone, ma, al contrario
è qualcosa, dice Nygren, di «immotivato», cioè di spontaneo e di gratuito36, (che
anzi, se esso dovesse basarsi sul “valore” dell’uomo, non potrebbe affatto
sussistere, essendo l’uomo un “nulla” rispetto a Dio). È piuttosto Questi che,
traboccando di amore e potenza può, dice San Paolo,«svuotare sé stesso» per
salvare e redimere l’uomo:
34
Aristotele, Metafisica, XII, 9
A. Nygren, Eros e agápe, Ed Dehoniane, Bologna, 1990, p. 127
36
Ibidem, p.41-42
20
35
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,non
ritenne un privilegio l’essere come Dio,ma svuotò se
stesso assumendo una condizione di servo,diventando
simile agli uomini.Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso facendo si obbediente fino alla morte , e
a una morte di croce Per questo Dio lo esaltòE gli donò il
nomeChe è al di sopra di ogni nome,perché nel nome di
Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto
terra, e ogni lingua proclami: che Gesù Cristo è
Signore!,in Gloria di Dio Padre.37
Pertanto, mentre per l’uomo greco è l’uomo che ama, per il cristiano è soprattutto Dio che
ama: l’amore come agápe non è più indice di debolezza ed imperfezione, bensì è il
contrassegno stesso della divinità.
Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio
suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca,
ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel
mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia
salvato per mezzo di lui. 38
A questo punto, l’uomo può a sua volta amare, solo operando un radicale
mutamento interiore ed assimilando il proprio comportamento a quello di Dio; solo
riempiendosi dell’amore di Dio, l’uomo può amare anche il suo prossimo, (oltre allo
stesso Dio). E poiché l’amore di Dio è assoluto ed infinito, anche l’amore per l’uomo
deve essere altrettanto assoluto ed infinito, così da investire – ecco un altro
“scandalo e follìa” – persino i propri nemici:
«Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e
odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché
siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa
sorgere il suo sole sui cattivi come suoi buoni e fa piovere
sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo
37
38
Filippesi, 2,6-11
Giovanni, 3,16-17
21
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno
lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i
vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo
stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come
perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».39
Ecco allora che il concetto nuovo è sconvolgente dell’amore cristiano, man mano
che penetrava nelle coscienze diffondendosi nella società del tempo, aveva
l’incredibile forza di trasformare un simbolo negativo di vergogna, come la croce, in
un’immagine positiva di amore. Se, infatti, Dio è amore, e l’amore ha la sua
manifestazione tipica nel “dono”, spinto fino al dono della vita, al sacrificio estremo
della morte di sé per l’altro, ecco che allora la croce è diventata il più importante
simbolo, anzi il simbolo stesso
del cristianesimo : «Nella croce
Dio e l’agápe sono una sola
cosa» afferma perciò in modo
netto Nygren40.
La questione della gnosi
Vorremmo concludere questo
nostro
religioso
excursus
e
storicofilosofico,
spendendo qualche parola su
quella che può essere definita
«la
questione
della
gnosi»
ovvero il problema che da circa
un secolo anima ed appassiona
39
Matteo, 5,43-48
A.
Nygren, op. cit, p. 123
Gustave Moreau: San Giorgio e il drago
40
22
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
le discussioni di studiosi di storia religiosa, ma anche teologi e filosofi, su quale sia
il significato da attribuire al termine Gnosi. Il richiamo a questo concetto non poteva
mancare in un saggio come il nostro, dedicato all’aspetto religioso del platonismo
ed, in generale, ai rapporti tra misticismo e logicità. È evidente infatti, quando si
esaminino i sistemi religiosi della tarda antichità, definiti appunto “gnostici” o
“gnostico – manichei”, il legame culturale che essi hanno con i temi da noi trattati;
prendiamo il mito della caverna, ebbene questo che è il più famoso dei miti di
Platone potrebbe essere anche un perfetto mito gnostico, perché le sue figure ed i
suoi simboli ben si prestano ad esprimerne metaforicamente l’inconfondibile
Weltanshauung; anche per gli gnostici il mondo fisico è una tenebrosa caverna in
cui gli uomini, o meglio le loro anime, sono incatenate. Salvarsi significa, allora,
prendere coscienza di tale condizione, “risvegliarsi” o, come diceva Platone,
ricordare la propria origine celeste e, tramite una guida, un «maestro spirituale»,
risalire lentamente e faticosamente la strada che porta al «mondo della Luce», il
regno divino del puro spirito o «Pleroma», facendo attenzione o superare lo
sbarramento frapposto all’anima dagli Arconti, le divinità infere ed astrali, che
cercano di tenere incatenate le anime alla materia ed ai loro corpi. È interessante
come, nei sistemi gnostici, le divinità arcontiche svolgono quel ruolo di sistematici
ingannatori che, nel platonismo, viene svolto dai cattivi maestri o «portatori di
statuette»:
Gli arconti vollero ingannare l’uomo, a motivo della sua
parentela con quelli che sono veramente buoni. Presero il
nome di coloro che sono buoni e lo attribuirono a coloro
che non sono buoni, per poterlo ingannare mediante i
nomi e poterlo vincolare a quanti non sono buoni. In
seguito, se essi fanno loro un favore, (gli arconti) li
allontanano da quelli che non sono buoni e li collocano tra
i buoni, che essi conoscono. Essi, infatti, vogliono
eliminare chi è libero e farne un loro schiavo per sempre.
Vi sono forze che lottano contro l’uomo perché non
vogliono che egli sia salvato…41.
41
Vangelo di Filippo, 20-30, in L. Moraldi (a cura di) Vangeli gnostici, Adelphi, Milano, 1984, p. 51
23
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
Questa componente “gnostica” del platonismo non è affatto sorprendente, se si
tengono presenti gli studi sull’argomento e, nel nostro caso, gli studi filosofici di
Giovanni Reale e quelli storico-religiosi di Ugo Bianchi, cui accennavano proprio
all’inizio del presente saggio: è stato Giovanni Reale a sottolineare l’importanza
della cosiddetta tradizione orfico-pitagorica nella genesi del platonismo, mentre
Ugo
Bianchi
considera
tale
tradizione una forma di “gnosi
ante-litteram”.
Ora,
proprio
a
partire dall’età alessandrina, e per
tutto il lungo periodo della tarda
antichità,
tra
platonismo,
gnosticismo e teologia giudaicocristiana, si sono verificati tutta
una
serie
contaminazioni
di
influssi
e
reciproche,
all’insegna di quel «sincretismo»
che sembra essere una delle cifre
dominanti del periodo suddetto.
Tale sincretismo, nel caso dei
sistemi gnostici, sembra mettere
insieme proprio sia il misticismo
che la logica; i testi gnostici,
infatti, popolati da «pallide ed
esangui figure» (M. Filoramo), Adam Qadmon,figura della Kabbalah (sorta di
sembrano frutto di una fantasia "gnosi"tardo-giudaica)
mistico-visionaria, particolarmente
accentuata e dotata di un suo specifico repertorio di immagini; nel contempo, però,
emerge in essi come un atteggiamento raziocinante, elucubrativo, che ha spinto il
grande studioso Adolf Von Harnack (1851-1930) a definire gli gnostici i primi veri
teologi del cristianesimo. Ora, - ed è questa una tesi affacciatasi per la prima volta
24
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
verso la metà del ‘900 e da molti oggi sostenuta -, sembra che la gnosi come
atteggiamento religioso o, più in generale, antropologico ed esistenziale, non sia
mai venuta meno; anzi proprio essa sarebbe, in quanto anti-cristianesimo radicale,
l’anima segreta di molti ed importanti aspetti della modernità. Per cercare di
orientarsi all’interno di questo labirinto teorico-interpretativo è fondamentale,
riteniamo, esaminare il discorso che, ancora una volta, svolge il Nygren. Il suo
studio è, ricordiamo, anteriore ai due momenti fondamentali attraverso cui, nel
novecento, si è sviluppata la questione gnostica: la pubblicazione dei lavori di Hans
Jonas42 e la scoperta dei papiri di Nag-Hammadi (1947), nell’Alto Egitto. Eppure, è
tanta la potenza teorica e la profondità ermeneutica del suo lavoro, che esso
risulta, nondimeno, imprescindibile e fondamentale. Seguiamo perciò attentamente
il suo discorso.
Non c’è dubbio che, sostiene Nygren, se esaminati alla luce del contrasto erosagápe, cristianesimo e gnosi risultino, essi stessi, antitetici ed inconciliabili. La
gnosi si situa infatti pienamente nel quadro dell’eros platonico; essa ha, in un certo
qual modo, perfezionato e radicalizzato quello «schema alessandrino del mondo»,
quella concezione filosofico-religiosa tipica della tarda antichità, che misteri orfici e
dottrina platonica dell’eros hanno, rispettivamente, prefigurato e teorizzato.
Secondo Nygren lo gnosticismo è fondamentale sincretistico «nel vero senso della
parola», cioè nel senso che «esso perviene al cristianesimo con un motivo
elaborato a lui estraneo, al quale vuole adattare il significato del cristianesimo
stesso»43. E questo “motivo estraneo” è proprio il concetto platonico dell’eros:
anche per gli gnostici «lo spirito umano deve percorrere una via determinata, deve
superare grado per grado diverse tappe per tornare a Dio»44. L’immagine simbolica
della scala, che compare in Platone – e che ritornerà nella mistica cristiana del
medioevo – compare anche nello gnosticismo, anche se «in una veste più
spiccatamente mitologica»: Nel viaggio verso il cielo lo spirito umano deve salire
attraverso le diverse sfere: egli deve deporre una parte del suo rivestimento
corporeo – non solo il grossolano corpo materiale, ma anche quello più fine e
42
Cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino.
D. Nygren, op. cit., p. 280.
44
Ibidem, p. 285
43
25
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
leggero, quello etereo o astrale, ecc., finché, in ultimo, libero da ogni
contaminazione del sensibile, diviene del tutto spirituale45. Questa concezione
soteriologica esclude, esattamente come nel pensiero greco classico, qualsiasi
idea di una salvezza del mondo operata da Dio. Per lo gnostico, infatti Dio non
salva il mondo, ma salva dal mondo e, salvando l’uomo dal mondo, non fa che
salvare sé stesso. Per capire una concezione del genere, occorre tenere presente
l’idea che fa da sfondo e da vero e proprio postulato ontologico fondamentale dello
gnosticismo: il radicale dualismo metafisico. Per gli gnostici il mondo fisico è
intrinsecamente, in sé stesso, cattivo; esso è stato fatto non dal Dio buono, il «Dio
della luce», bensì dal Demiurgo, il malvagio dio delle tenebre. L’anima umana,
consustanziale alla divinità, - anzi, una parte stessa della divinità imprigionata nel
corpo (ricordiamo il tema platonico di derivazione misterica, soma= sema, il corpo
come “tomba” dell’anima) – deve salvarsi dal corpo e dalla materia mediante la
“conoscenza” o gnosi; tale conoscenza viene dispensata agli uomini da Cristo, il
Lógos inviato dal Padre; ma, salvando “gli uomini”, cioè lo loro anime, Cristo salva
pure quella stessa parte di sé che gli Arconti avevano intrappolato nella materia. È
la teoria del “Salvatore – salvato”, che vanifica l’idea cristiana di incarnazione. Per
gli gnostici infatti, Cristo non si incarna realmente, ma solo apparentemente
(“docetismo” cristologico); non potrebbe essere diversamente, posto il radicale
dualismo ontologico di cui sopra: il divino, lo spirito, il «soffio» (pnèuma), non può
mai macchiarsi e contaminarsi con la materia. E se l’incarnazione è apparente,
altrettanto sono la passione e la morte di Gesù, (che l’ Apocalisse gnostica di Pietro
descrive addirittura mentre ride sulla croce!
46
). Ma, - ecco il punto decisivo – se
Cristo solo apparentemente si è incarnato ed è morto per noi, apparente è stato
anche il suo amore, (sempre che, beninteso, tale «amore» sia concepito, seguendo
il Nuovo Testamento, come agápe, come sacrificio e dono di sé che la Divinità
compie a favore di un «altro da sè», quale è l’uomo, e che, rispetto alla Divinità
medesima, non può che essere decisamente inferiore ed indegno). Per la gnosi, al
contrario, Dio quando salva «l’uomo», salva in realtà sé medesimo. Il Dio gnostico
45
46
Ibidem
Cfr. Apocalisse di Pietro, 20, in L. Moraldi, Le apocalissi gnostiche, Adelphi, Milano, 1987, p.28.
26
Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]
non si allontana allora minimamente dalla concezione “greca”, antico-classica, di
Dio come «totalmente Altro» che, chiuso nella sua assoluta e totale autosufficienza
rispetto al mondo, non manifesta se stesso come «Provvidenza». Anche quando
parla il linguaggio del Cristianesimo, la Gnosi esprime una visione religiosa, in
realtà, anti-cristiana.
27