CULTURE DEL PACIFICO OCCIDENTALE Dispensa e materiali per il corso A.A.2008-2009 Compilata per il corso da Elisabetta Gnecchi Ruscone Introduzione alla Melanesia Introduzione preparata per il corso “Culture del Pacifico Occidentale” da Elisabetta GnecchiRuscone, basata largamente sulla traduzione e l’adattamento di diversi testi (sopratutto in inglese), citati in bibliografia. 2 PERCHE’ LA MELANESIA? La Melanesia nel Pacifico La Melanesia è una regione geografica che comprende numerose isole grandi e piccole nella zona dell’Oceano Pacifico inclusa tra la Nuova Caledonia a sud-est e l’isola della Nuova Guinea. A sud si trova la massa continentale dell’Australia, a nord-ovest l’Asia, mentre ad est la Melanesia si distingue dalla Polinesia e dalla Micronesia. Questi termini geografici (Isole degli uomini neri, Molte isole e piccole isole) che attribuiscono delle qualità apparentemente reali a diversi gruppi di isole, sono in realtà segni arbitrariamente tracciati su delle carte nautiche da navigatori ed esploratori o frutto delle classificazioni di linguisti ed antropologi, ma nel tempo hanno finito per influenzare il destino politico e culturale delle popolazioni che abitano questi mari. Epeli Hau’Ofa (1993), un intellettuale originario del Pacifico impegnato nella costruzione di un discorso anti-coloniale ma anche contro al neo-colonialismo della globalizzazione, ha scritto un saggio su come la visione euro-centrica delle nazioni del Pacifico, immaginate come numerose piccole isole separate da vasti tratti di oceano, influenzi negativamente la possibilità che queste nazioni hanno di riscattarsi da un futuro di dipendenza economica dai poteri economici globali. Egli auspica un ribaltamento di questa immagine del pacifico secondo una visione che secondo lui è più aderente alla storia ed alla cultura tradizionale delle popolazioni indigene, cioè l’Oceania come mare di isole, in cui l’oceano funge da collegamento tra genti che abitano isole diverse, ma che hanno sempre navigato tra le isole per esplorare, colonizzare, commerciare e scambiare tra di loro. • In Melanesia coesistono quattro nazioni post-coloniali (Papua New Guinea, Vanuatu, Fiji e Solomon Islands), con un territorio d’oltremare francese, la Nuova Caledonia, e il territorio della West Papua, che dopo essere stato un territorio marginale dell’impero coloniale Olandese, è stato appropriato dall’ Indonesia nel 1963. • Sia geograficamente che politicamente la Melanesia è un patchwork Anche dal punto di vista culturale, è proprio la varietà che caratterizza la Melanesia come regione: con una popolazione inferiore agli 8 milioni, può vantare un quarto delle lingue (e delle culture ) mondiali. Varietà linguistica William Foley ha calcolato che nella regione del Pacifico sud-occidentale si parlano attorno a 1200 lingue, circa il 20 o 25% del totale delle lingue del mondo. Queste lingue appartengono a numerose famiglie, raggruppamenti ed isolati diversi “una diversità linguistica che non ha paralleli da nessuna parte al mondo” (Foley 2000:358). Un quarto di queste lingue sono classificate come appartenenti al tipo Austronesiano , del gruppo di lingue Austronesiane chiamato Central-Eastern- MalayoPolynesian, che a sua volta è ulteriormente suddiviso: la maggior parte di queste lingue appartiene al sotto-gruppo di lingue Oceaniche che si pensa si siano diffuse da un’area centrale situata sull’ isola di New Britain e potrebbero essere associate alla diffusione delle ceramiche Lapita. Andrew Pawley, analizzando la distribuzione di lingue Austronesiane in Nuova Guinea, osserva che sono circa 150 su un totale di 900, e sono localizzate soprattutto in zone costiere o insulari, e riflettono una probabile immigrazione via mare che risale a meno di 4000 anni fa, mentre le rimanenti 750 lingue parlate nell’isola, classificate come Non-Austronesian o Papuan, sono dominanti nell’interno della Nuova Guinea, ed appartengono a ceppi linguistici che erano presenti migliaia di anni prima. Un grande numero di queste lingue sono state raggruppate da ricercatori 3 guidati da Stephen Wurm in una grande famiglia chiamata Trans-New Guinea Phylum (TNG) e divisa in 47 gruppi. Secondo Pawley la maggior parte dei gruppi delle lingue TNG sono centrali nelle Highlands, e si sono diffuse nell’arco di 5000 anni. Questo periodo coincide con quello in cui, dai ritrovamenti archeologici di Kuk nelle Highlands, si può supporre che si praticasse l’agricoltura basata sulla coltivazione del taro. Foley calcola che questa famiglia di lingue include circa 300 lingue distinte. Per esempio solo nelle Highlands Orientali elenca dodici lingue, parlate da un totale di 200,000 persone. I legami di queste mappature linguistiche con le culture, le storie, ed i movimenti delle popolazioni non sono ancora certi, e sono soggetto di studi multi-disciplinari. E’ probabile che la complessità degli sviluppi storici abbia profondamente influenzato la distribuzione attuale delle lingue. Organizzazione sociale Un altro metro della varietà delle culture melanesiane, in termini sociali, è data dalle idee sulla discendenza e sulla parentela, e dal modo in cui queste idee sono usate nella costruzione dei mondi sociali. In Melanesia si trovano società caratterizzate da modelli basati su principi matrilineari, patrilineari o cognatici sia nella costituzione dei gruppi locali e di unità sociali più estese, che nella percezione del proprio universo sociale. Nelle zone interne della Nuova Guinea, per esempio, i principi di discendenza sono patrilineari, e rispecchiano le idee sulla procreazione maschile e sulla cooperazione tra uomini come fondamento per la creazione di gruppi sociali. Questi principi patrilineari però sono bilanciati da una forte enfasi sugli aspetti sia pratici che affettivi dei legami materni. Il risultato è un’ideologia fortemente patrilineare, associata ad una grande flessibilità dal punto di vista delle pratiche di affiliazione: in molti casi fino a metà dei membri di un gruppo (ideologicamente agnatico) è composta dai figli di donne originarie del clan. In altri casi, come i Mae Enga, la discendenza agnatica non è solo un principio ideologico nella formazione dei gruppi, ma costituisce anche il fondamento delle pratiche di affiliazione nei gruppi. Secondo Meggitt (1965) questa coincidenza tra ideologia e pratica è dovuta ad una carenza di terra causata da una crescita demografica dei Mae Enga negli anni ’50 e ’60. Man mano che la pressione territoriale aumentava, i parenti di discendenza patrilineare affermavano i propri diritti di precedenza, escludendo altri dalle risorse comuni al gruppo. In molti altri esempi si nota una discrepanza tra l’ideologia sulla discendenza e le pratiche dell’affiliazione ai gruppi: in quasi tutti i casi la discrepanza è dovuta a ragioni pragmatiche. E’ conveniente dichiarare che tutti gli uomini sono legati da una comune discendenza patrilineare, questa retorica, avvalorata anche dalle idee sul potere degli antenati può essere utilizzata per sostenere la solidarietà di gruppo. Allo stesso tempo, è ugualmente conveniente per i membri di un gruppo incoraggiare altri parenti, quindi persone legate da discendenza non-agnatica, a stabilirsi con loro e a partecipare alle attività del gruppo (A. Strathern 1972). Queste attività normalmente comportano gli sforzi collettivi per produrre o acquisire beni, come maiali o oggetti di valore in conchiglia, da usare negli scambi cerimoniali che servono a rinforzare la posizione politica di leader e dei loro gruppi nelle competizioni per lo status ed il potere. Dunque le ideologie e le pratiche di affiliazione ai gruppi devono essere analizzate nel contesto di questo imperativo culturale a scambiare doni per asserire il proprio prestigio. In questo contesto i legami tramite la madre sono importanti in quanto i parenti materni diventano spesso i partner di questi scambi. Ed è così che nonostante l’ideologia patrilineare anche le donne assumono importanza come agenti sociali, in quanto forniscono il legame attraverso il quale possono avvenire gli scambi. La loro importanza cresce ancora se esse sono anche le produttrici del principale bene scambiato: le donne piantano e coltivano le patate dolci che servono a nutrire i maiali, principali beni di scambio. In alcuni casi, come tra gli Huli e i Duna della Nuova Guinea, l’accento sui legami materni si è sviluppato in un pieno riconoscimento dei legami sia agnatici che materni nella formazione dei gruppi. Questo ha portato ad una struttura di discendenza cognatica e ad un elaborato equilibrio di impegni legati agli scambi sia con parenti paterni che materni. In certi contesti giuridici e per 4 l’attribuzione di precedenza nei diritti, però, i legami agnatici hanno uno status più forte. Questa stessa situazione si ritrova anche tra gli abitanti Choiseul alle Salomone. In contrasto a questi modelli fortemente patrilienari, in alcune popolazioni di lingua Austronesiana è la discendenza matrilineare ad assumere il ruolo principale nella costituzione dei gruppi, e soprattutto nel determinare gli impegni rituali, i diritti alla terra, e la successione a posizioni di leadership. Anche in questi casi, però esistono fattori che servono a bilanciare l’equilibrio tra parenti. Per esempio alle Trobriand il legame con il padre, e con i parenti paterni è importante sia affettivamente che come mezzo per ottenere risorse. Così come le lingue e le strutture di parentela, molti altri aspetti culturali e sociali mostrano un enorme ventaglio di variazioni e trasformazioni in Melanesia. Questa diversità ha portato molti a chiedersi se la definizione di Melanesia come regione culturale o “World Area” sia giustificata. Cosa sono le aree culturali Per World Areas infatti si intendono vaste zone geografiche (America Latina, Sud-Est Asiatico, Medio Oriente) che servono principalmente a dividere il mondo allo scopo di definire corsi e specializzazioni (Knauft, 1999). La divisione del mondo in aree culturali ha una vecchia tradizione in antropologia. Nel Diciannovesimo secolo l’interesse era soprattutto per la diffusione dei tratti culturali, in particolare la cultura materiale, sia all’interno di ciascuna regione che tra regioni. Esploratori e collezionisti di tutti i paesi Europei percorrevano questi mari per accumulare oggetti rappresentativi delle culture. Su questi oggetti, studiati, catalogati ed esposti nei musei etnografici come nelle numerose camere delle meraviglie private che fiorivano verso la fine del secolo, venivano costruite teorie sull’evoluzione dell’uomo. Queste, a loro volta, servivano da un lato a stabilire la superiorità e il dominio dell’uomo occidentale, attraverso la conoscenza e la catalogazione, su queste popolazioni ”esotiche”, “primitive”, “selvagge”, e dall’altro fornivano una giustificazione ideologica per l’ingerenza dei poteri coloniali in questi territori. Nel corso del Ventesimo secolo il concetto di cultura si è allargato ad includere costumi e credenze, oltre agli oggetti, e si è venuto a comprendere che spesso questi fattori trascendono le unità linguistiche e politiche, non è sempre possibile legare un gruppo linguistico ad una località specifica ad una cultura. Con l’accumularsi di dati e informazioni relativi ai movimenti tra culture, il concetto stesso di cultura si è fatto più sofisticato. Le regioni sono state, a loro volta, suddivise in aree culturali definite da tratti culturali comuni. Alla fine del XX secolo la nozione di aree culturali è diventata problematica. Se le aree mondiali sono sempre state collegate tra loro da viaggiatori, migrazioni, esplorazioni, oggi questi collegamenti avvengono con maggiore intensità, velocità e complessità di prima. Le culture non possono più considerarsi locali, le persone si appropriano di idee, beni e immagini che viaggiano attraverso lo spazio raggiungendo le località più remote. Secondo Knauft le regioni che sono venute ad essere definite come tali in antropologia non devono essere considerate come paradigmi determinanti degli orientamenti teorici, forniscono semplicemente un contesto analitico che permette al lavoro comparativo un maggiore rigore scientifico. Le analisi a livello regionale comportano la consapevolezza delle “diversità tra le similitudini e delle similitudini tra le diversità” (Bruce M.Knauft, 1999: 7). Quindi, lo studio dettagliato e approfondito dell’etnografia e della storia di un’area geo-culturale come appunto la Melanesia, permette di confrontare culture diverse in un orizzonte più vasto di quello rappresentato dalla singola etnografia, e di sviluppare una maggior sensibilità alla differenziazione culturale. In questo contesto, però, gli studi a livello regionale hanno senso solo se si tiene conto da un lato delle influenze globali, e dettagli locali dall’altro. Storia e cultura in Melanesia La maggior parte delle aree culturali del mondo sono state delimitate e studiate da studiosi di 5 diverse discipline soprattutto per la loro importanza, storica, politica ed economica. La Melanesia, invece, è sempre stata una regione di interesse marginale, eccetto che per l’Australia e per l’importanza strategica per il controllo del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. Al contrario, la storia dell’antropologia è strettamente legata a questa regione. L’importanza della Melanesia per la disciplina è storicamente legata al suo isolamento dalle influenze esterne, oltre che alle sue caratteristiche culturali intrinseche. Anche se le prime esplorazioni europee di quest’area risalgono al 1500, il contatto tra occidentali e melanesiani delle zone più interne non è avvenuto che nel tardo ventesimo secolo. Con coste impervie, paludi, catene montuose e foreste tropicali, la Melanesia è stata giudicata tra le regioni più inospitali, meno economicamente attraenti, e più difficili da sfruttare; i suoi abitanti sono stati spesso descritti come brutti, violenti, immorali e senza scrupoli. Perlopiù i melanesiani sono rimasti relativamente indisturbati da influenze occidentali fino al secolo scorso, nonostante la presenza coloniale, almeno nominale, da parte di vari poteri europei. Comunque sarebbe ingenuo, oltre che eurocentrico, pensare che la storia della Melanesia cominci con l’arrivo degli europei. La preistoria Tutto il periodo precedente al contatto con gli occidentali, in assenza di documenti scritti, è considerato “preistoria”, ed è stato soggetto di studio da parte di numerosi archeologi e linguisti. Queste ricerche ci permettono di affermare che i primi esseri umani a popolare la Melanesia arrivarono 50,000 anni fa dall’Asia sud-orientale. Il sito archeologico più antico ritrovato è a Kosipe, in Nuova Guinea, e risale a 26.000 anni fa, mentre sembra che i maiali, che in seguito diventarono un’importante fonte di proteine, oltre che di elaborazione culturale e di scambi economici e cerimoniali in tutta la Melanesia, siano arrivati circa 10,000 anni fa. Le prime tracce di attività agricola sono state ritrovate nella valle del Whagi, vicino a Mont Hagen, in Nuova Guinea, risalgono a 9000 anni fa. Queste popolazioni più antiche sono associate alle lingue di ceppo nonAustronesiano. Circa 4000 anni fa è arrivata una seconda ondata di popolazione dal sud-est dell’Asia, che si è gradualmente diffusa in tutta l’area, arrivando fino alla Polinesia. A questi nuovi immigranti è associata la produzione di un tipo particolare di vasi di ceramica, chiamata Lapita (dal nome di un sito in cui sono stati rinvenuti i primi vasi, in Nuova Caledonia). I ritrovamenti di vasellame di questo stile in diverse località permettono agli archeologi di ricostruire la storia della colonizzazione del Pacifico da parte di questa popolazione, associata alle lingue Austronesiane. La Storia del contatto: Il Periodo Spagnolo e Portoghese: XVI Secolo • • • • • • 1511-12, I navigatori portoghesi Antonio d’Abreu e Francisco Serrao raggiungono l’isola di Ceram ad occidente della Nuova Guinea 1526, Il portoghese Jorge de Meneses raggiunge la costa nord-occidentale della Nuova Guinea e la battezza Papua (Isla des los Papuas), a causa dei capelli crespi degli indigeni. 1528-29, Lo spagnolo Alvaro de Saavedra ha navigato lungo la costa nord della Nuova Guinea fino all’isola di Manus 1545, lo spagnolo Inigo Ortez de Retes battezza l’isola Nuova Guinea (Nueva Guinea) 1568, lo spagnolo Alvaro de Mendaña ha navigato da un avamposto spagnolo nel Perù alle Isole Salomone 1606 Pedro Fernandes de Quirós parte dal Peru alla scoperta di quella che chiamò l’ Australia del Espirítu Santo (Vanuatu). Mentre lui fa ritorno in Messico Luis Vaez de Torres, sulla rotta di Manila, attraversa lo stretto che ora porta il suo nome, che divide la Nuova Guinea dall’Australia (ha rapito 14 ragazzi e ragazze per educarli al cristianesimo) 6 Periodo Olandese ed Inglese XVII e XVIII Secolo • • • • • • 1606, Una nave Olandese, Duyfken, comandata da Willem Jansz, naviga lungo le coste della Papua occidentale (Irian Jaya) 1616, il famoso navigatore William Schouthen raggiunge la costa nord della Nuova Irlanda e della Nuova Guinea 1643, L’esploratore olandese Abel Janszoon Tasman approda alle Fiji (Cook, il cui nome è associato a queste isole vi è arrivato decenni dopo) 1764 – Una serie di viaggi capitanati da tre inglesi ed un francese: Byron, Wallis, Carteret, Bougainville, e Cook 1772 – 1775 James Cook scopre numerose isole tra cui la Nuova Caledonia (nel 1774) e Norfolk Island, battezza l’arcipelago New Hebrides 1792, Il francese Antoine de Bruni d’Entrecasteaux raggiunge l’ Isle des Pins in Nuova Caledonia (battezza le Trobriand e Rossel Island) Missionari • • • • • 1835 Fiji 1839 Vanuatu (Nuove Ebridi) 1840 Nuova Caledonia 1845 Isole Salomone 1847 Arcipelago D’Entrecasteaux (PNG) (I primi missionari alle Salomone e in Papua Nuova Guinea sono stati costretti a lasciarli molto presto, e non fanno ritorno fino al 1870) Molte denominazioni si sono contese le anime dei ‘selvaggi’ di queste popolazioni; all’inizio soprattutto i cattolici e diverse missioni protestanti e anglicane, più recentemente si sono aggiunte numerose chiese evangeliste. In alcuni casi, come in Nuova Guinea, la divisione del territorio d’azione delle diverse missioni è stata concordata “a tavolino” con i governi coloniali, in altri casi, come in Nuova Caledonia, la rivalità tra missionari di diverse denominazioni in un contesto di conflitti tra diversi gruppi locali esacerbati dalle trasformazioni portate dagli occidentali, hanno finito per accentuare, se non addirittura provocare guerre locali. Gli insegnamenti, i modelli di vita familiare e di comunità promossi, l’atteggiamento verso le tradizioni locali, la promozione di attività di tipo economica nei convertiti, e quindi l’influenza che le missioni hanno avuto sulla cultura locale, cambiano significativamente a seconda della filosofia delle singole missioni. In molti casi la colonizzazione veniva portata avanti contemporaneamente dai governi coloniali, che prestavano l’esercito o la polizia a opere di pacificazione nelle aree in cui si stabilivano i missionari, e dalle missioni che si occupavano di promuovere l’ideologia occidentale tramite il lavoro di evangelizzazione e di “aiuto umanitario”. In molte aree della Melanesia sono state le missioni, molto prima dello stato, a occuparsi sia dell’assistenza sanitaria degli indigeni (colpiti da molte paurose nuove malattie introdotte dagli stessi occidentali), che della 7 scolarizzazione dei convertiti. L’Annessione Coloniale • • • • • • Nel 1828 gli olandesi dichiarano la propria sovranità sulla parte occidentale della Nuova Guinea (Irian Jaya) Nel 1853 i francesi si aggiudicano la Nuova Caledonia (hanno trasportato nella colonia penale sull’isola principale 40.000 prigionieri – un numero quasi equivalente a quello degli indigeni sull’isola) 1874 gli inglesi dichiarano le Fiji un loro possedimento. Trasportano lavoratori indiani per lavorare nelle piantagioni, la popolazione di indiani supera quella dei figiani Nel 1884, i governi della Gran Bretagna e della Germania si dividono la parte orientale dell’ isola della Nuova Guinea (quella parte che ora corrisponde alla nazione della Papua New Guinea). In seguito, nel 1906, l’Australia ottiene il controllo della colonia inglese, chiamandola Territory of Papua; nel 1914, al principio della Prima Guerra Mondiale, gli australiani occupano la Nuova Guinea Tedesca Nel 1887, gli inglesi ed i francesi dichiarano le Nuove Ebridi un condominio anglo-francese, Nel 1893, gli inglesi nominano le Isole Salomone un protettorato Decolonizzazione ed Indipendenza • • • • • • 1970 Fiji 1975 Papua New Guinea 1978 Solomon Islands 1980 Vanuatu (ex Nuove Ebridi) Nuova Caledonia tuttora un territorio d’oltremare della Francia, all’ultimo referendum le richieste del movimento indipendentista dei kanak non sono passate anche perché i melanesiani sono ormai una minoranza. Un nuovo referendum è programmato per il 2014 Il governo indonesiano, ottenuta l’indipendenza dall’Olanda ha ottenuto anche il controllo sull’ Irian Jaya nel 1963 (attualmente gli indigeni della Papua Occidentale stanno lottando per l’indipendenza) Da questo rapido excursus possiamo identificare due caratteristiche della storia del colonialismo, che sono particolari di questa area: l’intrusione coloniale in Melanesia è relativamente recente e nella maggioranza dei casi è stata abbastanza breve (meno di cento anni). Il colonialismo della Melanesia non è stato un evento di conquista su larga scala; almeno in apparenza era di stampo più benigno e paternalistico di quello avvenuto in periodi precedenti in altre parti del mondo. Anche per la difficoltà di penetrare nelle zone più interne, inizialmente l’influenza coloniale era localizzata: si stabilivano delle basi governative o delle missioni sulle coste, dalle quali si organizzavano spedizioni nelle zone circostanti, delle barche viaggiavano tra questi centri, mantenendo i rapporti tra i diversi agenti del colonialismo, portando viveri e materiale, e organizzando pattugliamenti o spedizioni. L’intento specifico spesso, come in Papua, 8 era di assicurarsi il controllo dell’area, ma anche di proteggere gli indigeni dai numerosi avventurieri poco scrupolosi che cercavano fortuna in questi mari. Il progetto coloniale non era ambizioso, ed era portato avanti con pochi uomini, si limitava a portare il cristianesimo e a pacificare le popolazioni locali, senza voler interferire troppo con l’organizzazione sociale o modificare sostanzialmente l’economia di sussistenza. Ovviamente la pacificazione, le opere di conversione al cristianesimo, l’introduzione di beni commerciali e di malattie, oltre che il reclutamento di lavoratori per le piantagioni delle Fiji e per le miniere di nichel in Nuova Caledonia hanno finito per avere un forte impatto sulle strutture sociali e culturali, soprattutto sulle coste e nelle isole, a partire dal tardo ‘900. L’impatto coloniale nella regione è stato variabile, secondo il periodo storico e gli scopi del potere coloniale coinvolto. In generale l’influenza diretta è stata minore dove c’era meno da guadagnare, e la Melanesia genericamente era poco attraente rispetto ad altre zone degli imperi coloniali. Addirittura si può dire che in molte zone della Melanesia la presenza relativamente scarsa di Europei era accompagnata da un crescente desiderio degli indigeni per i beni occidentali, e per le idee associate ad essi. Storicamente, questo si è palesato nel desiderio Melanesiano per una maggiore influenza straniera, specialmente in termini di sviluppo economico, educazione, e infrastrutture materiali. Un’anomalia di questa regione è proprio che l’anticolonialismo sviluppatosi in molte nazioni coloniali del mondo, ha avuto uno sviluppo lento negli ambienti accademici della Melanesia, eccetto che in Nuova Caledonia (che infatti è tuttora un territorio d’oltremare della Francia). L’attuale crisi delle Salomone, per esempio, ha indotto il governo indipendente, che è alle prese con problemi interni di natura etnica, a richiedere l’intervento armato di forze esterne (prevalentemente dall’Australia, Papua New Guinea e Nuova Zelanda). La storia orale E’ importante riconoscere che, a prescindere dalla storia occidentale della Melanesia, basata sui ritrovamenti archeologici e sui documenti scritti dal periodo delle esplorazioni, che per ovvie ragioni sono fonti prevalentemente occidentali), ogni società in Melanesia ha il proprio bagaglio storico, vasto e articolato, trasmesso oralmente da una generazione all’altra. Molte informazioni storiche si trovano nei miti sull’origine di ogni cultura, nelle genealogie e nella conoscenza sacra; queste storie contengono informazioni sui diversi gruppi all’interno di una società, e sulla loro collocazione nell’ambiente, stabiliscono il rapporto tra gli spiriti e gli esseri umani, e convalidano i diritti di gruppi specifici sulla terra e sullo sfruttamento delle sue risorse. Questo genere di conoscenza storica, alla base delle relazioni politiche all’interno e tra gruppi, determina l’identità e i diritti delle persone, è tuttora fondamentale nella vita di molti melanesiani, ed è talvolta usata anche nel contesto contemporaneo per trattare col mondo esterno. Per esempio nel 1999 le genealogie e le storie d’origine dei Duna, in Nuova Guinea, sono state le basi per determinare chi aveva il diritto ad essere risarcito per i danni causati da una miniera nel loro territorio. Le conoscenze storiche di un gruppo possono essere custodite dagli anziani e tramandate ai più giovani in diversi modi, possono essere rappresentate nei canti, nelle danze, nelle decorazioni delle case degli spiriti: sono comunque narrate e riprodotte da persone diverse in contesti diversi, sono conoscenze importanti, negoziate e contestate: chi ha il diritto di sapere la storia o di raccontarla? Chi può contestarla? Melanesia e Antropologia Per quasi tutto il Ventesimo Secolo l’importanza della Melanesia per l’antropologia è stata legata direttamente alla sua posizione relativamente marginale in termini politici e ed economici. Proprio per lo scarso interesse che aveva per gli speculatori occidentali, questa zona è stata meno coinvolta in cambiamenti sociali e culturali di altre parti del mondo coloniale, e proprio per questo, considerata particolarmente attraente da etnologi ed antropologi. Più una località era remota, 9 inesplorata, inalterata dallo sviluppo, più era considerata interessante dai ricercatori interessati a società dalla struttura politica decentrata o “tribale”. I Melanesiani hanno fornito molto materiale interessante agli studiosi della diversità umana: hanno credenze religiose e pratiche rituali complesse, oltre a costumi sessuali, militari, e politici particolari. Le caratteristiche più frequentemente citate nella storia dell’etnografia melanesiana includono: • • • • • • • • • Un’economia di sussistenza basata sull’orticoltura decentralizzata di tuberi e/o lo sfruttamento della palma del sago, insieme a caccia, pesca e all’allevamento dei maiali. Residenza decentrata in villaggi o frazioni. Modelli di discendenza differenti (matrilineari, patrilineari, o cognatici) in zone diverse. Leadership politica acquisita in maniera aggressiva, ma molto decentrata, tipicamente associata a “Big Men” o “Great Men”. Cicli di scambi competitivi e cerimoniali di beni, spesso molto elaborati, che palesano e modulano i rapporti tra gruppi sociali e tra gli individui all’interno dei gruppi. Conflitti e guerre tra gruppi, spesso cruenti, che talvolta includevano fenomeni di cannibalismo e/o di caccia di teste. Pronunciate polarità di genere o antagonismo tra i sessi, credenze riguardo al potere contaminante delle donne, e usanze che vietano o prescrivono una varietà di pratiche sia eterosessuali che omosessuali. Sistemi cosmologici complessi, che includono credenze, miti, rituali, e che strutturano una vasta gamma di sistemi di iniziazione, pratiche magiche, riti di fertilità, cerimonie ancestrali, spesso accompagnati da decorazioni corporee elaborate, pitture, musica, danze e maschere o altre sculture lignee. In generale, una grande varietà linguistica e culturale. La documentazione etnografica della variazione socio-culturale delle popolazioni di questa regione è stata di grande importanza per lo studio di vari argomenti di interesse antropologico, tra cui l’organizzazione politica, le credenze e pratiche spirituali,gli scambi socio-economici, e così via. Allo stesso tempo però, la rappresentazione collettiva della Melanesia da parte degli antropologi, ha avuto il risultato di costruire in occidente un’immagine pubblica della Melanesia come luogo prevalentemente esotico e primitivo. (Gli antropologi stessi hanno avuto un ruolo innegabile in questo processo, in quanto questa rappresentazione è stata strumentale nell’ottenere fondi di ricerca in un clima culturale in cui c’era grande interesse per “l’altro primitivo”). A partire dagli anni ’60 la sensibilità coloniale, messa in difficoltà dalle reazioni socio-spirituali di alcuni melanesiani alle influenze esterne, che si sono fatte più evidenti durante la seconda guerra mondiale, ha generato l’interesse per quelli che sono stati chiamati “Cargo Cults”. Le analisi dei culti del cargo hanno dato il via a tutta una serie di ricerche etnografiche in cui gli antropologi si sono confrontati con tutti quei fenomeni che sono più contemporanei che tribali o “tradizionali”, come le risposte melanesiane alla cristianizzazione, all’urbanizzazione, all’introduzione del sistema monetario, allo sviluppo economico. In un senso più generale, la Melanesia come regione non può essere considerata a prescindere dalla storia dei suoi rapporti con l’Occidente, o addirittura dalla sua storia come oggetto di studio antropologico. Se lo studio di questa regione è stato di importanza fondamentale per lo sviluppo della disciplina, soprattutto nell’ambito anglosassone, è altrettanto vero che la regione si distingue per il fatto di essere stata rappresentata al mondo soprattutto dagli antropologi che vi hanno lavorato, mentre altre regioni, di maggior interesse strategico ed economico sono state soggetti di studio e di rappresentazione da parte di numerose discipline diverse. 10 Un’effetto di questa “antropologizzazione” della Melanesia, è stata la creazione di un’immagine di questa regione che ne enfatizza la sua diversità culturale in termini che l’associano allo stato primitivo. Quest’immagine permane, nonostante molti sforzi fatti negli ultimi anni di rendere un’immagine più realistica. Basti pensare all’interesse suscitato dai media quando si prospetta la possibilità di scoprire tribù primitive senza esperienza di contatto col mondo occidentale. Il pericolo di questo punto vista, oltre ad essere condiscendente, è di riscoprire in Melanesia proprio la marginalità che le è stata attribuita dal nostro stesso sguardo distanziante. Inoltre questo porta a sottovalutare i poteri e le ineguaglianze che intrudono sulla regione o si sviluppano in essa. Alcuni antropologi protagonisti in Melanesia L’etnografia classica della Melanesia ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’antropologia; ricostruiamo alcuni passaggi importanti. • 1836, Robert Codrington accompagna il Vescovo John Coleridge Patterson della Melanesian Mission nella Melanesia meridionale • 1871, Il russo Mikluko Maclay a Madang • 1898 diversi antropologi inglesi (tra cui Haddon, Rivers, Seligmann,Wilkin, Ray, McDougall, e Myers) partecipano ad una importante spedizione di studio nelle isole dello Stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea: la celebre Cambridge University Anthropological Expedition to Torres Straits • 1910, Diamond Jenness soggiorna per 9 mesi sull’isola di Goodenough • 1912-13 Spedizione Kaiserin Augusta Fluss, durante la quale Thurnwald studia le tradizioni delle popolazioni del fiume Yuat-, allora conosciuto come Dorper • 1914, Bronislaw Malinowski arriva in Australia e in Papua, fa sei mesi di lavoro sul campo all’isola di Mailu. • Tra il 1915 e il 1918 Malinowski torna due volte in Papua, più precisamente alle isole Trobriand Dopo la storica Cambridge Expedition to the Torres Strait nel 1898, la Melanesia fu considerata da antropologi di spicco quali Haddon come una regione di importanza cruciale per lo studio della diffusione e della distribuzione di usanze primitive. (Questo era un interesse prevalente dell’antropologia del XIX secolo e servì preparare il terreno per studi più dettagliati delle relazioni tra tratti culturali e sociali diversi). In seguito gli studi etnografici in Melanesia hanno continuato ad essere influenzati da e ad influenzare i vari approcci allo studio dell’uomo che si sono via via susseguiti, per esempio, • Le ricerche di W.H. R. Rivers nelle isole della Melanesia durante la seconda decade del 1900 hanno dato il via agli studi strutturali della parentela e dell’organizzazione sociale. • Il lavoro di Bronislaw Malinowski nelle isole Trobriand è stato di importanza seminale per la definizione delle tecniche di ricerca sul campo basate sull’osservazione partecipante e sulla conoscenza della lingua locale, divenute il “marchio di fabbrica” dell’antropologo. Inoltre la prospettiva teorica che ha sviluppato durante gli anni ’20, in cui sottolineava la funzione razionale di istituzioni indigene), ha avuto un importante influenza sulle teorie antropologiche (funzionalismo strutturale). • Nel 1925 Marcel Mauss ha pubblicato uno studio sullo scambio di doni melanesiani. Anche questo studio è stato di importanza seminale per lo sviluppo di teorie sulla relazione esistente tra scambi materiali e sociali, e ha gettato le basi per le teorie sugli scambi e per l’analisi transazionale dei processi culturali. • Negli anni tra il 1920 e il 1950 la Melanesia è stata il teatro di ricerca di personaggi come Margaret Mead, Gregory Bateson, e Maurice Leenhardt, che hanno contribuito allo sviluppo di studi sull’emozione, la personalità, e la socializzazione. 11 • • • • • Nella seconda metà del XIX secolo l’Africa divenne il centro per lo sviluppo del funzionalismo strutturale Britannico, e l’America Latina il teatro della nascita dello strutturalismo di Levi-Strauss. Gli studi condotti in Melanesia in questo periodo furono comunque importanti per la valutazione, la critica e lo sviluppo di questi approcci, mentre prospettive critiche sulle trasformazioni culturali e sui cosiddetti cargo cults furono sviluppati nelle analisi marxiste di Peter Worsley e Jean Guiart. Durante gli anni ‘60 il materialismo culturale e l’antropologia ecologica sono stati largamente informati dagli studi melanesiani di Roy Rappaport e Andrew Vayda. Negli anni ’70 –’80 la Melanesia è stata al centro dello sviluppo dell’antropologia simbolica, lo studio della metafora e del significato (Roy Wagner, Edward Schieffelin, Alfred Gell). Il rigore etnografico dell’antropologia marxista ha avuto sviluppo nel lavoro di Maurice Godelier, mentre la sociologia della conoscenza è stata sviluppata nel corso del lavoro etnografico di Frederick Barth(1975, 1987). Negli stessi anni, le relazioni di genere e la sessualità hanno assunto un’importanza fondamentale nell’antropologia melanesiana, tramite i lavori di antropologhe come Marilyn Strathern, Annette Weiner, Margaret Jolly e Gabriele Sturzenhofecker. Negli anni ’90 l’influenza di Roger Keesing, James Carrier, Lamont Lindstrom, Geooffry White e Nicholas Thomas, è stata importante per lo sviluppo dell’interesse per le trasformazioni culturali, e per l’elaborazione dei concetti di cultura e di tradizione. Ovviamente anche altre aree geografiche sono state importanti nella storia dell’antropologia, ma si può dire che per un periodo di cento anni (1880-1980) la Melanesia abbia contribuito molto materiale per lo sviluppo di tutta una serie di filoni teorici fondamentali nella disciplina. Melanesia e Antropologia: i problemi oggi Questo rapporto tra la Melanesia come area geografica e l’antropologia sta cambiando. Da un lato l’interesse per la globalizzazione, dall’altro le critiche all’antropologia “tradizionalista” mal si conciliano con l’idea prevalente della Melanesia come “laboratorio naturale” di variazioni tribali. Troppo a lungo i ricercatori hanno cercato nelle popolazioni remote della Melanesia gli “ultimi casi” di popolazioni allo stato naturale, indisturbati da influenze esterne, esempi dei primi stadi dell’ evoluzione culturale e sociale. Questa reputazione è diventata sempre più difficile da sostenere, data la crescente consapevolezza dei rapporti intrecciati dai Melanesiani contemporanei col resto del mondo. (Es. di sito internert di una guest-house nelle Highlands che promette un’esperienza di vita in un villaggio tradizionale, www.engaexperience.homestead.com). Dall’altra parte le trasformazioni dell’antropologia contemporanea e i nuovi interessi teorici hanno spostato il fuoco dell’attenzione da quei luoghi lungamente associati con l’uomo “primitivo” verso siti in cui la complessità sociale, l’intersecarsi di genti, flussi migratori, e la permeabilità dei confini sono più apparenti. Anche la critica postmoderna alla politica della rappresentazione e sul ruolo degli antropologi in un mondo dove anche i popoli tribali possono parlare per sé ha contribuito a provocare un periodo di crisi per l’antropologia della Melanesia (che si è potuto riscontrare anche nella difficoltà da parte delle università a mandare ricercatori). Dagli anni ’80 in poi il crescente interesse teorico per le trasformazioni culturali e per i processi di contaminazione culturale, sia nel periodo pre-coloniale che in quelli successivi, hanno influenzato l’ultima generazione di ricercatori, impegnati a sviluppare nuovi approcci creativi allo studio etnografico di una regione in via di trasformazione utilizzando teorie sulla storia, la memoria, la cultura pubblica e l’economia politica dei Melanesiani contemporanei. Tutti i fenomeni che sono venuti alla luce come argomenti di interesse teorico grazie all’attenzione dedicata ai processi legati alla globalizzazione (migrazione, diffusione culturale, trasformazioni politiche ed economiche, e mutamenti nei valori culturali) sono in realtà stati sempre presenti nelle 12 società melanesiane, anche se su una scala minore. Più recentemente questi processi sono stati influenzati sia dal colonialismo che dagli sviluppi post-coloniali. La sfida adesso, per gli antropologi che lavorano in Melanesia, come per i melanesiani stessi, è di ricontestualizzare le tradizioni di differenziazione culturale in un periodo di dichiarata modernità. La modernità in Melanesia include l’alto valore attribuito ai beni di consumo e al denaro. Oggi gli abitanti del più remoto villaggio o dell’isola più lontana non si accontentano più di asce, sale, perline e fiammiferi. In molti sono abituati; ancora di più vorrebbero avere, accesso a riso, cibo in scatola, abiti occidentali, automobili o barche a motore, frigoriferi, biglietti aerei, cellulari, e la possibilità di far proseguire gli studi ai figli. Queste necessità, stimolano sia i proprietari della terra, che i governi melanesiani, a cercare il modo guadagnare soldi rapidamente. Sempre più si lasciano sedurre dalle multinazionali minerarie o dalle imprese del legname del Sud-Est Asiatico, per soddisfare il crescente bisogno di denaro. La diffusione e la dimensione di queste imprese, però, ora rappresentano gravi problemi ecologici e sociali in molte parti della Melanesia. Anche questo aspetto moderno della cultura melanesiana, le aspirazioni economiche, é da considerare come una trasformazione di modelli culturali preesistenti, in cui il dare e ricevere di doni e di servizi (a volte in maniera competitiva) rappresenta la chiave per ottenere prestigio personale, successo sociale, e potere politico. In questo contesto, quindi, acquisire beni di consumo, che sono indicatori di successo nella modernità, assume significati e conseguenze dal sapore distintamente melanesiano. Queste inflessioni culturalmente specifiche derivano dalla natura “transazionale” delle relazioni sociali melanesiane, alla base dell’identità sia individuale che collettiva. D’altro canto nel clima di trasformazione attuale le pratiche e le credenze melanesiane non sono state represse o abbandonate, anzi continuano a proliferare, sono continuamente elaborate e ricreate dalle persone e dai gruppi coinvolti in un processo di transizione verso un’economia politica allargata di un sistema ecologico al contempo ricco e fragile. Gli effetti del controllo coloniale e della politica postcoloniale, interpretati attraverso lenti distintamente melanesiane, improntano l’identità individuale sociale e nazionale contemporanea. La comprensione di questi sviluppi culturali richiede una cognizione più approfondita delle tradizioni melanesiane e della loro relazione con la storia contemporanea. L’Antropologia in Melanesia si rinnova Gli antropologi che si occupano della Melanesia ora devono trovare una maniera produttiva di sposare il lavoro tradizionalista dei loro predecessori con la sensibilità acquisita di recente per questioni legate alla trasformazione. Sarebbe limitante, oltre che controproducente, pensare che le due prospettive si escludano. Lo scopo dei ricercatori contemporanei deve essere di utilizzare criticamente la propria tradizione intellettuale basata su studi etnografici dettagliati per approfondire la conoscenza attuale sia della Melanesia come regione che dell’antropologia come disciplina in evoluzione. In effetti, tutto il bagaglio di etnografie ricche e dettagliate di questa regione contribuisce materiale prezioso ai più recenti dibattiti teorici. Secondo Knauft (1999: 218) molte delle influenze teoriche recenti derivano dalla critica dei testi, ciò le rende particolarmente raffinate nella percezione critica del potere della rappresentazione, ma non particolarmente sottili e raffinate nella comprensione e nella documentazione dettagliata delle attività e delle credenze espresse nella vita quotidiana delle persone; mentre è proprio questa la forza della tradizione etnografica sviluppatasi in Melanesia. Ecco alcuni dei temi emersi in anni recenti dal coinvolgimento degli studiosi della regione con i più recenti interessi teorici. • Fino a trent’anni fa le unità politiche o linguistiche melanesiane erano considerate relativamente a se stanti, di conseguenza le etnografie erano convenzionalmente basate su 13 • • • • • • singoli villaggi, e concernevano le strutture della parentela, la discendenza, l’organizzazione rituale, eccetera. Ora non è più sostenibile una visione omogenea delle culture locali, in tutta la Melanesia si vedono fenomeni di evangelizzazione, di politiche post-coloniali, del perseguimento di uno sviluppo economico, di movimenti pro e contro le multinazionali, di urbanizzazione. Se il loro effetto non è omogeneo, è perlomeno sentito di riflesso anche nei villaggi più remoti. La cultura stessa è vista come una rappresentazione contestata, non come un sistema autonomo e autosufficiente. La tradizione di documentazione etnografica accurata e dettagliata si fa carico di questi sviluppi recenti, per esempio, considerando come interessanti quei luoghi una volta tralasciati dagli etnografi in quanto “acculturati” e includendo nel proprio sguardo fenomeni non tradizionali (le chiese, le discoteche, le scuole, gli ospedali, i parenti emigrati in città). Antropologi, insieme a sociologi, politologi, e storici del Pacifico, includono tra gli argomenti di studio più “tradizionali” anche interessi quali le tensioni post-coloniali riguardo all’accesso alle risorse nazionali e lo sviluppo, il fondamentalismo cristiano, e la mediazione di identità etniche ed economiche. Anche nella rivendicazione delle usanze locali (kastom) emergono tensioni e conflitti di natura post-coloniale, sulla politica della rappresentazione (cioè chi ha il diritto di definire, e per quale gruppo, quello che è da considerarsi costume, tradizione). Tutti questi elementi influiscono, in maniere complesse, sui tentativi degli stati melanesiani di creare sentimenti di identità nazionale contrastando la frammentazione sociale e politica. (Ricordiamoci che anche gli stati post-coloniali, non solo le regioni geografiche, sono il risultato di definizioni di confini arbitrariamente determinati in base agli interessi dei poteri coloniali ed alle loro relative fortune). Le tensioni che esistono tra le diverse fonti di potere e di valore sono espresse in problemi di tutti i generi (migrazione, vandalismo, banditismo, abusi sessuali, alienazione della terra, guerre locali, violenza politica, corruzione). Le popolazioni indigene in questi contesti nuovi e confrontati dalle influenze più diverse, esprimono, significati, dignità, e resistenza passiva, quando non attiva: tutti questi sviluppi culturali sono diventati importanti argomento di studio. Che la maggior parte della terra di nazioni come la Papua Nuova Guinea, Vanuatu, e le Salomon Islands, sia in mano alle popolazioni locali, e sia usata per attività di sussistenza, nonostante le crescenti pressioni da parte di impresari del legname e di multinazionali minerarie, non è solo indice di continuità col passato. In un ambiente globale in cui la proprietà indigena della terra ha un valore spesso molto tenue, questo fatto assume una valenza politica importante da un lato, e pone l’accento sulla minaccia rappresentata dalle mire espansionistiche delle multinazionali del legname, minerarie, petrolifere, in questa regione. La risorsa basilare rappresentata dalla terra di proprietà di piccoli gruppi residenti non è più garantita. Nella cornice storica post-coloniale la terra è diventata un bene attorno al quale si discute e si lotta, un diritto per il quale bisogna battersi, soprattutto data l’estensione dei terreni che devono essere disboscati per lo sfruttamento del legname. E’ diventato sempre più importante comprendere le continuità, oltre che i cambiamenti portati dagli sviluppi contemporanei. La migrazione, la trasformazione, e l’elaborazione culturale sono fenomeni endogeni alla Melanesia, e sono stati ampiamente documentati, a dire il vero, dagli antropologi impegnati nella descrizione delle culture locali, fin dai primi del ‘900 (Seligmann 1910). Pratiche e credenze indigene hanno dimostrato una robustezza sorprendente, le tradizioni non sono semplicemente state mantenute o modificate per adattarsi alle trasformazioni in atto, sono state riprodotte e attivamente ricreate (es. Jolly, 1994). Anche quando persistono, le tradizioni sono abbracciate in un contesto di trasformazione, ed acquisiscono significati nuovi. In altri casi alcune pratiche abbandonate riemergono più tardi in forma diversa, o con una nuova ragione d’essere. 14 • • • • • • A confronto con forme di cambiamento intrusive e sempre nuove è importante rendersi conto della selezione e della creatività applicata dagli indigeni nel fare proprie le varie influenze esterne. Spesso nuove immagini, nuovi valori e nuovi beni sono utilizzati per ridefinire e riconfermare il valore del “tradizionale” e del locale. Se è vero che il rapporto tra il “locale” ed il “globale” é uno dei temi chiave per l’antropologia contemporanea, ciò non toglie che sia ancora importante documentare se e come il senso locale del luogo sia soggetto a trasformazioni. In Melanesia esistono rapporti importanti tra lo spazio sociale e il luogo ambientale. Questi rapporti, che hanno risvolti spirituali e mitologici, sono integralmente legati all’affiliazione di gruppo. Questi legami dinamici tra concetti di luogo, identità e spazio sono creativamente elaborati da nativi che contemplano la trasformazione del loro territorio, il significato delle città e di altri nuovi luoghi di potere, e la possibilità di sviluppo economico attraverso progetti minerari o di sfruttamento delle foreste. In questi progetti sono chiamati in causa fattori diversi quali l’identificazione con la terra, i risarcimenti monetari, e l’adattamento ai mutamenti territoriali e culturali- inevitabili conseguenze del coinvolgimento con la modernità. Nuove configurazioni di identità locale e di tradizione emergono, quindi, anche dall’aspirazione alla modernità, e dalle complicazioni ad essa collegate; sono elaborate in opposizione ad un “altro” (che può essere un gruppo locale avversario, una multinazionale, istituzioni statali, o le donne), e contemporaneamente adottano nozioni associate alla modernità, come il successo individuale. I mezzi pratici con cui i Melanesiani articolano orientamenti di origine arcaica con le nuove pressioni e i nuovi desideri nel quadro delle tensioni e dei problemi associati alle circostanze postcoloniali e neocoloniali, rappresentano una crescente fonte di interesse e di conoscenza antropologica. Gli studi melanesiani hanno un’importante occasione per situare le affiliazioni postcoloniali in un quadro di influenze politiche ed economiche più generali. Tra le caratteristiche comuni alle varie forme di colonialismo avvenute in Melanesia ci sono: la limitata alienazione di terre, lo scarso sviluppo economico, una marcata barriera razziale tra bianchi e neri. In molte aree questo modello di intrusione si è intrecciato con nozioni tipicamente melanesiane di equivalenza sociale e materialità, risultando in quelli che furono chiamati i cargo cults (ovvero movimenti sociali di Melanesiani con aspirazioni economiche, che combinavano elementi di supplica religiosa per ottenere beni occidentali o denaro, con trasformazioni politiche e, a volte, opposizione e resistenza agli Occidentali). I numerosi risvolti di tali fenomeni non possono essere compresi in termini che siano esclusivamente indigeni o esogeni. Cristianesimo, la dominazione coloniale, e l’idea di business hanno avuto un impatto immenso, ma spesso tali influenze occidentali sono state appropriate dai melanesiani in termini indigeni, e applicate secondo dinamiche locali. Le ricerche sui cargo cults sono state foriere di quell’interesse per la relazione esistente tra cultura, politica e storia coloniale, sviluppata da Keesing negli anni ’80 e ’90. Da allora sono stati molti i ricercatori ad analizzare l’interfaccia tra cultura e storia nelle isole della Melanesia. Alcuni di questi lavori hanno portato a sfumare, se non cancellare, il confine tra Melanesia e la Polinesia ad est. Come abbiamo accennato in precedenza, i collegamenti culturali esistenti sia a livello regionale che globale pongono dei problemi all’integrità concettuale delle aree culturali. Questi sono particolarmente rilevanti nel caso della Melanesia, classicamente contrastata alle culture di cacciatori e raccoglitori dell’Australia, alle tradizioni “stataliste” del Sud-est Asiatico, e alle società associate ad una struttura gerarchica di capi tribù della Polinesia. Nel caso specifico della Melanesia, la tendenza fino a qualche decennio fa di considerare la Nuova Guinea, e soprattutto le sue parti più remote, come “la Melanesia Autentica”, ha di fatto disincentivato un’analisi delle numerose forme sociali e politiche esistenti nella regione. Le aree costiere, le isole, ed in generale le nazioni più orientali della Melanesia 15 hanno attirato un maggior numero di ricercatori tra quelli interessati alla storia del contatto e ai sincretismi, dando origine ad una rivalutazione critica e multivocale della storia dell’economia e della politica culturale dell’area. A sua volta la Melanesia non è più considerata come entità a se, ma come nodo di congiunzione tra Pacifico, Asia, ed Australia. Questa percezione, importante data la crescita di progetti di sviluppo a livello internazionale o regionale, influisce anche sui contenuti delle analisi etnografiche più locali e dettagliate. Conclusioni La Melanesia è stata il sito di numerosi importanti studi antropologici, fin dagli inizi della disciplina. I melanesiani hanno avuto un ruolo rilevante nella storia dell’umanità, non fosse altro che per i loro rapporti con gli esploratori europei e particolarmente per le storie coloniali ed il loro coinvolgimento nelle campagne per il Pacifico della seconda guerra mondiale. Oggi i melanesiani hanno vissuto molte trasformazioni negli aspetti politici, economici e religiosi delle proprie vite, e, con creatività, hanno incorporato queste trasformazioni nel ritmo della loro vita. Forme di governo parlamentari, imprese capitaliste e religione cristiana, sono tutte inizialmente state portate in Melanesia dal colonialismo. In tempi post-coloniali essi continuano a lottare con i risultati della storia coloniale e per definire e creare i propri modelli di vita collettiva nel mondo trasformato. Il mondo contemporaneo dei melanesiani include parlamenti, musei, centri culturali, imprese, multinazionali, chiese, ospedali e Aids. Quale che sia la loro genesi, queste realtà fanno parte della vita dei melanesiani oggi. Eppure un interesse per i modi di vita degli antenati, così come sono concepiti oggi, fa parte delle innovazioni politiche e sociali del neo-tradizionalismo. Questo mondo melanesiano di trasformazioni, adattamenti, incorporazioni, resistenza ed accomodamenti al mondo più vasto che lo circonda e di cui ora i suoi abitanti sono sicuramente più coscienti, è un mondo che è sicuramente interessante da conoscere, forse anche più di quanto lo fosse ai tempi dei primi esploratori del Pacifico. Ecco alcune delle caratteristiche della Melanesia contemporanea che la differenziano come area di studio antropologico. 1. La diversità culturale per la quale è così giustamente conosciuta, diventa ancora più significativa per una disciplina attualmente interessata all’esplorazione della diversità: con tutte le diverse lingue, e culture, questa regione offre terreno fertile a chi vuole interessarsi alla multivocalità, alle tensioni tra diverse voci, o al loro mescolamento. 2. Rispetto ad altre aree del mondo, l’influenza coloniale è stata recente e particolarmente breve, col risultato che le compressioni temporali della modernità, tra cui le tensioni tra le disposizioni indigene e le istituzioni, le reti e le tecnologie introdotte, sono particolarmente imponenti ed appariscenti in Melanesia. 3. Le pratiche e le credenze melanesiane sono state documentate in maniera approfondita e dettagliata, spesso ad uno stadio prematuro di contatto coloniale. Questo materiale fornisce ora una lente storica e culturale attraverso la quale analizzare gli sviluppi contemporanei, e permette una comprensione ricca ed articolata dei processi di trasformazione socioculturali. 4. La rappresentazione della Melanesia come area, e dei Melanesiani come popolazione, ha una posizione importante nella storia dell’antropologia. Da un lato queste rappresentazioni sono state all’avanguardia dei contributi modernisti dell’antropologia. Dall’altro, hanno spesso relegato la Melanesia alla casella “selvaggi” dell’immaginario occidentale, e considerato i Melanesiani come oggetti di studio più che come soggetti. Oggi questi temi richiedono analisi e riflessione. Il fatto che i Melanesiani stessi traggano ispirazione dalle rappresentazioni occidentali delle proprie tradizioni, nel negoziare i propri interessi nazionali, regionali, e di gruppo, rende ancora più importante la rilettura della letteratura etnografica. Al contempo questa rilettura offre spunti sulla storia della disciplina e per i suoi sviluppi futuri. 5. Così come la Melanesia è passata da un’era coloniale ad una post-coloniale o neocoloniale, gli studi melanesiani devono affrontare tutta una serie di temi emergenti, espandendo i 16 propri interessi per includere le trasformazioni sociali, politiche e teoriche, ma continuando nella migliore delle sue tradizioni, cioè di includere le voci, le pratiche, e le credenze dei melanesiani stessi. 17 LA NUOVA GUINEA Bisogna distinguere tra la nazione chiamata Papua New Guinea, e l’isola della Nuova Guinea. Quest’ultima è una grande isola tropicale, al nord dell’Australia, a cavallo tra la regione del Pacifico e l’arcipelago indonesiano, che politicamente è divisa in due parti. La parte occidentale, Irian Jaya o West Papua, era una colonia olandese, e dal 1962 è una provincia della Repubblica Indonesiana, mentre la parte orientale é la nazione della Papua Nuova Guinea. Questa parte era composta, a sud, dalla Papua, colonia inglese dal 1884 al 1906, e australiana dal 1906 al 1975; la parte settentrionale, o Nuova Guinea, era una colonia tedesca fino alla prima guerra mondiale, quando fu occupata dagli australiani, che poi l’amministrarono sotto mandato della lega delle Nazioni prima, e delle Nazioni Unite poi. Dal 1975 Papua New Guinea è uno stato-nazione indipendente, come capo di stato ha la Regina Elisabetta d’Inghilterra, rappresentata da un governatore, ma il ramo legislativo del governo (primo ministro e parlamento) sono eletti in regime di suffragio universale ogni 5 anni. Geografia Qualche decina di migliaia di anni fa l’isola era collegata alla massa continentale dell’Australia dal ponte terrestre del Sahul, ora sono le isole dello stretto do Torres a formare un passaggio tra le due grandi isole del Pacifico. L’isola è dominata da una catena montuosa che forma la spina dorsale, e che include vette oltre i 4000 metri, la parte occidentale dell’isola vanta l’unico ghiacciaio permanente dei tropici. La maggior parte del territorio è coperto da foreste pluvuali tropicali, il resto è costituito dalle pianure dei delta, pianure erbose e paludi di mangrovie, sulla costa sudovest c’è la palude più estesa del mondo. Tra i fiumi principali ci sono il Baliem, il Fly (esplorato per la prima volta da un naturalista italiano D’Albertis tra il 1875 e il 1878) e il Sepik. Annesse alla Nuova Guinea sono anche numerose isole, le maggiori sono New Ireland, Bougainville e New Britain. Le isole sono circondate da barriere coralline, e sono spesso teatri di fenomeni naturali violenti, legati alla natura vulcanica dovuta alla loro posizione sulla Pacific Fire Rim, le coste sono soggette anche alle onde anomale, tsunami, legate all’attività tellurica della zona. Il clima è monsonico, caldo e umido tutto l’anno, con una stagione delle piogge da dicembre a marzo ed una più secca da maggio ad ottobre, anche se ci sono variazioni stagionali e dovute alla geografia del paese, le zone montuose sono notevolmente meno calde di quelle costiere o delle isole. Le risorse naturali della Nuova Guinea includono oro, rame, argento, gas naturale e petrolio, oltre al legname ed ai pesci, sono storicamente state appetibili ma difficili da sfruttare, dato il clima, il territorio difficile ed il costo per sviluppare le infrastrutture. A questi problemi si aggiungono ora i danni ambientali causati dallo sfruttamento su larga scala delle foreste, che porta alla deforestazione, e delle miniere che portano gravi forme di inquinamento. L’agricoltura di sussistenza continua ad essere la principale fonte di sostentamento per l’85% della popolazione della PNG., mentre lo sfruttamento delle risorse minerali contribuisce il 72% dalle esportazioni nazionali. Tra i principali prodotti agricoli esportati ci sono il caffè, il cacao, e i prodotti derivati dal cocco. L’Australia, il Giappone e la Cina sono i maggiori importatori, mentre Australia e Singapore sono i principali fornitori di prodotti importati. L’economia dalla PNG dipende ancora largamente da aiuti economici esterni, soprattutto australiani. I dati relativi all’economia dell’Irian Jaya sono più difficili da ottenere, essendo una provincia dell’Indonesia, quel che è certo è che lo stato indonesiano considera tutto il territorio che non è attivamente coltivato od utilizzato per scopi industriali come proprietà statale. Considerando che l’agricoltura di sussistenza di queste popolazioni è basata sul tagliare e bruciare un appezzamento da coltivare per un breve periodo, e poi lasciare che la foresta ricresca per trasferirsi ad un altro appezzamento, la quasi totalità della terra può essere gestita dallo stato come vuole, negando i diritti ai suoi 18 proprietari originali. Per cui secondo un’organizzazione umanitaria che si occupa dei diritti degli abitanti della West Papua, dei 41,5 milioni di ettari di foresta pluviale. Più di 27,6 milioni di ettari sono stati classificati come foresta da produzione. Inoltre alcune delle principali multinazionali minerarie partecipano allo sfruttamento del petrolio e dei minerali del West Papua. Il complesso minerario più importante è il Freeport Indonesia Mining Operation, nelle Highlands Occidentali, proprietaria della seconda miniera di rame e del maggior giacimento d’oro del mondo. La Freeport da sola ha concessioni su 3,6 milioni di ettari di terreno in Irian Jaya, da cui sono stati scacciati gli abitanti originali per permettere le attività estrattive della Freeport, il maggior contribuente fiscale di tutta l’Indonesia . (Per approfondimenti vedi http://www.cs.utexas.edu/users/cline/papua/core.htm). Popolazione La popolazione dell’Irian Jaya è stimata intorno al 1,800,000 di cui oltre 700,000 sono indonesiani, è la provincia indonesiana con la maggior crescita demografica. Le popolazioni indigene comprendono diversi gruppi tribali, tra cui i Dani della vallata del Baliem, gli Asmat della costa, e gli Ekari della regione dei Wissel Lakes. Le lingue indigene sono oltre 250, anche se il governo ha imposto l’uso del Bahasa Indonesia in tutte le scuole egli uffici pubblici. Per quel che riguarda la Papua New Guinea, la popolazione stimata del 2003 è di 5,295,816 . Le lingue indigene sono oltre 700, il 2% della popolazione parla inglese, la lingua franca più conosciuta è il tok pisin (vocaboli derivati perlopiù all’inglese e dal tedesco, grammatica melanesiana), nella zona papuana è ancora usato il Police Motu, lingua franca sviluppata nell’era coloniale, basata sulla lingua delle popolazioni intorno a Port Moresby (i Motu), i primi ad essere reclutati nella forza di polizia locale che veniva utilizzata per pattugliare i territori della colonia. Le religioni dichiarate includono un 22% di cattolici, 16% di luterani, 5% di anglicani 23% di altre denominazioni protestanti, e 34% che si dichiarano praticanti di credenze indigene. La popolazione è perlopiù melanesiana, con qualche immigrato polinesiano e micronesiani, i nei centri urbani piccole comunità cinesi si occupano dei servizi commerciali, la comunità europea è notevolmente diminuita dagli anni ’80 per problemi di sicurezza. Storia pre-coloniale L’intera isola della Nuova Guinea è stata popolata da ondate successive di migrazioni provenienti dall’ Asia del sud-est, che cominciarono almeno 40000 anni fa. Questi primi abitanti popolarono soprattutto le coste della grande isola, hanno lasciato come traccia del loro passaggio delle asce litiche particolari, con due “lame” e assottigliate nel mezzo per permettere l’impugnatura (waisted stone blades), trovate sulla penisola di Huon, sulla costa settentrionale. Col tempo colonizzarono anche l’interno e le isole più remote, e diedero vita a complessi sistemi agricoli. Nelle zone vicino alla costa la malaria rallentava l’espansione demografica, ma ad altitudini più elevate la mancanza della malaria permise un’espansione maggiore, che a sua volta, risultò in una pressione per incrementare la produzione e per sviluppare la coltivazione dei tuberi dopo la fine del Pleistocene. A Kuk, vicino a Mount Hagen, archeologi come Jack Golson hanno scoperto evidenze di coltivazioni datate a oltre 6000 anni fa, forse 9000, che ne farebbe uno dei più antichi centri per lo sviluppo dell’agricoltura al mondo (Kirch, 2000). L’innalzamento della temperatura nell’Olocene avrebbe facilitato sia il movimento delle popolazioni che lo sviluppo dell’agricoltura, mentre l’aumento del livello del mare sommerse il ponte di Sahul, isolando la Nuova Guinea dal continente australiano. Studi archeologici suggeriscono che circa 3500 anni fa ci fu un’ulteriore ondata di migrazioni, di genti denominate Austronesiane, e probabilmente originarie di Taiwan. Alla prima di queste ondate è associato lo stile di ceramica Lapita (con decorazioni impresse e colorate di rosso), successivamente, circa 1500 anni fa, queste stesse popolazioni produssero e commerciarono lame di ossidiana e ornamenti in conchiglia. Erano navigatori ed esploratori, che si diffusero rapidamente 19 lungo le coste della Nuova Guinea e circa 1200 anni fa si spinsero oltre per colonizzare gradualmente tutto il Pacifico. Da allora le culture della Nuova Guinea si sono sviluppate attraverso una commistione tra le culture delle popolazioni precedenti, chiamate Non-Austronesiane (NAN) con quelle portate dai nuovi colonizzatori Austronesiani (AN), una differenza culturale tuttora rispecchiata dalle differenze linguistiche tra le diverse popolazioni, anche vicine tra loro. (Una delle spiegazioni che si dava per la varietà linguistica della Nuova Guinea era che si trattava di piccole popolazioni isolate su isolette o nelle valli, in realtà studi sulle trasformazioni linguistiche rivelano che è proprio tra popolazioni confinanti e con molti scambi sociali e culturali che si accentuano le diversità linguistiche, un meccanismo per mantenere un senso di identità distinto da quello dei vicini. (S. Harrison 1990) I primi contatti con gli occidentali Prima che arrivassero i primi navigatori europei le popolazioni della costa nord occidentale della Nuova Guinea (Bird’s Head) avevano contatti, non amichevoli, con gli imperi indonesiani di Majapahit e di Timor, da dove provenivano delle spedizioni di schiavisti. A loro volta queste popolazioni organizzavano razzie verso Ovest, contro le popolazioni di Timor e Java. Il primo esploratore europeo a passare ad avvistare la Nuova Guinea fu il portoghese Jorge de Meneses, che la chiamò Ilhas dos Papuas (isola dei capelli crespi). Lo spagnolo Inigo Ortiz de Retes, nel 1545 la battezzò Nuova Guinea, perchè pensava che gli abitanti somigliassero quelli della Guinea in Africa. Più tardi approdarono in Nuova Guinea altri navigatori come Bouganville, Cook, Stanley, e John Moresby. Per lungo tempo gli unici che cercarono di asserire la propria autorità su quest’isola così vasta e poco invitante furono gli olandesi, la situazione rimase indefinita fino al 1824 quando, per sostenere il proprio impero delle Indie Orientali, gli olandesi formalizzarono le proprie pretese di sovranità sulla porzione occidentale dell’isola. I tedeschi si assicurarono il possesso della parte nord-orientale (Nuova Guinea) nel 1884, gli inglesi si affrettarono a dichiarare un protettorato sulla parte rimanente dell’isola, che fu annessa quattro anni dopo. Storie coloniali La storia dei contatti delle popolazioni indigene con i vari esploratori, avventurieri, missionari, mercanti, ed agenti colonizzatori in questo territorio così vasto ed inospitale è molto varia, sia per stile adottato dai diversi poteri coloniali e per le loro stesse fortune storiche, che per i tempi diversi in cui sono avvenuti. Nei territori della Papua, il Governatore inglese Sir Hubert Murray, aveva instaurato un regime che, per quanto coloniale, era intenzionato a proteggere i diritti degli indigeni, per esempio vietando il blackbirding, mentre l’amministrazione tedesca era più orientata allo sfruttamento commerciale della colonia. In Nuova Guinea i proprietari delle piantagioni espropriarono terra dagli indigeni, reclutarono i lavoratori anche con la forza, ed importarono lavoratori esterni, con la conseguente importazione di nuove malattie infettive Nel 1906 la colonia della British New Guinea divenne Papua, e fu data in amministrazione alla nuova nazione indipendente dell’Oceania, l’Australia. All’inizio della prima guerra mondiale le truppe australiane occuparono il quartiere generale tedesco a Rabaul, e presero il controllo della Nuova Guinea tedesca. Nel 1920 la lega delle Nazioni la consegnò ufficialmente all’Australia. Durante la seconda guerra mondiale le isole e quasi tuta la costa settentrionali furono occupate dai giapponesi, che continuarono ad avanzare verso sud finchè furono fermate dalle forze alleate col grande contributo dei soldati papuani, sul Kokoda trail. Nel 1945 la terraferma e Bouganville erano stati ripresi dagli alleati, ma i giapponesi erano impregnabili dall’Isola di New Ireland e soprattutto da Rabaul su New Britain, dove scavarono 500 chilometri di gallerie sotterranee. Solo alla fine della guerra si arresero, e la parte orientale dell’isola ritornò all’Australia diventando il Territory of Papua and New Guinea. La fine della seconda guerra mondiale portò con se una trasformazione 20 ideologica in cui i poteri coloniali si vedevano delegittimati e un po’ ovunque, con tempi e modalità diversi, ci si preparava a restituire l’indipendenza ai popoli indigeni. L’Indonesia divenne repubblica indipendente nel 1949, e l’Olanda garantì l’indipendenza alle genti colonizzate in precedenza, tranne che in Nuova Guinea Occidentale che, data la popolazione melanesiana e le sue caratteristiche culturali rimase una colonia Olandese. Il governo europeo si era impegnato a preparare la popolazione indigena all’indipendenza durante gli anni ’50, ma si scontrava con le pretese del presidente indonesiano Sukarno che avanzava pretese su tutti i territori dell’ex colonia. Ci furono conflitti armati nel 1962, gli olandesi fecero un accordo segreto con gli indonesiani e lasciarono il territorio sotto il controllo dell’UNTEA (the United Nations Temporary Executive Authority) per un periodo di sei anni, dopo i quali un voto nazionale avrebbe dovuto determinare il futuro del territorio. In realtà l’Indonesia prese quasi subito il controllo della provincia. Nel 1969 si tenne un “referendum” in cui 1025 elettori selezionati dal governo indonesiano per rappresentare i 700000 abitanti melanesiani votarono per “rimanere con l’Indonesia”, così la parte occidentale divenne ufficialmente la provincia indonesiana dell’Irian Jaya. Il controllo indonesiano è sostenuto dall’uso massiccio di forze militari, associate direttamente alle imprese commerciali, il movimento all’interno del paese non è libero, e molte popolazioni locali sono state rimosse con la forza dai loro territori tradizionali per far posto a progetti di sfruttamento della foresta o del sottosuolo. Le comunità indigene reagiscono con ostilità ai nuovi insediamenti, ma il controllo militare, in aggiunta alla relativa difficoltà di raggiungere le aree remote fanno si che ci sia poca attenzione internazionale per gli abusi dei diritti umani in questa provincia melanesiana. Dal 1963 numerosi indigeni contrari al regime indonesiano hanno passato il confine per sfuggire alle persecuzioni politiche del governo, un’ondata particolarmente numerosa di rifugiati si ebbe in seguito al “referendum” del 1969. Nel 1984 altri 13,000 passarono il confine, la maggioranza dei quali vive tuttora nei campi rifugiati. Attualmente si sono circa 10,000 rifugiati, di cui 7000 vivono in campi lungo la frontiera che, non godendo della definizione ufficiale di campi rifugiati, non ricevono assistenza dall’ UNHRC (United Nations High Commissio for Refugees). Inoltre il governo indonesiano ha sponsorizzato un programma di trasmigrazione da altre province sovraffollate, come Java, Bali e Sulawesi, che ha portato in Irian Jaya oltre 700,000 migranti di etnie e cultura diverse. (http://www.irja.org/history/history.htm). L’esperienza coloniale delle varie popolazioni della Nuova Guinea è stata molto diversa, dunque, ma non solo a causa delle diverse vicissitudini macro-politiche. Un altro fattore che ha forgiato diversamente le storie coloniali su quest’isola è di natura geografica, o di storia locale. In entrambe le parti della Nuova Guinea, il contatto con le forze coloniali è avvenuto in periodi storici molto diversi lungo la costa e nelle zone interne. Le isole e le coste della Nuova Guinea hanno visto avventurieri, commercianti, e missionari occidentali dall’ultimo quarto del diciannovesimo secolo. Le diverse missioni cristiane hanno contribuito da un lato a difendere le popolazioni costiere dalle forme peggiori di sfruttamento coloniale e hanno contribuito alla pacificazione, ma hanno anche introdotto nuove idee e regole su questioni come il lavoro, l’uso del tempo, il vestiario, il mondo degli spiriti, il paradiso e l’inferno, l’igiene. Soprattutto all’inizio hanno attaccato e vietato molte festività e rituali indigeni, sostituendoli con servizi in chiesa e preghiere. In molti casi furono distrutti quelli che consideravano idoli pagani, comunque definirono le credenze e le pratiche tradizionali legate agli spiriti ed agli antenati come primitive, se non addirittura diaboliche. Anche se le generazioni successive a quelle dei primi convertiti , soprattutto dopo l’indipendenza, hanno cominciato ad adottare versioni trasformate dei propri riti tradizionali, spesso col supporto della chiesa locale, l’associazione delle credenze tradizionali ad un mondo primitivo e malvagio rimane a minare l’immagine di sé che hanno queste comunità cristiane. Le zone più interne delle Highlands, data la difficoltà del territorio, sono state esplorate molto più recentemente. Esploratori Australiani vi penetrarono per la prima volta a cavallo tra gli anni ’20 e 21 ’30. Abituati alle popolazioni poco numerose della costa, furono stupiti di trovare popolazioni prosperose e numerose, con vasti campi di tuberi. La loro organizzazione e la tradizione guerriera gli permetteva di resistere all’intrusione delle pattuglie esterne se si sentivano minacciati, d’altra parte erano anche in grado di fornire grandi quantità di cibo all’occorrenza. Inizialmente i nuovi arrivati bianchi furono quasi sempre scambiati per spiriti dei morti e della foresta, causando un certo allarme tra gli indigeni, che però presto cominciarono a commerciare con i nuovi venuti, soprattutto quando questi portarono le conchiglie dalla costa, che avevano un ruolo importante nei festival cerimoniali locali. Dati i tempi e le modalità diverse, in genere i primi contatti in queste aree sono stati più benigni che sulla costa. Anche nella parte occidentale dell’isola l’amministrazione coloniale olandese non cominciò ad esplorare l’interno fino all’inizio del secolo, e la grande vallata interna del Baliem, casa dei numerosi Dani non fu esplorata fino agli anni ’50, poco prima che passasse in mani indonesiane. Storia post-coloniale, Papua New Guinea Uno dei primi problemi del governo indipendente in PNG riguardava le tensioni con l’Indonesia, dovute all’influsso di rifugiati dall’Irian Jaya. Ci sono ancora circa 7500 rifugiati nella Western Province, ma il flusso è diminuito dopo il 1985. Il governo della PNG tende ad incoraggiare un rimpatrio volontario dei rifugiati, ma l’Indonesia non offre garanzie per chi ritorna. Sul fronte interno il più grosso problema dall’indipendenza, a parte problemi di ordine e sicurezza nei centri urbani, periodicamente terrorizzati da episodi di raskolism (bande di giovani disoccupati, spesso sotto l’influenza della birra che razziano i negozi dei quartieri commerciali, derubano e violentano le donne) per cui ricorre a soluzioni come il coprifuoco serale ed all’aiuto della polizia Australiana, è rappresentato dall’isola di Bouganville. Questa è un’isola a nord della Nuova Guinea, geograficamente e appartenente al gruppo delle Salomone, che però in periodo coloniale fu accorpata alla colonia tedesca della Nuova Guinea, e di conseguenza ora fa parte della Papua New Guinea. Nelle montagne di Bouganville operava una gigantesca miniera di rame, la Panguma copper mine, di proprietà australiana, che forniva un terzo degli introiti nazionali della nazione indipendente. I proprietari tradizionali della terra, insoddisfatti per l’inquinamento provocato dalla miniera, e dall’iniqua distribuzione dei profitti, hanno formato la Bougainville Revolutionary Army (BRA) che ha obbligato la miniera a chiudere nel 1989, e ha cominciato pretendere la secessione. A questi eventi è seguito un confronto armato con le forze militari nazionali, con diversi abusi umanitari; nel 1990 navi da guerra fornite dall’Australia furono usate contro i ribelli (St. Valentine’s Day massacre). Si intavolarono delle trattative di pace, ma queste furono minate dal tentativo del Primo Ministro di utilizzare dei mercenari sud africani per riprendere l’isola con la forza, il complotto fu scoperto causando scompiglio politico e i mercenari rispediti a casa. Ufficialmente il conflitto su Bouganville è finito nel 1998, in dieci anni di durata sono morti 20,000 isolani, ed altri 40,000 sono diventati rifugiati. Questo conflitto ha anche causato tensione tra il governo della Papua Nuova Guinea e quello delle Salomone. Per ora una forza di pace sta monitorando la pace, e in luglio sono programmate delle riunioni per decidere che forma di indipendenza verrà concessa all’isola. Scandali finanziari nel mondo della politica e catastrofi naturali (la siccità dovuta all’ultimo El Nino ha causato la morte di centinaia di persone, e tre tsunami hanno colpito la costa settentrionale nel paese distruggendo molti villaggi e uccidendo 3000 persone nel 1999), sono tra i maggiori problemi del paese. La situazione attuale Esistono seri problemi nella vita quotidiana dei cittadini, dovuti al deterioramento dell’ordine civile, in cui lotte tra gruppi si combinano con violenza criminale; conflitti emergono anche rispetto alla divisione dei profitti di imprese agricole o minerarie. Sono purtroppo comuni anche le accuse di corruzione in ambito politico ed amministrativo. Eppure, nonostante tutto ciò è notevole che le forme di governo istituite all’indipendanza hanno retto finora, dimostrando che la transizione 22 all’indipendenza era giustificata. In Irian Jaya o West Papua la situazione è diversa, i separatisti hanno protestato e lottato contro l’annessione all’Indonesia da quando le nazioni Unita l’hanno ceduta a Sukarno. In anni recenti le spinte separatiste sono state stimolate dai problemi con lo stato Indonesiano e dal successo del movimento indipendentista di Timor Est, ma il governo ha risposto con azioni repressive forti e violente, soprattutto nella Vallata del Baliem. Questa situazione pone un problema per il vicino stato di Papua New Guinea, che condivide un lungo confine non presidiato, attraverso il quale arrivano persone che richiedono asilo, ma anche incursioni punitive da parte di soldati indonesiani. Data la ricchezza del sottosuolo, è improbabile che l’Indonesia ceda alle richieste dei separatisti. Regioni culturali: continuità e differenze La Nuova Guinea, quindi è una terra che è stata divisa in maniera complessa a causa della sua storia coloniale e post-coloniale, ma anche dalle sue grandi vallate interne, i suoi picchi montuosi, i fiumi tumultuosi: le pianure e le paludi della costa hanno una storia molti più lunga di trasformazioni. Nel corso di molti millenni si sono evoluti diversi modi di vita, con una sorprendente molteplicità di lingue, cosmologie, forme di organizzazione sociale, adattamenti ambientali ingegnosi, e lotte per il prestigio ed il potere. Oggi a queste complessità culturali millenarie si sono sovrapposti e mescolati ulteriori numerosi cambiamenti con effetti in tutte le sfere della vita degli abitanti della Nuova Guinea. Una caratteristica che accomuna molte di queste popolazioni infatti, è l’abilità di far proprie le trasformazioni rimanendo legati al passato e guardando al futuro. All’interno di queste caratteristiche generali, la varietà culturale è notevole. I linguisti estimano che esistono 1200 lingue separate in Nuova Guinea e sulle sue isole del sud-ovest del Pacifico. Questa diversità non dev’essere sottovalutata, anche se aree che contengono diverse lingue possono contemporaneamente avere culture simili, nonostante la pratica corrente, in mancanza di altre forme di designazione di unità politiche, di identificare un gruppo locale con la lingua parlata. In alcune zone interne esistono gruppi linguistici più numerosi, fino a 200,000 persone. I gruppi linguistici più esigui tendono ad estinguersi, sia per l’emigrazione verso altre regioni dopo la pacificazione coloniale, sia per l’adozione di lingue franche come. L’inglese o il Tok Pisin. In molte zone costiere della Nuova Guinea si riscontra una forte influenza Austronesiana, per esempio tra i Tolai sull’isola di New Britain, su New Ireland, tra i Motu, i Roro ed i Mekeo della Papua meridionale, e tra gli abitanti delle Trobriand. Queste popolazioni hanno avuto sviluppi culturali differenziati nei secoli intercorsi dal loro arrivo in Nuova Guinea, ma alcune caratteristiche comuni permangono. Una di questa è la trasmissione per via matrilineare, sia dell’identità di gruppo (si appartiene al clan dei fratelli della madre) che di importanti forme di potere. Un’altra caratteristica associata alle culture austronesiana (ma non solo) è un forte accento sulle cerimonie mortuarie e sugli scambi tra gruppi alla morte. La terza caratteristica è il riconoscimento di capi ereditari, o di forme ereditarie di status differenziato. Gli Austronesiani portarono con loro cani e maiali, questi ultimi hanno un ruolo importante, insieme ai prodotti agricoli, negli scambi cerimoniali associati a varie feste, anche questa caratteristica però non è esclusivamente austronesiana. Gli Asmat dell’Irian Jaya appartengono allo stesso tipo culturale della costa meridionale della Nuova Guinea (come i Kiwai e altre popolazioni del Papuan Gulf in PNG). Vivono sparpagliati in pianure paludose e nel passato pre-coloniale praticavano sia il cannibalismo che la caccia alle teste. Producevano effigi dei morti in legno pitturato, che servivano a catturare la vitalità dei deceduti, i cui spiriti poi lasciavano il mondo dei vivi. Queste sculture lignee erano perlopiù dei pali con intagli complicati, e sono conosciuti col nome di bisj. Gli Asmat costruivano anche degli scudi, intagliati con figure umane o con complessi disegni astratti; gli scudi erano chiamati col nome di antenati morti, e venivano utilizzati durante i raid di caccia alle teste dei nemici, per vendicare la morte 23 dell’antenato, i disegni intagliati sugli scudi avevano lo scopo di confondere e terrorizzare i nemici attaccati. Quando l’Indonesia prese il controllo della parte occidentale dell’isola molte delle vecchie sculture lignee sono state distrutte, più tardi c’è stato un revival nella produzione di sculture per i musei locali (Thomas 1995: 79-88). In anni recenti sia gli scudi che le sculture funerarie sono state prodotte per il mercato turistico. Le Trobriands nella regione del Massim sono conosciute per i ben documentati scambi cerimoniali kula, resi noti negli anni 1920 da Bronislaw Malinowski (1922). Continuano ad esistere sia gli scambi che l’interesse che li circonda, anche se sono stati trasformati. Il resoconto di Malinowski evidenziava soprattutto l’aspetto competitivo ed estetico del kula; il contesto avventuroso dei viaggi oltremare intrapresi dagli uomini in grosse canoe finemente costruite e decorate allo scopo di procurarsi degli oggetti di valore (conchiglie sbracciali in conchiglia); oltre al collegamento col sistema sociale strutturato attorno ai capi ereditari, e col tributo interno di yam (ignami) fornito ai capi soprattutto dai parenti delle mogli, che venivano accumulati in apposite “yam houses” cerimoniali. Negli anni successivi altri etnografi hanno rivisitato le Trobriand e fornito altre versioni del Kula. Forse la meglio conosciuta è quella di Annette Weiner, che ha fatto ricerca suol campo a Kiriwina, lo stesso villaggio in cui aveva vissuto Malinowski. In questo resoconto la Weiner dimostra che, durante la sua permanenza, gli scambi mortuari effettuati dalle donne delle Trobriand in onore dei loro parenti matrilineare avevano un ruolo più importante di quello riconosciuto da Malinowski (Weiner 1976). Le differenze tra le descrizioni dei due etnografi sono attribuibili sia a trasformazioni storiche dell’isitituzione in questione, che alle diverse prospettive degli osservatori. Più recentemente Mark Mosko ha ripreso in considerazione entrambe le descrizioni e le ha analizzate in termini della concezione della persona e dell’idea che i capi delle Trobriand siano considerati come i “padri” della loro gente. Un’altra regione della Nuova Guinea che è stata resa nota dagli etnografi, antropologi e collezionisti che vi hanno lavorato è quella del fiume Sepik. Tra questi i più famosi sono forse Margaret Mead e Gregory Bateson. Gli aspetti più generalmente conosciuti delle culture Sepik sono le rappresentazioni scultoree degli spiriti legate ai complessi rituali di iniziazione, e alle case dei culti spirituali, dall’architettura e decorazioni notevoli, in cui si producono le sculture e si tengono i riti iniziatici. Queste caratteristiche sono associate soprattutto al tratto mediano del fiume, agli Abelam ed agli Iatmul, ma non sono uniche al Sepik, né queste culture sono esaurientemente descritte se ci si ferma a queste caratteristiche. Tuttavia ora questi elementi, forse grazie alla loro visbilità, sono entrati a far parte del bagaglio culturale nazionale della Papua Nuova Guinea. Forse più che in altre regioni, l’ambiente del Sepik ha subito molte modifiche nel tempo, dovute all’allagamento dell’estuario alla fine del Pleistocene, seguito dal graduale riaffiorare di alcune parti. Forse questo processo ha stimolato un’adattività ai cambiamenti che ha portato ad una grande varietà culturale in questa regione, complicata ulteriormente dall’arrivo degli Austronesiani con la loro propensione per organizzare vaste reti commerciali e di scambi via acqua ed incentrate sulle coste marine. Le popolazioni delle zone più interne del Sepik parlano lingue non-Austronesiane, tra cui il gruppo di lingue Ndu che è composto da sette lingue, parlate da 100000 persone. Vi sono anche numerosi piccoli gruppi linguistici, alcuni dei quali stanno scomparendo come lingua per l’avanzare dell’inglese e del Tok- Pisin, oltre che per l’emigrazione. La regione delle Highlands della Papua Nuova Guinea si aprì alla ricerca antropologica dopo la seconda guerra mondiale, ed ha acquisito notorietà per un certo numero di caratteristiche. Prima di tutto, è stata meta favorita da tutti quegli etnografi attirati dall’idea di studiare popolazioni che erano solo recentemente entrate a contatto con i portatori della cultura occidentale. La letteratura etnografica su questa regione è molto ricca, e include le controversie sull’analisi delle forme di affiliazione ai gruppi, sulla struttura dei gruppi sociali, sulle caratteristiche della leadership, sull’importanza degli scambi cerimoniali, e sulle relazioni di genere. In anni più recenti la discussione sulle forme di leadership è stata incentrata sulla questione del contrasto attribuito dai diversi etnografi alle forme associate al “big-man” e al “great man”. Classicamente la figura del “big-man” è un leader che fonda la propria autorità sull’abilità di organizzare scambi cerimoniali di 24 doni, forgiando reti di relazioni sia internamente al proprio gruppo di supporto che con gruppi rivali, questa è dunque una posizione in cui l’autorità è acquisita da un individuo grazie alla sua ambizione ed abilità nell’accumulare e manipolare risorse e relazioni. La figura del “great-man”, invece è più sfaccettata: questi leader possono essere guerrieri, sciamani, esperti rituali, cacciatori od orticultori di fama, a volte con capacità ereditate. Secondo questa classificazione, i “big-men” si troverebbero nelle società in cui si attribuisce grande importanza agli scambi cerimoniali, mentre i “great-men” sarebbero più comuni nelle altre società. Il problema di questa classificazione è che spesso lo stesso leader ha diverse funzioni e caratteristiche. Per esempio inizialmente si attribuiva ai big-men un ruolo secolare, mentre i il potere politico dei great-men era associato alle loro posizioni rituali, mentre in pratica, i big-men devono il loro successo nelle proprie attività al supporto degli spiriti o degli antenati, quindi anche in questo caso hanno un’importanza anche rituale, oltre che secolare. L’intero dibattito sui big-men e great- men è stato preceduto nella letteratura da un altro sul ruolo dei “big-men”Melanesiani in contrasto ai Capi della Polinesia, in cui le caratteristiche contrastate erano le modalità di acquisizione della posizione di leader, nel caso dei capi era attribuita tramite l’ereditarietà, mentre per i big-men l’autorità era acquisita in base al merito sul campo. Anche questa semplice dicotomia è risultata inadeguata a riflettere le complessità delle differente pratiche sociali incontrate in Oceania. E’ più fruttuoso rilevare una sottostante interazione sia tra l’ereditarietà e la conquista del potere e che tra i poteri spirituali e quelli secolari (Feinberg and Watson Gegeo 1996). Questi temi saranno ripresi in alcuni dei casi presentati più avanti. Nonostante la regione delle Highlands sia stata l’ultima ad essere esplorata dai bianchi, non era tagliata fuori dal resto del mondo, già nel periodo preistorico esistevano strade commerciali che attraversavano l’isola, e lungo le quali viaggiavano sia beni che idee. La patata dolce raggiunse questa zona tra i 400 e i 1000 anni fa, rivoluzionando le attività di sussistenza della regione e favorendo un’esplosione demografica (Kirch:2000). In precedenza le coltivazioni di sussistenza erano basate sul taro, le banane e la canna da zucchero; la patata dolce che non solo frutta di più sulla stessa superficie, ma può essere coltivata ad altitudini più elevate, permise di estendere i terreni coltivati e stimolò migrazioni in luoghi prima considerati inospitali. Le altre piante continuano ad essere coltivate, ma hanno perso il ruolo centrale nella sussistenza. Inoltre la patata dolce, usata come foraggio, permise l’allevamento dei maiali su larga scala. Questi tre fattori: densità di popolazione, abbondanza di patate dolci e l’allevamento di numerosi maiali come indice di prestigio, sono alla base dello sviluppo del modello politico associato alle Highlands, fondato sull’abilità di organizzare festival tra gruppi alleati in cui sono distribuiti grandi quantità di maiali o della loro carne. Le variazioni locali di questo modello sono numerose. In Irian Jaya i Dani della Baliem Valley hanno sviluppato un sistema di fossi di irrigazione per sostenere la coltivazione di patate dolci sugli altipiani. In generale si sono sviluppate tipologie sociali differenti nelle Highlands occidentali e orientali: ad est vi è una prevalenza di villaggi più grandi, circondati da alte palizzate, associati ad una maggiore attività bellica e ad attività legate all’iniziazione dei giovani, con minore enfasi sulle alleanze con i gruppi imparentati dallo scambio di donne, i gruppi linguistici sono meno numerosi che nelle Western Highlands. Qui le abitazioni sono sparpagliate in piccoli gruppetti sul territorio del clan, c’è una maggiore enfasi sui riti per incrementare la fertilità del gruppo intero, un ruolo maggiore delle donne negli scambi cerimoniali, e una maggiore attenzione alle alleanze con i gruppi imparentati tramite le donne, quindi maggiore enfasi sugli scambi cerimoniali. I gruppi linguistici in quest’area sono i più numerosi, i Hageners e gli Enga superano le 100,000 unità. A sud e a est delle Highlands ci sono popolazioni numericamente inferiori, i Telefolmin e gli Ok, che sono imparentati con i gruppi ora appartenenti all’Irian Jaya come gli Eipo Mek, i Dani e gli Ekagi (una volta erano conosciuti nella letteratura come i Kapauku). Tutte queste popolazioni sono associate alla coltivazione del taro piuttosto che della patata dolce, ed a tradizioni fortemente legate all’iniziazione. Sia i maiali che oggetti di valore in conchiglia sono sempre stati utilizzati in scambi e commerci in tutta la Nuova Guinea. Una gran varietà di conchiglie venivano scambiate lungo strade commerciali 25 che attraversavano tutta l’isola. Questi commerci avvenivano in occasione, o addirittura promuovevano l’organizzazione, di eventi festivi su larga scala, durante i quali si negoziavano i complessi processi sociali e venivano affermati valori sociali dei gruppi coinvolti. Gli oggetti di valore ed i maiali erano anche utilizzati nei rituali del ciclo vitale, venivano scambiati in occasione di nascite, svezzamenti, pubertà, matrimoni, maturità, anzianità, e morte. Questi rituali servono ad intrecciare le genti ed i loro luoghi per formare una complessa tappezzeria di relazioni di parentela ed alleanze matrimoniali, che sono viste come il prodotto del flusso di sostanze che portano e accrescono la vita. Gli oggetti scambiati stessi erano considerati come equivalenti ai flussi di sostanze tramite i canali stabiliti dalla parentela, ed è per questo che avevano un ruolo principale nelle cerimonie di scambi relative ai cicli vitali. Questa enfasi sugli scambi cerimoniali si trova dappertutto in Nuova Guinea, e generalmente in Melanesia, declinata in una miriade di cerimonie tradizionali diverse. Questa varietà non è stata intaccata dal contatto con la cultura coloniale o dalla globalizzazione, anzi si sono sviluppate numerose nuove forme di scambi cerimoniali nei contesti più disparati. Dopo l’introduzione della carta moneta, in alcune popolazioni questa è stata sostituita alle conchiglie negli scambi, mentre altri continuano ad usare le conchiglie, che sono tenute fuori dal contesto commerciale moderno. Comunque rimangono oggettivi di valore come ornamenti e segni dello status o dell’identità di chi li indossa, anche se alcuni sono venduti ai turisti. In alcuni casi le chiese cristiane contemporanee incoraggiano l’uso degli ornamenti tradizionali durante le feste, in altri gli ornamenti in sé sono condannati dalla chiesa in quanto inducono un’ eccessiva attenzione al corpo, distogliendola dall’anima. La differenza qui è tra le chiese cattolica e anglicana da una parte e quelle protestanti fondamentaliste. I processi di trasformazione che sono avvenuti e continuano ad avvenire in Nuova Guinea sono immensi, abbiamo già visto che in tempi preistorici movimenti di popolazioni e scambi culturali anche su reti allargate favorivano una grande creatività e varietà culturale, questa fu accentuata sia in scopo che intensità nel periodo coloniale per le intrusioni dei tedeschi, olandesi, inglesi, australiani ed indonesiani, per la Papua Nuova Guinea, ulteriori trasformazioni avvennero con l’indipendenza nel 1975. Lo stato di Papua New Guinea è una democrazia parlamentare basata sul modello di Westminster, con una costituzione ed un servizio civile modellato su quello Australiano. Con una popolazione poco numerosa (circa 4 milioni) ma caratterizzata da un’enorme diversità culturale, vi sono grandi disparità nel benessere economico delle aree urbane e quelle rurali. Un immenso influsso di beni di consumo occidentali ha fatto salire le richieste e le aspettative della popolazione in maniera sproporzionata alle capacità economiche di soddisfarle. Le chiese cristiane sono realtà ben radicate, anche se a volte vi sono rivalità tra fazioni diverse, soprattutto in quei luoghi, come Mount Hagen dove nuovi movimenti pentacostali e carismatici minacciano la posizione di chiese già radicate localmente, come quella cattolica, luterana, ed anglicana. Questo quadro complesso, in cui sono mischiate diverse immagini ed idee esterne hanno dato luogo in alcuni casi ad aspirazioni millenarie locali. Movimenti che aspirano a capovolgimenti radicali nello status e nella ricchezza delle genti, in particolare tendono all’acquisizione di ricchezza e status da parte di quelli che si sentono deprivati nelle condizioni attuali. Spesso questi movimenti coincidono con il diffondersi di idee di ispirazione cristiana, come “la fine del mondo” seguita dall’inaugurazione di una nuova epoca, espressa come “il millennio”. Queste idee raggiunsero un culmine negli anni precedenti al 2000, che era visto come l’inizio di un nuovo millennio. In seguito, visto che non vi sono stati cambiamenti epocali, la gente si è riorganizzata per continuare le proprie vite nel migliore dei modi possibili, ma idee millenaristiche persistono, anche se non sono manifestate esplicitamente. Nella diversità che ritroviamo in Nuova Guinea si riescono comunque ad identificare vari temi ricorrenti: l’enfasi su scambi cerimoniali politici o associati ai passaggi nei cicli vitali dell’individuo; un elaborato sistema di pratiche rituali legate all’obbiettivo di promuovere la riproduzione della fertilità e del benessere; strategie ingegnose ed efficienti per vivere 26 nell’ambiente; un interesse per i legami commerciali o di scambi e di relazioni esterne con membri di altri gruppi; amore per lo sfoggio e per l’ornamentazione. I Marind-Anim e i Fore: due esempi di pratiche culturali sfavorevoli alla sopravvivenza della società Non tutte le culture incontrate in Nuova Guinea sembrano essere buone soluzioni ai problemi posti dall’adattamento all’ambiente naturale. Gli ecologisti culturali, come Rappaport, tendono a considerare una cultura in equilibrio, sia internamente che in relazione all’ambiente, e a ricercare le interconnessioni funzionali tra gli aspetti economici, sociali e religiosi dell’organizzazione di un gruppo sociale. Questo approccio è implicitamente basato su una visione a ‘mosaico’ del mondo tribale, in cui ogni cultura è vista come relativamente autonoma, separata, stabile, e che non prende in considerazione l’impatto del mondo esterno. Anche nel periodo pre-coloniale, quando i contatti tra culture erano di natura e scala diverse da quelli inaugurati dall’arrivo dei primi occidentali, non ha senso ipotizzare che le culture in un dato momento vivessero in uno stato di equilibrio ambientale, ed avessero sviluppato le strategie culturali più adatte alla sopravvivenza in un dato contesto ambientale. Secondo Morton 1978 per distinguere una pratica, un comportamento, una cultura ben adattata all’ambiente da quelli che non lo sono, è necessario uno studio diacronico. Solo per il fatto che in una società, studiata in un dato momento sia praticata una certa usanza, non la si può definire come utile dal punto di vista dell’adattabilità. Se invece si prende in considerazione un periodo storico più lungo, ed una prospettiva regionale, in cui membri di gruppi diversi, più o meno vicini e più o meno simili dal punto di vista linguistico e culturale interagiscono e si scambiano donne, beni, conoscenze, e anche violenza, si può cominciare a valutare il relativo “successo” in termini di sopravvivenza di determinate pratiche culturali. In un’ ottica storica i popoli “di successo” sono quelle con una popolazione in espansione. Ma a volte il motivo per l’espansione di una società, la necessità di conquistare i territori dei propri vicini, può essere un’espressione di instabilità e disequilibrio culturale. Un esempio della difficoltà di attribuire un valore di successo o adattabilità ad una cultura è quello dei Marind Anim. Apparentemente, al momento del contatto con l’occidente, e per tutto il secolo precedente, la cultura e la società dei Marind Anim della costa sud della Nuova Guinea stava vivendo un momento di espansione territoriale e di efflorescenza culturale: avevano conquistato il territorio di numerosi vicini e avevano raggiunto un apice in termini di creatività artistica e di riti collettivi. La loro cultura ruotava attorno a culti dell’omosessualità maschile, stupri rituali e caccia alle teste. I ragazzi Marind Anim erano indotti in una serie di iniziazioni graduate durante le quali erano introdotti ad un culto orgiastico di sodomia, in cui i più giovani avevano un ruolo passivo. L’intero complesso rituale era sostenuto dal dogma culturale che lo sperma è necessario alla crescita ed allo sviluppo dei ragazzi. Tutto l’elaborato ciclo rituale era costruito attorno alla finzione maschile della propria supremazia ed indipendenza sessuale, eppure comportava anche rapporti eterosessuali sotto forma di stupri di gruppo. Il seme prodotto veniva raccolto e mischiato al cibo o utilizzato nelle decorazioni rituali. Secondo Van Baal (1966:949) il vero segreto in questo culto maschile (rivelato solo all’ultimo stadio della serie di iniziazione graduate) era che la tanto venerata potenza maschile non lo era poi tanto, in quanto la fonte di tutta la vita, lo sperma, era efficace solo se prodotto durante la copulazione eterosessuale. Gli uomini che celebravano la propria autosufficienza, al culmine dei propri riti segreti ammettevano la propria dipendenza dalle donne, facendo montare la rabbia ad un livello tale che immediatamente dopo partivano per una spedizione di caccia alle teste. Il matrimonio era inaugurato con lo stupro collettivo della sposa da parte degli uomini di tutto il suo clan, questa pratica, ripetuta periodicamente con le giovani mogli al costo di grande sofferenza fisica, era sostenuta dalla credenza che sia lo sperma mischiato degli uomini della comunità a promuovere la fertilità. Questa preoccupazione culturale per la fertilità era giustificata dal fatto che la popolazione dei Marind Anim aveva, in effetti, un tasso di infertilità molto alto - che in seguito venne peggiorato 27 con l’introduzione di malattie veneree portate dagli occidentali. Uno studio demografico condotto da una commissione per il Sud Pacifico ha concluso che la pratica di violenza sessuale collettiva, in parte una risposta culturale all’infertilità, in effetti perpetuava e peggiorava il problema. Eppure, anche se le pratiche sessuali dei Marind Anim non si potevano dire efficienti dal punto di vista demografico, i loro villaggi erano fiorenti centri di attività culturali, di arte, miti e cerimonie imponenti. Inoltre i Marind Anim sostenevano con successo una politica di espansionismo e decimavano le popolazioni circostanti. Il loro potere militare era sostenuto dalle ricche risorse di sago che permetteva il sostentamento di una popolazione numerosa concentrata in villaggi sedentari. Era proprio tramite questa politica di conquista che i Marind Anim riuscivano a mantenere un livello di popolazione accettabile: durante le spedizione di caccia alle teste, catturavano i bambini, che poi venivano adottati. Letteralmente sfruttavano i poteri riproduttivi dei propri vicini per poter sostenere la propria cultura basata su uno stile di vita orgiastico e una politica esterna espansionista. Questo a sua volta evidenzia la natura sbilanciata dell’adattamento culturale dei Marind Anim: la loro espansione era limitata nel tempo, probabilmente non era antica e non sarebbe durata a lungo anche senza l’intervento degli europei, il sistema sarebbe crollato per l’effetto della decimazione della popolazione circostante. E’ quindi pericoloso dare per scontato che le tradizioni di un popolo tribale siano il risultato di adattamento alle condizioni ambientali, Salisbury suggerisce che è più probabile che una società sia in una fase di lenta espansione che di equilibrio dinamico, e ci ricorda che quando un antropologo descrive il comportamento sociale in un luogo e un momento specifico nel tempo, non descrive l’adattamento equilibrato ad un ambiente specifico, ma piuttosto una data realizzazione di particolari regole culturali, da parte di persone specifiche che modificano il proprio comportamento per gestire particolari pressioni di tempo e di luogo. Sarebbe più proficuo considerare i le culture non come un microcosmo isolato, ma come parte di un più vasto complesso di culture su base regionale, ed in prospettiva storica. Le pratiche culturali che osserviamo possono essere anche pratiche dannose per la sopravvivenza del gruppo nel quale si sono sviluppate, e a lungo termine essere destinate all’estinzione. Il caso più evidente è quello dei Fore della Nuova Guinea. In questa popolazione circa l’uno percento, soprattutto tra le donne, morivano ogni anno di una malattia degenerativa del sistema nervoso, chiamata kuru. Dal punto di vista demografico questo fenomeno aveva conseguenze catastrofiche: in certe zone c’era una sola donna ogni tre uomini, e la popolazione era in declino. Un risultato di questo squilibrio demografico erano un’organizzazione sociale ed un sistema matrimoniale frenetici, a causa della mancanza di donne da sposare, e della frequente morte di mogli e madri. Inoltre, i Fore interpretavano le morti per Kuru come il risultato di attacchi di stregoneria, e la morte di una donna per questa malattia spingeva gli uomini ad attaccare i loro vicini per vendicarsi della stregoneria, sconvolgendo ulteriormente l’ordine sociale, oltre ad aggravare la situazione demografica. Grazie al lavoro degli antropologi Shirley Lindenbaum e Robert Glasse negli anni ’70, che identificarono com’era trasmessa questa malattia, il Dottor Carlton Gajdusek isolò il virus che causa il Kuru, e vinse un premio Nobel. Queste scoperte hanno permesso di capire che il kuru è trasmesso da un virus che attacca il sistema nervoso centrale dopo un periodo di incubazione che può durare oltre i quindici anni. Il virus, che si concentra nei tessuti cerebrali della vittima veniva trasmesso grazie ad una tradizione dei Fore. Le donne ed i bambini ingerivano ritualmente i corpi ed i cervelli dei parenti morti. Solo mangiando il cervello di un malato è possibile contrarre la malattia. L’amministrazione coloniale, vietando il cannibalismo ha rotto il circolo vizioso e messo fine al kuru. Ironicamente, come nel caso dei Marind Amin, Lindembaum (1979) suggerisce che l’usanza di mangiare i corpi dei propri parenti morti era un tentativo di rigenerazione simbolica in una società i cui membri si sentivano minacciati dal calo demografico. Sia il Kuru, che le pratiche cannibalesche che lo causano, erano fenomeni abbastanza recenti, e anche in questo caso si può ipotizzare che questa tradizione si sarebbe estinta in breve tempo. Di certo però il fatto che la risposta culturale 28 alla crisi demografica causata dal Kuru fosse di sviluppare teorie sulla stregoneria che portavano a ulteriori comportamenti controproducenti, non sembra sostenere la tesi degli ecologisti culturali che le tradizioni esistenti sono un’adattamento all’ambiente. Quello che emerge è un quadro in cui le diverse popolazioni in una regione, e quindi le loro culture, sono in qualche modo in competizione tra loro. Mentre tutte le popolazioni hanno comportamenti più o meno efficienti dal punto di vista dell’adattamento all’ambiente, il successo organizzativo, economico e demografico delle diverse popolazioni varia, e questo successo differenziato determinerà se queste popolazioni, e le culture di cui sono portatrici, si diffonderanno o contrarranno, conquisteranno altre popolazioni o saranno assorbite. Molte società praticano riti e seguono costumi con conseguenze negative o al massimo neutrali, e continuano a farlo con la determinazione di seguire le vie del passato che è caratteristica degli esseri umani, almeno quanto la flessibilità ed il pragmatismo. Non si può, quindi, affermare che le trasformazioni socioculturali siano totalmente determinate dalle pressioni ambientali. Queste possono essere dei limiti ma non sono determinanti delle trasformazioni sociali e culturali, che operano invece a livello di significato e di motivazione umani. L’uso delle risorse naturali e sostenibilità ambientale L’estrazione e la lavorazione delle risorse naturali fanno parte ormai da molti anni della vita economica della Papua Nuova Guinea. Lungo la costa settentrionale dell’isola le piantagioni di cocco, per la produzione della copra, caffè e gomma, risalgono ai primi anni del colonialismo. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con, l’apertura delle Highlands, piantagioni di caffè e tè sono state piantate anche in queste zone di altitudine più elevata. Poco dopo l’inizio della storia della Papua New Guinea come nazione indipendente nel 1975, cominciarono le operazioni estrattive nella miniera di rame di Bougainville. Questo progetto minerario ha portato a conflitti locali, uno dei pochi eventi politici su questa area del mondo a raggiungere anche i nostri giornali. I proprietari tradizionali della terra su cui operava questa miniera accusarono i proprietari degli impianti di inquinare l’ambiente e di non ripagare gli abitanti a sufficienza in termini monetari. Questi conflitti portarono ad una rivolta armata della Bouganville Revolutionary Army nel 1988, e alla richiesta di secessione dalla Papua Nuova Guinea (vale la pena ricordare che geograficamente e culturalmente l’isola di Bouganiville appartiene più alle Salomone che alla Nuova Guinea, l’accorpamento è dovuto solo alla comune storia coloniale di Bouganville e della pozione settentrionale della Nuova Guinea, entrambe ex colonie tedesche. In effetti la crisi di Bouganville ha anche rischiato di compromettere le relazioni tra le due nazioni neo-coloniali, in quanto molti abitanti delle Salomone, legati da parentela con queli di Bouganville, hanno prestato aiuto ai ribelli). I ribelli sono riusciti a far chiudere la miniera. La crisi è stata gestita con la forza, con l’uso delle forze di polizia e militari, e ha coinvolto i politici nazionali in molte iniziative per risolvere il problema, anche perché gli introiti dello stato da quella miniera rappresentavano una delle maggiori fonti di reddito nazionale. Il 20 Agosto 2001 è stato firmato un trattato di pace. Un’altra grande miniera di oro e rame, la Ok Tedi gold and copper mine, ha cominciato ad operare nell’area di Tabubil nella West Sepik Province. Questa miniera frutta enormi somme di denaro in royalties e altre tariffe sia al governo nazionale, che provinciale, che ai proprietari tradizionali. Dopo anni di controversie sull’inquinamento dovuto alla lavorazione dei materiali della miniera e che si è riversato nei sistemi fluviali a valle della miniera, per esempio nel fiume Fly, sono sfociati in richieste di indennizzo da parte delle comunità locali che vivevano e sfruttano le risorse dei corsi d’acqua inquinati. Nel Gennaio del 1990 le comunità del fiume Fly e del fiume Alice hanno minacciato di bloccare il fiume e far chiudere anche questa miniera. Ogni anno la miniera scarica 30 milioni di tonnellate di scarti direttamente nel fiume Ok Tedi, tributario del Fly, che è il maggior sistema fluviale della Papua Nuova Guinea, e che è stato dichiarato biologicamente “morto” in alcuni dei tratti più colpiti dall’inquinamento (grandi quantità di cianuro sono necessarie in questa lavorazione)1. 1 Per informazioni aggiornate dal punto di visto ecologico, vedi http://www.mpi.org.au/oktedi/. 29 Nella provincia delle Southern Highlands sono state scoperte riserve di petrolio e gas naturale, il loro sfruttamento è iniziato negli anni ’80 da parte della compagnia petrolifera statunitense Chevron e dalla British petroleum. Queste operazioni portano guadagni, ma a livello locale portano soprattutto servizi come ospedali, scuole, ponti e strade, caserme per la polizia, penitenziari e piste di atterraggio per gli aerei. Questi servizi si affiancano e spesso superano quelli forniti dallo stato. Gli abitanti locali sviluppano verso le imprese che portano questi servizi un atteggiamento simile a quello che riservavano al governo, e questo risulta in uno stato di dipendenza che è difficile interrompere da parte degli abitanti della zona. Oltre ai servizi e ai guadagni monetari a livelli locale e nazionale, le imprese di sfruttamento del sottosuolo pagano dei risarcimenti agli abitanti della zona per la perdita della terra, per l’impatto ambientale, e in certi casi pere le eventuali spese di trasferimento, ma in molti casi questi risarcimenti sono considerati insufficienti dalle popolazioni locali, e troppo alti dalle multinazionali che li pagano. La Porgera Joint Venture Gold Mine nella Enga Province ha cominciato ad operare nel 1991, nel 1992 era la terza miniera d’oro, in termini di produzione, al mondo. Nel 1999 si doveva espandere, il che significava pagare ulteriori risarcimenti per il trasferimento altrove di ancora altri abitanti, che avrebbero perso perennemente il diritto alla loro terra. La questione dei risarcimenti e degli effetti sulla popolazione locale dev’essere ancora approfondita. Tutti questi sono esempi del risultato dei conflitti che sempre più confrontano i governanti di queste nuove nazioni: le multinazionali offrono al governo di sfruttare le risorse naturali del paese in cambio di ritorni monetari molto allettanti sia localmente che a livello statale, i proprietari della terra locali sono ugualmente sedotti dalle promesse di ritorni economici, sviluppo, lavoro. Sfortunatamente sia le conseguenze ecologiche che quelle politiche e sociali di questo genere di sviluppo sono molto peggiori di quanto fosse previsto dai firmatari. Molto spesso i danni ecologici influenzano gli abitanti di zone molto più estese di quelle direttamente interessate dai risarcimenti per l’uso della terra, con l’ecosistema finisce anche un modo di vivere, una cultura, e gli amministratori dello stato dipendono sempre più dalle entrate di colossi economici. Sono molti quindi i fattori da considerare: • Il primo è che la miniera esercita il suo impatto sull’organizzazione sociale e sul senso dell’ambiente già esistenti nella la popolazione locale, procedendo a alterare queste percezioni locali in maniera graduale o catastrofica. Gli stessi flussi di denaro alterano le strutture di potere locali oltre ai desideri e alle aspettative della gente.Questo processo porta all’aumento dei conflitti nelle comunità locali, che si tenta di risolvere con un’escalation di richieste all’impresa in questione.Il risultato, sia che le richieste siano soddisfatte che nel caso contrario, è spesso una spirale di violenza, in quanto c’è sempre qualcuno che non è soddisfatto. • Il secondo fattore è che la miniera influisce su diverse popolazioni in maniera differente. Per esempio la miniera d’oro a Porgera influisce profondamente ed evidentemente sulla gente del luogo, ma anche in maniera più subdola ma sempre tangibile, sulla vita di tutti quelli che vivono a valle della miniera lungo i fiumi in cui sono riversati gli scarti della lavorazione, come i Duna della Southern Highlands Province. Durante gli anni ’90 tra i Duna che vivevano lungo il fiume Strickland crebbero le preoccupazioni per l’avvelenamento dei pesci e della vegetazione del fiume, oltre che dalla selvaggina nei paraggi. Questa preoccupazione era in parte dovuta alla percezione culturale dei Duna, che considera la fauna fluviale come parte del dominio di uno Spirito Femminile, Payame Ima, che era responsabile della fertilità dell’ambiente. I Duna pensavano che lo spirito fosse morta o andata altrove a causa del danno inferto all’ambiente. Quindi le grandi miniere influiscono non solo sugli ecosistemi, ma anche sui sistemi culturali di pensiero e di azioni rituali che sono legati con gli ecosistemi in cui vivono le popolazioni indigene. 30 • Il terzo fattore è che le operazioni minerarie coinvolgono interessi a molti diversi livelli, dal globale al locale. Discussioni su questi interessi possono svilupparsi tra le popolazioni locali, per esempio, e il governo nazionale; tra le autorità nazionali e provinciali; e tra diverse comunità locali in disaccordo su chi abbia il diritto di essere ricompensato in base ai diritti ancestrali su un particolare tratto di terreno. Organizzazioni non governative come Greenpeace o Survival International possono interporsi in questi conflitti, trasformando delle questioni locali in problemi globali, e indicandone le cause globali. Molte di queste considerazioni sono ugualmente applicabili alle operazioni di pesca e di deforestazione. Nel lungo termine i problemi non sono solo quelli legati alla distribuzione dei profitti o dei pagamenti, hanno piuttosto a che fare con la sostenibilità. 31 Le Trobriands Le Trobriands consistono di un’isola maggiore, Kiriwina, un‘ isola corallina e abbastanza piatta, a cui sono collegate altre isole minori, Vakuta a Sud, Kanauli, Muwo, Bomapu e Kaileuna a ovest. Questo piccolo arcipelago si trova a poca distanza dalla costa nord-orientale della Nuova Guinea, ed è conosciuto come l’arcipelago dov’è nata l’antropologia moderna, grazie al fatto che Bronislaw Malinowski vi ha condotto la sua ricerca sul campo, di cui è considerato il “padre”. Oltre all’aspetto metodologico della ricerca etnografica, però le Trobriands, e gli studi condotti su di esse da Malinowski e numerosi altri ricercatori, erano e sono tuttora interessanti per numerose caratteristiche sociali e culturali che le distinguono da altre culture melanesiane. Tra queste si possono prefigurare il sistema di discendenza matrilineare, la presenza di ruoli sociali ereditari, e l’esistenza da un lato di scambi cerimoniali molto elaborati, che seguono gli stessi percorsi di un altro genere di scambi, baratti di natura più utilitaria. L’ambiente, le risorse, la specializzazione, il commercio2 e gli scambi I villaggi delle Trobriands si trovano soprattutto all’interno dell’isola e lungo la costa occidentale, ricca di lagune poco profonde. L’aspetto particolare di questo ambiente è che nessun villaggio ha accesso immediato a tutte le risorse di cui i suoi abitanti necessitano. Inoltre alcuni materiali di importanza vitali non sono reperibili da nessuna parte nell’arcipelago. Tra questi materiali (oggi sostituiti con materiali sintetici importati) sono le pietre usate per le asce e le scuri, che provenivano dall’isola di Marua ad est, il rattan, usato per legare qualsiasi struttura (case, canoe, asce…), e bambù, che proveniva dall’isola di Fergusson a sud, e l’argilla per il vasellame, prodotto quasi tutto nelle isole Amphlett a sud. Inoltre, anche l’isola maggiore è divisa in diverse aree, specializzate in produzione di articoli diversi. Lungo la costa occidentale sono i villaggi specializzati nella pesca, all’interno della parte settentrionale sono i villaggi agricoli per eccellenza. Esistono villaggi specializzati nella lucidatura delle pietre, altri nelle sculture lignee, altri nella decorazione dei contenitori per la calce. Tutti questi oggetti di valore estetico notevole sono prodotti per l’esportazione, mentre in tutti i villaggi si producono articoli più ordinari di tutti i tipi. Questa produzione però dipende dall’importazione di materie prime. L’orticoltura Per Malinowki, ” l’abitante delle Trobriand è soprattutto un coltivatore, che scava con piacere e raccoglie con orgoglio, a cui il cibo accumulato da un senso di sicurezza e di soddisfazione, per cui il ricco fogliame delle piante di igname o le foglie del taro sono un’espressione diretta della bellezza” (Malinowski 1935, I:10) 2 Per commercio si intende uno “scambio di beni tra persone o gruppi, in cui le parti entrano nella transazione a condizioni più o meno paritarie”. Quello che ci interessa in antropologia non è il significato strettamente economico di queste transazioni, ma il sistema totale di circolazione e distribuzione di valori, sia materiali che simbolici: il contesto del sistema totale di scambi, che comprendono oggetti di valore cerimoniale, conoscenze, competenze, capitale umano e così via. (Seymour-Smith 1991: 95) 32 Al tempo del raccolto degli ignami, gli isolani già preparano il terreno per le coltivazioni della stagione successiva, e nel frattempo curano gli appezzamenti di taro, che vanno continuamente liberati dalle erbacce. Il prodotto principale per gli abitanti delle Trobriand sono gli ignami, il taro, che è un altro tubero, costituisce un’importante elemento nella dieta base. Una caratteristica importante degli ignami è che possono essere conservati e immagazzinati. Questo permette di organizzare un calendario ciclico e stagionale, basato sull’alternarsi delle stagioni asciutte con quelle monsoniche. Il ciclo annuale della piantagione e della raccolta degli ignami struttura molti altri aspetti della vita alle Trobriand, tra cui le spedizioni organizzate per effettuare scambi commerciali e cerimoniali con altre popolazioni, la guerra, le cerimonie magico-religiose, e perfino la vita sessuale. L’organizzazione del lavoro Il lavoro agricolo qui segue un modello di orticoltura itinerante. Il lavoro è diviso tra le persone in diverse maniere a seconda del tipo di lavoro. Si può dire che gli abitanti di un villaggio formino una squadra di lavoro per l’area scelta da essere disboscata. La misura dei villaggi è abbastanza variabile, può includere da venti ad un numero più consistente di famiglie. Un villaggio può essere composto da uno o più sub-clan. (Un sub-clan è un gruppo di discendenza composto di uomini e donne uniti ad un’antenata comune tramite legami in linea femminile.) Il sub-clan costituisce un gruppo corporato, cioè i suoi membri condividono i diritti sulla terra, che sono trasmessi tra generazioni in base ad una regola di discendenza matrilineare. In genere quando un villaggio è composto da due o più sub-clan, i suoi membri lavorano collettivamente come squadra di lavoro del villaggio, non si dividono in base all’appartenenza al sub-clan. Per creare un nuovo appezzamento da coltivare, ricavandolo dalla vegetazione spontanea, l’intero villaggio funziona ed opera un gruppo unico, diretto dai leader dei sub-clan e dei maghi dell’orticoltura che, oltre ad occuparsi degli aspetti rituali del ciclo agricolo della comunità, sono anche esperti tecnici. Dopo aver identificato un’area da disboscare ed aver tagliato e bruciato la vegetazione che la ricopriva, l’intera area disboscata è divisa in zone quadrate più piccole. Questa fase di lavoro collettivo che coinvolge l’intero villaggio si chiama tamgogula. In seguito sono assegnati ad ogni uomo del villaggio diversi appezzamenti di terreno all’interno dell’area preparata dal villaggio. Questi appezzamenti saranno coltivati dai membri della sua famiglia (padre, madre, e figli). Il lavoro quotidiano, giornaliero negli orti è portato avanti da ogni famiglia separatamente, e si chiama tavile’i. Per alcuni compiti più pesanti si formano gruppi di lavoro più estesi. In alcuni casi i membri di diverse famiglie, o addirittura di tutto il villaggio si accordano per compiere insieme un lavoro che ogni famiglia potrebbe portare a termine individualmente, con maggior spesa di tempo e minor senso di solidarietà. Questo lavoro comunitario avviene ogniqualvolta un certo numero dei membri di un villaggio decidono di collaborare in una delle fasi dell’orticoltura, sulle basi della reciprocità (Malinowski 1922: 161). Normalmente la famiglia che usufruisce del lavoro degli altri componenti del villaggio per finire in un giorno un compito che altrimenti avrebbe impiegato molti giorni di lavoro, si occupa di fornire cibo e betel ai lavoratori, ma non è una vera e propria forma di pagamento per il lavoro fatto (1922:161). Un’altra forma di lavoro comunitario, kutubu, avviene quando un individuo chiama i propri parenti, i parenti della moglie ed i vicini a lavorare per lui, su un progetto specifico. In questo caso, chi ha chiesto l’aiuto deve distribuire cibo in pagamento per il lavoro prestato. Chiunque può ricorrere a kutubu, per esempio per costruire una casa o una casa per lo stoccaggio degli ignami (yamhouse). Questa stessa forma di lavoro collettivo, però, è anche utilizzata da leader di alto lignaggio, che controllano la ricchezza, sotto forma di surplus di cibo, per mobilitare dei seguaci. Tale surplus è fornito ai leader dai membri del villaggio, attraverso obblighi legati alla parentela; questo surplus permette ai leader di utilizzare la ridistribuzione di cibo per assicurarsi e mantenere nel tempo il supporto dei parenti e per mobilitare alleati. Attraverso kutubu un leader importante ha a 33 disposizione una forza lavoro comunitaria che usa per costruire case per lo stoccaggio degli ignami, costruire canoe, ed eseguire altri progetti di grossa portata attraverso i quali sia il leader che i suoi seguaci ottengono prestigio. Il principale prerequisito per la mobilitazione di una tale forza lavoro è la capacità di nutrire la squadra di lavoratori coinvolti, e questa capacità dipende dall’accumulazione di tuberi e verdure, forniti dai propri seguaci. Tutti gli adulti delle Trobriand partecipano pienamente nella produzione agricola. A parte le prestazioni specialistiche del mago dell’orticoltura, che può essere il leder di un villaggio od un suo parente designato, la divisione dei compiti agricoli avviene lungo linee di età e di genere. Gli uomini tagliano la boscaglia; le donne puliscono il terreno e lo preparano per piantare; gli uomini piantano e le donne strappano le erbacce; gli uomini legano i butti e regolano le radici; entrambi i sessi partecipano nel raccolto. Gli attrezzi sono semplici e basilari, bastoni appuntiti sono usati per scavare e rimuovere le erbacce, asce ed accette di pietra sono usate per abbattere gli alberi. La produzione degli ignami Ogni gruppo familiare, una volta che il terreno è stato disboscato e suddiviso in lotti, coltiva gli ignami nel proprio appezzamento. Due fattori sono cruciali alla cultura delle Trobriand: il primo è che la produzione di cibo vegetale rappresenta la sfera principale nella vita di una coppia. Le famiglie tendono a produrre e ad accumulare mucchi di ignami, molti più di quanti possano consumare, queste pile sono fonte di gioia e di orgoglio per la coppia, che lavora strenuamente per produrre enormi quantità di cibo “inutile” in un ambiente che permetterebbe di sopravvivere con meno sforzi. Il secondo elemento cruciale è che circa la metà degli ignami prodotti da ogni famiglia sono destinati alle famiglie di una sorella del marito, e di altre parenti prossime. Gli ignami regalati da ogni famiglia, ad altre famiglie ed al leader del sub-clan, sono le migliori e le più grandi del raccolto. Il prestigio di una famiglia cresce in proporzione al numero ed alla misura degli ignami che regala. Esistono anche spettacolari competizioni tra sub-clan o villaggi diversi, in cui si gareggia a chi regala gli ignami più numerosi e più grandi. L’aspetto simbolico della produzione degli ignami alle Trobriand emerge chiaramente dal fatto che molti degli ignami più apprezzati ed esposti più cospicuamente, non sono mai usati come cibo, finiscono per marcire. Questi ignami di qualità superiore, che sono esposti nei magazzini per essere ammirati pubblicamente, diventano simboli di prestigio e potere. Un leader di alto rango, come il “capo supremo” del prosperoso villaggio di Omarakana, riceve enormi quantità di ignami come tributo dai villaggi di una vasta regione; questi tributi, a loro volta, gli forniscono il mezzo di mobilitare una forza lavoro per i suoi progetti collettivi. La distribuzione, il consumo e gli scambi I Trobriand devono la loro fama al sistema di scambi cerimoniali Kula, descritti da Malinowski, la sua analisi però si limitava al contesto degli scambi cerimoniali, a cui partecipano uomini di prestigio. Per poter apprezzare la vera complessità del sistema di produzione, ridistribuzione e scambi, oltre a come questo sistema funzioni anche a livello della riproduzione sociale, è necessario partire dall’organizzazione della produzione a livello domestico, per giungere alla sfera pubblica del prestigio e degli scambi. Questa maggiore complessità è emersa dalle etnografie più recenti sulle Trobriand, in particolare quella di Annette Weiner (1976), che ha sottolineato il ruolo cruciale delle donne nell’economia di scambio in cui gli uomini si giocano il prestigio, facendo emergere la realtà femminile della società delle Trobriand, che era stata largamente ignorata nelle, pur numerose, etnografie di Malinowski. La produzione ed i consumi a livello domestico La famiglia alle Trobriand funge come principale unità produttiva, ed è anche il sito entro il quale il cibo prodotto per scopi di sussistenza è consumato quotidianamente. La divisione del lavoro all’interno della famiglia è netta e abbastanza semplice, le donne cucinano, di norma il pasto principale è quello serale in cui si consumano ignami, taro, ed altri tuberi arrostiti o bolliti, a cui 34 occasionalmente si aggiungono pezzi di carne o pesce. Gli avanzi del pasto serale sono consumati freddi il mattino dopo, e durante la giornata può capitare di mangiare frutti, noci di cocco, o molluschi. La raccolta del cibo (frutti e noci dalla foresta, molluschi dal mare o dai corsi d’acqua) è compito delle donne, mentre agli uomini spettano la caccia e la pesca. La divisione del lavoro quotidiano tra i due sessi è anche elaborata a livello simbolico: le donne trasportano i prodotti del proprio lavoro in borse a rete sospese sulla schiena dalla fronte, mentre gli uomini portano le loro sporte solamente a spalla; inoltre solo le donne possono portare i contenitori per l’acqua (che nelle Trobriand è associata alla fertilità femminile ed al concepimento) sulla testa (associata alla sessualità femminile). Questo compito prettamente femminile, con i suoi carichi simbolici, contribuisce a creare un ambito separato e controllato dalle donne, quello della sorgente dell’acqua. Nonostante che lo stesso Malinowski avesse notato: “La sorgente dell’acqua è il club delle donne ed il centro dei pettegolezzi, ed è quindi molto importante, perché nel villaggio Trobriand esistono un’opinione pubblica ed un punto di vista che appartengono distintamente alle donne” (1929: 20), questo aspetto femminile della vita delle Trobriand è rimasto nascosto alle analisi antropologiche per cinquant’anni. Appezzamento da cibo e appezzamenti da scambi Malinowski indica che più della metà degli ignami prodotti da ogni famiglia sono destinati ad essere regalati ad altre famiglie, in particolare a quelle delle sorelle del marito. L’allocazione di questi tuberi non avviene a posteriori, ma è pianificata sistematicamente dal principio di ogni ciclo produttivo. Sono i leader del gruppo che assegnano ai diversi uomini la responsabilità di produrre ignami per specifiche sorelle degli uomini appartenenti al sub-clan. Weiner ha dimostrato inoltre, che dal momento in cui un appezzamento è preparato è destinato alla produzione di cibo per la famiglia (appezzamento da cibo) o alla produzione di cibo che servirà gruppo domestico per mantenere i propri impegni (appezzamento da scambio). Chi pianta e cura un appezzamento da scambio non è il proprietario degli ignami ivi prodotti, fin da quando sono piantati sono di proprietà della persona a cui saranno presentati una volta raccolti (Weiner 1976:138). Inoltre è proprio chi riceverà gli ignami coltivati a fornire i materiali da piantare, presi dal raccolto dell’anno precedente. “quindi quello che viene donato da un uomo che insieme a sua moglie pianta e coltiva un appezzamento da scambio è il lavoro incorporato negli ignami (1976:147). L’interesse di Malinowski per gli ignami scambiati lo ha portato a ignorare la distinzione tra questi due tipi di appezzamenti, e anche il fatto che avrebbe dovuto incuriosirlo, cioè che gli uomini usano la magia solo negli appezzamenti destinati agli scambi. Secondo la Weiner “Nessuno usa la magia negli appezzamenti destinati alla sussistenza domestica, in quanto questi prodotti sono immediatamente convertiti in cibo, e non servono a facilitare il mantenimento di relazioni sociali estese e formalizzate.” (1976: 217) A questo punto il nostro sguardo può uscire dalla sfera della produzione domestica, e possiamo chiederci quali siano queste relazioni sociali che devono essere sostenute al costo di tutto quel surplus di lavoro investito da ogni gruppo domestico, ed il perché. Doni del raccolto Esiste un dubbio sulla correttezza del termine urigubu utilizzato da Malinowski per i doni che ogni gruppo domestico delle Trobriand fa ogni anno, al momento del raccolto, ad un’altra famiglia (idealmente quella della sorella del marito). Coltivare ignami da consumare come cibo è cosa molto diversa dal regalarli ad un’altra famiglia. Soprattutto perché chi li riceve immagazzina gli ignami in una costruzione appositamente costruita per poterli esporre, e li lascia lì fino a sei mesi, spesso lasciandoli marcire. Fino a quando un igname non è cotto è un oggetto di valore che può essere investito. Una volta cucinato, può solo essere mangiato. In termini culturali Trobriand, convertire degli ignami crudi in cibo cotto non rappresenta la realizzazione dello sforzo produttivo, ma invece il soccombere ad una necessità pratica che si evita per quanto possibile. 35 Una volta che le yamhouses sono riempite, secondo Weiner, i Trobriand mangiano pochi ignami nella dieta quotidiana. Gli ignami accumulati nei magazzini da esposizione rappresentano il capitale di un uomo, e un’esibizione del suo potenziale. Per contro, se può lasciare che gli ignami nel magazzino marciscano, significa che egli ha mantenuto tutti i suoi impegni nella sfera degli scambi di ignami, che ha terra a sufficienza, e sufficiente cibo e sementi per la propria famiglia. Gli ignami che marciscono nel magazzino indicano che il loro proprietario è pienamente in controllo del suo ambiente sociale, finanziario, ed ecologico. La reciprocazione per gli ignami donati al raccolto Per comprendere la ragione per cui un uomo e la sua famiglia investano tanto lavoro più di quello necessario alla propria sussistenza per produrre ignami che servono sostanzialmente ad accrescere il prestigio di un altro, è necessario rivolgere la nostra attenzione a quello che il gruppo domestico riceve in cambio per gli ignami che dona la momento del raccolto. Quando un orticoltore raccoglie gli ignami da un appezzamento destinato agli scambi ne fa delle pile per esibire il frutto del lavoro del suo gruppo domestico. La maggior parte degli ignami sono destinati alla sorella per cui il produttore è responsabile, e a suo marito; altre quantità minori vanno ad altre sorelle o altre parenti di sesso femminile e di grado equivalente alle sorelle. A loro il produttore dona un cesto di ignami, più magari un maiale e delle noci di areca, che sono masticate col betel. Il marito della sorella per reciprocare questo dono regala al donatore un oggetto di valore, come vaso di terracotta o una lama per asce in pietra verde lucidata. L’anno successivo il produttore di ignami fa dono di una pila più grande di ignami, per reciprocare il dono dell’oggetto di valore. Anche chi riceve un dono di raccolto particolarmente abbondante può dimostrare la sua gratitudine per il lavoro in più che è stato investito nella produzione di ignami destinati a lui, con un dono di un oggetto di valore che, l’anno successivo, stimolerà ulteriore lavoro e sovrabbondanza di ignami. Il problema di questo ciclo di doni, oltre al fatto che la maggior parte degli ignami donati finiranno per marcire nei magazzini, è che anche i doni fatti per reciprocare il donatore per tutto il lavoro investito nella produzione di ignami, sono largamente inutili, e non spiegano, da un punto di vista utilitario, tutto l’impegno investito per ottenerli. Un ulteriore elemento nel ciclo di doni reciproci iniziato dai doni del raccolto, emerge dall’analisi delle feste mortuarie delle donne. In questi eventi spettacolari le donne distribuiscono grandi quantità di gonnelle di fibra vegetale e fasci di foglie di banana per ricompensare tutti coloro che hanno partecipato al lutto in vari modi per il loro “lavoro”. Questi oggetti da un punto di vista pratico sono inutili tanto quanto le asce e i vasi che sono conservati senza essere usati. Mentre una donna sta facendo una presentazione mortuaria per la morte di un membro del suo subclan (che potrebbe essere un fratello o uno zio materno), le donne a cui suo marito ha fatto dono di ignami come doni del raccolto, le sfilano davanti e le donano gonnelle di fibra e fasci di foglie di banana. Inoltre, la persona che la deve aiutare è suo marito. Lui, più di chiunque altro ha la responsabilità di finanziare la sontuosa distribuzione di ricchezza simbolica, gonne e fasci di foglie di banane, organizzata da sua moglie. Questo aiuto è considerato come una restituzione da parte del marito per il lavoro che il fratello di sua moglie ha impiegato per fornirgli gli ignami. In occasione di una distribuzione funeraria, i fratelli della donna responsabile per la distribuzione osservano attentamente il marito della sorella: se il suo aiuto nel racimolare tutti gli oggetti che le servono per la distribuzione non è pronto, i fratelli della donna lo considerano un cattivo marito, e non vorranno più coltivare appezzamenti di ignami da distribuire a lui. (Weiner 1976:198) I doni del raccolto ed il potere dei capi Malinowski aveva sottolineato il ruolo delle prestazioni legate la raccolto degli ignami nel meccanismo attraverso il quale i capi di status elevato mantengono il loro potere politico. L’elemento cruciale in questo meccanismo è che soltanto gli uomini di status elevato hanno il diritto alla poligamia, questo gli assicura accesso ad una maggiore quantità di ignami, per sostenere la propria posizione di prestigio. 36 I rappresentanti di un capo si presentano dal leader di un sub-clan con il quale vuole stabilire un’alleanza matrimoniale, e gettano a terra una lancia alla quale sono state legate quattro noci di cocco. Se si procede con l’accordo il sub-clan fornirà una moglie, ma non solo, dovrà anche assegnare a quattro uomini il compito di piantare annualmente degli appezzamenti di ignami per questa ‘sorella’ e suo marito (1976:201-202). In questo modo il sub-clan di provenienza della moglie entra in relazione di “tributo” con un capo importante: i suoi magazzini per gli ignami sono sempre sovraccarichi di ignami provenienti da numerosi appezzamenti sparpagliati in tutto il distretto ma, come ha evidenziato Annette Weiner, questi capi devono utilizzare le loro risorse anche per fornire alle mogli i beni di prestigio femminili, come parte dei doveri di reciprocità formale che ogni uomo ha verso i parenti di sua moglie. Per comprendere come le strutture della parentela servano ad organizzare la produzione e la distribuzione nella società trobriand sarà necessario approfondire in che modo la parentela influenzi la formazione dei gruppi sociali e reti relazionali, ma prima di aprire il capitolo sulla parentela, dobbiamo approfondire la logica culturale che sottende questi scambi di beni simbolici. Per questo dobbiamo analizzare gli altri tipi di scambi di beni che regolano la vita sociale dei trobriand. Sagali Le distribuzioni dette sagali sono una categoria di scambi di cui fanno parte le distribuzioni mortuarie delle donne. Rappresentano un meccanismo per la ridistribuzione dell’abbondanza di ignami che sono concentrati nelle mani di leader prominenti. Per sagali si intende qualsiasi distribuzione di cibo collegata a qualche occasione cerimoniale, come una celebrazione funeraria, una commemorazione, un’impresa competitiva, eccetera. In questo sistema il prestigio è ottenuto, espresso, e convalidato, attraverso l’abilità di donare grandi quantità di cibo per finanziare una festa, una guerra, o un progetto di lavoro collettivo. In effetti, un leader importante, attraverso questo tipo di distribuzione, dona molto più di quanto non riceva. Le distribuzioni più spettacolari di cibo ed oggetti di valore avvengono, come abbiamo visto, in occasioni delle distribuzioni funerarie, in cui sono le donne ad avere un ruolo da protagoniste. Con le sue ricerche Annette Weiner ha messo in luce il ruolo complementare degli scambi femminili nel ciclo di distribuzioni e nella costruzione del prestigio sociale. Quando muore una persona del sub-clan di una donna è lei, con le altre donne del gruppo, a prendere il ruolo centrale nella distribuzione di numerose gonne di fibra e fasci di foglie di banano (fino a 15,000). I beni che distribuisce sono forniti alla donna da suo marito e da donne imparentate con suo marito alle quali lei aveva in precedenza dato ceste di ignami. Inoltre le donne investono oculatamente gli ignami ricevuti dai suoi fratelli per poter ottenere in cambio i beni di prestigio femminili che le occorrono per organizzare i sagali in occasione della morte di un membro del suo sub-clan. Secondo Weiner le donne in questo contesto dimostrano lo stesso livello di aggressività e competitività degli uomini nel trattare gli scambi per ottenere il prestigio. Pokala Un’ulteriore categoria di scambi tra i Trobriand è pokala, cioè un dono asimmetrico ad una persona di status superiore. Questo termine copre una serie di transazioni che sono concettualmente collegate tra loro. Il primo tipo di pokala è quello in cui doni e servizi sono prestati dai membri di status inferiore di un sub-clan ai suoi membri di status elevato, in cambio di vantaggi sia materiali che di status previsti nel futuro. Quindi i doni pokala sono un mezzo per assicurarsi un vantaggio politico nel futuro, per convalidare i propri diritti di eredità matrilineare, o per rendere un tributo ad un proprio leader. Pokala implicano sempre una differenza di status tra il donatore ed il ricevente, che in cambio si riterrà impegnato per il futuro, impegnato a fornire protezione, promuovere lo status del donatore, o ad aiutarlo a ottenere dei vantaggi materiali. In in altro senso pokala indica anche il tributo versato a un capo di distretto, o qualche altro personaggio eminente. Pokala quindi implica due condizioni essenziali: 37 1- un’assimmetria di status in cui il donatore abbia una posizione inferiore a quella di chi riceve 2- la creazione di un impegno (diffuso o specifico) da parte del ricevente verso il donatore, tale per cui questi migliori la sua posizione rispetto a quella dei suoi rivali. Quest’ultima caratteristica vale anche nel caso in cui il donatore sia un intero villaggio che manda un tributo al capo del distretto. Wasi Questo tipo di scambio è importante per il ruolo che ha nello scambio di prodotti specialistici, all’interno del sistema economico regionale delle Trobriand. Nello specifico wasi è lo scambio tra i villaggi di pescatori sulla costa e quelli specializzati nella produzione di ignami all’interno. In questo caso sussistono alleanze a lungo termine tra villaggi e, al loro interno, delle partnership tra individui – un orticoltore è in relazione di partnership di wasi con un pescatore- Dopo il raccolto gli orticoltori portano una quantità di taro o ignami ai loro soci nel villaggio costiero. Appena possibile dopo questo evento i pescatori organizzano una battuta di pesca nella laguna, il pescato è portato direttamente al villaggio dell’interno dove il pesce è regalato in cambio dei tuberi ricevuti in precedenza. Esistono degli standard di equivalenza standardizzati per calcolare le quantità di pesce dovuto. Gimwali Questo termine comprende tutte le forme di baratto presenti alle Trobriand, transazioni di mercato che non fanno uso di denaro. Qui la contrattazione e lo sforzo, pubblicamente ammesso di avere la meglio sull’altro, sono le caratteristiche principali. Avviene sia all’interno di un villaggio che tra villaggi, e può comportare lo scambio di pesce per prodotti agricoli, o di cibo per manufatti di diversi tipi. La nostra percezione degli scambi dei Trobriand è stata colorata dall’interesse di Malinowski, e degli stessi Trobriand per le transazioni più drammatiche, formali e ritualizzate, ma in realtà la vita nei villaggi di queste isole è punteggiata da scambi informali e quotidiani: lo scambio diretto di pesce per ortaggi (vava), o lo scambio quotidiano di ignami per oggetti di artigianato sia di uso corrente che di prestigio. Rimane ancora da spiegare il valore simbolico dei vasi di terracotta, delle asce in pietra lucidata e degli ornamenti in conchiglia. Vaygu’a o Veguwa Questo termine (la prima versione è l’ortografia adottata da Malinowski, la seconda da Annette Weiner), indica gli oggetti di valore utilizzati negli scambi e nelle presentazioni cerimoniali. Secondo Weiner tra tutti gli oggetti di scambio gli oggetti di pietra ed in conchiglia sono quelli più durevoli e permanenti. Nel contesto del sistema di scambi interno a Kiriwina, che è l’isola principale delle Trobriand, le lame per le asce in pietra lucidata (beku) sono l’articolo di maggior valore. Chi ne possiede è definito un uomo ricco. Le asce possono essere convertite, per mezzo di scambi e baratti, con tutta una serie di altri beni e servizi. Beku possono essere scambiate con maiali, incantesimi magici, ignami da seminare, ed ignami crudi. A differenza degli ignami le asce di pietra sono praticamente indistruttibili e circolano per diverse generazioni. Il loro valore deriva anche dal fatto che, come per altri oggetti di valore tipo i vasi di terracotta che provengono dalle isole Amphlett, sono prodotti da specialisti d’oltremare. Nel contesto interno di Kiriwina, questi beni artigianali si possono ottenere soprattutto tramite lo scambio di maiali , ignami, e incantesimi magici (Weiner 1976: 179-80). Se il valore di questi oggetti è puramente simbolico, è il potere che determina le azioni dgli uomini e delle donne. L’accesso agli oggetti di valore è di grande importanza politica. I manager dei villaggi, qualunque sia il loro status hanno un bisogno costante di questi oggetti per pagare l’uso della terra. Gli uomini che controllano il potere del lavoro devono ripagare altri uomini per il tempo speso negli 38 appezzamenti di ignami per gli scambi. Gli uomini necessitano veguwa per i matrimoni dei propri figli, fratelli, ed i figli delle loro sorelle, oltre che in caso di una morte. E’ la ricerca del potere attribuito dal possesso di oggetti di valore simbolico che spinge gli uomini delle Trobriand ad intraprendere viaggi avventurosi per mare, e a partecipare in uno dei più notevoli sistemi di scambio regionale del mondo tribale. Kula Le Trobriand fanno parte dell’arcipelago d’ Entrecasteaux, a sud est della Nuova Guinea. Le culture presenti nell’arcipelago sono imparentate tra loro, anche se ogni gruppo ha costumi e parla lingue differenti. La cosa che li accomuna è la partecipazione nello stesso esteso ciclo di scambi cerimoniali, di cui ogni gruppo tribale forma una parte del sistema totale. Gli scambi avvengono tra le isole seguendo una rotta circolare, in cui un tipo di oggetto viaggia in senso orario, e l’altro in senso anti-orario. Gli oggetti che circolano nel kula sono essenzialmente inutili, e sono classificati come vaygu’a. Soulava sono lunghe collane fatte di dischetti in conchiglia infilati su un lungo spago di fibra vegetale, e viaggiano lungo la rotta del kula seguendo una direzione oraria. I mwali, o bracciali ricavati da un segmento di conchiglia, sono scambiati in direzione anti-oraria. E’ importante ricordare, dunque, che i Trobriand sono solo un anello nella catena del complesso ciclo di scambi conosciuto come kula. La regola fondamentale del kula è che se un uomo fa pubblicamente e cerimoniosamente un dono di una collana soulava ad un altro uomo, questi dovrà, in futuro, dargli un bracciale mwali di valore corrispondente. In questo modo due uomini diventano partner di kula, una relazione che dura tutta la vita ed è sostenuta dal periodico scambio di oggetti di valore. Da un qualunque punto delle Trobriand un uomo riceve collane dai suoi partner a sud e ad ovest, e braccali dai suoi partner provenienti da isole a nord ed a est. In media un uomo ha numerosi partner sia sull’isola che oltremare, ed intrattiene relazioni di scambio con uno o due capi importanti, dallo status elevato. I partner locali sono generalmente amici e parenti del sub-clan della moglie. Lo scambio di vaygu’a con loro è solo una parte di una serie di scambi e di assistenza reciproca. Le partnership kula all’interno di un distretto (come le Trobriand) costituiscono il “kula interno”. Gli scambi in questo contesto ristretto sono individuali, su scala ridotta, e avvengono con meno formalità cerimoniale che il kula d’oltremare. Gli scambi principali comportano lunghi viaggi e complessi cerimoniali e magici elaborati. Malinowski illustrava così le strategie ed i principi che governano il kula d’oltremare, dal punto di vista di un villaggio sulla costa di Kiriwina, Sinaketa. “Supponiamo che io, un uomo di Sinaketa, sia in possesso di un paio di grandi bracciali in conchiglia. Una spedizione d’oltremare da Dobu arriva la mio villaggio. Soffiando nella mia conchiglia conch prendo il mio paio di bracciali e li offro al mio partner d’oltremare con parole tipo, “questo è un vaga [dono d’apertura] – nel tempo tu mi darai una grande soulava in cambio di questo!”. L’anno successivo, quando io vado in visita al villaggio del mio partner, o lui è in possesso di una collana di valore equivalente che mi da come cotile [dono di chiusura], oppure non ha una collana di valore sufficiente a uguagliare il mio ultimo dono a lui. In questo caso egli mi darà una collana più piccola- evidentemente non equivalente al mio dono – e me la darà come basi [dono intermedio]. Questo vuol dire che il dono principale dovrà essere ripagato in un’occasione futura ed il basi è dato come gesto di buona fede- , ma anche questo, a sua volta dovrà essere ripagato da me nel frattempo con un dono di un bracciale piccolo. Il dono finale, che mi sarà dato per concludere l’intera transazione, si chiama kudu [dono equivalente] … (Malinowski 1922: 99-100) La fama di un uomo che è in possesso di oggetti di valore di qualità superiore si diffonde rapidamente. Tutti i bracciali e le collane di pregio hanno un nome ed una storia particolare e, siccome circolano tutti entro il sistema di kula, sono ben conosciuti. Se ne arriva uno in un distretto, la notizia si diffonde, e tutti i partner dell’uomo che l’ha ricevuto competono per ottenerlo da lui. Coloro che ci tengono particolarmente arrivano a fargli delle offerte e dei doni particolari allo scopo di sollecitarlo a passare l’articolo celebre nelle loro mani. 39 Un uomo cerca di mantenere una reputazione di generosità come partner kula. Non può tenere gli oggetti a lungo, e non ne può fare un grande uso, quindi la sua fama ed il suo prestigio dipendono dal numero e dalla qualità degli oggetti che gli passano tra le mani. Per questo egli deve donare con generosità e allo stesso tempo deve essere bravo ad attuare strategie per ottenere numerosi oggetti di prestigio dai suoi partner. Non è possibile essere generosi senza saper ottenere buoni oggetti. Ma anche nel kula esistono strategie per massimizzare i propri vantaggi. Fortune ha raccolto questa testimonianza da un isolano di Dobu “Se io, Kisian di Tewara, vado alle Trobriand e ottengo un bracciale chiamato Lucertola Monitor. Poi proseguo per Sanarla e in quattro villaggi diversi ottengo quattro diverse collane di conchiglie, promettendo ad ogni uomo che mi dona una collana, il bracciale Lucertola Monitor in restituzione. Io, Kisian, non devo essere specifico nella mia promessa. Sarà trasmessa implicitamente, soprattutto. Più tardi, quando quattro uomini si presenteranno a casa mia a Tewara per ottenere Lucertola Monitor, solo uno di loro la otterrà. Però gli altri non sono defraudati in permanenza. E’ vero che saranno furibondi, e lo scambio con loro sarà in stallo per quell’anno. L’anno successivo quando io, Kisian, ritorno alle Trobriand dirò che ho quattro collane a casa in attesa di coloro che mi daranno quattro bracciali. Così ottengo più bracciali della volta precedente e ripago i miei debiti con un anno di ritardo. I tre uomini che non hanno ottenuto Lucertola Monitor sono svantaggiati nel mio villaggio, Tewara. Più tardi, quando tornano a casa propria sono troppo lontani per rappresentare un pericolo per me. E’ possibile che tentino di uccidere il loro rivale, colui che ha ottenuto da me Lucertola Monitor, con l’arte magica. E’ vero, ma sono affari loro. Io sono diventato un grande uomo estendendo i miei scambi al costo di bloccare i loro per un anno. Non mi posso permettere di bloccare i loro scambi troppo a lungo, o nessuno si fiderà più di scambiare con me.” ( Fortune, 1932: 217). Gli scambi del kula sono intimamente associati al sistema di stratificazione sociale delle Trobriand. Un leader di un sub-clan locale costruisce, rinforza e convalida il proprio potere politico prima di tutto attraverso l’accumulazione e la ridistribuzione degli ignami, ma in secondo luogo attraverso la partecipazione nel kula. Solo gli uomini partecipano a questi scambi, e il numero di partner, il loro prestigio e potere, e la fama degli oggetti di valore che un uomo riesce ad ottenere ed a passare ai suoi partner costituiscono una convalida simbolica del potere e del prestigio di un uomo di status. Nel contesto delle spedizioni per fare kula, parallelamente agli scambi cerimoniali, avvengono anche molti baratti. E’ così che si ottengono materie prime e manufatti che non si trovano nei paraggi dei propri villaggi. In questo modo i Trobriand ottengono vasellame, rattan, bambù, le pietre per le asce. Le spedizioni oltremare organizzate per fare kula, quindi permettono di ottenere beni di uso quotidiano oltre che quelli di alto valore simbolico. La regola è che i partner degli scambi cerimoniali non possano barattare i beni tra loro, ma tutti gli altri partecipanti alla spedizione possono barattare con i partner degli altri. Nonostante queste forme di gimwali che avvengono parallelamente agli scambi cerimoniali del kula vero e proprio abbiano attirato meno l’attenzione degli etnografi degli aspetti vistosamente cerimoniali, costituiscono un importante aspetto dell’equilibrio economico regionale. Nelle spedizioni d’oltremare i partecipanti possono trovare cibo, noci areca e calce per la masticazione del betel, noci di cocco, materiale per le costruzioni, sago, oltre ai beni di prestigio che, magari non sono quelli scambiati nel kula, ma possono essere utilizzati, una volta tornati nella propria isola, nel contesto degli scambi locali. Il sistema del kula può anche essere interpretato come una sorta di trattato di pace tra potenziali nemici, che permette di commerciare, e quindi di sostenere la sopravvivenza in isole dalle risorse diversificate. Un elemento cruciale di questo tipo di sistema, che era abbastanza comune in tutta la Melanesia, era costituito dalla produzione dei vasi di terracotta, che sono utilizzati in tutta l’area, ma prodotti solo in alcuni villaggi specializzati. Nel caso dell’arcipelago d’Entrecasteaux i vasi sono prodotti alle isole Amphlett, in posizione strategica: gli isolani importavano la maggior parte del cibo dalle isole più lussureggianti, le pietre verdi per le asce e le grandi canoe necessarie per i viaggi e la pesca dalle isole ad oriente. 40 L’economia delle Trobriand: un sistema integrato? Avendo analizzato le diverse forme di scambio che intraprendono gli abitanti delle trobriand non ci resta che cercare di capire se e come tutte queste diverse forme di distribuzione siano integrati in un sistema coerente. Abbiamo visto che esiste all’interno di questa società un ventaglio di pratiche legate alla distribuzione ad agli scambi: alcuni scambi sono cerimoniali, trattati secondo degli standard di equivalenza prestabiliti e comportano un obbligo di ritorno pressoché diretto. Altri scambi, come il pokala, comportano degli impegni molto meno definiti, e altri ancora, come gimwali, risentono delle variazioni legate al mercato in termini di domanda e offerta, altre ancora, per esempio certe forme di sagali, portano vantaggi solo in termini di prestigio. Per comprendere il sistema economico complessivo, e cioè come queste diverse pratiche formino un insieme coerente, dovremmo sapere qualcosa di più riguardo: 1- Il modo in cui i valori o gli oggetti di valore sono convertiti da una sfera di scambi ad un’altra, e secondo quale scala di valori avviene questa conversione 2- Il flusso di oggetti di valore, cibo, materie prime e manufatti nel sistema, ed il modo in cui questo flusso è legato al potere, al prestigio, alla parentela, eccetera. 3- Quali sono le strategie che portano ad effettuare transazioni tra i diversi sottosistemi, oltre che al loro interno; quali considerazioni strategiche determinano la decisione di investire in un tipo di scambio piuttosto che un altro. Questo tipo di informazione lo troviamo nell’etnografia di Annette Weiner (1976), in cui descrive il sistema di scambi con la metafora delle strade. Esiste una “strada principale” di scambi, lungo la quale ‘viaggiano’ tutti gli uomini e le donne delle Trobriand, che è collegata attraverso sentieri secondari con altri cicli di scambi. Questa strada principale collega le risorse delle donne a quelle degli uomini, ma collega anche la produzione agricola con la rete delle relazioni sociali e con i riti funerari che sono uno dei principali nodi della cultura Trobriand. I principali beni di scambio trattati lungo questa ‘via principale’ sono gli ignami da scambio. Gli ignami sono i beni fondamentali, convertibili in altre forme di ricchezza e, in ultima analisi, in prestigio e potere. I Trobriand dicono, “se un uomo ha degli ignami può trovare qualsiasi altra cosa gli serva”. Anche ora, che il denaro è entrato a far parte dell’economia contemporanea delle Trobriand, niente può rimpiazzare gli ignami nelle distribuzioni che avvengono alle cerimonie funerarie, o quelli dati alle donne dai loro fratelli, o quelli che sono dati in cambio delle donne nel contesto degli scambi matrimoniali. Tutti gli scambi che comportano le creazione o il mantenimento delle relazioni sociali continuano ad essere mediati dagli ignami, che non sono sostituiti dal denaro. Secondo Weiner la circolazione di ignami da scambio produce accesso ad altri beni e altri commestibili, oltre che l’accesso a impegni immediati e futuri. Regalare una cesta di ignami produce altri oggetti ricevuti in cambio, i quali a loro volta forniscono altre strade per altre cose e per altre persone. Quindi una donna può utilizzare ignami che suo fratello o i suoi parenti matrilineali hanno donato a suo marito e convertirli, tramite uno scambio, in gonnelle di fibra o fasci di foglie di banano. Inoltre può convertire beni tra sottosistemi barattando un oggetto prodotto da lei, come una sporta di spago, bilum, per beni di prestigio femminili, o per altri ignami che possono essere ulteriormente convertiti. Il fine ultimo è quello di aumentare il proprio prestigio attraverso la presentazione cerimoniale di oggetti di scambio (gonnelle e fasci di foglie per le donne, collane e bracciali kula e cibo presentato in occasione di sagali per gli uomini). Un ulteriore mezzo per promuovere il proprio prestigio è quello di permettere che gli ignami accumulati marciscano inutilizzati. La ‘strada principale’ di scambi attraverso la quale ogni uomo ed ogni donna converte ignami in misure di prestigio porta attraverso delle ‘vie secondarie’ alle strade del kula o degli altri scambi – attraverso questi sottosistemi gli uomini di status superiore possono accedere ad ulteriore prestigio e potere. Le condizioni per la riproduzione di questo sistema alle Trobriand, come in altre società tribali, sono legate alla struttura sociale, ai sub-clan ed alle relazioni definite dalla parentela e stabilite 41 attraverso il matrimonio, alle relazioni di potere e prestigio all’interno di ogni gruppo e tra sub-clan, e ai valori culturali trasmessi. E’ necessario considerare tutti i sistemi sociali in termini dei processi storici in cui sonno coinvolti, e che comprendano sia le dinamiche nascoste che i loro significati culturali. Infatti gli esseri umani non percepiscono la natura come un campionario di prodotti potenzialmente utili per nutrirsi, vestirsi o costruirsi un’abitazione. L’incontro con la natura è mediato da un sistema di significati culturalmente definiti. Per un pescatore che nuota nella laguna alle Trobriand, per esempio, una conchiglia spondylus non ha significato come oggetto, ma come una componente di una potenziale collana vaguy’a. Allo stesso modo un pesce non è ‘proteina’ agli occhi del pescatore, ma ha importanza economica in termini dell’uso che può esserne fatto negli scambi wasi o gimwali, o come componente di un pasto, il quale pasto è strutturato da presupposti culturali sul cibo, sull’atto di mangiare, e sulle relazioni sociali coinvolte. Allo stesso tempo è necessario considerare, in termini storici come si è sviluppato il sistema, e cogliere le trasformazioni in corso. Un sistema come quello delle Trobriand si riproduce così com’è solo nel breve termine: probabilmente questo stesso sistema si è evoluto da uno più semplice, basato su una minor stratificazione sociale e su un’economia del prestigio meno complessa, simile a quelle delle popolazioni delle altre isole dell’arcipelago d’Entrecasteaux. La maggior fertilità delle Trobriand ha permesso l’evolversi del sistema basato sulla sovrapproduzione di ignami come basi per la costruzione di prestigio e potere, ma quali sono stati i fattori a determinare la trasformazione di un sistema di produzione domestico ad uno in cui il surplus diventa merce di scambio, organizzato a livello di sub-clan o di villaggio, in cui dei leader di status elevato servono da nodi attorno ai quali il surplus è prima accumulato e poi ridistribuito? Cosa impedisce ai capi di status più elevato di assicurarsi il monopolio sugli oggetti di valore ed il controllo assoluto sul lavoro degli isolani, ? E per quel che riguarda le relazioni di genere, il potere delle donne è in ascesa o in diminuzione rispetto a quello degli uomini? A tutte queste questioni relative alle trasformazioni inerenti al sistema stesso se ne aggiungono altre, se consideriamo quelle dovute all’intrusione coloniale prima (già presente seppure ignorata da Malinowski) e dalla realtà globale ora. Prima di poter considerare le trasformazioni, però è necessario completare l’immagine del sistema nel suo complesso. La struttura sociale delle Trobriand: (1) Il sub-clan e la trasmissione matrilineare Le Trobriand sono suddivise in territori. Ognuno di questi territori contiene dei luoghi sacri da cui, nella mitologia locale, è apparsa un’antenata. Da lei sono discesi, in linea femminile, i membri di un dala. Dato che non si conoscono precisamente i legami genealogici con l’antenata originaria, anche se i gruppi sono fortemente corporativi, i dala sono detti sub-clan nella letteratura etnografica sulle Trobriand. Un sub-clan Trobriand è un gruppo di discendenza matrilineare che consiste di: 1- uomini imparentati tramite le loro madri, le madri delle loro madri, le madri delle madri delle madri, e così via; 2- le sorelle degli uomini, ed altre donne imparentate ad essi in maniera simile, nella linea femminile 3- i figli di queste donne (ma non i figli degli uomini) Nella concezione culturale delle Trobriand il dala è considerato come un entità che si rigenera in perpetuo: la sostanza interiore di un bambino è considerato sangue dala, concepito attraverso l’unione di una donna con uno spirito bambino il quale è a sua volta una reincarnazione di un baloma, cioè di uno spirito di un morto, cioè di un antenato, che vive nel mondo sotterraneo, Tuma. Un bambino appartiene al dala della madre, ma nel corso di tutta la vita sostiene anche i legami col dala del padre. “nelle Trobriand, i bambini sono creati e cresciuti dal proprio dala e dal proprio padre ed il suo dala. I bambini traggono beneficio dal posto che occupano nel proprio dala e dalla posizione che hanno in un altro dala…Siccome un bambino rappresenta un amalgama di essenza femminile e di 42 approvvigionamento maschile, sia il dala di una donna che il dala di suo marito sono infusi di nuova vita e nuovo potenziale. “(Weiner 1976:130). Le nozioni culturali sul concepimento, e le nozioni sul tempo e sulla causalità che esprimono, non sono idee astratte sull’universo; sono idee sui gruppi che sono cruciali in quanto è al loro interno che si svolge la vita umana, e sui collegamenti tra gli umani nel tempo- umani che, per i Trobriand, includono sia i vivi che i morti. Nelle Trobriand, come in molti altri gruppi della Melanesia, o del mondo tribale, i lignaggi ed i clan sono concepiti come gruppi duraturi nel tempo, i cui membri includono quelli vivi e quelli già morti. Un dala è un gruppo corporato che controlla la terra. Gli interessi corporativi sulla terra sono gestiti e controllati da un uomo chiamato (da Weiner, 1976:154) il “manager”. In teoria lo status di manager passa da un manager al fratello minore fino alla morte dell’ultimo fratello di quella generazione, allora passa al figlio maggiore della sorella maggiore del manager precedente. I questo modo i figli delle sorelle minori di un gruppo di fratelli e sorelle, hanno poche possibilità di diventare manager. Il manager, insieme agli altri leader del sub-clan prendono collettivamente le decisioni riguardo all’assegnazione e alla distribuzione dei doveri legati alle distribuzioni di ignami ai membri femminili del gruppo ed ai loro mariti (alle sorelle ed ai mariti delle sorelle). Inoltre programmano e organizzano i riti funerari ed altre dimostrazioni collettive del proprio prestigio e dei propri doveri di parentela. In questo senso, anche se la successione è per linea femminile, il potere politico e decisionale alle Trobriand è in mani maschili. Il sistema sociale delle Trobriand, però, celebra almeno a livello simbolico la natura ed i poteri delle donne, oltre al loro ruolo fondamentale nei legami tra le generazioni. Le donne hanno un ruolo centrale nelle celebrazioni funerarie, e le donne che accumulano ricchezza e status godono di grande prestigio e di poteri importanti. In confronto alle donne di molte società patrilineari, le donne Trobriand sono relativamente autonome in termini della propria vita personale e della sessualità. Quando si sposano le donne vanno a vivere nel gruppo del marito. Questo pone un problema organizzativo, se una moglie risiede col marito sulla terra del suo gruppo, ed i figli crescono lì, come si fa a definire un dala come gruppo di discendenza matrilineare con interessi comuni nella terra? Per Malinowski i figli maschi delle donne al raggiungimento dell’adolescenza lasciano la casa paterna per andare a vivere con i propri zii materni nel territorio del dala. Se questo comportamento è ripetuto in tutte le generazioni significa che gli uomini adulti di ogni subclan vivono sul proprio territorio, mentre i ragazzi crescono nel gruppo e sulla terra del padre. In realtà i modelli residenziali sono molto più flessibili, data anche la classificazione dei parenti, quindi molti uomini finiscono per vivere nel villaggio del padre, della madre del padre, o altri ancora. In realtà secondo Weiner (1976:155) solo i ragazzi che aspirano alla posizione di manager devono lasciare il villaggio del padre e trasferirsi sulla terra del proprio sub-clan con i fratelli della madre. Ad ogni sub-clan è attribuito uno status: un sub-clan può essere comune o superiore, chiefly all’interno di queste categorie, però, il prestigio ed il potere di ogni sub-clan varia considerevolmente. A prescindere dallo status, comunque un sub-clan è un gruppo forte e duraturo, con interessi corporativi nella terra e severamente esogamo. Si dice che ogni sub-clan appartiene ad uno di quattro clan, l’importanza di questi clan è oscura, quello che si sa è che i clan sono categorie sociali, composte da un gruppo di sub-clan associate tradizionalmente tramite legami matrilineari e con associazioni simboliche con una specie di animale o di uccello. I clan non sono gruppi corporati, e lo stesso clan può includere sub-clan di rango alto e altri di basso rango. La regola dell’esogamia tra membri dello stesso sub-clan è, in teoria, estesa ai membri dello stesso clan, in pratica esistono matrimoni tra membri dello stesso clan ma sub-clan diversi. Relazioni sessuali tra i membri dello stesso clan, sempre che siano di sub-clan diversi, sono considerati trasgressive ma non scandalose. 43 Questo sistema schematizzato sembra semplice, equilibrato e duraturo nel tempo: un territorio che contiene un villaggio dove vivono i membri maschi del gruppo. In realtà, come sempre, il vero mondo sociale in cui vivono persone autentiche non è mai così ordinato. I gruppi di discendenza possono crescere a dismisura e separarsi o diventare troppe esigui per essere sostenibili; gli interessi le alleanze e le strategie degli individui e dei gruppi, per non parlare delle simpatie o delle incompatibilità di carattere, fanno si che il sistema di residenza e di affiliazione nei gruppi sia più flessibile del dogma. (2) Le relazioni tra affini Abbiamo già visto come il sistema delle distribuzioni del raccolto, urigubu, sia strutturato dai rapporti tra affini. Ogni gruppo familiare, otre che lavorare per produrre il cibo per soddisfare i propri bisogni di sussistenza, coltiva degli appezzamenti di ignami destinati ad altri gruppi familiari. Da quando questi appezzamenti destinati agli scambi sono preparati, gli ignami che vi sono coltivati, da talee fornite da coloro che ne beneficeranno, sono considerati già di proprietà delle persone a cui sono destinati. La coppia di marito e moglie che li coltivano forniscono il lavoro. Tipicamente ogni gruppo familiare è responsabile per la coltivazione di un appezzamento di ignami da destinare al gruppo familiare del marito della sorella. Questi ignami saranno esibiti in depositi costruiti appositamente e rappresenteranno visibilmente la generosità e la capacità di sostenere i propri impegni del donatore. Questi farà dei doni minori (ceste di ignami) anche ai gruppi familiari delle altre sorelle e ad altri membri del suo sub-clan, come i genitori. La distribuzione dei compiti agli uomini del sub-clan, cioè l’allocazione di un appezzamento destinato ad ogni sorella del gruppo e a suo marito, è presa collettivamente dal sub-clan. E’ il dala, quindi che collettivamente ha la responsabilità di assolvere ai propri impegni di scambio reciproco con i propri membri di sesso femminile, la cui fertilità permetterà la riproduzione del gruppo nella generazione successiva (ricordiamo che il sub-clan è un gruppo di discendenza matrilineare, composto dagli uomini che discendono in linea femminile dalla stessa antenata, dalle loro sorelle, le quali però sposano uomini di altri gruppi e risiedono nel territorio del marito, e dai figli delle loro sorelle). Questi obblighi verso le sorelle del sub-clan sono espletati con dimostrazioni pubbliche di produttività e generosità. Nella descrizione di Malinowski questo sistema era chiaro: come una dote queste presentazioni sembravano essere una ricompensa, in prodotti della terra del proprio dala, alle donne del sub-clan che non vivono mai sulla quella terra: da bambine vivono sulla terra del dala del padre e da sposate su quella del gruppo del marito. Questa spiegazione non è soddisfacente, però se si considera che il più delle volte il dono non è rappresentato come il dono di un uomo a sua sorella, ma come il dono di un uomo ad un altro uomo: il marito della sorella. Inoltre, se andiamo a considerare la realtà dei fatti, al di là del modello teorico, c’è una grande flessibilità nella scelta del luogo di residenza di una famiglia, e il risultato è che la maggior parte degli uomini che coltivano un appezzamento per il gruppo familiare della sorella non risiedono nel villaggio o nel territorio del proprio sub-clan, e l’appezzamento coltivato per urigubu, non è quindi terra del sub-clan. In realtà sono gli stessi sub-clan ad essere uniti in una relazione di alleanza dal matrimonio. Un matrimonio è un atto politico che stabilisce un’unione formale ed una relazione contrattuale tra i gruppi corporati che dura quanto il matrimonio, ed è questo legame tra i sub-clan che viene riaffermato annualmente tramite gli scambi di ignami del raccolto. Da un punto di vista simbolico i doni del raccolto sottolineano sia l’unità degli uomini di un sub-clan che lavorano collettivamente per mantenere i propri impegni con gli affini, che l’unità tra i membri maschi e femmine dello stesso sub-clan. Questi doni, però implicano anche un elemento di subordinazione in cui il sub-clan del marito assume una posizione dominante (in quanto donatore) rispetto a quello della moglie. Le relazioni create attraverso il matrimonio legano gruppi familiari e sub-clan in una commessa rete di obblighi e pretese, di cui l’urigubu ed il dono di oggetti valore con cui il ricevente degli ignami riconosce il lavoro del fratello della moglie sono solo un esempio. Altri scambi importanti tra i gruppi familiari ed i sub-clan avvengono in tutte le occasioni legate al ciclo vitale dei membri del 44 gruppo: al matrimonio, al concepimento e alla nascita dei figli, alla morte. Tutti questi scambi legano gli affini in relazioni fatte di obblighi reciprochi e mutua dipendenza. (3) Il villaggio Data l’organizzazione dei Trobriand in gruppi corporati matrilineari, ognuno associato ad un territorio specifico, il caso più semplice è che un villaggio sia come il ‘quartier generale’ di un singolo sub-clan. In questo caso la maggior parte degli uomini del gruppo e le loro mogli, vivono in quel villaggio, mentre le donne del sub-clan vivono altrove con i rispettivi mariti. In realtà, però, molti villaggi contengono segmenti di due o più sub-clan. Possono esserci villaggi con un sub-clan principale a cui si sono aggregati segmenti di altri sub-clan, o villaggi costituiti da due sub-clan diversi. In questi casi in cui sub-clan e villaggio non coincidono, è il villaggio, non il sub-clan, a costituire il contesto sociale principale nella vita dei Trobriand. Sono le relazioni forgiate attraverso la condivisione della vita e del lavoro quotidiano, a fornire il contesto per la vita di ogni individuo e famiglia. L’importanza del villaggio emerge nel contesto dell’orticoltura, infatti quando si tratta di organizzare squadre di lavoro collettive , è il villaggio ad organizzarsi collettivamente non il subclan. La divisione degli spazi nei villaggi Trobriand riflettono sia la sua unità ad un livello (rispetto all’esterno), che la parziale separazione tra i diversi segmenti di sub-clan che lo compongono, in quanto i membri dei diversi gruppi costruiscono le loro case in un settore diverso del cerchio di case. (4) L’organizzazione politica I villaggi della stessa area sono legati tra loro da numerose alleanze matrimoniali, che nel tempo cambiano ma alla lunga forgiano tra i villaggi un’ulteriore livello di raggruppamento sociale. Ogni villaggio ha un leader, il suo ruolo può essere simile a quello dei Big man generalmente associati alle strutture politiche melanesiane, ma nel caso delle Trobriand c’è una differenza cruciale, in quanto esiste una nozione di rango che pervade l’ideologia. Il rango non concerne gli individui, ma i sub-clan. Questi possono essere di rango comune o di rango associato alla funzione del capo (chiefly, o guyau). Quindi ogni villaggio è controllato da un sub-clan che può essere di rango comune o guyau, contemporaneamente però, gli stessi sub-clan di rango superiore sono costantemente in lotta tra loro per ottenere maggior prestigio e potere: esiste quindi una scala di valore associata ai diversi sub-clan di alto rango, questa scala è di pubblico dominio pur non essendo ufficiale, fissata nel tempo, o sempre chiara e netta. La figura che più assomiglia al big-man classico in questo sistema è il leader di un villaggio di rango comune; egli ottiene la propria posizione manipolando il potere ed i beni, e dimostrando saggezza nell’esercitare la propria leadership. La differenza sta nel fatto che sia lui che il gruppo di cui è a capo, fanno parte di un sistema politico più allargato che include sub-clan di alto rango. I leader dei villaggi guyau, infatti hanno un vantaggio importante, il diritto alla poligamia. Un capo con sei mogli, per dire, riceve al momento del raccolto i tributi in ignami dai sub-clan di ognuna delle mogli, e ricordiamo che gli ignami significano prestigio. Le presentazioni del raccolto diventano, nel caso di questi leader di alto rango, una forma di tributo politico. Più un sub-clan è potente, più sono i sub-clan che si trovano in una posizione politicamente subordinata ad esso a causa delle alleanze matrimoniali strategicamente contratte. Mandare una donna del proprio subclan a sposare un leader di un clan di alto rango è di per se un primo atto di tributo, anche se come sottolinea Annette Weiner questo atto è reciprocato dal marito di alto rango che deve fornire le gonne in fibra e i fasci di foglie per i doni delle cerimonie funerarie. Il rango dei capi dei sub-clan guayau è simbolicamente rappresentato dalle piattaforme, più alte delle altre nel villaggio, in cui siedono. Gli uomini del sub-clan comuni devono mostrare deferenza anche fisicamente a questi leader. I leader di un villaggio di alto rango simbolizza lo status ed il prestigio del suo sub-clan, e contemporaneamente ne guida le decisioni e le politiche e le esprime 45 pubblicamente. Questi capi possono mobilitare i loro alleati in caso di conflitto per mantenere o migliorare la posizione del proprio sub-clan in relazione a quella di gruppi rivali. I capi importanti assumono il ruolo principale nelle spedizioni di kula, in questo modo ogni passaggio di vaguy’a attraverso le Trobriand serve anche convalidare o modificare l’equilibrio di potere e prestigio tra i sub-clan e i raggruppamenti di livello superiore. Il leader del sub-clan di rango superiore e più potente di un raggruppamento di livello superiore, attraverso la manipolazione delle alleanze matrimoniali e l’oculata ridistribuzione dei beni che convoglia, si trova ad agire come il leader dell’intero raggruppamento. Il suo ruolo è simile a quello del leader di un villaggio guyau, ma su una scala più grande. Anche in questo caso i suoi poteri e la sua posizione non sono assoluti. Se li è conquistati in virtù della volontà dei sub-clan che rappresenta e del fatto che numerose persone sono obbligate a mostrargli deferenza e a prestargli supporto grazie all’abilità con la quale egli ha incanalato, accumulato e ridistribuito beni materiali e simbolici. Il rango di un leader riflette quello del suo sub-clan, la sua autorità è quella che gli viene accordata dal suo gruppo, ed egli contratta i suoi matrimoni e riceve tributi materiali come espressione simbolica del prestigio e del poter del suo gruppo. Però la rete di matrimoni strategici dev’essere ricostruita da zero da ogni aspirante leader guyau, e l’equilibrio del potere e del prestigio, basati sul successo nel manipolare gia scambi, è in continuo movimento. Secondo Weiner (1976:45) i leader dei sub-clan di alto rango hanno gli stessi problemi dei big-men nel costruire e mantenere la propria base politica, ma hanno tre caratteristiche che li differenziano dagli altri leader della regione del Massim e li differenziano da un lato dai big-men e dall’altro dai capi polinesiani: 1- I capi Trobriand devono essere di alto rango, il che non esclude competizione tra diversi aspiranti o la necessità di ricostruire una rete di relazioni per sostenere il proprio potere, ma esclude dalla competizione gli uomini di rango comune. 2- La separazione di questi leader di alto rango è simbolicamente rimarcata da tabù sociali e fisici e dagli accessori decorativi riservati a loro 3- Solo i pochi tra i guyau ad aver raggiunto la posizione di leader del proprio villaggio possono prendere più di una moglie, quindi questa è una prerogativa legata alla posizione ottenuta, più che al rango ereditato (ancora una volta però il rango preclude gli uomini ordinari dall’ottenere la posizione). In conclusione lo stile dei capi Trobriand ricorda le dinamiche dei big-men melanesiani, ma il dogma dei diritti ereditari attribuisce ad un numero limitato di uomini Trobriand il potenziale accesso a più risorse. Risorse che sono necessarie per competere nell’ambito del prestigio e del potere per poter aspirare alla posizione di capo. 46 Le Highlands della Nuova Guinea La regione delle Highlands della Nuova Guinea è stata una delle ultime regioni della Melanesia, e del mondo, ad entrare in contatto con gli occidentali. Protetta dall’impenetrabilità delle montagne, della foresta tropicale e delle paludi, è stato solo negli anni 1930 che ci si è resi conto delle numerose popolazioni che abitavano le valli e gli altipiani all’interno dell’isola. I primi esploratori a raggiungere questa zona, i fratelli Leahy, furono sorpresi di trovare gruppi indigeni così numerosi, dall’organizzazione politica così strutturata, e con un sistema agricolo e di allevamento così avanzato. Da parte loro i Highlanders furono in un primo tempo stupiti e spaventati dall’arrivo di uomini bianchi, che scambiarono per gli spiriti dei morti, ma ben presto i più intraprendenti compresero i vantaggi che questi stranieri portavano, tra questi erano molto apprezzate le grandi quantità di oggetti di valore in conchiglia, portati dalle zone costiere, ed utilizzate per pagare chi lavorava per i nuovi venuti o forniva loro cibo o altri servizi. In tempi precedenti al contatto i Higlanders entravano in possesso di oggetti ricavati dalle conchiglie tramite una lunga serie di scambi e baratti, che li collegava indirettamente alle popolazioni più lontane. Questi oggetti erano rari nelle Highlands e di molto valore, venivano utilizzati come decorazioni rituali e scambiati in occasioni importanti, come i matrimoni e la morte. Associati al prestigio, erano molto desiderabili. Non erano solo gli oggetti tradizionali ad interessare i Highlanders, ovviamente, anche i coltelli e le asce di metallo, il cibo in scatola, lo zucchero ed il tè. Data l’altitudine, le Highlands si rivelarono adatte alle piantagioni di caffè, oltre ad essere relativamente al sicuro dalla malaria che affligge le zone costiere, fluviali e paludose della Nuova Guinea. Dalla fine della seconda guerra mondiale la zona delle Highlands si è aperta allo sviluppo economico, alle missioni, ed alla ricerca antropologica. Proprio per il fatto che avevano avuto pochi anni di contatto con la realtà coloniale, le popolazioni di queste zone erano particolarmente attraenti agli antropologi che ricercavano una cultura “autentica”, incontaminata da influenze esterne. Ovviamente non era solo il gusto per l’esotico ad attirare gli etnografi in questa zona. I temi trattati dalle numerose ricerche che si sono tenute in questa parte della Nuova Guinea includono: le analisi delle forme di affiliazione ai gruppi, e della struttura dei gruppi sociali, le caratteristiche dei modelli di leadership, l’importanza degli scambi cerimoniali, e le relazioni di genere. In un certo senso c’è stata una tale produzione di materiale etnografico su questa area ed un tale afflusso di antropologi in quest’area che, secondo Bruce Knauft (1999), l’intera Melanesia tendeva ad essere percepita in termini derivati dall’etnografia delle società delle Highlands, considerate come la Melanesia “autentica”. Ironicamente, però questa è anche stata un’area in cui lo sviluppo economico è avvenuto più rapidamente, ed in cui le trasformazioni sociali e culturali si sono diffuse rapidamente. Ora anche gli studiosi delle Highlands si occupano di fenomeni di trasformazione culturale. Primi contatti “ Li ho visti con i miei occhi quando sono arrivati” dice Dirupano Eza’e “ E non l’ho dimenticato. Noi vivevamo nel vecchio villaggio ora. Mia madre mi aveva svezzato, io camminavo, andavo in giro come qualunque bambino. Ero con mio padre quando li ho visti per la prima volta” (4) Questa testimonianza è stata raccolta negli anni 80 da due antropologi e registi australiani, Bob Connolly e Robin Anderson (1987), continua: “ Ero così terrorizzato che non riuscivo a pensare e piangevo senza controllo. Mio padre mi trascinò per la mano e ci nascondemmo dietro dell’erba kunai molto alta. Poi lui si alzò per vedere gli uomini bianchi” (6) 47 I bianchi erano tutti vestiti di bianco e marciavano in fila accompagnati da portatori indigeni reclutati tra le popolazioni della costa, facevano parte della spedizione di Michael Leahy, cercatore d’oro australiano che condusse le esplorazioni delle Highlands tra il 1930 e il 1934, aprendo la strada al contatto di queste popolazioni con il mondo esterno. Leahy portava con sé macchine fotografiche e pellicole, e scriveva un diario tutti i giorni. Questo materiale permise a Connolly e Anderson di rintracciare alcuni uomini e donne delle Highlands ripresi dagli esploratori, e intervistarli sulle loro impressioni di quei primi bianchi. “ Quando se ne furono andati la gente si sedette e cominciò a sviluppare le storie. Non sapevano niente degli uomini con la pelle bianca. Noi non avevamo visto i luoghi lontani. Conoscevamo solo questa parte delle montagne. E pensavamo di essere gli unici uomini viventi. Pensavamo che quando una persona muore la sua pelle diventa bianca e lui va al di là del confine in ‘quel luogo’- al posto dei morti. Così quando gli stranieri arrivarono noi pensammo “ Ah questi uomini non appartengono alla terra. Non uccidiamoli, sono i nostri stessi parenti. Quelli che sono morti in precedenza e sono diventati bianchi e ritornati.” (6). Secondo Edward Schieffelin (Scheffelin and Crittenden 1991) quando gli australiani e gli abitanti della Nuova Guinea si incontrarono per la prima volta, non ci fu effettivamente un incontro tra i loro rispettivi mondi, perché ognuna delle due parti rappresentava contesti culturali e storici molto diversi. Anche la qualità dell’Alterità che ognuno sentiva nell’altro era differente, e in un certo senso ogni incontro può dirsi composto di due eventi separati ( 1991:4). Le situazioni di primo incontro rappresentano un momento particolare e intrinsecamente interessante dal punto di vista antropologico, e forse la Nuova Guinea è uno dei pochi luoghi in cui è stato possibile farlo, data proprio la sua storia coloniale recente. Secondo Schieffelin sono almeno tre le dimensioni significative dei primi incontri: 1. La prima è la dimensione esistenziale, il crudo shock dell’alterità. Questa dimensione è in qualche misura sempre presente nell’incontro con l’altro, ma è particolarmente toccante nelle situazioni di primo contatto, in cui si è confrontati con la paradossale familiarità dell’alieno: un essere che sembra un umano ma allo stesso tempo è così radicalmente diverso da far sorgere dei dubbi. Questa esperienza di confusione e di incertezza sulla validità delle proprie categorie per comprendere questa nuova forma di umanità ha una durata limitata, è propria del momento stesso del contatto, e viene superata nel momento in cui si fa appello alle proprie categorie culturali per dare una spiegazione razionale alla propria esperienza. Ma in quel momento abbiamo la percezione dei confini epistemologici della nostra comprensione sociale, una percezione che ci lascia una sensazione di fascino e insieme di paura. Questa paura è più acuta e problematica se accompagnata dalla consapevolezza di inferiorità e minaccia. E’ probabile che questo aspetto sia stato meno problematico per gli esploratori europei che per gli indigeni. Gli esploratori erano abituati ad incontrare altri popoli ed erano favoriti dall’elemento sorpresa, inoltre avevano già a disposizione nel proprio bagaglio culturale la categoria”nativi” per comprendere coloro che incontravano sulla loro strada, una categoria di subordinazione sociale che serviva a rassicurarli, a dissipare il senso di alterità. Gli indigeni erano spesso colti di sorpresa da questi incontri, e non avevano una categoria sociale pre-esistente per razionalizzare l’apparizione nel loro territorio degli esploratori. Per loro il confronto con l’alterità era molto più problematico, percepivano che questi esseri così alieni avevano dei poteri, e sospettavano che fossero esseri sovrannaturali. La sorpresa e la confusione si dipingeva sui loro volti, e diventavano fonte di divertimento e senso di superiorità per gli europei. 2. La seconda dimensione dei primi incontri è quella socio-culturale. L’incontro è sempre plasmato dalle strutture politiche e sociali locali e inquadrato dai valori e dalle categorie culturali prevalenti. 48 Dal punto di vista antropologico la domanda più semplice è: cosa pensavano che stesse succedendo i protagonisti, dalle due parti, dell’incontro? Per rispondere a questa domanda bisogna far riferimento, da un lato ai sistemi di valori, credenze e categorie di pensiero delle due culture a confronto, e dall’altro alla struttura di relazioni sociali e politiche che sono servite e modellate dai valori culturali, e chiedersi come sono intervenuti questi elementi nell’incontro specifico. 3. La terza dimensione è quella storica, che comporta anche l’elemento della contingenza storica: come particolari incidenti circostanziali, strutture di relazioni, personalità individuali particolari, e scopi differenti sono coinvolti nel dare forma ad una serie di eventi in un momento specifico. Per poter comprendere i primi incontri culturali è necessario considerare sia gli aspetti storici che etnografici dell’esperienza. Gli eventi dei primi incontri sono il risultato di una complessa interazione tra percezioni culturali differenti e contesti storici completamente estranei dal punto di vista di persone in posizioni diverse. L’interesse è per i processi attraverso i quali due gruppi di persone da situazioni così radicalmente differenti si comprendono a vicenda, rispondendo gli uni alle mosse degli altri senza sapere con certezza cosa stessero pensando o volessero fare o cercassero di dire. L’alterità umana comunque non è mai completamente altra, è sempre il prodotto di condizioni sociali culturali e storiche, ed è mediata dall’ umanità comune, oltre ad essere condizionata dalla struttura stessa dell’incontro. Ma l’interesse antropologico per le situazioni di primo incontro va oltre al momento stesso in cui è avvenuto. Le modalità dell’incontro hanno effetti duraturi sui partecipanti e sulle loro culture: influiscono sulle percezioni di loro stessi e dal proprio mondo dei partecipanti. Inoltre gli eventi dell’incontro potevano presagire o preparare la strada e determinare la direzione delle relazioni e interazioni tra i due gruppi che sarebbero seguite. I Tsembaga Maring, agricoltori itineranti: cultura e ambiente I Maring sono un gruppo tribale che popola due grandi vallate fluviali delle Highlands della Nuova Guinea, esistono circa venti gruppi locali che parlano la lingua Maring, la loro popolazione varia da un centinaio a 900 persone, e sono considerati un esempio classico di agricoltori itineranti. I Tsembaga Maring studiati e descritti da Rappaport (1968) sono uno di questi gruppi locali, con circa 200 membri, che abitano un territorio di 8,3 chilometri quadrati sulle sponde del fiume Simbai. Il loro territorio è molto ripido e sale rapidamente dalle sponde del fiume a 670 metri a una cresta montuosa a 2194 metri, ma la porzione che si può coltivare si ferma attorno ai 1500 metri. Durante l’anno del lavoro sul campo di Rappaport, il 10% del totale territorio sfruttabile era coltivato, alcune coltivazioni durano due o tre anni. Secondo Rappaport la terra dei Maring ha un potenziale di sostenere 200 persone per acro (4.047 metri quadrati), mentre la densità effettiva durante la sua ricerca era di 124. L’orticoltura fornisce il 99% della dieta quotidiana dei Maring, che mangiano anche maiali selvatici, marsupiali, rettili, e larve cacciati e raccolti nella foresta circostante. Un appezzamento tipico è coltivato con gli alimenti base, cioè patate dolci e taro, ma contiene anche altri prodotti come ignami, manioca, e banane, oltre a numerosi legumi, verdure e canna da zucchero. Queste piante crescono una accanto all’altra riproducendo in miniatura la varietà vegetale della foresta pluviale. Per poter cominciare a coltivare un appezzamento, una famiglia Maring deve abbattere la foresta secondaria ricresciuta dall’ultima volta che questo è stato coltivato. Gli uomini e le donne lavorano insieme per rimuovere il sottobosco; ora utilizzano machete di metallo, nel periodo precedente al contatto avevano solo asce di pietra. Dopo circa due settimane di lavoro gli uomini abbattono la maggior parte degli alberi, i più grandi sono lasciati in piedi, ma sono uccisi rimuovendo interamente la corteccia, per evitare che la chioma faccia ombra sull’area da coltivare. Secondo una stima di Rappaport lo sforzo impiegato per pulire il sottobosco è di due volte e mezzo superiore a 49 quello necessario per abbattere gli alberi. Il passaggio successivo, è quello di recintare gli orti per tenerne fuori i maiali, sia domestici che selvatici. Per minimizzare questa parte del lavoro i Maring tendono a selezionare e coltivare appezzamenti vicini: questa fase del lavoro richiede un investimento energetico per metro equivalente a metà di quello necessario per la pulizia iniziale del sottobosco. Anche questo è compito degli uomini. Quando la vegetazione tagliata si è seccata al sole, l’appezzamento viene bruciato e si strappano le erbacce, questo lavoro è eseguito da uomini e donne. La preparazione di un appezzamento richiede un investimento, in termini energetici, sostanzioso ma relativamente breve. In contrasto, mantenerlo libero dalle erbacce per tutto il tempo in cui le piante coltivate maturano richiede uno sforzo costante, più di tre volte l’energia totale utilizzata per la preparazione iniziale dell’appezzamento. Raccogliere e trasportare il raccolto sono altre fasi di lavoro che richiedono un investimento energetico consistente, anche se sono compiti che procurano un maggior senso di soddisfazione. Rappaport stima che ogni acro coltivato richieda un investimento energetico pari a 300.000 calorie, e fornisce circa 5 milioni di calorie in cibo, un ritorno poco superiore di 16 a 1. In annate più tipiche di quella analizzata da lui, in cui gli orti erano disseminati più del solito, il ritorno energetico può raggiungere una relazione di 20 a 1. Da un punto di vista comparativo, questa relazione è più del doppio quella calcolata da Lee (1969) per i cacciatori-raccoglitori !Kung del Sud Africa. E’ importante ricordare che queste cifre non indicano necessariamente che i cacciatori- raccoglitori devono lavorare di più per assicurare la propria sopravvivenza, come dimostrato dal modello dell’affluenza primitiva di Sahlins. Mentre i Maring investono molta energia per allevare i maiali i !Kung ottengono le proteine con la caccia, e sopravvivono con meno calorie, mentre i Tsembaga Maring devono assumere molte calorie contenute nei tuberi ricchi di amido ma di basso contenuto nutritivo. Quindi, anche se il progresso tecnologico dei Maring rispetto ai !Kung gli permette di raddoppiare il ritorno energetico, questo non implica che debbano lavorare meno per assicurarsi la sopravvivenza. Un fattore importante nelle strategie attuate dagli orticoltori Maring è il numero di maiali da allevare. Se una famiglia deve nutrire solo un paio di maiali, è sufficiente coltivare un appezzamento di medie dimensioni ad un’altitudine media, per nutrire sia i maiali che la famiglia. Quando il numero di maiali aumenta una famiglia deve coltivare un appezzamento ad altitudini più elevate, destinato quasi interamente alle patate dolci per uomini e maiali, mentre un appezzamento più vicino al fiume viene coltivato a taro ed ignami che saranno consumati solo dagli umani. Questo ciclo di allevamento dei maiali è legato alle attività rituali e politiche dei Tsembaga Maring: più avanti vedremo come secondo Rappaport questi tre aspetti della cultura dei Tsembaga rappresentino un sistema complicato ed equilibrante di adattamento che permette loro di sopravvivere in un ambiente difficile. Dal punto di vista sociale, l’organizzazione del lavoro nell’agricoltura ‘taglia e brucia’ ha diverse conseguenze: • La terra assume un’importanza fondamentale per i gruppi sociali. La difesa e la conquista della terra da gruppi vicini sono eventi comuni tra i Maring. Anche in assenza di guerre di occupazione il tema dei diritti sulla terra è costantemente dibattuto e contestato. Come per molte popolazioni della Melanesia, il lavoro di tagliare la foresta primaria per convertirla in territorio coltivabile è uno sforzo enorme, e la crescita secondaria costituisce una proprietà, controllata corporativamente dai discendenti dei primi colonizzatori umani di un territorio. • La possibilità di produrre e accumulare surplus. Solo alcuni dei prodotti tipici dell’agricoltura tropicale possono essere conservati ed accumulati: tra i prodotti coltivati dai Maring solo gli ignami offrono questa possibilità. Gli altri prodotti non possono essere accumulati per conservarli, ma possono comunque essere prodotti in quantità di gran lunga superiori a quelle necessarie per la mera sopravvivenza: banane, manioca, taro e patate dolci, oltre ai maiali sono accumulate per scambi cerimoniali e feste. 50 La maggior parte del lavoro quotidiano necessario per la coltivazione è compito delle donne, agli uomini sono richiesti degli sforzi consistenti ma sporadici, legati alle attività più pesanti come abbattere gli alberi e costruire le recinzioni. • Un gruppo familiare, composto da moglie marito e figli, costituisce un unità di produzione di alimenti in grado di provvedere ai propri bisogni di sussistenza, ma la possibilità di produrre un surplus e ‘convertirlo’ in maiali che costituiscono un capitale sociale, comporta anche la possibilità che il controllo maschile sul lavoro delle donne diventi uno strumento politico. Chi controlla il movimento ed il lavoro delle donne attraverso il finanziamento dei matrimoni, o attraverso la poligamia, può aspirare al controllo politico. L’etnografia di Rappaport è conosciuta, oltre che per le descrizioni dettagliate dei processi produttivi che assicurano la sussistenza ai Tsembaga Maring, per la sua tesi di ecologia culturale, Rappaport vuole dimostrare che la cultura Maring contenga una razionalità nascosta di natura ecologica: le credenze, i rituali, ed il sistema sociale sarebbero risposte alle pressioni ambientali del territorio in cui essi vivono. L’analisi di Rappaport inizia dal ruolo dell’allevamento dei maiali nella vita dei Tsembaga. Normalmente, quando solo pochi maiali sono allevati, questi sono tenuti liberi durante il giorno, e fanno ritorno di sera alla case del proprietario, dove sono nutriti con le patate dolci più scadenti dell’appezzamento familiare. Questi maiali sono sacrificati agli antenati, e consumati, solo in tempi di crisi, quando c’è un malato da curare o in tempo di guerra con altri gruppi. Secondo Rappaport questi sacrifici hanno conseguenze che sono fisiologicamente vantaggiose dal punto di vista ecologico, anche se i partecipanti non ne sono coscienti. Quando un maiale è sacrificato agli antenati per promuovere la guarigione di un malato, il paziente, e i suoi parenti, ricevono proteine di alta qualità che sono molto utili in tempi di stress fisico, soprattutto considerando che la dieta di tutti i giorni dei Maring è marginalmente povera di proteine. Lo stesso discorso vale per i maiali sacrificati e consumati dai guerrieri in tempi di conflitti tribali. Più interessanti sono le conseguenze ecologiche dei complessi cicli rituali che comportano la crescita della popolazione suina a livelli molto più elevati del normale. Questi cicli vanno considerati in relazione alle relazioni politiche dei Maring. Le relazioni tra i gruppi vicini si alternano tra periodi di pace e di ostilità. Quando comincia un conflitto, normalmente tra gruppi confinanti, le lotte continuano sporadicamente per qualche settimana. Normalmente le forze si equivalgono ed il conflitto si conclude senza grandi cambiamenti, ma quando sopravviene una vittoria decisiva i vinti sono scacciati e si rifugiano da parenti appartenenti ad altri gruppi locali, le loro case, gli orti ed i maiali sono distrutti, ma il loro territorio non può semplicemente essere occupato dai vincitori, è ancora “custodito” dagli antenati degli sconfitti. Alla fine delle ostilità il gruppo che non è stato cacciato dal proprio territorio esegue un rito in cui un cespuglio magico, rumbim, è piantato e tutti i maiali adulti sono uccisi e dedicati agli antenati. La maggior parte della carne è distribuita agli alleati dei gruppi vicini che hanno partecipato ai combattimenti. Con questa azione si rimuovono i tabù imposti durante i conflitti, ma i debiti materiali e spirituali verso gli alleati e verso gli antenati sono ancora da ripagare. Il gruppo entra in una fase di tregua, ma di indebitamento e di pericolo, che avrà termine solo quando si potrà sradicare il rumbim in occasione di una festa kaiko. L’organizzazione di questa festa necessitava l’allevamento di numerosi maiali, uno sforzo che richiede sforzo e tempo, fino a dieci anni. Con la crescita della mandria di maiali allevati, lo sforzo per nutrirli comporta l’espansione degli appezzamenti di patate dolci, ed un grosso investimento energetico. Rappaport ha calcolato che la mandria di 169 maiali allevata dai Tsembaga Maring prima di un festival kaiko consumava il 54% delle patate dolci prodotte e l’82% della manioca. Dopo il festival, gli appezzamenti coltivati furono ridotti del 36,1%. Sono soprattutto le donne, responsabili per il nutrimento delle mandrie sempre più numerose, a fare pressione perché il cespuglio sacro sia sradicato e i maiali uccisi; la densità di maiali provoca anche • 51 litigi e lotte quando questi riescono a penetrare nei campi attraverso i recinti, per minimizzare questi inconvenienti, gli insediamenti umani si disperdono maggiormente nel territorio. All’inizio del festival kaiko si piantano dei picchetti lungo il nuovo confine. Se il gruppo sconfitto e disperso è rimasto altrove, senza ritrovare la forza per rioccupare i propri territori piantando il proprio rumbim, i vincitori possono estendere i propri confini ad incorporare il territorio conquistato, in assenza di un rumbim il territorio risulta ufficialmente inoccupato. Inoltre gli sconfitti che si sono rifugiati presso altri gruppi hanno nel frattempo partecipato alla vita rituale di quei gruppi e, soprattutto piantando i rumbim altrove, hanno spostato i propri antenati e la propria affiliazione ai gruppi che li ospitano nei loro territori. Quando il rumbim è sradicato, molti maiali (32 sui 169 nell’evento descritto da Rappaport) sono macellati e distribuiti tra gli alleati ed i parenti acquisiti appartenenti ad altri gruppi. Il festival continua per un periodo di circa un anno. Il gruppo in questione ospita periodicamente gruppi confinanti amici, per danzare e distribuire loro del cibo. Secondo Rappaport anche le danze hanno una funzione ecologica, funzionano da rito del corteggiamento ma soprattutto servono a dimostrare agli altri gruppi, potenziali alleati, la prestanza del proprio gruppo e promuovere la convenienza dell’alleanza. Rappapport nota che gli inviti alle danze sono fatti individualmente ad amici, affini e parenti di altri gruppi, allo stesso modo in cui sono estesi gli inviti a lottare. Danzare e lottare per i Maring sono attività equivalenti: i riti che precedono le due attività sono simili, e si dice che chi viene per danzare viene anche per lottare. La consistenza di un gruppo di danzatori è quindi considerata una misura del contingente di guerrieri su cui un gruppo potrà contare nel prossimo conflitto. Dopo una nottata di danze i partecipanti possono barattare tra loro il sale, gli attrezzi di pietra e gli oggetti simbolici di prosperità, quindi il kaiko, fornisce anche l’opportunità di far circolare beni che scarseggiano. Il kaiko si conclude con un sacrificio in massa dei maiali adulti rimanenti, che sono distribuiti tra i membri degli altri gruppi selezionati (parenti e alleati). Il festival osservato da Rappaport ha portato porzioni di carne di maiale a due o tremila persone appartenenti a 17 diversi gruppi locali. In occasione di questo festival ci sono anche state distribuzioni di beni parallele, legate alle trattative matrimoniali. Una volta concluso il festival kaiko il conflitto poteva riaprirsi, e questo normalmente accadeva, ma se la pace si manteneva per un periodo sufficientemente lungo da permettere l’allevamento di una seconda mandria di maiali, si poteva organizzare un secondo festival. In teoria questo significava che i due gruppi che tradizionalmente si lottavano avevano fatto pace. Secondo Rappaport questi cicli rituali hanno una serie di conseguenze di cui i Maring stessi non sono coscienti, e che servono a preservare l’equilibrio dell’ecosistema, mantenere relazioni bilanciate tra i gruppi vicini, ridistribuire la terra in relazione alla popolazione, e distribuire le risorse, inclusi i beni scarsi che sono barattati e le proteine animali. “I cicli rituali… hanno un ruolo importante nel regolare le relazioni di questi gruppi sia con i componenti non-umani del loro ambiente immediato che con i componenti umani del loro ambiente meno immediato” (Rappaport 1968: 182). La prospettiva ecologica sulla cultura è complessa, è stata utilizzata per fornire spiegazioni razionali a comportamenti e credenze che sembrano irrazionali: interpretazioni simili sono state usate anche per spiegare le credenze, comuni in Nuova Guinea e in Melanesia generalmente, sui poteri contaminanti delle donne, inoltre sono serviti come spunto per il materialismo culturale di Marvin Harris, una teoria sulle trasformazioni socioculturali. Il problema con entrambe queste prospettive sta nell’assumere che gli esseri umani siano passivi nel loro rapporto con l’ambiente, e portino aggiustamenti ai propri sistemi rituali, alla propria economia, ed alle proprie credenze inconsciamente, in risposta alle pressioni ambientali che incontrano. Questa visione non è sostenibile, gli uomini e le donne, come abbiamo già visto nel caso delle Trobriand, organizzano il proprio lavoro per raggiungere i propri scopi, definiti culturalmente. 52 Il secondo problema di questo approccio è quello di considerare una cultura così com’è al momento in cui è osservata da un antropologo come un sistema in una situazione di equilibrio, sia interno che con l’ambiente, che con gli altri gruppi. Non è possibile determinare se la cultura in questione sia effettivamente operando efficientemente nel proprio ambiente con osservazioni sincroniche, solo con uno studio a lungo termine sarebbe possibile affermare, per esempio, che i gruppi Maring sono ecologicamente adattati al loro ambiente, e che le loro pratiche non li portino verso l’estinzione, come abbiamo visto per i Fore e i Marind Anim. Inoltre le trasformazioni nel mondo di tutte queste popolazioni, anche le più remote, che sono avvenute nel corso degli ultimi cinquant’anni, rendono questo genere di studio in cui una cultura è considerata un microcosmo isolato ed autosufficiente, già difficile da sostenere in tempi precoloniali, obsoleto. Maring e Trobriand : Un’analisi comparativa nei termini dell’antropologia economica Negli anni 1970 fino alla fine dei 1980 vari antropologi (Terray, Meillasseux, Sahlins, Godelier) si sono cimentati nell’ applicazione di termini analitici derivati dall’analisi economica marxista ai sistemi economici e politici delle società tribali. Questa analisi comparativa nei termini neo-marxisti ci permette di capire fino a che punto questi termini analitici, sviluppati per lo studio di società feudali e capitaliste, possono servire a spiegare il sistema delle società tribali. Anche I Maring sono organizzati in gruppi di discendenza che funzionano corporativamente nel gestire i diritti alla terra. Nel caso dei Maring però la discendenza è calcolata in linea maschile. Inoltre nel caso dei Maring l’organizzazione del lavoro agricolo non è su base comunitaria, ogni famiglia disbosca, pulisce, prepara, pianta e poi raccoglie i frutti dei propri appezzamenti indipendentemente dagli altri membri del villaggio o del clan. Il prodotto principale per i Maring non è l’igname ma la patata dolce. A differenza degli ignami le patate dolci non possono essere conservate a lungo, e devono essere raccolte e ripiantate continuamente per assicurare una continuità nell’approvvigionamento. Eppure anche i Maring ne producono molte di più di quante ne possano consumare, il surplus in questo caso non è immagazzinato o regalato, ma usato per nutrire i maiali. Quindi per i Maring il lavoro ed il prodotto in eccesso alle loro necessità di mera sopravvivenza sono usati per allevare maiali che sono necessari per gli scambi e le feste, mentre alle Trobriand il surplus di lavoro è utilizzato direttamente per produrre ignami da esibire e regalare. In entrambi i casi la divisione del lavoro agricolo è relativamente semplice, basata sulle differenze di età e di genere, in cui gli uomini assolvono ai compiti più faticosi che però sono sporadici, mentre le donne seguono l’aspetto più continuativo e che prende più tempo della cura degli appezzamenti. Una differenza tra la divisione del lavoro tra i Maring ed i Trobriand è legato all’ambiente, che essendo più uniforme nelle Highlands permette una minore specializzazione : tutte le comunità producono sia patate dolci che maiali, ed ognuno ha abilità simili. Alle Trobriand i diversi villaggi si sono specializzati nella produzione di artefatti diversi, soprattutto di quelli che non sono di utilizzo quotidiano, oltre alla specializzazione di villaggi di pescatori o agricoli. In questo caso dunque, oltre allo scambio cerimoniale dei prodotti fiorisce anche il commercio. In entrambi i casi la distribuzione dei prodotti del lavoro è organizzata in base ai sistemi di parentela e matrimoniali. In assenza di istituzioni statali che regolino la produzione e la distribuzione del surplus, questi processi politici avvengono sia tra i Maring che tra i Trobriand, come in altre società tribali, nel contesto di strutture e di idiomi della parentela e della comunità. Per quanto riguarda i mezzi di produzione, sia per le Trobriand che per le Highlands, la terra, gli attrezzi, i materiali da piantare, la conoscenza tecnica e magica, sono tutti di proprietà collettiva. La terra è di proprietà dei gruppi di discendenza. Sia gli attrezzi che il materiale da piantare, mentre sono nominalmente appartenenti ad individui, sono in realtà controllati dalla famiglia che, per tutti i gruppi tribali, costituisce l’unità di produzione principale. La conoscenza magica specialistica è controllata da un individuo, il mago, ma la sua non è una proprietà individuale; egli è considerato il custode della conoscenza del gruppo ed è responsabile sia del suo uso che della sua trasmissione 53 alle generazioni successive. Inoltre i riti magici minori sono conosciuti ed utilizzati a livello individuale da molte altre persone nella comunità. Quindi i mezzi di produzione sono generalmente accessibili a tutte le famiglie. In termini neo-marxisti, questo tipo di organizzazione è stato descritto con diversi termini, dal modo di produzione comunista primitivo (Hirst e Hindess 1975) a modo di produzione di lignaggio (Terray 1972), a modo di produzione domestico (Sahlins 1972, Meillasseux 1975) a modo di produzione tribale e communalistico (Keesing 1981), ma a parte la costruzione di una tipologia dei modi di produzione, progetto dal sospetto carattere evoluzionistico, il valore analitico di queste etichette è relativo. Se per alcuni scopi comparativi può essere utile considerare centinaia di sistemi tribali tra cui quelli dei Trobriand, dei Maring e degli Iban come appartenenti alla stessa categoria, per contrastarli agli Atzechi, i Maya o gli Inca, o alle culture contadine del Messico e della Tailandia, più spesso le domande poste dall’antropologia economica trovano risposte considerando le differenze tra i sistemi, per esempio, dei Trobriand e dei Maring, nella comprensione dei meccanismo interni di ogni sistema. Però una domanda importante che è emersa dal dibattito teorico neo-marxista si rivolge al tema dello sfruttamento nelle società tribali. In assenza di una struttura di classe, si può parlare di sfruttamento? Questa questione è stata affrontata in termini di genere e di anzianità: gli uomini maring, che usano i maiali per ottenere potere e prestigio attraverso gli scambi cerimoniali, sfruttano il lavoro delle donne che coltivano le patate dolci necessarie per allevare i maiali? I capi Trobriand, che controllano l’economia del prestigio, ed esercitano il loro potere controllando la ridistribuzione, sfruttano i loro seguaci, produttori degli ignami in eccedenza? Per rispondere a queste domande non si può considerare il mondo economico separatamente dalle istituzioni della parentela, che organizzano i processi della produzione e della ridistribuzione, né dai sistemi di credenze religiose e magiche, che attribuiscono legittimità al modo di produzione di una società e allo stesso tempo, per i membri di quella società, forniscono elementi cruciali per il successo del lavoro degli umani. I sistemi economici, sociali, politici e religiosi formano un intreccio indissolubile nelle culture tribali. Godelier (1978) ha notato che in queste società dove le istituzioni della parentela, della politica e della religione non sono separabili analiticamente, l’unica distinzione che si può fare è quella basata sulle funzioni. Se le relazioni di parentela o i rituali religiosi servono ad organizzare la produzione o la distribuzione di beni, allora si può dire che sono elementi del sistema economico della società in questione. Secondo Godelier la parentela in una società tribale assolve a funzioni oltre a quella della mera riproduzione fisica della forza lavoro, come fa anche nelle società feudali e capitaliste, la parentela è anche il sistema che organizza la produzione e la ridistribuzione dei beni. La domanda, allora diventa: perché la parentela ha questo ruolo dominante nell’economia tribale? Per Godelier è necessario spiegare “come ‘è che la parentela (o la religione) vengono ad assumere la funzione di relazione di produzione” (1978:766), e di dominare sopra le altre strutture. Nelle società tribali, rispetto a quelle capitalista, c’è poca accumulazione dei prodotti del lavoro di generazioni precedenti, ci sono poche cose oltre a quelle che ogni famiglia è in grado di produrre per sé. La cosa più importante in queste società, dunque, è la forza lavoro stessa, e da questo fatto deriva l’importanza economica delle istituzioni legate alla parentela, alle alleanze matrimoniali ed alla discendenza, tutte istituzioni che sono centrali nella riproduzione fisica della forza lavoro. E’ quindi necessario considerare le istituzioni delle società tribali non solo in termini delle loro espressioni simboliche, ma anche in termini di quello che fanno nell’organizzazione delle relazioni tra umani e tra loro e l’ambiente. Il concetto di riproduzione sociale è quello che assicura la continuità di un sistema attraverso le generazioni. Nelle società tribali, in cui non ci sono classi sociali, sono le donne ad assolvere la maggior parte del lavoro quotidiano nei campi, inoltre gli uomini più anziani possono controllare il lavoro di più mogli e degli uomini più giovani, attraverso il controllo degli oggetti di valore necessari per gli scambi legati ai matrimoni. Un’ideologia religiosa che definisce le donne come impure dal punto di vista rituale, e quindi le esclude dall’ambito religioso e politico le limita, come produttrici, al contesto domestico. 54 Tutti questi meccanismi servono a riprodurre il sistema delle relazioni di produzione da una generazione alla prossima. Studiare questi processi nel lungo termine rivela anche come il lavoro in eccesso rispetto alla produzione del cibo necessario per la sopravvivenza serva a sostenere questo sistema, cioè sia utile in termini della riproduzione sociale. L’attenzione per la riproduzione di un sistema sociale comporta andare oltre la mera produzione dei prodotti. Dato che la produzione è un processo sociale implica una certa interdipendenza tra produttori, che si palesa al livello della distribuzione e del consumo. D’altra parte, problematizzare la riproduzione sociale nel lungo termine, considerando la società come un processo nel tempo, ci fornisce i mezzi concettuali per comprendere i cambiamenti progressivi da un sistema ad un altro, in quanto ogni sistema sociale contiene i semi della propria trasformazione. Un altro aspetto da considerare è il limite del cosiddetto sistema di produzione. E’ vero che nella maggior parte delle società tribali il gruppo sociale che esegue il lavoro produttivo quotidiano è la famiglia. Il gruppo familiare è in grado di compiere tutti i compiti necessari alla produzione, con la possibile eccezione della magia. Ma questa indipendenza economica dei gruppi familiari viene immediatamente meno quando si considerano i processi della riproduzione sociale, della distribuzione: le famiglie sono necessariamente collegate tra di loro in un sistema più vasto, un sistema entro il quale si producono le famiglie attraverso l’istituzione del matrimonio, e in cui si viene a creare un flusso di beni. Il problema per l’etnografo allora diventa quello di delimitare il sistema sociale da analizzare. Per comprende l’organizzazione e i limiti spaziali di un sistema economico, è necessario considerare assieme ai processi produttivi, anche quelli della distribuzione. Agricoltura e trasformazione nelle Highlands della Nuova Guinea In tutta la Melanesia le attività legate alla coltivazione o alla gestione di piante e alberi per produrre cibo per gli esseri umani, sono di importanza notevole per i modi di vita di uomini e donne. In molte zone queste attività sono accompagnate da quelle legate alla pesca, alla caccia, alla raccolta di frutti e bacche dalla foresta; soprattutto nella foresta pluviale ad altitudini meno elevate l’agricoltura è meno importante, e c’è maggiore mobilità per seguire la selvaggina. Nelle Highlands la maggior densità di popolazione e la concomitante adozione della patata dolce come alimento base, hanno determinato un’intensificazione dell’agricoltura e, almeno nelle aree più popolate, una minore enfasi della caccia, anche se i miti ne esaltano il ruolo nella storia degli antenati delle popolazioni attuali. La caccia e la raccolta di frutti e piante della foresta, come le felci, conservano un ruolo importanza nell’immaginazione dei Highlanders. Immagini della foresta sono utilizzate nei loro incantesimi e si ritrovano nelle idee sugli spiriti della fertilità, la cui benevolenza è considerata essenziale per la produttività dei loro orti. La foresta e l’appezzamento coltivato, per i Highlanders, esistono in una relazione simbiotica: nella mitologia dei Duna, per esempio si narra di un orto magicamente produttivo ricavato con l’aiuto degli spiriti in una parte segreta della foresta. L’enorme varietà dei sistemi agricoli che si sono sviluppati nelle Highlands rende difficile generalizzare. Questa diversità non si esprime solo in termini di relativa intensità di coltivazioni, ma anche in termini tecnici, come nei metodi usati per dissodare la terra e costruire le recinzioni, e nelle varietà di piante coltivate. Molti antropologi hanno descritto i metodi utilizzati da diversi gruppi delle Highlands per coltivare la terra, in molti si evidenzia almeno parzialmente l’aspetto di adattamento ecologico all’ambiente. Edward Schieffelin (1975) ha descritto il modo in cui i Kaluli lasciano gli alberi tagliati al suolo per piantare i loro orti tra i tronchi caduti, in questo modo impedendo l’erosione del terreno in una zona di terreni scoscesi. George Morren (1986), estendendo la discussione teorica sull’orticoltura e la caccia come modi di adattamento ambientale, ha descritto dettagliatamente le pratiche produttive dei Miyanmin dell’area Ok, una popolazione in movimento. Nel suo libro Morren identifica come elemento cruciale nello sviluppo dell’intensificazione agricola, la relazione tra i maiali e gli esseri umani. I Miyanmin cacciano i maiali selvatici ed allo 55 stesso tempo ne allevano delle piccole mandrie domestiche. Nelle aree con maggiore densità di popolazione, le mandrie di maiali domestici aumentano, mentre diminuisce il numero di maiali selvatici per la caccia. In contrasto nel territorio Duna nella vallata Aluni, i maiali selvatici vivono nelle vaste praterie vicino al fiume Strickland, che non sono coltivabili, e che funzionano come delle riserve di caccia. Nella stagione asciutta gli uomini dei villaggi sulle pendici delle montagne organizzano delle battute di caccia in cui bruciano l’erba secca della prateria per cacciare i maiali. Allo stesso tempo allevano numerose mandrie di maiali domestici nei loro villaggi. Quindi i Duna praticano sia la caccia che l’allevamento che la coltivazione intensiva di patate dolci, necessaria per nutrire i maiali domestici. I maiali, che siano selvatici o domestici, richiedono la costruzione di recinzioni robuste intorno agli appezzamenti coltivati. Il resoconto di Peter Dwyer (1990) sulle attività cerimoniali degli Etoro della zona dello Strickland-Bosavi, parte dalla constatazione che questi dicevano di dover organizzare una festa cerimoniale in cui avrebbero ucciso i loro maiali perché gli animali avevano sfondato la recinzione di un appezzamento coltivato e mangiato tutte le piante, mentre la realtà era che gli stessi Etoro avevano fatto entrare i maiali nel recinto per ingrassarli prima della festa. Una situazione analoga si è verificata a Pangia, nelle Highlands meridionali quando gli organizzatori di una festa dicevano di dover uccidere i maiali a causa della carenza di patate dolci per nutrirli, mentre in realtà le patate dolci erano state utilizzate per ingrassare i maiali, ma allo stesso tempo un raccolto scarso significava che c’era una carenza di cibo per gli uomini e le loro famiglie. Da tutti questi studi emerge che i maiali hanno un ruolo centrale sia nella sussistenza che nella politica dei diversi gruppi delle Highlands, e probabilmente questa è una situazione che dura da molti anni prima dell’intervento coloniale. Molti antropologi hanno concentrato le proprie ricerche su quelle aree delle Highlands in cui la densità della popolazione è maggiore, e più alto è il numero di maiali pro capita. Daryl Feil, sintetizzando i risultati di molti studi, ha sviluppato uno schema sull’evoluzione di diverse forme di organizzazione politica basata sull’intensificazione e sull’importanza dei maiali negli scambi cerimoniali tra gruppi sociali (1987). In parte questo lavoro è basato su quello in cui Watson (1977) sottolineava il ruolo dell’allevamento dei maiali nell’intensificarsi della competizione per la terra, e quindi della rivalità tra gruppi. Secondo Watson questi processi erano relativamente recenti, determinati dall’arrivo delle patate dolci su questi altipiani tre o quattromila anni fa. Le ipotesi di Watson sono state definitivamente smontate dal lavoro condotto da Jack Golson e i suoi collaboratori sul sito archeologico di Kuk, nella valle del Wahgi nelle Western Highlands. Gli scavi che Golson ha cominciato negli anni ’70 e continuano tuttora, dimostrano che nella zona paludosa di Kuk esisteva un’importante attività agricola a partire da 6000, forse anche 9000 anni fa: le date più remote sono ancora soggette a verifiche. Gli scavi di Kuk, comunque hanno evidenziato che per migliaia di anni gli uomini che vivevano su questi altipiani hanno investito molta energia nel lavoro agricolo, per esempio costruendo e poi mantenendo in operazione un sistema di canali di drenaggio per controllare le acque delle paludi. Questa scoperta è molto importante, e il sito di Kuk è considerato uno dei più interessanti e importanti al mondo tra gli archeologi egli studiosi della preistoria (Golson, 1982). Le ricerche condotte a Kuk hanno contribuito ai termini della questione riguardo ai prodotti coltivati prima dell’arrivo della patata dolce, oltre che a quando sia arrivata; alcuni dati suggeriscono che in realtà le patate dolci fossero già coltivate nelle Highlands qualche centinaio di anni prima della data finora citata (400 anni fa). La risposta più plausibile alla questione su cosa si coltivasse prima della patata dolce è il taro Colocasia, oltre che la canna da zucchero, le banane e diverse verdure locali. In altre parti del Pacifico, in zone dove la patata dolce non è predominante, il taro ha un posto d’onore di coltura antica e stimata, la cui coltivazione è spesso accompagnata da riti e formule magiche ancestrali. Lo stesso vale per gli ignami (Dioscorea). E’ interessare notare che nella zona di Hagen, dove si trova Kuk, nel territorio dei Kawelka, la canna da zucchero e le banane sono prodotti che tradizionalmente devono essere offerti da un uomo ai suoi ospiti. Invece le donne tendono ad essere responsabili per il taro, gli ignami, le verdure verdi, e le patate dolci. Questo 56 suggerisce, secondo Strathern e Stewart, che esistesse una precedente divisione di genere riguardo ai prodotti coltivati, e che la patata dolce sia stata aggiunta alla preesistente sfera femminile. Watson (1965) ha suggerito che prima della patata dolce l’alimento base nelle Highlands fosse un altro prodotto, la Pueraria lobata, una radice con un tubero che si sviluppa lentamente ma raggiunge grandi dimensioni. Questa ipotesi è caduta in disfavore con l’affermarsi dell’ipotesi che il taro era probabilmente il prodotto favorito per l’agricoltura in zone paludose. E’ ancora irrisolta la questione riguardo all’età dell’agricoltura in altre zone delle Highlands, come per esempio in altre zone paludose simili a Kuk, come il lago Kopiago, nell’area dei Duna o la valle del Baliem, tra i Dani. Il lavoro di Golson ha posto l’accento non solo sull’uso di fossati per regolare l’acqua delle paludi, ma anche sui metodi di lavorazione della terra. Brookfield e Hart (1971) hanno compilato uno studio comparativo di diversi aspetti tecnici dell’agricoltura praticata in 44 località diverse. Gli autori hanno ordinato queste località da sistemi a bassa intensità a quelli di agricoltura più intensiva. Molte località delle Highlands, come Chimbu, Enga e Dani, sono classificate tra quelle ad agricoltura intensiva. Lo studio fornisce anche un lista di metodi di coltivazione, con 14 variabili, dall’uso del fuoco o della cenere, al dissodamento e compostaggio, al controllo della copertura del terreno durante il periodo in cui è incolto, tramite per esempio, il piantare delle specie particolari di alberi. Inoltre gli autori distinguono tre tecniche di base per preparare il terreno: aratura completa, fossati a griglia, e la creazione di monticelli di terra. Nella tecnica dell’aratura completa il terreno è dissodato con dei bastoni appuntiti e disposto in lettiere con piccoli canali per far scorrere l’acqua, o in monticelli. Questo modello è quello trovato nelle Eastern Highlands. Nelle zone di Pangia e dei Duna si vedono spesso campi in cui sono stati scavati dei fossi di drenaggio e la terra brevemente rivoltata prima di piantare patate dolci. Dopo qualche tempo questi appezzamenti sono arati più a fondo per preparare dei monticelli di terra. Questi raccolgono la terra di superficie dell’area circostante, e sono concimati al centro col composto. Questa è la tecnica dei monticelli nello schema di Brookfield e Hart , ed è molto usata nelle Southern highlands e nella provincia Enga. Classicamente è associata alle zone di altitudine elevata, ma si trova in molte altre località a diverse altitudini. Il terzo metodo, quello dei fossati a griglia, è utilizzato prevalentemente nella Wahgi Valley e in tutto il territorio Chimbu. E’ associato con un drenaggio efficiente della terra e con la creazione di uno strato di terra fertile per le lettiere utilizzando lo strato superficiale della terra rimossa dai fossati. Si ipotizza che questa tecnica si sia diffusa in altre aree dalle zone coltivate delle paludi della valle del Wahgi. Sia la tecnica dei fossati a griglia che quella dei monticelli sono utilizzati oggi per la coltivazione delle patate dolci. Gli appezzamenti di taro tendono ad essere coltivati diversamente, con fossati sufficienti a far drenar l’acqua, ma anche tecniche per far arrivare molta acqua alle piante, questo suggerisce che le tecniche legate alla patata dolce, i fossati a griglia ed i monticelli, siano state acquisite più recentemente. Questa ipotesi è confermata dalla tendenza generale di dividere gli appezzamenti in zone coltivate esclusivamente a patate dolci, ed altre in cui sono coltivati i taro mischiati ad altri tuberi e verdure. Michael Bourke e David Lea (1982), scrivendo della zona degli Enga, distinguono tra appezzamenti misti per alimenti base, appezzamenti misti supplementari, e appezzamenti di taro. Queste categorie riflettono una probabile evoluzione di tipologia di orticoltura nella regione. Gli appezzamenti di alimenti di base misti rappresentano probabilmente lo stile originario dell’agricoltura praticata in condizioni non intensive. Gli appezzamenti supplementari misti sono probabilmente stati sviluppati nelle aree di agricoltura intensiva in luogo degli appezzamenti originari. Gli appezzamenti di monocolture di taro e di patate dolci rappresentano forme rispettivamente antiche e nuove di orticoltura intensiva. Questi studi delle tecniche agricole del presente ci possono suggerire indizi sulle tecniche e sui raccolti del passato, e sottolineano, ancora una volta che le culture delle Highalands sono sempre state, anche in assenza di contatto col mondo occidentale, culture in evoluzione. Questo tipo di studi sulle tecniche agricole possono sembrare poco interessanti, rispetto ad altri argomenti trattati dagli antropologi, ma non dobbiamo dimenticare che per i Melanesiani 57 l’orticoltura non è solo il principale mezzo di sostentamento, ma anche il centro della loro vita sociale, rituale ed economica. Inoltre queste analisi di trasformazioni tecnologiche legate all’orticoltura sono rilevanti per il presente ed il futuro dei Melanesiani. Fin dagli anni 1950 sono stati introdotti in tutte le Highlands prodotti agricoli destinati al mercato, e vaste superfici di terra sono state alienate dai proprietari tradizionali per essere convertite in piantagioni di tè e caffè, o destinate ad allevamenti di bovini. Queste imprese di proporzioni notevoli in origine erano gestite da stranieri, soprattutto australiani. Più recentemente sono state prese in gestione da gruppi di proprietari terrieri indigeni e da agenzie governative. Ma la nuova economia non è limitata a queste piantagioni di vasta scala, con i loro bisogni di capitali, forza lavoro, impianti di essiccazione e imballaggio, e numerosi veicoli a motore. L’agricoltura di mercato si è diffusa in tutti i villaggi accessibili ai veicoli, tramite numerose coltivazioni di dimensioni ridotte. Il caffè è entrato a far parte della vita dei Highlanders nei villaggi. Il denaro che produce è utilizzato in vari modi: negli scambi locali, per i pagamenti per risarcire l’uccisione di una persona, per costruire case moderne, spesi nel consumo di alcol o per acquistare veicoli a motore. La coltivazione del caffè non è senza conseguenze nell’ecologia e nella vita sociale di queste zone. In primo luogo, le persone si abituano a dipendere dall’economia di mercato in genere. Le comunità rurali sono sconvolte dal comportamento degli ubriachi nel periodo del raccolto del caffè. I furti di bacche di caffè portano ulteriori conflitti e disordini. Nel lungo termine le conseguenze sono più importanti: sempre più terra viene convertita alla coltivazione di alberi semi-permanenti, si riduce la terra disponibile per la coltivazione di una varietà di prodotti vegetali nutrienti. Inoltre la flessibilità nell’attribuzione dei diritti a coltivare la terra è ridotta, questo porta a scarsità di terra e dispute, e la gente dipende sempre più dagli alimenti acquistati nei negozi. Questi risultati cominciano a mostrare i propri effetti, per esempio il sito archeologico di Kuk, centro degli studi del gruppo di Jack Golson, ora è diventato il centro di una complicata situazione legale, sociale, culturale e politica, in quanto i proprietari tradizionali della terra Kawelka, hanno chiesto che la terra sia restituita a loro per espandere le piantagioni di caffè. Questa contesa ha portato ad una discussione più generale sulle possibili conseguenze della crescente domanda di terra per le piantagioni di caffè da un lato e l’interesse nazionale e provinciale per aree di interesse culturale e patrimonio nazionale. Negli anni dell’introduzione del caffè Ben Finney fece una ricerca sugli emergenti imprenditori del caffè nell’area di Goroka nelle Eastern Highlands (1973). Le sue conclusioni al tempo erano ottimiste per il futuro della zona. Vedeva i Big-men locali che entravano con entusiasmo nell’economia di mercato come i portatori di un nuovo ordine, e considerava che le culture delle Highlands, con la loro enfasi sulla competizione, fossero in qualche modo pre-adattate alle trasformazioni che sarebbero seguite alla loro entrata nell’economia di mercato. Queste ipotesi di Finney vanno collocate in un dibattito più generale sul concetto della persona in Nuova Guinea: alcuni antropologi evidenziano l’aspetto individuale, altri quello collettivo o relazionale, del concetto di sé che hanno le persone. Per poter comprendere le complessità delle trasformazioni è necessario, in realtà considerare entrambi gli aspetti. Gli imprenditori studiati da Finney incorsero in problemi diversi negli anni successivi alla sua valutazione ottimista: i membri dei loro gruppi si trovarono svantaggiati in confronto ai loro leader, e una serie di problemi generati dalle trasformazioni sociali sfociarono in lotte tra gruppi rivali. Come vedremo più avanti il potere ed il prestigio dei big-man sono fondati sulla loro abilità di persuadere le persone a lavorare per loro, abilità necessaria ad un imprenditore nell’economia di mercato, ma è espressa dalla generosità con cui il leader distribuisce ad altri i prodotti di questo lavoro collettivo da lui organizzato, condizione che non può essere pienamente riprodotta se un’impresa commerciale deve funzionare nel lungo termine. Inoltre, ancora una volta è la questione della proprietà e dei diritti sulla terra e sui suoi prodotti ad emergere come un punto problematico. 58 Medicina e trasformazione nelle Highlands della Papua Nuova Guinea Le malattie e la loro cura avevano un ruolo prominente nelle pratiche e nelle credenze indigene della Nuova Guinea, qualsiasi accadimento negativo al corpo era attribuito, se non agli effetti della stregoneria e della magia nera, alle azioni degli spiriti. I sistemi di cura indigeni per la maggior parte rientrano nella categoria definita dagli antropologi medici come ‘ medicina personalitica’ in cui la malattia è considerata essere il risultato di agenti intenzionali, umani o spiriti. La malattia era ugualmente legata alla politica ed alla moralità, in quanto si credeva che gli attacchi degli agenti ostili fossero dovuti a motivazioni politiche, o ad un desiderio di punire o vendicarsi della vittima. Le formule magiche e le azioni rituali praticate per curare un malato, tra cui il sacrificio di maiali, avevano lo scopo di cambiare il rapporto con gli spiriti che avevano causato la malattia, riportandolo ad uno stato di amicizia e di supporto. Questo tipo di sistema personalistico è radicalmente diverso dai principi della biomedicina occidentale che è stata introdotta nelle Highlands a partire dal 1930, con maggior enfasi negli anni precedenti e subito successivi all’ottenimento dell’indipendenza della Papua New Guinea nel 1975. Nonostante la differenza di principi basici, generale i Highlanders in generale si sono convinti rapidamente dell’ utilità della medicina occidentale, quando si sono resi conto della sua efficacia contro disturbi che li affliggevano, come la framboesia, le ferite, i morsi, le punture di insetti, febbri e dolori di stomaco. Accettarono e richiedevano medicine esattamente come avevano accettato e richiesto gli attrezzi di acciaio che gli occidentali avevano portato con se per barattare e che erano evidentemente vantaggiosi rispetto agli attrezzi indigeni di legno e pietra. Poteva sembrare, quindi, che la medicina occidentale venisse rapidamente a rimpiazzare completamente tutte le pratiche e le credenze indigene nella sfera della malattia e delle cure. Questo non è successo. Come in altre sfere culturali, quelle della politica e dell’economia, l’interesse dei Highlanders per le spiegazioni profonde e per le relazioni di causa ed effetto, intrecciato con la loro visione socio-cosmica del mondo, hanno giocato a sfavore di una semplice sostituzione di un sistema per un altro. Il motivo è che la medicina bio-medica non offre nessuna spiegazione morale per le malattie, se non in termini di igiene sociale, mentre i Highlanders continuano a ricercare le ragioni dei propri malanni nella sfera religiosa, anche questa soggetta a molte trasformazioni. In alcuni casi è Dio ad essere citato come la causa di una malattia, e sono prescritte azioni rituali con lo scopo di restaurare una corretta relazione con lui. In altri casi vengono implicati, più o meno esplicitamente, gli spiriti dei morti o quelli insiti nell’ambiente, e si praticano dei sacrifici per placarli. Si tengono riunioni dei parenti di una persona ammalata per cercare di capire quale infrazione abbia commesso per venire punito tramite la malattia. Questo non vuole dire che la medicina occidentale sia ignorata. Gli individui si sforzano per accedere alle possibilità offerte dalla medicina bio-medica, ma spesso sono scoraggiati da molti fattori, come la distanza ed il costo che comporta una visita al più vicino centro urbano, l’affollamento e la paura di venire contaminati all’interno dello stesso ospedale, e il prezzo delle medicine prescritte, da acquistare in farmacia. Eppure i Highlanders provano a far uso della medicina occidentale, così come recitano preghiere cristiani, fanno sacrifici agli spiriti, e cercano di farsi diagnosticare gli attacchi degli stregoni: una situazione classificata nella letteratura specialistica come pluralismo medico, l’uso cosciente di più di un metodo per cercare di combattere la malattia. Il pluralismo medico è spesso associato a popolazioni in cui situazioni di ineguaglianza di classe precludono ad alcune categorie di persone l’accesso alla bio-medicina. Anche se è vero che considerazioni economiche possono rendere più difficile l’accesso alla medicina occidentale per alcuni Highlanders, la situazione qui è più legata al fatto che la medicina occidentale non soddisfa alcuni bisogni percepiti dagli indigeni in relazione alla malattia. In alcune situazioni, come le le morti che per i Duna erano legati a episodi di stregoneria, né le preghiere cristiane né la medicina bio-medica sono considerati efficaci, ci sono stati tentativi di ritornare ai metodi di divinazione tradizionale, o di sviluppare forme ibride di esperti rituali, che possano includere nel loro bagaglio sia le idee indigene che quelle introdotte dal cristianesimo. 59 Fino a questo momento queste forme di adattamento si sono sviluppate senza che il mondo biomedico in generale ne abbia preso coscienza. E nonostante ci siano tentativi e programmi per lo studio della medicina tradizionale per identificare e studiare le piante medicinali indigene, ci sono stati pochissimi tentativi di integrare l’approccio bio-medico con gli strumenti culturali indigeni di combattere la malattia, in tutti i suoi aspetti. Le preghiere ed i rituali cristiani sono stati incorporati dagli indigeni per soddisfare questo bisogno di risolvere il problema morale del malato, ma rimangono comunque delle aree scoperte. Per esempio riguardo al sacrificio dei maiali o il pagamento per compensare qualcuno vittima delle infrazioni del malato, oppure le pratiche legate alla rimozione del ‘sangue cattivo’, che a Mount Hagen si faceva applicando un pezzetto di canna da zucchero alla pelle e succhiandola attraverso la canna. I risultati di questa situazione pluralistica è dunque un compromesso scomodo, la convivenza di pratiche e idee molto diverse, accomunate solo dal fatto che tutte si occupano di corpi sofferenti. Gilbert Lewis (2000) ha scritto una monografia in cui si vede la pluralità medica applicata al caso specifico di un uomo malato. Lewis descrive i tentativi da parte dei parenti e dei membri del villaggio del malato, di sconfiggere la malattia, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione, incluso un viaggio al centro di assistenza medica, le preghiere e l’organizzazione di rituali di riparazione che coinvolsero l’intero villaggio nella costruzione di un recinto sacro e di una maschera, e in ripetute danze nel tentativo di placare lo spirito ritenuto responsabile per la malattia. Nella monografia vengono evidenziati sia i processi decisionali coinvolti quando si tratta di decidere quale strada terapeutica intraprendere, che quelli che intervengono in caso di fallimento della cura, per darsi una ragione o una spiegazione per la morte di un uomo. Quello che risalta dal libro di Lewis, che è frutto di lavoro sul campo nel Sepik ma che pone interrogativi validi generalmente per tutta la Nuova Guinea, è come l’esperienza individuale e l’interpretazione culturale della malattia, così come il processo curativo, siano tutti integrati nella vita sociale della comunità. Ed è questo elemento che perdura nonostante l’introduzione di sistemi medici alternativi. Non sono certo i Melanesiani ad escludere la possibilità di fare uso di un tipo medicina in favore di un altro, sono le nostre categorie occidentali: magia-scienza-religione a farci supporre che queste metodologie siano mutuamente esclusive. I Highlanders desiderano e richiedono un’assistenza bio-medica migliore, soprattutto nelle stazioni di assistenza medica rurali in zone remote e lontane dai centri urbani, come tra i Duna dell’Aluni Valley. Anche qui, però gli indigeni si chiedono come questa nuova medicina possa gestire gli attacchi degli stregoni, e le cause sottostanti. Inoltre, avendo constatato che il governo non è in grado di portate un’assistenza medica adeguata ai loro villaggi remoti, si sono rivolti a delle fonti alternative, in questo caso ad una compagnia mineraria che opera nelle vicinanze, la Porgera Joint Venture Mining Company, che nel 1999 ha aperto un centro di assistenza medica ad Aluni. Dal punto di vista dei Duna, come di tutti i Melanesiani, la cosa più importante è di trovare un sistema medico che sia efficace per loro, sia fisicamente che socialmente. In questo rispetto rimane ancora molto da fare per portare assistenza medica efficace, soprattutto nelle zone rurali remote. 60 Guerra, scambi cerimoniali, relazioni di genere e forme di leadership nelle Highlands della Nuova Guinea e oltre Tutti questi sono temi hanno esercitato molto interesse tra gli antropologi, in particolare in riferimento alle società delle Highlands. Data la varietà di pratiche e di idee che si incontrano, anche solo nelle Highlands, sarebbe impossibile e poco utile generalizzare. Quello che intendo fare è estrapolare dall’etnografia delle Highlands alcuni dei temi e delle questioni più interessanti e analizzarli in una prospettiva comparativa che comprenda altre culture della Nuova Guinea e della Melanesia. Dato che per molti anni la ricerca antropologica si è concentrata nelle Highlands, molte delle tipologie classiche derivano da etnografie scritte su popolazioni di questa regione. Infatti, come ho già osservato in precedenza, le Highlands per un certo periodo erano considerate come il cuore della Melanesia autentica, e tutte le culture di altre aree della Nuova Guinea e della Melanesia venivano confrontate con queste società prototipiche, come a validarne, per assurdo, la “melanesità”. Così come non si può fissare una società nel tempo, non si può fissare un tratto culturale in un luogo. Sia le etichette che noi diamo a pratiche e credenze, che i confini che disegniamo tra una zona e l’altra, una nazione e l’altra, una regione e l’altra, sono solo strumenti concettuali che ci aiutano a pensare analiticamente e comparativamente, non dobbiamo mai accreditarli con uno status di verità, reificare le nostre categorie analitiche. Prima delle etichette, dei termini antropologici, dei confini, vengono persone in carne ed ossa, le loro idee, e i loro progetti. Una delle poche generalizzazioni che si possono fare, è che questi quattro ambiti: la guerra, gli scambi, le relazioni di genere, e le strutture politiche del potere sono aspetti della vita sociale di un gruppo che sono interrelati tra loro. La guerra, o perlomeno le lotte di diverso genere ed entità tra gruppi, erano sicuramente universali nelle Highlands, ma non solo. Le culture della costa meridionale della Nuova Guinea sono altrettanto rinomate per lo stato di guerra costante in cui vivevano i villaggi prima della pacificazione coloniale, e vedremo come altri popoli della Melanesia, tra cui quelli della Nuova Caledonia e delle Salomone avessero la stessa reputazione, anche se in alcuni casi si può dire che la tendenza a lottare con i propri vicini fosse esacerbata dalle condizioni di rivoluzione sociale portate, insieme alle armi da fuoco, proprio dalla presenza di quei primi europei che poi descrivevano gli indigeni come guerrieri feroci e sanguinari. La guerra è un termine generico, le lotte tra i gruppi possono variare molto sia per la durata che per gli scopi. In tutte le Highlands i conflitti erano legati agli scambi cerimoniali. Abbiamo visto nel caso descritto da Rappaport, per esempio, che molti scambi cerimoniali erano organizzati al termine di una sequenza di conflitti. In altri casi una crescente enfasi sugli scambi cerimoniali porta ad una graduale riduzione e cessazione delle ostilità, d’altra parte dispute occasionate dagli scambi possono sfociare in nuovi conflitti. In tutti questi casi si può vedere come i conflitti armati e gli scambi sono due aspetti contrastanti ma complementari delle relazioni tra gruppi diversi. Le relazioni di genere, a loro volta, sono fortemente influenzate dalle lotte, dalle alleanze e dalle ostilità tra gruppi, perché i matrimoni sono tra uomini e donne appartenenti a gruppi diversi. Laddove i gruppi rivali sono comunque legati da relazioni matrimoniali tra i propri membri, ci sarà maggior tensione nella famiglia, dovuta al fatto che marito e moglie potrebbero avere legami di lealtà per fazioni opposte nella guerra. Questa situazione è ovviamente mitigata quando le alleanze matrimoniali sono parte di una relazione tra gruppi mediata da una serie continuativa di scambi amichevoli. La violenza domestica è correlata a un modello culturale che attribuisce valore ai guerrieri, in una società dove il matrimonio avviene tra gruppi nemici. Anche la poliginia, associata con la forma di leadership competitiva dei big-men, influenza le relazioni di genere. Abbiamo già visto che le società in cui si attribuisce importanza alla discendenza in linea matrilineare, come nelle 61 Trobriand ma anche altre culture della regione del Massim, in New Ireland e New Britain, si attribuisce molto valore ai poteri di riproduzione sociale delle donne. Quello che viene forse un po’ nascosto dall’enfasi sulla discendenza patrilineare nelle Highlands, è che anche in queste culture si attribuisce un valore altrettanto grande ai legami materni ed al ruolo che hanno nelle alleanze tra gruppi, questo è in linea anche con la presenza in queste stesse società, di molte credenze e rituali diretti a spiriti femminili. La questione delle relazioni di genere è dunque molto complicata, ed inoltre le rapide trasformazioni in molte sfere della vita quotidiana, continuano a modificare la situazione. Nell’area del Sepik, in cui si praticavano iniziazioni maschili che esaltavano il valore sociale degli uomini escludendo le donne da questa sfera rituale, i parenti materni degli iniziandi avevano un ruolo importante nelle cerimonie, dovevano accudire, nutrire e generalmente prendersi cura dei ragazzi. Secondo David Lipset, che ha lavorato nella zona dei Murik Lakes della regione del Sepik, esiste alla base di queste culture uno “schema materno” basato sull’idea del “corpo uterino”, questo schema dev’essere considerato in contrapposizione ai modelli di aggressività maschile e di prevalenza degli uomini nell’ambito cerimoniale (Lipset 1997). Ci sono tre questioni che hanno provocato molti dibattiti tra antropologi che si occupano della Nuova Guinea e della Melanesia in generale. La prima questione è se la guerra fosse ugualmente importante in tutta la Nuova Guinea. La seconda questione concerne l’eguaglianza o l’ineguaglianza nelle relazioni di genere La terza questione è il dibattito sulle forme di leadership e la distinzione tra big- men , great-men e capi. Le guerre tribali In diverse culture i conflitti inter-gruppo erano variamente importanti per la riproduzione sociale. Sicuramente tutte quelle società in cui l’iniziazione maschile era obbligatoria, esisteva anche una preoccupazione culturale per la maturazione dei ragazzi, sia in termini sessuali, sia nel matrimonio. Queste preoccupazioni andavano di pari passo con quelle dell’efficacia bellica dei guerrieri. In alcuni casi, come quello degli Asmat dell’Irian Jaya, il collegamento tra questi due aspetti era evidenziato da regole come quella che richiedeva che un giovane dimostrasse la propria capacità di guerriero, prendendo teste nemiche, per essere iniziato, e dalla credenza che la forza della vittima sarebbe passata al giovane (Knauft 1993). Anche tra i Fore delle Eastern Highlands un ragazzo non poteva sposarsi prima di aver dimostrato la propria capacità di guerriero uccidendo un nemico (Berndt 1962). Questo genere di regole era comune in tutte quelle società in cui i guerrieri avevano un ruolo centrale. Apparentemente questo modello non esisteva nelle Western Highlands, nonostante anche qui il coraggio in guerra fosse una caratteristica ammirata ed applaudita. Questa differenza, che è più una questione di grado o di enfasi culturale, che una differenza sostanziale, si può spiegare con il maggiore accento che queste culture pongono sugli scambi cerimoniali e sulle alleanze matrimoniali. Paul Sillitoe, nel suo lavoro sui Wola delle Southern Highlands (1978), che è basata su ricerche molto approfondite e condotte nell’arco di molti anni, ha suggerito un altro collegamento tra guerra e scambi cerimoniali. Sillitoe suggerisce che mentre i big-men apparentemente devono la propria influenza alla prodezza dimostrata negli scambi cerimoniali, in realtà stimolavano anche lotte e conflitti tra gruppi per aumentare la propria influenza e posizione, sia per il ruolo che poi avevano nell’accumulare i beni per i pagamenti per risarcire le morti dovute alle ostilità, che come mezzo per eliminare i rivali. Questa ipotesi vale anche per altre zone, come quella attorno a Hagen, dove i big-men sono spesso accusati di causare la morte di importanti rivali tramite la stregoneria e, in concomitanza, quando muore un big-man si sospetta che sia stato vittima di un attacco di stregoneria. O’ Hanlon (1989) nota che tra i Komblo della Wahgi Valley è diffuso il timore di essere traditi dai membri del proprio gruppo per favorire un attacco di stregoneria da parte di un nemico. Il termine usato dai Komblo per questo tradimento è kum, lo stesso termine che a Hagen significa stregoneria. 62 Inoltre a Hagen si crede che ogni volta che viene danzata una particolare danza durante un festival, questa performance avrebbe coinciso con la notizia della morte di un rivale. I parenti del nemico, sentendo la musica di questa danza, traevano le proprie conclusioni. La cosa interessante è che questa particolare danza era anche un’occasione di corteggiamento, in cui i giovani potevano cercare ed interagire con potenziali partner matrimoniali. In un certo senso il gruppo celebrava la perdita del nemico proprio mentre esprimeva la propria forza ed esuberanza danzando insieme, e promuoveva la propria riproduzione sociale favorendo future alleanze matrimoniali con gruppi alleati. Secondo Lemmonier (1990) in molte società sono proprio i leader dei gruppi a mediare le dispute, organizzando il pagamento di beni di valore. Questa osservazione non esclude necessariamente la possibilità che gli stessi leader siano responsabili della promozione di conflitti. Dall’indipendenza della Papua Nuova Guinea nel 1975 c’è stato un ritorno ai conflitti tra gruppi nella zona delle Highlands, in effetti i conflitti armati tra gruppi rivali costituisce un problema crescente di ordine pubblico. Le vaste reti di alleanze basate sugli scambi che si erano sviluppati negli anni precedenti al contatto coloniale intorno al 1930, e che in seguito alla “pacificazione” avevano inizialmente goduto di una notevole espansione, si sono sgretolati negli anni successivi per il sopravvenire di diverse forze nuove: nuove forme di politica, il disinteresse dei giovani, l’influenza delle chiese, e l’aumento di conflitti per la terra, causate dall’insoddisfazione per le politiche coloniali di congelamento delle proprietà , che impediscono ai meccanismi indigeni di adeguarsi con flessibilità alle trasformazioni nella composizione dei gruppi (Meggitt 1977). Inoltre sono sempre continuate, e sono in aumento, le uccisioni che coinvolgono gruppi di territori anche lontani, perché sono legate all’uso delle automobili e agli incidenti. Emergono quindi grossi problemi legati all’usanza tradizionale di pagamenti per indennizzare un gruppo per la morte di un suo membro causata dal membro di un gruppo diverso. Questi problemi coinvolgono una nuova leva di leader, spesso gli uomini che ricoprono cariche politiche od amministrative a livello provinciale o nazionale. Nel nuovo contesto politico ed economico, questi pagamenti di indennizzo ormai comportano il pagamento, tra le altre cose di molte migliaia di Kina (la moneta della Papua Nuova Guinea), che sono ricavate soprattutto dalle vendite del caffè. L’intero complesso di scambi tra gruppi predominante nel contesto post-coloniale, dunque, dipende dalla produzione agricola, così come gli scambi tradizionali dipendevano dalla produzione di un eccedenza di patate dolci che permettevano di allevare i maiali. I pagamenti per indennizzare la morte coinvolgono anche i processi della politica contemporanea. Più generalmente, l’allargamento della scala delle relazioni sociali avvenuta in meno di un secolo, oltre al coinvolgimento di queste relazioni nei processi dello sviluppo agricolo ed industriale, ha portato a molti problemi in molti campi. Uno di questi problemi, che ha attirato l’attenzione anche degli studiosi di scienze politiche (Dinnen 2001), è legato alle elezioni in Papua Nuova Guinea, ed alla violenza che spesso accompagna le campagne elettorali. Nell’area di Hagen si intrecciano nuove forme di relazioni di scambio nelle nuove campagne elettorali. I voti stessi sono considerati come un bene da “comperare”. Ma l’idioma in cui si esprime questa idea moderna è quello tradizionale di sollecitare un dono moka. Si dona denaro per ottenere un ritorno in voti, e questi a loro volta entrano a far parte di ulteriori e successivi scambi di beni. Relazioni di genere L’importanza fondamentale della produzione agricola nelle aree di orticoltura ad alta intensità delle Highlands è generalmente correlata ad una divisione del lavoro lungo linee di genere, in cui il contributo femminile, e il particolare ruolo essenziale delle donne nell’allevamento dei maiali sono largamente riconosciuti. Le donne fanno quasi, se non proprio tutto, il lavoro necessario per l’allevamento dei maiali, soprattutto sono loro a raccogliere le patate dolci che servono per nutrirli. Tutte le culture delle Highlands riconoscono questo contributo, e a Hagen, per esempio, era esplicitamente segnalato dalle ricche decorazioni che le donne, come gli uomini, portavano nelle occasioni cerimoniali. 63 Secondo Maurice Godelier (1982, 1986) questo riconoscimento del lavoro complementare, e tutto ciò che questo comporta dal punto di vista delle relazioni di genere nella vita sia quotidiana che politica, non si manifesta nelle aree ai margini orientali delle Highlands. Godelier descrive una situazione in cui gli uomini dominano interamente la vita sociale, le donne sono escluse dalla partecipazione nei “culti maschili” di iniziazione, e non hanno nemmeno il diritto di possedere asce od altri attrezzi agricoli. Godelier presenta un’ immagine delle relazioni di genere tra i Baruya piuttosto estrema. Gli uomini hanno un ruolo dominante in tutte le sfere, dimostrato in tutti i dettagli della loro vita, fino alla distribuzione dei tagli di maiale alle feste: le donne ricevono l’intestino e la lingua, considerate parti di scarto, mentre agli uomini è riservato il fegato, “la sede della forza dell’animale” ( 1986:16-17). Questa interpretazione sembra sorvolare su molti dettagli etnografici che lo stesso antropologo ha incluso nella sua etnografia sui Baruya, e su dichiarazione di uomini e donne Baruya che sembrano mitigare, se non contraddire la versione di Godelier, offrendo una visione più bilanciata delle relazioni di genere. Per esempio, se è vero che una donna non possiede gli attrezzi del suo lavoro, è altrettanto vero che un uomo li deve fornire a sua moglie e, una volta che glie li ha procurati, non può chiederle di restituirli. Le donne hanno il diritto di decidere a chi dev’essere destinata la carne di maiale, e generalmente i mariti tendono a rispettare queste decisioni per non provocare delle liti anche violente. Le mogli si aspettano che i propri mariti dividano con loro il denaro che hanno guadagnato lavorando per soldi. Mariti e mogli decidono insieme a chi destinare delle strisce di terra che hanno destinato alla condivisione, e sono le donne ad avere possesso e controllo della magia usata nell’allevamento dei maiali, nella coltivazione di patate dolci e taro, e nella nascita dei bambini. Da questi dati si potrebbe concludere che sono le donne Baruya ad avere il controllo di certe sfere di attività sociali che sono importanti per la riproduzione della società. Questa conclusione non collima con l’immagine proposta da Godelier di dominazione maschile assoluta. Sempre dalla descrizione che Godelier fa delle usanze Baruya traspare che in occasione dell’iniziazione delle ragazze, le donne anziane danno loro dei consigli su come comportarsi con il marito. Per esempio gli dicono di accettare il desiderio del marito di avere una relazione sessuale senza gridare o gli altri sentiranno e il marito, per la vergogna, si impiccherà. Alle ragazze è anche insegnato che non dovranno ridere se la copertura genitale del marito fosse storta, per non farlo vergognare (Godelier 1986: 43). Secondo Strathern e Steward (2002:61) questi due consigli indicano che i rapporti tra marito e moglie nei Baruya siano controllati più da un senso di vergogna che di forza. Anche se la minaccia di venire uccise dal proprio marito è citata, questa vale solo nei casi di trasgressione più grave, l’adulterio. Per convincere le ragazze a comportarsi nella maniera considerata accettabile verso i mariti si fa appello alla loro sensibilità culturale e individuale, e ai sentimenti per il marito, più che alla minaccia della forza fisica. E’ molto complicato valutare tutte le componenti per giudicare il grado di gerarchia e dominazione nelle relazioni di genere. Se in certi contesti la gerarchia può sembrare l’aspetto dominante delle relazioni tra uomo e donna, in altri è la solidarietà e la collaborazione ad assumere importanza. Le donne possono essere escluse da certi ambiti di attività in cui gli uomini si contendono posizioni di prestigio o “si fanno uomini”, ma non è detto che questo neghi alle donne il loro ruolo fondamentale nella riproduzione sociale del gruppo. Come nel caso dei Marind Amin è spesso proprio perché gli uomini sanno di non poter fare a meno delle donne, che devono creare dei contesti rituali da cui escluderle, per affermare la propria indipendenza. In un certo senso questa paura di ammettere la propria dipendenza dal contributo femminile è maggiore in quelle società dove la guerra tra gruppi è endemica e in cui gli uomini sposano donne provenienti da gruppi nemici. Anche nelle società della costa meridionale della Nuova Guinea, associate nella letteratura antropologica a tradizioni di guerra e caccia alle teste, è difficile determinare il grado di dominazione maschile nelle relazioni di genere (Knauft 1993). Spesso è il caso che a regole ideologiche, enunciate a gran voce, e usate per spiegare alcuni comportamenti non corrispondano le idee che diversi membri della stessa società hanno sul funzionamento, o sulle loro pratiche quotidiane. Questo è quasi sempre il caso nei riti segreti, da cui sono escluse le donne per nascondere il fatto che sono gli stessi uomini a creare e 64 rappresentare gli spaventosi spiriti ancestrali che sono invitati nel villaggio per trasformare i ragazzi in uomini: seppure alle donne sia negata la partecipazione alla preparazione o anche ai riti stessi, e seppure neghino di sapere qualcosa sui riti degli uomini, questo è spesso un “segreto di Pulcinella”. Il problema con la tesi di Godelier, secondo Stewart e Strathern è che è basata su una teoria della gerarchia, costruita usando solo alcuni dei dati che l’antropologo francese ha raccolto sui Baruya, e ignorandone altri. La stessa critica è rivolta al lavoro di Raymond Kelly (1993) sugli Etoro dell’area StricklandBosavi. Kelly discute la questione teorica di come valutare la relativa eguaglianza nelle società semplici, e suggerisce, nel caso degli Etoro e altre culture simili, che “il sistema di valutazione morale derivato dalla cosmologia è centrale” (1993:512). Secondo lui tra gli Etoro i prodotti maschili posseggono un valore superiore in termini di prestigio e inoltre alcuni dei prodotti maschili hanno un valore spirituale che manca ai prodotti femminili. La gerarchia sociale creata in questa società è quindi un “manufatto ideologico”, infatti la sua monografia è intitolata “la fabbricazione di una gerarchia di virtù”. Nello schema teorico di Kelly, quindi la mitologia ha un ruolo centrale nel determinare le relazioni di genere, quindi l’analisi della mitologia legata ad una cultura dovrebbe fornire uno strumento “diagnostico” per determinare l’esistenza o meno di una gerarchizzazione dei rapporti tra uomini e donne. Eppure anche se lo stesso Kelly nota che uomini e donne danno interpretazioni diverse ad un mito che tratta di riproduzione e di differenze di genere, afferma che “sia gli uomini che le donne vivono in un mondo concettuale determinato dalla cosmologia maschio-centrica” (p. 191-2). Quindi è Kelly che nella sua analisi privilegia l’ideologia maschile, attribuendogli una valenza maggiore delle voci dissonanti femminili, mentre nel costruire un modello di una società, e nel considerare i ruoli di uomini e donne nell’ordine sociale, è importante prendere in considerazione tutti gli ambiti della vita delle persone e ascoltare sia gli uomini che le donne. Per le popolazioni più numerose delle Highlands vere e proprie, la proposizione di dominanza maschile non è sicuramente sostenibile, secondo Strathern e Stewart. Anche se gli uomini in queste società asseriscono di avere una posizione preminente nelle attività inerenti alla politica e agli scambi rituali, i miti ed i rituali delle stesse società rivelano una considerevole importanza attribuita agli spiriti femminili ed ai poteri di fertilità e prosperità che possono conferire ugualmente agli uomini e alle donne. Il ruolo delle donne come allevatrici di maiali, orticoltrici, e come legami politici tra gruppi, attribuisce loro un ruolo complementare e bilanciato con quello degli uomini, questa complementarità è rivelata nelle attività quotidiane di uomini e donne, e sono inoltre riconosciute nei miti e nei rituali praticati dai Highlanders. Molti dei contributi al dibattito sulla relativa uguaglianza delle società delle Highlands hanno origine in un dibattito teorico sull’applicabilità delle teorie marxiste allo sfruttamento nelle società cosiddette primitive e alle ineguaglianze di genere. I primi scritti di Godelier erano appunto una critica in vena neo-marxista della teoria per cui le “società tribali” godessero di relazioni egualitarie. Paul Sillitoe (1985) ha costruito la sua analisi dei Wola in opposizione a questo modo di vedere. Mentre ammette che ci sia una preminenza maschile nell’ambito degli scambi cerimoniali e delle decorazioni usate nelle danze, Sillitoe vuole dimostrare che le società delle Highlands sono essenzialmente organizzate in una maniera che impedisce l’instaurazione permanente di ineguaglianze sociali, anche nel campo delle relazioni di genere. Con questo non dice che ci sia uno stato di vera uguaglianza, ma che non si formano relazioni di ineguaglianza di lunga durata, ovvero che le relazioni sono costantemente variate, contestate e rinegoziate. Margaret Jolly, che non ha lavorato in Nuova Guinea ma nell’isola di South Pentecost aVanuatu, descrive una situazione in cui esiste una gerarchia di valori, come quelle descritte da Godelier e Kelly. Secondo lei però il lavoro femminile non è cancellato ma è compreso, cioè reso inferiore rispetto al valore superiore del lavoro maschile (Jolly 1994:85) Secondo lei è il valore relativo attribuito al lavoro maschile e femminile ad essere la fonte dell’ineguaglianza e quindi anche dell’egemonia maschile. Anche in questo caso è necessario prendere in considerazione il quadro 65 sociale nella sua complessità, incluse le sfere rituali e religiose, per determinare la posizione e il valore degli uomini e delle donne in queste società. La difficoltà nella valutazione definitiva della gerarchia è determinata dal fatto che dipendono dall’idea che in ogni società esista un’ideologia complessiva, globale, incapsulata nelle pratiche quotidiane delle persone: il habitus definito da Pierre Bourdieu (1977) come un’orienatmento prevalentemente inconscio al mondo. La percezione e valutazione del habitus di una società, però, è un’operazione soggettiva, dipende dall’antropologo e sugli aspetti della vita sociale che vengono presi in considerazione. Per esempio la rivalutazione della società delle Trobriand da parte di Annette Weiner, ha portato ad un’immagine molto più bilanciata delle relazioni di genere di quella presentata da Malinowski, un’immagine che è ben riassunta dal titolo della sua monografia “Women of Value, Men of Renown” (1976). Dal punto di vista simbolico, molte società melanesiane sono caratterizzate dalla divisione sociale tra uomini e donne, sostenuta da credenze che attribuiscono al corpo femminile e alle sostanze associate ad esso, delle proprietà contaminanti. Entrare in contatto con queste sostanze è fondamentalmente pericoloso per gli uomini che ne risultano indeboliti sia fisicamente che spiritualmente. Queste credenze sono accompagnate da una serie di tabù, di pratiche quotidiane e rituali, e di accorgimenti come la separazione fisica dello spazio del villaggio in aree” sacre” riservate agli uomini, da cui sono escluse le donne, altre riservate a donne e bambini, con altre aree ancora in cui le donne si isolano durante i giorni del ciclo mestruale o per partorire. Tutti questi fattori sono stati interpretati come sintomi di una polarizzazione tra uomini e donne corrispondente a una separazione del mondo sociale in sfere di vita sacra, associata agli uomini, e contaminata associata alle donne, due sfere che vanno tenute rigorosamente separate. Questa visione del mondo è fortemente associata a relazioni di genere diseguali. Alcuni antropologi (Keesing 1989) sono in disaccordo con questa interpretazione della cosmologia e di rituali di separazione di genere, che dicono essere influenzati dallo sguardo maschile dell’antropologo, e dai preconcetti occidentali sulla natura contaminante delle donne. In molti casi, le donne melanesiane non percepiscono il proprio corpo come impuro; il pericolo che obbiettivamente rappresentano per gli uomini, secondo queste donne, non deriva dal fatto che sono impure o inferiori, ma custodi di poteri alternativi e complementari a quelli maschili, e quindi fonte di pericolo per gli uomini. Trasformazioni nello status delle donne Enga, Western Highlands Ad ogni modo la divisione così radicale tra i generi è da subito dispiaciuta agli agenti di trasformazione coloniale e governativa. Primi tra tutti i missionari, che non approvavano l’organizzazione della vita familiare e la poligamia che spesso accompagnava questa separazione tra i generi, e la associavano al sistema religioso tradizionale, considerandola una “superstizione pagana”. Mervyn Meggitt descrive la situazione delle donne Enga negli anni ’80, descrivendo le conseguenze di cinquant’anni di politiche coloniali e governative, degli insegnamenti dei missionari, oltre che le trasformazioni dell’economia locale, sulle relazioni tra uomini e donne. Tutti questi fattori hanno portato ad una trasformazione delle relazioni di genere ma, secondo Meggitt, la situazione femminile è peggiorata. Tradizionalmente gli Enga erano divisi in numerosi clan localizzati e patrilineari che erano legati tra loro dagli scambi matrimoniali, dagli scambi cerimoniali di maiali ed altri oggetti di valore, ma erano spesso in guerra per la terra. Le sfere della vita politica e cerimoniale erano controllate da leader non ereditari, maschi. Il lavoro e le abilità femminili erano essenziali sia per il sostentamento della famiglia ma anche per la produzione dei maiali necessari alle attività cerimoniali controllate dagli uomini. Nonostante questo ruolo fosse riconosciuto alle donne, e permettesse loro un certo grado di influenza e autorità nell’economia domestica, avevano diritti e privilegi limitati in altre sfere. Per tutta la loro vita le donne erano sotto tutela maschile, del padre, del fratello, del marito, o del figlio adulto. Una donna non aveva il diritto di decidere chi sposare o di partecipare alle decisioni su 66 come disporre della terra o dei maiali, e poteva essere punita severamente. Il divorzio era raro, e quasi mai richiesto da una moglie maltrattata. Gli uomini e le donne vivevano in case separate. Ogni moglie (il 20% degli uomini era poligamo) condivideva la propria casa con i figli piccoli e le figlie nubili, mentre gli uomini imparentati, sposati e non, vivevano insieme in clubhouses, in cui le donne non potevano mettere piede perché gli uomini le consideravano impure e pericolose. Era nella casa degli uomini che i membri del clan decidevano delle questioni politiche religiose ed economiche. Questa situazione ‘tradizionale’ si è perpetrata durante il periodo coloniale (iniziata nel 1946) anche perché i processi del colonialismo e il lavoro dei missionari erano notevolmente selettivi, e miravano a cambiare la situazione dei giovani più che dei vecchi, e degli uomini più che delle donne, riflettendo i pregiudizi sessuali delle autorità australiane e delle missioni. Questa preferenza ha avuto effetti sulla vita economica degli Enga. Mentre i giovani uomini venivano estratti dalla vita di clan ed educati (o acculturati) a sufficienza da invogliarli ad entrare nella forza lavoro nelle piantagioni in altre zone del paese, le donne continuavano a lavorare negli orti per sostenere famiglia e comunità, col tacito accordo dei missionari e degli amministratori. Le scuole che erano prevalentemente organizzate dai missionari non incoraggiavano la presenza delle bambine. Molti enti legati alle chiese, alla croce rossa e all’amministrazione, proclamavano di essere dedicati all’avanzamento delle donne. In quegli anni furono fondati, di solito dalle mogli degli amministratori coloniali, svariati club femminili, ma questi funzionavano ad intermittenza e spesso si estinguevano quando la fondatrice veniva trasferita altrove. Sono state altre le cause di un marginale cambiamento nella posizione delle donne Enga. Negli anni ’60 si cominciò a coltivare il caffè per il mercato, oltre ad alcuni ortaggi acquistati dai lavoratori del governo. Alcuni mariti permettevano alle mogli di vendere parte del caffè e i prodotti dell’orto e di tenere i profitti per spese domestiche o per i bambini. Inoltre la visita settimanale al mercato offriva alle donne l’opportunità di socializzare tra loro in un contesto esterno al clan. Questi modesti miglioramenti dello status sociale ed economico era accompagnato anche da una libertà marginalmente superiore a prima, potevano rivolgersi alle autorità per resistere l’imposizione di un matrimonio sgradito, e donne maltrattate potevano rifugiarsi temporaneamente alla missione. Anche alcune vedove si stabilivano permanentemente alla missione per non doversi risposare, mentre altre donne locali sposavano lavoratori del governo da altre province. Alcune di queste rimanevano nell’insediamento degli amministratori quando il marito veniva trasferito e tra loro qualcuna si prostituiva pur di non tornare alla vita del clan. Nel frattempo, i missionari e le scuole combattevano una guerra ideologica contro il culto della purezza personale degli uomini, e contro l’idea che le donne erano portatrici di corruzione. Queste modifiche dell’atteggiamento verso il sesso femminile non ebbero esiti positivi per le donne, però, soprattutto perché non erano accompagnate da una critica esplicita della superiorità maschile. Insieme all’introduzione della birra, alla maggiore mobilità, e all’accesso al denaro, queste trasformazioni contribuirono ad un aumento della violenza domestica, del divorzio, delle unioni extra-coniugali e delle nascite di bambini illegittimi. Tutti elementi che contribuirono a peggiorare la situazione femminile nella regione. Le donne Enga ora sono violentate più spesso di prima, perché gli uomini giovani non hanno più paura del corpo femminile e del sangue mestruale, ma continuano ad essere certi della propria superiorità e del proprio controllo sulle donne. Dal 1976 il governo della Papua New Guinea ha fatto propri i valori occidentali delle pari opportunità nell’educazione e nell’occupazione, e condannato le forme di discriminazione contro le donne. Eppure nei fatti le donne Enga continuano ad essere subordinate e deprivate, sono una minoranza sia nel sistema scolastico che nel mondo del lavoro retribuito. Al contrario non sono pochi gli uomini Enga che hanno raggiunto posizioni di rilievo nel nuovo apparato statale indipendente, e nonostante la nominale attenzione alle questioni di genere, non implementano o non incoraggiano misure per il miglioramento delle condizioni femminili. L’ideologia della supremazia maschile continua ad esercitare una forza egemonica per limitare l’autonomia, l’educazione, e il ricorso alla legge da parte delle donne. 67 Secondo Margaret Jolly e Martha Macintyre (1989: 14-15) questa analisi di Meggitt solleva delle importanti questioni filosofiche e politiche sulla tensione tra gli “universali” e i particolari culturali, che, se sono al cuore della ricerca antropologica in generale, sono particolarmente acuti nello studio comparativo delle relazioni di genere. I giudizi sul relativo vantaggio o svantaggio per le donne si dibattono tra affermazioni basate su un semplice relativismo culturale, e altre su una decostruzione più sofisticata, che spesso rivela che i concetti analitici che utilizziamo per confrontare e giudicare le situazioni incontrate sul campo – come natura e cultura, o domestico e pubblico, autonomia, uguaglianza - sono “abitudini di pensiero” sviluppatesi in un preciso momento storico europeo, non universali della mente umana. In generale nel Pacifico i missionari, i legislatori e gli educatori occidentali hanno cercato di cambiare le vite delle donne in modi che credavano avrebbero permesso ad una nuova generazione di donne di diventare cittadini di uno stato moderno. Questi scopi furono portati avanti e ora sono incorporati nella costituzione della Papua Nuova Guinea indipendente, ma l’ideale liberale di status uguale davanti alla legge non solo era alieno, ma culturalmente precluso nel caso degli Enga. Le politiche del governo post-coloniale, impostate in termini derivati dall’ideologia occidentale, rendono appropriati questi termini di analisi nel confronto della situazione contemporanea delle donne. La conclusione di Meggitt è che le relazioni tra uomini e donne sono state trasformate dalla storia degli ultimi settant’anni, ma che le donne non ci hanno guadagnato. Scambi cerimoniali di maiali Una caratteristica centrale delle società delle Highlands sono gli scambi cerimoniali dei maiali, grandi occasioni festive in cui vengono costruite e sostenute alleanze, ma soprattutto il prestigio ed il potere politico degli uomini che riescono ad avere la meglio nella competizione per dare di più dell’altro. Tra gli scambi cerimoniali più citati c’è il moka, dei Melpa intorno a Mount Hagen ( A. Strathern 1971), ma variazioni sullo stesso tema di scambi cerimoniali si trovano anche tra Mendi, mok ink, e gli Enga, tee. Il termine tok pisin mekim moka è entrato nell’uso corrente per parlare di qualsiasi forma di scambio competitivo in cui si regalano e ricevono maiali vivi. Dal punto di vista teorico si può considerare il moka come un elemento centrale sia nella questione delle relazioni di genere, in quanto è stato interpretato come il meccanismo dell’appropriazione maschile del lavoro femminile; che nella questione delle guerre tra clan, in quanto una relazione di scambio moka può scaturire da un iniziale pagamento di risarcimento per la morte di un nemico o un alleato in guerra. Ma nell’etnografia melanesiana questi scambi cerimoniali e competitivi di maiali sono considerati soprattutto importanti per il ruolo centrale che hanno nella costituzione e nella crescita del prestigio di individui ambiziosi che competono tra loro per accrescere il proprio nome e diventare big man. Una definizione di moka di Andrew Strathern è: “Uomini e donne lavorano duramente per allevare i maiali per il moka. Danno via questi maiali e si aspettano una restituzione maggiore più tardi” (1984:5) Una caratteristica particolare di questi scambi cerimoniali delle Highlands occidentali è che chi dà l’avvio ad un ciclo di scambi e li organizza non sono clan o tribù, ma degli individui ambiziosi che vogliono crearsi un nome. Funziona grazie al principio dell’incremento: chi riceve un dono deve restituirlo con un incremento, è questa capacità si superare con il proprio dono la prestazione originale che dà prestigio ai partecipanti del moka. Le numerose transazioni avvengono nel campo cerimoniale del big man, uno spiazzo decorato con piante fiorite. L’uomo che vuole avviare il moka deve avere a disposizione numerosi maiali ben ingrassati: comincia a distribuirne alcuni tra i suoi sostenitori, debitori, affini, parenti ed amici in una serie di doni che servono a sollecitare tutti coloro che sono legati a lui, ad avvisarli che egli si aspetta da loro alcuni maiali in cambio. Questa prima mossa dà inizio a tutta una serie di passaggi di mano di maiali che viaggia, per esempio, da est a ovest. Ogni uomo che ha ricevuto un dono di sollecito a sua volta sollecita i propri sostenitori e 68 debitori, fa i suoi calcoli sui maiali in suo possesso e quelli che gli verranno dati dai propri sostenitori e li destina a chi ha iniziato il processo di moka. Non sono solo i maiali a passare di mano, nel moka si sono sempre scambiate le decorazioni di madreperla a forma di mezzaluna e incastonate in dischi di creta rossa, chiamate kina, che in tempi precedenti al contatto erano molto rare e controllate dai big men. L’arrivo degli esploratori australiani negli anni ’30 ha provocato una sorta di inflazione di kina, e il loro numero nelle prestazioni è aumentato. Il prestigio dei donatori è legato non solo al fatto di superare in quantità il dono ricevuto, ma anche nell’inclusione di altri beni rari o di valore, come oggetti decorativi in conchiglia, penne di uccelli, casoari. Con l’entrata delle highlands nell’economia di mercato si sono aggiunti alle prestazioni molti beni comperati, oltre allo stesso denaro.3 Durante un periodo di tempo (che varia a secondo della scala del moka) i maiali dei sostenitori cominciano a tornare verso l’originatore della catena moka, viaggiando da ovest a est, con una serie di scambi intermedi che si tengono sul campo cerimoniale di ogni big man coinvolto. In ognuno di questi campi cerimoniali si tiene una danza, si espongono i beni scambiati, e si distribuiscono i maiali. Sono molti gli individui che partecipano a questi scambi a titolo personale, iniziando piccole reti di scambio, ma i protagonisti sono i big men che convogliano tutte queste attività collaterali sui propri campi cerimoniali dove organizzano le danze, radunano tutti i maiali contribuiti dai loro sostenitori e orchestrano la loro ridistribuzione. Ad ogni passaggio chi riceve dei maiali ne trattiene alcuni, altri li passa lungo la catena insieme ai maiali allevati o radunati da lui. La fase conclusiva del moka consiste nella distribuzione di carne di maiale cotta da parte di quelli che hanno ricevuto i maiali vivi, per ringraziare i propri partner. Questa distribuzione avviene in senso inverso a quella dei maiali vivi, e non tutti i maiali ricevuti sono macellati e cucinati, alcuni sono trattenuti da chi li ha ricevuti per iniziare un nuovo allevamento. Alcuni anni più tardi il processo sarà invertito, i doni di sollecito viaggeranno da ovest verso est, e ogni uomo che aveva ricevuto maiali da un partner si sforzerà di donargliene di più: per far questo conta, oltre che sui maiali allevati da sua moglie, su quelli che gli fanno avere i parenti, gli affini, e tutta una serie di sostenitori legati a lui da scambi precedenti: è nel creare sostenere ed espandere questa rete di obbligazioni che si vede la stoffa di un uomo come potenziale big man. Gli uomini contano sul duro lavoro delle donne per incrementare il proprio prestigio nell’ambito maschile degli scambi moka. In un certo senso le donne lavorano per incrementare il prestigio del marito, anche se in questa maniera anche il proprio status ne guadagna. Secondo Marylin Strathern (1988:148-50) la relazione tra mariti e mogli (come quella tra alleati e membri dello stesso clan) è caratterizzata dal termine “prendersi cura” uno dell’altro, che significa contribuire agli sforzi dell’altro. Mentre moglie e marito possono entrambi prendersi cura dell’altro, il marito è anche in una posizione che gli permette di acquisire un nome, cioè il prestigio. L’aiuto che gli da sua moglie lo assiste in questa ricerca di prestigio, e a sua volta lei può partecipare nel suo status. Un esempio di questa relazione in contesto contemporaneo è che un uomo può chiedere a sua moglie di aiutarlo finanziariamente ad acquistare un’automobile che porterà il nome di lui soltanto, ma la situazione inversa è inconcepibile. La stessa regola vale per l’uso dei maiali: marito 3 Secondo A. Strathern (1984:93) negli anni 1970 c’è stato un dibattito a livello nazionale sull’opportunità di permettere che il denaro fosse utilizzato in un contesto “tradizionale” come il moka: il problema per i sostenitori dello sviluppo e della modernità era lo spreco di energie e di risorse economiche che invece di essere investite in attività economiche ‘legittime’ venivano incanalate in attività tradizionali che, secondo loro, avrebbero dovuto sparire gradualmente. Il concetto di ‘tradizionale’ in realtà che si trasformano rapidamente come le Highlands della Nuova Guinea, assume rapidamente le caratteristiche di un simbolo legittimante a cui fanno appello i leader per far accettare le proprie azioni. In questa situazione il denaro è legittimato come mezzo di ottenere prestigio, ed è convogliato negli scambi cerimoniali, la partecipazione dei leader in moka non è in conflitto col loro essere uomini d’affari, anzi la partecipazione negli affari è diventata essenziale per ottenere risorse necessarie per fare moka. 69 e moglie allevano insieme i maiali, è la moglie a curarli quotidianamente e a nutrirli con le patate dolci che lei ha coltivato sulla terra appartenente al clan del marito, ma solo lui può trasformare i maiali in doni e metterli in circolazione negli scambi cerimoniali. Così il marito si fa un nome; più tardi restituirà altri maiali vivi alle cure della moglie, e le attribuirà parte della carne cotta; lei ci guadagna in maiali e carne, ma non ne ricava un nome. E’ in questa trasformazione dei maiali da un ambito di lavoro domestico a quello cerimoniale degli scambi dominati dall’ideologia della reciprocità che secondo Lisette Josephides, si creano le condizioni per quello che lei chiama “relazioni di sfruttamento” (1982:32). Se è vero che il lavoro delle mogli nell’allevare i maiali è riconosciuto anche alla festa in cui i maiali sono distribuiti, è proprio in questo stesso momento che il lavoro produttivo delle donne viene “appropriato” dagli uomini. Una volta che i maiali entrano in circolazione nel sistema di scambi competitivi, scambio dopo scambio, la retorica della reciprocità costruisce la percezione che siano le attività (maschili) dello scambio a creare ricchezza, in quanto ci sia aspetta un ritorno maggiore rispetto a quanto si è dato, oscurando il contributo produttivo delle donne, che viene quindi appropriato dagli uomini. (1982:306). Gli scambi cerimoniali, con il mito che sono i doni a creare i doni, celano il fatto che lo scambio è il mezzo attraverso il quale i beni sono appropriati. Il dogma della reciprocità nasconde, secondo Josephides, l’ineguaglianza nell’accesso alle risorse. Se la dominazione degli uomini sulle donne è esplicita, quella di alcuni uomini, quelli con accesso a più risorse, su altri è nascosta. La separazione ideologica tra produzione e transazione rende i produttori vulnerabili allo sfruttamento per Josephides, coprendo l’ineguaglianza degli scambi tra marito e moglie, uomo sposato e celibe, big man e i suoi agnati. Marylin Strathern rivolge la sua attenzione a due presupposti fondamentali di questa analisi: la supposizione che sia il lavoro ad essere soggetto a una conversione, per poter parlare di appropriazione del lavoro; e quella che le persone naturalmente possiedono e mantengono il controllo su quello che fanno, sul proprio lavoro. 1. Per quel che riguarda la prima proposizione, cioè che il lavoro è appropriato nella trasformazione dei maiali in beni di scambio, M. Strathern (1989: 155) sostiene che anche se la produzione, come categoria di attività, viene effettivamente sminuita in certe situazioni, il lavoro produttivo non è alienato. Allo stesso tempo sostiene che esiste una radicale trasformazione di valore a sostenere la distinzione tra produzione (sfera di competenza sia maschile che femminile) e transazione (sfera di attività prettamente maschile). Esiste una dominazione, ma non si verifica attraverso lo sfruttamento del lavoro. Secondo l’antropologa sia uomini che donne sono responsabili per la produzione domestica, e quando gli uomini immettono i maiali nel sistema di scambi cerimoniali eclissano il proprio contributo produttivo, oltre a quello delle mogli. Il lavoro creativo dell’allevamento dei maiali e dell’orticoltura è apertamente riconosciuto. Quindi non è il lavoro ad essere trasformato quando i maiali entrano nella sfera degli scambi cerimoniali, ma la struttura delle relazioni sociali. Le donne lavorano nel contesto di una struttura di relazioni creata dal flusso di maiali in circolazione, prodotti in larga parte dal proprio lavoro, eppure questo mondo non è sfera di competenza femminile e non è creato da loro. Non è una questione di alienare il surplus prodotto dal lavoro (sia maschile che femminile), questo può anche essere restituito a chi lo ha prodotto; ciò da cui le donne sono alienate è un edificio sociale costruito dalla circolazione di beni dominata dagli uomini. Dato il modo in cui il lavoro è orientato verso altri esseri sociali, il potere sta nella definizione del campo di relazioni che possono essere create da questo lavoro. Il lavoro non è trasformato, è una sfera d’azione. Gli uomini sono, come le donne, il prodotto di una sfera di azione domestica, ma arrogandosi il dominio dell’azione politica, eclissano le proprie radici sociali, dichiarando che le proprie attività non sono determinate solo dalle relazioni domestiche. La vita politica è creata in esplicito contrasto con la socialità domestica 70 2. La seconda supposizione fatta nelle analisi sullo sfruttamento femminile, e decostruita da Marylin Strathern, è che le persone sono proprietarie di quello che fanno. Secondo lei alla base dell’ideologia occidentale, nelle sue accezioni capitaliste e marxiste, sta un’unica nozione culturale di individuo unitario e possessivo. Nella prima visione questo essere unitario è un agente autonomo che controlla oggetti esterni a sé, ma che se sono in suo possesso diventano parte della sua identità; nella seconda la persona è indissolubilmente legata alle proprie attività di modo che il proprio sé è diviso quando i prodotti delle sue attività sono appropriate da altri. Nelle società caratterizzate da un’economia di scambio, invece, le persone sono intrinsecamente plurali, sono prodotti di numerose diverse relazioni e compiono azioni diverse. In questa luce diventa difficile parlare di alienazione e sfruttamento, concetti derivati da una visione occidentale della persona. Le attività cerimoniali degli uomini Hagen sono separate dalla domesticità e dalla produzione nella sfera di relazioni familiari, oltre che dalle richieste dei legami di parentela. In tutti questi ambiti il lavoro rimane concreto ed è attribuito alla propria fonte sociale e, dato che i prodotti del lavoro sono attribuiti a diverse fonti, a questi sono attribuiti molti autori. L’operazione che avviene nel contesto degli scambi cerimoniali, dunque è la trasformazione dei prodotti multipli (i maiali, prodotti dal lavoro complementare di marito e moglie) in un’identità singola per gli uomini: la ricchezza prodotta sta per quella parte di sé che poi sarà interpretata come l’intero essere dell’uomo, il prestigio. Questa trasformazione consiste nel passare da un dominio all’altro, e risulta nella creazione di beni di valore e dei loro messaggi sul prestigio di chi li dà e chi li riceve. Non si tratta di soppiantare un proprietario con un altro, ma della creazione di un’identità unitaria (per gli uomini) da un’identità multipla. La relazione principalmente coinvolta nella costruzione dei valori degli scambi cerimoniale è quella della divisione del lavoro tra coniugi. Il lavoro di entrambi dimostra sia motivazione che intenzionalità, oltre che un senso di impegno nella relazione. Il maiale è un prodotto multiplo, il risultato di tutta una serie di scambi tra parenti e non: è il prodotto della relazione tra i partner di un matrimonio, non è riducibile al singolo interesse di uno dei due. Negli occhi di un uomo che riceve un maiale in moka il lavoro di nutrire il maiale non conta, lui considera i maiali che dovrà restituire. Mentre per il donatore il maiale donato incarna in sé tutto il lavoro che comporta allevarlo, egli non può considerare questo lavoro senza considerare le proprie relazioni domestiche. Pensare al lavoro incorporato in un maiale ingrassato equivale a pensare al valore attribuito reciprocamente da marito e moglie. La moglie non può essere considerata una proprietaria del maiale che può trasferirne la proprietà o a cui può essere sottratto il controllo dell’animale, perché non esiste una relazione di corrispondenza diretta tra lei e la sua capacità di lavorare o la sua capacità di lavorare ed i prodotti del suo lavoro. E’ questo il fattore cruciale, quello che rende impossibile palare di alienazione nel contesto di un economia del basata sugli scambi di doni. Chris Gregory (1982) ha postulato che la differenza tra un’economia di mercato e una di scambio è che i beni trasmessi nelle transazioni di scambi cerimoniali sono inalienabili dal donatore il quale, nel donarli, crea un legame con chi li riceve. Per M. Strathern i protagonisti degli scambi cerimoniali a Hagen non hanno beni alienabili, cioè proprietà: per loro non esiste la possibilità di disporre di un bene se non legandosi in relazioni con altri. Che sia tra partner di scambi, tra coniugi, o tra parenti, la circolazione di cose o persone porta alla creazione di una relazione. Il lavoro produce o rende visibile una relazione. Se nelle economie basate sugli scambi di doni non è l’alienazione del lavoro o l’appropriazione del surplus a determinare la dominazione di alcuni sugli altri, come accade in un’ economia di mercato, quelli che dominano sono coloro che determinano i collegamenti e gli scollegamenti creati dalla circolazione degli oggetti. Negli scambi di doni il valore umano è reso apparente, le relazioni sociali sono eclissate e poi rivelate. 71 Quindi per Marylin Strathern quello che è celato nel passaggio dei maiali dalla sfera di produzione domestica quella degli scambi cerimoniali non è il lavoro delle donne, ma il fatto che gli uomini siano il prodotto della sfera di relazioni domestiche. Gli uomini entrano in una sfera di lavoro politico per acquisire un nome, e a questo prestigio si fa coincidere l’identità maschile. Al contempo si può parlare di dominazione maschile, ma non in termini di alienazione del lavoro delle donne: quello che è negato alle donne è il potere di controllare le reti sociali e politiche da alimentare con lo scambio dei maiali. Modelli di Leadership Uno dei temi principali nell’etnografia delle Highlands è quello dei modelli di leadership, in particolare la precisa relazione tra status ereditato e status ottenuto. Per tutti gli anni 1970 il modello di leadership associato alle Highlands della Nuova Guinea (e quindi considerato prototipico della Melanesia come area culturale), era quello del Hagener big man descritto da A. Strathern (1971). Il tipico big man è un oratore convincente e allo stesso tempo un poligamo abbiente, particolarmente abile nell’investire i maiali allevati dalle sue mogli nel sistema di scambi cerimoniali del moka. Dal punto di vista maschile il sistema è meritocratico, non ereditario: anche se un big man può dare un vantaggio al figlio finanziando il suo matrimonio con un paio di donne, questa non rappresenta condizione necessaria o sufficiente per raggiungere lo status di big man. Oltre che meritocratico il sistema politico del big man è competitivo. Il big man costruisce la propria posizione ed esercita la sua influenza su una rete allargata di persone legate a lui in diverse maniere; una fazione che ha al suo nucleo i parenti, il clan e gli affini, ma anche chiunque abbia un qualunque legame, partner di scambi, familiari adottati amici. Tutte queste persone formano un gruppo che potenzialmente può espandersi, ma che è sostanzialmente instabile, soprattutto ai margini. Il leader non occupa una posizione di autorità formale riconosciuta, e la sua legittimità di leader è costantemente in gioco, minacciata dall’ascesa nel sistema di prestigio di altri uomini che cercano di allargare le proprie sfere d’influenza. Ci possono essere numerosi rivali per il prestigio all’interno di una comunità, la quale può dividersi, o allearsi ad altri gruppi. Anche se la sua sfera d’influenza è in espansione, il gruppo che si coagula intorno al big man non costituisce una comunità politica stabile. Il big man funge da fulcro per lo scambio di beni tra comunità locali, e quindi il sistema promuove la produzione di un surplus da usare in questi scambi, ed è prevalentemente nel contesto di questi scambi che il prestigio e lo status dei big men è di volta in volta costruito, e messo alla prova. Il suo status dipende dalla sua abilità di convincere i suoi sostenitori ad aiutarlo nelle attività legate al moka per mantenere alto il prestigio sue e del suo gruppo. Egli non ha l’autorità per costringere i propri sostenitori a seguirlo in un’impresa che non approvano. Andando ad analizzare le storie individuali di diversi big men, Paula Brown (1978) conclude che le qualità dei leader sono varie, ognuno ha uno stile personale ed ha successo con i suoi sostenitori per motivi diversi, alcune qualità sono comuni a molti degli uomini che si sono affermati come big man: • Ambizione ed energia • Abilità di manipolare gli altri e di organizzare attività su larga scala • Prodezza in guerra • Successo nell’accumulare molti beni • Generosità nel disporre di beni • Possesso di conoscenze speciali, di solito magiche • Abilità oratoria Bill Standish (1978) e Daryl Feil (1982) hanno criticato il modello di big man sviluppato da Strathern che, secondo loro, non aveva dato sufficiente peso all’effetto democratizzante del colonialismo. Con l’imposizione della Pax Australiana era venuto meno il potere che i big men in precedenza avevano sui rifugiati, mentre con l’importazione massiccia di madreperla dalla costa avevano minato il loro controllo sulle reti commerciali e di scambi cerimoniali. La figura 72 relativamente egualitaria del big man descritta da Strathern ed altri etnografi degli anni 1960, era dunque largamente una costruzione coloniale. Dal punto di vista comparativo il modello del big man è stato uno dei soggetti del dibattito sui sistemi politici dell’Oceania, stimolato dall’analisi di Sahlins (1963) della distinzione tra Melanesia e Polinesia in termini di evoluzione politica4. Sahlins contrasta il sistema politico basato sulla figura big man associato all’area melanesiana a quello apparentemente più evoluto, in cui prevale la figura del capo, tipico della Polinesia. Per Sahlins il sistema politico melanesiano è meno evoluto di quello polinesiano a causa della sua intrinseca instabilità e precarietà, che impedisce sia la costituzione di un gruppo sociale allargato e stabile nel tempo, che di un sistema gerarchico organizzato e con posizioni legittimate: due caratteristiche che rendono il sistema politico melanesiano incapace di evolversi, cosa che invece è avvenuta nelle società polinesiane basate sul chiefship, in cui la figura del capo ricopre una carica istituzionale e porta un titolo. In contrasto al potere acquisito del big man il capo polinesiano eredita la propria posizione ed il rango che legittimano la sua autorità. Se il big man è costretto ad accumulare e ridistribuire ingenti ricchezze per mantenere la propria posizione di prestigio, il chief polinesiano mantiene il controllo sulle risorse tramite un legame all’ambito divino, un legame mistico legato alle nozioni di mana e tapu. Il diritto dei capi ad esigere il lavoro dei membri del proprio gruppo consente la realizzazione di opere comuni, e risulta in una crescente specializzazione, in cui il capo fa solo quello. Lo scambio dei melanesiani diventa ridistribuzione ostentatoria, in cui i capi legittimano il loro potere dimostrando il controllo che hanno sulle risorse. Secondo Sahlins il sistema politico dei chiefdoms avendo superato la condizione di instabilità e precarietà del sistema melanesiano si sono evolute verso sistemi politici pre-statali. Aparte l’aspetto neo-evoluzionista dell’analisi di Sahlins, l’opposizione tipologica dei due modi di esercitare la leadership continua ad influenzare la ricerca sul potere in Oceania. Una delle critiche alla tipologia costruita da Sahlins è che è basata su una divisione artificiale e troppo netta tra Melanesia e Polinesia, aree con confini precisi e a ciascuna delle quali corrisponderebbe un sistema socio- politico specifico: questa rappresentazione schematica non corrisponde alla realtà etnografica incontrata sul campo, esistono variazioni all’interno di ciascun tipo, ed esistono sistemi politici più simili al chiefdom in molte aree della Melanesia (soprattutto nelle isole o nelle zone costiere popolate da genti di origine austronesiana, vedi Mekeo, Trobriand, le Figi e la Nuova Caledonia). Inoltre, andando a considerare nel dettaglio le caratteristiche attribuite ai due tipi di leader, si trovano numerose eccezioni e modifiche, tante che finisce per essere difficile sostenere la tipologia. In particolare la relativa importanza del principio dell’ereditarietà del titolo rispetto alle doti personali è difficile da ‘provare sul campo’. In alcune società polinesiane il criterio genealogico di successione può essere negato in assenza di qualità personali considerate essenziali in un capo, mentre in alcune società melanesiane l’appartenenza ad un particolare gruppo di discendenza può dare vantaggi oggettivi ad un uomo che aspira a diventare big man. Mentre in alcune società della Polinesia la carica di capo è legittimata dal lavoro compiuto per il gruppo parentale o dalla prodezza in guerra, esistono in società melanesiane alcune cariche o titoli di carattere ereditario. Dalle descrizioni di Raymond Firth (1981) del sistema politico di Tikopia, al confine tra le due aree, risulta che il potere dei capi di Tikopia è sia ascritto che acquisito: la successione è determinata genealogicamente, ma perché un capo possa esercitare autorità sul gruppo deve dimostrare di promuovere il benessere comune, e, come un big man, deve esercitare le sue abilità di oratore per ottenere consenso e appoggio. Altri esempi dall’etnografia sia melanesiana che polinesiana dimostrano lo stesso tipo di commistione tra caratteristiche attribuite a due tipologie diverse di leader. La raccolta di saggi curata da Watson-Gegeo e Feinberg (1996) in cui sono scrutate attentamente le strutture politiche contemporanee di diverse società sia melanesiane che polinesiane 4 Questa sommaria esposizione del dibattito sui sistemi politici oceanici è tratta dall’analisi di Adriano Favole a pagg. 152-160 di La palma e il potere. I capi e la costruzione della Società a Futuna (Polinesia Occidentale) Torino, Il Segnalibro Editore. 73 dimostra che sul campo le categorie di Sahlins sono con-fuse, non possono dirsi due tipologie né un movimento evolutivo. Rappresentano due modi differenti di pensare, di intendere il potere e la leadership, due modelli di organizzazione politica e sociale differenti che tuttavia sono entrambi presenti in molte società dell’Oceania. “La preminenza relativa dell’uno o dell’altro modo di esercitare il potere politico è legata all’area geografica (indubbiamente il sistema fondato sui capi è prevalente in Polinesia) ma anche all’ambito di ricerca prescelto, alla categoria di informatori a cui si fa riferimento, all’epoca storica presa in esame” (Favole, 2000:160). In un contesto più prettamente melanesiano, Maurice Godelier (1981) ha proposto un altro modello di leadership alternativo a quello del big man, associato alle aree più centrali delle Highlands, prendendo spunto dalle sue ricerche sui Baruya, una popolazione dell’area adiacente (fringe Highlands). Questo nuovo tipo di leader si differenzia sia dal capo che dal big man, soprattutto per la sua prevalenza in quelle che Godelier definisce società fondamentalmente egualitarie. Secondo questa nuova tipologia le “Società dei Big men” delle aree centrali delle Highlands sono sistematicamente contrapposte alle “Società dei Great men” altrove in Melanesia. Secondo Godelier alla base delle differenze tra i due tipi di società associate a modelli di leadership diverse, si trovano due diversi tipi di scambio di beni, e alle variazioni nelle modalità degli scambi corrispondono variazioni in altri ambiti. Nelle “Società dei Big men” si scambiano beni materiali per vite umane (pagamenti di compensazione e per le spose), e questo indica l’esistenza di un complesso sistema di scambi in cui si scambiano articoli non equivalenti. Infatti in queste società è il controllo sui beni scambiati negli elaborati scambi cerimoniali a fornire la chiave della leadership del big man. Il sistema basato sul great man, in contrasto, è basato su una forma di scambio più diretto, ristretto, in cui si scambia un articolo per un altro articolo equivalente, per esempio lo scambio di sorelle tra clan per scopi matrimoniali ed un enfasi sulla vendetta in caso di omicidio, in contrasto ai risarcimenti in beni per le donne passate ad un altro clan o per gli uomini uccisi. Nelle “Società dei Great men” i ruoli dei leader tendono ad essere più variati, e tendono ad essere basati sulla dominazione spirituale (il controllo delle conoscenze e dei poteri magici o delle relazioni col mondo sovrannaturale) o sulla forza coercitiva, piuttosto che sul controllo dei beni materiali, spesso diversi uomini in un gruppo assumono la leaderhip in contesti differenti. Questi contrasti possono essere rappresentati schematicamente così: Big Men Scambi competitivi e non equivalenti: prezzo della sposa risarcimenti per omicidio leadership esercitata tramite accumulo di beni Great Men Scambi ristretti ed equivalenti: scambi di sorelle vendetta, faida leadership dipende da poteri spirituali o forza coercitiva divisione delle funzioni della leadership (ruoli multipli) fusione delle funzioni della leadership (ruolo singolo) Rispetto alle società fondate sui capi, in cui la successione ai titoli è determinata dal rango, gli scambi sono generalizzati e la ricchezza centralizzata, quelle dei great men si differenziano soprattutto per il maggiore egualitarismo. Come nel caso della distinzione tra big men e capi, anche quella tra big men e great men, messa alla prova ‘sul campo’ da tutta una serie di analisi etnografiche comparative, è risultata essere difficile da stabilire categoricamente (Godelier e M Strathern 1991, Watson Gegeo e Feinberg 1996, Knauft 1993) . Non si può associare un tipo di leadership ad una società. Esistono sia i big men che i great men in Melanesia: rappresentano modelli di organizzazione politica che si integrano e che in diverse società melanesiane sono complementari, presenti entrambi in diverse misure. Anzi gli 74 accurati studi etnografici e comparativi stimolati da questo dibattito hanno anche evidenziato come in molte società melanesiane si trovino anche caratteristiche associate ai sistemi politici basati sulla figura del capo. Se le semplici dicotomie tra capi e big men o tra big men e great men,si sono rivelate inadeguate per gestire analiticamente le complessità etnografiche dei sistemi politici melanesiane, l’attenzione degli antropologi è attualmente rivolta a discernere l’interazione tra poteri ascritti e poteri guadagnati da un lato, e tra posizioni o capacità rituali e secolari dall’altra, alla base delle società di tutto il pacifico. La sfida, per Favole (2000) per esempio “è quella di delineare i differenti modelli che sono operativi, i modi in cui essi si intrecciano e le circostanze che determinano come e quando ciascuno di essi è invocato.” ( 2000:160) 75 Antenati, cristianesimo, e cargo I culti del cargo Il fenomeno dei “culti del cargo”, cargo cults, sono un argomento classico nell’etnografia della Nuova Guinea. Questo termine si riferisce ad una varietà di rituali e di movimenti che sono emersi storicamente nel periodo coloniale e post-coloniale, e che si sono variamente impegnati per ottenere con mezzi magici o rituali i beni materiali portati nella zona dagli occidentali. Cargo è un termine generico in Tok Pisin per tutti questi beni, che vanno dalle scatolette di carne o altro cibo associato agli occidentali, a grandi quantità di denaro contante, dipende dal periodo storico del contatto, e dai desideri della gente coinvolta. Questi desideri sono profondamente implicati con preoccupazioni di tipo politico e morale. Questi movimenti possono essere interpretati come: • proteste per le ineguaglianze del sistema coloniale; • nuove organizzazioni politiche di resistenza; • la ricerca di una redenzione morale attraverso l’ottenimento dell’eguaglianza tra gli indigeni e i forestieri. Un’altra interpretazione dei cargo cults è che sono un mezzo per rettificare l’ingiustizia che si pensa sia stata perpetrata dai colonialisti tramite degli imbrogli. Spesso questa idea è collegata alla credenza che un antenato indigeno aveva intrapreso un viaggio nella “terra dei bianchi” e aveva spedito il cargo per i suoi discendenti, ma questo era stato intercettato dai poteri coloniali che se lo tenevano per sé, oppure all’idea che i missionari abbiano omesso di insegnare alcune verità necessarie per ottenere la ricchezza associata ai bianchi. Queste interpretazioni hanno offerto molto materiale agli storici ed agli antropologi interessati alle dimensioni etiche e politiche del colonialismo. Altri studiosi hanno indicato che spesso il termine “cargo cult” è stato imposto dagli amministratori coloniali preoccupati dalle aspirazioni e dalle rivendicazioni degli indigeni, e che utilizzavano il termine”culto” per delegittimare i movimenti di resistenza popolare al potere coloniale. E’ anche importante ricordare che se molti movimenti sociali innovativi in Nuova Guinea sono stati accomunati, nelle definizioni degli amministratori coloniali e degli antropologi occidentali, per il fatto di contenere aspetti legati al cargo, ognuno di questi movimenti aveva anche molti altri elementi, oscurati dalla definizione comune. Questo è un problema generale quando si cerca di analizzare fenomeni simili in diverse culture, trovando una definizione comune. Nonostante queste note di cauzione, molti studi hanno evidenziato come la ricerca della ricchezza sia alla base di numerosi movimenti. Quello che bisogna ricordare è che nel Pacifico in generale, ed in Melanesia in particolare, la ricchezza è spesso considerata come un mezzo per ottenere un senso di valore o di eguaglianza con gli altri. Queste idee in fondo non sono troppo differenti da quelle della nostra società capitalista, ma la differenza è che nel contesto melanesiano la ricchezza ha anche un valore magico-religioso. La ricchezza è interpretata da molti melanesiani come un segno di benessere cosmico, e di relazioni corrette col mondo spirituale; la sua mancanza è di conseguenza interpretata come un segno che il cosmo e il mondo spirituale sono sbilanciati, in disordine: per ristabilire un ordine cosmico è necessario intervenire con dei riti o dei sacrifici. Questa idea è anche alla base di tutti i sistemi rituali legati alla promozione della fertilità, chiamati anche questi culti nella letteratura antropologica, senza però attribuire delle valenze di stranezza o di potenziale sovversivo. E’ fin dai tempi in cui Marcel Mauss (1954) scriveva del dono che gli antropologi sottolineano la simbiosi tra persone e cose, l’associazione di oggetti materiali alla parte vivente delle relazioni sociali, ed il significato spirituale attribuito ai beni materiali nelle culture della Nuova Guinea. Visti in quest’ottica, sarebbe strano se i movimenti di trasformazione sociale non fossero almeno in parte 76 incentrati sull’acquisizione della ricchezza. Andrew Lattas (1998) ha analizzato uno di questi movimenti tra i Kiwai sull’isola di New Ireland, dimostrando come l’elemento di acquisizione di beni è anche inestricabilmente legato al contesto coloniale, oltre che (come già suggeriva Margaret Mead) all’impatto degli eventi della seconda guerra mondiale, soprattutto l’esperienza di vedere montagne di apparecchiature, cibarie e altri beni trasportati dalle truppe americane. Conclusioni simili sono quelle raggiunte da Keesing nella sua descrizione del movimento Maasina a Malaita, nelle Salomone. Sono due i fattori importanti nei cargo cults: 1. il desiderio per i beni materiali è sempre una parte del desiderio più generale di ottenere la parità morale e politica 2. i capi di questi movimenti provano sempre a organizzare forme elaborate di organizzazione sociale per poter raggiungere i propri scopi, queste forme sono considerate come “lavoro”: lavoro che porterà alla loro riaffermazione politica e all’ottenimento della prosperità in senso allargato. E’ importante anche ricordare che il “cargo” in questione, ed i suoi significati, variano molto in funzione della storia coloniale della popolazione in questione. Per esempio un movimento che fiorì a Mount Hagen tra il 1968 e il 1971, che gli adepti chiamavano “wind work” ed è stato descritto come “the red box money cult”, era incentrato su un rito per ottenere grosse somme di denaro. Gli adepti utilizzavano le scatole di legno dipinte di rosso del tipo utilizzato dai lavoratori delle piantagioni quando tornavano ai loro villaggi per portare il denaro ed i beni acquistati sulla costa. Riempivano le casse di pietre e metallo, ed eseguivano dei riti che avrebbero dovuto persuadere gli spiriti dei morti “wind people” a convertire le pietre in denaro. Questo culto si estinse quando divenne evidente che il denaro non si materializzava. In altre parti della Nuova Guinea, le idee legate al cargo ed i culti associati a queste idee hanno una storia molto più lunga, si sono trasformate nel tempo, sviluppando forme di organizzazione sociale e scopi molto più complessi. Questo avviene soprattutto in quelle aree dove il contatto coloniale e l’influenza dei missionari sono esperienze di lunga durata, e dove viene molto sentito il problema dello sviluppo economico. In questi casi i movimenti che contenevano un elemento magicoreligioso tendevano anche ad includere ambiziosi progetti di mutuo aiuto e di sforzi economici, sono questi gli aspetti ricordati ora dai discendenti delle persone coinvolte nel culto, e questa percezione oggi aiuta a dar forma alle interpretazioni antropologiche dei movimenti. Gli studi più fruttuosi, da questo punto di vista, sono quelli condotti da antropologi con una prospettiva storica, soprattutto quelli che sono ritornati diverse volte in periodi diversi nell’area del culto. Così gli antropologi riescono a registrare le trasformazioni delle attività e degli scopi del culto in diverse contingenze storiche. Un’esempio è l’analisi di Panoff (1997) del movimento Pomio Kivung dei Maenge della New Britain tra il 1966 e il 1981. Egli dimostra che nel corso del tempo gli elementi magico-religiosi nelle idee delle persone che aderivano al culto si sono tramutati in nuove forme di organizzazione per lo sviluppo economico. Altri antropologi sostengono che alcuni movimenti che erano in effetti motivati da sforzi collettivi e razionali di cambiare per il meglio, sono stati etichettati come irrazionali dagli osservatori coloniali che li hanno battezzati cargo cult. Quello che è certo è che bisogna riconoscere l’intrecciarsi di idee magico-religiose con altre idee di natura più secolare nell’organizzazione di molti movimenti indigeni per la trasformazione e per il miglioramento della propria situazione economica e politica rispetto al mondo trasformato dalla storia coloniale. (Questa caratteristica dei cargo cult si può rinvenire anche in alcuni comportamenti occidentali: l’adozione di diete e stili di vita che promuovono la longevità, l’illusione di arricchirsi tramite il gioco in borsa, i numerosi corsi di mutuo aiuto che promuovono il proprio successo nel mondo- sono tutti esempi di comportamenti per far avverare i propri desideri combinano organizzazione sforzi pratico, con atteggiamenti ritualistici, quindi si può dire che i cargo cults ci siano dappertutto). Uno dei primi antropologi ad adottare la prospettiva storica è stato Peter Lawrence (1964) nella sua 77 analisi dei movimenti cargo della Rai coast di Madang. Il suo studio ha come punto di partenza la descrizione dell’ordine cosmico indigeno, dopodiché traccia una storia di cinque diverse fasi di attività rituali nel contesto della società coloniale e degli effetti delle politiche amministrative attuate: tre fasi dal 1871 al 1933, la quarta dal 1933 al 1945, e la quinta dal 1948 al 1950. Un aspetto chiaramente evidenziato da Lawrence è che l’appropriazione da parte degli indigeni degli insegnamenti del cristianesimo è una componente importante di questi movimenti, in tutte le loro fasi storiche. L’ideologia cristiana stessa, soprattutto tradotta in pidgin, è potenzialmente ambigua e porta a molte interpretazioni, soprattutto nei riferimenti al paradiso. La sua descrizione della quinta fase dell’attività cargoista, dal 1945 è incentrata su un leader rituale, Yali. Suo padre era stato il tenutario delle conoscenze magiche tradizionali degli Ngaing. Yali divenne un rappresentante indigeno del suo villaggio, ed accompagnava le pattuglie degli ispettori coloniali Australiani, poi si arruolò nella polizia (il sistema coloniale in Papua Nuova Guinea era basato su pochi ufficiali bianchi e un gran numero di uomini indigeni, reclutati inizialmente tra i Motu della zona di Port Moresby). Quando scoppiò la guerra in Europa, Yali era nella città costiera di Lae, sentì parlare di molti movimenti del cargo nella sua ragione, poi fu promosso Sergente, assegnato a compiti di guerra, e mandato in Australia per essere istruito al combattimento nella giungla. In Australia visitò alcune città, fabbriche, una raccolta museale di oggetti sacri della Nuova Guinea: un suo compagno si chiese perché i missionari bianchi li avessero convinti a bruciare i loro oggetti sacri, se invece altri bianchi li raccoglievano custodivano in una costruzione apposita. Ritornato in Nuova Guinea Yali si fece una reputazione di combattente, incoraggiato dalle promesse fatte alle reclute indigene che gli australiani li avrebbero aiutati a ottenere più benessere una volta finita la guerra. Dopo la guerra Yali divenne il leader riconosciuto di una rinnovata forma di pensiero cargoista anche se secondo Lawrence lui stesso non era necessariamente convinto di tutte le credenze associate alla sua persona. Quello che è certo è che era convinto che l’amministrazione coloniale avrebbe ricompensato lui e la sua gente per gli sforzi fatti durante la guerra. Dopo un viaggio fallimentare a Port Moresby nel 1947, Yali si rivoltò contro l’amministrazione. Dopo aver appreso che alcuni occidentali credevano all’evoluzionismo invece che nella creazione dell’uomo da parte di Dio, Yali si risentì con i missionari per aver tenuta segreta questa informazione, e si ribellò anche ai loro insegnamenti. Decise di riorganizzare il paganesimo per assicurarsi l’aiuto degli spiriti indigeni per ottenere buoni raccolti, selvaggina abbondante e maiali da allevamento. A quel tempo Yali fu influenzato anche da Gurek, un catechista cattolico indigeno, che sosteneva di aver avuto visioni in cui spiriti soldati si addestravano nella foresta e si preparavano a portare fucili ed altri beni occidentali alla gente. Gli altri, secondo Gurek, non riuscivano a vedere questi spiriti soldati perché portavano la rabbia nei cuori e litigavano troppo. Dovevano vivere in pace, seguire lui, e avrebbero trovata la “strada per il cargo”. Disilluso con le autorità sia secolari che religiose del colonialismo, Yali adottò la posizione di Gurek. Sviluppò una nuova serie di rituali, alcuni derivati dalle abitudini occidentali osservate in Australia, come quella di decorare i tavoli con dei fiori, su questi tavoli venivano allestiti dei sacrifici agli dei indigeni locali. Yali ristrutturò l’organizzazione politica locale di tutta l’area di Madang e Bogia, dove si diffusero i nuovi rituali cargo. Imitando la struttura piramidale dei modelli coloniali, si mise in cima a questa organizzazione, percorreva periodicamente la zona (come facevano le pattuglie di ufficiali coloniali), consigliava la gente su come eseguire i rituali senza incorrere nel dispiacere delle autorità coloniali. Durante quel periodo molti abitanti della costa Rai lasciarono il cristianesimo, però, dopo la partenza di Gurek, cominciarono ad essere delusi dall’apparente mancanza di efficacia dei nuovi rituali pagani. La missione Luterana costruì un dossier contro Yali, accusandolo di corruzione, fu processato e incarcerato, ma non per reati collegati alla promozione dei cargo cults. In prigione perse la sua influenza. L’impressionante organizzazione politica sviluppata da Yali era un segno dell’allargamento di aspirazioni politiche da parte degli indigeni delusi dal governo e dalle missioni. Secondo Lawrence, 78 questi movimenti potevano quindi essere considerati come una forma rudimentale di nazionalismo. Anche Peter Worsley (1957) sottolineava la componente nazionalistica dei movimenti cargo cult in Nuova Guinea e nelle Salomone. Mentre è chiaro che i movimenti contenessero elementi di ribellione e resistenza, dovrebbero però essere considerati in prospettiva regionale più che nazionale, in quanto negli anni in questione ancora non esisteva la nozione di una unica Papua Nuova Guinea. Possiamo interpretare questi movimenti come i precursori del nazionalismo, nel senso che erano movimenti di opposizione al regime coloniale, anche se in realtà non erano movimenti di protesta contro la dominazione da parte di un altro potere, piuttosto era una protesta per le “mancate promesse”. Gli effetti a lungo termine di questo importante movimento continuano a farsi sentire; Elfriede Hermann che ha lavorato nella stessa zona in periodi più recenti, ha osservato come le idee sulla figura storica di Yali influiscano ancora sui discendenti di coloro che venivano chiamate le “ragazze dei fiori” nei rituali collegati al suo movimento. Hermann (1977) spiega come oggi gli abitanti di quella zona abbiano sviluppato un’ideologia legata al costume, kastom, in opposizione alla definizione coloniale di cargo cult per combattere lo stigma legato a questo termine. In parte questo stigma è dovuto al conflitto di Yali con la missione luterana; dopo la caduta di Yali ed il suo arresto, i suoi seguaci si vergognarono del proprio coinvolgimento nel movimento. In seguito cercarono di rivalutare quegli aspetti rituali indigeni usati da Yali ma che sono associati alla tradizione, più che al cargo cult. Oggi gli abitanti del villaggio originario di Yali si distanziano dai riti associati ai fiori che aveva introdotto, dicendo che questi non sono “autentici”, non fanno parte del kastom. Le donne che avevano avuto un ruolo in questi rituali spiegano che lo facevano solo perché secondo il kastom le donne dovevano aiutare nei riti organizzati dagli uomini, e quindi seguendo le indicazioni degli uomini in posizione di leadership rituale, non facevano che dimostrare la propria volontà di aiutare, come da tradizione. Questa analisi di Hermann non serve a confutare quella precedente di Lawrence, solo a dimostrare che i discorsi e le ideologie si trasformano nel tempo. Nel 1986 il libro di Worsley è stato tradotto in pidgin e venduto, sarebbe interessante sapere com’è stato recepito nella zona di Madang. I dibattiti antropologici sull’etichetta “cargo cult”, oltre che sulla loro interpretazione continuano. Lo stigma a cui fa riferimento Hermann ha portato alcuni antropologi a distanziarsi dall’uso di questo termine, altri sottolineano come comportamenti simili possono essere identificati anche in culture occidentali. Le domande fondamentali poste da Yali, su come la ricchezza sia originata e su come si possa venirne in possesso, possono trovare risposte in molti modi, E’ necessario riconoscere che tutte le possibili risposte sono sempre costruite all’interno di sistemi di pensiero particolari. Spiegare a Yali e ai suoi seguaci che gli australiani erano generalmente più ricchi degli abitanti della Nuova Guinea perché storicamente hanno avuto un maggior accesso alla tecnologia, perché gli indigeni erano stati indeboliti da epidemie introdotte dagli agenti del colonialismo, o perché gli occidentali avevano inventato i fucili5, non servirebbe a rispondere alle questioni epistemologiche e storiche più profonde con cui essi si cimentavano. Come evidenziava lo studio di Lawrence le questioni più profonde alla base del movimento di Yali avevano a che fare con i temi dell’uguaglianza e con i poteri che danno forma al cosmo. Secondo Strathern e Stewart (2002) lo studio dei movimenti storici per la trasformazione in Melanesia, ci insegna non solo che i cargo cults erano il risultato dell’intrusione coloniale, o addirittura un’invenzione dell’immaginazione occidentale incapace di concepire la nascita di un movimento di ribellione indigeno, ma che movimenti in cui si intrecciano scopi ed idee religiose, politiche ed economiche, sono eventi ricorrenti nella storia e nell’esperienza umana universale. Cristianesimo e antenati tra i Korafe della Oro Province I cargo cults non sono le uniche manifestazioni di religiosità melanesiana nel contesto coloniale e post-coloniale. In molte aree della Nuova Guinea, e della Melanesia in generale, diverse missioni 5 Cf. Jared Diamond Guns Steel and Germs 79 cristiane hanno convertito le popolazioni locali al cristianesimo. I metodi adottati, il personale impiegato, le dottrine trasmesse dai missionari, ma anche il modello di vita famigliare e di comunità incoraggiati dai missionari variano a seconda del tipo di missione che si è instaurato, e dal periodo storico in cui è avvenuta la missionizzazione di un’area. Per quel che riguarda la costa nord-orientale della Nuova Guinea, la missione che storicamente si è instaurata nell’area ed ha convertito gli indigeni, tra cui i Korafe, è quella Anglicana. I primi contatti risalgono alla fine del ‘900, con le visite saltuarie di missionari che navigavano lungo tutta la costa da una mission station ad un'altra in battello. Negli anni ‘trenta è stata costruita una missione nel territorio Korafe, lo staff includeva un padre inglese con sua moglie e un paio di evangelisti provenienti da altre isole del pacifico. Seguendolo schema abituale i missionari combinavano le loro attività di proselitismo con assistenza medica e con l’insegnamento elementare. I ragazzi più portati erano incoraggiati a proseguire gli studi nelle scuole superiori della missione, ad Alotau, in cui sono state formate quelle che sarebbero diventate le élites della nuova nazione. Con la seconda guerra mondiale il personale della missione è stato evacuato, e gli stessi Korafe hanno abbandonato i villaggi per rifugiarsi nella foresta. Dopo la guerra e con l’indipendenza della Papua New Guinea, anche le missioni anglicane hanno seguito la strada dell’indigenizzazione, e il personale della chiesa è tratto prevalentemente dalle leve di indigeni che da ragazzi che avevano frequentato le scuole missionarie. Dalle mission stations i padri anglicani pattugliano periodicamente le proprie diocesi per celebrare la messa ed eventuali battesimi e matrimoni crisitiani. Per il resto dell’anno le chiese locali sono affidate alle cure di evangelisti locali che vivono nei loro villaggi di origine e conducono il servizio religioso ogni domenica, organizzano attività di manutenzione della chiesa, pregano in caso di malattia o morte, organizzano gruppi di studio della bibbia. Queste attività sono affiancate da altre organizzate dai membri locali di organizzazioni anglicane transnazionali, come la Mother’s Union e l’organizzazione giovanile Youth Groups. Queste da un lato forniscono opportunità a donne e giovani di riunirsi con scopi che variano dall’intrattenimento, a riunioni di preghiera per i malati, a progetti di “sviluppo” economico, dall’altro allarga l’orizzonte sociale dei membri mettendoli in contatto con tutta una serie di gruppi della stessa organizzazione in diverse parti della Papua New Guinea, e del mondo anglosassone in genere. Questo allargamento dell’orizzonte sociale, in effetti, è uno dei principali effetti della pacificazione da un lato, ma soprattutto degli insegnamenti del cristianesimo, con la sua ideologia della fratellanza tra gli uomini di tutto il mondo. A metà degli anni ’80, al tempo della mia ricerca sul campo, tutti i Korafe si dichiaravano cristiani, la maggioranza anglicani, anche se gli abitanti di uno dei villaggi avevano da poco aderito alla chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno, convinti da un migrante ritornato dalla città. Alcuni anziani ricordano di aver visto i propri padri e nonni “costretti” a bruciare reliquie degli antenati associate ai rituali tradizionali, e anche persone di mezza età ricordano le ultime feste di scambio, e festini di corteggiamento tra i giovani: cose che non succedono più “perché ora è il tempo della chiesa e del denaro, non degli antenati e degli spiriti.” Nonostante ciò il cristianesimo non è vissuto come un’imposizione, ma come una delle dimensioni nuove della loro vita contemporanea, una dimensione che li impegna e di cui vanno fieri, è un aspetto della propria identità che associano alla modernità, contrastandola con un passato associato ad uno stato primitivo e di ignoranza. Dal punto di vista della cosmologia tradizionale, per i Korafe, il cristianesimo è stato come la rivelazione dell’esistenza di un ulteriore livello di socialità, e di esseri di natura sacra, che inglobava il sistema tradizionalmente conosciuto di clan derivati, idealmente per discendenza patrilineare, da un gruppo di fratelli, differenziati per età e ognuno con conoscenze, poteri, e responsabilità rituali specifiche. Questo nuovo livello superiore, più inclusivo, era naturalmente associato a poteri e ricchezze maggiori, appunto quelli esibiti dai bianchi, portatori della nuova conoscenza. La struttura sociale Korafe è organizzata concettualmente in termini derivati dalle relazioni tra fratelli maggiori e minori. I clan, che idealmente corrispondono a gruppi co-residenti nello stesso villaggio, sono composti da un gruppo di fratelli, discesi in linea patrilineare dallo stesso antenato, 80 con le rispettive mogli e figli. I figli adulti si sposano e costruiscono la propria casa nel villaggio. All’interno del clan il fratello senior (il maggiore della generazione più anziana) è il custode della conoscenza magica specifica di quel clan. Diversi clan, discesi rispettivamente da un gruppo di fratelli, gli ancestri d’origine, formano un gruppo di alleanza che occupa un dato territorio all’interno dell’area linguistica Korafe. All’interno di questo gruppo d’alleanza il clan che traccia la propria discendenza dal fratello maggiore tra gli ancestri d’origine, gode di status superiore, ed è detto Kotofu, tutti gli altri sono di status comune e sono detti Sabùa6. A loro volta i gruppi di alleanza, ognuno associato al proprio clan Kotofu, sono appaiati in relazioni di scambio competitivo reciproco, nate in tempi precoloniali. I clan sono gruppi corporati, sia rispetto alla terra che alla conoscenza rituale ed ai poteri magici associati ad essi. Esiste una specializzazione rituale tra i clan di un gruppo di alleanza. I Kotofu sono i clan che controllano la magia della parola, questo gli conferisce il potere di persuasione e, ai loro membri anziani, lo status di leader: con la loro magia convincono i propri seguaci a partecipare alle loro imprese, che siano guerre, danze, o feste. Discendenti di un fratello maggiore, sono considerati i fratelli maggiori degli altri clan: sono responsabili, posati, ed usano la loro autorità per il bene comune, promuovono iniziative a cui partecipano i clan minori, e si occupano della distribuzione tra questi dei benefici ottenuti (dalla guerra o dalle cerimonie di scambio). Nell’ideologia politica locale i Kotofu hanno la responsabilità di prendersi cura dei Sabùa. In contrasto i discendenti dei fratelli minori, i membri dei clan classificati come Sabùa, hanno il dovere di lavorare per i Kotofu, ma si aspettano che questi si prendano cura di loro. Come i fratelli minori in una famiglia sono più irresponsabili, uomini d’azione non di pensiero. Ognuno di questi clan è associato alla conoscenza rituale e magica di un ambito diverso, che può essere usato per scopi benefici (quando è diretta all’interno del gruppo) o malefici (quando è diretta a nemici o rivali). Per questo lato negativa la magia all’infuori di quella per parola è preclusa ai clan Kotofu. Gli ambiti sono l’agricoltura, il tempo, la salute, la pesca, la caccia, eccetera. All’interno di ogni clan è il fratello senior ad avere in custodia le reliquie degli antenati, e, cosa più importante, la conoscenza rituale che permette di convocarne i poteri. Come per gli altri tipi di lavoro, ogni specialista rituale dovrebbe utilizzare i propri poteri solo per la promozione del benessere generale del gruppo di alleanza, sotto la guida del Kotofu. L’ideologia sociale dei Korafe promuove la cooperazione tra i clan di un gruppo di alleanza come tra un gruppo di fratelli, guidati dal maggiore. A questa struttura ideale il cristianesimo ha sovrapposto un livello superiore, quello di un Dio “Padre”, che rende tutti gli uomini del mondo “fratelli”. Questa espansione dell’orizzonte morale riflette un effettivo allargamento del mondo sociale dei Korafe, avvenuto in seguito alla colonizzazione. Il fatto che il cristianesimo fosse così evidentemente associato alla maggior prosperità e ai poteri straordinari dimostrati dai bianchi, è stato un fattore determinante per la pronta conversione dei Korafe. Era come se i missionari, rivelando l’esistenza di un padre, a un livello superiore dei fratelli originari, avessero rivelato un livello superiore di conoscenza, evidentemente portatore di poteri superiori e maggior ricchezza . Il problema, per i Korafe contemporanei, è che la ricchezza e il potere dei bianchi non sono arrivati ai loro villaggi, nonostante la loro nuova fede e l’assidua partecipazione alle attività rituali della chiesa. E allo stesso tempo i problemi tradizionalmente gestiti con il ricorso a rituali magici in cui si faceva appello ai poteri degli spiriti ancestrali, non se ne sono andati. La risposta a questo paradosso è di ordine morale. Nella tradizione Korafe il successo sia individuale che collettivo dipende da un 6 Questa ereditarietà è simile a quella nelle Trobriand, dove non l’individuo ma il sub-clan eredita lo status di chiefly. La cultura Korafe ha caratteristiche associate agli austronesiani ed altre più comunemente associate ai papuani, come la lingua che è non-Austronesiana. Questo riflette la movimentata storia precoloniale delle popolazioni costiere, in cui gruppi austronesiani e papuani si sono contesi il territorio, sposati e scambiato beni, idee, e morti per anni. 81 rapporto morale positivo con gli antenati, che potevano aiutare od ostacolare i loro discendenti per esprimere la propria approvazione o per punire i trasgressori. Questo aspetto si scontra col fatto che gli insegnamenti dei missionari condannano senza esclusione qualsiasi contatto con la magia, con gli spiriti e con gli antenati: tutti elementi della cultura tradizionale associati non solo ad un passato primitivo e inferiore, ma alla superstizione pagana e al diavolo. Per accedere al paradiso cristiano (che i Korafe si immaginano come un supermercato di beni di lusso occidentali) è necessario rinnegare completamente il contatto con gli antenati e soprattutto l’uso dei poteri che ne derivano. Nella concezione cristiana non c’è più la distinzione di magia positiva e negativa, la magia è un’espressione della malvagità di Satana. Se in tempi tranquilli questa contraddizione è mascherata e praticamente tutti i Korafe possono sostenere che la magia e gli spiriti sono cose che appartengono al loro passato, ai loro precedessori, ma che non interessano più la loro vita, in quanto preferiscono dedicarsi alle attività legate al cristianesimo ed all’acquisizione del denaro, la situazione è diversa in momenti di crisi. Il problema è che nella visione morale Korafe ai poteri sono sempre accoppiate delle responsabilità rituali, e quando succede qualcosa di brutto al gruppo (una siccità, un’epidemia, un periodo di sfortune) gli uomini che sono i custodi della proprietà e della conoscenza rituale del gruppo sono sotto lo sguardo di tutti. Se normalmente sono un po’ derisi per il loro ruolo rituale, ora ci si aspetta che agiscano, che si dichiarino cristiani o meno. Se in un periodo di siccità tutti gli orti producono poco, ci si aspetta che l’uomo più anziano del clan associato alla magia del giardinaggio si faccia carico del problema e convinca i suoi antenati a riportare la fertilità agli appezzamenti del suo gruppo. Altrimenti il sospetto nasce che sia stato lui, per motivi politici, di vendetta, o d’accordo con un rivale, a causare il problema e la punizione comporta l’uso della stregoneria per farlo ammalare a sua volta. Il risultato è una situazione diversa da quella descritta per esempio da Keesing per i Kwaio delle Salomone, in cui le comunità si differenziano tra tradizionalisti e cristiani. Qui il conflitto tra cristianesimo e tradizione ancestrale è vissuto a livello individuale dagli anziani che normalmente sono scoraggiati dal sottolineare il loro ruolo rituale per conquistarsi il diritto di essere “buoni cristiani”, e hanno difficoltà a trovare un giovane a cui trasmettere la propria conoscenza e i poteri magici, ma che in periodi di crisi sono sotto pressione per dimostrare di voler prendersi cura del benessere generale. Per altri aspetti, la chiesa anglicana locale ha fatto proprie alcune caratteristiche della tradizione Korafe. Anche se i Korafe rimpiangono le feste di un tempo, queste sono sostituite dalle Church Day feasts, che sono molto simili in struttura a quelle tradizionali, con la differenza che i partner di scambio cerimoniale non sono più i nemici tradizionali, ma gruppi associati ad un’altra chiesa, di un gruppo linguistico diverso e più distante geograficamente, ancora una volta riflettendo l’espansione dell’orizzonte sociale dei Korafe e delle altre popolazioni di questa costa (Gnecchi-Ruscone 1997). Anche le tradizionali feste di corteggiamento, sospettano molti genitori, hanno trovato il loro corrispondente nelle riunioni serali del gruppo giovanile della chiesa, che si riunisce per cantare e suonare la chitarra al chiaro di luna. 82 Culture “fluviali” della Nuova Guinea In questo capitolo prenderemo in considerazione alcune culture della Nuova Guinea che non sono associate né all’area del Massim, né a quelle delle Highlands. Sarebbero moltissime le culture interessanti da considerare, ma ho scelto di concentrarmi su quelle che sono conosciute come “lowland cultures”, perché includono culture con caratteristiche interessanti in termini comparativi, sia tra loro che rispetto alle culture delle Highlands che abbiamo considerato. Sono due le principali aree associate a importanti sistemi fluviali e alle paludi tropicali in Nuova Guinea. Ricordiamo che la Nuova Guinea è divisa da est a ovest da due catene montuose più o meno parallele, che formano il complesso di altipiani e di vallate conosciute come le Highlands. Il principale sistema fluviale a nord di questa barriera è il Sepik, a sud Il Fly. Sepik Il fiume Sepik nasce vicino al confine tra la Nuova Guinea e la Papua Occidentale e, scorrendo verso est, attraversa una regione della Nuova Guinea Centrale, forma un vasto bacino paludoso per raggiungere il mare di Bismark. Sia il Sepik che il Ramu, e tutto il sistema di tributari sono relativamente recenti. Nel tardo Pleistocene tutto il bacino è stato allagato e costituiva un mare interno di acqua salata, gradualmente sono riaffiorate alcune parti di terra, e si è formato il bacino fluviale. Ad Angoram durante la stagione secca è ancora possibile vedere formazioni coralline che emergono dalla riva del fiume. Il corso del fiume (oltre 1100 chilometri) è quasi interamente navigabile, è caratterizzato dai numerosi meandri e dai laghi formati dai cambiamenti del corso d’acqua, il più grande dei quali è il Chambri Lake. Durante la stagione delle piogge l’area circostante al Chambri e tutto il bacino del Sepik-Ramu (il Ramu è uno degli affluenti principali) sono inondati, formando un’immensa distesa paludosa. Nella stagione secca, i fiumi minori ed il lago si restringono a stretti canali e i meandri che rimangono isolati formano dei laghetti semicircolari ( chiamati in Tok Pisin raunwaras: da round water). A causa dei movimenti del corso d’acqua capita che interi villaggi debbano essere ricostruiti in un altro posto, o che una sezione del villaggio si accampi in un sito separato. La regione del Sepik si distingue in Upper, Middle, e Lower Sepik, tutta la regione, ma in particolare le culture del Middle Sepik sono rinomate per la produzione artistica: praticamente ogni villaggio ha sviluppato uno stile particolare di sculture lignee, associate tradizionalmente alle case degli spiriti o haus tambaran, luoghi di culto maschile in cui si praticano le iniziazioni. Oggi molti rituali legati alla religione ancestrale sono solo una memoria, ma le architetture e le decorazioni rituali delle case degli spiriti sonno diventate uno dei simboli non solo per le culture del Sepik, ma anche dell’identità nazionale della Papua New Guinea, e attirano numerosi turisti e commercianti di arte etnica nella regione. Molti musei espongono pezzi di arte del Sepik, in particolare sono conosciute le collezioni di arte del Sepik del museo etnografico di Basilea, in Svizzera, e quelle di New York: al Museum of Primitive Art, e nelll’ala Rockefeller del Metropoliotan Museum. Le società della regione del Sepik si distinguono tra quelle popolazioni che abitano villaggi sulle rive dei fiumi e quelle di terraferma, associate alla foresta. Il modo di sussistenza tradizionale delle popolazioni fluviali è basato principalmente sulla caccia e la raccolta sedentaria. Quello del fiume e della palude è un ambiente ricco di risorse acquatiche, e la pesca nelle lagune abbondante. L’altra risorsa importante di questo ambiente è la palma da sago, (Metroxylum rumphii) che fornisce la principale fonte di carboidrati. La pianta non è coltivata, anche se il suo sfruttamento necessita di qualche cura, e permette di produrre in brevi periodi di lavoro concentrato, grandi quantità di cibo che si può conservare nel clima caldo e umido della Nuova Guinea. Gli uomini cacciano maiali e casoari selvatici nella foresta, e sia uomini che donne coltivano piccoli appezzamenti di ignami e altri ortaggi. Gli abitanti dei villaggi sui corsi d’acqua si definiscono pescatori e considerano i fiumi ed i laghi il proprio habitat, e le canoe il mezzo di comunicazione preferito. Per loro la terra ferma è 83 un ostacolo al movimento, la foresta un ambiente pericoloso ed inospitale. Gli abitanti delle zone più interne invece, considerano I corsi d’acqua delle barriere temibili, in genere non sanno nuotare o pagaiare, e sono orticoltori e produttori di sago, oltre che cacciatori. Gli abitanti dei grandi villaggi sui fiumi disprezzano le popolazioni della foresta, li considerano primitivi e più selvaggi. Il fatto che le loro case non sono costruite sulle palafitte ma sulla nuda terra li fa sembrare simili agli animali, e le loro abitudini strane li rendono “pericolosi”. Anche i loro villaggi, piccoli, recintati e protetti da barriere di piante spinose sono in netto contrasto con quelli grandi e soleggiati sulle rive dei fiumi. Gli abitanti delle rive dicono dei bushmen che vivono nella foresta come i maiali selvatici, e possano mutarsi in questi animali per attaccare chi si avventura nelle parti buie della foresta. Gli abitanti dei villaggi sui fiumi attribuiscono a quelli della foresta conoscenze e poteri magici negativi, sono rinomati per la stregoneria fatta usando i rifiuti delle vittime. I Manambu, una popolazione fluviale, hanno un detto per cui gli abitanti della foresta muoiono tutti di stregoneria, mentre gli abitanti dei villaggi sulle rive dei fiumi muoiono a causa delle infrazioni rituali o di relazioni incestuose. In passato questi gruppi erano le principali vittime dei raid dei guerrieri dei villaggi fluviali, e viceversa (Harrison, 1993: 33). In generale le popolazioni del Sepik vivono in villaggi popolosi composti da diversi gruppi o clan di discendenza patrilineare, in cui l’antagonismo sessuale è pronunciato, ma i legami col clan materno sono promossi da relazioni di patronato tra i ragazzi e il fratello della madre, che contribuiscono al nutrimento dei bambini ed assumono un ruolo protettivo e di sostegno durante le fasi più dure dell’iniziazione. Queste relazioni, che si intersecano con quelle patrilineari che determinano l’appartenenza al clan, servono a imbastire una serie di relazioni che facilitano la convivenza di membri di diversi gruppi in villaggi numerosi, nonostante un ethos violento ed individualista. Iatmul Tra le popolazioni del Sepik, una di quelle più conosciute è quella degli Iatmul, studiati da Gregory Bateson e descritti negli anni 1930 nella sua monografia “Naven”. Gli Iatmul sono pescatori e orticoltori che abitano venticinque villaggi prosperosi sulle rive del tratto mediano del Sepik. Alcuni anni dopo la sua prima ricerca sul Sepik, Bateson ha fatto ritorno al villaggio di Tambunum insieme a Margaret Mead, nel 1938, Lo stesso villaggio è stato ripetutamente visitato da Eric Kline Silverman durante gli anni ’80 e 90’, che lo descrive come un bellissimo villaggio vibrante e prospero, con 1000 abitanti che risiedono in centoventi case enormi ed elaboratamente decorate. L’aspetto della cultura Iatmul che più interessava Bateson era una tradizione chiamata, appunto, naven, e che, secondo lui, permetteva ai membri di diversi gruppi di discendenza ma che risiedevano nello stesso villaggio, di costruire delle salde relazioni e alleanza. Questo era uno dei motivi per cui nonostante la violenza e la volatilità degli uomini del Sepik (caratteristiche apprezzate e volutamente promosse dai riti di passaggio a cui erano sottomessi i ragazzi) i membri di diversi clan riuscissero a convivere in grandi villaggi numerosi. La società Iatmul è strutturata in gruppi di discendenza fortemente patrilineari, ma l’usanza del naven serve a sottolineare e a rinforzare sia simbolicamente che nella pratica i legami matrilineari che si intersecano con quelli che determinano l’appartenenza dell’individuo ad un clan. Ogni bambino ed ogni bambina sono “assegnati”, fin dalla nascita, ad uno zio materno, il suo wau. Lo wau si impegna a costruire e sostenere una relazione privilegiata con il figlio della sorella, il suo laua, gli fa dei doni di cibo, lo sostiene durante le diverse fasi dolorose e spaventose del processo d’iniziazione e, in periodi pre-pacificazione, lo aiutava a commettere i primi omicidi, necessari per diventare un uomo adulto. Inoltre, ogni volta che il suo laua riesce in un’impresa difficile per la prima volta (tipo costruire una canoa, uccidere un coccodrillo, uccidere un abitante di un altro villaggio, o attirarlo con l’inganno in un’imboscata per permettere agli altri uomini di ucciderlo), il wau si traveste da vecchia malandata, e per commemorare l’evento si trasforma in buffone, marciando su e giù per il villaggio e ballando. E’ questo atto di travestimento e di buffoneria, a cui si uniscono anche altri uomini e donne travestiti da membri del sesso opposto che si chiama naven, e la domanda principale che si è posto Bateson nella sua etnografia è perché gli Iatmul avessero 84 questa usanza. La sua risposta era formulata secondo le teorie del funzionalismo strutturale che si stava sviluppando in quegli anni, e dimostrava come da un lato il naven era una conseguenza della struttura della società Iatmul, e dall’altro contribuisse alla riproduzione di quella stessa struttura. La relazione tra wau e laua è una relazione importante per entrambi i partecipanti, è fonte di orgoglio personale, ma soprattutto fornisce ad entrambi un’alleanza stabile e duratura, che li accompagna per tutta la vita, forgiado un legame importante tra membri di due clan diversi. Questa alleanza può essere di importanza fondamentale dato la violenza che caratterizza l’ambiente sia interno che esterno al villaggio. Uno dei processi analizzati da Bateson nella struttura sociale Iatmul è quello che ha chiamato la schismogenesi. Secondo lui questo processo caratterizza le relazioni tra diversi tipi di gruppi e di categorie sociali tra gli Iatmul, ed è una sorta di “interazione cumulativa” in cui un conflitto si intensifica via via che gli antagonisti reagiscono uno all’altro, e reagiscono alle reazioni reciproche, in un processo di feedback positivo, fino a portare alla formazione di fazioni nel villaggio, ed eventualmente alla dipartita di una o più fazioni che decidono di stabilirsi in in altro luogo, formando un nuovo villaggio. Secondo Harrison (1993) questo processo, tipico delle società melanesiane, e in particolare del Sepik, è uno in cui il conflitto e la competizione sono relazioni sociali che in un certo senso “creano” i competitori unendoli in una relazione di conflitto. E’ proprio attraverso questo processo conflittuale, che sfocia in una scissione tra individui o gruppi antagonisti, che si formano le identità sociali degli attori. Il naven, quindi funge come meccanismo di controllo di questa tendenza separatista ed individualista degli Iatmul; permette a tutta una serie di diversi gruppi di convivere più o meno stabilmente in grandi villaggi popolosi, anche in assenza di strutture politiche di controllo sociale. La tradizione del naven lega membri di clan diversi tra loro in relazioni determinati da discendenza matrilineare, che si intrecciano con quelli patrilineari. Questo meccanismo funziona per tenere assieme i villaggi fino a una certa misura, oltre un certo punto l’equilibrio tra le tendenze individualiste e quelle unificatrici si spezza, e la schismogenesi giunge alla sua conclusione. Bateson considerava il naven come un esercizio di travestitismo, e per comprenderlo meglio ha analizzato le differenze e le relazioni di genere tra gli Iatmul. Descrive gli uomini come duri, arroganti, individualisti e poco propensi alla collaborazione, tanto che trovava sorprendente il fatto che riuscissero a convivere in villaggi così numerosi per gli standard melanesiani. Le donne, invece, tendono ad essere allegre e conviviali, soprattutto quando sono lontane dagli uomini. Le relazioni tra uomini e donne sono piuttosto antagoniste, il lavoro quotidiano ricade quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, che raccolgono il cibo dalla foresta, pescano pesci e gamberetti dal fiume, allevano i maiali e si occupano dei bambini. Gli uomini sono cacciatori e, tradizionalmente, guerrieri: attività maschili legate ad un’intensa attività rituale che comporta la costruzione di case rituali speciali, riservate agli uomini, e l’organizzazione di festività spettacolari e riti segreti, da cui sono esclusi i ragazzi non iniziati e le donne. Uno degli scopi di questi rituali e della segretezza che li accompagna è quella di impressionare le donne con il potere maschile e la loro associazione con gli spiriti. Secondo Silverman (2001) il rito del naven è una celebrazione dei successi individuali tramite uno sguaiato capovolgimento caricaturale dei ruoli di genere, in particolare delle caratteristiche associate alla maternità da un lato ed alla mascolinità dall’altra. Tra le imprese che vengono celebrate con la cerimonia del naven nel periodo contemporaneo, Silverman include l’acquisto di un motore fuoribordo e un viaggio in areo. Un altro aspetto della vita sociale degli Iatmul descritto nella monografia di Bateson è la risoluzione dei conflitti. In caso di discordia, o se qualcuno trasgrediva qualche norma veniva convocata una riunione suonando lo slit gong della casa cerimoniale degli uomini, vietata alle donne. Qui i diversi partecipanti prendevano la parte di una delle parti e dibattevano la questione, punteggiando le proprie orazioni coll’azione di sbattere alcuni rami di una pianta particolare su uno sgabello cerimoniale. In alcuni discussioni particolarmente accese gli uomini di una fazione 85 minacciavano di rivelare i segreti totemici del gruppo antagonista. Quando questo avveniva, e un gruppo rivelava in tono di scherno i segreti dei rivali, questi rispondevano con violenza. Silverman, tornato nello stesso villaggio cinquant’anni dopo Bateson, descrive molte trasfomazioni nella vita quotidiana degli Iatmul: le canoe sono fornite di motori fuoribordo, e la dieta tradizionale abase di sago, pesci e tuberi è variata dall’aggiunta di beni comperati nei magazzini commerciali (tradestores) come pesce in scatola, riso, biscotti, caffè, latte in polvere, birra. Altri beni importati ormai entrati in uso comune sono le pile, il kerosene per le lanterne, le aspirine ed il sapone. I bambini vanno a scuola, e c’è un costante flusso di persone che si muovono tra il villaggio ed i centri urbani dove numerosi Iatmul lavorano come insegnanti, commessi, poliziotti, cameriere di hotel, ma anche come avvocati e impiegati negli uffici pubblici. Una delle trasformazioni fisiche più evidenti nel villaggio è che l’imponente casa cerimoniale riservata agli uomini è stata distrutta durante la seconda guerra mondiale, questo ha avuto la conseguenza di sospendere le cerimonie di iniziazione maschili. Eppure, secondo Silverman la modernità non ha completamente eclissato le tradizioni, se la casa cerimoniale non è stata ricostruita, esistono comunque dei luoghi di ritrovo esclusivamente maschili, in scala ridotta, dove gli uomini continuano a fare i preparativi per le cerimonie, a rilassarsi, e partecipare ai dibattiti politici. Le radio o i registratori che trasmettono musica contemporanea sono spenti quando si sente il suono dei flauti sacri, i giovani imparano gli inni della chiesa cristiana, ma sono ugualmente interessati ai canti totemici, alla mitologia tradizionale, e ad apprendere la magia. Il villaggio stesso Tambunum, una volta un nodo centrale dei commerci della regione è diventato un importante “emporio turistico” del Sepik, e vanta una guesthouse per i turisti ed i mercanti d’arte. Il villaggio di Tambunum è considerato uno dei più prolifici produttori di “arte per turisti” del Sepik. E’ vero che la produzione artistica è stimolata soprattutto dal desiderio di guadagnare dei soldi, ma questo non impedisce ai lavori di esprimere visivamente come gli uomini e le donne Iatmul costruiscono la propria identità etnica e personale. L’arte turistica, com’è stata denominata la produzione più commerciale per distinguerla dagli oggetti di carattere sacro che per primi hanno attirato l’attenzione dei visitatori occidentali al Sepik, riesce ad integrare temi tradizionali con simboli e materiali moderni, e rappresenta l’era contemporanea con la giustapposizione di elementi locali ad altri globali. Nonostante che gli abitanti del villaggio siano orgogliosi delle proprie tradizioni, delle loro tradizioni architettoniche, della loro fama di artisti, oltre che della guesthouse per i turisti, anch’essi sono frustrati dalla mancanza di sviluppo economico nella loro regione. Gli Abelam Gli Abelam sono un gruppo numeroso, abitano le pendici meridionali delle Prince Alexander Mountains, del distretto del Sepik. Parlano diversi dialetti di una lingua della famiglia Ndu, uno dei gruppi linguistici più numerosi della Lowland New Guinea. I villaggi costituiscono la principale unità politica e, tradizionalmente, il gruppo funzionale alla guerra. Anche i villaggi sono piuttosto popolosi, la popolazione varia dai 300 agli 800. L’alimento base sono gli ignami, ma si coltivano anche taro, cocchi, frutto del pane e sago; l’allevamento dei maiali fornisce un’importante fonte di proteine, oltre a un bene di scambio per ottenere degli anelli di conchiglia che hanno un valore molto alto tra gli Abelam, costituiscono la ricchezza. Le relazioni di scambio cerimoniale sono molto importanti per gli Abelam e, assieme alle relazioni di scambio occasionate dai matrimoni, che continuano per tre generazioni, costituiscono il modo principale per ridistribuire i prodotti nel villaggio e tra villaggi. Il sistema di scambi cerimoniali, però è soprattutto il principio organizzativo per tutte le cerimonie degli Abelam. Le cerimonie sono eseguite da una metà di un’organizzazione dualistica, che organizza l’iniziazione dei figli dei propri partner di scambi, che appartengono all’altra metà, e ricevono in cambio dei maiali. La cerimonia successiva è eseguita dall’altra metà e i ruoli sono capovolti. Otto cerimonie, di importanza ed elaborazione crescente formano un ciclo rituale. Dato che un uomo può essere 86 iniziato solo ad una cerimonia organizzata dai suoi partner di scambi, ci vogliono due cicli interi per completare l’iniziazione di un uomo, permettendogli di raggiungere lo stadio più alto in questo sistema di iniziazioni graduate. Negli anni 1970 Antony Forge, l’antropologo che ha studiato la società e l’arte degli Abelam, meravigliava alla tenacità con cui gli Abelam continuavano a praticare i culti tradizionali, resistendo alla tentazione dei numerosi cargo cults che hanno interessato l’area del Sepik dopo la fine dell’occupazione Giapponese (Forge 1970: 271), come esempio di questa intensa attività rituale tradizionale cita di aver assistito ad oltre venti cerimonie in due anni e mezzo di ricerca sul campo, e della costruzione di quindici nuove case di culto Abelam nell’arco di sei mesi. Questi dati però risalgono agli anni ’60 e ’70, non so oggi quale sia la situazione. Numerose missioni cristiane hanno iniziato ad operare nell’area dopo la fine della guerra, e quasi tutte inizialmente si opponevano sia al culto che l’arte che costituiva il punto focale delle diverse cerimonie del culto. Quest’area era anche relativamente prosperosa, gli Abelam vendevano caffè, ricavavano polvere d’oro da alcuni torrenti e vendevano sculture lignee, quindi poteva considerarsi tra le aree più “sviluppate” in termini economici, eppure era fortemente tradizionalista e resisteva i culti del cargo, capovolgendo gli stereotipi sullo sviluppo e la religione in Nuova Guinea. Due fattori contribuiscono a spiegare questa situazione: il primo è la natura soddisfacente del long-yam cult (il culto degli ignami lunghi), un culto che Forge definisce “di fertilità e nutrimento di natura decisamente fallica” (:271), che è anche la via principale per l’ottenimento del prestigio maschile; il secondo è la funzione che assume la frequente esecuzione delle cerimonie nella cristallizzazione e riorganizzazione delle relazioni tra individui e gruppi, che quindi permette di portare a termine imprese su larga scala, tra cui quelle che producono denaro, a persone che normalmente sarebbero caratterizzate da un individualismo profondo ed aggressivo. I rituali degli Abelam possono essere divisi in due culti, il culto degli ignami lunghi e il culto tambaran (questo è un termine in tok pisin, che corrisponde al termine Abelam maira, ed è diventato un termine nella letteratura etnografica melanesiana per indicare i culti legati agli spiriti ed alle case cerimoniali maschili del Sepik). I due culti sono distinti concettualmente, e i cerimoniali sono eseguiti in tempi diversi. A livello simbolico i due culti sono uniti in quanto concernono aspetti diversi degli nggwalndu gli spiriti associati con i clan, nominalmente patrilineari, che costituiscono l’unità di base della struttura cerimoniale e dell’organizzazione interna dei villaggi e delle frazioni. Entrambi i culti sono legati alla promozione della fertilità, del prestigio e dell’aggressività maschile. Il long-yam cult comporta la coltivazione di una varietà particolare di ignami, la Discorsa alata in appezzamenti speciali, vietati alle donne, e in cui possono entrare solo gli uomini che osservano tutta una serie di tabù, tra cui quello sul sesso e sull’ingestione di carne. Le diverse fasi della coltivazione di questi ignami lunghi comporta molti rituali e magie, e dura circa sei mesi. Una volta raccolti, gli ignami sono decorati in maniera elaborata, gli viene applicata una maschera di legno o di fibre vegetali intrecciate, sono esposti ed in seguito donati cerimoniosamente al partner di scambi dell’uomo che li ha coltivati. Il prestigio del donatore dipende dal numero e dalla lunghezza degli ignami presentati. (I più lunghi possono raggiungere 4 metri, ma di solito se ne vedono alcuni esemplari di circa 3 metri in tutti i villaggi ad ogni stagione). Le cerimonie del culto del tambaran si tengono dopo che tutti gli scambi di ignami sono conclusi e quando gli ignami sono stati deposti nei loro magazzini. Tutte le cerimonie di questo culto richiedono grandi quantità di cibo, e di solito il raccolto del taro e della varietà di igname da cibo (Discorsa esculenta) sono già completati prima dell’inizio delle cerimonie. La stagione cerimoniale del tambaran deve concludersi prima che inizi il lavoro di disboscamento dei nuovi appezzamenti per la crescita degli ignami lunghi, quindi dura circa quattro mesi. Non si può tenere nessuna cerimonia di nessun tipo durante la crescita degli ignami lunghi. Il culto del tambaran comporta una serie di esposizioni di oggetti d’arte. Ad ogni stadio di iniziazione viene detto agli iniziandi che gli sono mostrati gli spiriti nggwalndu; poi alla cerimonia successiva gli viene rivelato che erano stati imbrogliati la volta precedente, e che questa volta 87 vedranno quello vero. Questo meccanismo si ripete ad ogni stadio fino alla cerimonia finale, quando agli iniziandi sono finalmente mostrate le enormi figure intagliate che sono considerate gli autentici nggwalndu. Dato che un individuo non può essere iniziato dai membri della propria metà dell’organizzazione dualistica, un uomo impiega da venti a trent’ anni a vedere tutte otto le esposizioni. Queste esibizioni avvengono nella casa cerimoniale haus tambaran, costruita su un lato del terreno cerimoniale, con un’altissima facciata cerimoniale (fino a due metri d’altezza) che domina il villaggio e si può vedere da chilometri di distanza. La base della facciata è costituita da stuoie intrecciate in cui si apre l’accesso, sopra c’è un’asse intagliata con delle teste, e la parte superiore e più estesa è occupata da fasce di pitture policrome sulle falange della palma del sago. Tra queste le pitture più grandi e più importanti sono nella fascia inferiore, rappresentano una fila di teste di nggwalndu con grandi occhi rotondi che guardano verso il terreno cerimoniale. L’iniziazione femminile Le bambine sono promesse in sposa ben prima della pubertà. Alla prima mestruazione sono sottoposte ad una cerimonia di iniziazione che comprende un periodo di reclusione ed una serie di scambi ed esibizioni di ricchezza tra il padre ed il suo partner di scambi, seguiti da una cerimonia in cui la ragazza è picchiata e massaggiata con le ortiche dagli uomini. La parte principale della cerimonia è responsabilità delle donne e prende un giorno intero. All’alba la ragazza, tenuta dal fratello della madre, è scarificata sul seno sul ventre e sulle braccia dalle donne anziane. Avvenuta la scarificazione gli uomini sono scacciati dal terreno cerimoniale, dove le donne eseguono i propri cerimoniali segreti in cui, tra l’altro, donne travestite da uomo imitano il comportamento dei mariti e dei fratelli, vengono recitate pantomime sull’atto sessuale che includono consigli su come comportarsi con gli amanti, il rituale è accompagnato da una festa e da molte risate. Solo al tramonto le donne abbandonano il terreno cerimoniale e permettono agli uomini di ritornare per ripulirlo e purificarlo dagli effetti di “tutte quelle vulve” (:274). Dopo l’iniziazione la ragazza è decorata con pitture del viso per accentuarne la bellezza ed inizia un periodo idilliaco in cui non deve lavorare, è la benvenuta ovunque nel villaggio e le viene offerto il cibo migliore. I genitali sono coperti da una versione miniaturizzata di borse di rete, bilum, che in tempi precoloniali era l’unico capo di vestiario mai indossato da uomini o donne Abelam. Dopo circa un anno, la copertura genitale è rimossa, segno che il matrimonio è stato consumato e la ragazza ha iniziato la sua carriera di donna sposata. Iniziazioni tambaran Dati i lunghi tempi necessari per completare il ciclo rituale delle iniziazioni tambaran, un bambino sarà presente a tutte le cerimonie organizzate dal partner di scambio del padre dalla nascita. Tutto quel che è necessario è che il bambino sia fisicamente presente per parte della cerimonia e che il padre doni un maiale al partner che funge da iniziatore. Ci sono anche neonati in braccio al fratello della madre, e bambini di quattro e cinque anni formano un gruppo, una banda di iniziandi che dovrebbero seguire tutta la cerimonia, spesso sono spaventati scappano, soprattutto se sanno che la cerimonia comporta percosse cerimoniali; non sono puniti per questo, ma presi un giro dai loro compagni, e saranno considerati iniziati anche se non hanno effettivamente visto l’esposizione. L’iniziazione non comporta un’istruzione formale, gli iniziandi devono superare alcune ordalie, di solito percosse o massaggi con le ortiche, durante le quali sono portati a braccia dal fratello della madre che in realtà prende su di sé gran parte delle percosse. Uomini con una reputazione di coraggiosi tendono a percorrere il passaggio lentamente, senza schivare i picchiatori, ance se i loro protetti ne sofriranno le conseguenze. Le percosse sono una parte essenziale di alcune cerimonie, e non hanno scopi ulteriori, mentre i massaggi con le ortiche sono considerati di beneficio agli iniziandi. Gli iniziandi devono anche osservare dei tabù per qualche giorno, e devono partecipare a riti specifici, ma non gli viene spiegato niente: vengono tirati fuori per eseguire alcuni riti, poi mandati via fino alla prossima volta in cui sono chiamati. Anche se le cerimonie sono teoricamente eseguite 88 per il loro beneficio gli iniziandi sono le persone meno importanti e reagiscono con un misto di spaesamento e terrore. Le percosse e i massaggi con le ortiche sono particolarmente severi prima del periodo di reclusione, e sono seguiti da istruzioni sulla purificazione necessaria dopo il contatto sessuale tramite delle incisioni sul pene, che vanno eseguite sulla riva di un corso d’acqua in cui va fatto scorrere il sangue. Durante la reclusione i ragazzi sono nutriti col cibo migliore e sono generalmente istruiti sul ruolo degli uomini nella società e sul pericolo rappresentato dal contatto sessuale con le donne agli ignami lunghi e alle cose sacre in generale. L’istruzione non include interpretazioni delle varie cerimonie o racconti di miti. La reclusione dura da tre settimane a due mesi e termina con il rientro cerimoniale degli iniziati, pitturati e decorati con copricapo di penne imponenti. Le pitture facciali sono nello stesso stile utilizzato per le maschere di ignami, per gli nggwalndu, per gli iniziatori, eccetto che gli iniziati hanno gli occhi interamente dipinti dello stesso colore delle guance, tanto da sembrare non solo ciechi, ma senza occhi. Alla fine di questa sfilata la haus tambaran e la camera interna in cui sono avvenute le iniziazioni sono chiuse, per dare inizio alla stagione della coltivazione degli ignami lunghi: i padri doneranno ai propri partner di scambi gli ignami decorati pre “pagare” l’esibizione rituale. Al termine degli scambi la camera iniziatica è riaperta e smantellata dagli iniziati e dai loro padri: solo ora gli iniziati imparano com’era costruita l’esibizione, e vedono le diverse componenti di quello che durante l’iniziazione appariva una massa di colore e facce spaventose. Circa dieci anni dopo gli stessi iniziandi, assieme ai loro padri e fratelli maggiori, costruiranno a loro volta l’esibizione per i ragazzi dell’altra metà rituale, imparando a loro volta a preparare la cerimonia. Ogni Abelam partecipa nel corso della sua vita a quattro esecuzioni di ogni cerimonia del ciclo rituale (come iniziando e come padre dell’iniziando in cerimonie organizzate dall’altra metà rituale, e come iniziatore junior e senior quando è la propria metà organizzare la cerimonia), dopodiché viene escluso dai rituali del tambaran. Oltre a partecipare alle cerimonie del tambaran, i bambini tra gli otto e la pubertà hanno un ruolo importante nella vita rituale degli uomini adulti, proprio per il fatto di essere vergini. Gli Abelam hanno credenze molto forti sui pericoli dell’attività sessuale per le attività rituali, anche se parlano del pericolo della vulva, in realtà non sono le donne in quanto donne ad essere temute, ma i rapporti sessuali. Gli uomini giovani, sposati da poco non sono considerati abbastanza affidabili da seguire i tabù sull’attività sessuale per tutti i sei mesi necessari alla coltivazione degli ignami lunghi. Fino ai trent’anni i giovani adulti sono esclusi dal culto degli ignami lunghi. Sono gli anziani che si occupano dei loro ignami cerimoniali, accrescendo il proprio prestigio personale. I bambini prepuberali sono molto importanti per la coltivazione degli ignami cerimoniali, sono loro a preparare il terreno per la piantagione e, sotto la supervisione degli anziani, a preparare e distribuire le sostanze magiche utilizzate ad ogni fase della coltivazione. I bambini pre puberali sono anche usati per evitare i pericoli della contaminazione nella distribuzione dei benefici di una cerimonia tambaran. I villaggi che hanno contribuito ai preparativi portano alcuni anelli in conchiglia di grandi dimensioni e valore e li dispongono davanti all’esposizione per i tre giorni della cerimonia. Questi anelli, col pugnale di osso di casoario piantato nel mezzo sono simboli di pace e collaborazione, ma sono anche nel cuore dell’esposizione vera e propria e al centro dell’aspetto sacro della cerimonia. Alla fine sono portati fuori sul terreno cerimoniale, adagiati su foglie di banano e lavati cerimoniosamente con latte di cocco trattato magicamente dai bambini vergini, i quali in seguito prenderanno lo stesso latte di cocco e lo spargeranno sulle case cerimoniali, sui nggwalndu, e sugli ignami lunghi del villaggio, trasferendo a tutti questi oggetti i benefici rituali ottenuti con la cerimonia. Una volta raggiunta la pubertà i ragazzi sono esclusi dai riti della coltivazione degli ignami lunghi fino a quando hanno raggiunto la maturità da privilegiare le attività legate alla costruzione del proprio prestigio all’attività sessuale. Gli uomini non sono considerati veramente adulti fino ai trent’anni, nei primi anni di matrimonio sono pochi quelli che riescono a sostenere da soli la propria famiglia, allo stesso tempo sono esposti 89 ad una serie di cerimonie durante le quali gli vengono mostrati oggetti scolpiti e pitture in condizioni di grande tensione, e associate a rituali di cui non capiscono molto se non la costante associazione al dolore. L’arte degli Abelam e i rituali Tutta l’arte degli Abelam è fondamentalmente legata ai culti, l’arte decorativa esiste ma è derivata da quella sacra, e non comporta la pittura. La pittura, diversamente dalle sculture e dalle incisioni, è un’attività sacra. La magia viene usata dagli artisti anche per le altre forma di produzione artistica, ma solo per motivi utilitari, mentre nel caso della pittura è una parte essenziale del rito, è eseguita da tutto il gruppo degli iniziatori nelle fasi finali dei preparativi. La fase della pittura è inaugurata e conclusa con feste e distribuzioni di cibo; gli iniziatori si purificano ritualmente dai contatti con le donne e osservano tabù sul sesso e sull’ingestione di carne per tutta la durata di questa fase (gli stessi tabù associati alla coltivazione degli ignami) Tutte le sostanze che hanno poteri magici e sovrannaturali sono classificati dagli Abelam come pittura. La pittura usata nelle cerimonie tambaran non è intrinsecamente potente, ma diventa il mezzo per trasferire i benefici rituali della cerimonia a coloro che vi partecipano. L’effetto dell’arte Abelam dipende dai colori vivaci e contrastati nelle pitture policrome. Le sculture hanno meno valore rituale, è un’attività specialistica, eseguita in segreto, ma non è una parte essenziale del rituale. Molti uomini non partecipano mai alla scultura, mentre tutti dipingono o preparano la pittura che è applicata a tutte le sculture, ai pannelli della facciata e ai pannelli utilizzati per costruire la camera dell’iniziazione costruita all’interno della haus tambaran in occasione di ogni cerimonia. In generale le sculture sono di forme umane, ma alcune, soprattutto quelle che rappresentano gli spiriti hanno una testa molto grande. Le facce sono dipinte secondo modelli precisi che includono una serie di elementi: ornamenti della fronte e del naso, e colori convenzionali: occhi neri, guance gialle, ecc. In questo modo tutte le facce si somigliano e sono anche assimilabili a quelle delle maschere applicate agli ignami lunghi, e a quelle degli iniziatori delle cerimonie. Secondo Forge l’identificazione tra uomini, spiriti ed ignami è uno dei principali messaggi simbolici dell’arte sacra Abelam (1970:280). Ma gli spiriti hanno più di una faccia, sono rappresentati diversamente nelle sculture e nelle pitture bidimensionali. Infatti né le pitture né le sculture sono intese dagli Abelam come “rappresentazioni” degli nggwalndu, non sono tentativi di mostrare come sono fatti gli spiriti, ma sono differenti “manifestazioni” degli spiriti. (Questi si possono anche manifestare come maiali selvatici feroci, rumori nella foresta, in sogno come uomini giganteschi). Le sculture chiamata nggwalndu sono gli oggetti più sacri per gli Abelam, permettono un contatto ravvicinato con gli spiriti, possono essere usate dagli uomini per manipolare o controllare il comportamento degli spiriti, ad esempio in seguito ad una serie di malattie o eventi sfortunati è stato scolpito un nuovo nggwalndu che ha rimpiazzato quello dall’influenza negativa, inaugurando un periodo di prosperità e benessere. Per Forge, l’arte Abelam comunica dei valori fondamentali della società, ma questa comunicazione non avviene a livello pienamente cosciente, comunque non costituisce un bagaglio di conoscenza verbalizzabile. Non esiste una iconografia sicura, i differenti elementi dei disegni, e le varie combinazioni possibili sono essenzialmente ambigui, l’interpretazione varia a seconda del contesto artistico e sociale e della persona che lo interpreta. Infatti gli Abelam non si interrogano sul significato delle pitture. I singoli elementi hanno nomi e sono assemblati in composizioni armoniche, che agiscono su chi le guarda, senza essere verbalizzate. L’arte degli Abelam, per Forge, concerne relazioni, non cose. La sua funzione principale è di mettere in relazione cose differenti nei termini della loro collocazione nell’ordine cosmologico e rituale, ma questa funzione non è espletata direttamente, non è l’illustrazione di concetti espressi anche tramite la parola. L’arte degli Abelam è una forma di comunicazione che opera con regole proprie per comunicare cose che non possono essere comunicate altrimenti. Una delle funzioni del sistema delle iniziazioni, con le ripetute esposizioni ad oggetti d’arte è quello di insegnare ai giovani a vedere l’arte, non per poterla 90 interpretare consciamente, ma in modo che ne siano direttamente toccati. Dalle loro esperienze quando erano bambini vergini, e da quelle associate alle iniziazioni, i giovani Abelam imparano a considerare la pittura come un elemento associato ai poteri sovrannaturali, e gli oggetti pitturati come oggetti misteriosi di grande importanza rituale; sono al cuore delle cerimonie e loro devono soffrire prima di vederle. Non è dall’iniziazione vera e propria che gli iniziandi apprendono delle verità cerimoniali, secondo Forge, ma prima smontando la propria camera iniziatica e poi preparando quella per gli iniziandi dell’altra metà rituale del villaggio (1970: 278). Gli Umeda Gli Umeda vivono in una zona remota e montuosa della West Sepik Province, vicino al confine con l’Irian Jaya. Anche questa cultura è caratterizzata da un’intensa attività rituale collegata alla promozione della fertilità sia naturale che umana, ma in questo caso le attività rituali sono associati ad una diversa forma di espressione artistica, la danza. Alfred Gell ha analizzato una sequenza di danze rituali, chiamata ida (Gell, 1975). A differenza degli abitanti dei grandi villaggi sulle rive del fiume, il problema per gli Umeda, è quello di assicurarsi l’esistenza e formare un gruppo sociale duraturo nel tempo in un ambiente difficile e ostile. Il terreno poco fertile e la malaria endemica risultano in una densità di popolazione molto bassa, e un’alta mortalità. Gli Umeda vivono delle risorse della foresta e per la maggior parte dell’anno devono abbandonare i villaggi e sparpagliarsi in piccoli gruppi negli accampamenti provvisori dove possono cacciare e produrre il sago. Una volta l’anno, se le condizioni lo permettono, e durante un periodo di relativa prosperità i membri dei villaggi si riuniscono e danzano per celebrare il fatto di essere riusciti a non soccombere; celebrano la vittoria sulla morte e sulla disintegrazione sociale. Il tema principale di queste danze è proprio la relazione ambivalente tra l’uomo e la foresta che da un lato gli permette di vivere, ma dall’altro lo costringe ai ritmi dettati dalla foresta e a vivere scomodamente, ed in balia dei pericoli che lì si trovano (spiriti, fantasmi e stregoni). Con le danze gli Umeda affermano la supremazia della cultura e della civilizzazione umana sulla natura, e allo stesso tempo dimostrano di avere il controllo in ultima analisi della fertilità delle donne da un lato e della foresta dall’altro. Lo scopo di queste danze è di drammatizzare in un contesto rituale, e quindi di promuovere, i processi della rigenerazione bio-sociale, un compito che culmina con l’apparenza degli arcieri ipele, che sono uomini “nuovi”, prodotti proprio dall’azione rituale delle danze. Sia le maschere che i diversi stili associati ai diversi momenti delle danze codificano questo ciclo di rigenerazione rituale dell’ambiente naturale e della società e, secondo Gell, rappresentano un insieme di trasformazioni dello stesso essere, non esseri diversi. La cerimonia ida dura due giorni e due notti. Consiste nell’apparizione nel centro del villaggio, di una sequenza di danzatori mascherati, che danzano in uno spiazzo rituale davanti a un pubblico composto da membri del villaggio e da alcuni visitatori. Anche le donne danzano, ma senza maschere o ruoli specifici, lo stile della loro danza e il loro abbigliamento le associa alla natura ed ai poteri della fertilità. Ogni fase del rituale è inaugurata dall’ingresso di un nuovo tipo di danzatore, che rappresenta una trasformazione dei danzatori precedenti, uno “stadio evolutivo” che li avvicina all’apoteosi rappresentata dagli arcieri ipeli, l’uomo. Come per culture delle rive del Sepik, la pittura è considerata come una sostanza dai poteri magici, ma gli Umeda la applicano al corpo dei danzatori non solo per abbellirli, ma per esprimere una trasformazione avvenuta. Dipingere è un’attività sacra e trasformatrice. I primi danzatori sono mascherati da casoari, dipinti di nero e con una maschera che richiama la boscaglia, e danzano in maniera scomposta, rappresentano la natura, il selvatico, l’incontrollabile, il primordiale. Questo ruolo porta grande prestigio al danzatore ma, allo stesso tempo ha un valore negativo. Man mano che il rituale procede i danzatori rappresentano ruoli che si distanziano sempre più da questo modello, i casoari sono seguiti dai danzatori che rappresentano il sago, pianta che cresce naturalmente ma è trasformata in cibo dall’operazione culturale di uomini e donne, questi 91 sono seguiti dai danzatori che rappresentano la legna da ardere, poi i pesci, emblematici della mascolinità eroticamente attraenti, ma con maschere che evocano temi culturali (costruite con piante coltivate e dipinte con gli emblemi del clan). Durante il secondo giorno arrivano i danzatori “termiti”, uomini maturi, con astucci penici più discreti di quelli precedenti e maschere più semplici, rappresentano la domesticità e la cura dei bambini, ogni tanto sono raggiunti da danzatori spaventosi o ridicoli. Al culmine della seconda giornata arrivano i danzatori ipele nuovi uomini dipinti di rosso, cacciatori novelli , accompagnati dai precettori. Con le danze rituali ida gli Umeda effettuano a livello simbolico una rassicurante riconciliazione tra la cultura e la natura. I poteri naturali della foresta e delle donne sono celebrati ma civilizzati per renderli risorse culturali dell’uomo: la cultura è usata per controllare la natura. Solo alla fine entrano i nuovi uomini, che chiudono il ciclo rituale scoccando delle frecce che volano sopra i tetti del villaggio per infilarsi nella fitta vegetazione della foresta, così fecondandola e rendendola produttiva per la stagione successiva. Le Culture della costa sud della Nuova Guinea L’area culturale delle popolazioni non-Austonesiane, o Papuane della costa meridionale della Nuova Guinea si estende per 2500 chilometri di costa paludosa. Questa costa paludosa e influenzata da forti correnti e maree era difficile da avvicinare dal mare, l’interno prometteva poche opportunità di sfruttamento o di profitto, e gli abitanti avevano una reputazione di violenza: tutti questi fattori hanno scoraggiato l’intrusione coloniale nel XIX secolo. Questa regione è rimasta fuori dall’influenza dell’economia politica statale più a lungo di tutte le altre regioni costiere del mondo, a parte quelle delle regioni artiche (Knauft 1993:26). Il primo Europeo a stabilire un contatto continuativo con le popolazioni della parte orientale della costa fino all’estuario del fiume Fly, il Reverendo James Chalmers della London Mission Society. Il missionario fu ucciso con i suoi dodici compagni a Goriari Island nel 1901. Il controllo coloniale della parte papuana della costa è stato stabilito molto gradualmente con pattugliamenti occasionali e laboriosi tra il 1890 e il 1920, l’influenza coloniale in genere si diffondeva gradualmente lungo la costa da est a ovest. Fino alla seconda guerra mondiale l’influenza occidentale in quest’area si limitava alla soppressione della caccia alle teste, un piccolo flusso di beni importati, una cristianizzazione superficiale tranne che in alcune mission stations stabili e ben radicate in località definite, e alcuni tentativi di sviluppare imprese commerciali. Anche qui il disinteresse politicoeconomico ha stimolato l’interesse di numerosi etnografi tra il 1910 e il 1930, incoraggiati da Haddon a registrare i dettagli etnografici che sarebbero serviti ai teorici completare un mosaico comparativo, per esempio sulla diffusione dei tratti culturali e dei culti (Knauft, 1993: 31). La parte occidentale della costa sud divenne colonia olandese nel 1828. Se la parte settentrionale della colonia aveva avuto numerosi contatti con i commercianti provenienti da Indonesia e Malesia, questa costa aveva scoraggiato anche questi navigatori. Gli olandesi lasciarono il controllo dell’area quasi totalmente al sultano di Tidore fino alla metà del 1900. La prima postazione coloniale fu stabilita tra i Marind-Anim nel 1902 in risposta alle proteste del governo inglese per i raid che cacciatori di teste di queste tribù conducevano oltre confine. Nelle tre decadi successive i Marind-Anim furono pacificati e portati sotto influenza missionaria dagli olandesi. Van Baal ( ha compilato un’imponente ricostruzione della cultura precoloniale, utilizzando fonti diverse, ma dopo il primo periodo coloniale ci sono state poche opportunità per studi etnografici in quest’area, e attualmente il governo Indonesiano non favorisce la ricerca sui temi degli sviluppi contemporanei in Irian Jaya. Indipendentemente delle differenti storie degli ultimi centocinquanta anni, la costa della Nuova Guinea meridionale è caratterizzata da attributi sia geografici che culturali che hanno influito sulla loro storia a lungo termine e giustificano la definizione di quest’area come regione culturale (Knauft 1993:37). Queste caratteristiche includono la facilità del movimento e del trasporto su canoa lungo i fiumi, nei delta e nelle paludi; la crescita spontanea ed abbondante di palme da sago, e l’abbondanza di pesce e mollluschi. Questi due fattori sommati hanno permesso agli abitanti dell’area di 92 sviluppare affiliazioni politiche su larga scala, che comprendevano abitanti di territori estesi, o l’aggregazione residenziale di diversi gruppi in villaggi popolosi, nonostante che la densità della popolazione in quest’area è, in generale, bassa. Questa regione ha visto lo sviluppo di diverse tipologie di formazioni socio-politiche, accompagnate da sistemi rituali e di culto elaborati e per noi occidentali, esotici. Dal punto di vista linguistico quest’area comprende numerose lingue non-Austronesiane (o Papuan), a est e a ovest di questa regione, dove la costa diventa più stretta e montuosa, si sono insediate popolazioni Austronesiane. Esistono alcune differenze tra le popolazioni costiere e quelle dell’interno, legate all’ambiente in cui vivono: i villaggi sul mare tendono ad essere più popolosi, a mantenere un maggior livello di coerenza interna e integrità sia sociale che culturale dei gruppi più piccoli e più mobili dell’interno, su cui comunque esiste meno materiale etnografico pubblicato. Quest’area è associata nella letteratura con l’omosessualità rituale, anche se in realtà questa è presente in una minoranza di culture della costa meridionale, soprattutto nella porzione centrale della costa, e all’interno lungo il fiume Fly. Permutazioni “a catena” di pratiche simboliche e politiche simili attraversavano i confini culturali e linguistici della costa meridionale, fornendo una base per l’interazione tra gruppi diversi e distanti, tramite legami commerciali e la diffusione di culti. Nel periodo pre-coloniale, e quello immediatamente successivo al contatto le popolazioni di quest’area presentavano molte caratteristiche comuni: 1. credenze mito-cosmologiche legate alla necessità di rigenerare la fertilità 2. queste credenze si articolavano in diverse maniere con: • rappresentazioni rituali elaborate usando oggetti o maschere per incarnare esseri mitici o ancestrali • riti per la promozione della fertilità e della rigenerazione basati su pratiche orgiastiche rituali, eterosessuali e in certi casi omosessuali • organizzazione di feste di scambi • guerre tribali, particolarmente associate alla caccia alle teste, come mezzo di esplicitare e aumentare la forza spirituale e sociale del gruppo locale. Le variazioni locali su questi temi comuni sono numerose e risultano in moltissime differenze culturali tra le diverse culture di questa regione. Ogni cultura articola diverse versioni delle credenze sulla fertilità con pratiche di sussistenza, di organizzazione politica, di genere, oltre che di guerra e rituali, con risultati differenti. Alcuni di questi temi generali, però richiamano alla memoria quelli che, sempre a livello di generalizzazione su scala regionale, sono associati all’altra grande zona associata alle pianure e ai grandi sistemi di fiumi e paludi, il Sepik. Gli Asmat: L’arte e la trasformazione dei significati Gli Asmat popolano la costa meridionale dell’Irian Jaya (o West Papua) sono rinomati per la produzione di sculture lignee elaborate e per il fatto che nel periodo precedente alla pacificazione erano cacciatori di teste, nel contesto di serie di raid vendicativi tra gruppi vicini. Sia le missioni cristiane che il governo indonesiano hanno vietato le guerre aperte e le tradizioni legate all’acquisizione di prestigio maschile tramite la caccia alle teste umane. Questa tradizione era basata sull’idea che un guerriero, prendendo la testa di un nemico aumentasse la propria forza vitale e allo stesso tempo appagasse gli spiriti dei morti che pretendevano di essere vendicati. Solo dopo essersi provato come guerriero, procurandosi sei teste, un uomo poteva sponsorizzare una festa cerimoniale per far erigere un palo rituale intagliato, chiamato bisj. Uomini che non riuscivano a procurarsi una testa erano disprezzati e difficilmente riuscivano sposarsi (Knauft: 1993). I leader dei guerrieri, spesso avevano più di una moglie. Il territorio degli Asmat copre un’area di circa 422 chilometri quadrati, e la loro popolazione attuale è stimata tra i 65.000 e gli 85.000. L’ambiente costiero è costituito da una palude fangosa e soggetta ad alluvioni, un complesso reticolato di corsi d’acqua: una sfida alla resistenza ed all’ingegno 93 umano. Gli Asmat si muovono spesso e coprono grandi distanze, usando i fiumi e le canoe. La sussistenza degli abitanti è assicurata dal sago, a cui si aggiungono le proteine apportate dalla caccia ai maiali selvatici, ai marsupiali, ai coccodrilli, e al casuario, oltre che dalla pesca e dalla raccolta di frutti della foresta e dalle larve del sago (larve dello scarabeo capricorno). Il casuario è importante sia come selvaggina che per il posto che occupa nella mitologia. Le lunghe ossa delle gambe erano utilizzate nella produzione di coltelli e attrezzi per scolpire il legno. Il coccodrillo, il calao (bucero), la lucertola e la tartaruga hanno tutti un ruolo nella mediazione spirituale tra i vivi e i morti. Non tutti gli Asmat vivono in questo ambiente ricco ma difficile delle paludi, alcuni abitano le colline Jayawijaya all’interno. Le paludi sono dominate da arbusti spinosi e grandi alberi, piogge torrenziali e alluvioni sono occorrenze comuni, come la malaria. Data la frequenza dei raid di guerrieri gli Asmat costruivano torri di guardia: la frammentazione sociale dovuta a questo stato di guerra costante è anche considerata la causa delle numerose lingue parlate nell’area, anche se alleanze politiche hanno occasionalmente unito gruppi di lingue diverse. Un ulteriore motivo per la frammentazione dei gruppi erano le epidemie. Gli Olandesi si aggiudicarono la metà occidentale della Nuova Guinea nel 1793, ma questa regione rimase inesplorata fino ai primi anni del 1900; stabilirono una postazione a Meruke e da lì procedettero a pattugliare il territorio Asmat. Nel 1938 gli Olandesi impiantarono una centro a Agats, gli Indonesiani arrivarono negli anni ’60. L’arte e i riti tradizionali Asmat erano legati alle attività della guerra, quindi molti aspetti della loro vita cerimoniale sono stati vietati dal governo Indonesiano. Le autorità volevano costruire una nazione nuova e moderna, inoltre gli ufficiali indonesiani erano spaventati dalle storie di cannibalismo di caccia alle teste degli Asmat, quindi assunsero un atteggiamento repressivo nei confronti di questa cultura. Bruciarono le case degli uomini, i centri rituali dei villaggi, e vietarono le danze e i tamburi. Più tardi però, dal 1968 le sculture lignee degli Asmat (come quelle dei Gogodala in Papua Nuova Guinea) hanno vissuto un revival: sono state riappropriate come forma artistica legata all’identità locale, oltre che come oggetto da vendere ai turisti. Questo revival è stato possibile per l’interesse occidentale per le sculture Asmat, un interesse che ha origine nei primi due decenni del 1900 quando alcune sculture furono portate in Europa dagli esploratori e dai collezionisti di arte etnica. Dal 1968 gli sforzi del vescovo cattolico americano ad Agats, Alphonse A. Sowada, e dell’United Nations Asmat Art Project, hanno contribuito alla rinascita di questa forma di espressione artistica. Dal 1981 i missionari cattolici organizzano ogni anno un festival competitivo per villaggi ed artisti individuali. Esiste anche un museo di arte Asmat nel loro territorio (Schneebaum, 1990). Gli scultori Asmat sono conosciuti soprattutto per i pali intagliati bisj e per la diversità dei disegni intagliati sugli scudi. Sia la parte superiore dei bisj che gli scudi erano intagliati da ‘assi’ ricavate dalle flangie esterne delle mangrovie della palude. Per procurarsi queste flangie si organizzava una spedizione rituale; l’albero della mangrovia era considerato uno spirito nemico che doveva essere ‘inseguito’ prima di essere ‘catturato’ e abbattuto. I bisj raggiungevano una lunghezza tra i 5 e i 7 metri, ed erano intagliati con una serie di rappresentazioni di antenati e di calao. Alla base veniva intagliata una canoa, considerata il ricettacolo della forza vitale delle vittime uccise dagli sponsor della festa durante la quale un bisj veniva eretto. Gli sponsor avevano la responsabilità di retribuire gli scultori, wow-ipits, e di fornire il sago dalle proprie palme per una festa durante la quale si erigeva il nuovo palo. L’idea centrale di questi rituali era quella della ciclicità delle sostanze: la forza vitale, o nammu, del cacciatore di teste passava nel bisj, che era piantato nella foresta, vicino alle palme del sago, di modo che le palme potessero assorbirne il nammu. Più tardi, quando la gente consumava il sago prodotto dalle palme ingerivano quindi la forza vitale del proprio leader. La caccia alle teste era collegata anche all’iniziazione dei ragazzi. Un guerriero, presa una testa, la dava ad un ragazzo che doveva rimanere recluso con la testa per un certo periodo, fino ad emergere con l’identità della vittima. Perfino i parenti della vittima riconoscevano al ragazzo un legame di parentela. I wow-ipits, o gli intagliatori, erano rispettati nella comunità. Con le loro sculture catturavano la 94 forza vitale che per sua natura era sfuggevole e circolante, legandola al ciclo vitale di un leader specifico ed al suo gruppo. Data l’importanza della guerra, gli intagliatori erano anche molto richiesti per decorare gli scudi dei guerrieri, oltre che le prue delle canoe da guerra. Ad ogni scudo veniva attribuito il nome di un antenato specifico. La sua forza veniva inscritta nello scudo, e aiutava il guerriero a prevalere sui nemici. I disegni sullo scudo, bianchi rossi e neri, dovevano terrorizzare il nemico. Il colore bianco era ricavato polverizzando delle conchiglie bruciate, applicato alle canoe serviva a proteggerle e renderle veloci. Il rosso era ottenuto arrostendo la terra ocra, anche questo colore attribuiva velocità, ma essendo associato agli occhi di un cacatoa nero arrabbiato, era applicato anche per spaventare il nemico. Nelle rappresentazioni pittoriche degli esseri umani il bianco rappresenta la pelle, il rosso le scarificazioni della pelle, il nero i capelli. I disegni sugli scudi Asmat variano a seconda della zona di provenienza, anche se hanno molti elementi in comune. La parte alta dello scudo, o testa, a volte è chiamata il pene, come anche la parte superiore dei bisj , anche questa intagliata dalle flangie della mangrovia utilizzata negli scudi. I disegni sugli scudi rappresentano canguri arboricoli, buceri, pipistrelli, tartarughe, casoari, o razze, tutte creature associate alla natura selvaggia, che incarnano la fertilità. Gli scudi dovevano sempre essere mantenuti in piedi dal verso giusto, capovolti significavano la perdita del potere ed indicavano la resa. Gli Asmat della costa credevano che i loro antenati prendessero la forma di cacatoa neri o di pipistrelli, quindi li dipingevano sugli scudi. Questi ed altri animali erano rappresentati con disegni stilizzati, figure di cerchi e ganci. I disegni astratti erano più comuni negli scudi degli Asmat delle zone interne. Nella parte alta di alcuni scudi venivano disegnati dei cerchi, a rappresentare gli occhi, che attribuivano allo scudo l’apparenza di una smorfia aggressiva. Altri disegni mostravano le creature della foresta in associazione con gli esseri umani, ed erano comuni sui pali cerimoniali, sugli scudi, sui tamburi e sulle canoe, dimostrando un comune senso estetico che si riproponeva in diversi contesti. Questa unità di concetti in origine era fondata nelle attività legate alla guerra ed alla caccia delle teste. Le forme artistiche sono sopravvissute alle trasformazioni dovute all’imposizione della pace e del cristianesimo, anche grazie all’interesse dimostrato dagli stranieri, oltre che per l’orgoglio interno per l’abilità artistica degli scultori. Gli intagliatori Asmat utilizzano attrezzi metallici che sostituiscono o si aggiungono a quelli tradizionali in osso di casuario o pietra. In seguito al recente revival artistico degli Asmat, i wow-ipits hanno cominciato a modificare i disegni per la vendita ai turisti e ad allargare il proprio repertorio ad includere simboli nuovi, come madri col bambino e l’uccello Garuda, simbolo dell’Indonesia, ma con una testa di calao. Gli artisti usano anche ritagli di legname utilizzato dalle segherie locali per la costruzione di case e chiese, ed hanno sviluppato un nuovo stile di scultura, ajur, utilizzando dei legni moto duri (ironwood). Queste sculture sono ideali per il mercato turistico perché non si rompono in viaggio. Per venire incontro alle richieste dei turisti sono state modificate alcune altre cose rispetto ai lavori tradizionali: i falli od altre parti sporgenti sono stati ‘piegati’ all’insù per evitare che si rompano nel trasporto, si producono delle false prue per canoe, o su commissione, crocifissi per le chiese cattoliche che in questa zona sono costruite incorporando elementi della cultura indigena. Anche se la caccia alle teste è stata soppressa, la creatività degli Asmat, e l’idea della ciclicità della vita e della morte continua ad essere espressa dalla vita e dalle sculture Asmat. forms unsure 95 VANUATU Repubblica di Vanuatu “Isole senza tempo” o “Terra che si regge in piedi (da sola)” è il nome scelto dai suoi abitanti per questa piccola nazione del Pacifico quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1980. Da allora Vanuatu è una repubblica, con una costituzione democratica ed elezioni ogni quattro anni. Il Capo di Stato è un Presidente (attualmente John Bani) e il Capo del Governo il Primo Ministro (Edward Natapei) Geografia Vanuatu comprende 82 isole nel mar dei Coralli, divise in 3 gruppi. Si trovano a circa 2250 chilometri a nord-est dall’Australia. Le nazioni vicine sono tutti island states, ci sono le Figi a 800 chilometri verso est, le Isole Solomoni a nord e la Nuova Caledonia a sudest. La superficie totale della terra di Vanuatu copre 14.700 chilometri, mentre le acque territoriali coprono una superficie di 450.000 chilometri quadrati. L’arcipelago si trova sul Pacific Rim of Fire, una faglia nella crosta terrestre, soggetta a terremoti ed eruzioni. Le isole sono tutte di origine vulcanica, e contano numerosi crateri estinti e vulcani attivi. La zona più attiva è la linea centrale delle isole. Aoba (1450 metri) e Ambrym sono i vulcani più pericolosi, Lopevi sembrava addormentato fino a 50 anni fa quando ha ripreso ad eruttare. Yasur, sull’isola meridionale di Tanna è considerato il vulcano più attivo del mondo. Questa attività geologica costituisce uno dei problemi economici del paese, anche se cercano di sfruttarne il potenziale turistico. Un grave terremoto nel 1999 fu seguito da un’onda anomala, tsunami, che causò gravi danni all’isola di Pentecoste distruggendo migliaia di case. Nel 2002 fu la capitale PortVila ad essere colpita da un terremoto seguito da uno tsunami. Il clima è tropicale, moderato da venti da sud-est, ma soggetto a cicloni tropicali nella stagione delle piogge che va da novembre ad aprile (in certi posti le precipitazioni possono raggiungere i 4 metri all’anno!). Il territorio è prevalentemente montuoso (arriva a 1877 metri) con strette pianure costiere. L’economia dipende largamente sull’agricoltura di sussistenza, che sostiene il 65% della popolazione. Altrimenti le risorse economiche principali sono costituite dall’estrazione del manganese, foreste di alberi di legno duro, l’esportazione della copra, e dalla pesca. In anni recenti il governo, convinto che lo sviluppo economico basato sull’esportazione di risorse naturali sia comunque difficile per una nazione piccola, vulnerabile a disastri naturali, costituita da isole distanti tra di loro, e lontana dai mercati principali, ha puntato sullo sviluppo del turismo, sfruttando le meraviglie naturali e spettacolarizzando cerimonie rituali dei suoi cittadini più esotici e “primitivi “ (50.000 turisti nel 1997). Dagli anni ’70 il settore del terziario è stato favorito da politiche basate sull’offerta di servizi finanziari e facilitazioni fiscali a imprenditori stranieri, e con lo sviluppo di un international offshore finance centre (http://www.vanuatugovernment.gov.vu/vanuatugov.html.) . I maggiori problemi di carattere ambientale sono la mancanza di fonti di acqua potabile e sicura per la maggioranza della popolazione e la deforestazione, anche se il terreno ripido di alcune isole ha scoraggiato lo sfruttamento delle foreste, che ancora ospitano alberi giganti di baniano (Ficus benghalensis) e pini (Agathus australis), oltre a qualche albero di sandalo sopravvissuto ai commercianti di legname del secolo scorso. Popolazione Gli abitanti di Vanuatu si chiamano Ni-Vanuatu. La capitale, Port Vila, è sull’isola Efate, che Cook aveva battezzato Sandwich, in onore di Lord Sandwich. 96 La maggioranza della popolazione, che si aggira sui 199.000 (2003) abita le dodici isole più grandi. La grande maggioranza, oltre il 90% sono melanesiani, ma a Vanuatu vivono anche minoranze francesi, inglesi, australiane, neozelandesi, vietnamite, cinesi, oltre che provenienti da altre isole del Pacifico. Le lingue ufficiali sono tre: l’inglese, il francese ed il bislama (l’inglese pidgin di Vanuatu), che è condivisa da tutti in ni-Vanuatu, a prescindere sia del gruppo locale, che dalle influenze coloniali.7 Nei villaggi sparsi sulle isole si parlano circa 115 lingue diverse, ognuna associata a tradizioni culturali distinte.8 Le religioni praticate dai Ni-Vanuatu riflettono la loro storia: mentre il 7,6 % dichiara di aderire a religioni animiste o tradizionali e il 15,7% si professano seguaci di altre religioni, tra cui il culto di John Frum (cargo cult che si è diffuso dall’isola di Tanna), il resto si divide tra le diverse chiese cristiane che hanno inviato missionari nelle isole 15% Anglicani, 15% Cattolici, 6,2% Avventisti del Settimo Giorno, e il 3,8% Chiesa di Cristo (dati del 2003). Storia pre-coloniale I ritrovamenti archeologici suggeriscono che i primi coloni, portatori della cultura “Lapita”, sono arrivati oltre 3000 anni fa sull’isola di Erromango. In seguito si svilupparono altri stili locali di ceramiche sulle isole circostanti, con incisioni e rilievi applicati (che gli archeologi hanno battezzato Mangaasi). Le tradizioni orali ni-Vanuatu hanno fornito importanti informazioni sulla preistoria delle isole, poi confermate da scavi archeologici. La tradizione riferiva di una località sull’isola di Retoka in cui Roy Mata, un capo molto importante, sarebbe stato seppellito insieme a numerosi parenti. Gli scavi di José Garanger confermarono l’esistenza di una sepoltura collettiva, in cui uno scheletro maschile occupava una posizione centrale, mentre coppie di scheletri maschi e femmine abbracciati erano sepolti ai lati. Gli scheletri erano decorati con frontali di conchiglie, bracciali in conchiglia, e zanne di maiale. Il sito è stato datato tra 650 e 400 anni fa, il che testimonia l’attendibilità e la durabilità delle tradizioni orali locali. L’archeologo Matthew Spriggs riferisce che secondo le tradizioni orali dell’isola le donne sarebbero state drogate con la kava, mentre gli uomini erano coscienti al momento della sepoltura. Questa sepoltura dimostra che il sistema gerarchico dei capi era radicato a Retoka in tempi precoloniali, ed è considerata da alcuni studiosi la dimostrazione che prima dell’arrivo degli europei, le strutture politiche legate ai capi avessero raggiunto uno sviluppo che fu oscurato dal crollo demografico che seguì il loro arrivo. ( Kirch, 2000: 130-140; Jolly 1994: 29-34) I primi contatti con gli Europei L’esploratore spagnolo Pedro Fernandez de Quiros fu il primo Europeo a visitare queste isole. L’isola ora conosciuta come Santu fu battezzata dal navigatore Nuestra Senora de Australia del Espirito Santu. De Quiros progettava di fondare una Nuova Gerusalemme nel Pacifico, ma la resistenza degli indigeni ai suoi sforzi di convertirli, e le difficoltà di ormeggiare con i venti da sudest, lo fecero desistere. Altri navigatori, da tutte le potenze europee lo seguirono, tra loro Louise Antoine de Bouganville che navigò tra le isole di Espiritu Santu e Maleluka nel 1768 e chiamò le isole Le Grandi Cicladi, paragonandole al paradiso terrestre; ma fu James Cook a battezzarle col loro nome coloniale, Nuove Ebridi, dopo averne completata la cartografia nel 1774. Storia del “condominio” coloniale La storia coloniale di queste isole è stata turbolenta: agli esploratori sono seguiti avventurieri, 7 http://www.chez.com/webyumi/lexi_fr.htm lessico bislama- francese 8 (http://www.linguistics.unimelb.edu.au/contact/studentsites/thieberger/vanlangs/index.ht ml elenco di lingue parlate nelle varie isole di Vanuatu) 97 cacciatori di balene, mercanti di sandalo, e missionari a caccia di anime. Gli europei portarono con se epidemie di influenza, morbillo, e malattie veneree, il vaiolo fu introdotto attraverso vestiti infetti dall’Europa. I mercanti di sandalo provocarono violenza tra il 1825 ed il 1869, ma anche i missionari furono spesso al centro di episodi di violenza: nel 1839 furono uccisi dei missionari della London Missionary Society, mentre un missionario presbiteriano, John Paton, incitò la Marina a bombardare l’isola di Tanna nel 1865, cinque anni dopo che gli abitanti avevano espulso lui e la moglie in seguito ad un’epidemia di morbillo (vedi Linnekin 1997: 199). Il blackbirding era una forma di reclutamento (spesso forzato) di lavoratori da molte isole del Pacifico, con un contratto che li legava per un certo numero di anni alle piantagioni, soprattutto quelle di zucchero del Queensland (Australia) e delle Figi. Per oltre un secolo questa pratica fornì lavoratori a basso costo, fino a 50.000 uomini e donne furono prelevati dai villaggi delle Nuove Ebridi, molti dei quali non fecero mai ritorno. (Moore 1985) Tutti questi fattori contribuirono a un gravissimo crollo demografico nelle isole. Nel 1920 erano rimasti solo 40.000 abitanti, da un numero originale stimato attorno ai 500.000, in alcune isole settentrionali si risente ancora di questo spopolamento. Compagnie sia inglesi che francesi occuparono le terre degli indigeni, e utilizzarono le navi da guerra per bombardare i villaggi di quelli che si opponevano. Anche le relazioni tra le due potenze coloniali non erano facili, in quanto dovevano convivere in qualche nelle Nuove Ebridi, sebbene fossero spesso in guerra tra loro in Europa. Solo nel 1887 le due potenze si accordarono per una giurisdizione congiunta sulle isole, che divenne il protocollo Anglo-Francese, o il ”condominio” per amministrare, con poteri uguali, la colonia d’oltremare. Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Americani costruirono importanti basi militari sulle isole di Etafe e di Espiritu Santu, fondamentali per la guerra nel Pacifico. Questo ebbe due effetti: da un lato gli Americani portarono con loro tecnologia e ricchezza mai viste prima, per molti indigeni fu la prima occasione di guadagnare un vero stipendio. Dall’altro gli isolani videro i neri Americani che apparentemente godevano degli stessi beni materiali disponibili ai soldati bianchi, questa realizzazione ebbe un ruolo non indifferente nelle agitazioni per l’indipendenza che seguirono. Indipendenza Vero la fine degli anni ’60 il movimento Nagriamel, guidato da Jimmy Stevens, attrasse molti seguaci soprattutto nelle isole del nord. Inizialmente questo movimento si limitava a richiedere diritti sul “dark bush”, cioè sulla terra che non era mai stata occupata dagli Europei. Nel 1971 il movimento era diventato più politicizzato e fece richiesta alle Nazioni Unite per avere una libera scelta sulla questione dell’indipendenza. Nello stesso anno nacque la New Hebrides Cultural Association, un movimento di resistenza all’acquisto di grandi appezzamenti di terra da parte di un affarista Americano. L’associazione divenne partito politico nazionalista, il Vana’aku Party, capeggiato dal prete anglicano Walter Lini. Nei termini del “condominio” Francesi ed Inglesi fecero un accordo di non ritirarsi senza l’altro, una ricetta per non fare niente. Allo stesso tempo, però i due poteri cominciarono a prepararsi per un cambiamento che cominciava a sembrare inevitabile: gli inglesi lavoravano per preparare una classe politica indigena che potesse sostenere dei ruoli di governo, mentre i francesi provarono, senza riuscirci, a costruire una maggioranza francofona. Nel 1975 ci fu una riforma costituzionale, seguita da elezioni in preparazione per l’indipendenza che era stata fissata per la metà degli anni ’80. Walter Lini del Vana’aku party fu eletto primo ministro, nonostante l’opposizione dei Francesi. Il crescente secessionismo, portò disordini anche nei centri urbani, che le forze inglesi e francesi, divise, non riuscivano a controllare. Il nuovo governo sopravvisse ad una ribellione dei seguaci di Jimmy Stevens, sull’isola di Espiritu Santu chiamando l’esercito della Papua Nuova Guinea a sostituire le forze anglo-francesi. In seguito dichiarò l’indipendenza del paese, Vanuatu, nel 1980. Con l’indipendenza tutta la terra che era stata sottratta dai coloni fu restituita a coloro che furono considerati i possidenti tradizionali. 98 Per tutti gli anni ’90 la situazione politica di Vanuatu è stata caratterizzata da instabilità dovuta alla continua opposizione di interessi tra i francofoni egli anglofili. I problemi economici, aggravati anche dai terremoti, e le accuse reciproche di corruzione hanno portato a numerosi cambiamenti di governo. Tratti culturali comuni Come in tutto il Pacifico, l’esistenza di gruppi autonomi su isole separate ha portato ad una grande diversità culturale. Le tradizioni rituali ni-Vanuatu e quelle artistiche a cui sono associate sono svariate. Eppure ci sono elementi comuni: i temi principali dei riti si dipanano attorno all’importanza delle iniziazioni graduate, l’istituzione dei capi, l’allevamento dei maiali per sacrifici rituali, l’uso delle zanne di maiale per decorazioni prestigiose, e scambi reciproci di ignami, taro, kava, da un lato e danze e canti dall’altro. Tutte queste caratteristiche legano le culture di Vanuatu a quelle della Nuova Guinea e delle Salomone, così come la varietà linguistica (oltre cento varianti di lingua Austronesiana). Inoltre anche il Bislama, la lingua franca delle Vanuatu, assomiglia molto al Tok Pisin della Papua Nuova Guinea, ed al Pijin delle Solomons. Tutte queste sono forme linguistiche “creole” che combinano un vocabolario basato soprattutto su quello inglese con forme grammaticali derivate dalle lingue indigene. Acquisire prestigio: arte e potere Le culture di Vanuatu sono conosciute nella letteratura etnografica per i sistemi graduati di riti attraverso i quali gli uomini conquistano prestigio. Apparentemente diversi culti associati a questa idea sono circolati in diversi periodi storici, ed è quindi difficile districarli a posteriori, per determinare quale elemento appartenesse a quale culto specifico. Alcune delle attività principali associate a questi culti erano: • piantare alberi e arbusti sacri, • erigere statue fatte intagliando il tronco delle felci arboree9 • costruire dolmen, piattaforme in pietra, e cerchi di pietre. Questa caratteristica di utilizzare costruzioni in pietra, non molto comune in altre parti del Pacifico ad eccezione dell’Isola di Pasqua, ha portato alla denominazione delle culture ni-Vanuatu col termine culture megalitico (Patterson, 1981:191). In termini di parentela, un altro elemento comune è l’introduzione di un candidato nei gradi inferiori della gerarchia del prestigio da parte dei parenti materni. A questa pratica sono associati i sacrifici di maiali con grandi zanne sulle piattaforme in pietra, prima di darli ai parenti della madre o della moglie. Patterson descrive tre di questi riti, localizzati alla parte settentrionale dell’isola di Ambrym; uno di questi è denominato tobuan, praticato ancora durante la ricerca della Patterson (1968-71) eccetto dagli indigeni convertiti alla chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno. Come sottolineano Strathern e Stewart (2002:27) questi rituali hanno molti aspetti comuni con gli scambi moka praticati nell’area Hagen nelle Highlands della Nuova Guinea. Tobuan erano, in sostanza, dei riti che fornivano al protagonista le circostanze per aumentare il proprio prestigio e crearsi un seguito politico. Prima del rito vero o proprio la persona che intende fare tobuan sollecita i suoi parenti (la linea patrilineare della madre o della moglie) a fargli dei doni preliminari di maiali. Questi doni saranno poi restituiti, con un incremento, nel corso del tobuan vero e proprio. Altri parenti del protagonista costruiscono la piattaforma sacrificale in pietra, e vengono retribuiti per questo. Grossi maiali allevati dall’uccisore e dai suoi sostenitori, con zanne grosse e circolari sono adagiati sulla piattaforma e ammazzati a colpi di mazza; questi maiali costituiscono il 9 (sono felci comuni in alcune zone del Pacifico in cui si sviluppa un tronco ligneo sovrastato da una corona di foglie), 99 pagamento di ritorno ai parenti di linea patrilineare per i doni sollecitati in precedenza dall’uccisore dei maiali. Coloro che riceveranno i maiali sacrificati costruiscono una scala per la cerimonia: ogni piolo rappresenta un maiale precedentemente sacrificato dall’uccisore. Quest’ultimo si arrampica un gradino per volta, pronunciando man mano i nomi dei partecipanti che avevano già ricevuto i maiali commemorati dalla scala. Oltre ai maiali, sono distribuite anche foglie di palme cycas, e piante con fiori rossi, probabilmente associate a poteri vitali. Durante la stessa cerimonia, l’organizzatore di un tobuan, oltre a sacrificare dei maiali in restituzione di quelli ricevuti dai parenti della madre o della moglie, può iniziare un’ulteriore catena di prestazioni sacrificando maiali per dei giovani che desidera introdurre nella categoria dei suoi “figli”, legandoli a sé come sostenitori. Nel corso della sua vita, una persona organizza una serie di sacrifici tobuan. Ad ogni evento successivo l’uccisore si identifica progressivamente con gli antenati, assicurandosi un posto nel mondo ancestrale. In un certo senso ogni sacrificio può essere visto come la rinascita dell’identità dell’uccisore dei maiali, che assume un nuovo nome e un nuovo titolo dopo ogni evento organizzato. Questi sacrifici avevano anche una funzione propiziatoria od apotropaica (cioè di scongiurare un influsso magico maligno), si sacrificavano i maiali per placare gli spiriti e scongiurare pericoli, un uomo doveva continuare a sacrificare la vita nel corso della propria vita “per evitare che gli spiriti dei parenti di sua madre lo divorino quando muore, lo facciano ammalare mentre è in vita, o addirittura lo uccidano” (Patterson, 1981: 197). Anche questo rapporto ambiguo con la linea dei parenti materni, “che sono quelli che passano, attraverso le sorelle o le figlie, il sangue vitale, sostenitore della vita, e che hanno il potere di garantire l’esistenza di uno spirito di una persona dopo la morte”(Patterson, 1981:217) e quindi vanno placati con doni e pagamenti, è simile a quello riscontrato da Strathern in Nuova Guinea. In altre forme rituali il protagonista punta una freccia ai parenti materni, in un gesto rituale che esprime la minaccia di ucciderli, per dimostrare la propria audacia nei confronti di coloro che gli danno la vita. I riti sacrificali erano continuamente importati da zone e isole diverse, usati come veicoli per costruire il proprio prestigio politico e personale. Apparentemente i riti tobuan erano la forma più antica, e basilare, strettamente legata alle relazioni di parentela. Gli abitanti di Ambrym avevano recentemente importato un altro sistema di gradi si prestigio, chiamato mage. Con questi riti i membri di certe famiglie di prestigio erano in grado di consolidare il proprio status, trasmettendolo ai propri successori. Lo studio di queste importazioni culturali, e dei prerequisiti per l’acquisizione di status che accompagnava questi nuovi riti, può fornire preziosi indizi sulla sequenza delle trasformazioni storiche della leadership locale, probabilmente legate all’influenza coloniale, oltre che alla microevoluzione endogena. I rituali ni-Vanuatu sono molto complessi, ed esteticamente impressionanti, accompagnati da forme artistiche affascinanti. Secondo Bonnemaison (1996), gran parte della produzione artistica di Vanuatu era motivata dagli stimoli sociali della competizione e della ricerca di prestigio. Questo a sua volta era il risultato storico dell’origine religiosa dei rituali. Ricordiamo che per Patterson i riti erano sì legati alla parentela, ma contavano un elemento di trasgressione rispetto all’ordine parentale: la cornice ideologica fondamentale era comunque quella di dipendenza dal supporto ancestrale. I partecipanti indossavano maschere come segno dell’ascesa nella scala del prestigio. Man mano che un uomo saliva i ranghi della scala del prestigio, cominciava ad essere associato agli antenati, trattato come un essere sovrannaturale, vincolato e protetto da numerosi tabù e tenuto in disparte dal mondo dei “vivi “(Bonnemaison 1996:209). Questo aspetto è totalmente assente nelle cerimonie moka della Nuova Guinea, in cui il prestigio acquisito durante la vita non era automaticamente trasferito al contesto ancestrale. 100 Le produzioni artistiche ni-Vanuatu erano espressamente legate a questo sistema di conquista di prestigio. I partecipanti dovevano intagliare tronchi di alberi di felce per accedere ai gradi inferiori, più tardi, per passare ai gradi intermedi, dovevano circondare queste statue con cerchi di piccole pietre erette, pietre più grandi erano utilizzate per accedere ai gradi superiori. Nel sud dell’isola di Malaluka gli uomini che in vita sono riusciti ad accedere ai ranghi superiori del ciclo rituale Nevimbur o Nimangki, dopo la morte sono rappresentati con delle effigi commemorative , Rambaramp, costruite di legno di felce, bamboo, e altri materiali vegetali, e attaccate al teschio del deceduto, trattato per conservarlo, modellato e dipinto in bianco, blu, nero e rosso. Tutti i simboli del rango ottenuti in vita sono riprodotti sull’effige. Il teschio contiene lo spirito dell’uomo di rango deceduto, e l’effige a grandezza naturale è costruita per rivestirlo, conferendogli corpo e dignità. Queste effigi sono conservate nella “casa degli antenati”, da cui sono prelevate periodicamente per dei riti che servono a rinforzare lo spirito dell’antenato rappresentato. Dopo un certo numero di anni (circa venti, quindi col passaggio di una generazione, quando la memoria del deceduto è probabilmente meno presente nei vivi) lo spirito lascia l’effige che, dopo un’ultima cerimonia, è rimossa dal santuario. 10 Associati ai riti graduati erano anche altre forme artistiche: gli uomini tessevano abiti speciali e preparavano cinture di tapa particolari per indicare il proprio accesso ai ranghi superiori. Le donne si decoravano in maniera elaborata in queste occasioni ed intessevano stuoie particolarmente elaborate. Bolton (1996) ha analizzato la produzione di manufatti femminili a Vanuatu, per dimostrare la complementarità dei ruoli di genere nelle tradizioni legate allo status. Alcune stuoie prodotte dalle donne sono utilizzate per avvolgere i morti, altre (chiamate singo sull’isola di Ambae) sono stuoie piccole, finemente intrecciate ed intrinsecamente potenti, capaci di nuocere chiunque le maneggi male). Sempre di produzione femminile è un altro oggetto di foglie di pandano intrecciate, indossato nella cintura dagli uomini che raggiungevano un grado alto nelle cerimonie associate ai sacrifici di maiali hungwe, (Bolton 1996:113). Bolton osserva che anche le donne indossano mantelli di tapa finemente intessuti nelle loro danze, e che sono le maggiori produttrici delle stuoie usate nelle occasioni sociali, tra cui i riti collegati al ciclo vitale degli individui. A Lontana, per esempio, i matrimoni comportano il passaggio di mano di oltre 1500 stuoie. Storicamente le donne hanno inventato nuovi tipi di stuoie, immettendoli nelle reti di scambio, e commemorando i nomi dei luoghi dove ogni tipo di stuoia è stato prodotto per la prima volta. E’ evidente che il “ciclo delle stuoie” costituisce una sfera importante per la riproduzione sociale e la costituzione della memoria storica associata alle reti di relazioni tra donne e luoghi, parallela in importanza all’impulso maschile di creare potere individuale e ancestrale attraverso la partecipazione ai rituali graduati. Inoltre i manufatti prodotti dalle donne erano essenziali per gli uomini: erano i segni artistici dello status ottenuto da vivi, e li avvolgevano per accompagnarli nel tratto finale della morte corporea. In questa rilettura al femminile si comprende meglio il ruolo dei legami materni e della discendenza matrilineale come elementi complementari nel sistema di interazione equilibrata nell’ottenimento di status maschile e femminile. Cultura e turismo, un binomio rischioso Margaret Jolly è un’antropologa che si occupa del concetto post-coloniale di Kastom a Vanuatu e nel Pacifico in generale. In un articolo del 1982 descrive il modo in cui la commercializzazione dei riti tradizionali nel sud dell’isola di Pentecost agisce subdolamente per portare cambiamenti nelle comunità più tradizionaliste dell’isola. Ad uno sguardo superficiale, l’apertura dei rituali tradizionali ai turisti sembra fornire ai villaggi tradizionalisti un’opportunità di guadagnare facendo 10 (Vedi http://www.tribalsite.com/articles/malekula.htm per descrizione di questo complesso rituale con alcune fotografie delle effigi). 101 quello che desiderano, cioè continuando a vivere secondo le proprie tradizioni. In pratica però, il turismo etnico tanto promosso dai governi dei piccoli stati isolani, portano il costume e la tradizione nell’ambito moderno dell’economia capitalista. Il conflitto tra i due sistemi trova espressione nelle divergenze nate nei villaggi tradizionalisti tra coloro che volevano approfittare dell’opportunità di guadagno, e quelli che ritenevano fosse contrario alla tradizione chiedere soldi per assistere ad un rito. Anche se si raggiunge un’accordo sul fatto di far pagare i turisti, subentrano dispute su chi siano i proprietari dei diritti sui riti, e quindi su chi debba tenere ed amministrare i guadagni dello spettacolo. Queste discussioni non sono di poca importanza, anche perché la riuscita dei pericolosi lanci dalle torri dipende (secondo la tradizione ni-Vanuatu) dal sostegno degli antenati, i quali notoriamente lo offrono solo quando nel villaggio c’è armonia. Tradizionalmente questi rituali avvenivano in un periodo dell’anno ben preciso, e servivano ad assicurare il benestare degli antenati e la fertilità dei raccolti, il vero pericolo per i partecipanti al rito, i giovani “tuffatori” è rappresentato dalle esigenze di far coincidere il rito con l’arrivo dei gruppi di turisti, in quanto le liane adoperate hanno differente elasticità in diversi periodi dell’anno. La sacralità dello spazio nelle religioni indigene e cristiane di Vanuatu Sia nelle religione tradizionale che nelle diverse forme di cristianesimo adottate dai ni-Vanuatu, lo spazio assume valenze di sacralità, analizzate da Margaret Jolly nel contesto delle comunità che abitano il sud dell’isola di Pentecost (Jolly e Macintyre 1989: 213-235). La situazione in questa regione assomiglia quella descritta da Keesing per i Kwaio di Malaita (Salomone), per cui esiste sia un contrasto tra la religione ancestrale del passato e il cristianesimo contemporaneo, ma la coesistenza di villaggi che si identificano come villaggi cristiani e altri come tradizionalisti. Inoltre esistono villaggi cristiani di tre diverse denominazioni in un’area di 12 chilometri quadrati abitata da circa 3000 persone, che permettono un’analisi comparativa delle trasformazioni nel modo in cui è organizzato lo spazio dalle diverse comunità, riflettendo le rispettive politiche sulle relazioni di genere e sulla vita famigliare. Le divisioni tra le differenti denominazioni sono rigidamente rispettate a livello dei singoli villaggi e, anche se legami di parentela o altre relazioni intersecano le divisioni religiose, le denominazioni costituiscono gruppi endogami, relazioni di affinità sono raramente contemplate, e con disfavore. Nel sistema indigeno la sacralità era creata attraverso la separazione fisica dei vivi dagli antenati, delle persone di ranghi differenti, degli uomini dalle donne. Questa separazione avveniva, e tuttora avviene nei villaggi tradizionalisti, tramite la separazione dell’insediamento umano dall’ambiente circostante, tra zone sacre e altre destinate alle attività ordinarie, tra case degli uomini ed abitazioni domestiche e, all’interno di queste due tipi di case, la differenziazione dei focolari in base, rispettivamente , al genere e al rango. I missionari cristiani ed i convertiti locali hanno volutamente trasgredito queste divisioni sacre e, in modi e gradi differenti hanno cercato di decostruire questi spazi sacri rimpiazzandoli con altri: non solo con la costruzione di chiese, ma anche con nuove forme di abitazioni e con la concomitante promozione di nuove forme di vita domestica e famigliare. La tradizione a Vanuatu, come in altre parti della Melanesia, può dirsi scritta sul terreno, non solo i miti sulle origine umane e della terra, ma anche le gesta degli antenati sono codificate su elementi del paesaggio. Per esempio i siti da cui provengono i diversi gruppi di discendenza sono chiamati ut loas (spazio sacro) e, seppure in un’area coltivata, non vengono mai coltivati, un’isola di foresta primaria in un paesaggio altrimenti modificato da secoli di orticoltura itinerante e di allevamento di maiali. Anche solo avventurarsi in questi luoghi può causare malattie o altri guai. Questa è la più evidente distinzione tra spazio dei vivi e quello degli antenati. Per quel che riguarda i viventi, le distinzioni tradizionali più importanti sono quelle di genere e di rango (ottenuto con una serie di iniziazioni graduate), e sono visibilmente espresse nell’organizzazione spaziale dei villaggi. Il villaggio si distingue sia dalla foresta che dal territorio coltivabile, ed è circondato da un recinto che dev’essere scavalcato per entrare o uscire. Il nucleo 102 del villaggio è formato da una casa comune riservata agli uomini, mal, e da un terreno cerimoniale, nasara, utilizzato per una serie di riti e cerimonie. Lo spazio interno al villaggio è chiaramente differenziato secondo il genere, anche i sentieri usati da uomini e donne sono diversi in quanto le donne devono fare attenzione ad attraversare il terreno cerimoniale, che in alcuni periodi è vietato per loro, così come è vietato l’accesso ad un boschetto sacro piantato vicino alla casa degli uomini. Gli uomini e le donne usano latrine separate, ma a differenza di altre culture non vi sono case per la reclusione femminile durante il parto o le mestruazioni. La differenziazione di genere e di status si può notare anche nella divisione interna dello spazio nei due tipi di case. L’abitazione domestica è divisa in due da una trave sul pavimento, creando una sfera maschile ed una femminile, verso l’entrata della casa. I membri della famiglia possono muoversi liberamente in entrambi gli spazi delimitati, ma le principali attività quotidiane del gruppo famigliare (mangiare e dormire) sono attività segregate per sesso, quindi gli uomini (di qualsiasi grado iniziatico) cucinano, mangiano e dormono nella metà posteriore della casa, mentre le donne ed i bambini fanno le stesse cose nell’altra metà. A differenza di altre culture in cui esiste una segregazione tra i sessi, il pericolo nella condivisione di cibo, a Vanuatu, è per le donne e i bambini, non per gli uomini. Normalmente gli uomini dormono nella casa della famiglia (in tempi di poliginia visitavano le case delle diverse mogli a turno), ma nella loro metà della casa, mentre la moglie dorme coi bambini. Dormire insieme tutta la notte è considerato pericoloso per la fertilità della coppia. Prima dell’ingerenza coloniale le case delle famiglie erano anche condivise dai maiali, in un recinto davanti all’entrata, e dai membri deceduti della famiglia, sepolti sotto la casa. La casa degli uomini, in cui questi mangiano e dormono solo in periodi specifici legati ad attività rituali che comportano la seclusione o in occasione di visite da altri villaggi, è divisa in quattro compartimenti. Ad ognuno corrisponde un grado iniziatico, ed in ognuno c’è un focolare diverso per la preparazione del cibo che è cucinato e condiviso solo dagli uomini dello stesso status. Nei mal vengono custoditi una serie di attrezzature sacre, usate per i rituali della comunità. Queste case sono quindi simboli importanti della religione tradizionale. Il cristianesimo passa anche tramite la sostituzione o la ri-concettualizzazione di questi spazi sacri. Secondo Jolly, però, non bisogna ripetere l’errore dei missionari che hanno fatto coincidere il contrasto tra case residenziali e case cerimoniali, con una dicotomia eurocentrica tra spazi pubblici e spazi domestici. Anche se è vero che il contrasto tra queste due abitazioni sono centrali nell’ideologia sulle relazioni di genere nei villaggi tradizionali, le relazioni di genere sono radicalmente differenti da quelle occidentali per tre motivi: gli uomini partecipano in ugual misura delle donne alle attività domestiche quotidiane; le case degli uomini, pur essendo precluse alle donne, non sono associate alla vita pubblica, né alla vita politica; le donne, escluse dalla casa degli uomini sono comunque attrici sociali che partecipano alla vita rituale del gruppo, non solo come spettatrici. Quindi anche se le differenze di genere sono codificate nell’organizzazione dello spazio dei villaggi tradizionali, le forme ed i significati di queste differenti sfere maschili e femminili non sono sovrapponibili a quelle derivate dall’ideologia occidentale in cui il femminile è associato alla sfera domestica e il maschile a quella pubblica. Per i ni-Vanuatu questa distinzione è senza fondamento in quanto le istituzione più pubbliche e centrali alla cultura riguardavano proprio la sacralizzazione della vita domestica: coltivare piante, allevare bambini, crescere bambini, e perpetuare i cicli di parentela che univano gli antenati ai discendenti erano attività della sfera di vita pubblica, oltre che domestica. I missionari delle diverse denominazioni erano tutti d’accordo sulla necessità di riformare le relazioni di genere esistenti. L’introduzione di modelli cristiani di separazione tra sfere maschili e femminili era un elemento fondamentale dell’opera di conversione. I modelli introdotti dal cristianesimo separano radicalmente gli uomini dalle donne, come avveniva nel villaggio tradizionale, e introducono la dimensione tra pubblico e domestico. La divisione tradizionale è condannata in quanto considerata degradante per le donne, ma i nuovi modelli proposti dalle chiese cristiane non attribuivano alle donne gli stessi poteri rituali che godevano nella separazione tradizionale delle sfere di competenze. Le denominazioni cristiane presenti in questa zona ora sono: Cattolica, Church of Christ, e 103 Melanesian Mission., ognuna di queste chiese ha avuto una storia differente, e ha associato la conversione alla propria religione a diverse regole di vita, che risultano in diverse concezioni della divisione dello spazio nelle comunità. Per i cattolici (presenti dalla fine del 1900), mentre la poliginia era inammissibile, lo scambio di sorelle ed il pagamento del prezzo della sposa era tollerato, e sono tuttora diffusi tra i convertiti al cattolicesimo. Inoltre era inaccettabile per i cattolici la segregazione dei pasti tra uomini e donne e l’esclusività maschile della casa degli uomini. L’abitazione domestica dei villaggi cattolici ha subito trasformazioni più drastiche: un solo focolare, in una costruzione separata in cui cucinano e mangiano insieme uomini donne e bambini, e la casa per dormire che, quando è divisa in due parti è abitata da marito e moglie in una parte e dai figli nell’altra. In molti villaggi cattolici esiste ancora il mal, che però è nominalmente accessibile alle donne, anche se è utilizzato dagli uomini per socializzare, preparare il kava. La chiesa è un elemento di innovazione, e lì sono custoditi gli oggetti del culto cristiano ed è celebrata la messa. La separazione dei sessi è severamente osservata nel contesto della messa ed è riflessa nei ruoli di genere associati al personale della missione (prete e suore). Inoltre nel contesto coloniale di questa missione la divisione tra clero e laici, e la struttura gerarchica della chiesa cattolica mantiene ancora una evidente dimensione etnica. Questa struttura è in contrasto con quella della Church of Christ, un’ organizzazione protestante evangelica basata sulle congregazioni, che sono principalmente gestite da un certo numero di indigeni con cariche efunzioni diverse, non espatriati di origine europea od anglosassone. Questa missione, che opera dagli anni ’50, si è opposta con più severità al kastom, combattendo molti aspetti della vita famigliare tradizionale. Ai membri di questa chiesa è vietato partecipare ai riti tradizionali legati alla nascita, alla circoncisione, al matrimonio ed alla morte. I convertiti sono anche scoraggiati dall’allevare i maiali e dal bere kava. Questo atteggiamento più abolizionista si riflette anche nei nuovi villaggi associati alla Church of Christ, in cui non esistono più le case degli uomini. Le uniche strutture pubbliche sono al chiesa e ed una casa per i banchetti festivi comune, in cui uomini e donne mangiano insieme. Anche le case delle famiglie sono più simili a quelle europee, sono costruite in materiali occidentali, mariti e mogli dormono e mangiano insieme, spesso in letti matrimoniali con zanzariera. Questi sono gli unici villaggi costruiti sulla costa ovest dell’isola, dove ci sono le zanzare ma anche le migliori condizioni per lo sviluppo economico. Secondo Jolly l’impatto del cristianesimo evangelico è intrecciato in questi villaggi con la formazione di classi sociali, espresse con la costruzione delle case dei più abbienti su terreni fuori dal villaggio. Rimane da comprendere, però quanto la privatizzazione della famiglia sia avvenuta in risposta all’incoraggiamento dei missionari, o in un tentativo di allontanamento dalle richieste dei parenti per la condivisione delle risorse. La terza missione, la Melanesian Mission è presente nell’area dagli anni ’50, ed è una missione anglicana. Dal punto di vista dell’organizzazione è simile alla struttura cattolica, in quanto la missione è condotta da un uomo solo, il prete ordinato, ma la differenza è nell’indigenizzazione del personale. Anche questa missione ha promosso una riforma della vita famigliare e delle relazioni di genere tra i suoi convertiti. Nonostante uomini e donne partecipino insieme alla vita rituale della chiesa, che fornisce le basi per una vita di comunità, secondo i missionari, la disciplina e la routine di questa comunità sono differenti per gli uomini e le donne, a cui sono insegnate nozioni di economia domestica. Il ruolo delle donne in questa, come nelle altre chiese, è comunque quello di ausiliaria alle attività maschili, in quanto mogli e madri. Come nei villaggi cattolici molte delle divisioni di genere tradizionali perdurano. La segregazione nel mangiare e nel dormire non esistono più, ma continuano ad esistere i mal che non sono vietati alle donne, ma sono frequentati solo da uomini, la monogamia prevale, ma si continuano a praticare i pagamenti per le spose e gli scambi di sorelle. Jolly conclude che tutte le missioni cristiane hanno sentito il bisogno di trasformare le relazioni di genere e la vita famigliare degli abitanti di South Pentecost, e lo hanno fatto proponendo politiche, strutture e modelli differenti. La Church of Christ ha adottato una politica più abolizionista che riformista, eppure le trasformazioni nei villaggi associati alle diverse chiese non sono il risultato 104 semplicemente dell’intervento della chiesa, i ni-Vanuatu hanno adattato il messaggio cristiano, in qualche caso hanno resistito all’insegnamento, e quando la resistenza non è stata ammessa si sono ritirati, scegliendo di seguire le vie del kastom. Queste trasformazioni sono avvenute in un contesto di trasformazioni socio-economiche più vaste, che hanno comunque influito anche sui villaggi più tradizionalisti. Anche se gli interventi delle diverse missioni erano ispirati dall’idea di recuperare le donne da uno stato considerato degradante, promettendo la salvezza in nome di Dio, la segregazione e la dominazione maschile perdurano nelle chiese cristiane. Nel nuovo modello proposto la segregazione celebra le donne in quanto mogli e madri, ma le depriva dell’associazione con quegli aspetti sacri legati alla parentela che attribuiva loro un ruolo cruciale, anche se subordinato, nella religione tradizionale. 105 LE ISOLE SALOMONE Geografia Le Salomone sono un arcipelago nel Pacifico sud-orientale, subito a est dell’isola di Bouganville che per motivi legati alla storia coloniale di quest’area, fa parte della nazione della Papua Nuova Guinea. Le Solomoni comprendono 992 isole montuose e atolli corallini, di cui solo un terzo sono abitate. Le isole più importanti sono Choiseul, Isabel, Malaita, New Georgia, Guadalcanal, e Makira. Il clima è tropicale, con grande variazione nelle precipitazioni, che abbondano soprattutto nella stagione monsonica, tra gennaio ed aprile. Questa stagione porta anche sporadici tifoni, ma generalmente non sono distruttivi. L’area è geologicamente instabile, ci sono attività vulcaniche oltre a frequenti tremori della crosta terrestre. La posizione geografica di questo arcipelago, tra l’Oceano Pacifico Meridionale il Mare delle Salomone e il Mare dei Coralli, le rende di importanza strategica per le rotte commerciali. L’economia è tuttora basata principalmente sulla pesca e sull’agricoltura di sussistenza. I principali prodotti esportati (soprattutto verso l’Asia) sono il legname, il pesce, la copra, l’olio di palma ed il cacao. La deforestazione, un problema comune a tutta l’area Melanesiana, ha ha lasciato il 10% del territorio denudato, portando anche problemi di erosione. Nel 1994 l’Australia ha offerto 2 milioni di Dollari Australiani di assistenza economica a patto di terminare le concessioni per il legname dalla foresta pluviale attorno alla laguna di Marovo, sito proposto per il World Heritage. Ultimamente il governo ha imposto una tassa di riforestazione sui raccolti di legname. Anche se in realtà non è utilizzato per piantare nuovi alberi, si sta facendo strada tra i proprietari terrieri la consapevolezza che ci sono modi migliori di usare la terra che abbattere le foreste pluviali con i bulldozer. D’altra parte dal 1994 il governo ha utilizzato la propria polizia paramilitare per difendere le operazioni delle compagnie del legname Malesiane dall’opposizione locale. I mari delle Salomone sono pescosissimi, particolarmente ricchi di tonni. Fino al 2000 i tonni sono stati pescati e surgelati soprattutto da una compagnia Giapponese, la Taiyo. Il ritiro della Taiyo dal paese ha lasciato il governo col difficile compito di riorganizzare l’industria ittica. La maggior parte dei prodotti industriali e petroliferi sono importati, principalmente dall’Australia, Singapore, ed altre nazioni del Pacifico. Le isole sono ricche di risorse minerali non sviluppate, ma gravi problemi di stabilità e violenza etnica hanno portato problemi finanziari, e le casse dello stato sono vuote. L’insolvenza da parte del governo causa occasionali sospensioni nella consegna dei combustibili, tra cui quello utilizzato per produrre l’energia elettrica. Una situazione simile si è verificata per le telecomunicazioni. Popolazione La popolazione stimata nel 2003 era di 509,190. Il 93% degli abitanti sono melanesiani, il 4% polinesiani, l’1,5 % micronesiani, ci sono anche pochi cinesi ed europei. Il 45% degli abitanti si riconoscono nella chiesa Anglicana, il 18% in quella Cattolica, il 7% appartengono alla Chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno, il 4% si dichiarano seguace di credenze tradizionali, il rimanente si dividono tra varie altre denominazioni protestanti. Nelle Isole Salomone si parlano 120 lingue differenti, ma il pidgin melanesiano funziona da lingua franca. L’inglese, una lingua ufficiale, è parlato solo dall’1-2% della popolazione. Storia pre-coloniale In termini archeologici, l’isola di Bouganville appartiene al gruppo delle Salomone. Si pensa che i primi occupanti arrivarono dal nord-est circa 30000 anni fa, ma i primi insediamenti organizzati risalgono a 4000 anni fa, e da allora si può datare lo sviluppo di tecniche legate alla navigazione, all’agricoltura e all’allevamento. Kirch ha compilato il lavoro di numerosi studiosi della preistoria 106 della regione e indica che Spriggs ha trovato una sequenza di ceramiche prodotte nell’arco degli ultimi 1500 anni nella parte centrale di Bouganville, mentre Peter Sheppard ha trovato tracce di una possibile occupazione Lapita nella laguna di Roviana, sull’isola di New Georgia (Kirch 2000:133). D’altra parte David Roe analizzando resti da scavi effettuati su Guadalcanal ha trovato tracce di insediamenti datati da 6400 a 150 anni fa: nel corso di quel periodo si può dimostrare una intensificazione dell’agricoltura, ma non vi sono tracce di produzioni in terracotta. Cripte di sepoltura studiate da Kirch, Yen, e Rosendahl sull’isola di Kolombangara contenevano crani umani e dischi ricavati da conchiglie associati con attività di scambi cerimoniali competitivi. Le ricerche archeologiche ed etno-storiche di Sheppard e Aswani sull’isola di Roviana tendono a stabilire con maggior precisione il momento storico dell’apparizione di oggetti di valore nelle sepolture, e la concomitante intensificazione di strutture politiche basate sulla struttura gerarchica dei capi, il che permetterebbe anche di collegare tra loro le storie degli Austronesiani costieri, con quella di popolazioni di lingua non-Austronesiana che abitano le zone interne. In questa maniera si riescono a considerare insieme i ritrovamenti recenti degli archeologi (prehistorians) con quelli dell’antropologia sociale. A questo proposito è anche interessante notare che sia Granger che Spriggs attribuiscono la camera mortuaria di Roy Mata a Vanuatu ad un ritorno migratorio da parte di popolazioni Polinesiane, un’ ipotesi che è compatibile con altri ritorni migratori dalla Polinesia verso ovest avvenuti negli ultimi 1500 anni, tra cui quelli che portarono popolazioni polinesiane ad Anuta, Tikopia, e Bellona. Trovando le isole maggiori già occupate dai Melanesiani, questi Polinesiani di ritorno si stabilirono sulle isole minori, eliminando piccole popolazioni locali. Per i quattro secoli successivi queste isole appartate furono bersagli di ripetute aggressioni da parte di abitanti di Tonga e Tokelau. Anche le isole di Santa Cruz sono abitate tuttora da popolazioni sia melanesiane (che parlano lingue nonaustonesiane) che polinesiane. Un risultato di queste successive ondate migratorie è una commistione culturale di elementi associati alla Melanesia e altri considerati più polinesiani, un altro è una diffidenza verso gli stranieri che, nel diciannovesimo secolo, rese queste isole tra le più ostili verso gli esploratori occidentali. Primi contatti con gli occidentali I primi ad avventurarsi in queste acque furono gli esploratori spagnoli, che dal Perù cominciavano a spaziare in ricerca di El Dorado. Nel 1567 Don Alvaro de Mondana y Neyra partì alla ricerca di nuove terre, nel 1568 avvistò un’isola che chiamò Santa Isabel, prima di procedere nella navigazione delle isole dell’arcipelago, che battezzò con i nomi spagnoli che ancora rimangono. Dopo sei mesi di conflitti con gli indigeni, gli spagnoli ripartirono. Mendana descrisse le isole in termini esaltanti, ma fu Pedro Fernandez de Quiros a chiamarle Isole Salomone, associandole ai tesori di Re Salomone. Fino al 1605 gli spagnoli tentarono di stabilire delle colonie alle Salomone, ma desistettero per via della malaria e dell’ostilità dei nativi. A causa delle imprecisioni delle carte degli spagnoli, le Salomone rimasero indisturbate dagli europei per circa un secolo e mezzo fino a quando, nel 1767, il Capitano Inglese Philip Cartaret capitò casualmente nell’arcipelago. Egli non credeva di aver ritrovato le famose isole Salomone, ma fu presto seguito dal navigatore francese De Bouganville e da un assortimento vario di avventurieri che lasciarono il segno nelle isole. Storia coloniale Dal 1830 si aprì una fase di commerci coloniali, mercanti marittimi cercavano conchiglie, cetrioli di mare e legno di sandalo, li scambiavano con beni di scambio occidentali, come ferro e tessuti, ma in molti casi imbrogliarono gli indigeni con cui commerciavano, e portarono molte nuove malattie alle isole. Tra il 1870 e il 1910 i reclutatori “blackbirders” portarono via migliaia di isolani, spesso con la forza, per mandarli a lavorare nelle piantagioni australiane del Queensland o nelle Figi. Gli 107 isolani impararono presto a diffidare degli europei, avendo acquisito dei fucili dai mercanti meno scrupolosi presero ad usarli contro chiunque si avvicinasse, guadagnandosi la reputazione di selvaggi pericolosi e bellicosi. Anche i missionari più temerari tardarono ad approdare in queste isole. Nel diciannovesimo secolo i missionari cattolici arrivarono sull’isola di Gadalcanal, mentre i lavoratori di ritorno dalle piantagioni portarono con loro le influenze di altre chiese cristiane. Nel 1893 l’Inghilterra, dopo trattative con la Germania che aveva interessi coloniali a Bouganville, dichiarò un protettorato nelle altre isole dell’arcipelago, chiamato British Solomon Islands Protectorate. Furono messe in piedi delle grandi piantagioni di palme da cocco, di proprietà di Levers e della Burns Philip. Il primo Resident Commissioner, Charles Woodford, amministrò le isole dal 1856 al 1815, era considerato un amministratore illuminato perché rifiutava di girare armato, ed è a lui che si attribuisce la nascita di una struttura di governo organizzato alle Salomone. Nel 1942 i giapponesi si impossessarono delle isole Shortland e di Tulagi, quando cominciarono a costruire una pista per gli aerei a Guadalcanal gli alleati reagirono duramente. Gli americani sbarcarono numerosi in agosto, ma i giapponesi li sorpresero ed inflissero una delle peggiori sconfitte alla marina americana, nella battaglia di Savo. Per sei mesi gli americani mantennero il controllo di Guadalcanal, ma i giapponesi attaccavano di notte e continuavano a mandare rinforzi. Gradualmente gli americani presero possesso di tutte le isole, una per volta. Nel frattempo gli isolani, per via dei maltrattamenti da parte dei giapponesi, più che per obbedienza agli ordini britannici, rimasero leali agli alleati. Dopo la resa dei giapponesi nel 1945 molti indigeni, soprattutto da Malaita, lavorarono alla costruzione della base US su Guadalcanal. Gli isolani furono impressionati dalla ricchezza e dal potere degli americani e dai diversi rapporti, più egalitari, che questi stabilivano con gli indigeni. Alla fine della guerra prese piede alle Salomone Il Ma’asina Ruru (o Masing Rule), un movimento a favore del cambiamento e della rivalutazione delle tradizioni locali, kastom, come mezzo per promuovere l’autonomia culturale e politica, in opposizione al dominio coloniale britannico. Il nome Ma’asina è una parola derivata dalla lingua degli ‘Are are, che significa “gruppo di fratelli”. Lo scopo del movimento era di unire numerosi gruppi linguistici nella lotta di opposizione al governo coloniale. L’aspetto peculiare di questo movimento di liberazione era l’altro scopo promosso: convincere gli Americani, con i loro mezzi e la loro ricchezza, a tornare per amministrare le isole (Keesing 1992: 103). L’arresto dei capi del movimento e di molti seguaci nel 1947 e 1948 indebolì il movimento, che si divise internamente e si estinse definitivamente con la partenza degli Americani nel 1950. Le autorità coloniali furono costrette da questi movimenti popolari a organizzare un sistema di governo locale: dal 1953 istituirono delle assemblee regionali iniziando da Malaita, nel 1970 fu eletto il consiglio di governo, nel 1976 le Salomone ottennero l’autogoverno, e l’indipendenza fu raggiunta il 7 Luglio 1978. Storia post-coloniale Alle Salomone vige una democrazia parlamentare. Il capo dello stato è la Regina Elisabetta II, rappresentata dal Governatore Generale che è nominato dalla regina su consiglio del parlamento. Il parlamento è eletto, il primo ministro viene scelto dal parlamento (di solito capo del partito o della coalizione vincente) il vice primo ministro è un parlamentare nominato dal Governatore su consiglio del Primo Ministro. Un gabinetto di governo è costituito da 20 parlamentari nominati dal Governatore dietro consiglio del Primo Ministro. Il parlamento nazionale è unicamerale, ed è composto da 50 parlamentari eletti per quattro anni in elezioni popolari. Dall’ultima elezione del 2001 il primo Ministro è Sir Allan Kemakeza (People's Alliance Party o PAP), e il Vice-Primo Ministro Snyder Rini (di una coalizione di indipendenti), le prossime elezioni sono programmate entro il 2005. Da quando hanno ottenuto l’indipendenza, l’unico coinvolgimento delle Salomone a livello internazionale è stato durante la crisi dell’isola di Bougainville in Papua Nuova Guinea, i rapporti tradizionali tra gli isolani di Shortland e quelli della vicina isola indipendista, hanno determinato disaccordo tra le Salomone e i governi dell’Australia e della Papua Nuova Guinea sulle politiche 108 adottate rispetto al movimento separatista. Internamente violenze etniche, illegalità da parte dei governanti, e criminalità endemica hanno minato la società civile e la stabilità politica del paese. Il problema di Bouganville ha influito negativamente anche sui problemi tra i Malaitiani e gli abitanti di Guadalcanal, nati a causa della massiccia migrazione di Malaitiani verso Guadalcanal, e sfociati recentemente in gravi conflitti interetnici intorno alla capitale del paese, Honiara. Nel giugno del 1999, la situazione è degenerata al punto che nelle isole fu dichiarato lo stato di emergenza. Un anno dopo la violenza nelle strade sfociò in un colpo di stato. Il Primo Ministro, Bartholomew Ulufa’alu, anche se era originario di Malaita, fu minacciato dai membri di una forza paramilitare, di quell’isola The Malaita Eagles Force, e dovette dimettersi. La Malaita Eagle Force e l’Isatabu Freedom Movement firmarono un accordo nell’ottobre del 2000, ma la tregua non durò molto. Sir Allan Kemakeza, che era stato licenziato pochi mesi prima dalla posizione di Vice Primo Ministro a causa di scandali finanziari, divenne Primo Ministro nel dicembre 2001, promise di ristabilire la pace e la prosperità. La violenza continuò a dispetto di queste promesse al punto da costringere le forze di pace ad andarsene nel 2002. Gruppi armati illegali come gli “Special Police Constables”, sfuggendo al controllo della polizia, minacciavano ed estorcevano denari dagli ufficiali governativi. Nel febbraio 2003 un membro del National Peace Council, ex commissario di polizia, fu assassinato ad Auki, nella Provincia di Malaita. Vista la propria incapacità ad assicurare l’ordine, il governo delle Salomone ha richiesto l’intervento di una forza di pace internazionale, costituita da forze di polizia e militari australiane, neozelandesi, e da altri paesi del pacifico, per ristabilire l’ordine e la pace nella nazione. I risultati, fino ad ora sembrano essere incoraggianti, molti dei ribelli si sono avvantaggiati dell’amnistia e la situazione si sta stabilizzando, anche se il potenziale di violenza continua ad esistere, soprattutto nelle aree rurali di Guadalcanal e su Malaita.11 Trasformazioni Storiche a Marovo La vita degli abitanti del Pacifico è caratterizzata dall’Oceano, che hanno attraversato per colonizzare le zone più ospitali. Per tutti gli insediamenti costieri, la pesca ha sempre rappresentato un’importante risorsa e un elemento fondamentale della cultura. Come per la terra coltivabile e la foresta, i gruppi che vivono sulla costa riconoscono dei diritti su diverse aree dell’acqua che li circonda. Edvard Hviding ha pubblicato uno studio sul possesso marino nella zona di Marovo Lagoon, sul versante orientale dell’isola di New Georgia. In questo studio sono illustrati alcuni dei temi principali dell’etnografia contemporanea del Pacifico: “le contrapposizioni tra tradizionalismo e modernità…e i multipli coinvolgimenti della gente di Marovo nei sistemi culturali antichi, in varietà diverse di religione Cristiana, nello stato-nazione moderno, e nel sistema capitalista” (1996:xv). I proprietari tradizionali della zona intorno a Marovo Lagoon si considerano i guardiani delle risorse della laguna; le compagnie malesi giunte sull’isola per tagliare gli alberi sono stati vissuti come sfruttatori da combattere. In questa zona i conflitti tra proprietari tradizionali e le compagnie che avevano fatto contratti per lo sfruttamento del legname con lo stato sono stati particolarmente accesi. Circa 10000 Marovo appartengono a gruppi parentali, butubutu, con nomi specifici. Ogni butubutu è associato con una tenuta, puava, composta da tratti di terra, barriera corallina e mare, su cui 11 Vedi sito http://www.peoplefirst.net.sb/intervention/ per evidenza degli sforzi da parte dei rappresentanti di questa forza internazionale per comunicare alla popolazione che sono stati chiamati formalmente ed esplicitamente dal governo, e che rispettano la sovranità e l’indipendenza delle Salomone- in effetti questo genere di intervento sollecita quesiti sulla natura neo-coloniale dell’interesse delle nazioni più potenti nell’area del Pacifico per la stabilità interna delle nuove nazioni indipendenti. 109 hanno controllo. L’appartenenza a questi gruppi è determinata da legami di parentela bilaterali (cioè che possono essere trasmessi da entrambi i genitori). I membri di ogni butubutu sostengono un senso di legame sociale con le creature all’interno del loro puava, e controllano conoscenze essenziali per il ritrovamento delle risorse marine. Per questi motivi i gruppi tradizionali di quest’area si sono dimostrati essere forti oppositori di stranieri desiderosi di appropriarsi degli alberi e dei tonni che si trovano nelle loro tenute tradizionali. Il termine Marovo significa “verso l’alba” (est). La parte occidentale dell’isola di New Georgia, è conosciuta come Roviana , che significa “verso il tramonto”. L’isola di Kolombangara è un’isola vulcanica all’estremità nord-ovest di New Georgia, la foresta è stata tagliata intensamente in anni recenti, grazie all’intervento di forze governative a difesa delle operazioni di disboscamento. L’ambiente di Marovo fornisce risorse alimentari molto varie; gli abitanti cacciano maiali selvatici e marsupiali nella foresta, raccolgono prodotti della laguna e del mare come molluschi, pesci e crostacei, e piantano banane e una varietà di tuberi nei loro orti, tra cui taro e patate dolci, con questi e le noci selvatiche confezionano dei pasticci che arrostiscono in forni scavati nella terra. Gli abitanti dei villaggi considerano questo stile di cucina come una parte importante del loro kino, modo di vita. Le tempeste tropicali limitano i viaggi in canoa. Infatti, nel repertorio magico dei locali sono più gli incantesimi per far smettere la pioggia che quelli per provocarla. L’interno dell’isola consiste di crateri estinti, pinnacoli di roccia e pendii ripidi. Come in tutta la zona del sud-ovest del Pacifico, ci sono vulcani attivi e frequenti terremoti, eppure l’isola è stata abitata estensivamente nel passato. Si trovano numerosi santuari ancestrali nella foresta, questi contengono corni ricavati da grosse conchiglie (chonch), denti di balena, e anelli di conchiglia, oltre a cranii umani come quelli ritrovati nei siti archeologici di Kolombangara. I luoghi scelti per i santuari dimostrano un senso di legame spirituale con la foresta stessa come entità ancestrale, un senso comune anche a popolazioni dell’interno della Nuova Guinea, come i Duna della Southern Highlands Province in P.N.G. I Marovo sono anche legati ad un’economia monetaria, per soddisfare i propri bisogni di beni introdotti, come il sapone, sale, cherosene, e fiammiferi. Per procurarsi il denaro necessario gli abitanti dei villaggi producono dei mortai in pietra, come quelli che usano per macinare le noci, che sono molto richiesti in altre zone del paese. Inoltre vendono piccole conchiglie nassa agli indigeni di altre isole, o cetrioli di mare a mercanti esterni; ma ultimamente c’è stato un boom nella vendita di figurine intagliate nel legno dagli uomini, promossa dalla chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno. Anche questo è un fenomeno simile a quello verificatosi in Nuova Guinea tra gli Asmat dell’Irian Jaya. I missionari cattolici inizialmente avevano soppresso le sculture lignee in quanto associate alle pratiche dei tagliatori di teste, ma in anni recenti hanno incoraggiato un revival della scultura per motivi culturali e commerciali. Inoltre gli abitanti dei villaggi dipendono in larga misura dalle rimesse spedite dai famigliari che sono andati a lavorare nei centri urbani, ma che vogliono mantenere i legami sociali e i loro diritti nei luoghi d’origine (un altro fenomeno molto diffuso nel Pacifico). Le tre chiese Cristiane principali del paese (Avventisti del Settimo Giorno, Metodista e Anglicana) si sono rese responsabili per il mantenimento di scuole, segherie, piste di atterraggio per gli aerei e centri di assistenza medica. Nelle Salomone non è permesso alienare dai gruppi butubutu le zone di terra e di mare riconosciute come tenute tradizionali (all’infuori di quelle aree già alienate sotto il regime coloniale). Ogni villaggio ha un bangara, o capo ereditario, che trae il suo potere dal fatto di aver ereditato la custodia di oggetti di valore fatti di conchiglia e associati ai capi ancestrali; egli sovrintende all’attuazione delle leggi tradizionali. I nuovi rappresentanti del governo non hanno rimpiazzato i bangara, e l’adesione all’idea di kastom (tradizione) come modo di vita continua ad essere importante. Questo non vuole dire che l’idea del kastom sia necessariamente immutevole o senza una storia, anzi la storia orale locale porta esempi di movimenti e trasformazioni anche nel passato pre-coloniale. L’idea del Kastom fornisce un’ancora concettuale per nozioni identitarie locali, 110 vissute come radicate nel passato, in un contesto di continue trasformazioni nella vita dal diciannovesimo secolo. Inoltre il concetto di kastom fornisce un mezzo di sostenere una regolamentazione sulle risorse marine e terrestri. Kastom è usato come base per negoziare con gli interessi commerciali esterni, come i pescherecci dei tonni, e come cornice entro la quale gestire le tendenze interne a individualizzare la proprietà delle risorse. Nel corso di questi negoziati, la tradizione stessa è re-interpretata e trasformata. I conflitti più gravi sono emersi riguardo allo sfruttamento delle foreste, iniziato da compagnie Inglesi ed Australiane ma dagli anni ’90 intrapreso soprattutto da interessi di nazioni asiatiche. Levers Pacific Timbers cominciò a tagliare gli alberi attorno a Marovo negli anni ’70. Nel 1983 i leader dei butubutu locali rifiutarono di negoziare oltre con la Levers che, tre anni dopo, smise le operazioni e lasciò le Salomone, causando una grossa perdita degli esporti nazionali. I gruppi legati alle chiese della Christian Fellowship ebbero un ruolo rilevante nel guidare la resistenza alla compagnia. Questa chiesa, nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, fonde il metodismo con forti tendenze comunitarie e alcuni elementi del culto degli Antenati. E’ stata fondata da un profeta carismatico, Silas Eto, conosciuto come Holy Mama (Santo Padre), che ruppe con la chiesa metodista per fondare una chiesa indigena indipendente nel 1960. Il fondatore morì nel 1984, e fu succeduto dai figli, uno dei quali divenne il leader dell’opposizione alla Levers. Anche se il governo aveva trattato con gli isolani per conto della compagnia del legname, quando videro l’impatto delle attività di disboscamento sul loro ambiente, gli abitanti della zona lo giudicarono insopportabile. Inoltre non tutti i leaders avevano firmato l’accordo per tagliare gli alberi, e i locali non rispettavano la compagnia che non li aveva riconosciuti, non aveva mandato i propri rappresentanti negoziare direttamente con loro. Seppure loro stessi invitarono le compagnie del legname Malesiane nel 1989, gli stessi problemi si ripresentarono, soprattutto a causa della distruzione di alcuni antichi siti sacri nella foresta. Hviding illustra come questo tipo di conflitto metta gli stati-nazioni contemporanei in una posizione doppiamente scomoda: da un lato sono tenuti a salvaguardare gli interessi delle proprie popolazioni locali, dall’altro hanno bisogno di generare reddito a livello nazionale per promuovere lo sviluppo economico, ugualmente richiesto dalla popolazione. In queste circostanze è difficile che il governo riesca a guadagnarsi il rispetto da parte delle popolazioni rurali o da quella delle multinazionali con le quali tratta affari su larga scala. Questo stesso dilemma è al centro dei conflitti in Papua Nuova Guinea riguardo alle operazioni minerarie, per esempio l’enorme miniera di oro e rame a Ok Tedi nella Western Province che ha causato danni ambientali di una tale gravità da obbligare il governo ad una decisione molto difficile: o rinunciare al reddito portato dalla miniera, o perdere l’agibilità di tutto il territorio a valle della miniera per un lasso di tempo indeterminato. Scambi e trasformazioni sociali sull’Isola di Choiseul L’isola di Choiseul si trova a nord di New Georgia. Harold Scheffler ha studiato la zona dell’isola popolata da gente associata alla lingua Varisi tra il 1958 e il 1961. La lingua Varisi, una delle sei divisioni linguistiche identificate sull’isola, contava circa persone negli anni ’60 (un sesto della popolazione totale dell’isola). Gli isolani hanno avuto esperienze storiche difficili e complesse nei confronti degli stranieri dal 1860. Hanno subito ondate di mercanti di gusci di tartaruga e cetrioli di mare, reclutatori “blackbirders” che usavano la forza per persuadere gli isolani a salire sulle navi per le piantagioni e vendevano fucili. Inoltre dal 1893 si sono scontrati col governo coloniale Britannico che rimase coinvolto con le politiche locali, punendo i partecipanti ai raid e chi uccideva europei. Gli inglesi punivano severamente gli isolani di Choiseul in un tentativo di interrompere i cicli di uccisioni e vendette locali, ma così facendo sembrava entrare nella stessa logica. Questo intrecciarsi di politiche colonialiste con le faide locali è una componente frequente della storia coloniale, ed ha avuto un ruolo importante nella storia dei Kwaio di Malaita, per esempio (Keesing 1992). 111 Missionari cristiani, soprattutto Metodisti e Anglicani, furono strumentali nel persuadere gli isolani a riunirsi in insediamenti più numerosi sulla costa, commerciare la copra, e mandare i figli a scuola. Come in altre aree del pacifico, furono i lavoratori convertiti nelle piantagioni, una volta tornati al loro villaggio, ad aiutare i missionari ad essere accettati (Scheffler 1965:21), contemporaneamente il governo coloniale dava anche molto supporto ai missionari. I Cattolici e gli Avventisti del Settimo Giorno raggiunsero Choiseul nel 1920, e negli anni seguenti il cristianesimo e le credenze tradizionali si sono parzialmente mescolati: Dio ha rimpiazzato gli spiriti indigeni, e le offerte di prodotti degli orti non sono più fatte ai leader dei gruppi locali (che Scheffler chiamava i “manager”) ma ai predicatori cristiani. La descrizione di Scheffler dei Varisi è contemporaneamente uno studio storico ed una ricostruzione della società com’era intorno al 1900, poco dopo la dichiarazione del Protettorato Britannico, quindi molti dei dati si riferiscono alla situazione di oltre un secolo fa, eppure questo studio è importante per due motivi. Primo perché analizza una struttura sociale molto particolare, in cui la discendenza è sia patrilineare che bilaterale (parentela tramite legami sia della madre che del padre). Questo potrebbe sembrare un tecnicismo, ma è importante dal punto di vista comparativo, in quanto ci sono molte similitudini con la struttura sociale dei Duna della Nuova Guinea. Il secondo motivo è che questo studio analizza le pratiche di scambi cerimoniali quali erano a un tempo precedente al totale controllo coloniale dell’isola, un altro aspetto che si può confrontare con un’altra popolazione della Nuova Guinea, gli abitanti di Mount Hagen. L’analisi delle strutture sociali di Choiseul Island proposta da Scheffler va considerata nell’ambito dei dibattiti teorici degli anni ’60 sull’applicabilità dei “modelli africani” alle società delle Highlands della Nuova Guinea. Gli etnografi di queste società melanesiane notavano che esisteva una considerevole flessibilità nelle scelte individuali in relazione al luogo di residenza e alla scelta delle persone da cui farsi aiutare nelle proprie attività. John Barnes (1962) per esempio suggeriva che questa flessibilità nell’affiliazione e il fatto che i processi di segmentazione non avvenissero con regolarità, ma in maniera denominata “catastrofica”, cioè determinata da conflitti imprevedibili, fosse un elemento di differenziazione dai modelli di struttura sociale basati sullo studio delle società africane. In realtà è molto difficile fare dei confronti tra strutture sociali di due entità così varie come le Highlands da una parte e l’Africa dall’altra. Il punto è che Scheffler trovò le generalizzazioni di Barnes sulle Highlands utili per pensare alla situazione incontrata su Choiseul. Su Choiseul, però, anche la flessibilità postulata da Barnes era a sua volta chiaramente strutturata. I gruppi locali erano costituiti attorno a un nucleo di persone imparentate per via patrilineare o di un comune antenato di sesso maschile (agnazione), i quali erano riconosciuti come i principali tenutari di diritti sulla tenuta territoriale. Uno tra i membri di questo gruppo era detto batu, termine che Scheffler (seguendo Burridge 1961) traduceva come “manager”. Il batu era generalmente il figlio maggiore del batu precedente, ma l’ottenimento di questa posizione dipendeva anche dall’abilità, e quindi poteva anche accadere che fosse attribuita ad un altro membro del gruppo. Questo significa che potevano anche esserci dei conflitti per la successione. Il gruppo costituito attorno al batu era un sinangge, ed un certo numero di sinangge erano raggruppati in un gruppo più vasto, chiamato anch’esso sinangge “big sinangge”. Il ruolo del batu era molto significativo, egli era custode della prosperità del gruppo, in particolar modo di oggetti di valore in conchiglia chiamati kesa. I Kesa erano dischi ricavati da fossili di conchiglie giganti (Tridacna), servivano per pagare i debiti, premiare gli alleati, e per le prestazioni effettuate nel corso delle feste chiamate kelo. Oltre agli agnati (discendenti per via patrilineare da un antenato comune) del batu i gruppi potevano includere altre persone, soprattutto i figli o discendenti di donne nate nel gruppo, per esempio nel caso di matrimoni in cui non viene pagato il prezzo della sposa, e quindi la coppia risiede nel villaggio di origine della donna (residenza uxorilocale). Questo genere di matrimonio, chiamato tamazira, era spesso organizzato volutamente da un batu per assicurarsi la collaborazione delle figlie e dei loro mariti per le proprie attività (Scheffler 1965: 47, 196). Più generalmente un sinangge può accogliere al suo interno chiunque possa dimostrare di avere qualche legame di 112 sangue con i suoi membri. I discendenti cognatici venivano chiamati “nati dalle donne” popodo nggole, mentre i discendenti per via patrilineare erano chiamati popodo valeke, “nati dagli uomini”. Una differenza esisteva tra questi sottogruppi, i “nati dalle donne” erano considerati ospiti del gruppo, e meno “forti” nel rivendicare diritti politici dei popodo valeke. I discendenti delle donne avevano il diritto di residenza, ma non potevano esercitare la stessa influenza sull’organizzazione delle attività del gruppo dei membri che potevano dimostrare di appartenere tramite la discendenza patrilineare. Questa situazione è simile a quella riscontrata da Stewart e Strathern tra i Duna della Nuova Guinea (2002). Il secondo motivo di interesse per il lavoro di Scheffler è la sua descrizione delle attività di scambio imperniate sui kesa. Una particolarità di questi oggetti di valore è che non solo non erano prodotti regolarmente dagli abitanti di Choiseul, ma non provenivano neppure da rotte commerciali stabilite, come avviene per altre popolazioni melanesiane, come le Highlands. Gli isolani dissero a Scheffler che i kesa erano stati fatti e dati agli uomini da Bangara Laena, un dio dell’acqua che risiede nel mare. Il dio aveva dato questi oggetti perché fossero il marchio degli uomini di prestigio “big men”. (1965:200). Se gli oggetti sono in numero limitato, e controllati dai batu, è chiaro che potevano essere usati per controllare politicamente gli altri membri del gruppo, in accordo con il loro mito di origine. I kesa erano conservati in serie di nove dischi che formavano un cilindro e si distinguevano in kesa “da lavoro” e kesa “grandi. Questi ultimi non erano usati negli scambi minori, ma conservati per il prestigio che attribuivano ai possessori, per sicurezza, e per essere utilizzati per fissare alleanze importanti. Non erano quindi oggetti “inalienabili” nel senso utilizzato da Annette Weiner per descrivere una certa categoria di oggetti di valore delle Trobriand ( 1992) o da Godelier (1997), ma venivano riservati per trattare unicamente le alleanze politiche più importanti, come nel caso di alcuni oggetti di madreperla con nomi individuali, usati nelle Highlands della Nuova Guinea. Ogni cilindro era chiamato mata (“occhio”) e le storie individuali di quelli più grossi erano conosciute dettagliatamente. Dopo l’introduzione del denaro, furono stabilite delle equivalenze tra il valore dei kesa e quello monetario. I kesa potevano essere acquisiti in diverse maniere. Un modo era di allevare maiali e venderli agli organizzatori delle feste tradizionali, che richiedono molti maiali da donare. Queste vendite potevano solo avvenire all’esterno del proprio gruppo di appartenenza, in quanto all’interno di un sinangge i maiali per una festa dovevano essere dati liberamente, e reciprocamente. I kesa si ottenevano anche come prezzo della sposa, e i batu potevano pretendere questo pagamento per eventuali donne orfane o di status inferiore adottate in gioventù. Se qualcuno moriva mentre aiutava un altro, si poteva richiedere un pagamento in kesa. Come tra i Kwaio dell’isola di Malaita (Keesing 1992), anche tra gli abitanti di Choiseul c’era chi si costruiva una reputazione come assassino prezzolato, ed era ripagato per le proprie commissioni in kesa. Un altro modo per ottenere gli oggetti di valore era di andare ospite da un partner di scambi e fare nggare. Il padrone di casa offriva della carne di maiale al vapore all’ospite, il quale chiedeva anche kesa per accompagnare la carne, e il partner era obbligato a dargliene (Scheffler 1965:204). Successivamente i ruoli dei due partner si sarebbero rovesciati, permettendo al primo donatore di pretendere un ritorno di kesa. In maniera meno coercitiva, i giovani desiderosi di iniziare delle relazioni di scambio con dei partner, potevano ottenere dai fratelli della madre o dai padri della madre i primi kesa portando loro del maiale arrostito e del pasticcio di taro. Queste richieste incontravano successo solo se esistevano delle buone relazioni tra i giovani e i parenti matrilineali a cui si rivolgevano. La nozione di buone relazioni era allargata anche al mondo degli spiriti: si pensava che alcuni spiriti chiamati sinipa potessero far amicizia con un essere umano e mostrargli dove poteva trovare dei kesa che erano stati seppelliti da uomini deceduti prima di rivelare il loro nascondiglio ai discendenti. In alcuni casi i sinipa erano obbligati a rivelare il nascondiglio dopo che l’uomo gli aveva rubato il coltello usato per tagliare il taro, in altri casi era lo spirito che voleva “sposare” l’umano. Dopo aver passato qualche tempo nella foresta con il sinipa, l’umano faceva ritorno con i kesa ottenuti. (Anche questa 113 concezione di ottenere ricchezza o buona fortuna da un matrimonio con uno spirito è comune sia in Nuova Guinea che in Indonesia). Gli isolani degli anni ’60 attribuivano ancora molto valore ai kesa e descrivevano chi non ne aveva come “nessuno”. I manager dei gruppi erano responsabili per l’organizzazione di festival kelo in cui si potessero scambiare gli oggetti di valore. Due batu di gruppi diversi potevano competere come organizzatori di una serie crescente di kelo reciproci. In alternativa un batu, in qualità di leader del suo gruppo poteva dare kesa ad un altro gruppo i cui uomini avessero accettato di aiutarli in un raid contro un villaggio nemico. Alleati in questa maniera erano anche chiamati ad aiutare in caso di morte: costruivano con lastre di pietra la sepoltura per le ceneri del deceduto, ed erano ripagati dai parenti più prossimi con almeno tre kesa. Se ne ricevevano molti di più si sentivano in obbligo di reciprocare, ed organizzavano a loro volta una kelo per non perdere prestigio. Se restituivano più kesa di quelli ricevuti obbligavano i parenti del morto ad organizzare una festa ulteriore, per restituire i kesa ricevuti, magari qualcuno in più… In qualunque momento in questo ciclo di prestazioni un gruppo poteva segnalare la sua intenzione di ritirarsi dalla competizione facendo solo un piccolo dono di restituzione. Ogni sequenza di scambi richiedeva un’organizzazione notevole, soprattutto nel piantare piantagioni di taro sufficienti per le feste che accompagnavano ogni scambio di doni. I debiti in questo sistema potevano essere ereditati da padre in figlio, anche se un figlio poteva negare di essere a conoscenza del debito del padre, o sostenere che i debiti erano stati ripagati. Le strategie legate alle attività del kelo erano complesse e richiedevano manovre politiche continue da parte dei “managers” per assicurarsi il supporto dei sostenitori ed il successo nella competizione. Oltre a custodire i kesa, dunque, era la capacità di organizzare i loro scambi nell’ambito di festival kelo, ad essere il vero marchio di un batu. L’abilità di iniziare tutte quelle transazioni che sarebbero sfociate nello scambio di oggetti di valore era la qualità necessaria a diventare manager, e il partecipare a questi scambi cerimoniali faceva accrescere il prestigio e lo status sia del manager che del suo sinangge. I paralleli tra questo sistema di scambi cerimoniali e quello più conosciuto del Moka di Mount Hagen in Nuova Guinea sono numerosi, e Strathern suggerisce che sarebbe opportuno considerare uno studio comparativo di tutti i sistemi politici basati sul prestigio costruito tramite l’organizzazione di scambi agonistici, minando la supposta divisione tra le popolazioni austonesiane e non-austronesiane della Melanesia. I “piccoli grandi uomini” Kwaio Una delle caratteristiche che si sono venute ad associare con la struttura politica dei popoli melanesiani è la figura dei “big men”, in opposizione ai capi delle società polinesiane. Questa è una generalizzazione che si è verificata a partire dalla descrizione etnografica di società delle Highlands della Nuova Guinea, (Strarthern 1971) in cui la densità della popolazione, il surplus di tuberi prodotti, e la conseguente abbondanza di maiali, permette agli uomini più carismatici e intraprendenti di vincere il supporto di altri uomini e donne attraverso la prominenza nell’organizzazione di feste e nel controllo di sistemi di scambi cerimoniali a livello regionale, come la moka di Mount Hagen e il tee degli Enga. Caratteristiche simili nello stile di leadership sono poi state riscontrate in altre società melanesiane, da cui la generalizzazione, ma per motivi ambientali le società costiere o isolane della Melanesia non permettono ai loro big men di sviluppare lo stesso grado di “grandezza”, di crearsi una posizione di prestigio che spazi su un territorio così vasto, influisca su una rete così larga di relazioni o di essere così fermamente radicati nelle strutture politiche locali. Roger Keesing (1978) descrive un big man dei Kwaio nelle Salomone, come esempio minore della figura del big man che si è andata configurando nella letteratura antropologica sulla Melanesia negli anni ’80. La società Kwaio è frammentata, composta da decine di gruppi locali basati sulla discendenza. Ogni gruppo possiede un territorio e non esiste una organizzazione che unisca questi gruppi ad un livello politico più inclusivo, o una carica politica ufficiale. L’influenza, l’autorità, e la leadership negli 114 affari secolari del gruppo derivano dall’abilità di mobilitare e manipolare le risorse. All’interno del gruppo, colui che ha più successo nell’utilizzare le risorse visibili, come dischi di conchiglia infilati e maiali, per accrescere il proprio “capitale” di prestigio è riconosciuto come il big man. Perché un gruppo acquisisca rinomanza e rispetto deve organizzare dei festeggiamenti mortuari in onore dei propri morti importanti. Se muore un uomo appartenente ad un gruppo, un suo parente appartenente ad un altro gruppo può essere uno dei molti emissari a cui è permesso di seppellirlo. Il big man del gruppo del morto coordinerà uno sforzo collettivo per mobilitare le risorse del suo gruppo. Coloro che trasportano la salma, tra cui il parente appartenente ad un altro gruppo, sono ricompensati con grandi quantità di oggetti di valore. Questi doni però saranno reciprocati dai membri del secondo gruppo quando ci sarà una morte nel primo gruppo. Quello che può sembrare un atto dovuto verso i parenti in lutto, si rivela essere un duello tra i big men dei due gruppi per il prestigio del proprio gruppo. Per divenire il big man del gruppo, un uomo dev’essere abile nel gestire le risorse. Perché possa ottenere successo un big man dev’essere un fratello maggiore, e deve avere un numero consistente di parenti vicini e di persone con la sua stessa discendenza, da poter mobilitare. La sua strategia è di obbligare gli altri a lui contribuendo alle loro festività, finanziando i matrimoni, e attraverso altri investimenti delle sue risorse. Un big man non ha autorità o poteri formali, non ha una posizione definita; è semplicemente uno che comanda perché gli altri lo seguono, uno che decide perché gli altri si rimettono alle sue decisioni. Un big man prende la guida nell’accampare diritti o pretese a verso altri gruppi, e nelle contese. I Kwaio dicono che un big man è colui che mantiene la stabilità interna del gruppo e ne determina la direzione, come il timoniere di una canoa. Il figlio maggiore di un big man avrà sempre un leggero vantaggio nella competizione per il prestigio ed il potere, ma la successione non è ereditaria, anche perché quella del big man non è una carica. La “grandezza” è una questione di gradi in una società dove ogni uomo organizza delle feste e partecipa agli investimenti del gruppo per il prestigio; esistono molti gruppi in cui il big man non c’è. In contesti in cui la produzione economica è intensificata, la densità della popolazione è maggiore e quindi il controllo del big man sui maiali e sugli oggetti di valore aumentano la loro base di potere, come nel caso delle Highlands, questi leader non solo dispongono di più potere ed influenza, ma possono cominciare a comportarsi come elite e ad essere in grado di trasmettere il proprio potere e la propria influenza ai figli. Nell’allargarsi del golfo tra uomini comuni e big men si può intravedere lo sviluppo di un principio di classe sociale. Un passaggio successivo sarebbe quello in cui i big men diventano più simili ai capi, controllano le risorse usate negli scambi con altri gruppi ed i prodotti del lavoro delle mogli e dei seguaci, cominciano a circondarsi con i simboli di uno status elevato, e a legittimare la propria posizione attraverso la mitologia ed i rituali, come nel sistema politico delle Trobriand, che rappresenta una parziale trasformazione del sistema dei big men. Struttura sociale e religione tradizionali dei Kwaio Roger Keesing è stato uno degli antropologi più prominenti in Melanesia, unendo una profonda conoscenza dei Kwaio di Malaita tra i quali è tornato ripetutamente a fare ricerca, con un intenso interesse per le tematiche teoriche legate alla contrapposizione tra tradizione da una parte e trasformazione storica dall’altra, e per gli aspetti politici della cultura, sia internamente alla società che ai livelli nazionale e globale. Una particolarità dei Kwaio rispetto alle situazioni più miste che sono comuni altrove in Melanesia, è che per motivi legati alla storia della colonizzazione di Malaita, si sono differenziati i gruppi di Kwaio cristianizzati, che si sono stabiliti perlopiù in villaggi sviluppati attorno alle missioni sulla costa, e gruppi di Kwaio tradizionalisti, che hanno rifiutato e si sono attivamente opposti all’ingerenza dei missionari e sono rimasti a vivere in piccoli villaggi dell’interno dell’isola. Questo non significa che la cultura dei Kwaio tradizionalisti non sia stata influenzata dal contatto con la religione e le strutture politiche coloniali, anzi il fatto stesso di dover operare una scelta, e di definire la propria identità tradizionale in opposizione a quella di chi si è lasciato convertire 115 comporta una presa di coscienza della propria cosmologia e dell’esistenza di alternative, da un lato, e l’evolvere di una ideologia della tradizione come atto identitario e di resistenza politica. Keesing descrive il sistema religioso e la struttura sociale dei Kwaio tradizionalisti facendo risaltare le relazioni sistematiche tra le due sfere culturali. Come abbiamo visto in precedenza i Kwaio sono organizzati in piccoli gruppi composti dai discendenti agnatici e cognatici degli antenati fondatori del territorio su cui vivono. La cosmologia Kwaio colloca il mondo degli uomini in una posizione intermedia tra il reame del sacro, dominato dagli antenati e da cui le donne sono escluse, e la sua immagine speculare, un mondo in cui sono i poteri delle donne, pericolosi per gli uomini, a dominare. I legami tra gli uomini ed i loro antenati sono molteplici, per gli osservatori occidentali è difficile comprendere le realtà soggettive del vivere in un mondo dominato dagli antenati. Per chi lo fa gli antenati non sono una parte separata della realtà quotidiana, ma attori sociali, anche se invisibili, nella vita della comunità. In questo senso sarebbe più coerente considerare i lignaggi come composti da membri sia vivi che morti. I Kwaio credono che il loro mondo sia dominato dagli spiriti ancestrali, adalo, i quali sono invisibili e diffusi “come il vento”, e comunicano coi vivi. Le ombre dei vivi e gli spiriti comunicano in sogno; gli spiriti degli antenati comunicano il proprio dispiacere causando malattie o disgrazie; e gli officianti religiosi parlano con essi per conto del loro gruppo di discendenza. I luoghi attorno ai quali avviene questa comunicazione tra i vivi e i morti sono le case degli uomini e santuari, cioè dei boschetti in cui sono custodite delle pietre sacrificali, sono particolarmente sacri. Qui i ragazzi e gli uomini del gruppo, oltre ad altri discendenti dei fondatori si riuniscono per consumare la comunione sacrificale. Ogni adulto, uomo o donna, dopo il decesso, è tramutato in antenato, come spirito. Gli adalo si distinguono in “minori” e “importanti”. Gli adalo minori sono gli spiriti di coloro che uno ha conosciuto in vita - parenti vicini nella generazione dei genitori e dei nonni; le loro attività incidono solo sulla vita dei parenti in vita più vicini. Antenati importanti sono coloro che sono cresciuti in importanza attraverso le generazioni, la maggior parte risultano essere della sesta o settima generazione precedente a quella del loro discendente più anziano ancora in vita. Certe volte gli adalo minori fanno da tramiti tra gli umani viventi e gli spiriti più importanti. Come tra i vivi ci sono adalo più o meno prestigiosi, più o meno “grandi”. In pratica esiste una categoria di adalo dalle generazioni precedenti che non sono considerati particolarmente potenti o pericolosi, e ai quali non sono offerti sacrifici specifici, che esistono in una sorta di limbo. Questa organizzazione tra gli adalo è parallela alla struttura sociale dei vivi. Ogni gruppo di discendenti ha generalmente due o tre antenati potenti ai quali il sacerdote sacrifica dei maiali, normalmente uno di questi antenati è considerato avere poteri maggiori degli altri del suo gruppo, corrisponde quindi alla figura del big man. Quando un maiale è sacrificato in onore di un antenato principale, si considera che la sua carne sia distribuita da questo a tutti gli antenati del gruppo. Anche se è possibile pensare al gruppo di discendenza degli antenati come a una proiezione nel supernaturale della struttura sociale, è culturalmente più sensato considerare il gruppo di discendenza come un’unica corporazione perpetua, che include sia i vivi che i loro antenati, Così come i vivi sono frammentati in numerosi gruppi di discendenza basati in località specifiche, anche i culti ancestrali sono circoscritti e basati in località limitate. Gli spiriti ancestrali si preoccupano solo dei propri discendenti e i viventi si occupano solo dei propri antenati. La preoccupazione degli antenati per gli affari dei propri discendenti ha due facce: essi sostengono e proteggono i vivi quando vedono che vi sono maiali sacrificati per loro, quando le procedure rituali sono seguite scrupolosamente, e quando i viventi seguono le rigide regole necessarie per contenere entro i propri limiti i poteri potenzialmente contaminanti delle donne. Le relazioni tra i vivi ed i morti riflettono ed esprimono le strutture della parentela Kwaio. Individui appartengono a numerose categorie di discendenza cognatica, definite dalla comune discendenza da un antenato fondatore. Sono questi antenati più antichi a conferire i poteri per lottare, rubare, coltivare, organizzare feste cerimoniali, e riuscire in tutte le attività terrene. Quando i membri 116 maschi di un gruppo di discendenza partecipano insieme ad un sacrificio per la purificazione, possono partecipare anche i discendenti cognatici che sono principalmente affiliati ad altri gruppi. Le donne sono sempre escluse da tutte queste attività rituali che mettono in comunicazione il mondo dei vivi con quello degli antenati. Il motivo per questa esclusione è che il corpo femminile è potenzialmente contaminante. L’atto di urinare o defecare in una donna sono contaminanti, le mestruazioni lo sono ancora di più, e la cosa più contaminante di tutte è il parto. La causa più comunemente attribuita in questa cultura per malattia, morte, o disgrazie, è una violazione da parte di una donna dei rigidi tabù imposti per prevenire la contaminazione. Le maggiori preoccupazioni rituali dei Kwaio servono a mantenere i reami sacri e contaminanti ben demarcati e separati da quello ordinario in cui si coltiva l’orto, si mangia, si parla e si dorme. La separazione di queste categorie è centrale nelle attività rituali dei Kwaio, per cui uomini e donne devono usare stoviglie separate per mangiare e bere, eccetera. Il modello simbolico che si può rappresentare con una serie di opposizioni binarie in cui gli elementi si specchiano reciprocamente: DONNA:UOMO CONTAMINATO:SACRO SOTTO: SOPRA Lo stesso modello simbolico è riprodotto nella divisione dello spazio di un villaggio Kwaio. Al margine superiore della radura c’è la casa degli uomini, considerata sacra e quindi vietata alle donne, in cui gli uomini dormono e mangiano. Al margine inferiore c’è la casa mestruale, contaminata, e vietata agli uomini. Nel centro della radura, la parte più neutrale, ci sono delle abitazioni domestiche, ma anche all’interno di queste si riproduce la divisione degli spazi; la parte della casa più a monte (dal focolare) è riservata agli uomini, la parte a valle può essere condivisa da uomini e donne. Una linea invisibile divide la radura del villaggio, la parte più a monte è prevalentemente occupata dagli uomini, anche se pragmaticamente , gli uomini permettono alle donne di arrivare fino ai margini della casa degli uomini per pulire la radura e portate legna. Gli uomini si possono muovere liberamente tra le abitazioni domestiche e la casa degli uomini; le donne, di riflesso hanno libertà di movimento in tutto lo spazio tra l’abitazione domestica e la casa mestruale. Ma le transizioni da un’area del villaggio ad un'altra avvengono con cautela. Una donna deve lasciare la pipa e la sua sporta prima di entrare nell’area contaminata della casa mestruale. Se porta la legna dall’abitazione alla casa mestruale deve accendere un legno intermedio prima di accendere il fuoco nella casa contaminata. Se un uomo ha partecipato ad un sacrificio ed è quindi in uno stato sacro, o una donna è contaminata dalle mestruazioni, i riti di desacrazione o di purificazione necessari per passare da un reame all’altro sono più drastici. Questo modo di rispecchiare il sacro ed il contaminato è molto chiaro nell’attività maschile più sacra, il sacrificio di un maiale tramite la cremazione, e quella femminile più contaminante, il parto. Quando una donna deve partorire si ritira in una capanna nella foresta, a valle della casa mestruale, dov’è assistita da una ragazzina. Mentre il sacerdote che fa un sacrificio si ritira nella casa degli uomini vicino al santuario, e si mette a letto, dove è accudito da un ragazzino. Cristianesimo tra i Kwara’ae Le Salomone, come il resto del Pacifico, sono state terreno di un’intensa storia missionaria da parte delle chiese cristiane, fin dall’inizio dell’influenza coloniale. Ben Burt ha studiato questo processo storico presso i Kwara’ae di Malaita, abitanti di un’area confinante con quella dei Kwaio studiati da Keesing (1992). Burt ha trovato che, come tra i Kwaio, i Kwara’ae Cristiani vivono in villaggi separati dai Tradizionalisti. Per Burt questo fenomeno si spiega con il carattere particolarmente fondamentalista della missione (South Sea Evangelical Mission) che opera in questa zona; egli 117 osserva anche che gli stessi valori della religione tradizionale Kwara’ae si riflettono anche nell’opposizione alla tradizione così come formulata dai convertiti (Burt 1994:14). I Kwara’ae vivono nell’interno di Malaita, e sono divisi in clan con lunghe genealogie, si conoscono tutti gli antenati fino a dieci o venti generazioni addietro, principalmente nella linea maschile. I legami con gli antenati servono a convalidare le pretese di diritti sulla terra. Un sistema elaborato di tabù serve a tutelare certi valori e alcune relazioni particolari. Esistono regole di separazione tra uomini e donne. I Kwara’ae cristianizzati descrivono le loro usanze tradizionali come i Dieci Comandamenti del Vecchio Testamento. Secondo Burt il sistema di divieti tradizionali serviva anche a proteggere il ruolo dominante degli uomini, cioè sia la loro superiorità in ambito rituale che la loro autorità politica nella società tradizionale. Gli uomini prominenti nella società, cioè che aiutano e supportano gli altri soprattutto attraverso la sponsorizzazione di feste, si guadagnano una posizione di importanza nella comunità. Shell money cioè dischetti di conchiglia infilati su uno spago sono utilizzati sia come prezzo per la sposa che per compensare i famigliari di persone uccise, pena la vendetta. Le pratiche religiose indigene erano soprattutto incentrate sul mantenimento di buone relazioni con gli spiriti per evitare le disgrazie ed assicurarsi il successo. Gli spiriti possono assicurarlo se gli umani gli sono “fedeli” e gli offrono sacrifici. Nonostante la differenza di status e la separazione vigente tra uomini e donne, gli spiriti sia maschili che femminili sono importanti, gli spiriti delle donne hanno poteri legati alla promozione della crescita degli esseri viventi, oltre al potere di portare la calma una qualità espressa come “rinfrescare”. Sacerdoti specializzati si prendono cura dei santuari costruiti per gli spiriti ancestrali e dirigono i preparativi per i festival durante i quali i maiali vengono sacrificati nei luoghi dove sono custodite le reliquie ancestrali. I sacerdoti possono utilizzare il potere degli spiriti per uccidere i trasgressori, mentre alcuni individui usano i poteri della stregoneria per i loro scopi individuali, causando malattie o disgrazie ai propri nemici. Il timore della stregoneria continua ad esercitare un forte potere sui Kwara’ae nonostante il fatto che quasi tutti siano convertiti ad una delle fedi cristiane. Il Cristianesimo Anglicano fu introdotto inizialmente dagli isolani che erano stati reclutati per lavorare nelle piantagioni del Queensland, Australia e che facevano ritorno nei primi anni del 1900. Il ritorno di questi isolani convertiti risultò nella separazione tra tradizionalisti e cristiani, entrambi i gruppi cercavano di difendere la propria purezza dalla contaminazione degli altri (Burt 1994: 121). Come per i Kwaio questo è un importante motivo storico per il separatismo che perdura ancora tra le due parti della comunità. Il successo dei Kwara’ae cristiani crebbe con il supporto da parte del governo coloniale britannico, che proteggeva le comunità costiere di convertiti contro le incursioni dei Kwara’ae della foresta. Il District Officer Bell, che fu poi ucciso da un capo guerriero Kwara’ae, contribuì moltissimo alla pacificazione delle zone interne dell’isola dopo il 1915. I Kwara’ae contemporanei spiegano la conversione che avvenne intorno a quel periodo dicendo che i sacrifici tradizionali comportavano troppi sforzi e comunque gli spiriti non potevano veramente aiutarli o prevenire le malattie e altre disgrazie. Citano l’idea che Gesù era già stato sacrificato, e quindi non c’era più bisogno di sacrificare i maiali. Leggendo tra le righe si può notare l’effetto del controllo coloniale, attraverso il quale gli indigeni si confrontavano con poteri che non si curavano dei loro spiriti ancestrali e apparentemente potevano agire impunemente col supporto del Dio cristiano. Un ruolo importante in questo processo di conversione lo ebbero sicuramente la soppressione delle faide da un lato, e la diffusione di epidemie dall’altro. I missionari della South Seas Evangelical Mission (SSEM) in questa situazione storica cominciarono ad offrire assistenza medica e a promettere “una nuova vita” , offerta che venne interpretata dai Kwara’ae come protezione contro le disgrazie. L’acqua di cocco sacrificale era utilizzata per “lavare” i convertiti ed iniziarli alla “nuova vita”. Si pensava che quest’azione avesse un effetto rinfrescante, calmante, come quello degli spiriti femminili della religione tradizionale. Secondo Burt questo collegamento fu facilitato dal ruolo importante delle donne nella missione in questione. Ad ogni modo assistiamo ad un capovolgimento delle pratiche legate ai tabù originali. Il Cristianesimo infranse i vecchi tabù sugli uomini, ma contemporaneamente introdusse nuove 118 regole “femminili” che, però, traevano anch’esse significato localmente dalla religione indigena. La SSEM propagava i suoi insegnamenti ed i nuovi rituali attraverso l’istituzione di “scuole” nei villaggi che producevano convertiti. Gli evangelisti cristiani cominciarono anche a proibire i festival tradizionali, legati ai sacrifici dei maiali, e permettevano soltanto la partecipazione a festività organizzate dalla chiesa. Insegnanti religiosi locali presero il posto dei missionari espatriati, e divennero un nuovo tipo di leader locale (come i pastori nelle Highlands della Nuova Guinea e in gran parte della Polinesia). Questi leader erano anche disposti a resistere l’amministrazione coloniale secolare, e contribuirono alla diffusione del movimento Maasina Rule nato dopo gli sconvolgimenti portati dalla Seconda Guerra Mondiale. Il contatto con le truppe americane e con la loro apparente generosità causò un senso di insoddisfazione della gente con gli inglesi che li amministravano. La resistenza al controllo coloniale inglese si diffuse tramite le reti dell’SSEM, che contribuì all’allestimenti di nuove “città” in cui gli isolani potevano organizzarsi in attesa di ulteriori cambiamenti. Contemporaneamente il movimento ingiungeva ai seguaci un ritorno al kastom tradizionale, come modello di vita sociale comunitaria, che divenne un simbolo dell’autonomia di Malaita. La SSEM appoggiò la spinta autonomista dei Malaitani che, eventualmente, presero controllo della propria chiesa. Da allora, come tra i Kwaio, i Kwara’ae si sono imbarcati in un progetto di codificare il kastom tradizionale per verificare fino a che punto fosse compatibile col cristianesimo, e per produrre le genealogie ufficiali dei clan. Questi processi di codificazione scritta di saperi trasmessi oralmente suscitano intensi dibattiti e sono al centro di movimentate azioni politiche. Si può vedere in questi sviluppi storici la genesi di una mentalità di “gruppo etnico”, forgiato come spesso accade, nel contesto di politiche a livello nazionale. La categoria di “capi tribali” fu creata in questo contesto nel 1975. Questi capi attivisti svilupparono un modello di organizzazione politica tradizionale basata sul sistema politico e rituale pre-cristiano, ma adattato per assolvere a funzioni di gruppo di pressione nel contesto del sistema politico statale che si sta sviluppando (Burt 1994:215). E’ interessante notare che l’influenza allargata dei capi nella situazione post-coloniale è, come nelle Figi, un’innovazione basata sulle strutture organizzative coloniali. Le chiese acconsentirono a questo nuovo ordine offrendo benedizioni per i capi a festival tenuti per discutere la “tradizione”. Alcuni antropologi hanno coniato il termine neo-tradizionale per questo tipo di organizzazione. I gruppi locali contemporanei, strutturati dall’appartenenza ad una chiesa della SSEC (South Seas Evangelical Church, come si chiama ora) sono basati sull’appartenenza ai villaggi, non più su quella basata sulla comune discendenza dei clan. Ma gli stessi villaggi sono il risultato dell’amalgamazione tra diversi clan scaturita dalle attività dei missionari e del movimento Maasina Rule. Le strutture dell’SSEC come organizzazione spirituale hanno largamente rimpiazzato gli spiriti ancestrali e i loro santuari. I pastori hanno rimpiazzato i sacerdoti tradizionali e, come questi ultimi erano i tenutari della conoscenza del kastom, ora custodiscono la conoscenza rituale legata alla Bibbia. L’SSEC incoraggia anche sogni, visioni e possessioni spirituali (Burt 1994: 240), lo Spirito Santo è considerato ispiratore di cambiamenti nei posseduti, secondo Burt questo aspetto di vitalità della chiesa è un’elemento di indigenizzazione. Quindi alcuni aspetti della religione tradizionale sono stati incorporati nella versione Kwara’ae di cristianesimo: in particolare le regole associate ai tabù e la pratica di creare una relazione spirituale con Gesù Cristo, come nella religione tradizionale si sacrificavano i maiali per forgiare relazioni personali con gli spiriti. 119 NUOVA CALEDONIA La Nuova Caledonia si trova ad est dell’Australia, e consiste di una grossa isola principale, La Grande Terre, di 400 chilometri di lunghezza, dell’arcipelago delle isole della Lealtà ad est, e di numerosi piccoli isolotti e atolli scarsamente popolati. A metà del diciannovesimo secolo vi si erano insediati coloni sia francesi che inglesi, ma divenne un possedimento francese nel 1853. La Nuova Caledonia è tuttora un Territorio d’Oltremare della Francia. Geografia La Grande Terre è un’isola lunga e stretta, divisa da una catena di montagne centrale. La cima delle montagne è coperta da una fitta e umida foresta tropicale, la costa est è fertile e relativamente meno sfruttata di quella occidentale che, essendo protetta dalla pioggia, è più secca, oltre ad esser stata più danneggiata dalle miniere e dagli allevamenti di bestiame. Le isole sono al limite dei tropici, ci sono poche variazioni climatiche, con un leggero aumento dell’umidità da novembre ad aprile, e temperature moderate tutto l’anno. La stagione dei cicloni è da dicembre a marzo. La grande ricchezza della Nuova Caledonia sta nel sottosuolo, possiede circa il 25 % delle risorse mondiali di nichel. In contrasto solo una piccola porzione del territorio è adatto a coltivazioni agricole commerciali, di conseguenza, il 20% dell’importazione è di cibo; considerando questo dato è importante notare l’alta percentuale di abitanti di origine europea, per i quali l’importazione di cibi esteri è sicuramente più importante che per le popolazioni indigene. L’economia locale è anche sostenuta dal turismo, dalla pesca e dal supporto finanziario della Francia (40%). Popolazione La popolazione stimata per la Nuova Caledonia nel 2003 era di 210,798 abitanti, di cui solo 42% melanesiani, il 37,1% europei, l’8,4% dell’isola di Wallis, il 3,8% polinesiani, e il 5% asiatici. Le religioni dichiarate sono il cattolicesimo (60%) ed il protestantesimo (30%). La lingua ufficiale è il francese. Esistono oltre trenta lingue indigene, ma a differenza di altre nazioni del Pacifico Occidentale, non si è sviluppata nessuna lingua franca indigena. Il territorio della Nuova Caledonia è diviso in tre province amministrative: La Grande Terre è divisa in Nord e Sud, la terza provincia è costituita dalle Iles Loyaute. Storia Come gli altri arcipelaghi del Pacifico la Nuova Caledonia è stata colonizzata dai navigatori Austronesiani. Questi antichi abitanti hanno dato origine, nel corso del tempo, a trentasette gruppi linguistici distinti. Costruirono delle fortificazioni in pietra nelle aree dove la competizione per la terra coltivabile era probabilmente più acuta: gli altipiani asciutti e calcarei, sull’isola principale svilupparono delle terrazze irrigate per la coltivazione del taro, e la coltivazione degli ignami in cumuli di terra. Le tracce lasciate da queste coltivazioni fanno supporre che in tempi preistorici ci sia stata una forte crescita demografica, accompagnata dallo sviluppo di strutture socio-politiche legate alla figura dei capi, seguita da un collasso demografico nei primi anni di contatto con gli europei, dovuto all’introduzione di nuove malattie infettive e dal caos portato dai coloni all’organizzazione agricola indigena (Kirch 2000: 155). L’esploratore inglese James Cook avvistò la Grande Terre nel 1774, durante la sua seconda spedizione in cerca della Terra Australis, e la battezzò ”New Caledonia” perché gli ricordava la regione dei monti scozzesi che i Romani avevano chiamato Caledonia (ironia dei nomi coloniali!). Nel 1788 Luigi XVI mandò il Compte de la Pérouse a cercare le isole, ma la spedizione finì con un ciclone alle Vanuatu. Tre anni più tardi l’Ammiraglio Bruny D’Entrecasteaux fu incaricato di cercarle. Con alcuni uomini l’ammiraglio impiegò un mese per attraversare La Grande Terre a piedi. Seguirono balenieri inglesi ed americani, che nel 1840 costruirono una stazione per 120 l’estrazione dell’olio sull’isola di Lifou, nelle Isole della Lealtà. Arrivarono anche mercanti di sandalo e di cetrioli di mare. Dagli ultimi anni del secolo cominciarono a passare per le isole della Nuova Caledonia anche i “Blackbirders”, cioè i reclutatori di lavoratori per le piantagioni delle Fiji e del Queensland in Australia. Tutti questi personaggi portarono nuove malattie infettive e veneree, introdussero le armi da fuoco e precipitarono numerosi combattimenti feroci. Anche i missionari cristiani contribuirono alla violenza di quegli anni: i protestanti inglesi della London Missionary Society ed i cattolici francesi si contendevano i convertiti e causarono delle guerre tra gruppi indigeni rivali. Inoltre i missionari pensavano di aver acquistato la terra delle missioni dagli abitanti originali i quali, invece, pensavano di aver solamente concesso ai nuovi arrivati il permesso di risiedervi temporaneamente. Questo genere di malintesi risultò in ulteriori conflitti. I militari francesi furono mandati a calmare la situazione e per proteggere i missionari. Napoleone III dichiarò l’annessione della Grande Terre alla Francia nel 1853, anche per prevenire una simile azione da parte dell’Inghilterra. Mentre la popolazione indigena era messa a dura prova dalle malattie introdotte dagli europei e dalle incursioni dei “blackbirders”, la popolazione francese sulla Grande Terre aumentò notevolmente dal 1864, con l’arrivo dei deportati francesi, sia criminali comuni che detenuti politici, destinati alla colonia penale sulla Grande Terre. I deportati erano utilizzati per costruire chiese e strade e, una volta scontata la pena, erano incoraggiati a rimanere nella colonia. L’apertura della prima miniera di nichel nel 1864 determinò l’arrivo sulla Grande Terre di lavoratori asiatici. Altri coloni, liberi, arrivavano dalla Francia e cominciarono a occupare la terra per allevare bovini, distruggendo i terrazzamenti per la coltivazione del taro. Le tensioni causate da questa massiccia occupazione sfociarono nel 1878 in una rivolta degli indigeni che durò sette mesi e portò la morte di 200 francesi e 1200 melanesiani. La rivolta fu repressa duramente dai francesi che utilizzarono a loro vantaggio le rivalità tra i diversi gruppi locali, alcuni dei quali a loro volta si allearono agli europei per ottenere vantaggi militari e protezione dalle incursioni di nemici melanesiani. Il risultato fu che gli indigeni furono esclusi dallo statuto legale francese, e segregati in riserve che comprendevano solo l’11% del territorio. La dura politica coloniale dei francesi ebbe gravi conseguenze, non solo a livello sociale e culturale, ma anche per la sopravvivenza stessa dei melanesiani in Nuova Caledonia. Si stima che fossero più di 100,000 prima che arrivassero i coloni, mentre nel 1927 erano soltanto 26,000. Numerosi indigeni furono reclutati dall’esercito francese in occasione delle due guerre mondiali. Durante la seconda guerra mondiale fu costruita una base americana sulla Grande Terre, che ospitò 40,000 soldati americani. Come in altre basi americane del Pacifico, questa fu la prima volta in cui i lavoratori indigeni furono retribuiti con un vero stipendio, e in cui videro che tra bianchi e neri americani vigevano dei rapporti relativamente paritari. La lotta per l’indipendenza I francesi adottarono il termine Canaques per gli abitanti indigeni della Nuova Caledonia, le sfumature denigratorie associate al termine sono evidenti, tanto che in Papua Nuova Guinea la parola kanaka in Tok Pisin è diventata un insulto usato per descrivere chi si comporta da “primitivo”. Invece in Nuova Caledonia il movimento indipendentista moderno si è appropriato di questo termine e usando un’ortografia melanesiana, lo ha fatto proprio, sottolineando il fatto che l’identità culturale indigena è basata proprio sulla comune esperienza del regime coloniale. I Kanak della Nuova Caledonia combattono una lotta doppia, da una parte la lotta per il riconoscimento dei diritti alle popolazioni autoctone, e dall’altro la lotta per il diritto all’autodeterminazione delle popolazioni colonizzate (Lekanak, 2001). © 2001 - PALIKA Dopo la guerra i Kanak cominciarono ad avanzare richieste sia politiche che sociali. Chef Naisseline di Maré, preparò una dichiarazione dei diritti dei nativi, in cui argomentava che siccome i Kanak avevano combattuto ed erano morti sotto la bandiera francese in entrambi i conflitti mondiali, dovevano essergli attribuiti gli stessi diritti dei cittadini francesi. 121 Nel 1946 lo status della Nuova Caledonia fu cambiato da colonia a Territorio d’Oltremare, la segregazione tra bianchi e Kanak fu abolita, e agli indigeni fu accordata la cittadinanza francese. Nel 1953 fondarono il primo partito politico, l’Union Calédonienne, e nel 1957 ottennero il diritto di voto. Il boom del nichel degli anni 1960 risultò in una rapida crescita di Noumea, la capitale. Da un lato la promessa prosperità stimolò il desiderio di una maggiore indipendenza da un’amministrazione lontana da parte dei Caldoches (gli abitanti urbanizzati di origine francese), dall’altro aumentarono le richieste di diritti sulla terra da parte dei Kanak. In quello stesso periodo fecero ritorno in Nuova Caledonia i primi studenti che erano andati all’università in Francia, dove avevano assistito alle proteste studentesche del 1968. La coscienza politica e la spinta indipendentista crescevano, stimolate anche dalla conquista dell’indipendenza di altre nazioni oceaniche negli anni 1970. L’indipendenza e la restituzione della terra ai Kanak erano due dei principali temi della campagna elettorale del 1977, ma nel frattempo i Kanak erano diventati una minoranza nel loro paese (tuttora il governo di Parigi incoraggia, con premi economici e sgravi fiscali, il trasferimento di funzionari statali, insegnanti, francesi nel territorio d’oltremare). Nel 1984 iniziarono due anni di caos generalizzato, conosciuti come “Les Evènements”, gli eventi. Disillusi con il governo socialista francese, che fece vuote promesse di riforma, alcuni partiti indipendentisti formarono il FLNKS (Front de Libération National Kanak et Socialiste), con JeanMarie Tjibau come leader. Il fronte di liberazione boicottò le elezioni territoriali del 1984, e cominciarono delle violente lotte di fazione tra i Caldoches ed i Kanak. Dopo l’uccisione di uno dei più radicali esponenti dell’FLNKS da parte di un gruppo paramilitare, i disordini si diffusero in tutta la Nuova Caledonia. Il governo mandò i paracadutisti e dichiarò lo stato di emergenza per sei mesi. Seguirono ulteriori boicottaggi elettorali, uccisioni, e attentati dinamitardi nel centro di Noumea. Nel 1986 le Nazioni Unite iscrissero la Nuova Caledonia sulla lista dei paesi da decolonizzare, un riconoscimento importante per il movimento per l’indipendenza. Il governo francese interpretò questo atto formale come un’ ingerenza nei suoi affari interni e reagì con l’espulsione del Console Generale dell’Australia a Noumea, incolpato di aver avuto un ruolo di rilievo nel processo di riconoscimento diplomatico. Nel 1988 fu firmato l’accordo di Matignon in cui si gettarono le basi per il riconoscimento dei diritti delle popolazioni autoctone a livello culturale, dell’insegnamento (per esempio delle lingue Kanak), della proprietà della terra, e della rappresentazione istituzionale, tramite l’istituzione del conseil consultatif coutumier. Tjibau fu assassinato nel 1989 dai membri di una fazione kanak che pensavano che l’FLNKS li avesse svenduti nel fare degli accordi di pace col governo. Durante gli anni ’90 si è visto una diminuzione nella violenza, e una ricerca di consenso verso l’indipendenza negoziata. Nel 1998 c’è stato un referendum sull’indipendenza che non è passato. Lo stato, l’RPCR (partito di maggioranza, rappresentante della destra coloniale) e l’FLNKS negoziarono e firmarono l’Accordo di Nouméa, in cui si decise un processo progressivo ed irreversibile per portare la Nuova Caledonia alla piena sovranità nel giro di 15-20 anni, non prima del 2013; un altro referendum è programmato per il 2014. Come parte di questo processo gli esponenti indigeni auspicano la costruzione di una cittadinanza basata sull’identità kanak. (Per approfondimenti visitare il sito del giornale del movimento kanak: http://www.kanaky.org/lekanak/index.html.) Alcuni critici vedono in questo trattato un’ulteriore tentativo da parte della Francia di procrastinare la rinuncia alle entrate del turismo e del nichel, evidentemente la forte presenza dei Caldoches è un fattore che rende più difficile e lenta la transizione all’indipendenza, rispetto ad altri paesi del Pacifico. In parte per compensare implicitamente la Nuova Caledonia per la storia coloniale turbolenta, il governo Francese ha finanziato la costruzione di un centro culturale a dieci chilometri da Nouméa, che è stato chiamato col nome di Jean-Marie Tjibau. Progettato dall’architetto italiano Renzo Piano per riflettere i legami dei kanak con la terra, il centro integra l’architettura moderna con la cultura 122 indigena, al suo interno sono esposti oggetti e documenti simbolici del retaggio kanak e delle altre culture dell’Oceania. Un commentatore storico, Robert Aldricht (1993), ha predetto che nei prossimi anni, oltre alle problematiche concrete su questioni come la proprietà della terra e la suddivisione dei poteri economici e politici, i dibattiti sui simboli della sovranità come il nome della nazione e la sua bandiera, metteranno in evidenza la politica della cultura e della tradizione - un processo comune a molte nazioni post-coloniali del pacifico che devono affermare le proprie radici locali e tradizionali nel crearsi una identità nazionale che da un lato sia comune a tutti i disparati gruppi che sono stati portati dalle casualità della storia coloniale a condividere la stessa nazione, che abbia elementi di unicità nella regione, ma che permetta anche loro di essere in relazione alla realtà globale contemporanea e del futuro. Etnografia Le culture indigene della Nuova Caledonia si sono sviluppate contestualmente a strutture politiche basate su un capo (la chefferie) e sulle relazioni segmentarie tra gruppi (I gruppi di discendenza sono definiti in base all’identificazione con capostipiti via via più lontani nel tempo, pertanto la struttura della società è idealmente concepita in forma ramificata: segmenti distinti a livello inferiore vengono raggruppati in unità più ampie ad un livello superiore). Nella reale organizzazione sociale queste strutture fondamentali che esistevano a livello ideologico, erano modificate sia dalle reti di connessioni interpersonali che dalle funzioni integrative associate ad una tradizione in cui vari culti sacri si sono susseguiti nel tempo, diffondendosi tra le diverse popolazioni tramite le strade che attraversavano il territorio. Il centro culturale Tjibau cerca di riprodurre alcuni di questi principi culturali nella forma delle case cerimoniali, in cui i capi e gli anziani si riunivano per discutere. Antropologi come Alan Bensa (1963) e Jean Guiart (1982), e storiche come Bronwen Douglas (1992) hanno contribuito a ricostruire come un puzzle un’immagine sia delle organizzazioni sociali indigene, che della storia coloniale e del suo impatto iniziale sugli indigeni. Nei suoi primi lavori la storica Bronwen Douglas ha ipotizzato che le strutture sociali indigene della Nuova Caledonia fossero basate in parte sul potere acquisito, e in parte sul potere ereditato e che ad una maggiore enfasi sulla parentela e sulla discendenza nella formazione e coesione dei gruppi corrispondesse un maggior peso attribuito all’anzianità ed all’ereditarietà come principi della leadership. A proposito dell’analisi storica, Bronwen Douglas ha sottolineato la necessità di un’approccio critico nella lettura etno-storica delle società della Nuova Caledonia, per esempio nella ricostruzione dei significati delle lotte del diciannovesimo secolo tra gli indigeni ed i militari francesi. I missionari e gli amministratori coloniali che descrivevano le guerre tra gruppi indigeni degli anni fino alla pacificazione tendevano ad attribuire a queste guerre dei significati determinati dal proprio sguardo etnocentrico, davano cioè per scontato che gli indigeni lottassero tra loro per sostenere o resistere le missioni o il regime coloniale. Questo atteggiamento etnocentrico è poi stato adottato dagli storici che hanno successivamente lavorato su questi dati, trattando gli indigeni come vittime passive che non hanno avuto altre iniziative se non quelle di reagire alla situazione imposta dall’arrivo degli europei. Secondo Douglas, invece, i melanesiani continuarono ad agire nel contesto coloniale secondo schemi che erano per loro culturalmente appropriati. Anche quando le loro azioni erano una risposta diretta agli europei, le reazioni melanesiane erano impostate secondo i propri schemi culturali, e quindi non erano le risposte attese degli europei. Nei suoi lavori più recenti, prendendo spunto dall’analisi delle relazioni di genere nella tesi di dottorato di Anna Paini sui gruppi di donne sull’isola di Lifou, Douglas ha volto il suo sguardo alle relazioni di genere in contesto pre-coloniale, cercando di individuare le tracce della strumentalità femminile indigena, come per esempio il ruolo attivo delle donne nelle lotte tra gruppi (1998: 115). Per quanto riguarda l’impatto coloniale, Anna Paini ricorda che questo varia notevolmente a seconda della località considerata. In generale l’intrusione coloniale nelle isole della Lealtà fu meno intensa che sulla Grande Terre. Comunque gli isolani soffrirono le conseguenze dei “blackbirders”, 123 e ci furono episodi di repressione violenta, ma dato che gli interessi economici erano minori la terra non fu mai espropriata, anzi le isole furono dichiarate riserve naturali ed in generale ci furono meno interferenze da parte dell’apparato statale. Nelle isole i principali agenti del colonialismo francese sono stati i missionari, sia protestanti che cattolici. Le comunità sono generalmente associate ad una o l’altra confessione. Mentre sulla Grande Terre la maggioranza è cattolica, per esempio, la popolazione dell’isola di Lifou è soprattutto protestante, anche se in alcuni villaggi, come quello studiato da Anna Paini, praticanti delle due confessioni convivono. Le due missioni rivali hanno dato un’impronta identitaria forte alle comunità convertite, rispecchiata in tutti gli aspetti della vita sociale e rituale, dal modo di aggregarsi a quello di vestire, a quello di pregare e celebrare le festività. Erano le missioni, non lo stato, a fornire servizi sanitari e scolastici, ed a portare le innovazioni del mondo culturale occidentale. Solo negli anni ’90 con la firma dell’accordo di Matignon cominciarono ad arrivare fisicamente nelle isole della Lealtà rappresentanti dello stato, creando tensioni e preoccupazione da parte degli isolani, che temevano che anche qui l’arrivo dei bianchi avrebbe significato l’alienazione della terra. I timori degli isolani rispetto ai cambiamenti di costume associati all’arrivo di queste nuove influenze coloniali, statali, si facevano sentire soprattutto nell’ambito delle relazioni di genere, in quanto gli uomini temevano la perdita di una serie di prerogative politiche legate alla tradizione o all’idea di costume (tradizione o costume). L’istituzione dei capi e le trasformazioni storiche Alban Bensa, un etnologo francese, ha scritto alcuni dei principali studi sull’istituzione dei capi in Nuova Caledonia, seguendo le orme di studiosi precedenti come Maurice Leenhart e Jean Guiart. Questa presenza di numerosi accademici francesi, inusuale in Melanesia, riflette la situazione politica e l’interesse della Francia per la sua colonia. Nel suo lavoro Bensa si occupa principalmente dei problemi di interpretare le variazioni nei modelli di leadership, con uno sguardo comparativo ai modelli basati sui “big men”, sui capi, e sui “great men” sviluppati dagli osservatori di popolazioni in nuova Guinea ed altrove in Melanesia. Inoltre Bensa riprende anche un altro tema che si ritrova altrove nel Pacifico fino all’Indonesia, ovvero l’idea che i capi siano rappresentati come discendenti di stranieri dai poteri straordinari, accolti dagli abitanti autoctoni che si sono spontaneamente assoggettati a loro attribuendogli lo status di capo (Sahlins 1987). Sahlins, seguendo il lavoro di Dumézil sulle tradizioni indo-europee di parentela, delinea l’idea fondamentale in questo caso. Nelle società formate da persone legate da legami di parentela, di lignaggi, e di clan, il capo è considerato superiore al resto della società, ma è considerato essere oltre la società, e quindi di provenienza altra. Valerio Valeri, nel suo studio sui reami e sul sacrificio alle Hawai’i, nota inoltre che il re è considerato al di fuori dalla società anche per un altro motivo, in quanto egli è la più vicina rappresentazione concreta degli dei stessi, e quindi ha il potere di consacrare la forma suprema di sacrificio agli dei, ed è proprio questo potere a conferirgli l’autorità sugli uomini (Valeri 1985:142). Bensa contrasta questa immagine del capo come estraneo a quella del capo come figlio maggiore di una linea di discendenza maschile, che si assume la responsabilità di prendersi cura della sua gente, ed ancora con l’immagine del capo che emerge dai resoconti del diciannovesimo secolo, un capo guerriero e dispotico (Bensa 2000:10). Da un lato quello di Bensa è un’analisi delle trasformazioni storiche delle istituzioni indigene, dall’altro il suo è un ragionamento più sottile, sulla trasformazione delle rappresentazioni di queste istituzioni, rappresentazioni create dagli osservatori in diversi contesti storici ed ideologici. In effetti tutte e tre le descrizioni dei capi hanno qualche elemento di validità: l’idea del capo come immigrante da oltremare è preservata nella mitologia indigena riguardo alle proprie origini; quella del capo come esponente anziano della linea di discendenza patrilineare è contenuta nelle tradizioni orali successive che descrivono ideologicamente il rapporto tra capo e seguaci, ed il ritratto di capo come leader guerriero è influenzato dai movimenti della popolazione e dai cambiamenti nelle alleanze risultati 124 dall’intrusione francese documentata dagli storici francesi dell’epoca, soprattutto dopo che la Nuova Caledonia divenne colonia nel 1853. Una particolarità dell’istituzione del capo discussa da Bensa sembra essere una variazione su un tema comune nel Pacifico: cioè che la parentela sia costruita dal fatto di condividere la stessa “sostanza” , condivisione resa possibile dalla condivisione del cibo, e spesso in concomitanza con idee che riguardano il sangue e la terra. Quando in Nuova Caledonia veniva fatto capo un forestiero, era necessario che venisse simbolicamente incorporato nel gruppo, per trasformare uno straniero in “parente” gli venivano offerti da mangiare degli ignami di un’ antica varietà locale, associata alla terra del gruppo ed alla sua sostanza vitale. Ma per poter assicurare che il capo ed il gruppo a lui assoggettato condividessero la stessa sostanza corporea, gli veniva anche offerto il corpo sacrificato di un uomo di status elevato appartenente al gruppo locale. Consumando la carne sacrificale di quest’uomo il nuovo venuto veniva ad essere “uno” con quelli su cui comandava, a condividerne la sostanza. Una pratica collegata a questa era quella per cui un capo prima di morire poteva offrire il proprio corpo in sacrificio. Il suo fegato veniva consumato in ambito rituale dagli uomini del gruppo, mentre altre parti del suo corpo erano sistemate su pietre sacrificali in un santuario dedicato ad un antenato, allo scopo di assicurare la sua protezione al gruppo. Le ricostruzioni mitologiche delle gesta di uno dei capi guerrieri, Goodu, figlio minore di un capo precedente, narrano che dopo aver effettuato scorribande di vendetta contro i gruppi nemici, questo capo rivolse la sua aggressione contro i suoi stessi parenti, incluso il suo fratello maggiore classificatorio. Per spiegare questo comportamento il mito racconta che Goodu doveva il suo potere straordinario ad una pietra magica che, però, pretendeva la carne umana delle sue vittime, in mancanza di altro avrebbe divorato Goodu stesso. Storicamente Goodu sembra essere una figura che emerse durante i tempi turbolenti dei primi anni coloniali. Egli agiva in maniera talmente violenta con gli altri gruppi indigeni, che alcuni di questi decisero di allearsi e collaborare coi francesi per liberarsene. Bensa inoltre fa notare che mangiando indiscriminatamente i suoi stessi parenti, Goodu trasgrediva le regole del cannibalismo rituale, un rito che tradizionalmente aveva un ruolo costitutivo del poter dei capi. Fu per questa trasgressione che i parenti materni ritirarono la loro protezione rituale, mentre i suoi fratelli si allearono con i francesi per sconfiggerlo. Così, forse involontariamente, gruppi indigeni aiutarono il potere coloniale a rimuovere uno dei più pericolosi ostacoli alla loro espansione, anche se, secondo l’analisi storica di Douglas, le loro azioni non vanno interpretate come mere reazioni all’intrusione coloniale, ma come determinate da logiche politiche locali determinate e plasmate da una logica culturale melanesiana che continuava ad operare in termini di reciprocità, retribuzione e vendetta, con lo scopo di raggiungere e mantenere una situazione di equilibrio tra i diversi gruppi locali. Il controllo coloniale francese trasformò la posizione del capo tradizionale, attribuendogli una stabilità istituzionale senza precedenti. La struttura sociale e l’istituzione dei capi che descrisse Leenhardt quando arrivò nel 1902 era in parte una creazione coloniale- come il modello di struttura sociale basata sui capi che si sviluppò alle Fiji grazie al governo coloniale inglese. I capi dei gruppi della Nuova Caledonia descritti da Leenhardt erano rappresentanti del loro popolo, ma erano privi di alcun potere proprio. Bensa ci ricorda che le descrizioni etnografiche appartengono a un dato luogo e un determinato tempo, oltre che ad un osservatore particolare. La sua analisi di Goodu ricorda anche un dibattito che ci fu sullo stile di leadership nelle Highlands della Nuova Guinea subito dopo l’imposizione coloniale negli anni 1930. Esisteva un big man, chiamato Matoto che si comportava in maniera spregiudicata e violenta, e venne definito dagli osservatori come un despota. In retrospettiva è possibile spiegare le storie mitologiche che si sono sviluppate intorno a questa figura in termini storici, i resoconti delle sue imprese sono creazioni di un periodo di turbolenza e trasformazioni associate all’ingerenza coloniale. Matoto viveva quando i primi esploratori australiani penetrarono i territori della sua gente, ma morì poco prima che il controllo coloniale fu imposto, quindi non si può affermare che fosse in conflitto diretto con il potere coloniale. Però la brusca interruzione dell’ethos del guerriero che avvenne, a causa della pacificazione australiana poco dopo la sua morte, potrebbe essere responsabile per la creazione di 125 una leggenda esagerata della sua abilità e delle sue imprese improbabili. E’ probabile che un meccanismo simile abbia operato nel caso di Goodu in nuova Caledonia. L’economia di mercato Secondo Jean Guiart, in seguito agli accordi di Matignon il governo coloniale ha utilizzato la parola chiave “sviluppo” per calmare le acque, per far dimenticare le rivendicazioni del movimento indipendentista kanak, promettendo ricompense in termini economici per la sottomissione al regime coloniale. Questo processo non è una novità, ma richiama i metodi coloniali più antichi, in cui si distribuivano medaglie o altri emblemi associati al potere coloniale ai capi per incoraggiarli a fornire i lavoratori per la creazione delle strade “la strada che porta alla civilizzazione”. Ma la parola magica “sviluppo” non è solo un’arma ideologica dei poteri coloniali, è sicuramente un interesse espressamente palesato dai melanesiani in Nuova Caledonia, e oltre. Infatti, nonostante i numerosi ostacoli allo sviluppo di attività economiche da parte dei kanak, questi si sono via via cimentati nella coltivazione di diversi prodotti commerciali, come la copra il caffè, il cotone ed i mandarini. In alcuni campi sono stati proprio loro a conquistarsi la fetta di mercato più larga, nonostante sia difficile per loro espandere le proprie coltivazioni o accedere a sovvenzioni statali per apportare migliorie all’irrigazione. Inoltre hanno un minor accesso al mercato dei consumatori urbani, pressoché monopolizzato dalle produzioni di aziende caldoches alle porte della città. Da questa situazione, secondo Guiart, hanno preso vita in questo periodo storico due idee parallele: da una parte quella degli uomini politici che utilizzano i fondi pubblici per trasformarsi in industriali minerari, o i fondi pubblici per costituire il capitale di aziende di trasporti marittimi; dall’altra quella di chi, rimanendo al suo livello lavora per creare un nuovo tessuto economico locale, in particolare attraverso la riappropriazione delle tenute fondiarie da parte dei kanak. Entrambi i modelli hanno subito delle sconfitte, destinate, secondo l’autore, a peggiorare dato lo stato globale delle economie del consumo, in particolare in asia. Ma, secondo l’autore questa esperienza insegna che lo sviluppo facile non ha un’avvenire diverso da quello dei fondi sprecati, e che la realtà economica dimostra che lo sviluppo economico promosso dalle sovvenzioni attribuite in realtà con la motivazione di imbonire le elites politiche del territorio d’oltremare, non hanno l’effetto desiderato di portare miglioramenti economici alla maggioranza della popolazione. La Coutume e l’identità La Coutume, (il costume o la tradizione) è una componente essenziale dell’identità kanak contemporanea, può essere considerata come un codice che include riti, rituali ed interazioni sociali basati tuttora sull’identità di clan e sui rapporti con gli antenati, nonostante sia stata fortemente influenzata e modulata dall’ideologia cristiana introdotta in oltre due secoli di lavoro missionario. La coutume, come il kastom in PNG, a Vanuatu ed alle Salomone, e vakavanua nelle Figi, non sono codici tradizionali immutati o inconsci che determinano e controllano il comportamento delle popolazioni indigene. Tutt’altro, sono termini ideologici, frutto di tensioni, negoziazioni, definizioni contrastanti, di un costante lavorio a tutti i livelli sociali e strutturali- soggetto di alcuni dei più interessanti studi antropologici nel Pacifico, quelli sulla politica delle tradizioni. Come ci ricorda Anna Paini sono diversi gli elementi dell’identità a cui possono attingere le persone ed i gruppi sociali a diversi livelli. In diversi contesti si utilizzano o evidenziano aspetti diversi della propria identità sociale, a seconda degli scopi e anche rispetto a chi ci si identifica come gruppo. Si può evidenziare la propria appartenenza ad un genere, ad un villaggio, ad una tribù, a una fede, o la comune esperienza di repressione coloniale in quanto kanak. L’identità quindi non è una definizione fissata nel tempo e nello spazio, ma un complesso processo di differenziazione come persone o membri di una data comunità, elaborata di volta in volta utilizzando diversi elementi. Questa concezione di identità permette di concepire l’esistenza di diversi livelli di inclusione in gruppi sociali, in quanto gli individui posseggono affiliazioni multiple, che possono intersecarsi o includersi una nell’altra. Secondo Paini 1998 il cristianesimo è un elemento cruciale nell’identità contemporanea degli abitanti di Lifou, per esempio, ma cattolici e protestanti utilizzano una retorica 126 differente per parlare delle differenze tra passato e presente nei termini della relazione, che non è considerata antitetica, tra la costume e l’adesione alla chiesa cristiana. Mentre i fedeli di entrambe le chiese riconoscono l’esistenza di alcune differenze con il passato pre-cristiano, i protestanti tendono a sottolineare le continuità, mentre i cattolici evidenziano le trasformazioni. 127 LE FIGI Geografia Il nome Figi si riferisce ad un’entità politica creata come risultato della storia coloniale di quest’area del mondo, che comprende 844 isole sparse su una superficie di oceano di 1.290.000 chilometri quadrati, e includono l’isola di Rotuma, accorpata alla colonia nel 1884, nonostante la notevole distanza dal resto dell’arcipelago. Le isole abitate sono solo 106, altre 216 sarebbero abitabili se non fosse per l’estremo isolamento e la mancanza di acqua. La isole più grandi sono di origine vulcanica e circondate da barriera corallina, le più piccole sono coralline. Solo il 16% della terra è adatta all’agricoltura, e si trova soprattutto lungo la costa e i fiumi delle isole principali. Il clima, tropicale, è caratterizzato da una stagione più asciutta da maggio a ottobre, e da una stagione delle piogge da novembre ad aprile. Le risorse economiche principali sono lo zucchero, la manifattura di abbigliamento, l’estrazione dell’oro, il legname, la pesca ed il turismo. Popolazione Le due isole maggiori sono Vanua Levu e Viti Levu, insieme formano l’87% del territorio delle Figi. Nel censimento del 1996 sono stati contati 772.655 Figiani. Tre quarti della popolazione risiede su Viti Levu dove si trovano la capitale, Suva, e l’unica altra città Lautoka. Il 46% dei Figiani risiedono in zone urbane. La popolazione include Figiani Melanesiani (51,8%), e Indo-Figiani (43,6%), il restante 5,3% comprende Europei, Cinesi e altre nazionalità del Pacifico. Nelle Figi si parla l’inglese, l’hindi, il figiano che sono insegnati a scuola, e la lingua dell’isola di Rotula; le religioni ufficiali sono il cristianesimo e l’induismo. Storia pre-coloniale Una leggenda figiana attribuisce il popolamento delle isole al capo Lutunasobasoba, che portò la sua gente attraverso il mare fino alle Figi. Ricerche sulla preistoria del Pacifico concordano che l’arcipelago fu popolato 3500 anni fa da migranti provenienti dal Sud-Est dell’Asia attraverso l’Indonesia. La migrazione di questa popolazione può essere ricostruita dagli archeologi che hanno ritrovato nella zona del Pacifico compresa tra le isole ad Est della Nuova Guinea e l’isola polinesiana di Tonga, un particolare stile di ceramica (modellata a mano, cotta sul fuoco, e decorata con motivi incisi dentellati). Dal luogo dei primi ritrovamenti sia lo stile dei vasi che la cultura a questo associata ha preso il nome di Lapita. Linguisticamente questa popolazione è associata con lingue Austronesiane, ed infatti gli isolani delle Figi oggi parlano due forme dialettali (orientale ed occidentale) della lingua Figiana, un ramo Oceanico della famiglia linguistica Austronesiana. Il popolamento di tutta quest’area del Pacifico, che si estende tra le Hawaii a Nord, Rapanui (Isola di Pasqua) a Est, e Aoteaora (Nuova Zelanda) a Sud, comportò grandi navigazioni, nel corso di molti anni. Al contrario della Polinesia, la cui storia successiva al popolamento sembra essere stata lineare, le isole delle Figi hanno avuto almeno due periodi caratterizzati da trasformazioni culturali repentine, che suggeriscono l’arrivo di nuove ondate migratorie dall’Ovest. Questa ipotesi sembra trovare conferma nei ritrovamenti archeologici che collegano la sparizione delle ceramiche Lapita a Vanuatu in seguito ad una violenta eruzione nel XII secolo, con l’improvvisa apparizione di questo stile sulle Figi. Nonostante nella storia orale delle Figi siano esistiti capi potenti, come Naulivou ed i suoi successori, che avevano esteso il controllo su una vasta area delle Figi orientali, prima del periodo coloniale le isole Figi non hanno mai fatto parte di un’entità politica unitaria. Le Figi sembrano rappresentare una zona di confine tra le culture cosiddette melanesiane e quelle polinesiane. Fisicamente molti Figiani assomigliano ai Melanesiani, con i quali hanno sempre 128 mantenuto rapporti, mentre la struttura politica tradizionale legata alla figura di un capo li collega maggiormente ai Polinesiani ad est, oltre che ad alcune culture delle isole della Melanesia. Durante l’ultimo millennio il paesaggio delle isole è stato modificato dalla coltivazione intensiva 12 del taro e dalla costruzione di numerosi insediamenti fortificati. Secondo Kirch (2000:160) queste fortificazioni riflettono guerre tra piccole unità politiche associate a diversi capi, apparentemente legate al cannibalismo, e che sarebbero state causate da un’involuzione competitiva tra gruppi locali. I primi contatti con gli Europei Le Figi furono avvistate dall'olandese Tasman nel 1643 ed esplorate dagli inglesi Cook e Bligh (dopo l’ammutinamento del Bounty) nella seconda metà del XVIII secolo. Al principio del XIX secolo, arrivarono i primi coloni Inglesi, mentre le navi americane che commerciavano il legno di sandalo si fermavano sulla costa delle isole. Il nome Figi è stato attribuito a queste isole dal Capitano Cook che, a Tonga, incontrò alcuni Figiani. Le loro isole in Tongano si chiamavano Fisi, e Figi è la pronuncia anglicizzata del nome di origine Tongana (I Figiani chiamavano le loro isole col nome di Viti). Gli europei, influenzati anche dalle opinioni dei Tongani, furono impressionati dai Figiani, e li descrissero come guerrieri formidabili e cannibali feroci, li consideravano come costruttori delle imbarcazioni migliori del Pacifico, ma non come bravi navigatori. Particolarmente apprezzati da Cook e dagli altri navigatori occidentali che lo seguirono, erano le mazze da guerra intagliate e i tapa decorati. I numerosi mercanti che seguirono i primi esploratori portarono armi e attrezzi nuovi alle isole Figi, e con queste avvennero le prime trasformazioni. Per un cinquantina di anni le Figi conobbero un periodo d’oro. Alcuni capi intraprendenti misero a buon uso le innovazioni tecnologiche permesse dall’introduzione del ferro, furono costruite moltissime case e canoe, e formate confederazioni. Il rovescio della medaglia furono le numerose guerre tra gruppi locali che avvennero in questo periodo, probabilmente causate delle trasformazioni negli equilibri di potere dovuti a queste innovazioni. Nel 1854 Ratu Seru Cakobau, un capo molto influente, fu convertito al cristianesimo dai missionari Wesleyani (metodisti), e col loro supporto divenne Re (Tui Viti) delle Fiji Occidentali. Molti altri Figiani, seguendo il suo esempio, si convertirono. L’influenza dei missionari portò la fine del cannibalismo e delle guerre tribali. Storia coloniale Nel 1874 Le Figi divennero una colonia della corona Britannica. Epidemie di malattie infettive introdotte sulle isole dagli occidentali rischiarono di decimare la popolazione, le politiche sanitarie introdotte dal governo coloniale li salvarono in extremis. Il governo coloniale vietò la vendita di terreni indigeni. 12 Taro (Colocasia esculenta) è una pianta commestibile molto comune nei suoli umidi dei tropici, è mangiato da 10% della popolazione mondiale, e rappresenta un alimento di base per oltre 100 milioni di persone. Si possono mangiare anche le foglie, dette ad orecchio di elefante per forma e dimensione, ma principalmente si utilizza il cormo, un rigonfiamento della parte sotterranea del gambo che può crescere fino ad un metro. Molto ricca di amido, si consuma arrostita o bollita: deve essere cucinata per rimuoverne le proprietà irritanti. Le piante fioriscono raramente e non producono mai semi, devono essere propagate tagliando l’estremità superiore del cormo con il nuovo getto, e mettendolo a riposo nella terra umida, dove produrrà nuove foglie e radici. Il fatto che queste piante non possano riprodursi con i semi è stato interpretato come una dimostrazione che il taro è una delle più antiche piante coltivate dall’uomo. 129 Dal 1878 al 1916 gli inglesi trasportarono lavoratori indiani sulle isole e li impiegarono nelle piantagioni, molti indiani rimasero oltre il termine dei loro contratti come agricoltori e commercianti. Storia post-coloniale Nel 1970 le Figi ottennero l’indipendenza e divennero parte del Commonwealth. Il Partito dell'Alleanza, guidato da R. K. Mara, rappresentante della comunità figiana, governò per i primi anni dell’indipendenza, turbati da incidenti tra i Figiani indigeni e la comunità indiana. I problemi di natura etnica hanno influenzato la storia post-coloniale del paese. Nel 1987 le elezioni furono vinte dal Laburista Bavadra (di etnia indiana), ma fu deposto da un colpo di stato organizzato dal colonnello Rabuka, espressione della comunità autoctona. Il rappresentante della corona britannica (sotto il sistema del Commonwealth) disconobbe i golpisti e tentò di istituire un governo provvisorio, che fu a sua volta rovesciato da un secondo golpe. Rabuka proclamò la Repubblica e la conseguente uscita delle Figi dal Commonwealth, nominò l'ex governatore Ganilau presidente della Repubblica e pose Mara a capo del governo. Nel 1990 fu approvata la nuova carta costituzionale che assicurava la preminenza politica e militare dei rappresentanti indigeni. Nel 1992, a seguito delle elezioni legislative vinte dal Partito Politico Figiano (FPP), Rabuka assunse la carica di primo ministro. Nel 1997 le Figi rientrarono nel Commonwealth, e fu approvata un’altra costituzione di spirito multirazziale. Nel 1999 furono indette le elezioni generali, vinte da Chaudhry, un Indo-Figiano del Partito Laburista. Nel 2000 un colpo di Stato portò al potere il nazionalista G. Speight, che chiedeva la modifica della Costituzione per impedire l'accesso dei Figiani di origine indiana alle alte cariche dello Stato. Fallito il colpo di Stato, seguì un periodo di instabilità politica che continua ancora oggi. Conflitti politici contemporanei e relazioni internazionali Mentre gli indigeni erano relativamente soddisfatti del loro status protetto sotto il sistema coloniale, gli Indo-Figiani hanno voluto, ed ottenuto, l’indipendenza delle Figi ed il diritto di voto, nel 1970. Quando, alcuni anni dopo, sia la popolazione Info-Figiana che i loro rappresentati politici sono cresciuti a sufficienza da influire sul sistema politico, sono cominciati i problemi . La situazione politica delle Figi è un problema per i governi (come quelli Australiano e NeoZelandese) che a suo tempo appoggiarono la creazione di stati-nazione governati da indigeni, e che si trovano a dover decidere chi appoggiare tra i due gruppi, entrambi con buone ragioni di pretendere diritti politici. Questo conflitto etnico non ha paralleli in altre nazioni del Pacifico e, nonostante le sue radici si trovino nelle politiche di colonizzazione e decolonizzazione, potrà solo essere risolto da coloro che sono direttamente coinvolti, anche se le soluzioni non saranno necessariamente gradite alla comunità internazionale. Il conflitto etnico delle Figi è il caso più evidente di politica etnica nella regione Melanesiana, ma è indicativo di un trend più generale, in questa regione di chiamare l’etnicità a sostegno di discorsi dell’ambito politico. Trasformazioni delle istituzioni politiche locali Una delle caratteristiche della struttura sociale che più accomuna le Figi con le culture polinesiane, è sicuramente l’organizzazione politica basta su una struttura gerarchica di capi “chieftainship”. Nelle Figi questa è la forma dominante di leadership; storicamente questa istituzione è stata 130 assoggettata alle strutture di potere e di autorità coloniali Britanniche, risultando in notevoli trasformazioni. L’antropologo Figiano Rusiate Nayacakalou (1975) ha descritto le istituzioni politiche delle Figi, riconoscendo la complessa dialettica tra pressioni per la trasformazione e l’impeto di preservare le tradizioni che tuttora sono negoziate attraverso tutta l’area del Pacifico in situazioni di conflitto e di conciliazione. Già negli anni ’70 riconobbe un fattore principale di questo processo: le trasformazioni economiche e la necessità degli indigeni di conservare la terra e di aumentarne la produttività per non farsi spodestare dalla minoranza indiana, economicamente più forte. Nayacakalou ha così anticipato i problemi etnici che sarebbero emersi negli anni ’80 e ’90 tra gli indigeni Figiani, proprietari della terra, e gli indiani, originariamente trasportati sulle isole come lavoratori nelle piantagioni britanniche, e successivamente divenuti agricoltori e commercianti, l’elite economica. Egli ha anche evidenziato il conflitto tra gli ideali comunitari che sostengono l’istituzione dei capi da un lato, e quelli più individualistici associati allo sviluppo ed alla modernità. Questi due termini rappresentano i due poli ideologici di una realtà molto più complessa, attorno ai quali si coagulano sia sensi d’identità che conflitti specifici. Può sembrare una contraddizione l’affermare che la struttura di chiefship sia basta su principi comunitari, mentre istituzioni occidentali sono individualistiche ma nella tradizione Figiana (e nel Pacifico in generale) l’autorità dei capi è fortemente legata alla responsabilità nei confronti della comunità. Dal 1890 il governo coloniale istituì la Native Land Commission13 (Commissione per la terra indigena), che causò una ristrutturazione della struttura sociale e dell’istituzione del capo villaggio. Per stabilire chi fossero i proprietari della terra, questa commissione fissò una struttura sociale tradizionale segmentata in cui un Yavusa, gruppo di primo livello fondato da un dio-antenato arrivato d’oltremare, si divideva in Matanngali, fondati dai figli maschi dell’ancestro originale, che a loro volta si dividevano in Itikayoka, gruppi ancora più ristretti. L’appartenenza a questi gruppi divenne la base su cui vennero attribuiti i titoli di proprietà della terra in base a dei questionari compilati in ogni villaggio. Questo modello era una semplificazione della realtà locale, in cui persone di discendenza diversa risiedevano nello stesso villaggio, e in cui persone di lignaggio diverso venivano inclusi in gruppi diversi da quelli a cui erano legati da una comune discendenza. Dato che i capi sono riconosciuti come guide autorevoli del loro gruppo, la definizione di cosa costituisce un gruppo e di chi vi appartiene, sono così diventate questioni determinanti. Inoltre la successione dei capi tendenzialmente avviene per primogenitura, ovvero al capo succede il figlio maggiore del lignaggio senior, più “anziano”. Questo però non era l’unico criterio nella selezione del successore di un capo, contavano anche qualità come la sapienza e l’abilità; questa pluralità di 13 Dal 1940 è diventato la Native Land Board, la cui responsabilità principale è di amministrare la terra degli indigeni per il beneficio dei proprietari terrieri indigeni. La commissione, composta da 10 membri più il Presidente della repubblica ed il Ministro per gli Affari Figiani, amministra circa l’83% della terra delle Figi, di appartenenza indigena, e contemporaneamente promuove lo sviluppo economico del paese. Il NLTB è responsabile verso i proprietari terrieri indigeni e vero le Figi per un utilizzo saggio e sostenibile della terra e delle sue risorse. Parte della terra è denominata riserva, e destinata al sostentamento delle famiglie che ci vivono, il resto può essere ceduta in affitto per scopi agricoli, commerciali o industriali. I proprietari ricevono in cambio un affitto e altri benefici come occupazione, dividendi, e opportunità commerciali legate allo sviluppo del territorio. Molte delle piantagioni che rappresentano un’importante fonte di reddito nazionale, sono state sviluppate su terra che appartiene agli indigeni, e affittata ai piantatori. Attualmente il governo sta lavorando ad un progetto di riforma del sistema di amministrazione della terra, in particolare per rivedere il ruolo del NLB e rendere più flessibili i regolamenti.(Da fijitoday 2003, sito ufficiale del governo delle Figi http://www.fiji.gov.fj/) 131 criteri poteva portare conflitti pretese di ascesa ad una posizione di capo in competizione con quelle del lignaggio più anziano. Al livello di distretto, che include un certo numero di villaggi, esiste un capo riconosciuto, chiamato il Tui, seguito dal nome del suo distretto o vanua (termine col significato generale di terra associata ad un gruppo specifico). Egli, come i suoi discendenti, ha il diritto ad un titolo associato allo status di capo (Ratu, al maschile, e Bulou al femminile). Questo livello di capi ha una posizione di rispetto, sostenuta da tabù che esprimono una relazione gerarchica con i seguaci. Generalmente un Tui succede al suo predecessore per anzianità, ma può accadere che la successione avvenga tramite l’adozione o per i servizi prestati, o anche in seguito a conflitti interni e processi di selezione. La posizione di Tui è politica, legata al Bose Levu Vakaturaga14 (Gran Consiglio dei Capi), creato dagli inglesi per facilitare i processi di governo indiretto. Il Consiglio dei Capi era direttamente legato alla gerarchia amministrativa coloniale; la sua funzione era di consigliare il Governatore su tutte le questioni concernenti i nativi. Inoltre i suoi membri eleggevano tra sette e dieci rappresentanti indigeni nel Consiglio Legislativo della colonia. Data questa derivazione dalla struttura gerarchica coloniale, è evidente che il consiglio abbia interesse a mantenere il controllo di una struttura di rappresentazione politica piramidale. In nome del comunitarismo tradizionale, i capi possono tentare di sfruttare la propria relazione con la gente comune. Nelle parole di uno dei capi più influenti citate da Nayacakalou: “Alcuni di noi sono troppo avidi- pretendiamo solo cose dalla nostra gente senza pensare ad un ritorno, come sarebbe corretto nel nostro costume” (Nayacakalou, 1975:138) Struttura sociale e gerarchia I dettagli dei processi di successione sono complessi, e determinati di volta in volta, anche dalle situazioni interne contingenti, ma il principio gerarchico incapsulato nell’istituzione del capo, sembra pervadere la struttura sociale Figiana. Cristina Toren (1990) ha illustrato il funzionamento di questo principio in numerose relazioni sociali: tra coniugi, tra fratelli, e tra parenti matrilineali. Nonostante le donne abbiano il dovere di mostrare deferenza verso il marito, anche le donne anziane, come gli uomini, devono essere trattate con rispetto, ed i legami di parentela da parte materna sono importanti. La gerarchia pervade tutte le relazioni sociali, le uniche relazioni paritarie sono quelle tra persone connesse da relazioni in cui la convenzione permette di scherzare, ad esempio tra i cugini incrociati (figli della sorella del padre o del fratello della madre). Questa categoria è anche quella preferita per le unioni matrimoniali. Dopo il matrimonio tra due cugini incrociati, però, la relazione scherzosa è sostituita da quella di tipo gerarchico insita nei rapporti tra marito e moglie. Il rispetto per le gerarchie è largamente espresso anche nella distribuzione dei posti a sedere in chiesa o nelle riunioni tra capi per discutere questioni amministrative. La parola è un’ulteriore importante aspetto del rapporto gerarchico: chi ha il diritto di parlare è determinato dalla struttura gerarchica, in questo modo i capi tradizionali riescono a influenzare anche le riunioni convocate da autorità elette, arrogando il diritto di parola. In altri casi è proprio lo status di capo ad essere usato per sostenere le autorità elette. 14 Bose Levu Vakaturaga (BLV) é la più alta assemblea dei capi tradizionali delle Fiji, più qualche cittadino non nobile ma di preparazione specifica, che si riunisce almeno una volta l’anno per discutere argomenti di interesse ai Figiani. In passato questo Consiglio aveva il potere di approvare leggi e regolamenti per i Figiani, ma questo potere cessò verso la fine dell’era coloniale con l’abolizione dei regolamenti separati per I Figiani. Nonostante questa abolizione il Consiglio è sempre consultato su temi che riguardano i Figiani. Il BVL nomina il Presidente della Repubblica delle Figi. Oggi ha 55 membri: ogni provincia ne nomina tre, tre sono nominati dall’isola di Rotuma, ed altri sei sono nominati dal ministro per gli affari Figiani in consultazione col Presidente della Repubblica. Il Primo Ministro, ilPresidente ed il Vice-Presidente sono anche automaticamente membri del consiglio, mentre Sitiveni Rabuka è un membro a vita. (Da fijitoday 2003, sito ufficiale del governo delle Figi http://www.fiji.gov.fj/) 132 Il lavoro di Andrew Arno (1993) nell’area di Lau sottolinea l’importanza della parola nel comporre dispute, sia nel contesto gerarchico del chiefship, che in quello paritario delle relazioni scherzose tra cugini incrociati. La gerarchia nella vita quotidiana La struttura gerarchica della cultura figiana è evidente in molti aspetti, anche nella vita quotidiana, per cui sono molto attenti alla disposizione dei corpi nello spazio, in termini di posizioni più o meno alte, che rispecchiano il rispetto per gli anziani e per i capi. Uno dei contesti in cui le gerarchie sono evidenziate è l’etichetta a cui aderiscono gli indigeni Figiani durante la preparazione, la mescita, ed il consumo del kava (Yanngona). In tempi tradizionali, questa bevanda, tipica anche delle isole polinesiane ad Est delle Figi, era consumata solo dai capi e dai sacerdoti in situazioni rituali. Oggi è consumata in molti ambienti, anche non puramente indigeni ed è diventato un’icona dell’identità Figiana contemporanea. Il kava si può bere per dare il benvenuto a dei visitatori, e in generale per aprire riunioni, anche semplicemente conviviali, ma comporta un protocollo preciso. Eccone un resoconto per visitatori : i partecipanti siedono in terra a gambe incrociate, rivolti verso il capo e un bacino di legno tanoa. Le donne siedono dietro agli uomini e a loro non viene offerto il primo assaggio. E’ vietato attraversare il circolo dei partecipanti, voltare le spalle al tanoa (e quindi al capo), o scavalcare una fune che lega il tanoa con una conchiglia bianca, e che rappresenta il legame con gli spiriti. La bevanda è preparata nel tanoa mischiando la radice secca e polverizzata della pianta del Kava (Piper methysticum) con dell’acqua. Un giovane di rango specifico offre ai presenti una mezza nocce di cocco riempita di liquido, secondo un ordine stabilito dalle differenze di rango tra i presenti. Ognuno deve accettare la bevanda dopo aver battuto le mani e pronunciato la parola bula (vita), dopo averne vuotato il contenuto bisogna battere le mani tre volte. Dopo il primo giro non è necessario accettare altre offerte, ma la cerimonia continua fino all’esaurimento della bevanda contenuta nel tanoa. Moralità, malattia, e medicina Richard Katz (1993) ha studiato i sistemi di medicina olistica nelle Figi durante gli anni ’70. Ha fatto una distinzione tra le pratiche comuni nei centri urbani, in cui i guaritori erano spesso donne e giovani che utilizzavano la possessione (considerata da Katz come un’introduzione recente nel sistema di medicina tradizionale) e le pratiche più radicate nella tradizione, che avvenivano prevalentemente nei villaggi rurali, ed erano presiedute da uomini anziani. Katz sottolinea i due principi fondamentali di vu (antenati e dei) e mana 15 (che in questa accezione significa sia il potere di curare che quello di causare danno o morte, se usato in maniera scorretta). Come in molte altre parti del Pacifico, queste idee sono state modificate, mutuate e parzialmente superate dai concetti introdotti col cristianesimo, vista la presenza storica delle chiese Metodiste e Cattoliche nel paese. I guaritori intervistati da Katz sostenevano di aver sostituito i clan “sacerdotali” del passato che avevano fatto cattivo uso dei loro poteri, secondo una visione storica e morale tipica degli esponenti tradizionalisti in società cristianizzate. Le sedute di cura sono sempre aperte con una cerimonia kava, cui è invocata la presenza dei vu. Dopo la presentazione del kava, il curatore massaggia il paziente e miscela delle erbe per preparare un rimedio. Questo metodo è usato per curare sia malanni fisici che quelli considerati essere causati da infrazioni contro le norme, e puniti dai vu tramite l’invio della malattia. Utilizzare il mana per guarire questo tipo di malattia è considerata “la strada dritta”, in opposizione all’uso dei poteri per causare danni, malanni o morte. Così il lavoro dei guaritori può essere considerato un esempio in piccolo degli sforzi fatti in generale dai Figiani di sostenere le loro “vere” usanze ancestrali. I curatori e la loro posizione sono anche sostenuto dalla credenza che le malattia causate dai vu non 15 Cf. Carmela Pignato, 2001:capitolo 3, per una sintesi della storia del concetto di mana nella storia della teoria antropologica. 133 possano essere curate dalla medicina occidentale. (Questa spiegazione è comune in molte culture del pacifico dove l’efficacia delle medicine occidentali sono comunque state provate in molti casi, ma ovviamente e non in tutti). In quanto alla credenza sulla responsabilità dei vu per alcune malattie, questa è sostenuta da ragionamenti di tipo circolare, ad esempio Tevita, un guaritore intervistato da Katz, dice che quando cura un malato con le erbe utilizzate per le malattie causate dai vu, ed il paziente guarisce, ha la conferma che erano stati i vu a farlo ammalare. (Anche questo tipo di ragionamento è comune nel sostenere le credenze dei poteri sopranaturali in generale). Un’aspetto interessante è che i guaritori non sono limitati ad intervenire solo sui malanni del corpo umano. Possono anche usare il proprio mana per scopi protettivi, per esempio per evitare incidenti alle barche dei pescatori, allo stesso modo a Mount Hagen, nelle Highlands della Nuova Guinea si celebrano cerimonie kela memb, allo scopo di assicurare protezione alle automobili nuove. I guaritori hanno un importante ruolo di mediazione in tutti quei contesti di conflitto causati dai cambiamenti sociali, o dalle iniziative economiche. Tevita, ad esempio, è stato chiamato da un gruppo di giovani pescatori coinvolti in un progetto commerciale, e che attribuivano dei problemi avuti alla stregoneria provocata dalla gelosia di pescatori anziani non coinvolti nel progetto. Si crede che i guaritori siano in grado di combattere questo tipo di stregoneria in quanto rappresenta la faccia malvagia del proprio mana, il male che essi devono evitare per poter continuare a far del bene. In generale in Melanesia si considera che ogni potere possa essere usato per il bene o il male. La distinzione assoluta tra bene e male è probabilmente una sovrascrittura cristiana, in tempi premissionari era consuetudine accettata utilizzare il proprio potere a beneficio del proprio gruppo e a detrimento di gruppi rivali. Una delle influenze maggiori della pacificazione coloniale e della cristianizzazione degli indigeni è stata proprio l’allargamento dell’orizzonte sociale, almeno in teoria, alla fratellanza globale, e di conseguenza considerare l’uso dei propri poteri per causare effetti negativi contro qualcuno, chiunque, come un male in senso assoluto. Da qui il passo a condannare l’uso dei poteri magici in generale il passo sembra breve, ma nonostante le pressioni da parte dei missionari e dell’ideologia cristiana, la magia continua ad esser praticata, anche se ufficialmente viene legittimata solo la sua accezione positiva. Un esempio di questo tipo di conflitto è riportato da Katz nel descrivere eventi accaduti nel villaggio durante la sua ricerca sul campo. Un pastore evangelico arrivato nel villaggio predicava alla gente di rinunciare a tutte le forme di medicina tradizionale, rewa, da considerare strumenti di Satana, e di rivolgersi invece a Gesù. L’intero villaggio venne coinvolto in un’ondata di fondamentalismo e il guaritore Tevita decise di smettere di operare.16 I sostenitori del movimento fondamentalista, rimpiazzando il guaritore, tennero riunioni di preghiera per combatter un’epidemia di malattia che raggiunse il villaggio, portando con se un’atmosfera di paura e di crisi. Uno dei leader del movimento, un uomo del villaggio, stava evidentemente usando la nascita di un nuovo gruppo, all’interno del villaggio, per crearsi un contesto in cui venire alla ribalta guadagnare importanza. 16 Anche questi fenomeni di “conversione in massa” ad una diversa forma di cristianesimo in seguito all’arrivo di un missionario convincente, sono una caratteristica comune nella storia recente della Melanesia. Sembrano essere facilitati da un senso di insoddisfazione con i risultati delle pratiche religiose finora accettate come migliori di quelle ancestrali, ma non pienamente soddisfacenti dal punto di vista concreto - perché se seguiamo gli insegnamenti della religione degli Occidentali, non riusciamo ad ottenere i loro poteri di tipo economico? Forse non ce l’hanno raccontata tutta, proviamo un’altra versione – sembra essere un ragionamento comune, legato alla cultura di segretezza implicata in quasi tutte le forme di conoscenza esoterica tradizionale. 134 Nonostante i loro sforzi, i gruppi di preghiera cristiana non riuscirono ad abolire la credenza nella stregoneria, nè a convincere che le loro preghiere sarebbero state efficaci contro la malattia.17 Ratu Noa, un anziano Figiano di Suva con cui lavorava l’antropologo commentò l’accaduto condannando l’insegnamento del pastore. Per lui era un errore predicare la rinuncia ai riti figiani tradizionali, perché Il mana usato da Gesù è lo stesso mana dei guaritori. Secondo lui il pastore nel villaggio non stava agendo secondo il volere di Dio, ma per il desiderio di accrescere il proprio potere e prestigio e “Sta uccidendo le fondamenta stesse del nostro modo di vita” (Katz, 1993:267). Il caso presentato da Katz è solo un esempio dei conflitti che sono emersi nel passato, stanno emergendo nel presente, e continueranno ad emerger ogniqualvolta che c’è un confronto diretto tra il Cristianesimo evangelico e i tradizionalisti in Melanesia. Questi confronti diretti possono essere seguiti da fasi di difficile accomodamento e convivenza scomoda, ma quello che risalta da questo caso Figiano, è che i guaritori, o più in generale i membri della comunità accreditati di poteri legati alla tradizione o agli antenati, sono spesso al centro di conflitti che riguardano trasformazioni sociali più generali. Rappresentano il nodo locale di forze che, da diverse parti del mondo, raggiungono anche i villaggi più remoti, e lì possono intrecciarsi in maniera anche traumatica e dolorosa, nelle interazioni giornaliere e personali tra individui di una comunità. I discorsi retorici utilizzati sia da Tevita che da Ratu Noa per sostenere la propria attività di guaritore, sono da un lato chiaramente influenzati da queste forze di trasformazione, mentre dall’altro rappresentano coraggiosi tentativi di rispondere alle sollecitazioni esterne serbando un senso della propria dignità e di potere d’azione. Il risultato di questi conflitti, dei processi di negoziazione e di adattamento culturale, risultano in forme di cristianesimo fortemente improntate dalla cultura tradizionale locale. Cristianesimo Figiano Christina Toren, in un articolo recente (2003), descrive i processi attraverso i quali le idee che informano una forma specificamente figiana di cristianesimo sono costituiti attraverso alcuni anni, nei bambini e ragazzi di un villaggio figiano. Pur senza postulare alcun tentativo, implicito o esplicito, di resistenza culturale, o di sincretismo “cosciente” da parte dei ragazzi o di chi è responsabile della loro socializzazione, dimostra come una pratica cristiana fedele alla dottrina non produca necessariamente dei cristiani allineati. Il suo è uno studio sull’importanza dei comportamenti rituali nel processo di sviluppo che determina ciò in cui si crede, l’autopoiesi.18 Toren osserva che per i Figiani adulti contemporanei l’identità include sia il cristianesimo che una radice tradizionale; per loro “la via cristiana”, “la via della terra” e “la via dei capi”, sono esplicitamente in accordo. Essi riconciliano la devozione cristiana e la fede nel Dio della Bibbia, con l’uguale certezza che i vecchi dei ed antenati Figiani continuino ad esistere e che, nella loro forma benigna, rientrino sotto l’egida del Dio cristiano e facciano la sua volontà punendo chi abiura i suoi doveri di parentela o verso un capo riconosciuto. Toren si domanda come possa avvenire 17 E’ sempre questo l’empasse: i missionari di varie specie possono condannare l’uso della stregoneria, ma non riescono ad sradicare la credenza nella sua esistenza ed efficacia – l’esperienza, culturalmente interpretata , ne ha dimostrato il potere molte volte nella vita . 18 Autopoiesi : auto-creazione umana, sempre e necessariamente radicata nella socialità. (Cf. F. Remotti, a cura di: 1999). In termini di sviluppo Toren sostiene che la relazione tra infante e chi se ne prende cura è tale per cui crescendo il bambino si trova per forza a confrontare un mondo che è già stato, e continua ad essere, reso significativo da altri, quelli appunto che si occupano di lui. Gli altri strutturano le condizioni di esistenza vissute dal bambino, eppure non possono determinare ciò che questi ne farà. Inoltre, per quanto il bambino possa essere rispettoso verso chi è più anziano, l’autopoiesi umana implica che il significato sia necessariamente creato in un processo in cui la conoscenza viene trasformata mentre è mantenuta , ed in cui il significato è sempre emergente, mai fisso. 135 questa riconciliazione, se in nessun contesto esplicitamente cristiano (i servizi in chiesa, le preghiere, o la scuola domenicale) si fa mai riferimento esplicito alla continua esistenza degli antenati. La risposta va ricercata da un lato nel fatto che la vita in un villaggio è pervasa da comportamenti ritualizzati, e dall’altro nell’idea che essere cristiani sia esplicitato dalla performance rituale, più che da una dottrina, o nell’idea che sia il fatto che le persone servano il Dio cristiano, o l’antenato, o il capo, a conferirgli potere, e nell’idea che il potere degli antenati sia insito nel mondo, immanente, mentre quello del dio cristiano sia trascendente. L’impegno verso il cristianesimo e verso la tradizione locale (vakavanua, letteralmente “secondo la terra”) si costituiscono vicendevolmente per i bambini di un villaggio figiano attraverso le attività ritualizzate di tutti i giorni e le cerimonie a cui assistono nel corso della loro vita, e così entrambi contribuiscono insieme a definire l’essere Figiano. I bambini di un villaggio Figiano sono presto avvezzi a dimostrare la propria adesione al cristianesimo tramite un’infinità di obblighi e proibizioni rituali (pregare prima di ogni pasto o spuntino, partecipazione a numerose funzioni in chiesa – tutte le mattina e tre sere-della settimana due funzioni domenicali, presenza alla scuola domenicale, divieto di giocare la domenica, preghiere cristiane all’apertura e chiusura di cerimonie tradizionali, come quella del Kava, o di benvenuto a visitatori) Questi comportamenti ritualizzzati sono incorporati, automatizzati nei bambini molto prima che essi possano aver compreso le ortodossie dottrinali che, secondo gli adulti, li rendono obbligatori. Allo stesso tempo l’esperienza di cerimonie tradizionali come quelle che si tengono in caso di morte è cruciale nella creazione, in base a relazioni intersoggettive, dell’idea di sè che il ragazzo o la ragazza costituiscono nel tempo. Idee investite di impegno nei confronti degli altri, una funzione del principio tradizionale di veilomani (la compassione reciproca, o amore compassionevole che idealmente caratterizza tutte le relazioni tra parenti). Prevedibilmente, per chiunque cresca in villaggio Figiano in prevalenza Wesleyano, la pratica del cristianesimo sarà investita della forza emotiva esperita precocemente e ripetutamente durante le cerimonie legate alla morte. Queste concernono gli obblighi causati dall’amore reciproco dei legami di parentela, e i sacrifici e il dolore questo amore può comportare. In questa maniera i riti mortuari, senza mai esplicitare pensieri poco ortodossi, assimilano il potere di Dio al mana degli antenati e dei capi insediati. A sua volta questo potere agisce nel mondo in maniera da convalidare quelle concezioni di persona e di relazioni sociali che sono imperniate sulla mutualità. Il risultato è la trasmissione da una generazione all’altra di una forma di cristianesimo permeato di concetti tradizionali Figiani, per cui l’essere credenti non si riferisce alla fede nell’esistenza di Dio, problema che non si pone, ma si riferisce invece alla necessità sia di riconoscere la sua preminenza (viene aggiunto un livello alla scala gerarchica tradizionale), sia di aumentarne il potere partecipando alle funzioni in chiesa, allo stesso modo in cui il potere dei capi e degli antenati sono alimentati dalla corretta dimostrazione di rispetto e dalla corretta esecuzione dei rituali adatti. 136 Bibliografia Aldricht Robert 1993 France and the South Pacific Since 1940, Honolulu: University of Hawaii Press Arno, Andrew 1993 The world of talk on a Fijian Island. An Ethnography of Law and Communicative Causation. 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