STORIA ROMANA – A 2016-2017 Introduzione alla storia di Roma (7) La conquista del Lazio e della penisola (1) Il Lazio tra VI e V sec. a.C. Pol., Historiae, III 22; 26.1 Il primo patto tra Romani e Cartaginesi fu stretto al tempo di Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, i primi a essere eletti consoli dopo la cacciata dei re; da questi fu consacrato il Tempio di Zeus Capitolino. Questi fatti avvennero ventotto anni prima del passaggio di Serse in Grecia. Il patto l’abbiamo trascritto successivamente, cercando di interpretarlo nel modo più preciso possibile; tale, infatti, è la differenza tra la lingua attuale dei Romani e quella antica che anche i più esperti ne hanno potuto capire a mala pena, con tutta la loro competenza, solo alcuni pezzi. I patti recitano più o meno così: «A queste condizioni c’è pace tra i Romani con i loro alleati e i Cartaginesi con i loro: né i Romani né i loro alleati navighino al di là del Capo Bello [Capo Farina, presso Cartagine], a meno che non siano costretti da una tempesta o da un attacco nemico. [Seguono clausole, soprattutto commerciali, valide in caso di presenza di Romani in Libia, Sardegna, Sicilia]… da parte loro i Cartaginesi non compiano ingiustizie contro il popolo di Ardea, di Anzio, di Laurento (?), di Circeo, di Terracina, né contro nessun’altra città dei Latini, che sia sottomessa ai Romani . Si astengano da quelle città che non siano sottomesse ai Romani, qualora le conquistino, le restituiscano integre ai Romani. Non costruiscano alcuna fortificazione in territorio latino. Se giungono nella regione da nemici, non potranno trascorrervi la notte» [… ] Questo è il testo dei trattati, che ancora si conserva su tavole di bronzo nell’erario degli edili presso il tempio di Giove Capitolino. [Antologia delle fonti, I.1 T11; I.2 T25; I.3 T6] Il foedus Cassianum (493 a.C.) Cic., Pro Balbo, 53 [Antologia delle fonti, I.3, T10] Dion. Hal., VI, 95, 1-3 Nello stesso tempo con tutte le città latine si fecero nuovi patti di pace e di amicizia, accompagnati da giuramenti rituali, … Il testo dei trattati era di questo tipo: “Ci sia pace reciproca tra i Romani e le città latine, finché il cielo e la terra abbiano la medesima posizione. Né essi combattano tra loro, né conducano nemici da altre nazioni, né a chi porta guerra offrano strade sicure, aiutino con ogni mezzo chi di loro è coinvolto in una guerra, entrambi abbiano parti uguali delle prede e del bottino fatto a danno dei nemici comuni. Le sentenze sui contratti privati vengano pronunciate entro dieci giorni presso la popolazione in cui sia stato fatto il contratto. A questi patti non sarà lecito aggiungere o togliere alcunché se non ciò cui consentano Romani e Latini tutti”. [Antologia delle fonti, III.2, T8] Il conflitto con Veio età regia 477 a.C.: 437-426 a.C.: 405-396 a.C: primi scontri fatti risalire all’epoca di Romolo battaglia presso il fiume Cremera (morte di oltre 300 componenti della gens Fabia) alleanza tra Veii e Fidenae in chiave antiromana assedio decennale e presa di Veii Liv., Ab Urbe condita, IV, 20 (c. 437 a.C.) Omnibus locis re bene gesta, dictator senatus consulto iussuque populi triumphans in urbem rediit. Longe maximum triumphi spectaculum fuit Cossus, spolia opima regis interfecti gerens; in eum milites carmina incondita aequantes eum Romulo canere. Spolia in aede Iouis Feretri prope Romuli spolia quae, prima opima appellata, sola ea tempestate erant, cum sollemni dedicatione dono fixit; auerteratque in se a curru dictatoris civium ora et celebritatis eius diei fructum prope solus tulerat. Dictator coronam auream, libram pondo, ex publica pecunia populi iussu in Capitolio Ioui donum posuit. Omnes ante me auctores secutus, A. Cornelium Cossum tribunum militum secunda spolia opima Iouis Feretri templo intulisse exposui; ceterum, praeterquam quod ea rite opima spolia habentur, quae dux duci detraxit nec ducem novimus nisi cuius auspicio bellum geritur, titulus ipse spoliis inscriptus illos meque arguit consulem ea Cossum cepisse. Hoc ego cum Augustum Caesarem, templorum omnium conditorem aut restitutorem, ingressum aedem Feretri Iouis quam vetustate dilapsam refecit, se ipsum in thorace linteo scriptum legisse audissem, prope sacrilegium ratus sum Cosso spoliorum suorum Caesarem, ipsius templi auctorem, subtrahere testem. Qui si ea in re sit error quod tam veteres annales quodque magistratuum libri, quos linteos in aede repositos Monetae Macer Licinius citat identidem auctores, septimo post demum anno cum T. Quinctio Poeno A. Cornelium Cossum consulem habeant, existimatio communis omnibus est. Nam etiam illud accedit, ne tam clara pugna in eum annum transferri posset, quod imbelle triennium ferme pestilentia inopiaque frugum circa A. Cornelium consulem fuit, adeo ut quidam annales velut funesti nihil praeter nomina consulum suggerant. Tertius ab consulatu Cossi annus tribunum eum militum consulari potestate habet, eodem anno magistrum equitum; quo in imperio alteram insignem edidit pugnam equestrem. Ea libera coniectura est. Sed, ut ego arbitror, uana versare in omnes opiniones licet, 1 cum auctor pugnae, recentibus spoliis in sacra sede positis, Iovem prope ipsum, cui uota erant, Romulumque intuens, haud spernendos falsi tituli testes, se A. Cornelium Cossum consulem scripserit. Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del senato e per volontà del popolo, il dittatore poté tornare a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu la vista di Cosso che avanzava reggendo le spoglie opime del re ucciso; in onore di Cosso i soldati cantavano rozzi inni nei quali lo paragonavano a Romolo. Egli, con la dedica rituale, appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle conquistate da Romolo, che erano state le prime, e fino a quel momento le uniche, ad essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal cocchio del dittatore, così che la gloria di quel giorno fu quasi tutta sua. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, al di là del fatto che opime sono per tradizione soltanto le spoglie strappate da un comandante a un altro comandante e che il solo che noi riconosciamo come comandante é quello sotto i cui auspici viene condotta una guerra, l'iscrizione stessa posta su quelle spoglie confuta la tesi degli altri e la mia, dimostrando che Cosso quando le strappò era console. Ma quando ho sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i nostri templi, raccontare di essere entrato nel santuario di Giove Feretrio - da lui fatto ricostruire perché in rovina ormai con l'andar del tempo - e di aver letto questa iscrizione sulla corazza di lino, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. Dove poi sia l'errore, per quale motivo tanto gli annali antichi quanto le liste dei magistrati (quelle che, scritte su lino e conservate nel tempio di Giunone Moneta, sono continuamente citate da Licinio Macro come fonte) riportino il consolato di Aulo Cornelio Cosso insieme a Tito Quinzio solo sei anni dopo, é una questione sulla quale é giusto che ciascuno abbia una sua opinione personale. Ma un altro valido motivo per non spostare in quell'anno una battaglia così famosa? che il consolato di Aulo Cornelio cadde in un triennio nel quale non ci fu alcuna guerra, a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali riportano solo i nomi dei consoli, catalogando l'annata come funesta. Due anni dopo il consolato, Cosso fu tribuno militare con potere consolare e nello stesso anno maestro della cavalleria, e mentre ricopriva quella carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. Su questo punto é possibile fare molte congetture, anche se a mio parere inutili. Ognuno può credere quello che vuole, fatto sta che il vero protagonista del combattimento, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo - testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera -, si sottoscrisse: Aulo Cornelio Cosso console. Liv., Ab Urbe condita, V, 21, 2 Ingens profecta multitudo repleuit castra. Tum dictator auspicato egressus cum edixisset ut arma milites caperent, "tuo ductu" inquit, "Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios, tibique hinc decimam partem praedae uoueo. Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor, ut nos uictores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat". Un'enorme massa di persone si mise in movimento e andò a riversarsi nell'accampamento. Il dittatore allora, dopo aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda e diede ordine alle truppe di armarsi. “Sotto il tuo comando - disse poi -, o Apollo Pizio, e ispirato al tuo volere, mi accingo a distruggere la città di Veio e a te dedico la decima parte del bottino che ne verrà tratto. Ma nello stesso tempo imploro te, o Giunone Regina, che adesso dimori a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città presto destinata a diventare anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza”. Liv., Ab Urbe condita, V, 22, 8 ss. namque delecti ex omni exercitu iuuenes, pure lautis corporibus, candida ueste, quibus deportanda Romam regina Iuno adsignata erat, uenerabundi templum iniere, primo religiose admouentes manus, quod id signum more Etrusco nisi certae gentis sacerdos attractare non esset solitus. Dein cum quidam, seu spiritu diuino tactus seu iuuenali ioco, "uisne Romam ire, Iuno?" Dixisset, adnuisse ceteri deam conclamauerunt. Inde fabulae adiectum est uocem quoque dicentis uelle auditam; motam certe sede sua parui molimenti adminiculis, sequentis modo accepimus leuem ac facilem tralatu fuisse, integramque in Auentinum aeternam sedem suam quo uota Romani dictatoris uocauerant perlatam, ubi templum ei postea idem qui uouerat Camillus dedicauit. Hic Veiorum occasus fuit, urbis opulentissimae Etrusci nominis, magnitudinem suam uel ultima clade indicantis, quod decem aestates hiemesque continuas circumsessa cum plus aliquanto cladium intulisset quam accepisset, postremo iam fato quoque urgente, operi bus tamen, non ui expugnata est. Infatti all'interno di tutto l'esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l'incarico di trasferire a Roma Giunone Regina. Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della dea perché secondo la tradizione etrusca quell'immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. Poi, quando uno di essi, vuoi per ispirazione divina, vuoi per celia giovanile, disse, rivolto al simulacro: “Vuoi venire a Roma, Giunone?”, tutti gli altri gridarono festanti che la dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In seguito alla storia venne anche aggiunto il particolare che era stata udita la voce della dea rispondere di sì. Di certo però sappiamo che (come se la statua avesse voluto seguire volontariamente quel gruppo di giovani) non ci vollero grossi sforzi di macchine per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a trasportarsi, la dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona cioé che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a lei destinata per l'eternità e dove in seguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della guerra. Questa fu la fine di Veio, la città più ricca di tutto il mondo etrusco e capace di dare prova della propria grandezza anche nel momento estremo della disfatta: dopo un assedio durato dieci estati e altrettanti inverni durante i quali aveva inflitto perdite ben più gravose di quante non ne avesse subite, 2 alla fine, anche se incalzata ormai anche dal destino avverso, ciò non ostante fu espugnata grazie all'ingegneria militare e non alla forza vera e propria. Liv., Ab Urbe condita, V 30, 8-9 Adeoque ea uictoria laeta patribus fuit, ut postero die referentibus consulibus senatus consultum fieret ut agri Veientani septena iugera plebi diuiderentur, nec patribus familiae tantum, sed ut omnium in domo liberorum capitum ratio haberetur, uellentque in eam spem liberos tollere. Tale successo riuscì così gradito ai senatori che il giorno dopo, su proposta dei consoli, il Senato approvò un decreto con il quale si assegnavano alla plebe, nell’agro veientano, lotti di sette iugeri e non soltanto ai padri di famiglia ma in modo che si tenesse conto in ogni casa di tutti gli uomini liberi e con questa aspettativa si fosse invogliati ad allevare figli. [Antologia delle fonti, I.4 T17] CIL, I2 2909 (Veii, santuario di Portonaccio – III sec. a.C.) L. Tolonio(s) / ded(et) Menerva. CIL, I2 2908 (Veii, santuario di Campetti – III sec. a.C.) C<e>rere L. Tolonio(s) d(edet). Il sacco gallico Fasti Antiates maiores: Inscr.It, XIII, 2, 1, col. VII, r. 21 (Antium, 84-55 a.C.) C c(omitialis). [Al]liensis dies. (= 18 luglio) Tac., Annales, XV, 41 Domum et insularum et templorum, quae amissa sunt, numerum inire haud promptum fuerit; sed vetustissima religione, quod Servius Tullius Lunae, et magna ara fanumque, quae praesenti Herculi Arcas Evander sacraverat, aedesque Statoris Iovis vota Romulo Numaeque regia et delubrum Vestae cum penatibus populi Romani exusta; iam opes tot victoriis quaesitae et Graecarum artium decora, exim monumenta ingeniorum antiqua et incorrupta, [ut] quamvis in tanta resurgentis urbis pulchritudine multa seniores meminerint, quae reparari nequibant. fuere qui adnotarent XIIII Kal. Sextiles principium incendii huius ortum, quo et Seneones captam urbem inflammaverint. Calcolare il numero delle case, degli isolati e dei templi andati distrutti non ? facile: fra i templi di pi? antico culto bruciarono quello di Servio Tullio alla Luna, la grande ara e il tempietto che l'arcade Evandro aveva consacrato, in sua presenza, a Ercole, il tempio votato a Giove Statore da Romolo e la reggia di Numa e il delubro di Vesta coi penati del popolo romano; e poi le ricchezze accumulate con tante vittorie, e capolavori dell'arte greca e i testi antichi e originali dei grandi nomi della letteratura, sicché, anche nella straordinaria bellezza della città che risorgeva, i vecchi ricordavano molti capolavori ora non più sostituibili. Ci fu chi osservò che l'incendio era scoppiato il diciannove di luglio, lo stesso giorno in cui i Senoni presero Roma e la diedero alle fiamme. Plut., Camillus, 22, 2-4 La notizia [della presa di Roma da parte dei Galli] si diffuse subito innanzittutto in Grecia, perché Eraclide Pontico, che visse circa in quegli anni, ha scritto nel suo trattato sull’anima che era arrivata una notizia dall’Occidente, secondo la quale un esercito proveniente dagli Iperborei avrebbe occupato una città greca chiamata Roma, situata laggiù in basso, vicino al grande mare. Io non sarei sorpreso se Eracliede, che ama le favole e le finzioni, avesse aggiunto alla notizia vera della presa di Roma gli Iperborei e il grande mare, per produrre maggiore effetto. In ogni caso è certo che il filosofo Aristotele fu informato con esatezza della presa di Roma da parte dei Galli. Solamente dice che la città fu salvata da Lucio. Ora Camillo si chiama Marco, non Lucio [Antologia delle fonti, I.1.5, T23] Liv., Ab urbe condita, V, 40 Flamen interim Quirinalis uirginesque Vestales omissa rerum suarum cura, quae sacrorum secum ferenda, quae quia uires ad omnia ferenda deerant relinquenda essent consultantes, quisue ea locus fideli adseruaturus custodia esset, optimum ducunt condita in doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis, ubi nunc despui religio est, defodere; cetera inter se onere partito ferunt uia quae sublicio ponte ducit ad Ianiculum. In eo cliuo eas cum L. Albinius de plebe Romana homo conspexisset plaustro coniugem ad liberos uehens inter ceteram turbam quae inutilis bello urbe excedebat, saluo etiam tum discrimine diuinarum humanarumque rerum religiosum ratus sacerdotes publicas sacraque populi Romani pedibus ire ferrique, se ac suos in uehiculo conspici, descendere uxorem ac pueros iussit, uirgines sacraque in plaustrum imposuit et Caere quo iter sacerdotibus erat peruexit. Nel frattempo il flamine di Quirino e le vergini Vestali, dimentichi delle proprie cose, si consultarono su quali oggetti sacri fossero da portar via, quali fossero invece da abbandonare (non avendo essi materialmente le energie necessarie per prendere ogni cosa), e in che luogo quegli oggetti sarebbero stati più al sicuro. Alla fine decisero che la soluzione migliore fosse quella di metterli dentro a piccole botti (doliola) da sotterrare poi nel santuario accanto all'abitazione del flamine di Quirino, lì dove oggi è considerato sacrilegio sputare. Il resto degli oggetti, dividendosene il carico, li portarono via per la strada che conduce dal ponte Sublicio al 3 Gianicolo. Le vi de mentre salivano il colle un plebeo di nome Lucio Albinio il quale stava portando via da Roma su un carro la moglie e i figli in mezzo alla massa che lasciava la città perché inutile alla causa della guerra. E siccome quell'individuo - osservando la distinzione tra le cose divine e umane anche nel pieno della tragica situazione -, riteneva fosse un sacrilegio che le sacerdotesse di Stato andassero a piedi portando i sacri arredi del popolo romano mentre lui e i suoi se ne stavano sul carro sotto gli occhi di tutti, ordinò a moglie e figli di scendere e dopo aver fatto salire le vergini con gli oggetti sacri le accompagnò fino a Cere, dove le sacerdotesse erano dirette. 4