dispensa 08-09 - Dipartimento di Scienze Umane per la

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CULTURE DEL PACIFICO OCCIDENTALE
Dispensa e materiali per il corso
A.A.2008-2009
Compilata per il corso da Elisabetta Gnecchi Ruscone
Introduzione alla Melanesia
Introduzione preparata per il corso “Culture del Pacifico Occidentale” da Elisabetta GnecchiRuscone, basata largamente sulla traduzione e l’adattamento di diversi testi (sopratutto in inglese),
citati in bibliografia.
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PERCHE’ LA MELANESIA?
La Melanesia nel Pacifico
La Melanesia è una regione geografica che comprende numerose isole grandi e piccole nella zona
dell’Oceano Pacifico inclusa tra la Nuova Caledonia a sud-est e l’isola della Nuova Guinea.
A sud si trova la massa continentale dell’Australia, a nord-ovest l’Asia, mentre ad est la Melanesia
si distingue dalla Polinesia e dalla Micronesia. Questi termini geografici (Isole degli uomini neri,
Molte isole e piccole isole) che attribuiscono delle qualità apparentemente reali a diversi gruppi di
isole, sono in realtà segni arbitrariamente tracciati su delle carte nautiche da navigatori ed
esploratori o frutto delle classificazioni di linguisti ed antropologi, ma nel tempo hanno finito per
influenzare il destino politico e culturale delle popolazioni che abitano questi mari. Epeli Hau’Ofa
(1993), un intellettuale originario del Pacifico impegnato nella costruzione di un discorso
anti-coloniale ma anche contro al neo-colonialismo della globalizzazione, ha scritto un saggio su
come la visione euro-centrica delle nazioni del Pacifico, immaginate come numerose piccole isole
separate da vasti tratti di oceano, influenzi negativamente la possibilità che queste nazioni hanno di
riscattarsi da un futuro di dipendenza economica dai poteri economici globali. Egli auspica un
ribaltamento di questa immagine del pacifico secondo una visione che secondo lui è più aderente
alla storia ed alla cultura tradizionale delle popolazioni indigene, cioè l’Oceania come mare di
isole, in cui l’oceano funge da collegamento tra genti che abitano isole diverse, ma che hanno
sempre navigato tra le isole per esplorare, colonizzare, commerciare e scambiare tra di loro.
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In Melanesia coesistono quattro nazioni post-coloniali (Papua New Guinea, Vanuatu, Fiji e
Solomon Islands), con un territorio d’oltremare francese, la Nuova Caledonia, e il territorio della
West Papua, che dopo essere stato un territorio marginale dell’impero coloniale Olandese, è stato
appropriato dall’ Indonesia nel 1963.
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Sia geograficamente che politicamente la Melanesia è un patchwork
Anche dal punto di vista culturale, è proprio la varietà che caratterizza la Melanesia come regione:
con una popolazione inferiore agli 8 milioni, può vantare un quarto delle lingue (e delle culture )
mondiali.
Varietà linguistica
William Foley ha calcolato che nella regione del Pacifico sud-occidentale si parlano attorno a 1200
lingue, circa il 20 o 25% del totale delle lingue del mondo. Queste lingue appartengono a numerose
famiglie, raggruppamenti ed isolati diversi “una diversità linguistica che non ha paralleli da nessuna
parte al mondo” (Foley 2000:358). Un quarto di queste lingue sono classificate come appartenenti
al tipo Austronesiano , del gruppo di lingue Austronesiane chiamato Central-Eastern- MalayoPolynesian, che a sua volta è ulteriormente suddiviso: la maggior parte di queste lingue appartiene
al sotto-gruppo di lingue Oceaniche che si pensa si siano diffuse da un’area centrale situata sull’
isola di New Britain e potrebbero essere associate alla diffusione delle ceramiche Lapita.
Andrew Pawley, analizzando la distribuzione di lingue Austronesiane in Nuova Guinea, osserva che
sono circa 150 su un totale di 900, e sono localizzate soprattutto in zone costiere o insulari, e
riflettono una probabile immigrazione via mare che risale a meno di 4000 anni fa, mentre le
rimanenti 750 lingue parlate nell’isola, classificate come Non-Austronesian o Papuan, sono
dominanti nell’interno della Nuova Guinea, ed appartengono a ceppi linguistici che erano presenti
migliaia di anni prima. Un grande numero di queste lingue sono state raggruppate da ricercatori
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guidati da Stephen Wurm in una grande famiglia chiamata Trans-New Guinea Phylum (TNG) e
divisa in 47 gruppi. Secondo Pawley la maggior parte dei gruppi delle lingue TNG sono centrali
nelle Highlands, e si sono diffuse nell’arco di 5000 anni. Questo periodo coincide con quello in cui,
dai ritrovamenti archeologici di Kuk nelle Highlands, si può supporre che si praticasse l’agricoltura
basata sulla coltivazione del taro. Foley calcola che questa famiglia di lingue include circa 300
lingue distinte. Per esempio solo nelle Highlands Orientali elenca dodici lingue, parlate da un totale
di 200,000 persone. I legami di queste mappature linguistiche con le culture, le storie, ed i
movimenti delle popolazioni non sono ancora certi, e sono soggetto di studi multi-disciplinari. E’
probabile che la complessità degli sviluppi storici abbia profondamente influenzato la distribuzione
attuale delle lingue.
Organizzazione sociale
Un altro metro della varietà delle culture melanesiane, in termini sociali, è data dalle idee sulla
discendenza e sulla parentela, e dal modo in cui queste idee sono usate nella costruzione dei mondi
sociali. In Melanesia si trovano società caratterizzate da modelli basati su principi matrilineari,
patrilineari o cognatici sia nella costituzione dei gruppi locali e di unità sociali più estese, che nella
percezione del proprio universo sociale.
Nelle zone interne della Nuova Guinea, per esempio, i principi di discendenza sono patrilineari, e
rispecchiano le idee sulla procreazione maschile e sulla cooperazione tra uomini come fondamento
per la creazione di gruppi sociali. Questi principi patrilineari però sono bilanciati da una forte enfasi
sugli aspetti sia pratici che affettivi dei legami materni. Il risultato è un’ideologia fortemente
patrilineare, associata ad una grande flessibilità dal punto di vista delle pratiche di affiliazione: in
molti casi fino a metà dei membri di un gruppo (ideologicamente agnatico) è composta dai figli di
donne originarie del clan. In altri casi, come i Mae Enga, la discendenza agnatica non è solo un
principio ideologico nella formazione dei gruppi, ma costituisce anche il fondamento delle pratiche
di affiliazione nei gruppi. Secondo Meggitt (1965) questa coincidenza tra ideologia e pratica è
dovuta ad una carenza di terra causata da una crescita demografica dei Mae Enga negli anni ’50 e
’60. Man mano che la pressione territoriale aumentava, i parenti di discendenza patrilineare
affermavano i propri diritti di precedenza, escludendo altri dalle risorse comuni al gruppo.
In molti altri esempi si nota una discrepanza tra l’ideologia sulla discendenza e le pratiche
dell’affiliazione ai gruppi: in quasi tutti i casi la discrepanza è dovuta a ragioni pragmatiche. E’
conveniente dichiarare che tutti gli uomini sono legati da una comune discendenza patrilineare,
questa retorica, avvalorata anche dalle idee sul potere degli antenati può essere utilizzata per
sostenere la solidarietà di gruppo. Allo stesso tempo, è ugualmente conveniente per i membri di un
gruppo incoraggiare altri parenti, quindi persone legate da discendenza non-agnatica, a stabilirsi con
loro e a partecipare alle attività del gruppo (A. Strathern 1972). Queste attività normalmente
comportano gli sforzi collettivi per produrre o acquisire beni, come maiali o oggetti di valore in
conchiglia, da usare negli scambi cerimoniali che servono a rinforzare la posizione politica di
leader e dei loro gruppi nelle competizioni per lo status ed il potere. Dunque le ideologie e le
pratiche di affiliazione ai gruppi devono essere analizzate nel contesto di questo imperativo
culturale a scambiare doni per asserire il proprio prestigio. In questo contesto i legami tramite la
madre sono importanti in quanto i parenti materni diventano spesso i partner di questi scambi. Ed è
così che nonostante l’ideologia patrilineare anche le donne assumono importanza come agenti
sociali, in quanto forniscono il legame attraverso il quale possono avvenire gli scambi. La loro
importanza cresce ancora se esse sono anche le produttrici del principale bene scambiato: le donne
piantano e coltivano le patate dolci che servono a nutrire i maiali, principali beni di scambio.
In alcuni casi, come tra gli Huli e i Duna della Nuova Guinea, l’accento sui legami materni si è
sviluppato in un pieno riconoscimento dei legami sia agnatici che materni nella formazione dei
gruppi. Questo ha portato ad una struttura di discendenza cognatica e ad un elaborato equilibrio di
impegni legati agli scambi sia con parenti paterni che materni. In certi contesti giuridici e per
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l’attribuzione di precedenza nei diritti, però, i legami agnatici hanno uno status più forte. Questa
stessa situazione si ritrova anche tra gli abitanti Choiseul alle Salomone.
In contrasto a questi modelli fortemente patrilienari, in alcune popolazioni di lingua Austronesiana è
la discendenza matrilineare ad assumere il ruolo principale nella costituzione dei gruppi, e
soprattutto nel determinare gli impegni rituali, i diritti alla terra, e la successione a posizioni di
leadership. Anche in questi casi, però esistono fattori che servono a bilanciare l’equilibrio tra
parenti. Per esempio alle Trobriand il legame con il padre, e con i parenti paterni è importante sia
affettivamente che come mezzo per ottenere risorse.
Così come le lingue e le strutture di parentela, molti altri aspetti culturali e sociali mostrano un
enorme ventaglio di variazioni e trasformazioni in Melanesia. Questa diversità ha portato molti a
chiedersi se la definizione di Melanesia come regione culturale o “World Area” sia giustificata.
Cosa sono le aree culturali
Per World Areas infatti si intendono vaste zone geografiche (America Latina, Sud-Est Asiatico,
Medio Oriente) che servono principalmente a dividere il mondo allo scopo di definire corsi e
specializzazioni (Knauft, 1999). La divisione del mondo in aree culturali ha una vecchia tradizione
in antropologia.
Nel Diciannovesimo secolo l’interesse era soprattutto per la diffusione dei tratti culturali, in
particolare la cultura materiale, sia all’interno di ciascuna regione che tra regioni. Esploratori e
collezionisti di tutti i paesi Europei percorrevano questi mari per accumulare oggetti rappresentativi
delle culture. Su questi oggetti, studiati, catalogati ed esposti nei musei etnografici come nelle
numerose camere delle meraviglie private che fiorivano verso la fine del secolo, venivano costruite
teorie sull’evoluzione dell’uomo. Queste, a loro volta, servivano da un lato a stabilire la superiorità
e il dominio dell’uomo occidentale, attraverso la conoscenza e la catalogazione, su queste
popolazioni ”esotiche”, “primitive”, “selvagge”, e dall’altro fornivano una giustificazione
ideologica per l’ingerenza dei poteri coloniali in questi territori.
Nel corso del Ventesimo secolo il concetto di cultura si è allargato ad includere costumi e credenze,
oltre agli oggetti, e si è venuto a comprendere che spesso questi fattori trascendono le unità
linguistiche e politiche, non è sempre possibile legare un gruppo linguistico ad una località
specifica ad una cultura.
Con l’accumularsi di dati e informazioni relativi ai movimenti tra culture, il concetto stesso di
cultura si è fatto più sofisticato. Le regioni sono state, a loro volta, suddivise in aree culturali
definite da tratti culturali comuni. Alla fine del XX secolo la nozione di aree culturali è diventata
problematica. Se le aree mondiali sono sempre state collegate tra loro da viaggiatori, migrazioni,
esplorazioni, oggi questi collegamenti avvengono con maggiore intensità, velocità e complessità di
prima. Le culture non possono più considerarsi locali, le persone si appropriano di idee, beni e
immagini che viaggiano attraverso lo spazio raggiungendo le località più remote.
Secondo Knauft le regioni che sono venute ad essere definite come tali in antropologia non devono
essere considerate come paradigmi determinanti degli orientamenti teorici, forniscono
semplicemente un contesto analitico che permette al lavoro comparativo un maggiore rigore
scientifico. Le analisi a livello regionale comportano la consapevolezza delle “diversità tra le
similitudini e delle similitudini tra le diversità” (Bruce M.Knauft, 1999: 7).
Quindi, lo studio dettagliato e approfondito dell’etnografia e della storia di un’area geo-culturale
come appunto la Melanesia, permette di confrontare culture diverse in un orizzonte più vasto di
quello rappresentato dalla singola etnografia, e di sviluppare una maggior sensibilità alla
differenziazione culturale.
In questo contesto, però, gli studi a livello regionale hanno senso solo se si tiene conto da un lato
delle influenze globali, e dettagli locali dall’altro.
Storia e cultura in Melanesia
La maggior parte delle aree culturali del mondo sono state delimitate e studiate da studiosi di
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diverse discipline soprattutto per la loro importanza, storica, politica ed economica. La Melanesia,
invece, è sempre stata una regione di interesse marginale, eccetto che per l’Australia e per
l’importanza strategica per il controllo del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale.
Al contrario, la storia dell’antropologia è strettamente legata a questa regione. L’importanza della
Melanesia per la disciplina è storicamente legata al suo isolamento dalle influenze esterne, oltre che
alle sue caratteristiche culturali intrinseche.
Anche se le prime esplorazioni europee di quest’area risalgono al 1500, il contatto tra occidentali e
melanesiani delle zone più interne non è avvenuto che nel tardo ventesimo secolo.
Con coste impervie, paludi, catene montuose e foreste tropicali, la Melanesia è stata giudicata tra le
regioni più inospitali, meno economicamente attraenti, e più difficili da sfruttare; i suoi abitanti
sono stati spesso descritti come brutti, violenti, immorali e senza scrupoli.
Perlopiù i melanesiani sono rimasti relativamente indisturbati da influenze occidentali fino al
secolo scorso, nonostante la presenza coloniale, almeno nominale, da parte di vari poteri europei.
Comunque sarebbe ingenuo, oltre che eurocentrico, pensare che la storia della Melanesia cominci
con l’arrivo degli europei.
La preistoria
Tutto il periodo precedente al contatto con gli occidentali, in assenza di documenti scritti, è
considerato “preistoria”, ed è stato soggetto di studio da parte di numerosi archeologi e linguisti.
Queste ricerche ci permettono di affermare che i primi esseri umani a popolare la Melanesia
arrivarono 50,000 anni fa dall’Asia sud-orientale. Il sito archeologico più antico ritrovato è a
Kosipe, in Nuova Guinea, e risale a 26.000 anni fa, mentre sembra che i maiali, che in seguito
diventarono un’importante fonte di proteine, oltre che di elaborazione culturale e di scambi
economici e cerimoniali in tutta la Melanesia, siano arrivati circa 10,000 anni fa. Le prime tracce di
attività agricola sono state ritrovate nella valle del Whagi, vicino a Mont Hagen, in Nuova Guinea,
risalgono a 9000 anni fa. Queste popolazioni più antiche sono associate alle lingue di ceppo nonAustronesiano.
Circa 4000 anni fa è arrivata una seconda ondata di popolazione dal sud-est dell’Asia, che si è
gradualmente diffusa in tutta l’area, arrivando fino alla Polinesia. A questi nuovi immigranti è
associata la produzione di un tipo particolare di vasi di ceramica, chiamata Lapita (dal nome di un
sito in cui sono stati rinvenuti i primi vasi, in Nuova Caledonia). I ritrovamenti di vasellame di
questo stile in diverse località permettono agli archeologi di ricostruire la storia della
colonizzazione del Pacifico da parte di questa popolazione, associata alle lingue Austronesiane.
La Storia del contatto: Il Periodo Spagnolo e Portoghese: XVI Secolo
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1511-12, I navigatori portoghesi Antonio d’Abreu e Francisco Serrao raggiungono l’isola di
Ceram ad occidente della Nuova Guinea
1526, Il portoghese Jorge de Meneses raggiunge la costa nord-occidentale della Nuova Guinea
e la battezza Papua (Isla des los Papuas), a causa dei capelli crespi degli indigeni.
1528-29, Lo spagnolo Alvaro de Saavedra ha navigato lungo la costa nord della Nuova
Guinea fino all’isola di Manus
1545, lo spagnolo Inigo Ortez de Retes battezza l’isola Nuova Guinea (Nueva Guinea)
1568, lo spagnolo Alvaro de Mendaña ha navigato da un avamposto spagnolo nel Perù alle
Isole Salomone
1606 Pedro Fernandes de Quirós parte dal Peru alla scoperta di quella che chiamò l’ Australia
del Espirítu Santo (Vanuatu). Mentre lui fa ritorno in Messico Luis Vaez de Torres, sulla rotta
di Manila, attraversa lo stretto che ora porta il suo nome, che divide la Nuova Guinea
dall’Australia (ha rapito 14 ragazzi e ragazze per educarli al cristianesimo)
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Periodo Olandese ed Inglese XVII e XVIII Secolo
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1606, Una nave Olandese, Duyfken, comandata da Willem Jansz, naviga lungo le coste della
Papua occidentale (Irian Jaya)
1616, il famoso navigatore William Schouthen raggiunge la costa nord della Nuova Irlanda e
della Nuova Guinea
1643, L’esploratore olandese Abel Janszoon Tasman approda alle Fiji (Cook, il cui nome è
associato a queste isole vi è arrivato decenni dopo)
1764 – Una serie di viaggi capitanati da tre inglesi ed un francese: Byron, Wallis, Carteret,
Bougainville, e Cook
1772 – 1775 James Cook scopre numerose isole tra cui la Nuova Caledonia (nel 1774) e
Norfolk Island, battezza l’arcipelago New Hebrides
1792, Il francese Antoine de Bruni d’Entrecasteaux raggiunge l’ Isle des Pins in Nuova
Caledonia (battezza le Trobriand e Rossel Island)
Missionari
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1835 Fiji
1839 Vanuatu (Nuove Ebridi)
1840 Nuova Caledonia
1845 Isole Salomone
1847 Arcipelago D’Entrecasteaux (PNG)
(I primi missionari alle Salomone e in Papua Nuova Guinea sono stati costretti a lasciarli molto
presto, e non fanno ritorno fino al 1870)
Molte denominazioni si sono contese le anime dei ‘selvaggi’ di queste popolazioni; all’inizio
soprattutto i cattolici e diverse missioni protestanti e anglicane, più recentemente si sono aggiunte
numerose chiese evangeliste. In alcuni casi, come in Nuova Guinea, la divisione del territorio
d’azione delle diverse missioni è stata concordata “a tavolino” con i governi coloniali, in altri casi,
come in Nuova Caledonia, la rivalità tra missionari di diverse denominazioni in un contesto di
conflitti tra diversi gruppi locali esacerbati dalle trasformazioni portate dagli occidentali, hanno
finito per accentuare, se non addirittura provocare guerre locali.
Gli insegnamenti, i modelli di vita familiare e di comunità promossi, l’atteggiamento verso le
tradizioni locali, la promozione di attività di tipo economica nei convertiti, e quindi l’influenza che
le missioni hanno avuto sulla cultura locale, cambiano significativamente a seconda della filosofia
delle singole missioni.
In molti casi la colonizzazione veniva portata avanti contemporaneamente dai
governi coloniali, che prestavano l’esercito o la polizia a opere di pacificazione nelle aree in cui si
stabilivano i missionari, e dalle missioni che si occupavano di promuovere l’ideologia occidentale
tramite il lavoro di evangelizzazione e di “aiuto umanitario”. In molte aree della Melanesia sono
state le missioni, molto prima dello stato, a occuparsi sia dell’assistenza sanitaria degli indigeni
(colpiti da molte paurose nuove malattie introdotte dagli stessi occidentali), che della
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scolarizzazione dei convertiti.
L’Annessione Coloniale
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Nel 1828 gli olandesi dichiarano la propria sovranità sulla parte occidentale della Nuova
Guinea (Irian Jaya)
Nel 1853 i francesi si aggiudicano la Nuova Caledonia (hanno trasportato nella colonia penale
sull’isola principale 40.000 prigionieri – un numero quasi equivalente a quello degli indigeni
sull’isola)
1874 gli inglesi dichiarano le Fiji un loro possedimento. Trasportano lavoratori indiani per
lavorare nelle piantagioni, la popolazione di indiani supera quella dei figiani
Nel 1884, i governi della Gran Bretagna e della Germania si dividono la parte orientale dell’
isola della Nuova Guinea (quella parte che ora corrisponde alla nazione della Papua New
Guinea). In seguito, nel 1906, l’Australia ottiene il controllo della colonia inglese,
chiamandola Territory of Papua; nel 1914, al principio della Prima Guerra Mondiale, gli
australiani occupano la Nuova Guinea Tedesca
Nel 1887, gli inglesi ed i francesi dichiarano le Nuove Ebridi un condominio anglo-francese,
Nel 1893, gli inglesi nominano le Isole Salomone un protettorato
Decolonizzazione ed Indipendenza
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1970 Fiji
1975 Papua New Guinea
1978 Solomon Islands
1980 Vanuatu (ex Nuove Ebridi)
Nuova Caledonia tuttora un territorio d’oltremare della Francia, all’ultimo referendum le
richieste del movimento indipendentista dei kanak non sono passate anche perché i
melanesiani sono ormai una minoranza. Un nuovo referendum è programmato per il 2014
Il governo indonesiano, ottenuta l’indipendenza dall’Olanda ha ottenuto anche il controllo
sull’ Irian Jaya nel 1963 (attualmente gli indigeni della Papua Occidentale stanno lottando per
l’indipendenza)
Da questo rapido excursus possiamo identificare due caratteristiche della storia del colonialismo,
che sono particolari di questa area: l’intrusione coloniale in Melanesia è relativamente recente e
nella maggioranza dei casi è stata abbastanza breve (meno di cento anni).
Il colonialismo della Melanesia non è stato un evento di conquista su larga scala; almeno in
apparenza era di stampo più benigno e paternalistico di quello avvenuto in periodi precedenti in
altre parti del mondo. Anche per la difficoltà di penetrare nelle zone più interne, inizialmente
l’influenza coloniale era localizzata: si stabilivano delle basi governative o delle missioni sulle
coste, dalle quali si organizzavano spedizioni nelle zone circostanti, delle barche viaggiavano tra
questi centri, mantenendo i rapporti tra i diversi agenti del colonialismo, portando viveri e
materiale, e organizzando pattugliamenti o spedizioni. L’intento specifico spesso, come in Papua,
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era di assicurarsi il controllo dell’area, ma anche di proteggere gli indigeni dai numerosi
avventurieri poco scrupolosi che cercavano fortuna in questi mari. Il progetto coloniale non era
ambizioso, ed era portato avanti con pochi uomini, si limitava a portare il cristianesimo e a
pacificare le popolazioni locali, senza voler interferire troppo con l’organizzazione sociale o
modificare sostanzialmente l’economia di sussistenza.
Ovviamente la pacificazione, le opere di conversione al cristianesimo, l’introduzione di beni
commerciali e di malattie, oltre che il reclutamento di lavoratori per le piantagioni delle Fiji e per le
miniere di nichel in Nuova Caledonia hanno finito per avere un forte impatto sulle strutture sociali e
culturali, soprattutto sulle coste e nelle isole, a partire dal tardo ‘900.
L’impatto coloniale nella regione è stato variabile, secondo il periodo storico e gli scopi del potere
coloniale coinvolto. In generale l’influenza diretta è stata minore dove c’era meno da guadagnare, e
la Melanesia genericamente era poco attraente rispetto ad altre zone degli imperi coloniali.
Addirittura si può dire che in molte zone della Melanesia la presenza relativamente scarsa di
Europei era accompagnata da un crescente desiderio degli indigeni per i beni occidentali, e per le
idee associate ad essi. Storicamente, questo si è palesato nel desiderio Melanesiano per una
maggiore influenza straniera, specialmente in termini di sviluppo economico, educazione, e
infrastrutture materiali. Un’anomalia di questa regione è proprio che l’anticolonialismo sviluppatosi
in molte nazioni coloniali del mondo, ha avuto uno sviluppo lento negli ambienti accademici della
Melanesia, eccetto che in Nuova Caledonia (che infatti è tuttora un territorio d’oltremare della
Francia).
L’attuale crisi delle Salomone, per esempio, ha indotto il governo indipendente, che è alle prese con
problemi interni di natura etnica, a richiedere l’intervento armato di forze esterne (prevalentemente
dall’Australia, Papua New Guinea e Nuova Zelanda).
La storia orale
E’ importante riconoscere che, a prescindere dalla storia occidentale della Melanesia, basata sui
ritrovamenti archeologici e sui documenti scritti dal periodo delle esplorazioni, che per ovvie
ragioni sono fonti prevalentemente occidentali), ogni società in Melanesia ha il proprio bagaglio
storico, vasto e articolato, trasmesso oralmente da una generazione all’altra. Molte informazioni
storiche si trovano nei miti sull’origine di ogni cultura, nelle genealogie e nella conoscenza sacra;
queste storie contengono informazioni sui diversi gruppi all’interno di una società, e sulla loro
collocazione nell’ambiente, stabiliscono il rapporto tra gli spiriti e gli esseri umani, e convalidano i
diritti di gruppi specifici sulla terra e sullo sfruttamento delle sue risorse. Questo genere di
conoscenza storica, alla base delle relazioni politiche all’interno e tra gruppi, determina l’identità e i
diritti delle persone, è tuttora fondamentale nella vita di molti melanesiani, ed è talvolta usata anche
nel contesto contemporaneo per trattare col mondo esterno. Per esempio nel 1999 le genealogie e le
storie d’origine dei Duna, in Nuova Guinea, sono state le basi per determinare chi aveva il diritto ad
essere risarcito per i danni causati da una miniera nel loro territorio.
Le conoscenze storiche di un gruppo possono essere custodite dagli anziani e tramandate ai più
giovani in diversi modi, possono essere rappresentate nei canti, nelle danze, nelle decorazioni delle
case degli spiriti: sono comunque narrate e riprodotte da persone diverse in contesti diversi, sono
conoscenze importanti, negoziate e contestate: chi ha il diritto di sapere la storia o di raccontarla?
Chi può contestarla?
Melanesia e Antropologia
Per quasi tutto il Ventesimo Secolo l’importanza della Melanesia per l’antropologia è stata legata
direttamente alla sua posizione relativamente marginale in termini politici e ed economici. Proprio
per lo scarso interesse che aveva per gli speculatori occidentali, questa zona è stata meno coinvolta
in cambiamenti sociali e culturali di altre parti del mondo coloniale, e proprio per questo,
considerata particolarmente attraente da etnologi ed antropologi. Più una località era remota,
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inesplorata, inalterata dallo sviluppo, più era considerata interessante dai ricercatori interessati a
società dalla struttura politica decentrata o “tribale”.
I Melanesiani hanno fornito molto materiale interessante agli studiosi della diversità umana: hanno
credenze religiose e pratiche rituali complesse, oltre a costumi sessuali, militari, e politici
particolari. Le caratteristiche più frequentemente citate nella storia dell’etnografia melanesiana
includono:
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Un’economia di sussistenza basata sull’orticoltura decentralizzata di tuberi e/o lo
sfruttamento della palma del sago, insieme a caccia, pesca e all’allevamento dei maiali.
Residenza decentrata in villaggi o frazioni.
Modelli di discendenza differenti (matrilineari, patrilineari, o cognatici) in zone diverse.
Leadership politica acquisita in maniera aggressiva, ma molto decentrata, tipicamente
associata a “Big Men” o “Great Men”.
Cicli di scambi competitivi e cerimoniali di beni, spesso molto elaborati, che palesano e
modulano i rapporti tra gruppi sociali e tra gli individui all’interno dei gruppi.
Conflitti e guerre tra gruppi, spesso cruenti, che talvolta includevano fenomeni di
cannibalismo e/o di caccia di teste.
Pronunciate polarità di genere o antagonismo tra i sessi, credenze riguardo al potere
contaminante delle donne, e usanze che vietano o prescrivono una varietà di pratiche sia
eterosessuali che omosessuali.
Sistemi cosmologici complessi, che includono credenze, miti, rituali, e che strutturano una
vasta gamma di sistemi di iniziazione, pratiche magiche, riti di fertilità, cerimonie ancestrali,
spesso accompagnati da decorazioni corporee elaborate, pitture, musica, danze e maschere o
altre sculture lignee.
In generale, una grande varietà linguistica e culturale.
La documentazione etnografica della variazione socio-culturale delle popolazioni di questa regione
è stata di grande importanza per lo studio di vari argomenti di interesse antropologico, tra cui
l’organizzazione politica, le credenze e pratiche spirituali,gli scambi socio-economici, e così via.
Allo stesso tempo però, la rappresentazione collettiva della Melanesia da parte degli antropologi, ha
avuto il risultato di costruire in occidente un’immagine pubblica della Melanesia come luogo
prevalentemente esotico e primitivo. (Gli antropologi stessi hanno avuto un ruolo innegabile in
questo processo, in quanto questa rappresentazione è stata strumentale nell’ottenere fondi di ricerca
in un clima culturale in cui c’era grande interesse per “l’altro primitivo”).
A partire dagli anni ’60 la sensibilità coloniale, messa in difficoltà dalle reazioni socio-spirituali di
alcuni melanesiani alle influenze esterne, che si sono fatte più evidenti durante la seconda guerra
mondiale, ha generato l’interesse per quelli che sono stati chiamati “Cargo Cults”. Le analisi dei
culti del cargo hanno dato il via a tutta una serie di ricerche etnografiche in cui gli antropologi si
sono confrontati con tutti quei fenomeni che sono più contemporanei che tribali o “tradizionali”,
come le risposte melanesiane alla cristianizzazione, all’urbanizzazione, all’introduzione del sistema
monetario, allo sviluppo economico.
In un senso più generale, la Melanesia come regione non può essere considerata a prescindere dalla
storia dei suoi rapporti con l’Occidente, o addirittura dalla sua storia come oggetto di studio
antropologico. Se lo studio di questa regione è stato di importanza fondamentale per lo sviluppo
della disciplina, soprattutto nell’ambito anglosassone, è altrettanto vero che la regione si distingue
per il fatto di essere stata rappresentata al mondo soprattutto dagli antropologi che vi hanno
lavorato, mentre altre regioni, di maggior interesse strategico ed economico sono state soggetti di
studio e di rappresentazione da parte di numerose discipline diverse.
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Un’effetto di questa “antropologizzazione” della Melanesia, è stata la creazione di un’immagine di
questa regione che ne enfatizza la sua diversità culturale in termini che l’associano allo stato
primitivo. Quest’immagine permane, nonostante molti sforzi fatti negli ultimi anni di rendere
un’immagine più realistica. Basti pensare all’interesse suscitato dai media quando si prospetta la
possibilità di scoprire tribù primitive senza esperienza di contatto col mondo occidentale.
Il pericolo di questo punto vista, oltre ad essere condiscendente, è di riscoprire in Melanesia proprio
la marginalità che le è stata attribuita dal nostro stesso sguardo distanziante. Inoltre questo porta a
sottovalutare i poteri e le ineguaglianze che intrudono sulla regione o si sviluppano in essa.
Alcuni antropologi protagonisti in Melanesia
L’etnografia classica della Melanesia ha avuto un ruolo fondamentale nella storia
dell’antropologia; ricostruiamo alcuni passaggi importanti.
• 1836, Robert Codrington accompagna il Vescovo John Coleridge Patterson della
Melanesian Mission nella Melanesia meridionale
• 1871, Il russo Mikluko Maclay a Madang
• 1898 diversi antropologi inglesi (tra cui Haddon, Rivers, Seligmann,Wilkin, Ray,
McDougall, e Myers) partecipano ad una importante spedizione di studio nelle isole dello
Stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea: la celebre Cambridge University
Anthropological Expedition to Torres Straits
• 1910, Diamond Jenness soggiorna per 9 mesi sull’isola di Goodenough
• 1912-13 Spedizione Kaiserin Augusta Fluss, durante la quale Thurnwald studia le tradizioni
delle popolazioni del fiume Yuat-, allora conosciuto come Dorper
• 1914, Bronislaw Malinowski arriva in Australia e in Papua, fa sei mesi di lavoro sul campo
all’isola di Mailu.
• Tra il 1915 e il 1918 Malinowski torna due volte in Papua, più precisamente alle isole
Trobriand
Dopo la storica Cambridge Expedition to the Torres Strait nel 1898, la Melanesia fu considerata da
antropologi di spicco quali Haddon come una regione di importanza cruciale per lo studio della
diffusione e della distribuzione di usanze primitive. (Questo era un interesse prevalente
dell’antropologia del XIX secolo e servì preparare il terreno per studi più dettagliati delle relazioni
tra tratti culturali e sociali diversi). In seguito gli studi etnografici in Melanesia hanno continuato ad
essere influenzati da e ad influenzare i vari approcci allo studio dell’uomo che si sono via via
susseguiti, per esempio,
• Le ricerche di W.H. R. Rivers nelle isole della Melanesia durante la seconda decade del
1900 hanno dato il via agli studi strutturali della parentela e dell’organizzazione sociale.
• Il lavoro di Bronislaw Malinowski nelle isole Trobriand è stato di importanza seminale per
la definizione delle tecniche di ricerca sul campo basate sull’osservazione partecipante e
sulla conoscenza della lingua locale, divenute il “marchio di fabbrica” dell’antropologo.
Inoltre la prospettiva teorica che ha sviluppato durante gli anni ’20, in cui sottolineava la
funzione razionale di istituzioni indigene), ha avuto un importante influenza sulle teorie
antropologiche (funzionalismo strutturale).
• Nel 1925 Marcel Mauss ha pubblicato uno studio sullo scambio di doni melanesiani. Anche
questo studio è stato di importanza seminale per lo sviluppo di teorie sulla relazione
esistente tra scambi materiali e sociali, e ha gettato le basi per le teorie sugli scambi e per
l’analisi transazionale dei processi culturali.
• Negli anni tra il 1920 e il 1950 la Melanesia è stata il teatro di ricerca di personaggi come
Margaret Mead, Gregory Bateson, e Maurice Leenhardt, che hanno contribuito allo
sviluppo di studi sull’emozione, la personalità, e la socializzazione.
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Nella seconda metà del XIX secolo l’Africa divenne il centro per lo sviluppo del
funzionalismo strutturale Britannico, e l’America Latina il teatro della nascita dello
strutturalismo di Levi-Strauss. Gli studi condotti in Melanesia in questo periodo furono
comunque importanti per la valutazione, la critica e lo sviluppo di questi approcci, mentre
prospettive critiche sulle trasformazioni culturali e sui cosiddetti cargo cults furono
sviluppati nelle analisi marxiste di Peter Worsley e Jean Guiart.
Durante gli anni ‘60 il materialismo culturale e l’antropologia ecologica sono stati
largamente informati dagli studi melanesiani di Roy Rappaport e Andrew Vayda.
Negli anni ’70 –’80 la Melanesia è stata al centro dello sviluppo dell’antropologia simbolica,
lo studio della metafora e del significato (Roy Wagner, Edward Schieffelin, Alfred Gell). Il
rigore etnografico dell’antropologia marxista ha avuto sviluppo nel lavoro di Maurice
Godelier, mentre la sociologia della conoscenza è stata sviluppata nel corso del lavoro
etnografico di Frederick Barth(1975, 1987).
Negli stessi anni, le relazioni di genere e la sessualità hanno assunto un’importanza
fondamentale nell’antropologia melanesiana, tramite i lavori di antropologhe come Marilyn
Strathern, Annette Weiner, Margaret Jolly e Gabriele Sturzenhofecker.
Negli anni ’90 l’influenza di Roger Keesing, James Carrier, Lamont Lindstrom, Geooffry
White e Nicholas Thomas, è stata importante per lo sviluppo dell’interesse per le
trasformazioni culturali, e per l’elaborazione dei concetti di cultura e di tradizione.
Ovviamente anche altre aree geografiche sono state importanti nella storia dell’antropologia, ma
si può dire che per un periodo di cento anni (1880-1980) la Melanesia abbia contribuito molto
materiale per lo sviluppo di tutta una serie di filoni teorici fondamentali nella disciplina.
Melanesia e Antropologia: i problemi oggi
Questo rapporto tra la Melanesia come area geografica e l’antropologia sta cambiando. Da un lato
l’interesse per la globalizzazione, dall’altro le critiche all’antropologia “tradizionalista” mal si
conciliano con l’idea prevalente della Melanesia come “laboratorio naturale” di variazioni tribali.
Troppo a lungo i ricercatori hanno cercato nelle popolazioni remote della Melanesia gli “ultimi
casi” di popolazioni allo stato naturale, indisturbati da influenze esterne, esempi dei primi stadi dell’
evoluzione culturale e sociale. Questa reputazione è diventata sempre più difficile da sostenere, data
la crescente consapevolezza dei rapporti intrecciati dai Melanesiani contemporanei col resto del
mondo. (Es. di sito internert di una guest-house nelle Highlands che promette un’esperienza di vita
in un villaggio tradizionale, www.engaexperience.homestead.com).
Dall’altra parte le trasformazioni dell’antropologia contemporanea e i nuovi interessi teorici hanno
spostato il fuoco dell’attenzione da quei luoghi lungamente associati con l’uomo “primitivo” verso
siti in cui la complessità sociale, l’intersecarsi di genti, flussi migratori, e la permeabilità dei
confini sono più apparenti. Anche la critica postmoderna alla politica della rappresentazione e sul
ruolo degli antropologi in un mondo dove anche i popoli tribali possono parlare per sé ha
contribuito a provocare un periodo di crisi per l’antropologia della Melanesia (che si è potuto
riscontrare anche nella difficoltà da parte delle università a mandare ricercatori).
Dagli anni ’80 in poi il crescente interesse teorico per le trasformazioni culturali e per i processi di
contaminazione culturale, sia nel periodo pre-coloniale che in quelli successivi, hanno influenzato
l’ultima generazione di ricercatori, impegnati a sviluppare nuovi approcci creativi allo studio
etnografico di una regione in via di trasformazione utilizzando teorie sulla storia, la memoria, la
cultura pubblica e l’economia politica dei Melanesiani contemporanei.
Tutti i fenomeni che sono venuti alla luce come argomenti di interesse teorico grazie all’attenzione
dedicata ai processi legati alla globalizzazione (migrazione, diffusione culturale, trasformazioni
politiche ed economiche, e mutamenti nei valori culturali) sono in realtà stati sempre presenti nelle
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società melanesiane, anche se su una scala minore. Più recentemente questi processi sono stati
influenzati sia dal colonialismo che dagli sviluppi post-coloniali.
La sfida adesso, per gli antropologi che lavorano in Melanesia, come per i melanesiani stessi, è di
ricontestualizzare le tradizioni di differenziazione culturale in un periodo di dichiarata modernità.
La modernità in Melanesia include l’alto valore attribuito ai beni di consumo e al denaro. Oggi gli
abitanti del più remoto villaggio o dell’isola più lontana non si accontentano più di asce, sale,
perline e fiammiferi. In molti sono abituati; ancora di più vorrebbero avere, accesso a riso, cibo in
scatola, abiti occidentali, automobili o barche a motore, frigoriferi, biglietti aerei, cellulari, e la
possibilità di far proseguire gli studi ai figli. Queste necessità, stimolano sia i proprietari della terra,
che i governi melanesiani, a cercare il modo guadagnare soldi rapidamente. Sempre più si lasciano
sedurre dalle multinazionali minerarie o dalle imprese del legname del Sud-Est Asiatico, per
soddisfare il crescente bisogno di denaro. La diffusione e la dimensione di queste imprese, però, ora
rappresentano gravi problemi ecologici e sociali in molte parti della Melanesia.
Anche questo aspetto moderno della cultura melanesiana, le aspirazioni economiche, é da
considerare come una trasformazione di modelli culturali preesistenti, in cui il dare e ricevere di
doni e di servizi (a volte in maniera competitiva) rappresenta la chiave per ottenere prestigio
personale, successo sociale, e potere politico. In questo contesto, quindi, acquisire beni di consumo,
che sono indicatori di successo nella modernità, assume significati e conseguenze dal sapore
distintamente melanesiano. Queste inflessioni culturalmente specifiche derivano dalla natura
“transazionale” delle relazioni sociali melanesiane, alla base dell’identità sia individuale che
collettiva.
D’altro canto nel clima di trasformazione attuale le pratiche e le credenze melanesiane non sono
state represse o abbandonate, anzi continuano a proliferare, sono continuamente elaborate e ricreate
dalle persone e dai gruppi coinvolti in un processo di transizione verso un’economia politica
allargata di un sistema ecologico al contempo ricco e fragile.
Gli effetti del controllo coloniale e della politica postcoloniale, interpretati attraverso lenti
distintamente melanesiane, improntano l’identità individuale sociale e nazionale contemporanea.
La comprensione di questi sviluppi culturali richiede una cognizione più approfondita delle
tradizioni melanesiane e della loro relazione con la storia contemporanea.
L’Antropologia in Melanesia si rinnova
Gli antropologi che si occupano della Melanesia ora devono trovare una maniera produttiva di
sposare il lavoro tradizionalista dei loro predecessori con la sensibilità acquisita di recente per
questioni legate alla trasformazione. Sarebbe limitante, oltre che controproducente, pensare che le
due prospettive si escludano.
Lo scopo dei ricercatori contemporanei deve essere di utilizzare criticamente la propria tradizione
intellettuale basata su studi etnografici dettagliati per approfondire la conoscenza attuale sia della
Melanesia come regione che dell’antropologia come disciplina in evoluzione. In effetti, tutto il
bagaglio di etnografie ricche e dettagliate di questa regione contribuisce materiale prezioso ai più
recenti dibattiti teorici.
Secondo Knauft (1999: 218) molte delle influenze teoriche recenti derivano dalla critica dei testi,
ciò le rende particolarmente raffinate nella percezione critica del potere della rappresentazione, ma
non particolarmente sottili e raffinate nella comprensione e nella documentazione dettagliata delle
attività e delle credenze espresse nella vita quotidiana delle persone; mentre è proprio questa la
forza della tradizione etnografica sviluppatasi in Melanesia.
Ecco alcuni dei temi emersi in anni recenti dal coinvolgimento degli studiosi della regione con i più
recenti interessi teorici.
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Fino a trent’anni fa le unità politiche o linguistiche melanesiane erano considerate
relativamente a se stanti, di conseguenza le etnografie erano convenzionalmente basate su
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singoli villaggi, e concernevano le strutture della parentela, la discendenza, l’organizzazione
rituale, eccetera. Ora non è più sostenibile una visione omogenea delle culture locali, in tutta
la Melanesia si vedono fenomeni di evangelizzazione, di politiche post-coloniali, del
perseguimento di uno sviluppo economico, di movimenti pro e contro le multinazionali, di
urbanizzazione. Se il loro effetto non è omogeneo, è perlomeno sentito di riflesso anche nei
villaggi più remoti. La cultura stessa è vista come una rappresentazione contestata, non
come un sistema autonomo e autosufficiente.
La tradizione di documentazione etnografica accurata e dettagliata si fa carico di questi
sviluppi recenti, per esempio, considerando come interessanti quei luoghi una volta
tralasciati dagli etnografi in quanto “acculturati” e includendo nel proprio sguardo fenomeni
non tradizionali (le chiese, le discoteche, le scuole, gli ospedali, i parenti emigrati in città).
Antropologi, insieme a sociologi, politologi, e storici del Pacifico, includono tra gli
argomenti di studio più “tradizionali” anche interessi quali le tensioni post-coloniali
riguardo all’accesso alle risorse nazionali e lo sviluppo, il fondamentalismo cristiano, e la
mediazione di identità etniche ed economiche. Anche nella rivendicazione delle usanze
locali (kastom) emergono tensioni e conflitti di natura post-coloniale, sulla politica della
rappresentazione (cioè chi ha il diritto di definire, e per quale gruppo, quello che è da
considerarsi costume, tradizione).
Tutti questi elementi influiscono, in maniere complesse, sui tentativi degli stati melanesiani
di creare sentimenti di identità nazionale contrastando la frammentazione sociale e politica.
(Ricordiamoci che anche gli stati post-coloniali, non solo le regioni geografiche, sono il
risultato di definizioni di confini arbitrariamente determinati in base agli interessi dei poteri
coloniali ed alle loro relative fortune).
Le tensioni che esistono tra le diverse fonti di potere e di valore sono espresse in problemi di
tutti i generi (migrazione, vandalismo, banditismo, abusi sessuali, alienazione della terra,
guerre locali, violenza politica, corruzione).
Le popolazioni indigene in questi contesti nuovi e confrontati dalle influenze più diverse,
esprimono, significati, dignità, e resistenza passiva, quando non attiva: tutti questi sviluppi
culturali sono diventati importanti argomento di studio.
Che la maggior parte della terra di nazioni come la Papua Nuova Guinea, Vanuatu, e le
Salomon Islands, sia in mano alle popolazioni locali, e sia usata per attività di sussistenza,
nonostante le crescenti pressioni da parte di impresari del legname e di multinazionali
minerarie, non è solo indice di continuità col passato. In un ambiente globale in cui la
proprietà indigena della terra ha un valore spesso molto tenue, questo fatto assume una
valenza politica importante da un lato, e pone l’accento sulla minaccia rappresentata dalle
mire espansionistiche delle multinazionali del legname, minerarie, petrolifere, in questa
regione. La risorsa basilare rappresentata dalla terra di proprietà di piccoli gruppi residenti
non è più garantita. Nella cornice storica post-coloniale la terra è diventata un bene attorno
al quale si discute e si lotta, un diritto per il quale bisogna battersi, soprattutto data
l’estensione dei terreni che devono essere disboscati per lo sfruttamento del legname.
E’ diventato sempre più importante comprendere le continuità, oltre che i cambiamenti
portati dagli sviluppi contemporanei. La migrazione, la trasformazione, e l’elaborazione
culturale sono fenomeni endogeni alla Melanesia, e sono stati ampiamente documentati, a
dire il vero, dagli antropologi impegnati nella descrizione delle culture locali, fin dai primi
del ‘900 (Seligmann 1910). Pratiche e credenze indigene hanno dimostrato una robustezza
sorprendente, le tradizioni non sono semplicemente state mantenute o modificate per
adattarsi alle trasformazioni in atto, sono state riprodotte e attivamente ricreate (es. Jolly,
1994). Anche quando persistono, le tradizioni sono abbracciate in un contesto di
trasformazione, ed acquisiscono significati nuovi. In altri casi alcune pratiche abbandonate
riemergono più tardi in forma diversa, o con una nuova ragione d’essere.
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A confronto con forme di cambiamento intrusive e sempre nuove è importante rendersi
conto della selezione e della creatività applicata dagli indigeni nel fare proprie le varie
influenze esterne. Spesso nuove immagini, nuovi valori e nuovi beni sono utilizzati per
ridefinire e riconfermare il valore del “tradizionale” e del locale. Se è vero che il rapporto
tra il “locale” ed il “globale” é uno dei temi chiave per l’antropologia contemporanea, ciò
non toglie che sia ancora importante documentare se e come il senso locale del luogo sia
soggetto a trasformazioni. In Melanesia esistono rapporti importanti tra lo spazio sociale e il
luogo ambientale. Questi rapporti, che hanno risvolti spirituali e mitologici, sono
integralmente legati all’affiliazione di gruppo. Questi legami dinamici tra concetti di luogo,
identità e spazio sono creativamente elaborati da nativi che contemplano la trasformazione
del loro territorio, il significato delle città e di altri nuovi luoghi di potere, e la possibilità di
sviluppo economico attraverso progetti minerari o di sfruttamento delle foreste. In questi
progetti sono chiamati in causa fattori diversi quali l’identificazione con la terra, i
risarcimenti monetari, e l’adattamento ai mutamenti territoriali e culturali- inevitabili
conseguenze del coinvolgimento con la modernità.
Nuove configurazioni di identità locale e di tradizione emergono, quindi, anche
dall’aspirazione alla modernità, e dalle complicazioni ad essa collegate; sono elaborate in
opposizione ad un “altro” (che può essere un gruppo locale avversario, una multinazionale,
istituzioni statali, o le donne), e contemporaneamente adottano nozioni associate alla
modernità, come il successo individuale. I mezzi pratici con cui i Melanesiani articolano
orientamenti di origine arcaica con le nuove pressioni e i nuovi desideri nel quadro delle
tensioni e dei problemi associati alle circostanze postcoloniali e neocoloniali, rappresentano
una crescente fonte di interesse e di conoscenza antropologica.
Gli studi melanesiani hanno un’importante occasione per situare le affiliazioni postcoloniali
in un quadro di influenze politiche ed economiche più generali. Tra le caratteristiche comuni
alle varie forme di colonialismo avvenute in Melanesia ci sono: la limitata alienazione di
terre, lo scarso sviluppo economico, una marcata barriera razziale tra bianchi e neri. In molte
aree questo modello di intrusione si è intrecciato con nozioni tipicamente melanesiane di
equivalenza sociale e materialità, risultando in quelli che furono chiamati i cargo cults
(ovvero movimenti sociali di Melanesiani con aspirazioni economiche, che combinavano
elementi di supplica religiosa per ottenere beni occidentali o denaro, con trasformazioni
politiche e, a volte, opposizione e resistenza agli Occidentali). I numerosi risvolti di tali
fenomeni non possono essere compresi in termini che siano esclusivamente indigeni o
esogeni. Cristianesimo, la dominazione coloniale, e l’idea di business hanno avuto un
impatto immenso, ma spesso tali influenze occidentali sono state appropriate dai
melanesiani in termini indigeni, e applicate secondo dinamiche locali.
Le ricerche sui cargo cults sono state foriere di quell’interesse per la relazione esistente tra
cultura, politica e storia coloniale, sviluppata da Keesing negli anni ’80 e ’90. Da allora sono
stati molti i ricercatori ad analizzare l’interfaccia tra cultura e storia nelle isole della
Melanesia.
Alcuni di questi lavori hanno portato a sfumare, se non cancellare, il confine tra Melanesia
e la Polinesia ad est. Come abbiamo accennato in precedenza, i collegamenti culturali
esistenti sia a livello regionale che globale pongono dei problemi all’integrità concettuale
delle aree culturali. Questi sono particolarmente rilevanti nel caso della Melanesia,
classicamente contrastata alle culture di cacciatori e raccoglitori dell’Australia, alle
tradizioni “stataliste” del Sud-est Asiatico, e alle società associate ad una struttura
gerarchica di capi tribù della Polinesia.
Nel caso specifico della Melanesia, la tendenza fino a qualche decennio fa di considerare la
Nuova Guinea, e soprattutto le sue parti più remote, come “la Melanesia Autentica”, ha di
fatto disincentivato un’analisi delle numerose forme sociali e politiche esistenti nella
regione. Le aree costiere, le isole, ed in generale le nazioni più orientali della Melanesia
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hanno attirato un maggior numero di ricercatori tra quelli interessati alla storia del contatto e
ai sincretismi, dando origine ad una rivalutazione critica e multivocale della storia
dell’economia e della politica culturale dell’area. A sua volta la Melanesia non è più
considerata come entità a se, ma come nodo di congiunzione tra Pacifico, Asia, ed Australia.
Questa percezione, importante data la crescita di progetti di sviluppo a livello internazionale
o regionale, influisce anche sui contenuti delle analisi etnografiche più locali e dettagliate.
Conclusioni
La Melanesia è stata il sito di numerosi importanti studi antropologici, fin dagli inizi della
disciplina. I melanesiani hanno avuto un ruolo rilevante nella storia dell’umanità, non fosse altro
che per i loro rapporti con gli esploratori europei e particolarmente per le storie coloniali ed il loro
coinvolgimento nelle campagne per il Pacifico della seconda guerra mondiale. Oggi i melanesiani
hanno vissuto molte trasformazioni negli aspetti politici, economici e religiosi delle proprie vite, e,
con creatività, hanno incorporato queste trasformazioni nel ritmo della loro vita. Forme di governo
parlamentari, imprese capitaliste e religione cristiana, sono tutte inizialmente state portate in
Melanesia dal colonialismo. In tempi post-coloniali essi continuano a lottare con i risultati della
storia coloniale e per definire e creare i propri modelli di vita collettiva nel mondo trasformato. Il
mondo contemporaneo dei melanesiani include parlamenti, musei, centri culturali, imprese,
multinazionali, chiese, ospedali e Aids. Quale che sia la loro genesi, queste realtà fanno parte della
vita dei melanesiani oggi. Eppure un interesse per i modi di vita degli antenati, così come sono
concepiti oggi, fa parte delle innovazioni politiche e sociali del neo-tradizionalismo.
Questo mondo melanesiano di trasformazioni, adattamenti, incorporazioni, resistenza ed
accomodamenti al mondo più vasto che lo circonda e di cui ora i suoi abitanti sono sicuramente più
coscienti, è un mondo che è sicuramente interessante da conoscere, forse anche più di quanto lo
fosse ai tempi dei primi esploratori del Pacifico.
Ecco alcune delle caratteristiche della Melanesia contemporanea che la differenziano come area di
studio antropologico.
1. La diversità culturale per la quale è così giustamente conosciuta, diventa ancora più
significativa per una disciplina attualmente interessata all’esplorazione della diversità: con
tutte le diverse lingue, e culture, questa regione offre terreno fertile a chi vuole interessarsi
alla multivocalità, alle tensioni tra diverse voci, o al loro mescolamento.
2. Rispetto ad altre aree del mondo, l’influenza coloniale è stata recente e particolarmente
breve, col risultato che le compressioni temporali della modernità, tra cui le tensioni tra le
disposizioni indigene e le istituzioni, le reti e le tecnologie introdotte, sono particolarmente
imponenti ed appariscenti in Melanesia.
3. Le pratiche e le credenze melanesiane sono state documentate in maniera approfondita e
dettagliata, spesso ad uno stadio prematuro di contatto coloniale. Questo materiale fornisce
ora una lente storica e culturale attraverso la quale analizzare gli sviluppi contemporanei, e
permette una comprensione ricca ed articolata dei processi di trasformazione socioculturali.
4. La rappresentazione della Melanesia come area, e dei Melanesiani come popolazione, ha
una posizione importante nella storia dell’antropologia. Da un lato queste rappresentazioni
sono state all’avanguardia dei contributi modernisti dell’antropologia. Dall’altro, hanno
spesso relegato la Melanesia alla casella “selvaggi” dell’immaginario occidentale, e
considerato i Melanesiani come oggetti di studio più che come soggetti. Oggi questi temi
richiedono analisi e riflessione. Il fatto che i Melanesiani stessi traggano ispirazione dalle
rappresentazioni occidentali delle proprie tradizioni, nel negoziare i propri interessi
nazionali, regionali, e di gruppo, rende ancora più importante la rilettura della letteratura
etnografica. Al contempo questa rilettura offre spunti sulla storia della disciplina e per i suoi
sviluppi futuri.
5. Così come la Melanesia è passata da un’era coloniale ad una post-coloniale o neocoloniale,
gli studi melanesiani devono affrontare tutta una serie di temi emergenti, espandendo i
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propri interessi per includere le trasformazioni sociali, politiche e teoriche, ma continuando
nella migliore delle sue tradizioni, cioè di includere le voci, le pratiche, e le credenze dei
melanesiani stessi.
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LA NUOVA GUINEA
Bisogna distinguere tra la nazione chiamata Papua New Guinea, e l’isola della Nuova Guinea.
Quest’ultima è una grande isola tropicale, al nord dell’Australia, a cavallo tra la regione del Pacifico
e l’arcipelago indonesiano, che politicamente è divisa in due parti. La parte occidentale, Irian Jaya o
West Papua, era una colonia olandese, e dal 1962 è una provincia della Repubblica Indonesiana,
mentre la parte orientale é la nazione della Papua Nuova Guinea. Questa parte era composta, a sud,
dalla Papua, colonia inglese dal 1884 al 1906, e australiana dal 1906 al 1975; la parte settentrionale,
o Nuova Guinea, era una colonia tedesca fino alla prima guerra mondiale, quando fu occupata dagli
australiani, che poi l’amministrarono sotto mandato della lega delle Nazioni prima, e delle Nazioni
Unite poi. Dal 1975 Papua New Guinea è uno stato-nazione indipendente, come capo di stato ha la
Regina Elisabetta d’Inghilterra, rappresentata da un governatore, ma il ramo legislativo del governo
(primo ministro e parlamento) sono eletti in regime di suffragio universale ogni 5 anni.
Geografia
Qualche decina di migliaia di anni fa l’isola era collegata alla massa continentale dell’Australia dal
ponte terrestre del Sahul, ora sono le isole dello stretto do Torres a formare un passaggio tra le due
grandi isole del Pacifico. L’isola è dominata da una catena montuosa che forma la spina dorsale, e
che include vette oltre i 4000 metri, la parte occidentale dell’isola vanta l’unico ghiacciaio
permanente dei tropici. La maggior parte del territorio è coperto da foreste pluvuali tropicali, il resto
è costituito dalle pianure dei delta, pianure erbose e paludi di mangrovie, sulla costa sudovest c’è la
palude più estesa del mondo. Tra i fiumi principali ci sono il Baliem, il Fly (esplorato per la prima
volta da un naturalista italiano D’Albertis tra il 1875 e il 1878) e il Sepik. Annesse alla Nuova
Guinea sono anche numerose isole, le maggiori sono New Ireland, Bougainville e New Britain. Le
isole sono circondate da barriere coralline, e sono spesso teatri di fenomeni naturali violenti, legati
alla natura vulcanica dovuta alla loro posizione sulla Pacific Fire Rim, le coste sono soggette anche
alle onde anomale, tsunami, legate all’attività tellurica della zona. Il clima è monsonico, caldo e
umido tutto l’anno, con una stagione delle piogge da dicembre a marzo ed una più secca da maggio
ad ottobre, anche se ci sono variazioni stagionali e dovute alla geografia del paese, le zone
montuose sono notevolmente meno calde di quelle costiere o delle isole.
Le risorse naturali della Nuova Guinea includono oro, rame, argento, gas naturale e petrolio, oltre
al legname ed ai pesci, sono storicamente state appetibili ma difficili da sfruttare, dato il clima, il
territorio difficile ed il costo per sviluppare le infrastrutture. A questi problemi si aggiungono ora i
danni ambientali causati dallo sfruttamento su larga scala delle foreste, che porta alla
deforestazione, e delle miniere che portano gravi forme di inquinamento.
L’agricoltura di sussistenza continua ad essere la principale fonte di sostentamento per l’85% della
popolazione della PNG., mentre lo sfruttamento delle risorse minerali contribuisce il 72% dalle
esportazioni nazionali. Tra i principali prodotti agricoli esportati ci sono il caffè, il cacao, e i
prodotti derivati dal cocco. L’Australia, il Giappone e la Cina sono i maggiori importatori, mentre
Australia e Singapore sono i principali fornitori di prodotti importati. L’economia dalla PNG
dipende ancora largamente da aiuti economici esterni, soprattutto australiani. I dati relativi
all’economia dell’Irian Jaya sono più difficili da ottenere, essendo una provincia dell’Indonesia,
quel che è certo è che lo stato indonesiano considera tutto il territorio che non è attivamente
coltivato od utilizzato per scopi industriali come proprietà statale. Considerando che l’agricoltura di
sussistenza di queste popolazioni è basata sul tagliare e bruciare un appezzamento da coltivare per
un breve periodo, e poi lasciare che la foresta ricresca per trasferirsi ad un altro appezzamento, la
quasi totalità della terra può essere gestita dallo stato come vuole, negando i diritti ai suoi
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proprietari originali. Per cui secondo un’organizzazione umanitaria che si occupa dei diritti degli
abitanti della West Papua, dei 41,5 milioni di ettari di foresta pluviale. Più di 27,6 milioni di ettari
sono stati classificati come foresta da produzione. Inoltre alcune delle principali multinazionali
minerarie partecipano allo sfruttamento del petrolio e dei minerali del West Papua. Il complesso
minerario più importante è il Freeport Indonesia Mining Operation, nelle Highlands Occidentali,
proprietaria della seconda miniera di rame e del maggior giacimento d’oro del mondo. La Freeport
da sola ha concessioni su 3,6 milioni di ettari di terreno in Irian Jaya, da cui sono stati scacciati gli
abitanti originali per permettere le attività estrattive della Freeport, il maggior contribuente fiscale
di tutta l’Indonesia .
(Per approfondimenti vedi http://www.cs.utexas.edu/users/cline/papua/core.htm).
Popolazione
La popolazione dell’Irian Jaya è stimata intorno al 1,800,000 di cui oltre 700,000 sono indonesiani,
è la provincia indonesiana con la maggior crescita demografica. Le popolazioni indigene
comprendono diversi gruppi tribali, tra cui i Dani della vallata del Baliem, gli Asmat della costa, e
gli Ekari della regione dei Wissel Lakes. Le lingue indigene sono oltre 250, anche se il governo ha
imposto l’uso del Bahasa Indonesia in tutte le scuole egli uffici pubblici.
Per quel che riguarda la Papua New Guinea, la popolazione stimata del 2003 è di 5,295,816 . Le
lingue indigene sono oltre 700, il 2% della popolazione parla inglese, la lingua franca più
conosciuta è il tok pisin (vocaboli derivati perlopiù all’inglese e dal tedesco, grammatica
melanesiana), nella zona papuana è ancora usato il Police Motu, lingua franca sviluppata nell’era
coloniale, basata sulla lingua delle popolazioni intorno a Port Moresby (i Motu), i primi ad essere
reclutati nella forza di polizia locale che veniva utilizzata per pattugliare i territori della colonia.
Le religioni dichiarate includono un 22% di cattolici, 16% di luterani, 5% di anglicani 23% di altre
denominazioni protestanti, e 34% che si dichiarano praticanti di credenze indigene. La popolazione
è perlopiù melanesiana, con qualche immigrato polinesiano e micronesiani, i nei centri urbani
piccole comunità cinesi si occupano dei servizi commerciali, la comunità europea è notevolmente
diminuita dagli anni ’80 per problemi di sicurezza.
Storia pre-coloniale
L’intera isola della Nuova Guinea è stata popolata da ondate successive di migrazioni provenienti
dall’ Asia del sud-est, che cominciarono almeno 40000 anni fa. Questi primi abitanti popolarono
soprattutto le coste della grande isola, hanno lasciato come traccia del loro passaggio delle asce
litiche particolari, con due “lame” e assottigliate nel mezzo per permettere l’impugnatura (waisted
stone blades), trovate sulla penisola di Huon, sulla costa settentrionale. Col tempo colonizzarono
anche l’interno e le isole più remote, e diedero vita a complessi sistemi agricoli. Nelle zone vicino
alla costa la malaria rallentava l’espansione demografica, ma ad altitudini più elevate la mancanza
della malaria permise un’espansione maggiore, che a sua volta, risultò in una pressione per
incrementare la produzione e per sviluppare la coltivazione dei tuberi dopo la fine del Pleistocene.
A Kuk, vicino a Mount Hagen, archeologi come Jack Golson hanno scoperto evidenze di
coltivazioni datate a oltre 6000 anni fa, forse 9000, che ne farebbe uno dei più antichi centri per lo
sviluppo dell’agricoltura al mondo (Kirch, 2000). L’innalzamento della temperatura nell’Olocene
avrebbe facilitato sia il movimento delle popolazioni che lo sviluppo dell’agricoltura, mentre
l’aumento del livello del mare sommerse il ponte di Sahul, isolando la Nuova Guinea dal continente
australiano.
Studi archeologici suggeriscono che circa 3500 anni fa ci fu un’ulteriore ondata di migrazioni, di
genti denominate Austronesiane, e probabilmente originarie di Taiwan. Alla prima di queste ondate
è associato lo stile di ceramica Lapita (con decorazioni impresse e colorate di rosso),
successivamente, circa 1500 anni fa, queste stesse popolazioni produssero e commerciarono lame
di ossidiana e ornamenti in conchiglia. Erano navigatori ed esploratori, che si diffusero rapidamente
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lungo le coste della Nuova Guinea e circa 1200 anni fa si spinsero oltre per colonizzare
gradualmente tutto il Pacifico. Da allora le culture della Nuova Guinea si sono sviluppate attraverso
una commistione tra le culture delle popolazioni precedenti, chiamate Non-Austronesiane (NAN)
con quelle portate dai nuovi colonizzatori Austronesiani (AN), una differenza culturale tuttora
rispecchiata dalle differenze linguistiche tra le diverse popolazioni, anche vicine tra loro. (Una delle
spiegazioni che si dava per la varietà linguistica della Nuova Guinea era che si trattava di piccole
popolazioni isolate su isolette o nelle valli, in realtà studi sulle trasformazioni linguistiche rivelano
che è proprio tra popolazioni confinanti e con molti scambi sociali e culturali che si accentuano le
diversità linguistiche, un meccanismo per mantenere un senso di identità distinto da quello dei
vicini. (S. Harrison 1990)
I primi contatti con gli occidentali
Prima che arrivassero i primi navigatori europei le popolazioni della costa nord occidentale della
Nuova Guinea (Bird’s Head) avevano contatti, non amichevoli, con gli imperi indonesiani di
Majapahit e di Timor, da dove provenivano delle spedizioni di schiavisti. A loro volta queste
popolazioni organizzavano razzie verso Ovest, contro le popolazioni di Timor e Java.
Il primo esploratore europeo a passare ad avvistare la Nuova Guinea fu il portoghese Jorge de
Meneses, che la chiamò Ilhas dos Papuas (isola dei capelli crespi). Lo spagnolo Inigo Ortiz de
Retes, nel 1545 la battezzò Nuova Guinea, perchè pensava che gli abitanti somigliassero quelli
della Guinea in Africa. Più tardi approdarono in Nuova Guinea altri navigatori come Bouganville,
Cook, Stanley, e John Moresby. Per lungo tempo gli unici che cercarono di asserire la propria
autorità su quest’isola così vasta e poco invitante furono gli olandesi, la situazione rimase indefinita
fino al 1824 quando, per sostenere il proprio impero delle Indie Orientali, gli olandesi
formalizzarono le proprie pretese di sovranità sulla porzione occidentale dell’isola. I tedeschi si
assicurarono il possesso della parte nord-orientale (Nuova Guinea) nel 1884, gli inglesi si
affrettarono a dichiarare un protettorato sulla parte rimanente dell’isola, che fu annessa quattro anni
dopo.
Storie coloniali
La storia dei contatti delle popolazioni indigene con i vari esploratori, avventurieri, missionari,
mercanti, ed agenti colonizzatori in questo territorio così vasto ed inospitale è molto varia, sia per
stile adottato dai diversi poteri coloniali e per le loro stesse fortune storiche, che per i tempi diversi
in cui sono avvenuti.
Nei territori della Papua, il Governatore inglese Sir Hubert Murray, aveva instaurato un regime che,
per quanto coloniale, era intenzionato a proteggere i diritti degli indigeni, per esempio vietando il
blackbirding, mentre l’amministrazione tedesca era più orientata allo sfruttamento commerciale
della colonia. In Nuova Guinea i proprietari delle piantagioni espropriarono terra dagli indigeni,
reclutarono i lavoratori anche con la forza, ed importarono lavoratori esterni, con la conseguente
importazione di nuove malattie infettive
Nel 1906 la colonia della British New Guinea divenne Papua, e fu data in amministrazione alla
nuova nazione indipendente dell’Oceania, l’Australia. All’inizio della prima guerra mondiale le
truppe australiane occuparono il quartiere generale tedesco a Rabaul, e presero il controllo della
Nuova Guinea tedesca. Nel 1920 la lega delle Nazioni la consegnò ufficialmente all’Australia.
Durante la seconda guerra mondiale le isole e quasi tuta la costa settentrionali furono occupate dai
giapponesi, che continuarono ad avanzare verso sud finchè furono fermate dalle forze alleate col
grande contributo dei soldati papuani, sul Kokoda trail. Nel 1945 la terraferma e Bouganville erano
stati ripresi dagli alleati, ma i giapponesi erano impregnabili dall’Isola di New Ireland e soprattutto
da Rabaul su New Britain, dove scavarono 500 chilometri di gallerie sotterranee. Solo alla fine della
guerra si arresero, e la parte orientale dell’isola ritornò all’Australia diventando il Territory of
Papua and New Guinea. La fine della seconda guerra mondiale portò con se una trasformazione
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ideologica in cui i poteri coloniali si vedevano delegittimati e un po’ ovunque, con tempi e
modalità diversi, ci si preparava a restituire l’indipendenza ai popoli indigeni.
L’Indonesia divenne repubblica indipendente nel 1949, e l’Olanda garantì l’indipendenza alle genti
colonizzate in precedenza, tranne che in Nuova Guinea Occidentale che, data la popolazione
melanesiana e le sue caratteristiche culturali rimase una colonia Olandese. Il governo europeo si era
impegnato a preparare la popolazione indigena all’indipendenza durante gli anni ’50, ma si
scontrava con le pretese del presidente indonesiano Sukarno che avanzava pretese su tutti i territori
dell’ex colonia. Ci furono conflitti armati nel 1962, gli olandesi fecero un accordo segreto con gli
indonesiani e lasciarono il territorio sotto il controllo dell’UNTEA (the United Nations Temporary
Executive Authority) per un periodo di sei anni, dopo i quali un voto nazionale avrebbe dovuto
determinare il futuro del territorio. In realtà l’Indonesia prese quasi subito il controllo della
provincia. Nel 1969 si tenne un “referendum” in cui 1025 elettori selezionati dal governo
indonesiano per rappresentare i 700000 abitanti melanesiani votarono per “rimanere con
l’Indonesia”, così la parte occidentale divenne ufficialmente la provincia indonesiana dell’Irian
Jaya.
Il controllo indonesiano è sostenuto dall’uso massiccio di forze militari, associate direttamente alle
imprese commerciali, il movimento all’interno del paese non è libero, e molte popolazioni locali
sono state rimosse con la forza dai loro territori tradizionali per far posto a progetti di sfruttamento
della foresta o del sottosuolo. Le comunità indigene reagiscono con ostilità ai nuovi insediamenti,
ma il controllo militare, in aggiunta alla relativa difficoltà di raggiungere le aree remote fanno si che
ci sia poca attenzione internazionale per gli abusi dei diritti umani in questa provincia melanesiana.
Dal 1963 numerosi indigeni contrari al regime indonesiano hanno passato il confine per sfuggire
alle persecuzioni politiche del governo, un’ondata particolarmente numerosa di rifugiati si ebbe in
seguito al “referendum” del 1969. Nel 1984 altri 13,000 passarono il confine, la maggioranza dei
quali vive tuttora nei campi rifugiati. Attualmente si sono circa 10,000 rifugiati, di cui 7000 vivono
in campi lungo la frontiera che, non godendo della definizione ufficiale di campi rifugiati, non
ricevono assistenza dall’ UNHRC (United Nations High Commissio for Refugees). Inoltre il
governo indonesiano ha sponsorizzato un programma di trasmigrazione da altre province
sovraffollate, come Java, Bali e Sulawesi, che ha portato in Irian Jaya oltre 700,000 migranti di
etnie e cultura diverse.
(http://www.irja.org/history/history.htm).
L’esperienza coloniale delle varie popolazioni della Nuova Guinea è stata molto diversa, dunque,
ma non solo a causa delle diverse vicissitudini macro-politiche. Un altro fattore che ha forgiato
diversamente le storie coloniali su quest’isola è di natura geografica, o di storia locale. In entrambe
le parti della Nuova Guinea, il contatto con le forze coloniali è avvenuto in periodi storici molto
diversi lungo la costa e nelle zone interne. Le isole e le coste della Nuova Guinea hanno visto
avventurieri, commercianti, e missionari occidentali dall’ultimo quarto del diciannovesimo secolo.
Le diverse missioni cristiane hanno contribuito da un lato a difendere le popolazioni costiere dalle
forme peggiori di sfruttamento coloniale e hanno contribuito alla pacificazione, ma hanno anche
introdotto nuove idee e regole su questioni come il lavoro, l’uso del tempo, il vestiario, il mondo
degli spiriti, il paradiso e l’inferno, l’igiene. Soprattutto all’inizio hanno attaccato e vietato molte
festività e rituali indigeni, sostituendoli con servizi in chiesa e preghiere. In molti casi furono
distrutti quelli che consideravano idoli pagani, comunque definirono le credenze e le pratiche
tradizionali legate agli spiriti ed agli antenati come primitive, se non addirittura diaboliche. Anche
se le generazioni successive a quelle dei primi convertiti , soprattutto dopo l’indipendenza, hanno
cominciato ad adottare versioni trasformate dei propri riti tradizionali, spesso col supporto della
chiesa locale, l’associazione delle credenze tradizionali ad un mondo primitivo e malvagio rimane a
minare l’immagine di sé che hanno queste comunità cristiane.
Le zone più interne delle Highlands, data la difficoltà del territorio, sono state esplorate molto più
recentemente. Esploratori Australiani vi penetrarono per la prima volta a cavallo tra gli anni ’20 e
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’30. Abituati alle popolazioni poco numerose della costa, furono stupiti di trovare popolazioni
prosperose e numerose, con vasti campi di tuberi. La loro organizzazione e la tradizione guerriera
gli permetteva di resistere all’intrusione delle pattuglie esterne se si sentivano minacciati, d’altra
parte erano anche in grado di fornire grandi quantità di cibo all’occorrenza.
Inizialmente i nuovi arrivati bianchi furono quasi sempre scambiati per spiriti dei morti e della
foresta, causando un certo allarme tra gli indigeni, che però presto cominciarono a commerciare con
i nuovi venuti, soprattutto quando questi portarono le conchiglie dalla costa, che avevano un ruolo
importante nei festival cerimoniali locali. Dati i tempi e le modalità diverse, in genere i primi
contatti in queste aree sono stati più benigni che sulla costa. Anche nella parte occidentale dell’isola
l’amministrazione coloniale olandese non cominciò ad esplorare l’interno fino all’inizio del secolo,
e la grande vallata interna del Baliem, casa dei numerosi Dani non fu esplorata fino agli anni ’50,
poco prima che passasse in mani indonesiane.
Storia post-coloniale, Papua New Guinea
Uno dei primi problemi del governo indipendente in PNG riguardava le tensioni con l’Indonesia,
dovute all’influsso di rifugiati dall’Irian Jaya. Ci sono ancora circa 7500 rifugiati nella Western
Province, ma il flusso è diminuito dopo il 1985. Il governo della PNG tende ad incoraggiare un
rimpatrio volontario dei rifugiati, ma l’Indonesia non offre garanzie per chi ritorna.
Sul fronte interno il più grosso problema dall’indipendenza, a parte problemi di ordine e sicurezza
nei centri urbani, periodicamente terrorizzati da episodi di raskolism (bande di giovani disoccupati,
spesso sotto l’influenza della birra che razziano i negozi dei quartieri commerciali, derubano e
violentano le donne) per cui ricorre a soluzioni come il coprifuoco serale ed all’aiuto della polizia
Australiana, è rappresentato dall’isola di Bouganville. Questa è un’isola a nord della Nuova Guinea,
geograficamente e appartenente al gruppo delle Salomone, che però in periodo coloniale fu
accorpata alla colonia tedesca della Nuova Guinea, e di conseguenza ora fa parte della Papua New
Guinea. Nelle montagne di Bouganville operava una gigantesca miniera di rame, la Panguma
copper mine, di proprietà australiana, che forniva un terzo degli introiti nazionali della nazione
indipendente. I proprietari tradizionali della terra, insoddisfatti per l’inquinamento provocato dalla
miniera, e dall’iniqua distribuzione dei profitti, hanno formato la Bougainville Revolutionary Army
(BRA) che ha obbligato la miniera a chiudere nel 1989, e ha cominciato pretendere la secessione. A
questi eventi è seguito un confronto armato con le forze militari nazionali, con diversi abusi
umanitari; nel 1990 navi da guerra fornite dall’Australia furono usate contro i ribelli (St.
Valentine’s Day massacre). Si intavolarono delle trattative di pace, ma queste furono minate dal
tentativo del Primo Ministro di utilizzare dei mercenari sud africani per riprendere l’isola con la
forza, il complotto fu scoperto causando scompiglio politico e i mercenari rispediti a casa.
Ufficialmente il conflitto su Bouganville è finito nel 1998, in dieci anni di durata sono morti 20,000
isolani, ed altri 40,000 sono diventati rifugiati. Questo conflitto ha anche causato tensione tra il
governo della Papua Nuova Guinea e quello delle Salomone. Per ora una forza di pace sta
monitorando la pace, e in luglio sono programmate delle riunioni per decidere che forma di
indipendenza verrà concessa all’isola.
Scandali finanziari nel mondo della politica e catastrofi naturali (la siccità dovuta all’ultimo El Nino
ha causato la morte di centinaia di persone, e tre tsunami hanno colpito la costa settentrionale nel
paese distruggendo molti villaggi e uccidendo 3000 persone nel 1999), sono tra i maggiori problemi
del paese.
La situazione attuale
Esistono seri problemi nella vita quotidiana dei cittadini, dovuti al deterioramento dell’ordine civile,
in cui lotte tra gruppi si combinano con violenza criminale; conflitti emergono anche rispetto alla
divisione dei profitti di imprese agricole o minerarie. Sono purtroppo comuni anche le accuse di
corruzione in ambito politico ed amministrativo. Eppure, nonostante tutto ciò è notevole che le
forme di governo istituite all’indipendanza hanno retto finora, dimostrando che la transizione
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all’indipendenza era giustificata. In Irian Jaya o West Papua la situazione è diversa, i separatisti
hanno protestato e lottato contro l’annessione all’Indonesia da quando le nazioni Unita l’hanno
ceduta a Sukarno. In anni recenti le spinte separatiste sono state stimolate dai problemi con lo stato
Indonesiano e dal successo del movimento indipendentista di Timor Est, ma il governo ha risposto
con azioni repressive forti e violente, soprattutto nella Vallata del Baliem.
Questa situazione pone un problema per il vicino stato di Papua New Guinea, che condivide un
lungo confine non presidiato, attraverso il quale arrivano persone che richiedono asilo, ma anche
incursioni punitive da parte di soldati indonesiani. Data la ricchezza del sottosuolo, è improbabile
che l’Indonesia ceda alle richieste dei separatisti.
Regioni culturali: continuità e differenze
La Nuova Guinea, quindi è una terra che è stata divisa in maniera complessa a causa della sua storia
coloniale e post-coloniale, ma anche dalle sue grandi vallate interne, i suoi picchi montuosi, i fiumi
tumultuosi: le pianure e le paludi della costa hanno una storia molti più lunga di trasformazioni.
Nel corso di molti millenni si sono evoluti diversi modi di vita, con una sorprendente molteplicità
di lingue, cosmologie, forme di organizzazione sociale, adattamenti ambientali ingegnosi, e lotte per
il prestigio ed il potere. Oggi a queste complessità culturali millenarie si sono sovrapposti e
mescolati ulteriori numerosi cambiamenti con effetti in tutte le sfere della vita degli abitanti della
Nuova Guinea. Una caratteristica che accomuna molte di queste popolazioni infatti, è l’abilità di far
proprie le trasformazioni rimanendo legati al passato e guardando al futuro.
All’interno di queste caratteristiche generali, la varietà culturale è notevole. I linguisti estimano che
esistono 1200 lingue separate in Nuova Guinea e sulle sue isole del sud-ovest del Pacifico. Questa
diversità non dev’essere sottovalutata, anche se aree che contengono diverse lingue possono
contemporaneamente avere culture simili, nonostante la pratica corrente, in mancanza di altre forme
di designazione di unità politiche, di identificare un gruppo locale con la lingua parlata. In alcune
zone interne esistono gruppi linguistici più numerosi, fino a 200,000 persone. I gruppi linguistici
più esigui tendono ad estinguersi, sia per l’emigrazione verso altre regioni dopo la pacificazione
coloniale, sia per l’adozione di lingue franche come. L’inglese o il Tok Pisin.
In molte zone costiere della Nuova Guinea si riscontra una forte influenza Austronesiana, per
esempio tra i Tolai sull’isola di New Britain, su New Ireland, tra i Motu, i Roro ed i Mekeo della
Papua meridionale, e tra gli abitanti delle Trobriand. Queste popolazioni hanno avuto sviluppi
culturali differenziati nei secoli intercorsi dal loro arrivo in Nuova Guinea, ma alcune caratteristiche
comuni permangono. Una di questa è la trasmissione per via matrilineare, sia dell’identità di gruppo
(si appartiene al clan dei fratelli della madre) che di importanti forme di potere. Un’altra
caratteristica associata alle culture austronesiana (ma non solo) è un forte accento sulle cerimonie
mortuarie e sugli scambi tra gruppi alla morte. La terza caratteristica è il riconoscimento di capi
ereditari, o di forme ereditarie di status differenziato. Gli Austronesiani portarono con loro cani e
maiali, questi ultimi hanno un ruolo importante, insieme ai prodotti agricoli, negli scambi
cerimoniali associati a varie feste, anche questa caratteristica però non è esclusivamente
austronesiana.
Gli Asmat dell’Irian Jaya appartengono allo stesso tipo culturale della costa meridionale della
Nuova Guinea (come i Kiwai e altre popolazioni del Papuan Gulf in PNG). Vivono sparpagliati in
pianure paludose e nel passato pre-coloniale praticavano sia il cannibalismo che la caccia alle teste.
Producevano effigi dei morti in legno pitturato, che servivano a catturare la vitalità dei deceduti, i
cui spiriti poi lasciavano il mondo dei vivi. Queste sculture lignee erano perlopiù dei pali con intagli
complicati, e sono conosciuti col nome di bisj. Gli Asmat costruivano anche degli scudi, intagliati
con figure umane o con complessi disegni astratti; gli scudi erano chiamati col nome di antenati
morti, e venivano utilizzati durante i raid di caccia alle teste dei nemici, per vendicare la morte
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dell’antenato, i disegni intagliati sugli scudi avevano lo scopo di confondere e terrorizzare i nemici
attaccati. Quando l’Indonesia prese il controllo della parte occidentale dell’isola molte delle
vecchie sculture lignee sono state distrutte, più tardi c’è stato un revival nella produzione di sculture
per i musei locali (Thomas 1995: 79-88). In anni recenti sia gli scudi che le sculture funerarie sono
state prodotte per il mercato turistico.
Le Trobriands nella regione del Massim sono conosciute per i ben documentati scambi cerimoniali
kula, resi noti negli anni 1920 da Bronislaw Malinowski (1922). Continuano ad esistere sia gli
scambi che l’interesse che li circonda, anche se sono stati trasformati. Il resoconto di Malinowski
evidenziava soprattutto l’aspetto competitivo ed estetico del kula; il contesto avventuroso dei viaggi
oltremare intrapresi dagli uomini in grosse canoe finemente costruite e decorate allo scopo di
procurarsi degli oggetti di valore (conchiglie sbracciali in conchiglia); oltre al collegamento col
sistema sociale strutturato attorno ai capi ereditari, e col tributo interno di yam (ignami) fornito ai
capi soprattutto dai parenti delle mogli, che venivano accumulati in apposite “yam houses”
cerimoniali. Negli anni successivi altri etnografi hanno rivisitato le Trobriand e fornito altre
versioni del Kula. Forse la meglio conosciuta è quella di Annette Weiner, che ha fatto ricerca suol
campo a Kiriwina, lo stesso villaggio in cui aveva vissuto Malinowski. In questo resoconto la
Weiner dimostra che, durante la sua permanenza, gli scambi mortuari effettuati dalle donne delle
Trobriand in onore dei loro parenti matrilineare avevano un ruolo più importante di quello
riconosciuto da Malinowski (Weiner 1976). Le differenze tra le descrizioni dei due etnografi sono
attribuibili sia a trasformazioni storiche dell’isitituzione in questione, che alle diverse prospettive
degli osservatori. Più recentemente Mark Mosko ha ripreso in considerazione entrambe le
descrizioni e le ha analizzate in termini della concezione della persona e dell’idea che i capi delle
Trobriand siano considerati come i “padri” della loro gente.
Un’altra regione della Nuova Guinea che è stata resa nota dagli etnografi, antropologi e collezionisti
che vi hanno lavorato è quella del fiume Sepik. Tra questi i più famosi sono forse Margaret Mead e
Gregory Bateson. Gli aspetti più generalmente conosciuti delle culture Sepik sono le
rappresentazioni scultoree degli spiriti legate ai complessi rituali di iniziazione, e alle case dei culti
spirituali, dall’architettura e decorazioni notevoli, in cui si producono le sculture e si tengono i riti
iniziatici. Queste caratteristiche sono associate soprattutto al tratto mediano del fiume, agli Abelam
ed agli Iatmul, ma non sono uniche al Sepik, né queste culture sono esaurientemente descritte se ci
si ferma a queste caratteristiche. Tuttavia ora questi elementi, forse grazie alla loro visbilità, sono
entrati a far parte del bagaglio culturale nazionale della Papua Nuova Guinea. Forse più che in altre
regioni, l’ambiente del Sepik ha subito molte modifiche nel tempo, dovute all’allagamento
dell’estuario alla fine del Pleistocene, seguito dal graduale riaffiorare di alcune parti. Forse questo
processo ha stimolato un’adattività ai cambiamenti che ha portato ad una grande varietà culturale in
questa regione, complicata ulteriormente dall’arrivo degli Austronesiani con la loro propensione per
organizzare vaste reti commerciali e di scambi via acqua ed incentrate sulle coste marine. Le
popolazioni delle zone più interne del Sepik parlano lingue non-Austronesiane, tra cui il gruppo di
lingue Ndu che è composto da sette lingue, parlate da 100000 persone. Vi sono anche numerosi
piccoli gruppi linguistici, alcuni dei quali stanno scomparendo come lingua per l’avanzare
dell’inglese e del Tok- Pisin, oltre che per l’emigrazione.
La regione delle Highlands della Papua Nuova Guinea si aprì alla ricerca antropologica dopo la
seconda guerra mondiale, ed ha acquisito notorietà per un certo numero di caratteristiche. Prima di
tutto, è stata meta favorita da tutti quegli etnografi attirati dall’idea di studiare popolazioni che
erano solo recentemente entrate a contatto con i portatori della cultura occidentale. La letteratura
etnografica su questa regione è molto ricca, e include le controversie sull’analisi delle forme di
affiliazione ai gruppi, sulla struttura dei gruppi sociali, sulle caratteristiche della leadership,
sull’importanza degli scambi cerimoniali, e sulle relazioni di genere. In anni più recenti la
discussione sulle forme di leadership è stata incentrata sulla questione del contrasto attribuito dai
diversi etnografi alle forme associate al “big-man” e al “great man”. Classicamente la figura del
“big-man” è un leader che fonda la propria autorità sull’abilità di organizzare scambi cerimoniali di
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doni, forgiando reti di relazioni sia internamente al proprio gruppo di supporto che con gruppi
rivali, questa è dunque una posizione in cui l’autorità è acquisita da un individuo grazie alla sua
ambizione ed abilità nell’accumulare e manipolare risorse e relazioni. La figura del “great-man”,
invece è più sfaccettata: questi leader possono essere guerrieri, sciamani, esperti rituali, cacciatori
od orticultori di fama, a volte con capacità ereditate. Secondo questa classificazione, i “big-men” si
troverebbero nelle società in cui si attribuisce grande importanza agli scambi cerimoniali, mentre i
“great-men” sarebbero più comuni nelle altre società. Il problema di questa classificazione è che
spesso lo stesso leader ha diverse funzioni e caratteristiche. Per esempio inizialmente si attribuiva ai
big-men un ruolo secolare, mentre i il potere politico dei great-men era associato alle loro posizioni
rituali, mentre in pratica, i big-men devono il loro successo nelle proprie attività al supporto degli
spiriti o degli antenati, quindi anche in questo caso hanno un’importanza anche rituale, oltre che
secolare.
L’intero dibattito sui big-men e great- men è stato preceduto nella letteratura da un altro sul ruolo
dei “big-men”Melanesiani in contrasto ai Capi della Polinesia, in cui le caratteristiche contrastate
erano le modalità di acquisizione della posizione di leader, nel caso dei capi era attribuita tramite
l’ereditarietà, mentre per i big-men l’autorità era acquisita in base al merito sul campo. Anche
questa semplice dicotomia è risultata inadeguata a riflettere le complessità delle differente pratiche
sociali incontrate in Oceania. E’ più fruttuoso rilevare una sottostante interazione sia tra
l’ereditarietà e la conquista del potere e che tra i poteri spirituali e quelli secolari (Feinberg and
Watson Gegeo 1996). Questi temi saranno ripresi in alcuni dei casi presentati più avanti.
Nonostante la regione delle Highlands sia stata l’ultima ad essere esplorata dai bianchi, non era
tagliata fuori dal resto del mondo, già nel periodo preistorico esistevano strade commerciali che
attraversavano l’isola, e lungo le quali viaggiavano sia beni che idee. La patata dolce raggiunse
questa zona tra i 400 e i 1000 anni fa, rivoluzionando le attività di sussistenza della regione e
favorendo un’esplosione demografica (Kirch:2000). In precedenza le coltivazioni di sussistenza
erano basate sul taro, le banane e la canna da zucchero; la patata dolce che non solo frutta di più
sulla stessa superficie, ma può essere coltivata ad altitudini più elevate, permise di estendere i
terreni coltivati e stimolò migrazioni in luoghi prima considerati inospitali. Le altre piante
continuano ad essere coltivate, ma hanno perso il ruolo centrale nella sussistenza. Inoltre la patata
dolce, usata come foraggio, permise l’allevamento dei maiali su larga scala. Questi tre fattori:
densità di popolazione, abbondanza di patate dolci e l’allevamento di numerosi maiali come indice
di prestigio, sono alla base dello sviluppo del modello politico associato alle Highlands, fondato
sull’abilità di organizzare festival tra gruppi alleati in cui sono distribuiti grandi quantità di maiali o
della loro carne. Le variazioni locali di questo modello sono numerose. In Irian Jaya i Dani della
Baliem Valley hanno sviluppato un sistema di fossi di irrigazione per sostenere la coltivazione di
patate dolci sugli altipiani. In generale si sono sviluppate tipologie sociali differenti nelle Highlands
occidentali e orientali: ad est vi è una prevalenza di villaggi più grandi, circondati da alte palizzate,
associati ad una maggiore attività bellica e ad attività legate all’iniziazione dei giovani, con minore
enfasi sulle alleanze con i gruppi imparentati dallo scambio di donne, i gruppi linguistici sono meno
numerosi che nelle Western Highlands. Qui le abitazioni sono sparpagliate in piccoli gruppetti sul
territorio del clan, c’è una maggiore enfasi sui riti per incrementare la fertilità del gruppo intero, un
ruolo maggiore delle donne negli scambi cerimoniali, e una maggiore attenzione alle alleanze con i
gruppi imparentati tramite le donne, quindi maggiore enfasi sugli scambi cerimoniali. I gruppi
linguistici in quest’area sono i più numerosi, i Hageners e gli Enga superano le 100,000 unità.
A sud e a est delle Highlands ci sono popolazioni numericamente inferiori, i Telefolmin e gli Ok,
che sono imparentati con i gruppi ora appartenenti all’Irian Jaya come gli Eipo Mek, i Dani e gli
Ekagi (una volta erano conosciuti nella letteratura come i Kapauku). Tutte queste popolazioni sono
associate alla coltivazione del taro piuttosto che della patata dolce, ed a tradizioni fortemente legate
all’iniziazione.
Sia i maiali che oggetti di valore in conchiglia sono sempre stati utilizzati in scambi e commerci in
tutta la Nuova Guinea. Una gran varietà di conchiglie venivano scambiate lungo strade commerciali
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che attraversavano tutta l’isola. Questi commerci avvenivano in occasione, o addirittura
promuovevano l’organizzazione, di eventi festivi su larga scala, durante i quali si negoziavano i
complessi processi sociali e venivano affermati valori sociali dei gruppi coinvolti. Gli oggetti di
valore ed i maiali erano anche utilizzati nei rituali del ciclo vitale, venivano scambiati in occasione
di nascite, svezzamenti, pubertà, matrimoni, maturità, anzianità, e morte. Questi rituali servono ad
intrecciare le genti ed i loro luoghi per formare una complessa tappezzeria di relazioni di parentela
ed alleanze matrimoniali, che sono viste come il prodotto del flusso di sostanze che portano e
accrescono la vita. Gli oggetti scambiati stessi erano considerati come equivalenti ai flussi di
sostanze tramite i canali stabiliti dalla parentela, ed è per questo che avevano un ruolo principale
nelle cerimonie di scambi relative ai cicli vitali. Questa enfasi sugli scambi cerimoniali si trova
dappertutto in Nuova Guinea, e generalmente in Melanesia, declinata in una miriade di cerimonie
tradizionali diverse. Questa varietà non è stata intaccata dal contatto con la cultura coloniale o dalla
globalizzazione, anzi si sono sviluppate numerose nuove forme di scambi cerimoniali nei contesti
più disparati.
Dopo l’introduzione della carta moneta, in alcune popolazioni questa è stata sostituita alle
conchiglie negli scambi, mentre altri continuano ad usare le conchiglie, che sono tenute fuori dal
contesto commerciale moderno. Comunque rimangono oggettivi di valore come ornamenti e segni
dello status o dell’identità di chi li indossa, anche se alcuni sono venduti ai turisti. In alcuni casi le
chiese cristiane contemporanee incoraggiano l’uso degli ornamenti tradizionali durante le feste, in
altri gli ornamenti in sé sono condannati dalla chiesa in quanto inducono un’ eccessiva attenzione al
corpo, distogliendola dall’anima. La differenza qui è tra le chiese cattolica e anglicana da una parte
e quelle protestanti fondamentaliste.
I processi di trasformazione che sono avvenuti e continuano ad avvenire in Nuova Guinea sono
immensi, abbiamo già visto che in tempi preistorici movimenti di popolazioni e scambi culturali
anche su reti allargate favorivano una grande creatività e varietà culturale, questa fu accentuata sia
in scopo che intensità nel periodo coloniale per le intrusioni dei tedeschi, olandesi, inglesi,
australiani ed indonesiani, per la Papua Nuova Guinea, ulteriori trasformazioni avvennero con
l’indipendenza nel 1975.
Lo stato di Papua New Guinea è una democrazia parlamentare basata sul modello di Westminster,
con una costituzione ed un servizio civile modellato su quello Australiano.
Con una popolazione poco numerosa (circa 4 milioni) ma caratterizzata da un’enorme diversità
culturale, vi sono grandi disparità nel benessere economico delle aree urbane e quelle rurali. Un
immenso influsso di beni di consumo occidentali ha fatto salire le richieste e le aspettative della
popolazione in maniera sproporzionata alle capacità economiche di soddisfarle. Le chiese cristiane
sono realtà ben radicate, anche se a volte vi sono rivalità tra fazioni diverse, soprattutto in quei
luoghi, come Mount Hagen dove nuovi movimenti pentacostali e carismatici minacciano la
posizione di chiese già radicate localmente, come quella cattolica, luterana, ed anglicana.
Questo quadro complesso, in cui sono mischiate diverse immagini ed idee esterne hanno dato luogo
in alcuni casi ad aspirazioni millenarie locali. Movimenti che aspirano a capovolgimenti radicali
nello status e nella ricchezza delle genti, in particolare tendono all’acquisizione di ricchezza e status
da parte di quelli che si sentono deprivati nelle condizioni attuali. Spesso questi movimenti
coincidono con il diffondersi di idee di ispirazione cristiana, come “la fine del mondo” seguita
dall’inaugurazione di una nuova epoca, espressa come “il millennio”. Queste idee raggiunsero un
culmine negli anni precedenti al 2000, che era visto come l’inizio di un nuovo millennio. In seguito,
visto che non vi sono stati cambiamenti epocali, la gente si è riorganizzata per continuare le proprie
vite nel migliore dei modi possibili, ma idee millenaristiche persistono, anche se non sono
manifestate esplicitamente.
Nella diversità che ritroviamo in Nuova Guinea si riescono comunque ad identificare vari temi
ricorrenti: l’enfasi su scambi cerimoniali politici o associati ai passaggi nei cicli vitali
dell’individuo; un elaborato sistema di pratiche rituali legate all’obbiettivo di promuovere la
riproduzione della fertilità e del benessere; strategie ingegnose ed efficienti per vivere
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nell’ambiente; un interesse per i legami commerciali o di scambi e di relazioni esterne con membri
di altri gruppi; amore per lo sfoggio e per l’ornamentazione.
I Marind-Anim e i Fore: due esempi di pratiche culturali sfavorevoli alla sopravvivenza della
società
Non tutte le culture incontrate in Nuova Guinea sembrano essere buone soluzioni ai problemi posti
dall’adattamento all’ambiente naturale. Gli ecologisti culturali, come Rappaport, tendono a
considerare una cultura in equilibrio, sia internamente che in relazione all’ambiente, e a ricercare le
interconnessioni funzionali tra gli aspetti economici, sociali e religiosi dell’organizzazione di un
gruppo sociale. Questo approccio è implicitamente basato su una visione a ‘mosaico’ del mondo
tribale, in cui ogni cultura è vista come relativamente autonoma, separata, stabile, e che non prende
in considerazione l’impatto del mondo esterno. Anche nel periodo pre-coloniale, quando i contatti
tra culture erano di natura e scala diverse da quelli inaugurati dall’arrivo dei primi occidentali, non
ha senso ipotizzare che le culture in un dato momento vivessero in uno stato di equilibrio
ambientale, ed avessero sviluppato le strategie culturali più adatte alla sopravvivenza in un dato
contesto ambientale. Secondo Morton 1978 per distinguere una pratica, un comportamento, una
cultura ben adattata all’ambiente da quelli che non lo sono, è necessario uno studio diacronico. Solo
per il fatto che in una società, studiata in un dato momento sia praticata una certa usanza, non la si
può definire come utile dal punto di vista dell’adattabilità.
Se invece si prende in considerazione un periodo storico più lungo, ed una prospettiva regionale, in
cui membri di gruppi diversi, più o meno vicini e più o meno simili dal punto di vista linguistico e
culturale interagiscono e si scambiano donne, beni, conoscenze, e anche violenza, si può cominciare
a valutare il relativo “successo” in termini di sopravvivenza di determinate pratiche culturali. In un’
ottica storica i popoli “di successo” sono quelle con una popolazione in espansione. Ma a volte il
motivo per l’espansione di una società, la necessità di conquistare i territori dei propri vicini, può
essere un’espressione di instabilità e disequilibrio culturale. Un esempio della difficoltà di attribuire
un valore di successo o adattabilità ad una cultura è quello dei Marind Anim.
Apparentemente, al momento del contatto con l’occidente, e per tutto il secolo precedente, la
cultura e la società dei Marind Anim della costa sud della Nuova Guinea stava vivendo un
momento di espansione territoriale e di efflorescenza culturale: avevano conquistato il territorio di
numerosi vicini e avevano raggiunto un apice in termini di creatività artistica e di riti collettivi.
La loro cultura ruotava attorno a culti dell’omosessualità maschile, stupri rituali e caccia alle teste. I
ragazzi Marind Anim erano indotti in una serie di iniziazioni graduate durante le quali erano
introdotti ad un culto orgiastico di sodomia, in cui i più giovani avevano un ruolo passivo. L’intero
complesso rituale era sostenuto dal dogma culturale che lo sperma è necessario alla crescita ed allo
sviluppo dei ragazzi.
Tutto l’elaborato ciclo rituale era costruito attorno alla finzione maschile della propria supremazia
ed indipendenza sessuale, eppure comportava anche rapporti eterosessuali sotto forma di stupri di
gruppo. Il seme prodotto veniva raccolto e mischiato al cibo o utilizzato nelle decorazioni rituali.
Secondo Van Baal (1966:949) il vero segreto in questo culto maschile (rivelato solo all’ultimo
stadio della serie di iniziazione graduate) era che la tanto venerata potenza maschile non lo era poi
tanto, in quanto la fonte di tutta la vita, lo sperma, era efficace solo se prodotto durante la
copulazione eterosessuale. Gli uomini che celebravano la propria autosufficienza, al culmine dei
propri riti segreti ammettevano la propria dipendenza dalle donne, facendo montare la rabbia ad un
livello tale che immediatamente dopo partivano per una spedizione di caccia alle teste.
Il matrimonio era inaugurato con lo stupro collettivo della sposa da parte degli uomini di tutto il suo
clan, questa pratica, ripetuta periodicamente con le giovani mogli al costo di grande sofferenza
fisica, era sostenuta dalla credenza che sia lo sperma mischiato degli uomini della comunità a
promuovere la fertilità.
Questa preoccupazione culturale per la fertilità era giustificata dal fatto che la popolazione dei
Marind Anim aveva, in effetti, un tasso di infertilità molto alto - che in seguito venne peggiorato
27
con l’introduzione di malattie veneree portate dagli occidentali. Uno studio demografico condotto
da una commissione per il Sud Pacifico ha concluso che la pratica di violenza sessuale collettiva, in
parte una risposta culturale all’infertilità, in effetti perpetuava e peggiorava il problema.
Eppure, anche se le pratiche sessuali dei Marind Anim non si potevano dire efficienti dal punto di
vista demografico, i loro villaggi erano fiorenti centri di attività culturali, di arte, miti e cerimonie
imponenti. Inoltre i Marind Anim sostenevano con successo una politica di espansionismo e
decimavano le popolazioni circostanti. Il loro potere militare era sostenuto dalle ricche risorse di
sago che permetteva il sostentamento di una popolazione numerosa concentrata in villaggi
sedentari. Era proprio tramite questa politica di conquista che i Marind Anim riuscivano a
mantenere un livello di popolazione accettabile: durante le spedizione di caccia alle teste,
catturavano i bambini, che poi venivano adottati. Letteralmente sfruttavano i poteri riproduttivi dei
propri vicini per poter sostenere la propria cultura basata su uno stile di vita orgiastico e una politica
esterna espansionista.
Questo a sua volta evidenzia la natura sbilanciata dell’adattamento culturale dei Marind Anim: la
loro espansione era limitata nel tempo, probabilmente non era antica e non sarebbe durata a lungo
anche senza l’intervento degli europei, il sistema sarebbe crollato per l’effetto della decimazione
della popolazione circostante.
E’ quindi pericoloso dare per scontato che le tradizioni di un popolo tribale siano il risultato di
adattamento alle condizioni ambientali, Salisbury suggerisce che è più probabile che una società sia
in una fase di lenta espansione che di equilibrio dinamico, e ci ricorda che quando un antropologo
descrive il comportamento sociale in un luogo e un momento specifico nel tempo, non descrive
l’adattamento equilibrato ad un ambiente specifico, ma piuttosto una data realizzazione di
particolari regole culturali, da parte di persone specifiche che modificano il proprio comportamento
per gestire particolari pressioni di tempo e di luogo.
Sarebbe più proficuo considerare i le culture non come un microcosmo isolato, ma come parte di un
più vasto complesso di culture su base regionale, ed in prospettiva storica. Le pratiche culturali che
osserviamo possono essere anche pratiche dannose per la sopravvivenza del gruppo nel quale si
sono sviluppate, e a lungo termine essere destinate all’estinzione. Il caso più evidente è quello dei
Fore della Nuova Guinea.
In questa popolazione circa l’uno percento, soprattutto tra le donne, morivano ogni anno di una
malattia degenerativa del sistema nervoso, chiamata kuru. Dal punto di vista demografico questo
fenomeno aveva conseguenze catastrofiche: in certe zone c’era una sola donna ogni tre uomini, e la
popolazione era in declino. Un risultato di questo squilibrio demografico erano un’organizzazione
sociale ed un sistema matrimoniale frenetici, a causa della mancanza di donne da sposare, e della
frequente morte di mogli e madri. Inoltre, i Fore interpretavano le morti per Kuru come il risultato
di attacchi di stregoneria, e la morte di una donna per questa malattia spingeva gli uomini ad
attaccare i loro vicini per vendicarsi della stregoneria, sconvolgendo ulteriormente l’ordine sociale,
oltre ad aggravare la situazione demografica. Grazie al lavoro degli antropologi Shirley
Lindenbaum e Robert Glasse negli anni ’70, che identificarono com’era trasmessa questa malattia,
il Dottor Carlton Gajdusek isolò il virus che causa il Kuru, e vinse un premio Nobel. Queste
scoperte hanno permesso di capire che il kuru è trasmesso da un virus che attacca il sistema nervoso
centrale dopo un periodo di incubazione che può durare oltre i quindici anni. Il virus, che si
concentra nei tessuti cerebrali della vittima veniva trasmesso grazie ad una tradizione dei Fore. Le
donne ed i bambini ingerivano ritualmente i corpi ed i cervelli dei parenti morti. Solo mangiando il
cervello di un malato è possibile contrarre la malattia. L’amministrazione coloniale, vietando il
cannibalismo ha rotto il circolo vizioso e messo fine al kuru.
Ironicamente, come nel caso dei Marind Amin, Lindembaum (1979) suggerisce che l’usanza di
mangiare i corpi dei propri parenti morti era un tentativo di rigenerazione simbolica in una società i
cui membri si sentivano minacciati dal calo demografico. Sia il Kuru, che le pratiche cannibalesche
che lo causano, erano fenomeni abbastanza recenti, e anche in questo caso si può ipotizzare che
questa tradizione si sarebbe estinta in breve tempo. Di certo però il fatto che la risposta culturale
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alla crisi demografica causata dal Kuru fosse di sviluppare teorie sulla stregoneria che portavano a
ulteriori comportamenti controproducenti, non sembra sostenere la tesi degli ecologisti culturali che
le tradizioni esistenti sono un’adattamento all’ambiente. Quello che emerge è un quadro in cui le
diverse popolazioni in una regione, e quindi le loro culture, sono in qualche modo in competizione
tra loro. Mentre tutte le popolazioni hanno comportamenti più o meno efficienti dal punto di vista
dell’adattamento all’ambiente, il successo organizzativo, economico e demografico delle diverse
popolazioni varia, e questo successo differenziato determinerà se queste popolazioni, e le culture di
cui sono portatrici, si diffonderanno o contrarranno, conquisteranno altre popolazioni o saranno
assorbite. Molte società praticano riti e seguono costumi con conseguenze negative o al massimo
neutrali, e continuano a farlo con la determinazione di seguire le vie del passato che è caratteristica
degli esseri umani, almeno quanto la flessibilità ed il pragmatismo. Non si può, quindi, affermare
che le trasformazioni socioculturali siano totalmente determinate dalle pressioni ambientali. Queste
possono essere dei limiti ma non sono determinanti delle trasformazioni sociali e culturali, che
operano invece a livello di significato e di motivazione umani.
L’uso delle risorse naturali e sostenibilità ambientale
L’estrazione e la lavorazione delle risorse naturali fanno parte ormai da molti anni della vita
economica della Papua Nuova Guinea. Lungo la costa settentrionale dell’isola le piantagioni di
cocco, per la produzione della copra, caffè e gomma, risalgono ai primi anni del colonialismo.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con, l’apertura delle Highlands, piantagioni di caffè e
tè sono state piantate anche in queste zone di altitudine più elevata. Poco dopo l’inizio della storia
della Papua New Guinea come nazione indipendente nel 1975, cominciarono le operazioni
estrattive nella miniera di rame di Bougainville. Questo progetto minerario ha portato a conflitti
locali, uno dei pochi eventi politici su questa area del mondo a raggiungere anche i nostri giornali. I
proprietari tradizionali della terra su cui operava questa miniera accusarono i proprietari degli
impianti di inquinare l’ambiente e di non ripagare gli abitanti a sufficienza in termini monetari.
Questi conflitti portarono ad una rivolta armata della Bouganville Revolutionary Army nel 1988, e
alla richiesta di secessione dalla Papua Nuova Guinea (vale la pena ricordare che geograficamente e
culturalmente l’isola di Bouganiville appartiene più alle Salomone che alla Nuova Guinea,
l’accorpamento è dovuto solo alla comune storia coloniale di Bouganville e della pozione
settentrionale della Nuova Guinea, entrambe ex colonie tedesche. In effetti la crisi di Bouganville
ha anche rischiato di compromettere le relazioni tra le due nazioni neo-coloniali, in quanto molti
abitanti delle Salomone, legati da parentela con queli di Bouganville, hanno prestato aiuto ai
ribelli). I ribelli sono riusciti a far chiudere la miniera. La crisi è stata gestita con la forza, con l’uso
delle forze di polizia e militari, e ha coinvolto i politici nazionali in molte iniziative per risolvere il
problema, anche perché gli introiti dello stato da quella miniera rappresentavano una delle
maggiori fonti di reddito nazionale. Il 20 Agosto 2001 è stato firmato un trattato di pace.
Un’altra grande miniera di oro e rame, la Ok Tedi gold and copper mine, ha cominciato ad operare
nell’area di Tabubil nella West Sepik Province. Questa miniera frutta enormi somme di denaro in
royalties e altre tariffe sia al governo nazionale, che provinciale, che ai proprietari tradizionali.
Dopo anni di controversie sull’inquinamento dovuto alla lavorazione dei materiali della miniera e
che si è riversato nei sistemi fluviali a valle della miniera, per esempio nel fiume Fly, sono sfociati
in richieste di indennizzo da parte delle comunità locali che vivevano e sfruttano le risorse dei corsi
d’acqua inquinati. Nel Gennaio del 1990 le comunità del fiume Fly e del fiume Alice hanno
minacciato di bloccare il fiume e far chiudere anche questa miniera. Ogni anno la miniera scarica 30
milioni di tonnellate di scarti direttamente nel fiume Ok Tedi, tributario del Fly, che è il maggior
sistema fluviale della Papua Nuova Guinea, e che è stato dichiarato biologicamente “morto” in
alcuni dei tratti più colpiti dall’inquinamento (grandi quantità di cianuro sono necessarie in questa
lavorazione)1.
1
Per informazioni aggiornate dal punto di visto ecologico, vedi http://www.mpi.org.au/oktedi/.
29
Nella provincia delle Southern Highlands sono state scoperte riserve di petrolio e gas naturale, il
loro sfruttamento è iniziato negli anni ’80 da parte della compagnia petrolifera statunitense Chevron
e dalla British petroleum. Queste operazioni portano guadagni, ma a livello locale portano
soprattutto servizi come ospedali, scuole, ponti e strade, caserme per la polizia, penitenziari e piste
di atterraggio per gli aerei. Questi servizi si affiancano e spesso superano quelli forniti dallo stato.
Gli abitanti locali sviluppano verso le imprese che portano questi servizi un atteggiamento simile a
quello che riservavano al governo, e questo risulta in uno stato di dipendenza che è difficile
interrompere da parte degli abitanti della zona.
Oltre ai servizi e ai guadagni monetari a livelli locale e nazionale, le imprese di sfruttamento del
sottosuolo pagano dei risarcimenti agli abitanti della zona per la perdita della terra, per l’impatto
ambientale, e in certi casi pere le eventuali spese di trasferimento, ma in molti casi questi
risarcimenti sono considerati insufficienti dalle popolazioni locali, e troppo alti dalle multinazionali
che li pagano.
La Porgera Joint Venture Gold Mine nella Enga Province ha cominciato ad operare nel 1991, nel
1992 era la terza miniera d’oro, in termini di produzione, al mondo. Nel 1999 si doveva espandere,
il che significava pagare ulteriori risarcimenti per il trasferimento altrove di ancora altri abitanti, che
avrebbero perso perennemente il diritto alla loro terra.
La questione dei risarcimenti e degli effetti sulla popolazione locale dev’essere ancora approfondita.
Tutti questi sono esempi del risultato dei conflitti che sempre più confrontano i governanti di queste
nuove nazioni: le multinazionali offrono al governo di sfruttare le risorse naturali del paese in
cambio di ritorni monetari molto allettanti sia localmente che a livello statale, i proprietari della
terra locali sono ugualmente sedotti dalle promesse di ritorni economici, sviluppo, lavoro.
Sfortunatamente sia le conseguenze ecologiche che quelle politiche e sociali di questo genere di
sviluppo sono molto peggiori di quanto fosse previsto dai firmatari. Molto spesso i danni ecologici
influenzano gli abitanti di zone molto più estese di quelle direttamente interessate dai risarcimenti
per l’uso della terra, con l’ecosistema finisce anche un modo di vivere, una cultura, e gli
amministratori dello stato dipendono sempre più dalle entrate di colossi economici. Sono molti
quindi i fattori da considerare:
• Il primo è che la miniera esercita il suo impatto sull’organizzazione sociale e sul senso
dell’ambiente già esistenti nella la popolazione locale, procedendo a alterare queste
percezioni locali in maniera graduale o catastrofica. Gli stessi flussi di denaro alterano le
strutture di potere locali oltre ai desideri e alle aspettative della gente.Questo processo porta
all’aumento dei conflitti nelle comunità locali, che si tenta di risolvere con un’escalation di
richieste all’impresa in questione.Il risultato, sia che le richieste siano soddisfatte che nel
caso contrario, è spesso una spirale di violenza, in quanto c’è sempre qualcuno che non è
soddisfatto.
• Il secondo fattore è che la miniera influisce su diverse popolazioni in maniera differente. Per
esempio la miniera d’oro a Porgera influisce profondamente ed evidentemente sulla gente
del luogo, ma anche in maniera più subdola ma sempre tangibile, sulla vita di tutti quelli che
vivono a valle della miniera lungo i fiumi in cui sono riversati gli scarti della lavorazione,
come i Duna della Southern Highlands Province. Durante gli anni ’90 tra i Duna che
vivevano lungo il fiume Strickland crebbero le preoccupazioni per l’avvelenamento dei
pesci e della vegetazione del fiume, oltre che dalla selvaggina nei paraggi. Questa
preoccupazione era in parte dovuta alla percezione culturale dei Duna, che considera la
fauna fluviale come parte del dominio di uno Spirito Femminile, Payame Ima, che era
responsabile della fertilità dell’ambiente. I Duna pensavano che lo spirito fosse morta o
andata altrove a causa del danno inferto all’ambiente. Quindi le grandi miniere influiscono
non solo sugli ecosistemi, ma anche sui sistemi culturali di pensiero e di azioni rituali che
sono legati con gli ecosistemi in cui vivono le popolazioni indigene.
30
• Il terzo fattore è che le operazioni minerarie coinvolgono interessi a molti diversi livelli, dal
globale al locale. Discussioni su questi interessi possono svilupparsi tra le popolazioni
locali, per esempio, e il governo nazionale; tra le autorità nazionali e provinciali; e tra
diverse comunità locali in disaccordo su chi abbia il diritto di essere ricompensato in base ai
diritti ancestrali su un particolare tratto di terreno. Organizzazioni non governative come
Greenpeace o Survival International possono interporsi in questi conflitti, trasformando
delle questioni locali in problemi globali, e indicandone le cause globali.
Molte di queste considerazioni sono ugualmente applicabili alle operazioni di pesca e di
deforestazione. Nel lungo termine i problemi non sono solo quelli legati alla distribuzione dei
profitti o dei pagamenti, hanno piuttosto a che fare con la sostenibilità.
31
Le Trobriands
Le Trobriands consistono di un’isola maggiore, Kiriwina, un‘ isola corallina e abbastanza piatta, a
cui sono collegate altre isole minori, Vakuta a Sud, Kanauli, Muwo, Bomapu e Kaileuna a ovest.
Questo piccolo arcipelago si trova a poca distanza dalla costa nord-orientale della Nuova Guinea, ed
è conosciuto come l’arcipelago dov’è nata l’antropologia moderna, grazie al fatto che Bronislaw
Malinowski vi ha condotto la sua ricerca sul campo, di cui è considerato il “padre”. Oltre all’aspetto
metodologico della ricerca etnografica, però le Trobriands, e gli studi condotti su di esse da
Malinowski e numerosi altri ricercatori, erano e sono tuttora interessanti per numerose
caratteristiche sociali e culturali che le distinguono da altre culture melanesiane. Tra queste si
possono prefigurare il sistema di discendenza matrilineare, la presenza di ruoli sociali ereditari, e
l’esistenza da un lato di scambi cerimoniali molto elaborati, che seguono gli stessi percorsi di un
altro genere di scambi, baratti di natura più utilitaria.
L’ambiente, le risorse, la specializzazione, il commercio2 e gli scambi
I villaggi delle Trobriands si trovano soprattutto all’interno dell’isola e lungo la costa occidentale,
ricca di lagune poco profonde. L’aspetto particolare di questo ambiente è che nessun villaggio ha
accesso immediato a tutte le risorse di cui i suoi abitanti necessitano. Inoltre alcuni materiali di
importanza vitali non sono reperibili da nessuna parte nell’arcipelago. Tra questi materiali (oggi
sostituiti con materiali sintetici importati) sono le pietre usate per le asce e le scuri, che
provenivano dall’isola di Marua ad est, il rattan, usato per legare qualsiasi struttura (case, canoe,
asce…), e bambù, che proveniva dall’isola di Fergusson a sud, e l’argilla per il vasellame, prodotto
quasi tutto nelle isole Amphlett a sud.
Inoltre, anche l’isola maggiore è divisa in diverse aree, specializzate in produzione di articoli
diversi. Lungo la costa occidentale sono i villaggi specializzati nella pesca, all’interno della parte
settentrionale sono i villaggi agricoli per eccellenza. Esistono villaggi specializzati nella lucidatura
delle pietre, altri nelle sculture lignee, altri nella decorazione dei contenitori per la calce. Tutti
questi oggetti di valore estetico notevole sono prodotti per l’esportazione, mentre in tutti i villaggi si
producono articoli più ordinari di tutti i tipi. Questa produzione però dipende dall’importazione di
materie prime.
L’orticoltura
Per Malinowki,
” l’abitante delle Trobriand è soprattutto un coltivatore, che scava con piacere e raccoglie con
orgoglio, a cui il cibo accumulato da un senso di sicurezza e di soddisfazione, per cui il ricco
fogliame delle piante di igname o le foglie del taro sono un’espressione diretta della bellezza”
(Malinowski 1935, I:10)
2
Per commercio si intende uno “scambio di beni tra persone o gruppi, in cui le parti entrano nella
transazione a condizioni più o meno paritarie”. Quello che ci interessa in antropologia non è il
significato strettamente economico di queste transazioni, ma il sistema totale di circolazione e
distribuzione di valori, sia materiali che simbolici: il contesto del sistema totale di scambi, che
comprendono oggetti di valore cerimoniale, conoscenze, competenze, capitale umano e così via.
(Seymour-Smith 1991: 95)
32
Al tempo del raccolto degli ignami, gli isolani già preparano il terreno per le coltivazioni della
stagione successiva, e nel frattempo curano gli appezzamenti di taro, che vanno continuamente
liberati dalle erbacce. Il prodotto principale per gli abitanti delle Trobriand sono gli ignami, il taro,
che è un altro tubero, costituisce un’importante elemento nella dieta base. Una caratteristica
importante degli ignami è che possono essere conservati e immagazzinati. Questo permette di
organizzare un calendario ciclico e stagionale, basato sull’alternarsi delle stagioni asciutte con
quelle monsoniche. Il ciclo annuale della piantagione e della raccolta degli ignami struttura molti
altri aspetti della vita alle Trobriand, tra cui le spedizioni organizzate per effettuare scambi
commerciali e cerimoniali con altre popolazioni, la guerra, le cerimonie magico-religiose, e perfino
la vita sessuale.
L’organizzazione del lavoro
Il lavoro agricolo qui segue un modello di orticoltura itinerante. Il lavoro è diviso tra le persone in
diverse maniere a seconda del tipo di lavoro. Si può dire che gli abitanti di un villaggio formino una
squadra di lavoro per l’area scelta da essere disboscata. La misura dei villaggi è abbastanza
variabile, può includere da venti ad un numero più consistente di famiglie. Un villaggio può essere
composto da uno o più sub-clan. (Un sub-clan è un gruppo di discendenza composto di uomini e
donne uniti ad un’antenata comune tramite legami in linea femminile.) Il sub-clan costituisce un
gruppo corporato, cioè i suoi membri condividono i diritti sulla terra, che sono trasmessi tra
generazioni in base ad una regola di discendenza matrilineare. In genere quando un villaggio è
composto da due o più sub-clan, i suoi membri lavorano collettivamente come squadra di lavoro del
villaggio, non si dividono in base all’appartenenza al sub-clan.
Per creare un nuovo appezzamento da coltivare, ricavandolo dalla vegetazione spontanea, l’intero
villaggio funziona ed opera un gruppo unico, diretto dai leader dei sub-clan e dei maghi
dell’orticoltura che, oltre ad occuparsi degli aspetti rituali del ciclo agricolo della comunità, sono
anche esperti tecnici.
Dopo aver identificato un’area da disboscare ed aver tagliato e bruciato la vegetazione che la
ricopriva, l’intera area disboscata è divisa in zone quadrate più piccole. Questa fase di lavoro
collettivo che coinvolge l’intero villaggio si chiama tamgogula.
In seguito sono assegnati ad ogni uomo del villaggio diversi appezzamenti di terreno all’interno
dell’area preparata dal villaggio. Questi appezzamenti saranno coltivati dai membri della sua
famiglia (padre, madre, e figli). Il lavoro quotidiano, giornaliero negli orti è portato avanti da ogni
famiglia separatamente, e si chiama tavile’i.
Per alcuni compiti più pesanti si formano gruppi di lavoro più estesi. In alcuni casi i membri di
diverse famiglie, o addirittura di tutto il villaggio si accordano per compiere insieme un lavoro che
ogni famiglia potrebbe portare a termine individualmente, con maggior spesa di tempo e minor
senso di solidarietà. Questo lavoro comunitario avviene ogniqualvolta un certo numero dei membri
di un villaggio decidono di collaborare in una delle fasi dell’orticoltura, sulle basi della reciprocità
(Malinowski 1922: 161). Normalmente la famiglia che usufruisce del lavoro degli altri componenti
del villaggio per finire in un giorno un compito che altrimenti avrebbe impiegato molti giorni di
lavoro, si occupa di fornire cibo e betel ai lavoratori, ma non è una vera e propria forma di
pagamento per il lavoro fatto (1922:161).
Un’altra forma di lavoro comunitario, kutubu, avviene quando un individuo chiama i propri parenti,
i parenti della moglie ed i vicini a lavorare per lui, su un progetto specifico. In questo caso, chi ha
chiesto l’aiuto deve distribuire cibo in pagamento per il lavoro prestato. Chiunque può ricorrere a
kutubu, per esempio per costruire una casa o una casa per lo stoccaggio degli ignami (yamhouse).
Questa stessa forma di lavoro collettivo, però, è anche utilizzata da leader di alto lignaggio, che
controllano la ricchezza, sotto forma di surplus di cibo, per mobilitare dei seguaci. Tale surplus è
fornito ai leader dai membri del villaggio, attraverso obblighi legati alla parentela; questo surplus
permette ai leader di utilizzare la ridistribuzione di cibo per assicurarsi e mantenere nel tempo il
supporto dei parenti e per mobilitare alleati. Attraverso kutubu un leader importante ha a
33
disposizione una forza lavoro comunitaria che usa per costruire case per lo stoccaggio degli ignami,
costruire canoe, ed eseguire altri progetti di grossa portata attraverso i quali sia il leader che i suoi
seguaci ottengono prestigio. Il principale prerequisito per la mobilitazione di una tale forza lavoro è
la capacità di nutrire la squadra di lavoratori coinvolti, e questa capacità dipende
dall’accumulazione di tuberi e verdure, forniti dai propri seguaci.
Tutti gli adulti delle Trobriand partecipano pienamente nella produzione agricola. A parte le
prestazioni specialistiche del mago dell’orticoltura, che può essere il leder di un villaggio od un suo
parente designato, la divisione dei compiti agricoli avviene lungo linee di età e di genere. Gli
uomini tagliano la boscaglia; le donne puliscono il terreno e lo preparano per piantare; gli uomini
piantano e le donne strappano le erbacce; gli uomini legano i butti e regolano le radici; entrambi i
sessi partecipano nel raccolto. Gli attrezzi sono semplici e basilari, bastoni appuntiti sono usati per
scavare e rimuovere le erbacce, asce ed accette di pietra sono usate per abbattere gli alberi.
La produzione degli ignami
Ogni gruppo familiare, una volta che il terreno è stato disboscato e suddiviso in lotti, coltiva gli
ignami nel proprio appezzamento. Due fattori sono cruciali alla cultura delle Trobriand: il primo è
che la produzione di cibo vegetale rappresenta la sfera principale nella vita di una coppia. Le
famiglie tendono a produrre e ad accumulare mucchi di ignami, molti più di quanti possano
consumare, queste pile sono fonte di gioia e di orgoglio per la coppia, che lavora strenuamente per
produrre enormi quantità di cibo “inutile” in un ambiente che permetterebbe di sopravvivere con
meno sforzi. Il secondo elemento cruciale è che circa la metà degli ignami prodotti da ogni famiglia
sono destinati alle famiglie di una sorella del marito, e di altre parenti prossime. Gli ignami regalati
da ogni famiglia, ad altre famiglie ed al leader del sub-clan, sono le migliori e le più grandi del
raccolto. Il prestigio di una famiglia cresce in proporzione al numero ed alla misura degli ignami
che regala. Esistono anche spettacolari competizioni tra sub-clan o villaggi diversi, in cui si
gareggia a chi regala gli ignami più numerosi e più grandi.
L’aspetto simbolico della produzione degli ignami alle Trobriand emerge chiaramente dal fatto che
molti degli ignami più apprezzati ed esposti più cospicuamente, non sono mai usati come cibo,
finiscono per marcire. Questi ignami di qualità superiore, che sono esposti nei magazzini per essere
ammirati pubblicamente, diventano simboli di prestigio e potere. Un leader di alto rango, come il
“capo supremo” del prosperoso villaggio di Omarakana, riceve enormi quantità di ignami come
tributo dai villaggi di una vasta regione; questi tributi, a loro volta, gli forniscono il mezzo di
mobilitare una forza lavoro per i suoi progetti collettivi.
La distribuzione, il consumo e gli scambi
I Trobriand devono la loro fama al sistema di scambi cerimoniali Kula, descritti da Malinowski, la
sua analisi però si limitava al contesto degli scambi cerimoniali, a cui partecipano uomini di
prestigio. Per poter apprezzare la vera complessità del sistema di produzione, ridistribuzione e
scambi, oltre a come questo sistema funzioni anche a livello della riproduzione sociale, è necessario
partire dall’organizzazione della produzione a livello domestico, per giungere alla sfera pubblica del
prestigio e degli scambi. Questa maggiore complessità è emersa dalle etnografie più recenti sulle
Trobriand, in particolare quella di Annette Weiner (1976), che ha sottolineato il ruolo cruciale delle
donne nell’economia di scambio in cui gli uomini si giocano il prestigio, facendo emergere la realtà
femminile della società delle Trobriand, che era stata largamente ignorata nelle, pur numerose,
etnografie di Malinowski.
La produzione ed i consumi a livello domestico
La famiglia alle Trobriand funge come principale unità produttiva, ed è anche il sito entro il quale il
cibo prodotto per scopi di sussistenza è consumato quotidianamente. La divisione del lavoro
all’interno della famiglia è netta e abbastanza semplice, le donne cucinano, di norma il pasto
principale è quello serale in cui si consumano ignami, taro, ed altri tuberi arrostiti o bolliti, a cui
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occasionalmente si aggiungono pezzi di carne o pesce. Gli avanzi del pasto serale sono consumati
freddi il mattino dopo, e durante la giornata può capitare di mangiare frutti, noci di cocco, o
molluschi. La raccolta del cibo (frutti e noci dalla foresta, molluschi dal mare o dai corsi d’acqua) è
compito delle donne, mentre agli uomini spettano la caccia e la pesca.
La divisione del lavoro quotidiano tra i due sessi è anche elaborata a livello simbolico: le donne
trasportano i prodotti del proprio lavoro in borse a rete sospese sulla schiena dalla fronte, mentre gli
uomini portano le loro sporte solamente a spalla; inoltre solo le donne possono portare i contenitori
per l’acqua (che nelle Trobriand è associata alla fertilità femminile ed al concepimento) sulla testa
(associata alla sessualità femminile). Questo compito prettamente femminile, con i suoi carichi
simbolici, contribuisce a creare un ambito separato e controllato dalle donne, quello della sorgente
dell’acqua. Nonostante che lo stesso Malinowski avesse notato:
“La sorgente dell’acqua è il club delle donne ed il centro dei pettegolezzi, ed è quindi molto
importante, perché nel villaggio Trobriand esistono un’opinione pubblica ed un punto di vista che
appartengono distintamente alle donne” (1929: 20), questo aspetto femminile della vita delle
Trobriand è rimasto nascosto alle analisi antropologiche per cinquant’anni.
Appezzamento da cibo e appezzamenti da scambi
Malinowski indica che più della metà degli ignami prodotti da ogni famiglia sono destinati ad
essere regalati ad altre famiglie, in particolare a quelle delle sorelle del marito. L’allocazione di
questi tuberi non avviene a posteriori, ma è pianificata sistematicamente dal principio di ogni ciclo
produttivo. Sono i leader del gruppo che assegnano ai diversi uomini la responsabilità di produrre
ignami per specifiche sorelle degli uomini appartenenti al sub-clan. Weiner ha dimostrato inoltre,
che dal momento in cui un appezzamento è preparato è destinato alla produzione di cibo per la
famiglia (appezzamento da cibo) o alla produzione di cibo che servirà gruppo domestico per
mantenere i propri impegni (appezzamento da scambio). Chi pianta e cura un appezzamento da
scambio non è il proprietario degli ignami ivi prodotti, fin da quando sono piantati sono di proprietà
della persona a cui saranno presentati una volta raccolti (Weiner 1976:138). Inoltre è proprio chi
riceverà gli ignami coltivati a fornire i materiali da piantare, presi dal raccolto dell’anno precedente.
“quindi quello che viene donato da un uomo che insieme a sua moglie pianta e coltiva un
appezzamento da scambio è il lavoro incorporato negli ignami (1976:147). L’interesse di
Malinowski per gli ignami scambiati lo ha portato a ignorare la distinzione tra questi due tipi di
appezzamenti, e anche il fatto che avrebbe dovuto incuriosirlo, cioè che gli uomini usano la magia
solo negli appezzamenti destinati agli scambi. Secondo la Weiner “Nessuno usa la magia negli
appezzamenti destinati alla sussistenza domestica, in quanto questi prodotti sono immediatamente
convertiti in cibo, e non servono a facilitare il mantenimento di relazioni sociali estese e
formalizzate.” (1976: 217)
A questo punto il nostro sguardo può uscire dalla sfera della produzione domestica, e possiamo
chiederci quali siano queste relazioni sociali che devono essere sostenute al costo di tutto quel
surplus di lavoro investito da ogni gruppo domestico, ed il perché.
Doni del raccolto
Esiste un dubbio sulla correttezza del termine urigubu utilizzato da Malinowski per i doni che ogni
gruppo domestico delle Trobriand fa ogni anno, al momento del raccolto, ad un’altra famiglia
(idealmente quella della sorella del marito).
Coltivare ignami da consumare come cibo è cosa molto diversa dal regalarli ad un’altra famiglia.
Soprattutto perché chi li riceve immagazzina gli ignami in una costruzione appositamente costruita
per poterli esporre, e li lascia lì fino a sei mesi, spesso lasciandoli marcire. Fino a quando un igname
non è cotto è un oggetto di valore che può essere investito. Una volta cucinato, può solo essere
mangiato. In termini culturali Trobriand, convertire degli ignami crudi in cibo cotto non rappresenta
la realizzazione dello sforzo produttivo, ma invece il soccombere ad una necessità pratica che si
evita per quanto possibile.
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Una volta che le yamhouses sono riempite, secondo Weiner, i Trobriand mangiano pochi ignami
nella dieta quotidiana. Gli ignami accumulati nei magazzini da esposizione rappresentano il capitale
di un uomo, e un’esibizione del suo potenziale. Per contro, se può lasciare che gli ignami nel
magazzino marciscano, significa che egli ha mantenuto tutti i suoi impegni nella sfera degli scambi
di ignami, che ha terra a sufficienza, e sufficiente cibo e sementi per la propria famiglia. Gli ignami
che marciscono nel magazzino indicano che il loro proprietario è pienamente in controllo del suo
ambiente sociale, finanziario, ed ecologico.
La reciprocazione per gli ignami donati al raccolto
Per comprendere la ragione per cui un uomo e la sua famiglia investano tanto lavoro più di quello
necessario alla propria sussistenza per produrre ignami che servono sostanzialmente ad accrescere il
prestigio di un altro, è necessario rivolgere la nostra attenzione a quello che il gruppo domestico
riceve in cambio per gli ignami che dona la momento del raccolto. Quando un orticoltore raccoglie
gli ignami da un appezzamento destinato agli scambi ne fa delle pile per esibire il frutto del lavoro
del suo gruppo domestico. La maggior parte degli ignami sono destinati alla sorella per cui il
produttore è responsabile, e a suo marito; altre quantità minori vanno ad altre sorelle o altre parenti
di sesso femminile e di grado equivalente alle sorelle. A loro il produttore dona un cesto di ignami,
più magari un maiale e delle noci di areca, che sono masticate col betel. Il marito della sorella per
reciprocare questo dono regala al donatore un oggetto di valore, come vaso di terracotta o una lama
per asce in pietra verde lucidata. L’anno successivo il produttore di ignami fa dono di una pila più
grande di ignami, per reciprocare il dono dell’oggetto di valore. Anche chi riceve un dono di
raccolto particolarmente abbondante può dimostrare la sua gratitudine per il lavoro in più che è
stato investito nella produzione di ignami destinati a lui, con un dono di un oggetto di valore che,
l’anno successivo, stimolerà ulteriore lavoro e sovrabbondanza di ignami.
Il problema di questo ciclo di doni, oltre al fatto che la maggior parte degli ignami donati finiranno
per marcire nei magazzini, è che anche i doni fatti per reciprocare il donatore per tutto il lavoro
investito nella produzione di ignami, sono largamente inutili, e non spiegano, da un punto di vista
utilitario, tutto l’impegno investito per ottenerli.
Un ulteriore elemento nel ciclo di doni reciproci iniziato dai doni del raccolto, emerge dall’analisi
delle feste mortuarie delle donne. In questi eventi spettacolari le donne distribuiscono grandi
quantità di gonnelle di fibra vegetale e fasci di foglie di banana per ricompensare tutti coloro che
hanno partecipato al lutto in vari modi per il loro “lavoro”. Questi oggetti da un punto di vista
pratico sono inutili tanto quanto le asce e i vasi che sono conservati senza essere usati.
Mentre una donna sta facendo una presentazione mortuaria per la morte di un membro del suo subclan (che potrebbe essere un fratello o uno zio materno), le donne a cui suo marito ha fatto dono di
ignami come doni del raccolto, le sfilano davanti e le donano gonnelle di fibra e fasci di foglie di
banana. Inoltre, la persona che la deve aiutare è suo marito. Lui, più di chiunque altro ha la
responsabilità di finanziare la sontuosa distribuzione di ricchezza simbolica, gonne e fasci di foglie
di banane, organizzata da sua moglie. Questo aiuto è considerato come una restituzione da parte del
marito per il lavoro che il fratello di sua moglie ha impiegato per fornirgli gli ignami. In occasione
di una distribuzione funeraria, i fratelli della donna responsabile per la distribuzione osservano
attentamente il marito della sorella: se il suo aiuto nel racimolare tutti gli oggetti che le servono per
la distribuzione non è pronto, i fratelli della donna lo considerano un cattivo marito, e non vorranno
più coltivare appezzamenti di ignami da distribuire a lui. (Weiner 1976:198)
I doni del raccolto ed il potere dei capi
Malinowski aveva sottolineato il ruolo delle prestazioni legate la raccolto degli ignami nel
meccanismo attraverso il quale i capi di status elevato mantengono il loro potere politico.
L’elemento cruciale in questo meccanismo è che soltanto gli uomini di status elevato hanno il
diritto alla poligamia, questo gli assicura accesso ad una maggiore quantità di ignami, per sostenere
la propria posizione di prestigio.
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I rappresentanti di un capo si presentano dal leader di un sub-clan con il quale vuole stabilire
un’alleanza matrimoniale, e gettano a terra una lancia alla quale sono state legate quattro noci di
cocco. Se si procede con l’accordo il sub-clan fornirà una moglie, ma non solo, dovrà anche
assegnare a quattro uomini il compito di piantare annualmente degli appezzamenti di ignami per
questa ‘sorella’ e suo marito (1976:201-202).
In questo modo il sub-clan di provenienza della moglie entra in relazione di “tributo” con un capo
importante: i suoi magazzini per gli ignami sono sempre sovraccarichi di ignami provenienti da
numerosi appezzamenti sparpagliati in tutto il distretto ma, come ha evidenziato Annette Weiner,
questi capi devono utilizzare le loro risorse anche per fornire alle mogli i beni di prestigio
femminili, come parte dei doveri di reciprocità formale che ogni uomo ha verso i parenti di sua
moglie. Per comprendere come le strutture della parentela servano ad organizzare la produzione e la
distribuzione nella società trobriand sarà necessario approfondire in che modo la parentela influenzi
la formazione dei gruppi sociali e reti relazionali, ma prima di aprire il capitolo sulla parentela,
dobbiamo approfondire la logica culturale che sottende questi scambi di beni simbolici. Per questo
dobbiamo analizzare gli altri tipi di scambi di beni che regolano la vita sociale dei trobriand.
Sagali
Le distribuzioni dette sagali sono una categoria di scambi di cui fanno parte le distribuzioni
mortuarie delle donne. Rappresentano un meccanismo per la ridistribuzione dell’abbondanza di
ignami che sono concentrati nelle mani di leader prominenti.
Per sagali si intende qualsiasi distribuzione di cibo collegata a qualche occasione cerimoniale, come
una celebrazione funeraria, una commemorazione, un’impresa competitiva, eccetera. In questo
sistema il prestigio è ottenuto, espresso, e convalidato, attraverso l’abilità di donare grandi quantità
di cibo per finanziare una festa, una guerra, o un progetto di lavoro collettivo. In effetti, un leader
importante, attraverso questo tipo di distribuzione, dona molto più di quanto non riceva.
Le distribuzioni più spettacolari di cibo ed oggetti di valore avvengono, come abbiamo visto, in
occasioni delle distribuzioni funerarie, in cui sono le donne ad avere un ruolo da protagoniste. Con
le sue ricerche Annette Weiner ha messo in luce il ruolo complementare degli scambi femminili nel
ciclo di distribuzioni e nella costruzione del prestigio sociale.
Quando muore una persona del sub-clan di una donna è lei, con le altre donne del gruppo, a
prendere il ruolo centrale nella distribuzione di numerose gonne di fibra e fasci di foglie di banano
(fino a 15,000). I beni che distribuisce sono forniti alla donna da suo marito e da donne imparentate
con suo marito alle quali lei aveva in precedenza dato ceste di ignami. Inoltre le donne investono
oculatamente gli ignami ricevuti dai suoi fratelli per poter ottenere in cambio i beni di prestigio
femminili che le occorrono per organizzare i sagali in occasione della morte di un membro del suo
sub-clan. Secondo Weiner le donne in questo contesto dimostrano lo stesso livello di aggressività e
competitività degli uomini nel trattare gli scambi per ottenere il prestigio.
Pokala
Un’ulteriore categoria di scambi tra i Trobriand è pokala, cioè un dono asimmetrico ad una persona
di status superiore. Questo termine copre una serie di transazioni che sono concettualmente
collegate tra loro. Il primo tipo di pokala è quello in cui doni e servizi sono prestati dai membri di
status inferiore di un sub-clan ai suoi membri di status elevato, in cambio di vantaggi sia materiali
che di status previsti nel futuro. Quindi i doni pokala sono un mezzo per assicurarsi un vantaggio
politico nel futuro, per convalidare i propri diritti di eredità matrilineare, o per rendere un tributo ad
un proprio leader. Pokala implicano sempre una differenza di status tra il donatore ed il ricevente,
che in cambio si riterrà impegnato per il futuro, impegnato a fornire protezione, promuovere lo
status del donatore, o ad aiutarlo a ottenere dei vantaggi materiali.
In in altro senso pokala indica anche il tributo versato a un capo di distretto, o qualche altro
personaggio eminente.
Pokala quindi implica due condizioni essenziali:
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1- un’assimmetria di status in cui il donatore abbia una posizione inferiore a quella di chi
riceve
2- la creazione di un impegno (diffuso o specifico) da parte del ricevente verso il donatore, tale
per cui questi migliori la sua posizione rispetto a quella dei suoi rivali.
Quest’ultima caratteristica vale anche nel caso in cui il donatore sia un intero villaggio che manda
un tributo al capo del distretto.
Wasi
Questo tipo di scambio è importante per il ruolo che ha nello scambio di prodotti specialistici,
all’interno del sistema economico regionale delle Trobriand. Nello specifico wasi è lo scambio tra i
villaggi di pescatori sulla costa e quelli specializzati nella produzione di ignami all’interno. In
questo caso sussistono alleanze a lungo termine tra villaggi e, al loro interno, delle partnership tra
individui – un orticoltore è in relazione di partnership di wasi con un pescatore- Dopo il raccolto
gli orticoltori portano una quantità di taro o ignami ai loro soci nel villaggio costiero. Appena
possibile dopo questo evento i pescatori organizzano una battuta di pesca nella laguna, il pescato è
portato direttamente al villaggio dell’interno dove il pesce è regalato in cambio dei tuberi ricevuti in
precedenza. Esistono degli standard di equivalenza standardizzati per calcolare le quantità di pesce
dovuto.
Gimwali
Questo termine comprende tutte le forme di baratto presenti alle Trobriand, transazioni di mercato
che non fanno uso di denaro. Qui la contrattazione e lo sforzo, pubblicamente ammesso di avere la
meglio sull’altro, sono le caratteristiche principali. Avviene sia all’interno di un villaggio che tra
villaggi, e può comportare lo scambio di pesce per prodotti agricoli, o di cibo per manufatti di
diversi tipi. La nostra percezione degli scambi dei Trobriand è stata colorata dall’interesse di
Malinowski, e degli stessi Trobriand per le transazioni più drammatiche, formali e ritualizzate, ma
in realtà la vita nei villaggi di queste isole è punteggiata da scambi informali e quotidiani: lo
scambio diretto di pesce per ortaggi (vava), o lo scambio quotidiano di ignami per oggetti di
artigianato sia di uso corrente che di prestigio.
Rimane ancora da spiegare il valore simbolico dei vasi di terracotta, delle asce in pietra lucidata e
degli ornamenti in conchiglia.
Vaygu’a o Veguwa
Questo termine (la prima versione è l’ortografia adottata da Malinowski, la seconda da Annette
Weiner), indica gli oggetti di valore utilizzati negli scambi e nelle presentazioni cerimoniali.
Secondo Weiner tra tutti gli oggetti di scambio gli oggetti di pietra ed in conchiglia sono quelli più
durevoli e permanenti. Nel contesto del sistema di scambi interno a Kiriwina, che è l’isola
principale delle Trobriand, le lame per le asce in pietra lucidata (beku) sono l’articolo di maggior
valore. Chi ne possiede è definito un uomo ricco. Le asce possono essere convertite, per mezzo di
scambi e baratti, con tutta una serie di altri beni e servizi. Beku possono essere scambiate con
maiali, incantesimi magici, ignami da seminare, ed ignami crudi. A differenza degli ignami le asce
di pietra sono praticamente indistruttibili e circolano per diverse generazioni. Il loro valore deriva
anche dal fatto che, come per altri oggetti di valore tipo i vasi di terracotta che provengono dalle
isole Amphlett, sono prodotti da specialisti d’oltremare. Nel contesto interno di Kiriwina, questi
beni artigianali si possono ottenere soprattutto tramite lo scambio di maiali , ignami, e incantesimi
magici (Weiner 1976: 179-80).
Se il valore di questi oggetti è puramente simbolico, è il potere che determina le azioni dgli uomini
e delle donne.
L’accesso agli oggetti di valore è di grande importanza politica. I manager dei villaggi, qualunque
sia il loro status hanno un bisogno costante di questi oggetti per pagare l’uso della terra. Gli uomini
che controllano il potere del lavoro devono ripagare altri uomini per il tempo speso negli
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appezzamenti di ignami per gli scambi. Gli uomini necessitano veguwa per i matrimoni dei propri
figli, fratelli, ed i figli delle loro sorelle, oltre che in caso di una morte.
E’ la ricerca del potere attribuito dal possesso di oggetti di valore simbolico che spinge gli uomini
delle Trobriand ad intraprendere viaggi avventurosi per mare, e a partecipare in uno dei più notevoli
sistemi di scambio regionale del mondo tribale.
Kula
Le Trobriand fanno parte dell’arcipelago d’ Entrecasteaux, a sud est della Nuova Guinea. Le culture
presenti nell’arcipelago sono imparentate tra loro, anche se ogni gruppo ha costumi e parla lingue
differenti. La cosa che li accomuna è la partecipazione nello stesso esteso ciclo di scambi
cerimoniali, di cui ogni gruppo tribale forma una parte del sistema totale. Gli scambi avvengono tra
le isole seguendo una rotta circolare, in cui un tipo di oggetto viaggia in senso orario, e l’altro in
senso anti-orario. Gli oggetti che circolano nel kula sono essenzialmente inutili, e sono classificati
come vaygu’a. Soulava sono lunghe collane fatte di dischetti in conchiglia infilati su un lungo spago
di fibra vegetale, e viaggiano lungo la rotta del kula seguendo una direzione oraria. I mwali, o
bracciali ricavati da un segmento di conchiglia, sono scambiati in direzione anti-oraria.
E’ importante ricordare, dunque, che i Trobriand sono solo un anello nella catena del complesso
ciclo di scambi conosciuto come kula.
La regola fondamentale del kula è che se un uomo fa pubblicamente e cerimoniosamente un dono
di una collana soulava ad un altro uomo, questi dovrà, in futuro, dargli un bracciale mwali di valore
corrispondente. In questo modo due uomini diventano partner di kula, una relazione che dura tutta
la vita ed è sostenuta dal periodico scambio di oggetti di valore. Da un qualunque punto delle
Trobriand un uomo riceve collane dai suoi partner a sud e ad ovest, e braccali dai suoi partner
provenienti da isole a nord ed a est.
In media un uomo ha numerosi partner sia sull’isola che oltremare, ed intrattiene relazioni di
scambio con uno o due capi importanti, dallo status elevato. I partner locali sono generalmente
amici e parenti del sub-clan della moglie. Lo scambio di vaygu’a con loro è solo una parte di una
serie di scambi e di assistenza reciproca. Le partnership kula all’interno di un distretto (come le
Trobriand) costituiscono il “kula interno”. Gli scambi in questo contesto ristretto sono individuali,
su scala ridotta, e avvengono con meno formalità cerimoniale che il kula d’oltremare.
Gli scambi principali comportano lunghi viaggi e complessi cerimoniali e magici elaborati.
Malinowski illustrava così le strategie ed i principi che governano il kula d’oltremare, dal punto di
vista di un villaggio sulla costa di Kiriwina, Sinaketa.
“Supponiamo che io, un uomo di Sinaketa, sia in possesso di un paio di grandi bracciali in
conchiglia. Una spedizione d’oltremare da Dobu arriva la mio villaggio. Soffiando nella mia
conchiglia conch prendo il mio paio di bracciali e li offro al mio partner d’oltremare con parole tipo,
“questo è un vaga [dono d’apertura] – nel tempo tu mi darai una grande soulava in cambio di
questo!”. L’anno successivo, quando io vado in visita al villaggio del mio partner, o lui è in
possesso di una collana di valore equivalente che mi da come cotile [dono di chiusura], oppure non
ha una collana di valore sufficiente a uguagliare il mio ultimo dono a lui. In questo caso egli mi darà
una collana più piccola- evidentemente non equivalente al mio dono – e me la darà come basi [dono
intermedio]. Questo vuol dire che il dono principale dovrà essere ripagato in un’occasione futura ed
il basi è dato come gesto di buona fede- , ma anche questo, a sua volta dovrà essere ripagato da me
nel frattempo con un dono di un bracciale piccolo. Il dono finale, che mi sarà dato per concludere
l’intera transazione, si chiama kudu [dono equivalente] … (Malinowski 1922: 99-100)
La fama di un uomo che è in possesso di oggetti di valore di qualità superiore si diffonde
rapidamente. Tutti i bracciali e le collane di pregio hanno un nome ed una storia particolare e,
siccome circolano tutti entro il sistema di kula, sono ben conosciuti. Se ne arriva uno in un distretto,
la notizia si diffonde, e tutti i partner dell’uomo che l’ha ricevuto competono per ottenerlo da lui.
Coloro che ci tengono particolarmente arrivano a fargli delle offerte e dei doni particolari allo scopo
di sollecitarlo a passare l’articolo celebre nelle loro mani.
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Un uomo cerca di mantenere una reputazione di generosità come partner kula. Non può tenere gli
oggetti a lungo, e non ne può fare un grande uso, quindi la sua fama ed il suo prestigio dipendono
dal numero e dalla qualità degli oggetti che gli passano tra le mani. Per questo egli deve donare con
generosità e allo stesso tempo deve essere bravo ad attuare strategie per ottenere numerosi oggetti di
prestigio dai suoi partner. Non è possibile essere generosi senza saper ottenere buoni oggetti. Ma
anche nel kula esistono strategie per massimizzare i propri vantaggi.
Fortune ha raccolto questa testimonianza da un isolano di Dobu
“Se io, Kisian di Tewara, vado alle Trobriand e ottengo un bracciale chiamato Lucertola Monitor.
Poi proseguo per Sanarla e in quattro villaggi diversi ottengo quattro diverse collane di conchiglie,
promettendo ad ogni uomo che mi dona una collana, il bracciale Lucertola Monitor in restituzione.
Io, Kisian, non devo essere specifico nella mia promessa. Sarà trasmessa implicitamente,
soprattutto. Più tardi, quando quattro uomini si presenteranno a casa mia a Tewara per ottenere
Lucertola Monitor, solo uno di loro la otterrà. Però gli altri non sono defraudati in permanenza. E’
vero che saranno furibondi, e lo scambio con loro sarà in stallo per quell’anno. L’anno successivo
quando io, Kisian, ritorno alle Trobriand dirò che ho quattro collane a casa in attesa di coloro che
mi daranno quattro bracciali. Così ottengo più bracciali della volta precedente e ripago i miei debiti
con un anno di ritardo. I tre uomini che non hanno ottenuto Lucertola Monitor sono svantaggiati
nel mio villaggio, Tewara. Più tardi, quando tornano a casa propria sono troppo lontani per
rappresentare un pericolo per me. E’ possibile che tentino di uccidere il loro rivale, colui che ha
ottenuto da me Lucertola Monitor, con l’arte magica. E’ vero, ma sono affari loro. Io sono diventato
un grande uomo estendendo i miei scambi al costo di bloccare i loro per un anno. Non mi posso
permettere di bloccare i loro scambi troppo a lungo, o nessuno si fiderà più di scambiare con me.” (
Fortune, 1932: 217).
Gli scambi del kula sono intimamente associati al sistema di stratificazione sociale delle Trobriand.
Un leader di un sub-clan locale costruisce, rinforza e convalida il proprio potere politico prima di
tutto attraverso l’accumulazione e la ridistribuzione degli ignami, ma in secondo luogo attraverso la
partecipazione nel kula. Solo gli uomini partecipano a questi scambi, e il numero di partner, il loro
prestigio e potere, e la fama degli oggetti di valore che un uomo riesce ad ottenere ed a passare ai
suoi partner costituiscono una convalida simbolica del potere e del prestigio di un uomo di status.
Nel contesto delle spedizioni per fare kula, parallelamente agli scambi cerimoniali, avvengono
anche molti baratti. E’ così che si ottengono materie prime e manufatti che non si trovano nei
paraggi dei propri villaggi. In questo modo i Trobriand ottengono vasellame, rattan, bambù, le
pietre per le asce. Le spedizioni oltremare organizzate per fare kula, quindi permettono di ottenere
beni di uso quotidiano oltre che quelli di alto valore simbolico. La regola è che i partner degli
scambi cerimoniali non possano barattare i beni tra loro, ma tutti gli altri partecipanti alla
spedizione possono barattare con i partner degli altri.
Nonostante queste forme di gimwali che avvengono parallelamente agli scambi cerimoniali del kula
vero e proprio abbiano attirato meno l’attenzione degli etnografi degli aspetti vistosamente
cerimoniali, costituiscono un importante aspetto dell’equilibrio economico regionale. Nelle
spedizioni d’oltremare i partecipanti possono trovare cibo, noci areca e calce per la masticazione del
betel, noci di cocco, materiale per le costruzioni, sago, oltre ai beni di prestigio che, magari non
sono quelli scambiati nel kula, ma possono essere utilizzati, una volta tornati nella propria isola, nel
contesto degli scambi locali. Il sistema del kula può anche essere interpretato come una sorta di
trattato di pace tra potenziali nemici, che permette di commerciare, e quindi di sostenere la
sopravvivenza in isole dalle risorse diversificate. Un elemento cruciale di questo tipo di sistema, che
era abbastanza comune in tutta la Melanesia, era costituito dalla produzione dei vasi di terracotta,
che sono utilizzati in tutta l’area, ma prodotti solo in alcuni villaggi specializzati. Nel caso
dell’arcipelago d’Entrecasteaux i vasi sono prodotti alle isole Amphlett, in posizione strategica: gli
isolani importavano la maggior parte del cibo dalle isole più lussureggianti, le pietre verdi per le
asce e le grandi canoe necessarie per i viaggi e la pesca dalle isole ad oriente.
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L’economia delle Trobriand: un sistema integrato?
Avendo analizzato le diverse forme di scambio che intraprendono gli abitanti delle trobriand non ci
resta che cercare di capire se e come tutte queste diverse forme di distribuzione siano integrati in un
sistema coerente.
Abbiamo visto che esiste all’interno di questa società un ventaglio di pratiche legate alla
distribuzione ad agli scambi: alcuni scambi sono cerimoniali, trattati secondo degli standard di
equivalenza prestabiliti e comportano un obbligo di ritorno pressoché diretto. Altri scambi, come il
pokala, comportano degli impegni molto meno definiti, e altri ancora, come gimwali, risentono
delle variazioni legate al mercato in termini di domanda e offerta, altre ancora, per esempio certe
forme di sagali, portano vantaggi solo in termini di prestigio.
Per comprendere il sistema economico complessivo, e cioè come queste diverse pratiche formino un
insieme coerente, dovremmo sapere qualcosa di più riguardo:
1- Il modo in cui i valori o gli oggetti di valore sono convertiti da una sfera di scambi ad
un’altra, e secondo quale scala di valori avviene questa conversione
2- Il flusso di oggetti di valore, cibo, materie prime e manufatti nel sistema, ed il modo in cui
questo flusso è legato al potere, al prestigio, alla parentela, eccetera.
3- Quali sono le strategie che portano ad effettuare transazioni tra i diversi sottosistemi, oltre
che al loro interno; quali considerazioni strategiche determinano la decisione di investire in
un tipo di scambio piuttosto che un altro.
Questo tipo di informazione lo troviamo nell’etnografia di Annette Weiner (1976), in cui descrive il
sistema di scambi con la metafora delle strade. Esiste una “strada principale” di scambi, lungo la
quale ‘viaggiano’ tutti gli uomini e le donne delle Trobriand, che è collegata attraverso sentieri
secondari con altri cicli di scambi. Questa strada principale collega le risorse delle donne a quelle
degli uomini, ma collega anche la produzione agricola con la rete delle relazioni sociali e con i riti
funerari che sono uno dei principali nodi della cultura Trobriand.
I principali beni di scambio trattati lungo questa ‘via principale’ sono gli ignami da scambio. Gli
ignami sono i beni fondamentali, convertibili in altre forme di ricchezza e, in ultima analisi, in
prestigio e potere. I Trobriand dicono, “se un uomo ha degli ignami può trovare qualsiasi altra cosa
gli serva”. Anche ora, che il denaro è entrato a far parte dell’economia contemporanea delle
Trobriand, niente può rimpiazzare gli ignami nelle distribuzioni che avvengono alle cerimonie
funerarie, o quelli dati alle donne dai loro fratelli, o quelli che sono dati in cambio delle donne nel
contesto degli scambi matrimoniali. Tutti gli scambi che comportano le creazione o il mantenimento
delle relazioni sociali continuano ad essere mediati dagli ignami, che non sono sostituiti dal denaro.
Secondo Weiner la circolazione di ignami da scambio produce accesso ad altri beni e altri
commestibili, oltre che l’accesso a impegni immediati e futuri. Regalare una cesta di ignami
produce altri oggetti ricevuti in cambio, i quali a loro volta forniscono altre strade per altre cose e
per altre persone. Quindi una donna può utilizzare ignami che suo fratello o i suoi parenti
matrilineali hanno donato a suo marito e convertirli, tramite uno scambio, in gonnelle di fibra o
fasci di foglie di banano. Inoltre può convertire beni tra sottosistemi barattando un oggetto prodotto
da lei, come una sporta di spago, bilum, per beni di prestigio femminili, o per altri ignami che
possono essere ulteriormente convertiti. Il fine ultimo è quello di aumentare il proprio prestigio
attraverso la presentazione cerimoniale di oggetti di scambio (gonnelle e fasci di foglie per le
donne, collane e bracciali kula e cibo presentato in occasione di sagali per gli uomini). Un ulteriore
mezzo per promuovere il proprio prestigio è quello di permettere che gli ignami accumulati
marciscano inutilizzati.
La ‘strada principale’ di scambi attraverso la quale ogni uomo ed ogni donna converte ignami in
misure di prestigio porta attraverso delle ‘vie secondarie’ alle strade del kula o degli altri scambi –
attraverso questi sottosistemi gli uomini di status superiore possono accedere ad ulteriore prestigio e
potere.
Le condizioni per la riproduzione di questo sistema alle Trobriand, come in altre società tribali,
sono legate alla struttura sociale, ai sub-clan ed alle relazioni definite dalla parentela e stabilite
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attraverso il matrimonio, alle relazioni di potere e prestigio all’interno di ogni gruppo e tra sub-clan,
e ai valori culturali trasmessi. E’ necessario considerare tutti i sistemi sociali in termini dei processi
storici in cui sonno coinvolti, e che comprendano sia le dinamiche nascoste che i loro significati
culturali. Infatti gli esseri umani non percepiscono la natura come un campionario di prodotti
potenzialmente utili per nutrirsi, vestirsi o costruirsi un’abitazione. L’incontro con la natura è
mediato da un sistema di significati culturalmente definiti. Per un pescatore che nuota nella laguna
alle Trobriand, per esempio, una conchiglia spondylus non ha significato come oggetto, ma come
una componente di una potenziale collana vaguy’a. Allo stesso modo un pesce non è ‘proteina’ agli
occhi del pescatore, ma ha importanza economica in termini dell’uso che può esserne fatto negli
scambi wasi o gimwali, o come componente di un pasto, il quale pasto è strutturato da presupposti
culturali sul cibo, sull’atto di mangiare, e sulle relazioni sociali coinvolte.
Allo stesso tempo è necessario considerare, in termini storici come si è sviluppato il sistema, e
cogliere le trasformazioni in corso. Un sistema come quello delle Trobriand si riproduce così com’è
solo nel breve termine: probabilmente questo stesso sistema si è evoluto da uno più semplice, basato
su una minor stratificazione sociale e su un’economia del prestigio meno complessa, simile a quelle
delle popolazioni delle altre isole dell’arcipelago d’Entrecasteaux. La maggior fertilità delle
Trobriand ha permesso l’evolversi del sistema basato sulla sovrapproduzione di ignami come basi
per la costruzione di prestigio e potere, ma quali sono stati i fattori a determinare la trasformazione
di un sistema di produzione domestico ad uno in cui il surplus diventa merce di scambio,
organizzato a livello di sub-clan o di villaggio, in cui dei leader di status elevato servono da nodi
attorno ai quali il surplus è prima accumulato e poi ridistribuito? Cosa impedisce ai capi di status
più elevato di assicurarsi il monopolio sugli oggetti di valore ed il controllo assoluto sul lavoro
degli isolani, ?
E per quel che riguarda le relazioni di genere, il potere delle donne è in ascesa o in diminuzione
rispetto a quello degli uomini? A tutte queste questioni relative alle trasformazioni inerenti al
sistema stesso se ne aggiungono altre, se consideriamo quelle dovute all’intrusione coloniale prima
(già presente seppure ignorata da Malinowski) e dalla realtà globale ora. Prima di poter considerare
le trasformazioni, però è necessario completare l’immagine del sistema nel suo complesso.
La struttura sociale delle Trobriand:
(1) Il sub-clan e la trasmissione matrilineare
Le Trobriand sono suddivise in territori. Ognuno di questi territori contiene dei luoghi sacri da cui,
nella mitologia locale, è apparsa un’antenata. Da lei sono discesi, in linea femminile, i membri di un
dala. Dato che non si conoscono precisamente i legami genealogici con l’antenata originaria, anche
se i gruppi sono fortemente corporativi, i dala sono detti sub-clan nella letteratura etnografica sulle
Trobriand. Un sub-clan Trobriand è un gruppo di discendenza matrilineare che consiste di:
1- uomini imparentati tramite le loro madri, le madri delle loro madri, le madri delle madri
delle madri, e così via;
2- le sorelle degli uomini, ed altre donne imparentate ad essi in maniera simile, nella linea
femminile
3- i figli di queste donne (ma non i figli degli uomini)
Nella concezione culturale delle Trobriand il dala è considerato come un entità che si rigenera in
perpetuo: la sostanza interiore di un bambino è considerato sangue dala, concepito attraverso
l’unione di una donna con uno spirito bambino il quale è a sua volta una reincarnazione di un
baloma, cioè di uno spirito di un morto, cioè di un antenato, che vive nel mondo sotterraneo, Tuma.
Un bambino appartiene al dala della madre, ma nel corso di tutta la vita sostiene anche i legami col
dala del padre.
“nelle Trobriand, i bambini sono creati e cresciuti dal proprio dala e dal proprio padre ed il suo
dala. I bambini traggono beneficio dal posto che occupano nel proprio dala e dalla posizione che
hanno in un altro dala…Siccome un bambino rappresenta un amalgama di essenza femminile e di
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approvvigionamento maschile, sia il dala di una donna che il dala di suo marito sono infusi di
nuova vita e nuovo potenziale. “(Weiner 1976:130).
Le nozioni culturali sul concepimento, e le nozioni sul tempo e sulla causalità che esprimono, non
sono idee astratte sull’universo; sono idee sui gruppi che sono cruciali in quanto è al loro interno
che si svolge la vita umana, e sui collegamenti tra gli umani nel tempo- umani che, per i Trobriand,
includono sia i vivi che i morti. Nelle Trobriand, come in molti altri gruppi della Melanesia, o del
mondo tribale, i lignaggi ed i clan sono concepiti come gruppi duraturi nel tempo, i cui membri
includono quelli vivi e quelli già morti.
Un dala è un gruppo corporato che controlla la terra. Gli interessi corporativi sulla terra sono gestiti
e controllati da un uomo chiamato (da Weiner, 1976:154) il “manager”. In teoria lo status di
manager passa da un manager al fratello minore fino alla morte dell’ultimo fratello di quella
generazione, allora passa al figlio maggiore della sorella maggiore del manager precedente. I questo
modo i figli delle sorelle minori di un gruppo di fratelli e sorelle, hanno poche possibilità di
diventare manager.
Il manager, insieme agli altri leader del sub-clan prendono collettivamente le decisioni riguardo
all’assegnazione e alla distribuzione dei doveri legati alle distribuzioni di ignami ai membri
femminili del gruppo ed ai loro mariti (alle sorelle ed ai mariti delle sorelle). Inoltre programmano e
organizzano i riti funerari ed altre dimostrazioni collettive del proprio prestigio e dei propri doveri
di parentela. In questo senso, anche se la successione è per linea femminile, il potere politico e
decisionale alle Trobriand è in mani maschili.
Il sistema sociale delle Trobriand, però, celebra almeno a livello simbolico la natura ed i poteri delle
donne, oltre al loro ruolo fondamentale nei legami tra le generazioni. Le donne hanno un ruolo
centrale nelle celebrazioni funerarie, e le donne che accumulano ricchezza e status godono di
grande prestigio e di poteri importanti. In confronto alle donne di molte società patrilineari, le
donne Trobriand sono relativamente autonome in termini della propria vita personale e della
sessualità.
Quando si sposano le donne vanno a vivere nel gruppo del marito. Questo pone un problema
organizzativo, se una moglie risiede col marito sulla terra del suo gruppo, ed i figli crescono lì,
come si fa a definire un dala come gruppo di discendenza matrilineare con interessi comuni nella
terra?
Per Malinowski i figli maschi delle donne al raggiungimento dell’adolescenza lasciano la casa
paterna per andare a vivere con i propri zii materni nel territorio del dala. Se questo comportamento
è ripetuto in tutte le generazioni significa che gli uomini adulti di ogni subclan vivono sul proprio
territorio, mentre i ragazzi crescono nel gruppo e sulla terra del padre. In realtà i modelli
residenziali sono molto più flessibili, data anche la classificazione dei parenti, quindi molti uomini
finiscono per vivere nel villaggio del padre, della madre del padre, o altri ancora. In realtà secondo
Weiner (1976:155) solo i ragazzi che aspirano alla posizione di manager devono lasciare il villaggio
del padre e trasferirsi sulla terra del proprio sub-clan con i fratelli della madre.
Ad ogni sub-clan è attribuito uno status: un sub-clan può essere comune o superiore, chiefly
all’interno di queste categorie, però, il prestigio ed il potere di ogni sub-clan varia
considerevolmente. A prescindere dallo status, comunque un sub-clan è un gruppo forte e duraturo,
con interessi corporativi nella terra e severamente esogamo.
Si dice che ogni sub-clan appartiene ad uno di quattro clan, l’importanza di questi clan è oscura,
quello che si sa è che i clan sono categorie sociali, composte da un gruppo di sub-clan associate
tradizionalmente tramite legami matrilineari e con associazioni simboliche con una specie di
animale o di uccello. I clan non sono gruppi corporati, e lo stesso clan può includere sub-clan di
rango alto e altri di basso rango. La regola dell’esogamia tra membri dello stesso sub-clan è, in
teoria, estesa ai membri dello stesso clan, in pratica esistono matrimoni tra membri dello stesso clan
ma sub-clan diversi. Relazioni sessuali tra i membri dello stesso clan, sempre che siano di sub-clan
diversi, sono considerati trasgressive ma non scandalose.
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Questo sistema schematizzato sembra semplice, equilibrato e duraturo nel tempo: un territorio che
contiene un villaggio dove vivono i membri maschi del gruppo. In realtà, come sempre, il vero
mondo sociale in cui vivono persone autentiche non è mai così ordinato. I gruppi di discendenza
possono crescere a dismisura e separarsi o diventare troppe esigui per essere sostenibili; gli interessi
le alleanze e le strategie degli individui e dei gruppi, per non parlare delle simpatie o delle
incompatibilità di carattere, fanno si che il sistema di residenza e di affiliazione nei gruppi sia più
flessibile del dogma.
(2) Le relazioni tra affini
Abbiamo già visto come il sistema delle distribuzioni del raccolto, urigubu, sia strutturato dai
rapporti tra affini. Ogni gruppo familiare, otre che lavorare per produrre il cibo per soddisfare i
propri bisogni di sussistenza, coltiva degli appezzamenti di ignami destinati ad altri gruppi familiari.
Da quando questi appezzamenti destinati agli scambi sono preparati, gli ignami che vi sono
coltivati, da talee fornite da coloro che ne beneficeranno, sono considerati già di proprietà delle
persone a cui sono destinati. La coppia di marito e moglie che li coltivano forniscono il lavoro.
Tipicamente ogni gruppo familiare è responsabile per la coltivazione di un appezzamento di ignami
da destinare al gruppo familiare del marito della sorella. Questi ignami saranno esibiti in depositi
costruiti appositamente e rappresenteranno visibilmente la generosità e la capacità di sostenere i
propri impegni del donatore. Questi farà dei doni minori (ceste di ignami) anche ai gruppi familiari
delle altre sorelle e ad altri membri del suo sub-clan, come i genitori. La distribuzione dei compiti
agli uomini del sub-clan, cioè l’allocazione di un appezzamento destinato ad ogni sorella del gruppo
e a suo marito, è presa collettivamente dal sub-clan. E’ il dala, quindi che collettivamente ha la
responsabilità di assolvere ai propri impegni di scambio reciproco con i propri membri di sesso
femminile, la cui fertilità permetterà la riproduzione del gruppo nella generazione successiva
(ricordiamo che il sub-clan è un gruppo di discendenza matrilineare, composto dagli uomini che
discendono in linea femminile dalla stessa antenata, dalle loro sorelle, le quali però sposano uomini
di altri gruppi e risiedono nel territorio del marito, e dai figli delle loro sorelle). Questi obblighi
verso le sorelle del sub-clan sono espletati con dimostrazioni pubbliche di produttività e generosità.
Nella descrizione di Malinowski questo sistema era chiaro: come una dote queste presentazioni
sembravano essere una ricompensa, in prodotti della terra del proprio dala, alle donne del sub-clan
che non vivono mai sulla quella terra: da bambine vivono sulla terra del dala del padre e da sposate
su quella del gruppo del marito. Questa spiegazione non è soddisfacente, però se si considera che il
più delle volte il dono non è rappresentato come il dono di un uomo a sua sorella, ma come il dono
di un uomo ad un altro uomo: il marito della sorella. Inoltre, se andiamo a considerare la realtà dei
fatti, al di là del modello teorico, c’è una grande flessibilità nella scelta del luogo di residenza di una
famiglia, e il risultato è che la maggior parte degli uomini che coltivano un appezzamento per il
gruppo familiare della sorella non risiedono nel villaggio o nel territorio del proprio sub-clan, e
l’appezzamento coltivato per urigubu, non è quindi terra del sub-clan.
In realtà sono gli stessi sub-clan ad essere uniti in una relazione di alleanza dal matrimonio. Un
matrimonio è un atto politico che stabilisce un’unione formale ed una relazione contrattuale tra i
gruppi corporati che dura quanto il matrimonio, ed è questo legame tra i sub-clan che viene
riaffermato annualmente tramite gli scambi di ignami del raccolto. Da un punto di vista simbolico i
doni del raccolto sottolineano sia l’unità degli uomini di un sub-clan che lavorano collettivamente
per mantenere i propri impegni con gli affini, che l’unità tra i membri maschi e femmine dello
stesso sub-clan. Questi doni, però implicano anche un elemento di subordinazione in cui il sub-clan
del marito assume una posizione dominante (in quanto donatore) rispetto a quello della moglie. Le
relazioni create attraverso il matrimonio legano gruppi familiari e sub-clan in una commessa rete di
obblighi e pretese, di cui l’urigubu ed il dono di oggetti valore con cui il ricevente degli ignami
riconosce il lavoro del fratello della moglie sono solo un esempio. Altri scambi importanti tra i
gruppi familiari ed i sub-clan avvengono in tutte le occasioni legate al ciclo vitale dei membri del
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gruppo: al matrimonio, al concepimento e alla nascita dei figli, alla morte. Tutti questi scambi
legano gli affini in relazioni fatte di obblighi reciprochi e mutua dipendenza.
(3) Il villaggio
Data l’organizzazione dei Trobriand in gruppi corporati matrilineari, ognuno associato ad un
territorio specifico, il caso più semplice è che un villaggio sia come il ‘quartier generale’ di un
singolo sub-clan. In questo caso la maggior parte degli uomini del gruppo e le loro mogli, vivono in
quel villaggio, mentre le donne del sub-clan vivono altrove con i rispettivi mariti.
In realtà, però, molti villaggi contengono segmenti di due o più sub-clan. Possono esserci villaggi
con un sub-clan principale a cui si sono aggregati segmenti di altri sub-clan, o villaggi costituiti da
due sub-clan diversi.
In questi casi in cui sub-clan e villaggio non coincidono, è il villaggio, non il sub-clan, a costituire il
contesto sociale principale nella vita dei Trobriand. Sono le relazioni forgiate attraverso la
condivisione della vita e del lavoro quotidiano, a fornire il contesto per la vita di ogni individuo e
famiglia.
L’importanza del villaggio emerge nel contesto dell’orticoltura, infatti quando si tratta di
organizzare squadre di lavoro collettive , è il villaggio ad organizzarsi collettivamente non il subclan.
La divisione degli spazi nei villaggi Trobriand riflettono sia la sua unità ad un livello (rispetto
all’esterno), che la parziale separazione tra i diversi segmenti di sub-clan che lo compongono, in
quanto i membri dei diversi gruppi costruiscono le loro case in un settore diverso del cerchio di
case.
(4) L’organizzazione politica
I villaggi della stessa area sono legati tra loro da numerose alleanze matrimoniali, che nel tempo
cambiano ma alla lunga forgiano tra i villaggi un’ulteriore livello di raggruppamento sociale.
Ogni villaggio ha un leader, il suo ruolo può essere simile a quello dei Big man generalmente
associati alle strutture politiche melanesiane, ma nel caso delle Trobriand c’è una differenza
cruciale, in quanto esiste una nozione di rango che pervade l’ideologia. Il rango non concerne gli
individui, ma i sub-clan. Questi possono essere di rango comune o di rango associato alla funzione
del capo (chiefly, o guyau). Quindi ogni villaggio è controllato da un sub-clan che può essere di
rango comune o guyau, contemporaneamente però, gli stessi sub-clan di rango superiore sono
costantemente in lotta tra loro per ottenere maggior prestigio e potere: esiste quindi una scala di
valore associata ai diversi sub-clan di alto rango, questa scala è di pubblico dominio pur non
essendo ufficiale, fissata nel tempo, o sempre chiara e netta.
La figura che più assomiglia al big-man classico in questo sistema è il leader di un villaggio di
rango comune; egli ottiene la propria posizione manipolando il potere ed i beni, e dimostrando
saggezza nell’esercitare la propria leadership. La differenza sta nel fatto che sia lui che il gruppo di
cui è a capo, fanno parte di un sistema politico più allargato che include sub-clan di alto rango. I
leader dei villaggi guyau, infatti hanno un vantaggio importante, il diritto alla poligamia.
Un capo con sei mogli, per dire, riceve al momento del raccolto i tributi in ignami dai sub-clan di
ognuna delle mogli, e ricordiamo che gli ignami significano prestigio. Le presentazioni del raccolto
diventano, nel caso di questi leader di alto rango, una forma di tributo politico. Più un sub-clan è
potente, più sono i sub-clan che si trovano in una posizione politicamente subordinata ad esso a
causa delle alleanze matrimoniali strategicamente contratte. Mandare una donna del proprio subclan a sposare un leader di un clan di alto rango è di per se un primo atto di tributo, anche se come
sottolinea Annette Weiner questo atto è reciprocato dal marito di alto rango che deve fornire le
gonne in fibra e i fasci di foglie per i doni delle cerimonie funerarie.
Il rango dei capi dei sub-clan guayau è simbolicamente rappresentato dalle piattaforme, più alte
delle altre nel villaggio, in cui siedono. Gli uomini del sub-clan comuni devono mostrare deferenza
anche fisicamente a questi leader. I leader di un villaggio di alto rango simbolizza lo status ed il
prestigio del suo sub-clan, e contemporaneamente ne guida le decisioni e le politiche e le esprime
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pubblicamente. Questi capi possono mobilitare i loro alleati in caso di conflitto per mantenere o
migliorare la posizione del proprio sub-clan in relazione a quella di gruppi rivali.
I capi importanti assumono il ruolo principale nelle spedizioni di kula, in questo modo ogni
passaggio di vaguy’a attraverso le Trobriand serve anche convalidare o modificare l’equilibrio di
potere e prestigio tra i sub-clan e i raggruppamenti di livello superiore.
Il leader del sub-clan di rango superiore e più potente di un raggruppamento di livello superiore,
attraverso la manipolazione delle alleanze matrimoniali e l’oculata ridistribuzione dei beni che
convoglia, si trova ad agire come il leader dell’intero raggruppamento. Il suo ruolo è simile a quello
del leader di un villaggio guyau, ma su una scala più grande. Anche in questo caso i suoi poteri e la
sua posizione non sono assoluti. Se li è conquistati in virtù della volontà dei sub-clan che
rappresenta e del fatto che numerose persone sono obbligate a mostrargli deferenza e a prestargli
supporto grazie all’abilità con la quale egli ha incanalato, accumulato e ridistribuito beni materiali e
simbolici.
Il rango di un leader riflette quello del suo sub-clan, la sua autorità è quella che gli viene accordata
dal suo gruppo, ed egli contratta i suoi matrimoni e riceve tributi materiali come espressione
simbolica del prestigio e del poter del suo gruppo. Però la rete di matrimoni strategici dev’essere
ricostruita da zero da ogni aspirante leader guyau, e l’equilibrio del potere e del prestigio, basati sul
successo nel manipolare gia scambi, è in continuo movimento.
Secondo Weiner (1976:45) i leader dei sub-clan di alto rango hanno gli stessi problemi dei big-men
nel costruire e mantenere la propria base politica, ma hanno tre caratteristiche che li differenziano
dagli altri leader della regione del Massim e li differenziano da un lato dai big-men e dall’altro dai
capi polinesiani:
1- I capi Trobriand devono essere di alto rango, il che non esclude competizione tra diversi
aspiranti o la necessità di ricostruire una rete di relazioni per sostenere il proprio potere, ma
esclude dalla competizione gli uomini di rango comune.
2- La separazione di questi leader di alto rango è simbolicamente rimarcata da tabù sociali e
fisici e dagli accessori decorativi riservati a loro
3- Solo i pochi tra i guyau ad aver raggiunto la posizione di leader del proprio villaggio
possono prendere più di una moglie, quindi questa è una prerogativa legata alla posizione
ottenuta, più che al rango ereditato (ancora una volta però il rango preclude gli uomini
ordinari dall’ottenere la posizione).
In conclusione lo stile dei capi Trobriand ricorda le dinamiche dei big-men melanesiani, ma il
dogma dei diritti ereditari attribuisce ad un numero limitato di uomini Trobriand il potenziale
accesso a più risorse. Risorse che sono necessarie per competere nell’ambito del prestigio e del
potere per poter aspirare alla posizione di capo.
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Le Highlands della Nuova Guinea
La regione delle Highlands della Nuova Guinea è stata una delle ultime regioni della Melanesia, e
del mondo, ad entrare in contatto con gli occidentali. Protetta dall’impenetrabilità delle montagne,
della foresta tropicale e delle paludi, è stato solo negli anni 1930 che ci si è resi conto delle
numerose popolazioni che abitavano le valli e gli altipiani all’interno dell’isola. I primi esploratori a
raggiungere questa zona, i fratelli Leahy, furono sorpresi di trovare gruppi indigeni così numerosi,
dall’organizzazione politica così strutturata, e con un sistema agricolo e di allevamento così
avanzato. Da parte loro i Highlanders furono in un primo tempo stupiti e spaventati dall’arrivo di
uomini bianchi, che scambiarono per gli spiriti dei morti, ma ben presto i più intraprendenti
compresero i vantaggi che questi stranieri portavano, tra questi erano molto apprezzate le grandi
quantità di oggetti di valore in conchiglia, portati dalle zone costiere, ed utilizzate per pagare chi
lavorava per i nuovi venuti o forniva loro cibo o altri servizi.
In tempi precedenti al contatto i Higlanders entravano in possesso di oggetti ricavati dalle
conchiglie tramite una lunga serie di scambi e baratti, che li collegava indirettamente alle
popolazioni più lontane. Questi oggetti erano rari nelle Highlands e di molto valore, venivano
utilizzati come decorazioni rituali e scambiati in occasioni importanti, come i matrimoni e la morte.
Associati al prestigio, erano molto desiderabili. Non erano solo gli oggetti tradizionali ad interessare
i Highlanders, ovviamente, anche i coltelli e le asce di metallo, il cibo in scatola, lo zucchero ed il
tè. Data l’altitudine, le Highlands si rivelarono adatte alle piantagioni di caffè, oltre ad essere
relativamente al sicuro dalla malaria che affligge le zone costiere, fluviali e paludose della Nuova
Guinea.
Dalla fine della seconda guerra mondiale la zona delle Highlands si è aperta allo sviluppo
economico, alle missioni, ed alla ricerca antropologica. Proprio per il fatto che avevano avuto pochi
anni di contatto con la realtà coloniale, le popolazioni di queste zone erano particolarmente attraenti
agli antropologi che ricercavano una cultura “autentica”, incontaminata da influenze esterne.
Ovviamente non era solo il gusto per l’esotico ad attirare gli etnografi in questa zona. I temi trattati
dalle numerose ricerche che si sono tenute in questa parte della Nuova Guinea includono: le analisi
delle forme di affiliazione ai gruppi, e della struttura dei gruppi sociali, le caratteristiche dei modelli
di leadership, l’importanza degli scambi cerimoniali, e le relazioni di genere. In un certo senso c’è
stata una tale produzione di materiale etnografico su questa area ed un tale afflusso di antropologi in
quest’area che, secondo Bruce Knauft (1999), l’intera Melanesia tendeva ad essere percepita in
termini derivati dall’etnografia delle società delle Highlands, considerate come la Melanesia
“autentica”.
Ironicamente, però questa è anche stata un’area in cui lo sviluppo economico è avvenuto più
rapidamente, ed in cui le trasformazioni sociali e culturali si sono diffuse rapidamente. Ora anche
gli studiosi delle Highlands si occupano di fenomeni di trasformazione culturale.
Primi contatti
“ Li ho visti con i miei occhi quando sono arrivati” dice Dirupano Eza’e “ E non l’ho dimenticato.
Noi vivevamo nel vecchio villaggio ora. Mia madre mi aveva svezzato, io camminavo, andavo in
giro come qualunque bambino. Ero con mio padre quando li ho visti per la prima volta” (4)
Questa testimonianza è stata raccolta negli anni 80 da due antropologi e registi australiani, Bob
Connolly e Robin Anderson (1987), continua:
“ Ero così terrorizzato che non riuscivo a pensare e piangevo senza controllo. Mio padre mi trascinò
per la mano e ci nascondemmo dietro dell’erba kunai molto alta. Poi lui si alzò per vedere gli
uomini bianchi” (6)
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I bianchi erano tutti vestiti di bianco e marciavano in fila accompagnati da portatori indigeni
reclutati tra le popolazioni della costa, facevano parte della spedizione di Michael Leahy, cercatore
d’oro australiano che condusse le esplorazioni delle Highlands tra il 1930 e il 1934, aprendo la
strada al contatto di queste popolazioni con il mondo esterno. Leahy portava con sé macchine
fotografiche e pellicole, e scriveva un diario tutti i giorni. Questo materiale permise a Connolly e
Anderson di rintracciare alcuni uomini e donne delle Highlands ripresi dagli esploratori, e
intervistarli sulle loro impressioni di quei primi bianchi.
“ Quando se ne furono andati la gente si sedette e cominciò a sviluppare le storie. Non sapevano
niente degli uomini con la pelle bianca. Noi non avevamo visto i luoghi lontani. Conoscevamo solo
questa parte delle montagne. E pensavamo di essere gli unici uomini viventi. Pensavamo che
quando una persona muore la sua pelle diventa bianca e lui va al di là del confine in ‘quel luogo’- al
posto dei morti. Così quando gli stranieri arrivarono noi pensammo “ Ah questi uomini non
appartengono alla terra. Non uccidiamoli, sono i nostri stessi parenti. Quelli che sono morti in
precedenza e sono diventati bianchi e ritornati.” (6).
Secondo Edward Schieffelin (Scheffelin and Crittenden 1991) quando gli australiani e gli abitanti
della Nuova Guinea si incontrarono per la prima volta, non ci fu effettivamente un incontro tra i
loro rispettivi mondi, perché ognuna delle due parti rappresentava contesti culturali e storici molto
diversi. Anche la qualità dell’Alterità che ognuno sentiva nell’altro era differente, e in un certo
senso ogni incontro può dirsi composto di due eventi separati ( 1991:4).
Le situazioni di primo incontro rappresentano un momento particolare e intrinsecamente
interessante dal punto di vista antropologico, e forse la Nuova Guinea è uno dei pochi luoghi in cui
è stato possibile farlo, data proprio la sua storia coloniale recente.
Secondo Schieffelin sono almeno tre le dimensioni significative dei primi incontri:
1. La prima è la dimensione esistenziale, il crudo shock dell’alterità. Questa dimensione è in
qualche misura sempre presente nell’incontro con l’altro, ma è particolarmente toccante
nelle situazioni di primo contatto, in cui si è confrontati con la paradossale familiarità
dell’alieno: un essere che sembra un umano ma allo stesso tempo è così radicalmente
diverso da far sorgere dei dubbi. Questa esperienza di confusione e di incertezza sulla
validità delle proprie categorie per comprendere questa nuova forma di umanità ha una
durata limitata, è propria del momento stesso del contatto, e viene superata nel momento in
cui si fa appello alle proprie categorie culturali per dare una spiegazione razionale alla
propria esperienza. Ma in quel momento abbiamo la percezione dei confini epistemologici
della nostra comprensione sociale, una percezione che ci lascia una sensazione di fascino e
insieme di paura. Questa paura è più acuta e problematica se accompagnata dalla
consapevolezza di inferiorità e minaccia.
E’ probabile che questo aspetto sia stato meno problematico per gli esploratori europei che
per gli indigeni. Gli esploratori erano abituati ad incontrare altri popoli ed erano favoriti
dall’elemento sorpresa, inoltre avevano già a disposizione nel proprio bagaglio culturale la
categoria”nativi” per comprendere coloro che incontravano sulla loro strada, una categoria
di subordinazione sociale che serviva a rassicurarli, a dissipare il senso di alterità. Gli
indigeni erano spesso colti di sorpresa da questi incontri, e non avevano una categoria
sociale pre-esistente per razionalizzare l’apparizione nel loro territorio degli esploratori. Per
loro il confronto con l’alterità era molto più problematico, percepivano che questi esseri così
alieni avevano dei poteri, e sospettavano che fossero esseri sovrannaturali. La sorpresa e la
confusione si dipingeva sui loro volti, e diventavano fonte di divertimento e senso di
superiorità per gli europei.
2. La seconda dimensione dei primi incontri è quella socio-culturale. L’incontro è sempre
plasmato dalle strutture politiche e sociali locali e inquadrato dai valori e dalle categorie
culturali prevalenti.
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Dal punto di vista antropologico la domanda più semplice è: cosa pensavano che stesse
succedendo i protagonisti, dalle due parti, dell’incontro? Per rispondere a questa domanda
bisogna far riferimento, da un lato ai sistemi di valori, credenze e categorie di pensiero delle
due culture a confronto, e dall’altro alla struttura di relazioni sociali e politiche che sono
servite e modellate dai valori culturali, e chiedersi come sono intervenuti questi elementi
nell’incontro specifico.
3. La terza dimensione è quella storica, che comporta anche l’elemento della contingenza
storica: come particolari incidenti circostanziali, strutture di relazioni, personalità individuali
particolari, e scopi differenti sono coinvolti nel dare forma ad una serie di eventi in un
momento specifico.
Per poter comprendere i primi incontri culturali è necessario considerare sia gli aspetti storici che
etnografici dell’esperienza. Gli eventi dei primi incontri sono il risultato di una complessa
interazione tra percezioni culturali differenti e contesti storici completamente estranei dal punto di
vista di persone in posizioni diverse. L’interesse è per i processi attraverso i quali due gruppi di
persone da situazioni così radicalmente differenti si comprendono a vicenda, rispondendo gli uni
alle mosse degli altri senza sapere con certezza cosa stessero pensando o volessero fare o cercassero
di dire.
L’alterità umana comunque non è mai completamente altra, è sempre il prodotto di condizioni
sociali culturali e storiche, ed è mediata dall’ umanità comune, oltre ad essere condizionata dalla
struttura stessa dell’incontro.
Ma l’interesse antropologico per le situazioni di primo incontro va oltre al momento stesso in cui è
avvenuto. Le modalità dell’incontro hanno effetti duraturi sui partecipanti e sulle loro culture:
influiscono sulle percezioni di loro stessi e dal proprio mondo dei partecipanti. Inoltre gli eventi
dell’incontro potevano presagire o preparare la strada e determinare la direzione delle relazioni e
interazioni tra i due gruppi che sarebbero seguite.
I Tsembaga Maring, agricoltori itineranti: cultura e ambiente
I Maring sono un gruppo tribale che popola due grandi vallate fluviali delle Highlands della Nuova
Guinea, esistono circa venti gruppi locali che parlano la lingua Maring, la loro popolazione varia da
un centinaio a 900 persone, e sono considerati un esempio classico di agricoltori itineranti.
I Tsembaga Maring studiati e descritti da Rappaport (1968) sono uno di questi gruppi locali, con
circa 200 membri, che abitano un territorio di 8,3 chilometri quadrati sulle sponde del fiume
Simbai. Il loro territorio è molto ripido e sale rapidamente dalle sponde del fiume a 670 metri a una
cresta montuosa a 2194 metri, ma la porzione che si può coltivare si ferma attorno ai 1500 metri.
Durante l’anno del lavoro sul campo di Rappaport, il 10% del totale territorio sfruttabile era
coltivato, alcune coltivazioni durano due o tre anni. Secondo Rappaport la terra dei Maring ha un
potenziale di sostenere 200 persone per acro (4.047 metri quadrati), mentre la densità effettiva
durante la sua ricerca era di 124.
L’orticoltura fornisce il 99% della dieta quotidiana dei Maring, che mangiano anche maiali
selvatici, marsupiali, rettili, e larve cacciati e raccolti nella foresta circostante. Un appezzamento
tipico è coltivato con gli alimenti base, cioè patate dolci e taro, ma contiene anche altri prodotti
come ignami, manioca, e banane, oltre a numerosi legumi, verdure e canna da zucchero. Queste
piante crescono una accanto all’altra riproducendo in miniatura la varietà vegetale della foresta
pluviale.
Per poter cominciare a coltivare un appezzamento, una famiglia Maring deve abbattere la foresta
secondaria ricresciuta dall’ultima volta che questo è stato coltivato. Gli uomini e le donne lavorano
insieme per rimuovere il sottobosco; ora utilizzano machete di metallo, nel periodo precedente al
contatto avevano solo asce di pietra. Dopo circa due settimane di lavoro gli uomini abbattono la
maggior parte degli alberi, i più grandi sono lasciati in piedi, ma sono uccisi rimuovendo
interamente la corteccia, per evitare che la chioma faccia ombra sull’area da coltivare. Secondo una
stima di Rappaport lo sforzo impiegato per pulire il sottobosco è di due volte e mezzo superiore a
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quello necessario per abbattere gli alberi. Il passaggio successivo, è quello di recintare gli orti per
tenerne fuori i maiali, sia domestici che selvatici. Per minimizzare questa parte del lavoro i Maring
tendono a selezionare e coltivare appezzamenti vicini: questa fase del lavoro richiede un
investimento energetico per metro equivalente a metà di quello necessario per la pulizia iniziale del
sottobosco. Anche questo è compito degli uomini. Quando la vegetazione tagliata si è seccata al
sole, l’appezzamento viene bruciato e si strappano le erbacce, questo lavoro è eseguito da uomini e
donne.
La preparazione di un appezzamento richiede un investimento, in termini energetici, sostanzioso ma
relativamente breve. In contrasto, mantenerlo libero dalle erbacce per tutto il tempo in cui le piante
coltivate maturano richiede uno sforzo costante, più di tre volte l’energia totale utilizzata per la
preparazione iniziale dell’appezzamento. Raccogliere e trasportare il raccolto sono altre fasi di
lavoro che richiedono un investimento energetico consistente, anche se sono compiti che procurano
un maggior senso di soddisfazione. Rappaport stima che ogni acro coltivato richieda un
investimento energetico pari a 300.000 calorie, e fornisce circa 5 milioni di calorie in cibo, un
ritorno poco superiore di 16 a 1. In annate più tipiche di quella analizzata da lui, in cui gli orti erano
disseminati più del solito, il ritorno energetico può raggiungere una relazione di 20 a 1. Da un punto
di vista comparativo, questa relazione è più del doppio quella calcolata da Lee (1969) per i
cacciatori-raccoglitori !Kung del Sud Africa. E’ importante ricordare che queste cifre non indicano
necessariamente che i cacciatori- raccoglitori devono lavorare di più per assicurare la propria
sopravvivenza, come dimostrato dal modello dell’affluenza primitiva di Sahlins. Mentre i Maring
investono molta energia per allevare i maiali i !Kung ottengono le proteine con la caccia, e
sopravvivono con meno calorie, mentre i Tsembaga Maring devono assumere molte calorie
contenute nei tuberi ricchi di amido ma di basso contenuto nutritivo. Quindi, anche se il progresso
tecnologico dei Maring rispetto ai !Kung gli permette di raddoppiare il ritorno energetico, questo
non implica che debbano lavorare meno per assicurarsi la sopravvivenza.
Un fattore importante nelle strategie attuate dagli orticoltori Maring è il numero di maiali da
allevare. Se una famiglia deve nutrire solo un paio di maiali, è sufficiente coltivare un
appezzamento di medie dimensioni ad un’altitudine media, per nutrire sia i maiali che la famiglia.
Quando il numero di maiali aumenta una famiglia deve coltivare un appezzamento ad altitudini più
elevate, destinato quasi interamente alle patate dolci per uomini e maiali, mentre un appezzamento
più vicino al fiume viene coltivato a taro ed ignami che saranno consumati solo dagli umani. Questo
ciclo di allevamento dei maiali è legato alle attività rituali e politiche dei Tsembaga Maring: più
avanti vedremo come secondo Rappaport questi tre aspetti della cultura dei Tsembaga rappresentino
un sistema complicato ed equilibrante di adattamento che permette loro di sopravvivere in un
ambiente difficile.
Dal punto di vista sociale, l’organizzazione del lavoro nell’agricoltura ‘taglia e brucia’ ha diverse
conseguenze:
• La terra assume un’importanza fondamentale per i gruppi sociali. La difesa e la conquista
della terra da gruppi vicini sono eventi comuni tra i Maring. Anche in assenza di guerre di
occupazione il tema dei diritti sulla terra è costantemente dibattuto e contestato. Come per
molte popolazioni della Melanesia, il lavoro di tagliare la foresta primaria per convertirla in
territorio coltivabile è uno sforzo enorme, e la crescita secondaria costituisce una proprietà,
controllata corporativamente dai discendenti dei primi colonizzatori umani di un territorio.
• La possibilità di produrre e accumulare surplus. Solo alcuni dei prodotti tipici
dell’agricoltura tropicale possono essere conservati ed accumulati: tra i prodotti coltivati dai
Maring solo gli ignami offrono questa possibilità. Gli altri prodotti non possono essere
accumulati per conservarli, ma possono comunque essere prodotti in quantità di gran lunga
superiori a quelle necessarie per la mera sopravvivenza: banane, manioca, taro e patate
dolci, oltre ai maiali sono accumulate per scambi cerimoniali e feste.
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La maggior parte del lavoro quotidiano necessario per la coltivazione è compito delle donne,
agli uomini sono richiesti degli sforzi consistenti ma sporadici, legati alle attività più pesanti
come abbattere gli alberi e costruire le recinzioni.
• Un gruppo familiare, composto da moglie marito e figli, costituisce un unità di produzione
di alimenti in grado di provvedere ai propri bisogni di sussistenza, ma la possibilità di
produrre un surplus e ‘convertirlo’ in maiali che costituiscono un capitale sociale, comporta
anche la possibilità che il controllo maschile sul lavoro delle donne diventi uno strumento
politico. Chi controlla il movimento ed il lavoro delle donne attraverso il finanziamento dei
matrimoni, o attraverso la poligamia, può aspirare al controllo politico.
L’etnografia di Rappaport è conosciuta, oltre che per le descrizioni dettagliate dei processi
produttivi che assicurano la sussistenza ai Tsembaga Maring, per la sua tesi di ecologia culturale,
Rappaport vuole dimostrare che la cultura Maring contenga una razionalità nascosta di natura
ecologica: le credenze, i rituali, ed il sistema sociale sarebbero risposte alle pressioni ambientali del
territorio in cui essi vivono.
L’analisi di Rappaport inizia dal ruolo dell’allevamento dei maiali nella vita dei Tsembaga.
Normalmente, quando solo pochi maiali sono allevati, questi sono tenuti liberi durante il giorno, e
fanno ritorno di sera alla case del proprietario, dove sono nutriti con le patate dolci più scadenti
dell’appezzamento familiare. Questi maiali sono sacrificati agli antenati, e consumati, solo in tempi
di crisi, quando c’è un malato da curare o in tempo di guerra con altri gruppi. Secondo Rappaport
questi sacrifici hanno conseguenze che sono fisiologicamente vantaggiose dal punto di vista
ecologico, anche se i partecipanti non ne sono coscienti. Quando un maiale è sacrificato agli
antenati per promuovere la guarigione di un malato, il paziente, e i suoi parenti, ricevono proteine di
alta qualità che sono molto utili in tempi di stress fisico, soprattutto considerando che la dieta di
tutti i giorni dei Maring è marginalmente povera di proteine. Lo stesso discorso vale per i maiali
sacrificati e consumati dai guerrieri in tempi di conflitti tribali.
Più interessanti sono le conseguenze ecologiche dei complessi cicli rituali che comportano la
crescita della popolazione suina a livelli molto più elevati del normale. Questi cicli vanno
considerati in relazione alle relazioni politiche dei Maring.
Le relazioni tra i gruppi vicini si alternano tra periodi di pace e di ostilità. Quando comincia un
conflitto, normalmente tra gruppi confinanti, le lotte continuano sporadicamente per qualche
settimana. Normalmente le forze si equivalgono ed il conflitto si conclude senza grandi
cambiamenti, ma quando sopravviene una vittoria decisiva i vinti sono scacciati e si rifugiano da
parenti appartenenti ad altri gruppi locali, le loro case, gli orti ed i maiali sono distrutti, ma il loro
territorio non può semplicemente essere occupato dai vincitori, è ancora “custodito” dagli antenati
degli sconfitti.
Alla fine delle ostilità il gruppo che non è stato cacciato dal proprio territorio esegue un rito in cui
un cespuglio magico, rumbim, è piantato e tutti i maiali adulti sono uccisi e dedicati agli antenati.
La maggior parte della carne è distribuita agli alleati dei gruppi vicini che hanno partecipato ai
combattimenti. Con questa azione si rimuovono i tabù imposti durante i conflitti, ma i debiti
materiali e spirituali verso gli alleati e verso gli antenati sono ancora da ripagare. Il gruppo entra in
una fase di tregua, ma di indebitamento e di pericolo, che avrà termine solo quando si potrà
sradicare il rumbim in occasione di una festa kaiko. L’organizzazione di questa festa necessitava
l’allevamento di numerosi maiali, uno sforzo che richiede sforzo e tempo, fino a dieci anni.
Con la crescita della mandria di maiali allevati, lo sforzo per nutrirli comporta l’espansione degli
appezzamenti di patate dolci, ed un grosso investimento energetico. Rappaport ha calcolato che la
mandria di 169 maiali allevata dai Tsembaga Maring prima di un festival kaiko consumava il 54%
delle patate dolci prodotte e l’82% della manioca. Dopo il festival, gli appezzamenti coltivati furono
ridotti del 36,1%.
Sono soprattutto le donne, responsabili per il nutrimento delle mandrie sempre più numerose, a fare
pressione perché il cespuglio sacro sia sradicato e i maiali uccisi; la densità di maiali provoca anche
•
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litigi e lotte quando questi riescono a penetrare nei campi attraverso i recinti, per minimizzare questi
inconvenienti, gli insediamenti umani si disperdono maggiormente nel territorio.
All’inizio del festival kaiko si piantano dei picchetti lungo il nuovo confine. Se il gruppo sconfitto e
disperso è rimasto altrove, senza ritrovare la forza per rioccupare i propri territori piantando il
proprio rumbim, i vincitori possono estendere i propri confini ad incorporare il territorio
conquistato, in assenza di un rumbim il territorio risulta ufficialmente inoccupato. Inoltre gli
sconfitti che si sono rifugiati presso altri gruppi hanno nel frattempo partecipato alla vita rituale di
quei gruppi e, soprattutto piantando i rumbim altrove, hanno spostato i propri antenati e la propria
affiliazione ai gruppi che li ospitano nei loro territori.
Quando il rumbim è sradicato, molti maiali (32 sui 169 nell’evento descritto da Rappaport) sono
macellati e distribuiti tra gli alleati ed i parenti acquisiti appartenenti ad altri gruppi. Il festival
continua per un periodo di circa un anno. Il gruppo in questione ospita periodicamente gruppi
confinanti amici, per danzare e distribuire loro del cibo. Secondo Rappaport anche le danze hanno
una funzione ecologica, funzionano da rito del corteggiamento ma soprattutto servono a dimostrare
agli altri gruppi, potenziali alleati, la prestanza del proprio gruppo e promuovere la convenienza
dell’alleanza.
Rappapport nota che gli inviti alle danze sono fatti individualmente ad amici, affini e parenti di altri
gruppi, allo stesso modo in cui sono estesi gli inviti a lottare. Danzare e lottare per i Maring sono
attività equivalenti: i riti che precedono le due attività sono simili, e si dice che chi viene per
danzare viene anche per lottare. La consistenza di un gruppo di danzatori è quindi considerata una
misura del contingente di guerrieri su cui un gruppo potrà contare nel prossimo conflitto.
Dopo una nottata di danze i partecipanti possono barattare tra loro il sale, gli attrezzi di pietra e gli
oggetti simbolici di prosperità, quindi il kaiko, fornisce anche l’opportunità di far circolare beni che
scarseggiano. Il kaiko si conclude con un sacrificio in massa dei maiali adulti rimanenti, che sono
distribuiti tra i membri degli altri gruppi selezionati (parenti e alleati). Il festival osservato da
Rappaport ha portato porzioni di carne di maiale a due o tremila persone appartenenti a 17 diversi
gruppi locali. In occasione di questo festival ci sono anche state distribuzioni di beni parallele,
legate alle trattative matrimoniali.
Una volta concluso il festival kaiko il conflitto poteva riaprirsi, e questo normalmente accadeva, ma
se la pace si manteneva per un periodo sufficientemente lungo da permettere l’allevamento di una
seconda mandria di maiali, si poteva organizzare un secondo festival. In teoria questo significava
che i due gruppi che tradizionalmente si lottavano avevano fatto pace.
Secondo Rappaport questi cicli rituali hanno una serie di conseguenze di cui i Maring stessi non
sono coscienti, e che servono a preservare l’equilibrio dell’ecosistema, mantenere relazioni
bilanciate tra i gruppi vicini, ridistribuire la terra in relazione alla popolazione, e distribuire le
risorse, inclusi i beni scarsi che sono barattati e le proteine animali.
“I cicli rituali… hanno un ruolo importante nel regolare le relazioni di questi gruppi sia con i
componenti non-umani del loro ambiente immediato che con i componenti umani del loro ambiente
meno immediato” (Rappaport 1968: 182).
La prospettiva ecologica sulla cultura è complessa, è stata utilizzata per fornire spiegazioni razionali
a comportamenti e credenze che sembrano irrazionali: interpretazioni simili sono state usate anche
per spiegare le credenze, comuni in Nuova Guinea e in Melanesia generalmente, sui poteri
contaminanti delle donne, inoltre sono serviti come spunto per il materialismo culturale di Marvin
Harris, una teoria sulle trasformazioni socioculturali.
Il problema con entrambe queste prospettive sta nell’assumere che gli esseri umani siano passivi nel
loro rapporto con l’ambiente, e portino aggiustamenti ai propri sistemi rituali, alla propria
economia, ed alle proprie credenze inconsciamente, in risposta alle pressioni ambientali che
incontrano. Questa visione non è sostenibile, gli uomini e le donne, come abbiamo già visto nel
caso delle Trobriand, organizzano il proprio lavoro per raggiungere i propri scopi, definiti
culturalmente.
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Il secondo problema di questo approccio è quello di considerare una cultura così com’è al momento
in cui è osservata da un antropologo come un sistema in una situazione di equilibrio, sia interno che
con l’ambiente, che con gli altri gruppi. Non è possibile determinare se la cultura in questione sia
effettivamente operando efficientemente nel proprio ambiente con osservazioni sincroniche, solo
con uno studio a lungo termine sarebbe possibile affermare, per esempio, che i gruppi Maring sono
ecologicamente adattati al loro ambiente, e che le loro pratiche non li portino verso l’estinzione,
come abbiamo visto per i Fore e i Marind Anim.
Inoltre le trasformazioni nel mondo di tutte queste popolazioni, anche le più remote, che sono
avvenute nel corso degli ultimi cinquant’anni, rendono questo genere di studio in cui una cultura è
considerata un microcosmo isolato ed autosufficiente, già difficile da sostenere in tempi precoloniali, obsoleto.
Maring e Trobriand : Un’analisi comparativa nei termini dell’antropologia economica
Negli anni 1970 fino alla fine dei 1980 vari antropologi (Terray, Meillasseux, Sahlins, Godelier) si
sono cimentati nell’ applicazione di termini analitici derivati dall’analisi economica marxista ai
sistemi economici e politici delle società tribali. Questa analisi comparativa nei termini neo-marxisti
ci permette di capire fino a che punto questi termini analitici, sviluppati per lo studio di società
feudali e capitaliste, possono servire a spiegare il sistema delle società tribali.
Anche I Maring sono organizzati in gruppi di discendenza che funzionano corporativamente nel
gestire i diritti alla terra. Nel caso dei Maring però la discendenza è calcolata in linea maschile.
Inoltre nel caso dei Maring l’organizzazione del lavoro agricolo non è su base comunitaria, ogni
famiglia disbosca, pulisce, prepara, pianta e poi raccoglie i frutti dei propri appezzamenti
indipendentemente dagli altri membri del villaggio o del clan. Il prodotto principale per i Maring
non è l’igname ma la patata dolce. A differenza degli ignami le patate dolci non possono essere
conservate a lungo, e devono essere raccolte e ripiantate continuamente per assicurare una
continuità nell’approvvigionamento. Eppure anche i Maring ne producono molte di più di quante ne
possano consumare, il surplus in questo caso non è immagazzinato o regalato, ma usato per nutrire
i maiali.
Quindi per i Maring il lavoro ed il prodotto in eccesso alle loro necessità di mera sopravvivenza
sono usati per allevare maiali che sono necessari per gli scambi e le feste, mentre alle Trobriand il
surplus di lavoro è utilizzato direttamente per produrre ignami da esibire e regalare. In entrambi i
casi la divisione del lavoro agricolo è relativamente semplice, basata sulle differenze di età e di
genere, in cui gli uomini assolvono ai compiti più faticosi che però sono sporadici, mentre le donne
seguono l’aspetto più continuativo e che prende più tempo della cura degli appezzamenti. Una
differenza tra la divisione del lavoro tra i Maring ed i Trobriand è legato all’ambiente, che essendo
più uniforme nelle Highlands permette una minore specializzazione : tutte le comunità producono
sia patate dolci che maiali, ed ognuno ha abilità simili. Alle Trobriand i diversi villaggi si sono
specializzati nella produzione di artefatti diversi, soprattutto di quelli che non sono di utilizzo
quotidiano, oltre alla specializzazione di villaggi di pescatori o agricoli. In questo caso dunque, oltre
allo scambio cerimoniale dei prodotti fiorisce anche il commercio.
In entrambi i casi la distribuzione dei prodotti del lavoro è organizzata in base ai sistemi di
parentela e matrimoniali. In assenza di istituzioni statali che regolino la produzione e la
distribuzione del surplus, questi processi politici avvengono sia tra i Maring che tra i Trobriand,
come in altre società tribali, nel contesto di strutture e di idiomi della parentela e della comunità.
Per quanto riguarda i mezzi di produzione, sia per le Trobriand che per le Highlands, la terra, gli
attrezzi, i materiali da piantare, la conoscenza tecnica e magica, sono tutti di proprietà collettiva. La
terra è di proprietà dei gruppi di discendenza. Sia gli attrezzi che il materiale da piantare, mentre
sono nominalmente appartenenti ad individui, sono in realtà controllati dalla famiglia che, per tutti i
gruppi tribali, costituisce l’unità di produzione principale. La conoscenza magica specialistica è
controllata da un individuo, il mago, ma la sua non è una proprietà individuale; egli è considerato il
custode della conoscenza del gruppo ed è responsabile sia del suo uso che della sua trasmissione
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alle generazioni successive. Inoltre i riti magici minori sono conosciuti ed utilizzati a livello
individuale da molte altre persone nella comunità. Quindi i mezzi di produzione sono generalmente
accessibili a tutte le famiglie.
In termini neo-marxisti, questo tipo di organizzazione è stato descritto con diversi termini, dal modo
di produzione comunista primitivo (Hirst e Hindess 1975) a modo di produzione di lignaggio
(Terray 1972), a modo di produzione domestico (Sahlins 1972, Meillasseux 1975) a modo di
produzione tribale e communalistico (Keesing 1981), ma a parte la costruzione di una tipologia dei
modi di produzione, progetto dal sospetto carattere evoluzionistico, il valore analitico di queste
etichette è relativo. Se per alcuni scopi comparativi può essere utile considerare centinaia di sistemi
tribali tra cui quelli dei Trobriand, dei Maring e degli Iban come appartenenti alla stessa categoria,
per contrastarli agli Atzechi, i Maya o gli Inca, o alle culture contadine del Messico e della
Tailandia, più spesso le domande poste dall’antropologia economica trovano risposte considerando
le differenze tra i sistemi, per esempio, dei Trobriand e dei Maring, nella comprensione dei
meccanismo interni di ogni sistema.
Però una domanda importante che è emersa dal dibattito teorico neo-marxista si rivolge al tema
dello sfruttamento nelle società tribali. In assenza di una struttura di classe, si può parlare di
sfruttamento? Questa questione è stata affrontata in termini di genere e di anzianità: gli uomini
maring, che usano i maiali per ottenere potere e prestigio attraverso gli scambi cerimoniali,
sfruttano il lavoro delle donne che coltivano le patate dolci necessarie per allevare i maiali? I capi
Trobriand, che controllano l’economia del prestigio, ed esercitano il loro potere controllando la
ridistribuzione, sfruttano i loro seguaci, produttori degli ignami in eccedenza?
Per rispondere a queste domande non si può considerare il mondo economico separatamente dalle
istituzioni della parentela, che organizzano i processi della produzione e della ridistribuzione, né dai
sistemi di credenze religiose e magiche, che attribuiscono legittimità al modo di produzione di una
società e allo stesso tempo, per i membri di quella società, forniscono elementi cruciali per il
successo del lavoro degli umani. I sistemi economici, sociali, politici e religiosi formano un
intreccio indissolubile nelle culture tribali. Godelier (1978) ha notato che in queste società dove le
istituzioni della parentela, della politica e della religione non sono separabili analiticamente, l’unica
distinzione che si può fare è quella basata sulle funzioni. Se le relazioni di parentela o i rituali
religiosi servono ad organizzare la produzione o la distribuzione di beni, allora si può dire che sono
elementi del sistema economico della società in questione. Secondo Godelier la parentela in una
società tribale assolve a funzioni oltre a quella della mera riproduzione fisica della forza lavoro,
come fa anche nelle società feudali e capitaliste, la parentela è anche il sistema che organizza la
produzione e la ridistribuzione dei beni. La domanda, allora diventa: perché la parentela ha questo
ruolo dominante nell’economia tribale? Per Godelier è necessario spiegare “come ‘è che la
parentela (o la religione) vengono ad assumere la funzione di relazione di produzione” (1978:766),
e di dominare sopra le altre strutture. Nelle società tribali, rispetto a quelle capitalista, c’è poca
accumulazione dei prodotti del lavoro di generazioni precedenti, ci sono poche cose oltre a quelle
che ogni famiglia è in grado di produrre per sé. La cosa più importante in queste società, dunque, è
la forza lavoro stessa, e da questo fatto deriva l’importanza economica delle istituzioni legate alla
parentela, alle alleanze matrimoniali ed alla discendenza, tutte istituzioni che sono centrali nella
riproduzione fisica della forza lavoro. E’ quindi necessario considerare le istituzioni delle società
tribali non solo in termini delle loro espressioni simboliche, ma anche in termini di quello che fanno
nell’organizzazione delle relazioni tra umani e tra loro e l’ambiente.
Il concetto di riproduzione sociale è quello che assicura la continuità di un sistema attraverso le
generazioni. Nelle società tribali, in cui non ci sono classi sociali, sono le donne ad assolvere la
maggior parte del lavoro quotidiano nei campi, inoltre gli uomini più anziani possono controllare il
lavoro di più mogli e degli uomini più giovani, attraverso il controllo degli oggetti di valore
necessari per gli scambi legati ai matrimoni. Un’ideologia religiosa che definisce le donne come
impure dal punto di vista rituale, e quindi le esclude dall’ambito religioso e politico le limita, come
produttrici, al contesto domestico.
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Tutti questi meccanismi servono a riprodurre il sistema delle relazioni di produzione da una
generazione alla prossima. Studiare questi processi nel lungo termine rivela anche come il lavoro in
eccesso rispetto alla produzione del cibo necessario per la sopravvivenza serva a sostenere questo
sistema, cioè sia utile in termini della riproduzione sociale. L’attenzione per la riproduzione di un
sistema sociale comporta andare oltre la mera produzione dei prodotti. Dato che la produzione è un
processo sociale implica una certa interdipendenza tra produttori, che si palesa al livello della
distribuzione e del consumo. D’altra parte, problematizzare la riproduzione sociale nel lungo
termine, considerando la società come un processo nel tempo, ci fornisce i mezzi concettuali per
comprendere i cambiamenti progressivi da un sistema ad un altro, in quanto ogni sistema sociale
contiene i semi della propria trasformazione.
Un altro aspetto da considerare è il limite del cosiddetto sistema di produzione. E’ vero che nella
maggior parte delle società tribali il gruppo sociale che esegue il lavoro produttivo quotidiano è la
famiglia. Il gruppo familiare è in grado di compiere tutti i compiti necessari alla produzione, con la
possibile eccezione della magia. Ma questa indipendenza economica dei gruppi familiari viene
immediatamente meno quando si considerano i processi della riproduzione sociale, della
distribuzione: le famiglie sono necessariamente collegate tra di loro in un sistema più vasto, un
sistema entro il quale si producono le famiglie attraverso l’istituzione del matrimonio, e in cui si
viene a creare un flusso di beni. Il problema per l’etnografo allora diventa quello di delimitare il
sistema sociale da analizzare. Per comprende l’organizzazione e i limiti spaziali di un sistema
economico, è necessario considerare assieme ai processi produttivi, anche quelli della distribuzione.
Agricoltura e trasformazione nelle Highlands della Nuova Guinea
In tutta la Melanesia le attività legate alla coltivazione o alla gestione di piante e alberi per produrre
cibo per gli esseri umani, sono di importanza notevole per i modi di vita di uomini e donne. In
molte zone queste attività sono accompagnate da quelle legate alla pesca, alla caccia, alla raccolta di
frutti e bacche dalla foresta; soprattutto nella foresta pluviale ad altitudini meno elevate l’agricoltura
è meno importante, e c’è maggiore mobilità per seguire la selvaggina.
Nelle Highlands la maggior densità di popolazione e la concomitante adozione della patata dolce
come alimento base, hanno determinato un’intensificazione dell’agricoltura e, almeno nelle aree più
popolate, una minore enfasi della caccia, anche se i miti ne esaltano il ruolo nella storia degli
antenati delle popolazioni attuali. La caccia e la raccolta di frutti e piante della foresta, come le
felci, conservano un ruolo importanza nell’immaginazione dei Highlanders. Immagini della foresta
sono utilizzate nei loro incantesimi e si ritrovano nelle idee sugli spiriti della fertilità, la cui
benevolenza è considerata essenziale per la produttività dei loro orti. La foresta e l’appezzamento
coltivato, per i Highlanders, esistono in una relazione simbiotica: nella mitologia dei Duna, per
esempio si narra di un orto magicamente produttivo ricavato con l’aiuto degli spiriti in una parte
segreta della foresta.
L’enorme varietà dei sistemi agricoli che si sono sviluppati nelle Highlands rende difficile
generalizzare. Questa diversità non si esprime solo in termini di relativa intensità di coltivazioni, ma
anche in termini tecnici, come nei metodi usati per dissodare la terra e costruire le recinzioni, e nelle
varietà di piante coltivate.
Molti antropologi hanno descritto i metodi utilizzati da diversi gruppi delle Highlands per coltivare
la terra, in molti si evidenzia almeno parzialmente l’aspetto di adattamento ecologico all’ambiente.
Edward Schieffelin (1975) ha descritto il modo in cui i Kaluli lasciano gli alberi tagliati al suolo per
piantare i loro orti tra i tronchi caduti, in questo modo impedendo l’erosione del terreno in una zona
di terreni scoscesi. George Morren (1986), estendendo la discussione teorica sull’orticoltura e la
caccia come modi di adattamento ambientale, ha descritto dettagliatamente le pratiche produttive
dei Miyanmin dell’area Ok, una popolazione in movimento.
Nel suo libro Morren identifica come elemento cruciale nello sviluppo dell’intensificazione
agricola, la relazione tra i maiali e gli esseri umani. I Miyanmin cacciano i maiali selvatici ed allo
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stesso tempo ne allevano delle piccole mandrie domestiche. Nelle aree con maggiore densità di
popolazione, le mandrie di maiali domestici aumentano, mentre diminuisce il numero di maiali
selvatici per la caccia. In contrasto nel territorio Duna nella vallata Aluni, i maiali selvatici vivono
nelle vaste praterie vicino al fiume Strickland, che non sono coltivabili, e che funzionano come
delle riserve di caccia. Nella stagione asciutta gli uomini dei villaggi sulle pendici delle montagne
organizzano delle battute di caccia in cui bruciano l’erba secca della prateria per cacciare i maiali.
Allo stesso tempo allevano numerose mandrie di maiali domestici nei loro villaggi. Quindi i Duna
praticano sia la caccia che l’allevamento che la coltivazione intensiva di patate dolci, necessaria per
nutrire i maiali domestici.
I maiali, che siano selvatici o domestici, richiedono la costruzione di recinzioni robuste intorno agli
appezzamenti coltivati. Il resoconto di Peter Dwyer (1990) sulle attività cerimoniali degli Etoro
della zona dello Strickland-Bosavi, parte dalla constatazione che questi dicevano di dover
organizzare una festa cerimoniale in cui avrebbero ucciso i loro maiali perché gli animali avevano
sfondato la recinzione di un appezzamento coltivato e mangiato tutte le piante, mentre la realtà era
che gli stessi Etoro avevano fatto entrare i maiali nel recinto per ingrassarli prima della festa. Una
situazione analoga si è verificata a Pangia, nelle Highlands meridionali quando gli organizzatori di
una festa dicevano di dover uccidere i maiali a causa della carenza di patate dolci per nutrirli,
mentre in realtà le patate dolci erano state utilizzate per ingrassare i maiali, ma allo stesso tempo un
raccolto scarso significava che c’era una carenza di cibo per gli uomini e le loro famiglie.
Da tutti questi studi emerge che i maiali hanno un ruolo centrale sia nella sussistenza che nella
politica dei diversi gruppi delle Highlands, e probabilmente questa è una situazione che dura da
molti anni prima dell’intervento coloniale.
Molti antropologi hanno concentrato le proprie ricerche su quelle aree delle Highlands in cui la
densità della popolazione è maggiore, e più alto è il numero di maiali pro capita. Daryl Feil,
sintetizzando i risultati di molti studi, ha sviluppato uno schema sull’evoluzione di diverse forme di
organizzazione politica basata sull’intensificazione e sull’importanza dei maiali negli scambi
cerimoniali tra gruppi sociali (1987). In parte questo lavoro è basato su quello in cui Watson (1977)
sottolineava il ruolo dell’allevamento dei maiali nell’intensificarsi della competizione per la terra, e
quindi della rivalità tra gruppi. Secondo Watson questi processi erano relativamente recenti,
determinati dall’arrivo delle patate dolci su questi altipiani tre o quattromila anni fa. Le ipotesi di
Watson sono state definitivamente smontate dal lavoro condotto da Jack Golson e i suoi
collaboratori sul sito archeologico di Kuk, nella valle del Wahgi nelle Western Highlands.
Gli scavi che Golson ha cominciato negli anni ’70 e continuano tuttora, dimostrano che nella zona
paludosa di Kuk esisteva un’importante attività agricola a partire da 6000, forse anche 9000 anni fa:
le date più remote sono ancora soggette a verifiche. Gli scavi di Kuk, comunque hanno evidenziato
che per migliaia di anni gli uomini che vivevano su questi altipiani hanno investito molta energia
nel lavoro agricolo, per esempio costruendo e poi mantenendo in operazione un sistema di canali di
drenaggio per controllare le acque delle paludi. Questa scoperta è molto importante, e il sito di Kuk
è considerato uno dei più interessanti e importanti al mondo tra gli archeologi egli studiosi della
preistoria (Golson, 1982).
Le ricerche condotte a Kuk hanno contribuito ai termini della questione riguardo ai prodotti coltivati
prima dell’arrivo della patata dolce, oltre che a quando sia arrivata; alcuni dati suggeriscono che in
realtà le patate dolci fossero già coltivate nelle Highlands qualche centinaio di anni prima della data
finora citata (400 anni fa). La risposta più plausibile alla questione su cosa si coltivasse prima della
patata dolce è il taro Colocasia, oltre che la canna da zucchero, le banane e diverse verdure locali.
In altre parti del Pacifico, in zone dove la patata dolce non è predominante, il taro ha un posto
d’onore di coltura antica e stimata, la cui coltivazione è spesso accompagnata da riti e formule
magiche ancestrali. Lo stesso vale per gli ignami (Dioscorea). E’ interessare notare che nella zona
di Hagen, dove si trova Kuk, nel territorio dei Kawelka, la canna da zucchero e le banane sono
prodotti che tradizionalmente devono essere offerti da un uomo ai suoi ospiti. Invece le donne
tendono ad essere responsabili per il taro, gli ignami, le verdure verdi, e le patate dolci. Questo
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suggerisce, secondo Strathern e Stewart, che esistesse una precedente divisione di genere riguardo
ai prodotti coltivati, e che la patata dolce sia stata aggiunta alla preesistente sfera femminile.
Watson (1965) ha suggerito che prima della patata dolce l’alimento base nelle Highlands fosse un
altro prodotto, la Pueraria lobata, una radice con un tubero che si sviluppa lentamente ma
raggiunge grandi dimensioni. Questa ipotesi è caduta in disfavore con l’affermarsi dell’ipotesi che il
taro era probabilmente il prodotto favorito per l’agricoltura in zone paludose. E’ ancora irrisolta la
questione riguardo all’età dell’agricoltura in altre zone delle Highlands, come per esempio in altre
zone paludose simili a Kuk, come il lago Kopiago, nell’area dei Duna o la valle del Baliem, tra i
Dani.
Il lavoro di Golson ha posto l’accento non solo sull’uso di fossati per regolare l’acqua delle paludi,
ma anche sui metodi di lavorazione della terra. Brookfield e Hart (1971) hanno compilato uno
studio comparativo di diversi aspetti tecnici dell’agricoltura praticata in 44 località diverse. Gli
autori hanno ordinato queste località da sistemi a bassa intensità a quelli di agricoltura più intensiva.
Molte località delle Highlands, come Chimbu, Enga e Dani, sono classificate tra quelle ad
agricoltura intensiva. Lo studio fornisce anche un lista di metodi di coltivazione, con 14 variabili,
dall’uso del fuoco o della cenere, al dissodamento e compostaggio, al controllo della copertura del
terreno durante il periodo in cui è incolto, tramite per esempio, il piantare delle specie particolari di
alberi. Inoltre gli autori distinguono tre tecniche di base per preparare il terreno: aratura completa,
fossati a griglia, e la creazione di monticelli di terra. Nella tecnica dell’aratura completa il terreno è
dissodato con dei bastoni appuntiti e disposto in lettiere con piccoli canali per far scorrere l’acqua, o
in monticelli. Questo modello è quello trovato nelle Eastern Highlands. Nelle zone di Pangia e dei
Duna si vedono spesso campi in cui sono stati scavati dei fossi di drenaggio e la terra brevemente
rivoltata prima di piantare patate dolci. Dopo qualche tempo questi appezzamenti sono arati più a
fondo per preparare dei monticelli di terra. Questi raccolgono la terra di superficie dell’area
circostante, e sono concimati al centro col composto. Questa è la tecnica dei monticelli nello
schema di Brookfield e Hart , ed è molto usata nelle Southern highlands e nella provincia Enga.
Classicamente è associata alle zone di altitudine elevata, ma si trova in molte altre località a diverse
altitudini. Il terzo metodo, quello dei fossati a griglia, è utilizzato prevalentemente nella Wahgi
Valley e in tutto il territorio Chimbu. E’ associato con un drenaggio efficiente della terra e con la
creazione di uno strato di terra fertile per le lettiere utilizzando lo strato superficiale della terra
rimossa dai fossati. Si ipotizza che questa tecnica si sia diffusa in altre aree dalle zone coltivate
delle paludi della valle del Wahgi.
Sia la tecnica dei fossati a griglia che quella dei monticelli sono utilizzati oggi per la coltivazione
delle patate dolci. Gli appezzamenti di taro tendono ad essere coltivati diversamente, con fossati
sufficienti a far drenar l’acqua, ma anche tecniche per far arrivare molta acqua alle piante, questo
suggerisce che le tecniche legate alla patata dolce, i fossati a griglia ed i monticelli, siano state
acquisite più recentemente. Questa ipotesi è confermata dalla tendenza generale di dividere gli
appezzamenti in zone coltivate esclusivamente a patate dolci, ed altre in cui sono coltivati i taro
mischiati ad altri tuberi e verdure. Michael Bourke e David Lea (1982), scrivendo della zona degli
Enga, distinguono tra appezzamenti misti per alimenti base, appezzamenti misti supplementari, e
appezzamenti di taro. Queste categorie riflettono una probabile evoluzione di tipologia di orticoltura
nella regione. Gli appezzamenti di alimenti di base misti rappresentano probabilmente lo stile
originario dell’agricoltura praticata in condizioni non intensive. Gli appezzamenti supplementari
misti sono probabilmente stati sviluppati nelle aree di agricoltura intensiva in luogo degli
appezzamenti originari. Gli appezzamenti di monocolture di taro e di patate dolci rappresentano
forme rispettivamente antiche e nuove di orticoltura intensiva. Questi studi delle tecniche agricole
del presente ci possono suggerire indizi sulle tecniche e sui raccolti del passato, e sottolineano,
ancora una volta che le culture delle Highalands sono sempre state, anche in assenza di contatto col
mondo occidentale, culture in evoluzione.
Questo tipo di studi sulle tecniche agricole possono sembrare poco interessanti, rispetto ad altri
argomenti trattati dagli antropologi, ma non dobbiamo dimenticare che per i Melanesiani
57
l’orticoltura non è solo il principale mezzo di sostentamento, ma anche il centro della loro vita
sociale, rituale ed economica. Inoltre queste analisi di trasformazioni tecnologiche legate
all’orticoltura sono rilevanti per il presente ed il futuro dei Melanesiani.
Fin dagli anni 1950 sono stati introdotti in tutte le Highlands prodotti agricoli destinati al mercato, e
vaste superfici di terra sono state alienate dai proprietari tradizionali per essere convertite in
piantagioni di tè e caffè, o destinate ad allevamenti di bovini. Queste imprese di proporzioni
notevoli in origine erano gestite da stranieri, soprattutto australiani. Più recentemente sono state
prese in gestione da gruppi di proprietari terrieri indigeni e da agenzie governative. Ma la nuova
economia non è limitata a queste piantagioni di vasta scala, con i loro bisogni di capitali, forza
lavoro, impianti di essiccazione e imballaggio, e numerosi veicoli a motore. L’agricoltura di
mercato si è diffusa in tutti i villaggi accessibili ai veicoli, tramite numerose coltivazioni di
dimensioni ridotte. Il caffè è entrato a far parte della vita dei Highlanders nei villaggi. Il denaro che
produce è utilizzato in vari modi: negli scambi locali, per i pagamenti per risarcire l’uccisione di
una persona, per costruire case moderne, spesi nel consumo di alcol o per acquistare veicoli a
motore.
La coltivazione del caffè non è senza conseguenze nell’ecologia e nella vita sociale di queste zone.
In primo luogo, le persone si abituano a dipendere dall’economia di mercato in genere. Le comunità
rurali sono sconvolte dal comportamento degli ubriachi nel periodo del raccolto del caffè. I furti di
bacche di caffè portano ulteriori conflitti e disordini. Nel lungo termine le conseguenze sono più
importanti: sempre più terra viene convertita alla coltivazione di alberi semi-permanenti, si riduce la
terra disponibile per la coltivazione di una varietà di prodotti vegetali nutrienti. Inoltre la flessibilità
nell’attribuzione dei diritti a coltivare la terra è ridotta, questo porta a scarsità di terra e dispute, e la
gente dipende sempre più dagli alimenti acquistati nei negozi. Questi risultati cominciano a
mostrare i propri effetti, per esempio il sito archeologico di Kuk, centro degli studi del gruppo di
Jack Golson, ora è diventato il centro di una complicata situazione legale, sociale, culturale e
politica, in quanto i proprietari tradizionali della terra Kawelka, hanno chiesto che la terra sia
restituita a loro per espandere le piantagioni di caffè. Questa contesa ha portato ad una discussione
più generale sulle possibili conseguenze della crescente domanda di terra per le piantagioni di caffè
da un lato e l’interesse nazionale e provinciale per aree di interesse culturale e patrimonio nazionale.
Negli anni dell’introduzione del caffè Ben Finney fece una ricerca sugli emergenti imprenditori del
caffè nell’area di Goroka nelle Eastern Highlands (1973). Le sue conclusioni al tempo erano
ottimiste per il futuro della zona. Vedeva i Big-men locali che entravano con entusiasmo
nell’economia di mercato come i portatori di un nuovo ordine, e considerava che le culture delle
Highlands, con la loro enfasi sulla competizione, fossero in qualche modo pre-adattate alle
trasformazioni che sarebbero seguite alla loro entrata nell’economia di mercato. Queste ipotesi di
Finney vanno collocate in un dibattito più generale sul concetto della persona in Nuova Guinea:
alcuni antropologi evidenziano l’aspetto individuale, altri quello collettivo o relazionale, del
concetto di sé che hanno le persone. Per poter comprendere le complessità delle trasformazioni è
necessario, in realtà considerare entrambi gli aspetti. Gli imprenditori studiati da Finney incorsero
in problemi diversi negli anni successivi alla sua valutazione ottimista: i membri dei loro gruppi si
trovarono svantaggiati in confronto ai loro leader, e una serie di problemi generati dalle
trasformazioni sociali sfociarono in lotte tra gruppi rivali. Come vedremo più avanti il potere ed il
prestigio dei big-man sono fondati sulla loro abilità di persuadere le persone a lavorare per loro,
abilità necessaria ad un imprenditore nell’economia di mercato, ma è espressa dalla generosità con
cui il leader distribuisce ad altri i prodotti di questo lavoro collettivo da lui organizzato, condizione
che non può essere pienamente riprodotta se un’impresa commerciale deve funzionare nel lungo
termine. Inoltre, ancora una volta è la questione della proprietà e dei diritti sulla terra e sui suoi
prodotti ad emergere come un punto problematico.
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Medicina e trasformazione nelle Highlands della Papua Nuova Guinea
Le malattie e la loro cura avevano un ruolo prominente nelle pratiche e nelle credenze indigene
della Nuova Guinea, qualsiasi accadimento negativo al corpo era attribuito, se non agli effetti della
stregoneria e della magia nera, alle azioni degli spiriti.
I sistemi di cura indigeni per la maggior parte rientrano nella categoria definita dagli antropologi
medici come ‘ medicina personalitica’ in cui la malattia è considerata essere il risultato di agenti
intenzionali, umani o spiriti. La malattia era ugualmente legata alla politica ed alla moralità, in
quanto si credeva che gli attacchi degli agenti ostili fossero dovuti a motivazioni politiche, o ad un
desiderio di punire o vendicarsi della vittima. Le formule magiche e le azioni rituali praticate per
curare un malato, tra cui il sacrificio di maiali, avevano lo scopo di cambiare il rapporto con gli
spiriti che avevano causato la malattia, riportandolo ad uno stato di amicizia e di supporto.
Questo tipo di sistema personalistico è radicalmente diverso dai principi della biomedicina
occidentale che è stata introdotta nelle Highlands a partire dal 1930, con maggior enfasi negli anni
precedenti e subito successivi all’ottenimento dell’indipendenza della Papua New Guinea nel 1975.
Nonostante la differenza di principi basici, generale i Highlanders in generale si sono convinti
rapidamente dell’ utilità della medicina occidentale, quando si sono resi conto della sua efficacia
contro disturbi che li affliggevano, come la framboesia, le ferite, i morsi, le punture di insetti, febbri
e dolori di stomaco. Accettarono e richiedevano medicine esattamente come avevano accettato e
richiesto gli attrezzi di acciaio che gli occidentali avevano portato con se per barattare e che erano
evidentemente vantaggiosi rispetto agli attrezzi indigeni di legno e pietra.
Poteva sembrare, quindi, che la medicina occidentale venisse rapidamente a rimpiazzare
completamente tutte le pratiche e le credenze indigene nella sfera della malattia e delle cure. Questo
non è successo. Come in altre sfere culturali, quelle della politica e dell’economia, l’interesse dei
Highlanders per le spiegazioni profonde e per le relazioni di causa ed effetto, intrecciato con la loro
visione socio-cosmica del mondo, hanno giocato a sfavore di una semplice sostituzione di un
sistema per un altro. Il motivo è che la medicina bio-medica non offre nessuna spiegazione morale
per le malattie, se non in termini di igiene sociale, mentre i Highlanders continuano a ricercare le
ragioni dei propri malanni nella sfera religiosa, anche questa soggetta a molte trasformazioni.
In alcuni casi è Dio ad essere citato come la causa di una malattia, e sono prescritte azioni rituali
con lo scopo di restaurare una corretta relazione con lui. In altri casi vengono implicati, più o meno
esplicitamente, gli spiriti dei morti o quelli insiti nell’ambiente, e si praticano dei sacrifici per
placarli. Si tengono riunioni dei parenti di una persona ammalata per cercare di capire quale
infrazione abbia commesso per venire punito tramite la malattia.
Questo non vuole dire che la medicina occidentale sia ignorata. Gli individui si sforzano per
accedere alle possibilità offerte dalla medicina bio-medica, ma spesso sono scoraggiati da molti
fattori, come la distanza ed il costo che comporta una visita al più vicino centro urbano,
l’affollamento e la paura di venire contaminati all’interno dello stesso ospedale, e il prezzo delle
medicine prescritte, da acquistare in farmacia. Eppure i Highlanders provano a far uso della
medicina occidentale, così come recitano preghiere cristiani, fanno sacrifici agli spiriti, e cercano di
farsi diagnosticare gli attacchi degli stregoni: una situazione classificata nella letteratura
specialistica come pluralismo medico, l’uso cosciente di più di un metodo per cercare di combattere
la malattia. Il pluralismo medico è spesso associato a popolazioni in cui situazioni di ineguaglianza
di classe precludono ad alcune categorie di persone l’accesso alla bio-medicina. Anche se è vero
che considerazioni economiche possono rendere più difficile l’accesso alla medicina occidentale per
alcuni Highlanders, la situazione qui è più legata al fatto che la medicina occidentale non soddisfa
alcuni bisogni percepiti dagli indigeni in relazione alla malattia. In alcune situazioni, come le le
morti che per i Duna erano legati a episodi di stregoneria, né le preghiere cristiane né la medicina
bio-medica sono considerati efficaci, ci sono stati tentativi di ritornare ai metodi di divinazione
tradizionale, o di sviluppare forme ibride di esperti rituali, che possano includere nel loro bagaglio
sia le idee indigene che quelle introdotte dal cristianesimo.
59
Fino a questo momento queste forme di adattamento si sono sviluppate senza che il mondo biomedico in generale ne abbia preso coscienza. E nonostante ci siano tentativi e programmi per lo
studio della medicina tradizionale per identificare e studiare le piante medicinali indigene, ci sono
stati pochissimi tentativi di integrare l’approccio bio-medico con gli strumenti culturali indigeni di
combattere la malattia, in tutti i suoi aspetti.
Le preghiere ed i rituali cristiani sono stati incorporati dagli indigeni per soddisfare questo bisogno
di risolvere il problema morale del malato, ma rimangono comunque delle aree scoperte. Per
esempio riguardo al sacrificio dei maiali o il pagamento per compensare qualcuno vittima delle
infrazioni del malato, oppure le pratiche legate alla rimozione del ‘sangue cattivo’, che a Mount
Hagen si faceva applicando un pezzetto di canna da zucchero alla pelle e succhiandola attraverso la
canna.
I risultati di questa situazione pluralistica è dunque un compromesso scomodo, la convivenza di
pratiche e idee molto diverse, accomunate solo dal fatto che tutte si occupano di corpi sofferenti.
Gilbert Lewis (2000) ha scritto una monografia in cui si vede la pluralità medica applicata al caso
specifico di un uomo malato. Lewis descrive i tentativi da parte dei parenti e dei membri del
villaggio del malato, di sconfiggere la malattia, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione, incluso
un viaggio al centro di assistenza medica, le preghiere e l’organizzazione di rituali di riparazione
che coinvolsero l’intero villaggio nella costruzione di un recinto sacro e di una maschera, e in
ripetute danze nel tentativo di placare lo spirito ritenuto responsabile per la malattia. Nella
monografia vengono evidenziati sia i processi decisionali coinvolti quando si tratta di decidere
quale strada terapeutica intraprendere, che quelli che intervengono in caso di fallimento della cura,
per darsi una ragione o una spiegazione per la morte di un uomo. Quello che risalta dal libro di
Lewis, che è frutto di lavoro sul campo nel Sepik ma che pone interrogativi validi generalmente per
tutta la Nuova Guinea, è come l’esperienza individuale e l’interpretazione culturale della malattia,
così come il processo curativo, siano tutti integrati nella vita sociale della comunità. Ed è questo
elemento che perdura nonostante l’introduzione di sistemi medici alternativi. Non sono certo i
Melanesiani ad escludere la possibilità di fare uso di un tipo medicina in favore di un altro, sono le
nostre categorie occidentali: magia-scienza-religione a farci supporre che queste metodologie siano
mutuamente esclusive.
I Highlanders desiderano e richiedono un’assistenza bio-medica migliore, soprattutto nelle stazioni
di assistenza medica rurali in zone remote e lontane dai centri urbani, come tra i Duna dell’Aluni
Valley. Anche qui, però gli indigeni si chiedono come questa nuova medicina possa gestire gli
attacchi degli stregoni, e le cause sottostanti. Inoltre, avendo constatato che il governo non è in
grado di portate un’assistenza medica adeguata ai loro villaggi remoti, si sono rivolti a delle fonti
alternative, in questo caso ad una compagnia mineraria che opera nelle vicinanze, la Porgera Joint
Venture Mining Company, che nel 1999 ha aperto un centro di assistenza medica ad Aluni. Dal
punto di vista dei Duna, come di tutti i Melanesiani, la cosa più importante è di trovare un sistema
medico che sia efficace per loro, sia fisicamente che socialmente. In questo rispetto rimane ancora
molto da fare per portare assistenza medica efficace, soprattutto nelle zone rurali remote.
60
Guerra, scambi cerimoniali, relazioni di genere e
forme di leadership nelle Highlands della Nuova
Guinea e oltre
Tutti questi sono temi hanno esercitato molto interesse tra gli antropologi, in particolare in
riferimento alle società delle Highlands. Data la varietà di pratiche e di idee che si incontrano, anche
solo nelle Highlands, sarebbe impossibile e poco utile generalizzare. Quello che intendo fare è
estrapolare dall’etnografia delle Highlands alcuni dei temi e delle questioni più interessanti e
analizzarli in una prospettiva comparativa che comprenda altre culture della Nuova Guinea e della
Melanesia. Dato che per molti anni la ricerca antropologica si è concentrata nelle Highlands, molte
delle tipologie classiche derivano da etnografie scritte su popolazioni di questa regione. Infatti,
come ho già osservato in precedenza, le Highlands per un certo periodo erano considerate come il
cuore della Melanesia autentica, e tutte le culture di altre aree della Nuova Guinea e della Melanesia
venivano confrontate con queste società prototipiche, come a validarne, per assurdo, la
“melanesità”.
Così come non si può fissare una società nel tempo, non si può fissare un tratto culturale in un
luogo. Sia le etichette che noi diamo a pratiche e credenze, che i confini che disegniamo tra una
zona e l’altra, una nazione e l’altra, una regione e l’altra, sono solo strumenti concettuali che ci
aiutano a pensare analiticamente e comparativamente, non dobbiamo mai accreditarli con uno status
di verità, reificare le nostre categorie analitiche. Prima delle etichette, dei termini antropologici, dei
confini, vengono persone in carne ed ossa, le loro idee, e i loro progetti.
Una delle poche generalizzazioni che si possono fare, è che questi quattro ambiti: la guerra, gli
scambi, le relazioni di genere, e le strutture politiche del potere sono aspetti della vita sociale di un
gruppo che sono interrelati tra loro.
La guerra, o perlomeno le lotte di diverso genere ed entità tra gruppi, erano sicuramente universali
nelle Highlands, ma non solo. Le culture della costa meridionale della Nuova Guinea sono
altrettanto rinomate per lo stato di guerra costante in cui vivevano i villaggi prima della
pacificazione coloniale, e vedremo come altri popoli della Melanesia, tra cui quelli della Nuova
Caledonia e delle Salomone avessero la stessa reputazione, anche se in alcuni casi si può dire che la
tendenza a lottare con i propri vicini fosse esacerbata dalle condizioni di rivoluzione sociale portate,
insieme alle armi da fuoco, proprio dalla presenza di quei primi europei che poi descrivevano gli
indigeni come guerrieri feroci e sanguinari.
La guerra è un termine generico, le lotte tra i gruppi possono variare molto sia per la durata che per
gli scopi. In tutte le Highlands i conflitti erano legati agli scambi cerimoniali. Abbiamo visto nel
caso descritto da Rappaport, per esempio, che molti scambi cerimoniali erano organizzati al termine
di una sequenza di conflitti. In altri casi una crescente enfasi sugli scambi cerimoniali porta ad una
graduale riduzione e cessazione delle ostilità, d’altra parte dispute occasionate dagli scambi possono
sfociare in nuovi conflitti. In tutti questi casi si può vedere come i conflitti armati e gli scambi sono
due aspetti contrastanti ma complementari delle relazioni tra gruppi diversi.
Le relazioni di genere, a loro volta, sono fortemente influenzate dalle lotte, dalle alleanze e dalle
ostilità tra gruppi, perché i matrimoni sono tra uomini e donne appartenenti a gruppi diversi.
Laddove i gruppi rivali sono comunque legati da relazioni matrimoniali tra i propri membri, ci sarà
maggior tensione nella famiglia, dovuta al fatto che marito e moglie potrebbero avere legami di
lealtà per fazioni opposte nella guerra. Questa situazione è ovviamente mitigata quando le alleanze
matrimoniali sono parte di una relazione tra gruppi mediata da una serie continuativa di scambi
amichevoli. La violenza domestica è correlata a un modello culturale che attribuisce valore ai
guerrieri, in una società dove il matrimonio avviene tra gruppi nemici. Anche la poliginia, associata
con la forma di leadership competitiva dei big-men, influenza le relazioni di genere. Abbiamo già
visto che le società in cui si attribuisce importanza alla discendenza in linea matrilineare, come nelle
61
Trobriand ma anche altre culture della regione del Massim, in New Ireland e New Britain, si
attribuisce molto valore ai poteri di riproduzione sociale delle donne. Quello che viene forse un po’
nascosto dall’enfasi sulla discendenza patrilineare nelle Highlands, è che anche in queste culture si
attribuisce un valore altrettanto grande ai legami materni ed al ruolo che hanno nelle alleanze tra
gruppi, questo è in linea anche con la presenza in queste stesse società, di molte credenze e rituali
diretti a spiriti femminili. La questione delle relazioni di genere è dunque molto complicata, ed
inoltre le rapide trasformazioni in molte sfere della vita quotidiana, continuano a modificare la
situazione. Nell’area del Sepik, in cui si praticavano iniziazioni maschili che esaltavano il valore
sociale degli uomini escludendo le donne da questa sfera rituale, i parenti materni degli iniziandi
avevano un ruolo importante nelle cerimonie, dovevano accudire, nutrire e generalmente prendersi
cura dei ragazzi. Secondo David Lipset, che ha lavorato nella zona dei Murik Lakes della regione
del Sepik, esiste alla base di queste culture uno “schema materno” basato sull’idea del “corpo
uterino”, questo schema dev’essere considerato in contrapposizione ai modelli di aggressività
maschile e di prevalenza degli uomini nell’ambito cerimoniale (Lipset 1997).
Ci sono tre questioni che hanno provocato molti dibattiti tra antropologi che si occupano della
Nuova Guinea e della Melanesia in generale.
La prima questione è se la guerra fosse ugualmente importante in tutta la Nuova Guinea. La
seconda questione concerne l’eguaglianza o l’ineguaglianza nelle relazioni di genere La terza
questione è il dibattito sulle forme di leadership e la distinzione tra big- men , great-men e capi.
Le guerre tribali
In diverse culture i conflitti inter-gruppo erano variamente importanti per la riproduzione sociale.
Sicuramente tutte quelle società in cui l’iniziazione maschile era obbligatoria, esisteva anche una
preoccupazione culturale per la maturazione dei ragazzi, sia in termini sessuali, sia nel matrimonio.
Queste preoccupazioni andavano di pari passo con quelle dell’efficacia bellica dei guerrieri. In
alcuni casi, come quello degli Asmat dell’Irian Jaya, il collegamento tra questi due aspetti era
evidenziato da regole come quella che richiedeva che un giovane dimostrasse la propria capacità di
guerriero, prendendo teste nemiche, per essere iniziato, e dalla credenza che la forza della vittima
sarebbe passata al giovane (Knauft 1993). Anche tra i Fore delle Eastern Highlands un ragazzo non
poteva sposarsi prima di aver dimostrato la propria capacità di guerriero uccidendo un nemico
(Berndt 1962). Questo genere di regole era comune in tutte quelle società in cui i guerrieri avevano
un ruolo centrale. Apparentemente questo modello non esisteva nelle Western Highlands,
nonostante anche qui il coraggio in guerra fosse una caratteristica ammirata ed applaudita. Questa
differenza, che è più una questione di grado o di enfasi culturale, che una differenza sostanziale, si
può spiegare con il maggiore accento che queste culture pongono sugli scambi cerimoniali e sulle
alleanze matrimoniali.
Paul Sillitoe, nel suo lavoro sui Wola delle Southern Highlands (1978), che è basata su ricerche
molto approfondite e condotte nell’arco di molti anni, ha suggerito un altro collegamento tra guerra
e scambi cerimoniali. Sillitoe suggerisce che mentre i big-men apparentemente devono la propria
influenza alla prodezza dimostrata negli scambi cerimoniali, in realtà stimolavano anche lotte e
conflitti tra gruppi per aumentare la propria influenza e posizione, sia per il ruolo che poi avevano
nell’accumulare i beni per i pagamenti per risarcire le morti dovute alle ostilità, che come mezzo
per eliminare i rivali. Questa ipotesi vale anche per altre zone, come quella attorno a Hagen, dove i
big-men sono spesso accusati di causare la morte di importanti rivali tramite la stregoneria e, in
concomitanza, quando muore un big-man si sospetta che sia stato vittima di un attacco di
stregoneria.
O’ Hanlon (1989) nota che tra i Komblo della Wahgi Valley è diffuso il timore di essere traditi dai
membri del proprio gruppo per favorire un attacco di stregoneria da parte di un nemico. Il termine
usato dai Komblo per questo tradimento è kum, lo stesso termine che a Hagen significa stregoneria.
62
Inoltre a Hagen si crede che ogni volta che viene danzata una particolare danza durante un festival,
questa performance avrebbe coinciso con la notizia della morte di un rivale. I parenti del nemico,
sentendo la musica di questa danza, traevano le proprie conclusioni. La cosa interessante è che
questa particolare danza era anche un’occasione di corteggiamento, in cui i giovani potevano
cercare ed interagire con potenziali partner matrimoniali. In un certo senso il gruppo celebrava la
perdita del nemico proprio mentre esprimeva la propria forza ed esuberanza danzando insieme, e
promuoveva la propria riproduzione sociale favorendo future alleanze matrimoniali con gruppi
alleati.
Secondo Lemmonier (1990) in molte società sono proprio i leader dei gruppi a mediare le dispute,
organizzando il pagamento di beni di valore. Questa osservazione non esclude necessariamente la
possibilità che gli stessi leader siano responsabili della promozione di conflitti.
Dall’indipendenza della Papua Nuova Guinea nel 1975 c’è stato un ritorno ai conflitti tra gruppi
nella zona delle Highlands, in effetti i conflitti armati tra gruppi rivali costituisce un problema
crescente di ordine pubblico. Le vaste reti di alleanze basate sugli scambi che si erano sviluppati
negli anni precedenti al contatto coloniale intorno al 1930, e che in seguito alla “pacificazione”
avevano inizialmente goduto di una notevole espansione, si sono sgretolati negli anni successivi per
il sopravvenire di diverse forze nuove: nuove forme di politica, il disinteresse dei giovani,
l’influenza delle chiese, e l’aumento di conflitti per la terra, causate dall’insoddisfazione per le
politiche coloniali di congelamento delle proprietà , che impediscono ai meccanismi indigeni di
adeguarsi con flessibilità alle trasformazioni nella composizione dei gruppi (Meggitt 1977). Inoltre
sono sempre continuate, e sono in aumento, le uccisioni che coinvolgono gruppi di territori anche
lontani, perché sono legate all’uso delle automobili e agli incidenti. Emergono quindi grossi
problemi legati all’usanza tradizionale di pagamenti per indennizzare un gruppo per la morte di un
suo membro causata dal membro di un gruppo diverso. Questi problemi coinvolgono una nuova
leva di leader, spesso gli uomini che ricoprono cariche politiche od amministrative a livello
provinciale o nazionale. Nel nuovo contesto politico ed economico, questi pagamenti di indennizzo
ormai comportano il pagamento, tra le altre cose di molte migliaia di Kina (la moneta della Papua
Nuova Guinea), che sono ricavate soprattutto dalle vendite del caffè. L’intero complesso di scambi
tra gruppi predominante nel contesto post-coloniale, dunque, dipende dalla produzione agricola,
così come gli scambi tradizionali dipendevano dalla produzione di un eccedenza di patate dolci che
permettevano di allevare i maiali.
I pagamenti per indennizzare la morte coinvolgono anche i processi della politica contemporanea.
Più generalmente, l’allargamento della scala delle relazioni sociali avvenuta in meno di un secolo,
oltre al coinvolgimento di queste relazioni nei processi dello sviluppo agricolo ed industriale, ha
portato a molti problemi in molti campi. Uno di questi problemi, che ha attirato l’attenzione anche
degli studiosi di scienze politiche (Dinnen 2001), è legato alle elezioni in Papua Nuova Guinea, ed
alla violenza che spesso accompagna le campagne elettorali. Nell’area di Hagen si intrecciano
nuove forme di relazioni di scambio nelle nuove campagne elettorali. I voti stessi sono considerati
come un bene da “comperare”. Ma l’idioma in cui si esprime questa idea moderna è quello
tradizionale di sollecitare un dono moka. Si dona denaro per ottenere un ritorno in voti, e questi a
loro volta entrano a far parte di ulteriori e successivi scambi di beni.
Relazioni di genere
L’importanza fondamentale della produzione agricola nelle aree di orticoltura ad alta intensità delle
Highlands è generalmente correlata ad una divisione del lavoro lungo linee di genere, in cui il
contributo femminile, e il particolare ruolo essenziale delle donne nell’allevamento dei maiali sono
largamente riconosciuti. Le donne fanno quasi, se non proprio tutto, il lavoro necessario per
l’allevamento dei maiali, soprattutto sono loro a raccogliere le patate dolci che servono per nutrirli.
Tutte le culture delle Highlands riconoscono questo contributo, e a Hagen, per esempio, era
esplicitamente segnalato dalle ricche decorazioni che le donne, come gli uomini, portavano nelle
occasioni cerimoniali.
63
Secondo Maurice Godelier (1982, 1986) questo riconoscimento del lavoro complementare, e tutto
ciò che questo comporta dal punto di vista delle relazioni di genere nella vita sia quotidiana che
politica, non si manifesta nelle aree ai margini orientali delle Highlands. Godelier descrive una
situazione in cui gli uomini dominano interamente la vita sociale, le donne sono escluse dalla
partecipazione nei “culti maschili” di iniziazione, e non hanno nemmeno il diritto di possedere asce
od altri attrezzi agricoli. Godelier presenta un’ immagine delle relazioni di genere tra i Baruya
piuttosto estrema. Gli uomini hanno un ruolo dominante in tutte le sfere, dimostrato in tutti i
dettagli della loro vita, fino alla distribuzione dei tagli di maiale alle feste: le donne ricevono
l’intestino e la lingua, considerate parti di scarto, mentre agli uomini è riservato il fegato, “la sede
della forza dell’animale” ( 1986:16-17).
Questa interpretazione sembra sorvolare su molti dettagli etnografici che lo stesso antropologo ha
incluso nella sua etnografia sui Baruya, e su dichiarazione di uomini e donne Baruya che sembrano
mitigare, se non contraddire la versione di Godelier, offrendo una visione più bilanciata delle
relazioni di genere. Per esempio, se è vero che una donna non possiede gli attrezzi del suo lavoro, è
altrettanto vero che un uomo li deve fornire a sua moglie e, una volta che glie li ha procurati, non
può chiederle di restituirli. Le donne hanno il diritto di decidere a chi dev’essere destinata la carne
di maiale, e generalmente i mariti tendono a rispettare queste decisioni per non provocare delle liti
anche violente. Le mogli si aspettano che i propri mariti dividano con loro il denaro che hanno
guadagnato lavorando per soldi. Mariti e mogli decidono insieme a chi destinare delle strisce di
terra che hanno destinato alla condivisione, e sono le donne ad avere possesso e controllo della
magia usata nell’allevamento dei maiali, nella coltivazione di patate dolci e taro, e nella nascita dei
bambini. Da questi dati si potrebbe concludere che sono le donne Baruya ad avere il controllo di
certe sfere di attività sociali che sono importanti per la riproduzione della società. Questa
conclusione non collima con l’immagine proposta da Godelier di dominazione maschile assoluta.
Sempre dalla descrizione che Godelier fa delle usanze Baruya traspare che in occasione
dell’iniziazione delle ragazze, le donne anziane danno loro dei consigli su come comportarsi con il
marito. Per esempio gli dicono di accettare il desiderio del marito di avere una relazione sessuale
senza gridare o gli altri sentiranno e il marito, per la vergogna, si impiccherà. Alle ragazze è anche
insegnato che non dovranno ridere se la copertura genitale del marito fosse storta, per non farlo
vergognare (Godelier 1986: 43). Secondo Strathern e Steward (2002:61) questi due consigli
indicano che i rapporti tra marito e moglie nei Baruya siano controllati più da un senso di vergogna
che di forza. Anche se la minaccia di venire uccise dal proprio marito è citata, questa vale solo nei
casi di trasgressione più grave, l’adulterio. Per convincere le ragazze a comportarsi nella maniera
considerata accettabile verso i mariti si fa appello alla loro sensibilità culturale e individuale, e ai
sentimenti per il marito, più che alla minaccia della forza fisica.
E’ molto complicato valutare tutte le componenti per giudicare il grado di gerarchia e dominazione
nelle relazioni di genere. Se in certi contesti la gerarchia può sembrare l’aspetto dominante delle
relazioni tra uomo e donna, in altri è la solidarietà e la collaborazione ad assumere importanza. Le
donne possono essere escluse da certi ambiti di attività in cui gli uomini si contendono posizioni di
prestigio o “si fanno uomini”, ma non è detto che questo neghi alle donne il loro ruolo fondamentale
nella riproduzione sociale del gruppo. Come nel caso dei Marind Amin è spesso proprio perché gli
uomini sanno di non poter fare a meno delle donne, che devono creare dei contesti rituali da cui
escluderle, per affermare la propria indipendenza. In un certo senso questa paura di ammettere la
propria dipendenza dal contributo femminile è maggiore in quelle società dove la guerra tra gruppi
è endemica e in cui gli uomini sposano donne provenienti da gruppi nemici. Anche nelle società
della costa meridionale della Nuova Guinea, associate nella letteratura antropologica a tradizioni di
guerra e caccia alle teste, è difficile determinare il grado di dominazione maschile nelle relazioni di
genere (Knauft 1993). Spesso è il caso che a regole ideologiche, enunciate a gran voce, e usate per
spiegare alcuni comportamenti non corrispondano le idee che diversi membri della stessa società
hanno sul funzionamento, o sulle loro pratiche quotidiane. Questo è quasi sempre il caso nei riti
segreti, da cui sono escluse le donne per nascondere il fatto che sono gli stessi uomini a creare e
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rappresentare gli spaventosi spiriti ancestrali che sono invitati nel villaggio per trasformare i ragazzi
in uomini: seppure alle donne sia negata la partecipazione alla preparazione o anche ai riti stessi, e
seppure neghino di sapere qualcosa sui riti degli uomini, questo è spesso un “segreto di Pulcinella”.
Il problema con la tesi di Godelier, secondo Stewart e Strathern è che è basata su una teoria della
gerarchia, costruita usando solo alcuni dei dati che l’antropologo francese ha raccolto sui Baruya, e
ignorandone altri.
La stessa critica è rivolta al lavoro di Raymond Kelly (1993) sugli Etoro dell’area StricklandBosavi. Kelly discute la questione teorica di come valutare la relativa eguaglianza nelle società
semplici, e suggerisce, nel caso degli Etoro e altre culture simili, che “il sistema di valutazione
morale derivato dalla cosmologia è centrale” (1993:512). Secondo lui tra gli Etoro i prodotti
maschili posseggono un valore superiore in termini di prestigio e inoltre alcuni dei prodotti maschili
hanno un valore spirituale che manca ai prodotti femminili. La gerarchia sociale creata in questa
società è quindi un “manufatto ideologico”, infatti la sua monografia è intitolata “la fabbricazione di
una gerarchia di virtù”. Nello schema teorico di Kelly, quindi la mitologia ha un ruolo centrale nel
determinare le relazioni di genere, quindi l’analisi della mitologia legata ad una cultura dovrebbe
fornire uno strumento “diagnostico” per determinare l’esistenza o meno di una gerarchizzazione dei
rapporti tra uomini e donne. Eppure anche se lo stesso Kelly nota che uomini e donne danno
interpretazioni diverse ad un mito che tratta di riproduzione e di differenze di genere, afferma che
“sia gli uomini che le donne vivono in un mondo concettuale determinato dalla cosmologia
maschio-centrica” (p. 191-2). Quindi è Kelly che nella sua analisi privilegia l’ideologia maschile,
attribuendogli una valenza maggiore delle voci dissonanti femminili, mentre nel costruire un
modello di una società, e nel considerare i ruoli di uomini e donne nell’ordine sociale, è importante
prendere in considerazione tutti gli ambiti della vita delle persone e ascoltare sia gli uomini che le
donne.
Per le popolazioni più numerose delle Highlands vere e proprie, la proposizione di dominanza
maschile non è sicuramente sostenibile, secondo Strathern e Stewart. Anche se gli uomini in queste
società asseriscono di avere una posizione preminente nelle attività inerenti alla politica e agli
scambi rituali, i miti ed i rituali delle stesse società rivelano una considerevole importanza attribuita
agli spiriti femminili ed ai poteri di fertilità e prosperità che possono conferire ugualmente agli
uomini e alle donne.
Il ruolo delle donne come allevatrici di maiali, orticoltrici, e come legami politici tra gruppi,
attribuisce loro un ruolo complementare e bilanciato con quello degli uomini, questa
complementarità è rivelata nelle attività quotidiane di uomini e donne, e sono inoltre riconosciute
nei miti e nei rituali praticati dai Highlanders.
Molti dei contributi al dibattito sulla relativa uguaglianza delle società delle Highlands hanno
origine in un dibattito teorico sull’applicabilità delle teorie marxiste allo sfruttamento nelle società
cosiddette primitive e alle ineguaglianze di genere. I primi scritti di Godelier erano appunto una
critica in vena neo-marxista della teoria per cui le “società tribali” godessero di relazioni
egualitarie. Paul Sillitoe (1985) ha costruito la sua analisi dei Wola in opposizione a questo modo di
vedere. Mentre ammette che ci sia una preminenza maschile nell’ambito degli scambi cerimoniali e
delle decorazioni usate nelle danze, Sillitoe vuole dimostrare che le società delle Highlands sono
essenzialmente organizzate in una maniera che impedisce l’instaurazione permanente di
ineguaglianze sociali, anche nel campo delle relazioni di genere. Con questo non dice che ci sia uno
stato di vera uguaglianza, ma che non si formano relazioni di ineguaglianza di lunga durata, ovvero
che le relazioni sono costantemente variate, contestate e rinegoziate.
Margaret Jolly, che non ha lavorato in Nuova Guinea ma nell’isola di South Pentecost aVanuatu,
descrive una situazione in cui esiste una gerarchia di valori, come quelle descritte da Godelier e
Kelly. Secondo lei però il lavoro femminile non è cancellato ma è compreso, cioè reso inferiore
rispetto al valore superiore del lavoro maschile (Jolly 1994:85) Secondo lei è il valore relativo
attribuito al lavoro maschile e femminile ad essere la fonte dell’ineguaglianza e quindi anche
dell’egemonia maschile. Anche in questo caso è necessario prendere in considerazione il quadro
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sociale nella sua complessità, incluse le sfere rituali e religiose, per determinare la posizione e il
valore degli uomini e delle donne in queste società.
La difficoltà nella valutazione definitiva della gerarchia è determinata dal fatto che dipendono
dall’idea che in ogni società esista un’ideologia complessiva, globale, incapsulata nelle pratiche
quotidiane delle persone: il habitus definito da Pierre Bourdieu (1977) come un’orienatmento
prevalentemente inconscio al mondo. La percezione e valutazione del habitus di una società, però, è
un’operazione soggettiva, dipende dall’antropologo e sugli aspetti della vita sociale che vengono
presi in considerazione. Per esempio la rivalutazione della società delle Trobriand da parte di
Annette Weiner, ha portato ad un’immagine molto più bilanciata delle relazioni di genere di quella
presentata da Malinowski, un’immagine che è ben riassunta dal titolo della sua monografia
“Women of Value, Men of Renown” (1976).
Dal punto di vista simbolico, molte società melanesiane sono caratterizzate dalla divisione sociale
tra uomini e donne, sostenuta da credenze che attribuiscono al corpo femminile e alle sostanze
associate ad esso, delle proprietà contaminanti. Entrare in contatto con queste sostanze è
fondamentalmente pericoloso per gli uomini che ne risultano indeboliti sia fisicamente che
spiritualmente. Queste credenze sono accompagnate da una serie di tabù, di pratiche quotidiane e
rituali, e di accorgimenti come la separazione fisica dello spazio del villaggio in aree” sacre”
riservate agli uomini, da cui sono escluse le donne, altre riservate a donne e bambini, con altre aree
ancora in cui le donne si isolano durante i giorni del ciclo mestruale o per partorire. Tutti questi
fattori sono stati interpretati come sintomi di una polarizzazione tra uomini e donne corrispondente
a una separazione del mondo sociale in sfere di vita sacra, associata agli uomini, e contaminata
associata alle donne, due sfere che vanno tenute rigorosamente separate. Questa visione del mondo
è fortemente associata a relazioni di genere diseguali. Alcuni antropologi (Keesing 1989) sono in
disaccordo con questa interpretazione della cosmologia e di rituali di separazione di genere, che
dicono essere influenzati dallo sguardo maschile dell’antropologo, e dai preconcetti occidentali
sulla natura contaminante delle donne. In molti casi, le donne melanesiane non percepiscono il
proprio corpo come impuro; il pericolo che obbiettivamente rappresentano per gli uomini, secondo
queste donne, non deriva dal fatto che sono impure o inferiori, ma custodi di poteri alternativi e
complementari a quelli maschili, e quindi fonte di pericolo per gli uomini.
Trasformazioni nello status delle donne Enga, Western Highlands
Ad ogni modo la divisione così radicale tra i generi è da subito dispiaciuta agli agenti di
trasformazione coloniale e governativa. Primi tra tutti i missionari, che non approvavano
l’organizzazione della vita familiare e la poligamia che spesso accompagnava questa separazione tra
i generi, e la associavano al sistema religioso tradizionale, considerandola una “superstizione
pagana”. Mervyn Meggitt descrive la situazione delle donne Enga negli anni ’80, descrivendo le
conseguenze di cinquant’anni di politiche coloniali e governative, degli insegnamenti dei
missionari, oltre che le trasformazioni dell’economia locale, sulle relazioni tra uomini e donne. Tutti
questi fattori hanno portato ad una trasformazione delle relazioni di genere ma, secondo Meggitt, la
situazione femminile è peggiorata.
Tradizionalmente gli Enga erano divisi in numerosi clan localizzati e patrilineari che erano legati tra
loro dagli scambi matrimoniali, dagli scambi cerimoniali di maiali ed altri oggetti di valore, ma
erano spesso in guerra per la terra. Le sfere della vita politica e cerimoniale erano controllate da
leader non ereditari, maschi. Il lavoro e le abilità femminili erano essenziali sia per il sostentamento
della famiglia ma anche per la produzione dei maiali necessari alle attività cerimoniali controllate
dagli uomini. Nonostante questo ruolo fosse riconosciuto alle donne, e permettesse loro un certo
grado di influenza e autorità nell’economia domestica, avevano diritti e privilegi limitati in altre
sfere.
Per tutta la loro vita le donne erano sotto tutela maschile, del padre, del fratello, del marito, o del
figlio adulto. Una donna non aveva il diritto di decidere chi sposare o di partecipare alle decisioni su
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come disporre della terra o dei maiali, e poteva essere punita severamente. Il divorzio era raro, e
quasi mai richiesto da una moglie maltrattata.
Gli uomini e le donne vivevano in case separate. Ogni moglie (il 20% degli uomini era poligamo)
condivideva la propria casa con i figli piccoli e le figlie nubili, mentre gli uomini imparentati,
sposati e non, vivevano insieme in clubhouses, in cui le donne non potevano mettere piede perché
gli uomini le consideravano impure e pericolose. Era nella casa degli uomini che i membri del clan
decidevano delle questioni politiche religiose ed economiche.
Questa situazione ‘tradizionale’ si è perpetrata durante il periodo coloniale (iniziata nel 1946) anche
perché i processi del colonialismo e il lavoro dei missionari erano notevolmente selettivi, e
miravano a cambiare la situazione dei giovani più che dei vecchi, e degli uomini più che delle
donne, riflettendo i pregiudizi sessuali delle autorità australiane e delle missioni. Questa preferenza
ha avuto effetti sulla vita economica degli Enga. Mentre i giovani uomini venivano estratti dalla vita
di clan ed educati (o acculturati) a sufficienza da invogliarli ad entrare nella forza lavoro nelle
piantagioni in altre zone del paese, le donne continuavano a lavorare negli orti per sostenere
famiglia e comunità, col tacito accordo dei missionari e degli amministratori. Le scuole che erano
prevalentemente organizzate dai missionari non incoraggiavano la presenza delle bambine. Molti
enti legati alle chiese, alla croce rossa e all’amministrazione, proclamavano di essere dedicati
all’avanzamento delle donne. In quegli anni furono fondati, di solito dalle mogli degli
amministratori coloniali, svariati club femminili, ma questi funzionavano ad intermittenza e spesso
si estinguevano quando la fondatrice veniva trasferita altrove.
Sono state altre le cause di un marginale cambiamento nella posizione delle donne Enga. Negli
anni ’60 si cominciò a coltivare il caffè per il mercato, oltre ad alcuni ortaggi acquistati dai
lavoratori del governo. Alcuni mariti permettevano alle mogli di vendere parte del caffè e i prodotti
dell’orto e di tenere i profitti per spese domestiche o per i bambini. Inoltre la visita settimanale al
mercato offriva alle donne l’opportunità di socializzare tra loro in un contesto esterno al clan.
Questi modesti miglioramenti dello status sociale ed economico era accompagnato anche da una
libertà marginalmente superiore a prima, potevano rivolgersi alle autorità per resistere l’imposizione
di un matrimonio sgradito, e donne maltrattate potevano rifugiarsi temporaneamente alla missione.
Anche alcune vedove si stabilivano permanentemente alla missione per non doversi risposare,
mentre altre donne locali sposavano lavoratori del governo da altre province. Alcune di queste
rimanevano nell’insediamento degli amministratori quando il marito veniva trasferito e tra loro
qualcuna si prostituiva pur di non tornare alla vita del clan.
Nel frattempo, i missionari e le scuole combattevano una guerra ideologica contro il culto della
purezza personale degli uomini, e contro l’idea che le donne erano portatrici di corruzione. Queste
modifiche dell’atteggiamento verso il sesso femminile non ebbero esiti positivi per le donne, però,
soprattutto perché non erano accompagnate da una critica esplicita della superiorità maschile.
Insieme all’introduzione della birra, alla maggiore mobilità, e all’accesso al denaro, queste
trasformazioni contribuirono ad un aumento della violenza domestica, del divorzio, delle unioni
extra-coniugali e delle nascite di bambini illegittimi. Tutti elementi che contribuirono a peggiorare
la situazione femminile nella regione. Le donne Enga ora sono violentate più spesso di prima,
perché gli uomini giovani non hanno più paura del corpo femminile e del sangue mestruale, ma
continuano ad essere certi della propria superiorità e del proprio controllo sulle donne.
Dal 1976 il governo della Papua New Guinea ha fatto propri i valori occidentali delle pari
opportunità nell’educazione e nell’occupazione, e condannato le forme di discriminazione contro le
donne. Eppure nei fatti le donne Enga continuano ad essere subordinate e deprivate, sono una
minoranza sia nel sistema scolastico che nel mondo del lavoro retribuito. Al contrario non sono
pochi gli uomini Enga che hanno raggiunto posizioni di rilievo nel nuovo apparato statale
indipendente, e nonostante la nominale attenzione alle questioni di genere, non implementano o non
incoraggiano misure per il miglioramento delle condizioni femminili. L’ideologia della supremazia
maschile continua ad esercitare una forza egemonica per limitare l’autonomia, l’educazione, e il
ricorso alla legge da parte delle donne.
67
Secondo Margaret Jolly e Martha Macintyre (1989: 14-15) questa analisi di Meggitt solleva delle
importanti questioni filosofiche e politiche sulla tensione tra gli “universali” e i particolari culturali,
che, se sono al cuore della ricerca antropologica in generale, sono particolarmente acuti nello studio
comparativo delle relazioni di genere. I giudizi sul relativo vantaggio o svantaggio per le donne si
dibattono tra affermazioni basate su un semplice relativismo culturale, e altre su una decostruzione
più sofisticata, che spesso rivela che i concetti analitici che utilizziamo per confrontare e giudicare
le situazioni incontrate sul campo – come natura e cultura, o domestico e pubblico, autonomia,
uguaglianza - sono “abitudini di pensiero” sviluppatesi in un preciso momento storico europeo, non
universali della mente umana.
In generale nel Pacifico i missionari, i legislatori e gli educatori occidentali hanno cercato di
cambiare le vite delle donne in modi che credavano avrebbero permesso ad una nuova generazione
di donne di diventare cittadini di uno stato moderno. Questi scopi furono portati avanti e ora sono
incorporati nella costituzione della Papua Nuova Guinea indipendente, ma l’ideale liberale di status
uguale davanti alla legge non solo era alieno, ma culturalmente precluso nel caso degli Enga. Le
politiche del governo post-coloniale, impostate in termini derivati dall’ideologia occidentale,
rendono appropriati questi termini di analisi nel confronto della situazione contemporanea delle
donne. La conclusione di Meggitt è che le relazioni tra uomini e donne sono state trasformate dalla
storia degli ultimi settant’anni, ma che le donne non ci hanno guadagnato.
Scambi cerimoniali di maiali
Una caratteristica centrale delle società delle Highlands sono gli scambi cerimoniali dei maiali,
grandi occasioni festive in cui vengono costruite e sostenute alleanze, ma soprattutto il prestigio ed
il potere politico degli uomini che riescono ad avere la meglio nella competizione per dare di più
dell’altro. Tra gli scambi cerimoniali più citati c’è il moka, dei Melpa intorno a Mount Hagen ( A.
Strathern 1971), ma variazioni sullo stesso tema di scambi cerimoniali si trovano anche tra Mendi,
mok ink, e gli Enga, tee. Il termine tok pisin mekim moka è entrato nell’uso corrente per parlare di
qualsiasi forma di scambio competitivo in cui si regalano e ricevono maiali vivi.
Dal punto di vista teorico si può considerare il moka come un elemento centrale sia nella questione
delle relazioni di genere, in quanto è stato interpretato come il meccanismo dell’appropriazione
maschile del lavoro femminile; che nella questione delle guerre tra clan, in quanto una relazione di
scambio moka può scaturire da un iniziale pagamento di risarcimento per la morte di un nemico o
un alleato in guerra. Ma nell’etnografia melanesiana questi scambi cerimoniali e competitivi di
maiali sono considerati soprattutto importanti per il ruolo centrale che hanno nella costituzione e
nella crescita del prestigio di individui ambiziosi che competono tra loro per accrescere il proprio
nome e diventare big man.
Una definizione di moka di Andrew Strathern è:
“Uomini e donne lavorano duramente per allevare i maiali per il moka. Danno via questi maiali e si
aspettano una restituzione maggiore più tardi” (1984:5)
Una caratteristica particolare di questi scambi cerimoniali delle Highlands occidentali è che chi dà
l’avvio ad un ciclo di scambi e li organizza non sono clan o tribù, ma degli individui ambiziosi che
vogliono crearsi un nome. Funziona grazie al principio dell’incremento: chi riceve un dono deve
restituirlo con un incremento, è questa capacità si superare con il proprio dono la prestazione
originale che dà prestigio ai partecipanti del moka. Le numerose transazioni avvengono nel campo
cerimoniale del big man, uno spiazzo decorato con piante fiorite. L’uomo che vuole avviare il moka
deve avere a disposizione numerosi maiali ben ingrassati: comincia a distribuirne alcuni tra i suoi
sostenitori, debitori, affini, parenti ed amici in una serie di doni che servono a sollecitare tutti coloro
che sono legati a lui, ad avvisarli che egli si aspetta da loro alcuni maiali in cambio. Questa prima
mossa dà inizio a tutta una serie di passaggi di mano di maiali che viaggia, per esempio, da est a
ovest. Ogni uomo che ha ricevuto un dono di sollecito a sua volta sollecita i propri sostenitori e
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debitori, fa i suoi calcoli sui maiali in suo possesso e quelli che gli verranno dati dai propri
sostenitori e li destina a chi ha iniziato il processo di moka.
Non sono solo i maiali a passare di mano, nel moka si sono sempre scambiate le decorazioni di
madreperla a forma di mezzaluna e incastonate in dischi di creta rossa, chiamate kina, che in tempi
precedenti al contatto erano molto rare e controllate dai big men. L’arrivo degli esploratori
australiani negli anni ’30 ha provocato una sorta di inflazione di kina, e il loro numero nelle
prestazioni è aumentato. Il prestigio dei donatori è legato non solo al fatto di superare in quantità il
dono ricevuto, ma anche nell’inclusione di altri beni rari o di valore, come oggetti decorativi in
conchiglia, penne di uccelli, casoari. Con l’entrata delle highlands nell’economia di mercato si
sono aggiunti alle prestazioni molti beni comperati, oltre allo stesso denaro.3
Durante un periodo di tempo (che varia a secondo della scala del moka) i maiali dei sostenitori
cominciano a tornare verso l’originatore della catena moka, viaggiando da ovest a est, con una serie
di scambi intermedi che si tengono sul campo cerimoniale di ogni big man coinvolto. In ognuno di
questi campi cerimoniali si tiene una danza, si espongono i beni scambiati, e si distribuiscono i
maiali. Sono molti gli individui che partecipano a questi scambi a titolo personale, iniziando piccole
reti di scambio, ma i protagonisti sono i big men che convogliano tutte queste attività collaterali sui
propri campi cerimoniali dove organizzano le danze, radunano tutti i maiali contribuiti dai loro
sostenitori e orchestrano la loro ridistribuzione. Ad ogni passaggio chi riceve dei maiali ne trattiene
alcuni, altri li passa lungo la catena insieme ai maiali allevati o radunati da lui.
La fase conclusiva del moka consiste nella distribuzione di carne di maiale cotta da parte di quelli
che hanno ricevuto i maiali vivi, per ringraziare i propri partner. Questa distribuzione avviene in
senso inverso a quella dei maiali vivi, e non tutti i maiali ricevuti sono macellati e cucinati, alcuni
sono trattenuti da chi li ha ricevuti per iniziare un nuovo allevamento.
Alcuni anni più tardi il processo sarà invertito, i doni di sollecito viaggeranno da ovest verso est, e
ogni uomo che aveva ricevuto maiali da un partner si sforzerà di donargliene di più: per far questo
conta, oltre che sui maiali allevati da sua moglie, su quelli che gli fanno avere i parenti, gli affini, e
tutta una serie di sostenitori legati a lui da scambi precedenti: è nel creare sostenere ed espandere
questa rete di obbligazioni che si vede la stoffa di un uomo come potenziale big man.
Gli uomini contano sul duro lavoro delle donne per incrementare il proprio prestigio nell’ambito
maschile degli scambi moka. In un certo senso le donne lavorano per incrementare il prestigio del
marito, anche se in questa maniera anche il proprio status ne guadagna.
Secondo Marylin Strathern (1988:148-50) la relazione tra mariti e mogli (come quella tra alleati e
membri dello stesso clan) è caratterizzata dal termine “prendersi cura” uno dell’altro, che significa
contribuire agli sforzi dell’altro. Mentre moglie e marito possono entrambi prendersi cura dell’altro,
il marito è anche in una posizione che gli permette di acquisire un nome, cioè il prestigio. L’aiuto
che gli da sua moglie lo assiste in questa ricerca di prestigio, e a sua volta lei può partecipare nel
suo status. Un esempio di questa relazione in contesto contemporaneo è che un uomo può chiedere
a sua moglie di aiutarlo finanziariamente ad acquistare un’automobile che porterà il nome di lui
soltanto, ma la situazione inversa è inconcepibile. La stessa regola vale per l’uso dei maiali: marito
3
Secondo A. Strathern (1984:93) negli anni 1970 c’è stato un dibattito a livello nazionale
sull’opportunità di permettere che il denaro fosse utilizzato in un contesto “tradizionale” come il
moka: il problema per i sostenitori dello sviluppo e della modernità era lo spreco di energie e di
risorse economiche che invece di essere investite in attività economiche ‘legittime’ venivano
incanalate in attività tradizionali che, secondo loro, avrebbero dovuto sparire gradualmente. Il
concetto di ‘tradizionale’ in realtà che si trasformano rapidamente come le Highlands della Nuova
Guinea, assume rapidamente le caratteristiche di un simbolo legittimante a cui fanno appello i
leader per far accettare le proprie azioni. In questa situazione il denaro è legittimato come mezzo di
ottenere prestigio, ed è convogliato negli scambi cerimoniali, la partecipazione dei leader in moka
non è in conflitto col loro essere uomini d’affari, anzi la partecipazione negli affari è diventata
essenziale per ottenere risorse necessarie per fare moka.
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e moglie allevano insieme i maiali, è la moglie a curarli quotidianamente e a nutrirli con le patate
dolci che lei ha coltivato sulla terra appartenente al clan del marito, ma solo lui può trasformare i
maiali in doni e metterli in circolazione negli scambi cerimoniali. Così il marito si fa un nome; più
tardi restituirà altri maiali vivi alle cure della moglie, e le attribuirà parte della carne cotta; lei ci
guadagna in maiali e carne, ma non ne ricava un nome.
E’ in questa trasformazione dei maiali da un ambito di lavoro domestico a quello cerimoniale degli
scambi dominati dall’ideologia della reciprocità che secondo Lisette Josephides, si creano le
condizioni per quello che lei chiama “relazioni di sfruttamento” (1982:32). Se è vero che il lavoro
delle mogli nell’allevare i maiali è riconosciuto anche alla festa in cui i maiali sono distribuiti, è
proprio in questo stesso momento che il lavoro produttivo delle donne viene “appropriato” dagli
uomini. Una volta che i maiali entrano in circolazione nel sistema di scambi competitivi, scambio
dopo scambio, la retorica della reciprocità costruisce la percezione che siano le attività (maschili)
dello scambio a creare ricchezza, in quanto ci sia aspetta un ritorno maggiore rispetto a quanto si è
dato, oscurando il contributo produttivo delle donne, che viene quindi appropriato dagli uomini.
(1982:306). Gli scambi cerimoniali, con il mito che sono i doni a creare i doni, celano il fatto che lo
scambio è il mezzo attraverso il quale i beni sono appropriati.
Il dogma della reciprocità nasconde, secondo Josephides, l’ineguaglianza nell’accesso alle risorse.
Se la dominazione degli uomini sulle donne è esplicita, quella di alcuni uomini, quelli con accesso a
più risorse, su altri è nascosta. La separazione ideologica tra produzione e transazione rende i
produttori vulnerabili allo sfruttamento per Josephides, coprendo l’ineguaglianza degli scambi tra
marito e moglie, uomo sposato e celibe, big man e i suoi agnati.
Marylin Strathern rivolge la sua attenzione a due presupposti fondamentali di questa analisi: la
supposizione che sia il lavoro ad essere soggetto a una conversione, per poter parlare di
appropriazione del lavoro; e quella che le persone naturalmente possiedono e mantengono il
controllo su quello che fanno, sul proprio lavoro.
1. Per quel che riguarda la prima proposizione, cioè che il lavoro è appropriato nella
trasformazione dei maiali in beni di scambio, M. Strathern (1989: 155) sostiene che anche se
la produzione, come categoria di attività, viene effettivamente sminuita in certe situazioni, il
lavoro produttivo non è alienato. Allo stesso tempo sostiene che esiste una radicale
trasformazione di valore a sostenere la distinzione tra produzione (sfera di competenza sia
maschile che femminile) e transazione (sfera di attività prettamente maschile). Esiste una
dominazione, ma non si verifica attraverso lo sfruttamento del lavoro.
Secondo l’antropologa sia uomini che donne sono responsabili per la produzione domestica,
e quando gli uomini immettono i maiali nel sistema di scambi cerimoniali eclissano il
proprio contributo produttivo, oltre a quello delle mogli.
Il lavoro creativo dell’allevamento dei maiali e dell’orticoltura è apertamente riconosciuto.
Quindi non è il lavoro ad essere trasformato quando i maiali entrano nella sfera degli scambi
cerimoniali, ma la struttura delle relazioni sociali. Le donne lavorano nel contesto di una
struttura di relazioni creata dal flusso di maiali in circolazione, prodotti in larga parte dal
proprio lavoro, eppure questo mondo non è sfera di competenza femminile e non è creato da
loro. Non è una questione di alienare il surplus prodotto dal lavoro (sia maschile che
femminile), questo può anche essere restituito a chi lo ha prodotto; ciò da cui le donne sono
alienate è un edificio sociale costruito dalla circolazione di beni dominata dagli uomini.
Dato il modo in cui il lavoro è orientato verso altri esseri sociali, il potere sta nella
definizione del campo di relazioni che possono essere create da questo lavoro. Il lavoro non
è trasformato, è una sfera d’azione. Gli uomini sono, come le donne, il prodotto di una sfera
di azione domestica, ma arrogandosi il dominio dell’azione politica, eclissano le proprie
radici sociali, dichiarando che le proprie attività non sono determinate solo dalle relazioni
domestiche. La vita politica è creata in esplicito contrasto con la socialità domestica
70
2. La seconda supposizione fatta nelle analisi sullo sfruttamento femminile, e decostruita da
Marylin Strathern, è che le persone sono proprietarie di quello che fanno. Secondo lei alla
base dell’ideologia occidentale, nelle sue accezioni capitaliste e marxiste, sta un’unica
nozione culturale di individuo unitario e possessivo. Nella prima visione questo essere
unitario è un agente autonomo che controlla oggetti esterni a sé, ma che se sono in suo
possesso diventano parte della sua identità; nella seconda la persona è indissolubilmente
legata alle proprie attività di modo che il proprio sé è diviso quando i prodotti delle sue
attività sono appropriate da altri.
Nelle società caratterizzate da un’economia di scambio, invece, le persone sono
intrinsecamente plurali, sono prodotti di numerose diverse relazioni e compiono azioni
diverse. In questa luce diventa difficile parlare di alienazione e sfruttamento, concetti
derivati da una visione occidentale della persona.
Le attività cerimoniali degli uomini Hagen sono separate dalla domesticità e dalla produzione nella
sfera di relazioni familiari, oltre che dalle richieste dei legami di parentela. In tutti questi ambiti il
lavoro rimane concreto ed è attribuito alla propria fonte sociale e, dato che i prodotti del lavoro sono
attribuiti a diverse fonti, a questi sono attribuiti molti autori.
L’operazione che avviene nel contesto degli scambi cerimoniali, dunque è la trasformazione dei
prodotti multipli (i maiali, prodotti dal lavoro complementare di marito e moglie) in un’identità
singola per gli uomini: la ricchezza prodotta sta per quella parte di sé che poi sarà interpretata come
l’intero essere dell’uomo, il prestigio.
Questa trasformazione consiste nel passare da un dominio all’altro, e risulta nella creazione di beni
di valore e dei loro messaggi sul prestigio di chi li dà e chi li riceve. Non si tratta di soppiantare un
proprietario con un altro, ma della creazione di un’identità unitaria (per gli uomini) da un’identità
multipla.
La relazione principalmente coinvolta nella costruzione dei valori degli scambi cerimoniale è quella
della divisione del lavoro tra coniugi. Il lavoro di entrambi dimostra sia motivazione che
intenzionalità, oltre che un senso di impegno nella relazione. Il maiale è un prodotto multiplo, il
risultato di tutta una serie di scambi tra parenti e non: è il prodotto della relazione tra i partner di un
matrimonio, non è riducibile al singolo interesse di uno dei due.
Negli occhi di un uomo che riceve un maiale in moka il lavoro di nutrire il maiale non conta, lui
considera i maiali che dovrà restituire. Mentre per il donatore il maiale donato incarna in sé tutto il
lavoro che comporta allevarlo, egli non può considerare questo lavoro senza considerare le proprie
relazioni domestiche. Pensare al lavoro incorporato in un maiale ingrassato equivale a pensare al
valore attribuito reciprocamente da marito e moglie. La moglie non può essere considerata una
proprietaria del maiale che può trasferirne la proprietà o a cui può essere sottratto il controllo
dell’animale, perché non esiste una relazione di corrispondenza diretta tra lei e la sua capacità di
lavorare o la sua capacità di lavorare ed i prodotti del suo lavoro. E’ questo il fattore cruciale, quello
che rende impossibile palare di alienazione nel contesto di un economia del basata sugli scambi di
doni.
Chris Gregory (1982) ha postulato che la differenza tra un’economia di mercato e una di scambio è
che i beni trasmessi nelle transazioni di scambi cerimoniali sono inalienabili dal donatore il quale,
nel donarli, crea un legame con chi li riceve. Per M. Strathern i protagonisti degli scambi
cerimoniali a Hagen non hanno beni alienabili, cioè proprietà: per loro non esiste la possibilità di
disporre di un bene se non legandosi in relazioni con altri. Che sia tra partner di scambi, tra coniugi,
o tra parenti, la circolazione di cose o persone porta alla creazione di una relazione. Il lavoro
produce o rende visibile una relazione. Se nelle economie basate sugli scambi di doni non è
l’alienazione del lavoro o l’appropriazione del surplus a determinare la dominazione di alcuni sugli
altri, come accade in un’ economia di mercato, quelli che dominano sono coloro che determinano i
collegamenti e gli scollegamenti creati dalla circolazione degli oggetti. Negli scambi di doni il
valore umano è reso apparente, le relazioni sociali sono eclissate e poi rivelate.
71
Quindi per Marylin Strathern quello che è celato nel passaggio dei maiali dalla sfera di produzione
domestica quella degli scambi cerimoniali non è il lavoro delle donne, ma il fatto che gli uomini
siano il prodotto della sfera di relazioni domestiche. Gli uomini entrano in una sfera di lavoro
politico per acquisire un nome, e a questo prestigio si fa coincidere l’identità maschile. Al contempo
si può parlare di dominazione maschile, ma non in termini di alienazione del lavoro delle donne:
quello che è negato alle donne è il potere di controllare le reti sociali e politiche da alimentare con
lo scambio dei maiali.
Modelli di Leadership
Uno dei temi principali nell’etnografia delle Highlands è quello dei modelli di leadership, in
particolare la precisa relazione tra status ereditato e status ottenuto. Per tutti gli anni 1970 il modello
di leadership associato alle Highlands della Nuova Guinea (e quindi considerato prototipico della
Melanesia come area culturale), era quello del Hagener big man descritto da A. Strathern (1971).
Il tipico big man è un oratore convincente e allo stesso tempo un poligamo abbiente,
particolarmente abile nell’investire i maiali allevati dalle sue mogli nel sistema di scambi
cerimoniali del moka. Dal punto di vista maschile il sistema è meritocratico, non ereditario: anche
se un big man può dare un vantaggio al figlio finanziando il suo matrimonio con un paio di donne,
questa non rappresenta condizione necessaria o sufficiente per raggiungere lo status di big man.
Oltre che meritocratico il sistema politico del big man è competitivo. Il big man costruisce la
propria posizione ed esercita la sua influenza su una rete allargata di persone legate a lui in diverse
maniere; una fazione che ha al suo nucleo i parenti, il clan e gli affini, ma anche chiunque abbia un
qualunque legame, partner di scambi, familiari adottati amici. Tutte queste persone formano un
gruppo che potenzialmente può espandersi, ma che è sostanzialmente instabile, soprattutto ai
margini. Il leader non occupa una posizione di autorità formale riconosciuta, e la sua legittimità di
leader è costantemente in gioco, minacciata dall’ascesa nel sistema di prestigio di altri uomini che
cercano di allargare le proprie sfere d’influenza. Ci possono essere numerosi rivali per il prestigio
all’interno di una comunità, la quale può dividersi, o allearsi ad altri gruppi. Anche se la sua sfera
d’influenza è in espansione, il gruppo che si coagula intorno al big man non costituisce una
comunità politica stabile.
Il big man funge da fulcro per lo scambio di beni tra comunità locali, e quindi il sistema promuove
la produzione di un surplus da usare in questi scambi, ed è prevalentemente nel contesto di questi
scambi che il prestigio e lo status dei big men è di volta in volta costruito, e messo alla prova. Il suo
status dipende dalla sua abilità di convincere i suoi sostenitori ad aiutarlo nelle attività legate al
moka per mantenere alto il prestigio sue e del suo gruppo. Egli non ha l’autorità per costringere i
propri sostenitori a seguirlo in un’impresa che non approvano. Andando ad analizzare le storie
individuali di diversi big men, Paula Brown (1978) conclude che le qualità dei leader sono varie,
ognuno ha uno stile personale ed ha successo con i suoi sostenitori per motivi diversi, alcune qualità
sono comuni a molti degli uomini che si sono affermati come big man:
• Ambizione ed energia
• Abilità di manipolare gli altri e di organizzare attività su larga scala
• Prodezza in guerra
• Successo nell’accumulare molti beni
• Generosità nel disporre di beni
• Possesso di conoscenze speciali, di solito magiche
• Abilità oratoria
Bill Standish (1978) e Daryl Feil (1982) hanno criticato il modello di big man sviluppato da
Strathern che, secondo loro, non aveva dato sufficiente peso all’effetto democratizzante del
colonialismo. Con l’imposizione della Pax Australiana era venuto meno il potere che i big men in
precedenza avevano sui rifugiati, mentre con l’importazione massiccia di madreperla dalla costa
avevano minato il loro controllo sulle reti commerciali e di scambi cerimoniali. La figura
72
relativamente egualitaria del big man descritta da Strathern ed altri etnografi degli anni 1960, era
dunque largamente una costruzione coloniale.
Dal punto di vista comparativo il modello del big man è stato uno dei soggetti del dibattito sui
sistemi politici dell’Oceania, stimolato dall’analisi di Sahlins (1963) della distinzione tra Melanesia
e Polinesia in termini di evoluzione politica4. Sahlins contrasta il sistema politico basato sulla figura
big man associato all’area melanesiana a quello apparentemente più evoluto, in cui prevale la figura
del capo, tipico della Polinesia. Per Sahlins il sistema politico melanesiano è meno evoluto di quello
polinesiano a causa della sua intrinseca instabilità e precarietà, che impedisce sia la costituzione di
un gruppo sociale allargato e stabile nel tempo, che di un sistema gerarchico organizzato e con
posizioni legittimate: due caratteristiche che rendono il sistema politico melanesiano incapace di
evolversi, cosa che invece è avvenuta nelle società polinesiane basate sul chiefship, in cui la figura
del capo ricopre una carica istituzionale e porta un titolo. In contrasto al potere acquisito del big
man il capo polinesiano eredita la propria posizione ed il rango che legittimano la sua autorità. Se il
big man è costretto ad accumulare e ridistribuire ingenti ricchezze per mantenere la propria
posizione di prestigio, il chief polinesiano mantiene il controllo sulle risorse tramite un legame
all’ambito divino, un legame mistico legato alle nozioni di mana e tapu. Il diritto dei capi ad esigere
il lavoro dei membri del proprio gruppo consente la realizzazione di opere comuni, e risulta in una
crescente specializzazione, in cui il capo fa solo quello. Lo scambio dei melanesiani diventa
ridistribuzione ostentatoria, in cui i capi legittimano il loro potere dimostrando il controllo che
hanno sulle risorse. Secondo Sahlins il sistema politico dei chiefdoms avendo superato la condizione
di instabilità e precarietà del sistema melanesiano si sono evolute verso sistemi politici pre-statali.
Aparte l’aspetto neo-evoluzionista dell’analisi di Sahlins, l’opposizione tipologica dei due modi di
esercitare la leadership continua ad influenzare la ricerca sul potere in Oceania.
Una delle critiche alla tipologia costruita da Sahlins è che è basata su una divisione artificiale e
troppo netta tra Melanesia e Polinesia, aree con confini precisi e a ciascuna delle quali
corrisponderebbe un sistema socio- politico specifico: questa rappresentazione schematica non
corrisponde alla realtà etnografica incontrata sul campo, esistono variazioni all’interno di ciascun
tipo, ed esistono sistemi politici più simili al chiefdom in molte aree della Melanesia (soprattutto
nelle isole o nelle zone costiere popolate da genti di origine austronesiana, vedi Mekeo, Trobriand,
le Figi e la Nuova Caledonia).
Inoltre, andando a considerare nel dettaglio le caratteristiche attribuite ai due tipi di leader, si
trovano numerose eccezioni e modifiche, tante che finisce per essere difficile sostenere la tipologia.
In particolare la relativa importanza del principio dell’ereditarietà del titolo rispetto alle doti
personali è difficile da ‘provare sul campo’. In alcune società polinesiane il criterio genealogico di
successione può essere negato in assenza di qualità personali considerate essenziali in un capo,
mentre in alcune società melanesiane l’appartenenza ad un particolare gruppo di discendenza può
dare vantaggi oggettivi ad un uomo che aspira a diventare big man. Mentre in alcune società della
Polinesia la carica di capo è legittimata dal lavoro compiuto per il gruppo parentale o dalla prodezza
in guerra, esistono in società melanesiane alcune cariche o titoli di carattere ereditario. Dalle
descrizioni di Raymond Firth (1981) del sistema politico di Tikopia, al confine tra le due aree,
risulta che il potere dei capi di Tikopia è sia ascritto che acquisito: la successione è determinata
genealogicamente, ma perché un capo possa esercitare autorità sul gruppo deve dimostrare di
promuovere il benessere comune, e, come un big man, deve esercitare le sue abilità di oratore per
ottenere consenso e appoggio. Altri esempi dall’etnografia sia melanesiana che polinesiana
dimostrano lo stesso tipo di commistione tra caratteristiche attribuite a due tipologie diverse di
leader. La raccolta di saggi curata da Watson-Gegeo e Feinberg (1996) in cui sono scrutate
attentamente le strutture politiche contemporanee di diverse società sia melanesiane che polinesiane
4
Questa sommaria esposizione del dibattito sui sistemi politici oceanici è tratta dall’analisi di
Adriano Favole a pagg. 152-160 di La palma e il potere. I capi e la costruzione della Società a
Futuna (Polinesia Occidentale) Torino, Il Segnalibro Editore.
73
dimostra che sul campo le categorie di Sahlins sono con-fuse, non possono dirsi due tipologie né un
movimento evolutivo. Rappresentano due modi differenti di pensare, di intendere il potere e la
leadership, due modelli di organizzazione politica e sociale differenti che tuttavia sono entrambi
presenti in molte società dell’Oceania.
“La preminenza relativa dell’uno o dell’altro modo di esercitare il potere politico è legata all’area
geografica (indubbiamente il sistema fondato sui capi è prevalente in Polinesia) ma anche
all’ambito di ricerca prescelto, alla categoria di informatori a cui si fa riferimento, all’epoca storica
presa in esame” (Favole, 2000:160).
In un contesto più prettamente melanesiano, Maurice Godelier (1981) ha proposto un altro modello
di leadership alternativo a quello del big man, associato alle aree più centrali delle Highlands,
prendendo spunto dalle sue ricerche sui Baruya, una popolazione dell’area adiacente (fringe
Highlands). Questo nuovo tipo di leader si differenzia sia dal capo che dal big man, soprattutto per
la sua prevalenza in quelle che Godelier definisce società fondamentalmente egualitarie. Secondo
questa nuova tipologia le “Società dei Big men” delle aree centrali delle Highlands sono
sistematicamente contrapposte alle “Società dei Great men” altrove in Melanesia. Secondo
Godelier alla base delle differenze tra i due tipi di società associate a modelli di leadership diverse,
si trovano due diversi tipi di scambio di beni, e alle variazioni nelle modalità degli scambi
corrispondono variazioni in altri ambiti. Nelle “Società dei Big men” si scambiano beni materiali
per vite umane (pagamenti di compensazione e per le spose), e questo indica l’esistenza di un
complesso sistema di scambi in cui si scambiano articoli non equivalenti. Infatti in queste società è
il controllo sui beni scambiati negli elaborati scambi cerimoniali a fornire la chiave della leadership
del big man.
Il sistema basato sul great man, in contrasto, è basato su una forma di scambio più diretto, ristretto,
in cui si scambia un articolo per un altro articolo equivalente, per esempio lo scambio di sorelle tra
clan per scopi matrimoniali ed un enfasi sulla vendetta in caso di omicidio, in contrasto ai
risarcimenti in beni per le donne passate ad un altro clan o per gli uomini uccisi. Nelle “Società dei
Great men” i ruoli dei leader tendono ad essere più variati, e tendono ad essere basati sulla
dominazione spirituale (il controllo delle conoscenze e dei poteri magici o delle relazioni col mondo
sovrannaturale) o sulla forza coercitiva, piuttosto che sul controllo dei beni materiali, spesso diversi
uomini in un gruppo assumono la leaderhip in contesti differenti.
Questi contrasti possono essere rappresentati schematicamente così:
Big Men
Scambi competitivi e non equivalenti:
prezzo della sposa
risarcimenti per omicidio
leadership esercitata tramite accumulo di beni
Great Men
Scambi ristretti ed equivalenti:
scambi di sorelle
vendetta, faida
leadership dipende da poteri spirituali o
forza coercitiva
divisione delle funzioni della leadership
(ruoli multipli)
fusione delle funzioni della leadership
(ruolo singolo)
Rispetto alle società fondate sui capi, in cui la successione ai titoli è determinata dal rango, gli
scambi sono generalizzati e la ricchezza centralizzata, quelle dei great men si differenziano
soprattutto per il maggiore egualitarismo.
Come nel caso della distinzione tra big men e capi, anche quella tra big men e great men, messa alla
prova ‘sul campo’ da tutta una serie di analisi etnografiche comparative, è risultata essere difficile
da stabilire categoricamente (Godelier e M Strathern 1991, Watson Gegeo e Feinberg 1996, Knauft
1993) . Non si può associare un tipo di leadership ad una società. Esistono sia i big men che i great
men in Melanesia: rappresentano modelli di organizzazione politica che si integrano e che in
diverse società melanesiane sono complementari, presenti entrambi in diverse misure. Anzi gli
74
accurati studi etnografici e comparativi stimolati da questo dibattito hanno anche evidenziato come
in molte società melanesiane si trovino anche caratteristiche associate ai sistemi politici basati sulla
figura del capo.
Se le semplici dicotomie tra capi e big men o tra big men e great men,si sono rivelate inadeguate per
gestire analiticamente le complessità etnografiche dei sistemi politici melanesiane, l’attenzione
degli antropologi è attualmente rivolta a discernere l’interazione tra poteri ascritti e poteri
guadagnati da un lato, e tra posizioni o capacità rituali e secolari dall’altra, alla base delle società di
tutto il pacifico. La sfida, per Favole (2000) per esempio
“è quella di delineare i differenti modelli che sono operativi, i modi in cui essi si intrecciano e le
circostanze che determinano come e quando ciascuno di essi è invocato.” ( 2000:160)
75
Antenati, cristianesimo, e cargo
I culti del cargo
Il fenomeno dei “culti del cargo”, cargo cults, sono un argomento classico nell’etnografia della
Nuova Guinea. Questo termine si riferisce ad una varietà di rituali e di movimenti che sono emersi
storicamente nel periodo coloniale e post-coloniale, e che si sono variamente impegnati per
ottenere con mezzi magici o rituali i beni materiali portati nella zona dagli occidentali. Cargo è un
termine generico in Tok Pisin per tutti questi beni, che vanno dalle scatolette di carne o altro cibo
associato agli occidentali, a grandi quantità di denaro contante, dipende dal periodo storico del
contatto, e dai desideri della gente coinvolta. Questi desideri sono profondamente implicati con
preoccupazioni di tipo politico e morale.
Questi movimenti possono essere interpretati come:
• proteste per le ineguaglianze del sistema coloniale;
• nuove organizzazioni politiche di resistenza;
• la ricerca di una redenzione morale attraverso l’ottenimento dell’eguaglianza tra gli indigeni e
i forestieri.
Un’altra interpretazione dei cargo cults è che sono un mezzo per rettificare l’ingiustizia che si pensa
sia stata perpetrata dai colonialisti tramite degli imbrogli. Spesso questa idea è collegata alla
credenza che un antenato indigeno aveva intrapreso un viaggio nella “terra dei bianchi” e aveva
spedito il cargo per i suoi discendenti, ma questo era stato intercettato dai poteri coloniali che se lo
tenevano per sé, oppure all’idea che i missionari abbiano omesso di insegnare alcune verità
necessarie per ottenere la ricchezza associata ai bianchi.
Queste interpretazioni hanno offerto molto materiale agli storici ed agli antropologi interessati alle
dimensioni etiche e politiche del colonialismo. Altri studiosi hanno indicato che spesso il termine
“cargo cult” è stato imposto dagli amministratori coloniali preoccupati dalle aspirazioni e dalle
rivendicazioni degli indigeni, e che utilizzavano il termine”culto” per delegittimare i movimenti di
resistenza popolare al potere coloniale.
E’ anche importante ricordare che se molti movimenti sociali innovativi in Nuova Guinea sono stati
accomunati, nelle definizioni degli amministratori coloniali e degli antropologi occidentali, per il
fatto di contenere aspetti legati al cargo, ognuno di questi movimenti aveva anche molti altri
elementi, oscurati dalla definizione comune. Questo è un problema generale quando si cerca di
analizzare fenomeni simili in diverse culture, trovando una definizione comune.
Nonostante queste note di cauzione, molti studi hanno evidenziato come la ricerca della ricchezza
sia alla base di numerosi movimenti. Quello che bisogna ricordare è che nel Pacifico in generale, ed
in Melanesia in particolare, la ricchezza è spesso considerata come un mezzo per ottenere un senso
di valore o di eguaglianza con gli altri. Queste idee in fondo non sono troppo differenti da quelle
della nostra società capitalista, ma la differenza è che nel contesto melanesiano la ricchezza ha
anche un valore magico-religioso. La ricchezza è interpretata da molti melanesiani come un segno
di benessere cosmico, e di relazioni corrette col mondo spirituale; la sua mancanza è di conseguenza
interpretata come un segno che il cosmo e il mondo spirituale sono sbilanciati, in disordine: per
ristabilire un ordine cosmico è necessario intervenire con dei riti o dei sacrifici. Questa idea è anche
alla base di tutti i sistemi rituali legati alla promozione della fertilità, chiamati anche questi culti
nella letteratura antropologica, senza però attribuire delle valenze di stranezza o di potenziale
sovversivo.
E’ fin dai tempi in cui Marcel Mauss (1954) scriveva del dono che gli antropologi sottolineano la
simbiosi tra persone e cose, l’associazione di oggetti materiali alla parte vivente delle relazioni
sociali, ed il significato spirituale attribuito ai beni materiali nelle culture della Nuova Guinea. Visti
in quest’ottica, sarebbe strano se i movimenti di trasformazione sociale non fossero almeno in parte
76
incentrati sull’acquisizione della ricchezza.
Andrew Lattas (1998) ha analizzato uno di questi movimenti tra i Kiwai sull’isola di New Ireland,
dimostrando come l’elemento di acquisizione di beni è anche inestricabilmente legato al contesto
coloniale, oltre che (come già suggeriva Margaret Mead) all’impatto degli eventi della seconda
guerra mondiale, soprattutto l’esperienza di vedere montagne di apparecchiature, cibarie e altri beni
trasportati dalle truppe americane. Conclusioni simili sono quelle raggiunte da Keesing nella sua
descrizione del movimento Maasina a Malaita, nelle Salomone.
Sono due i fattori importanti nei cargo cults:
1. il desiderio per i beni materiali è sempre una parte del desiderio più generale di ottenere la
parità morale e politica
2. i capi di questi movimenti provano sempre a organizzare forme elaborate di organizzazione
sociale per poter raggiungere i propri scopi, queste forme sono considerate come “lavoro”:
lavoro che porterà alla loro riaffermazione politica e all’ottenimento della prosperità in
senso allargato.
E’ importante anche ricordare che il “cargo” in questione, ed i suoi significati, variano molto in
funzione della storia coloniale della popolazione in questione. Per esempio un movimento che fiorì
a Mount Hagen tra il 1968 e il 1971, che gli adepti chiamavano “wind work” ed è stato descritto
come “the red box money cult”, era incentrato su un rito per ottenere grosse somme di denaro. Gli
adepti utilizzavano le scatole di legno dipinte di rosso del tipo utilizzato dai lavoratori delle
piantagioni quando tornavano ai loro villaggi per portare il denaro ed i beni acquistati sulla costa.
Riempivano le casse di pietre e metallo, ed eseguivano dei riti che avrebbero dovuto persuadere gli
spiriti dei morti “wind people” a convertire le pietre in denaro. Questo culto si estinse quando
divenne evidente che il denaro non si materializzava.
In altre parti della Nuova Guinea, le idee legate al cargo ed i culti associati a queste idee hanno una
storia molto più lunga, si sono trasformate nel tempo, sviluppando forme di organizzazione sociale
e scopi molto più complessi. Questo avviene soprattutto in quelle aree dove il contatto coloniale e
l’influenza dei missionari sono esperienze di lunga durata, e dove viene molto sentito il problema
dello sviluppo economico. In questi casi i movimenti che contenevano un elemento magicoreligioso tendevano anche ad includere ambiziosi progetti di mutuo aiuto e di sforzi economici,
sono questi gli aspetti ricordati ora dai discendenti delle persone coinvolte nel culto, e questa
percezione oggi aiuta a dar forma alle interpretazioni antropologiche dei movimenti. Gli studi più
fruttuosi, da questo punto di vista, sono quelli condotti da antropologi con una prospettiva storica,
soprattutto quelli che sono ritornati diverse volte in periodi diversi nell’area del culto. Così gli
antropologi riescono a registrare le trasformazioni delle attività e degli scopi del culto in diverse
contingenze storiche.
Un’esempio è l’analisi di Panoff (1997) del movimento Pomio Kivung dei Maenge della New
Britain tra il 1966 e il 1981. Egli dimostra che nel corso del tempo gli elementi magico-religiosi
nelle idee delle persone che aderivano al culto si sono tramutati in nuove forme di organizzazione
per lo sviluppo economico. Altri antropologi sostengono che alcuni movimenti che erano in effetti
motivati da sforzi collettivi e razionali di cambiare per il meglio, sono stati etichettati come
irrazionali dagli osservatori coloniali che li hanno battezzati cargo cult.
Quello che è certo è che bisogna riconoscere l’intrecciarsi di idee magico-religiose con altre idee di
natura più secolare nell’organizzazione di molti movimenti indigeni per la trasformazione e per il
miglioramento della propria situazione economica e politica rispetto al mondo trasformato dalla
storia coloniale. (Questa caratteristica dei cargo cult si può rinvenire anche in alcuni comportamenti
occidentali: l’adozione di diete e stili di vita che promuovono la longevità, l’illusione di arricchirsi
tramite il gioco in borsa, i numerosi corsi di mutuo aiuto che promuovono il proprio successo nel
mondo- sono tutti esempi di comportamenti per far avverare i propri desideri combinano
organizzazione sforzi pratico, con atteggiamenti ritualistici, quindi si può dire che i cargo cults ci
siano dappertutto).
Uno dei primi antropologi ad adottare la prospettiva storica è stato Peter Lawrence (1964) nella sua
77
analisi dei movimenti cargo della Rai coast di Madang. Il suo studio ha come punto di partenza la
descrizione dell’ordine cosmico indigeno, dopodiché traccia una storia di cinque diverse fasi di
attività rituali nel contesto della società coloniale e degli effetti delle politiche amministrative
attuate: tre fasi dal 1871 al 1933, la quarta dal 1933 al 1945, e la quinta dal 1948 al 1950. Un
aspetto chiaramente evidenziato da Lawrence è che l’appropriazione da parte degli indigeni degli
insegnamenti del cristianesimo è una componente importante di questi movimenti, in tutte le loro
fasi storiche. L’ideologia cristiana stessa, soprattutto tradotta in pidgin, è potenzialmente ambigua e
porta a molte interpretazioni, soprattutto nei riferimenti al paradiso.
La sua descrizione della quinta fase dell’attività cargoista, dal 1945 è incentrata su un leader
rituale, Yali. Suo padre era stato il tenutario delle conoscenze magiche tradizionali degli Ngaing.
Yali divenne un rappresentante indigeno del suo villaggio, ed accompagnava le pattuglie degli
ispettori coloniali Australiani, poi si arruolò nella polizia (il sistema coloniale in Papua Nuova
Guinea era basato su pochi ufficiali bianchi e un gran numero di uomini indigeni, reclutati
inizialmente tra i Motu della zona di Port Moresby). Quando scoppiò la guerra in Europa, Yali era
nella città costiera di Lae, sentì parlare di molti movimenti del cargo nella sua ragione, poi fu
promosso Sergente, assegnato a compiti di guerra, e mandato in Australia per essere istruito al
combattimento nella giungla. In Australia visitò alcune città, fabbriche, una raccolta museale di
oggetti sacri della Nuova Guinea: un suo compagno si chiese perché i missionari bianchi li avessero
convinti a bruciare i loro oggetti sacri, se invece altri bianchi li raccoglievano custodivano in una
costruzione apposita. Ritornato in Nuova Guinea Yali si fece una reputazione di combattente,
incoraggiato dalle promesse fatte alle reclute indigene che gli australiani li avrebbero aiutati a
ottenere più benessere una volta finita la guerra.
Dopo la guerra Yali divenne il leader riconosciuto di una rinnovata forma di pensiero cargoista
anche se secondo Lawrence lui stesso non era necessariamente convinto di tutte le credenze
associate alla sua persona. Quello che è certo è che era convinto che l’amministrazione coloniale
avrebbe ricompensato lui e la sua gente per gli sforzi fatti durante la guerra. Dopo un viaggio
fallimentare a Port Moresby nel 1947, Yali si rivoltò contro l’amministrazione. Dopo aver appreso
che alcuni occidentali credevano all’evoluzionismo invece che nella creazione dell’uomo da parte di
Dio, Yali si risentì con i missionari per aver tenuta segreta questa informazione, e si ribellò anche ai
loro insegnamenti. Decise di riorganizzare il paganesimo per assicurarsi l’aiuto degli spiriti indigeni
per ottenere buoni raccolti, selvaggina abbondante e maiali da allevamento.
A quel tempo Yali fu influenzato anche da Gurek, un catechista cattolico indigeno, che sosteneva di
aver avuto visioni in cui spiriti soldati si addestravano nella foresta e si preparavano a portare fucili
ed altri beni occidentali alla gente. Gli altri, secondo Gurek, non riuscivano a vedere questi spiriti
soldati perché portavano la rabbia nei cuori e litigavano troppo. Dovevano vivere in pace, seguire
lui, e avrebbero trovata la “strada per il cargo”.
Disilluso con le autorità sia secolari che religiose del colonialismo, Yali adottò la posizione di
Gurek. Sviluppò una nuova serie di rituali, alcuni derivati dalle abitudini occidentali osservate in
Australia, come quella di decorare i tavoli con dei fiori, su questi tavoli venivano allestiti dei
sacrifici agli dei indigeni locali. Yali ristrutturò l’organizzazione politica locale di tutta l’area di
Madang e Bogia, dove si diffusero i nuovi rituali cargo. Imitando la struttura piramidale dei modelli
coloniali, si mise in cima a questa organizzazione, percorreva periodicamente la zona (come
facevano le pattuglie di ufficiali coloniali), consigliava la gente su come eseguire i rituali senza
incorrere nel dispiacere delle autorità coloniali. Durante quel periodo molti abitanti della costa Rai
lasciarono il cristianesimo, però, dopo la partenza di Gurek, cominciarono ad essere delusi
dall’apparente mancanza di efficacia dei nuovi rituali pagani.
La missione Luterana costruì un dossier contro Yali, accusandolo di corruzione, fu processato e
incarcerato, ma non per reati collegati alla promozione dei cargo cults. In prigione perse la sua
influenza.
L’impressionante organizzazione politica sviluppata da Yali era un segno dell’allargamento di
aspirazioni politiche da parte degli indigeni delusi dal governo e dalle missioni. Secondo Lawrence,
78
questi movimenti potevano quindi essere considerati come una forma rudimentale di nazionalismo.
Anche Peter Worsley (1957) sottolineava la componente nazionalistica dei movimenti cargo cult in
Nuova Guinea e nelle Salomone. Mentre è chiaro che i movimenti contenessero elementi di
ribellione e resistenza, dovrebbero però essere considerati in prospettiva regionale più che
nazionale, in quanto negli anni in questione ancora non esisteva la nozione di una unica Papua
Nuova Guinea. Possiamo interpretare questi movimenti come i precursori del nazionalismo, nel
senso che erano movimenti di opposizione al regime coloniale, anche se in realtà non erano
movimenti di protesta contro la dominazione da parte di un altro potere, piuttosto era una protesta
per le “mancate promesse”.
Gli effetti a lungo termine di questo importante movimento continuano a farsi sentire; Elfriede
Hermann che ha lavorato nella stessa zona in periodi più recenti, ha osservato come le idee sulla
figura storica di Yali influiscano ancora sui discendenti di coloro che venivano chiamate le
“ragazze dei fiori” nei rituali collegati al suo movimento. Hermann (1977) spiega come oggi gli
abitanti di quella zona abbiano sviluppato un’ideologia legata al costume, kastom, in opposizione
alla definizione coloniale di cargo cult per combattere lo stigma legato a questo termine.
In parte questo stigma è dovuto al conflitto di Yali con la missione luterana; dopo la caduta di Yali
ed il suo arresto, i suoi seguaci si vergognarono del proprio coinvolgimento nel movimento. In
seguito cercarono di rivalutare quegli aspetti rituali indigeni usati da Yali ma che sono associati alla
tradizione, più che al cargo cult. Oggi gli abitanti del villaggio originario di Yali si distanziano dai
riti associati ai fiori che aveva introdotto, dicendo che questi non sono “autentici”, non fanno parte
del kastom. Le donne che avevano avuto un ruolo in questi rituali spiegano che lo facevano solo
perché secondo il kastom le donne dovevano aiutare nei riti organizzati dagli uomini, e quindi
seguendo le indicazioni degli uomini in posizione di leadership rituale, non facevano che dimostrare
la propria volontà di aiutare, come da tradizione. Questa analisi di Hermann non serve a confutare
quella precedente di Lawrence, solo a dimostrare che i discorsi e le ideologie si trasformano nel
tempo. Nel 1986 il libro di Worsley è stato tradotto in pidgin e venduto, sarebbe interessante sapere
com’è stato recepito nella zona di Madang.
I dibattiti antropologici sull’etichetta “cargo cult”, oltre che sulla loro interpretazione continuano.
Lo stigma a cui fa riferimento Hermann ha portato alcuni antropologi a distanziarsi dall’uso di
questo termine, altri sottolineano come comportamenti simili possono essere identificati anche in
culture occidentali. Le domande fondamentali poste da Yali, su come la ricchezza sia originata e su
come si possa venirne in possesso, possono trovare risposte in molti modi, E’ necessario
riconoscere che tutte le possibili risposte sono sempre costruite all’interno di sistemi di pensiero
particolari. Spiegare a Yali e ai suoi seguaci che gli australiani erano generalmente più ricchi degli
abitanti della Nuova Guinea perché storicamente hanno avuto un maggior accesso alla tecnologia,
perché gli indigeni erano stati indeboliti da epidemie introdotte dagli agenti del colonialismo, o
perché gli occidentali avevano inventato i fucili5, non servirebbe a rispondere alle questioni
epistemologiche e storiche più profonde con cui essi si cimentavano. Come evidenziava lo studio di
Lawrence le questioni più profonde alla base del movimento di Yali avevano a che fare con i temi
dell’uguaglianza e con i poteri che danno forma al cosmo. Secondo Strathern e Stewart (2002) lo
studio dei movimenti storici per la trasformazione in Melanesia, ci insegna non solo che i cargo
cults erano il risultato dell’intrusione coloniale, o addirittura un’invenzione dell’immaginazione
occidentale incapace di concepire la nascita di un movimento di ribellione indigeno, ma che
movimenti in cui si intrecciano scopi ed idee religiose, politiche ed economiche, sono eventi
ricorrenti nella storia e nell’esperienza umana universale.
Cristianesimo e antenati tra i Korafe della Oro Province
I cargo cults non sono le uniche manifestazioni di religiosità melanesiana nel contesto coloniale e
post-coloniale. In molte aree della Nuova Guinea, e della Melanesia in generale, diverse missioni
5
Cf. Jared Diamond Guns Steel and Germs
79
cristiane hanno convertito le popolazioni locali al cristianesimo. I metodi adottati, il personale
impiegato, le dottrine trasmesse dai missionari, ma anche il modello di vita famigliare e di
comunità incoraggiati dai missionari variano a seconda del tipo di missione che si è instaurato, e dal
periodo storico in cui è avvenuta la missionizzazione di un’area.
Per quel che riguarda la costa nord-orientale della Nuova Guinea, la missione che storicamente si è
instaurata nell’area ed ha convertito gli indigeni, tra cui i Korafe, è quella Anglicana. I primi
contatti risalgono alla fine del ‘900, con le visite saltuarie di missionari che navigavano lungo tutta
la costa da una mission station ad un'altra in battello. Negli anni ‘trenta è stata costruita una
missione nel territorio Korafe, lo staff includeva un padre inglese con sua moglie e un paio di
evangelisti provenienti da altre isole del pacifico. Seguendolo schema abituale i missionari
combinavano le loro attività di proselitismo con assistenza medica e con l’insegnamento
elementare. I ragazzi più portati erano incoraggiati a proseguire gli studi nelle scuole superiori della
missione, ad Alotau, in cui sono state formate quelle che sarebbero diventate le élites della nuova
nazione. Con la seconda guerra mondiale il personale della missione è stato evacuato, e gli stessi
Korafe hanno abbandonato i villaggi per rifugiarsi nella foresta.
Dopo la guerra e con l’indipendenza della Papua New Guinea, anche le missioni anglicane hanno
seguito la strada dell’indigenizzazione, e il personale della chiesa è tratto prevalentemente dalle leve
di indigeni che da ragazzi che avevano frequentato le scuole missionarie. Dalle mission stations i
padri anglicani pattugliano periodicamente le proprie diocesi per celebrare la messa ed eventuali
battesimi e matrimoni crisitiani. Per il resto dell’anno le chiese locali sono affidate alle cure di
evangelisti locali che vivono nei loro villaggi di origine e conducono il servizio religioso ogni
domenica, organizzano attività di manutenzione della chiesa, pregano in caso di malattia o morte,
organizzano gruppi di studio della bibbia. Queste attività sono affiancate da altre organizzate dai
membri locali di organizzazioni anglicane transnazionali, come la Mother’s Union e
l’organizzazione giovanile Youth Groups. Queste da un lato forniscono opportunità a donne e
giovani di riunirsi con scopi che variano dall’intrattenimento, a riunioni di preghiera per i malati, a
progetti di “sviluppo” economico, dall’altro allarga l’orizzonte sociale dei membri mettendoli in
contatto con tutta una serie di gruppi della stessa organizzazione in diverse parti della Papua New
Guinea, e del mondo anglosassone in genere. Questo allargamento dell’orizzonte sociale, in effetti,
è uno dei principali effetti della pacificazione da un lato, ma soprattutto degli insegnamenti del
cristianesimo, con la sua ideologia della fratellanza tra gli uomini di tutto il mondo.
A metà degli anni ’80, al tempo della mia ricerca sul campo, tutti i Korafe si dichiaravano cristiani,
la maggioranza anglicani, anche se gli abitanti di uno dei villaggi avevano da poco aderito alla
chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno, convinti da un migrante ritornato dalla città. Alcuni
anziani ricordano di aver visto i propri padri e nonni “costretti” a bruciare reliquie degli antenati
associate ai rituali tradizionali, e anche persone di mezza età ricordano le ultime feste di scambio, e
festini di corteggiamento tra i giovani: cose che non succedono più “perché ora è il tempo della
chiesa e del denaro, non degli antenati e degli spiriti.” Nonostante ciò il cristianesimo non è vissuto
come un’imposizione, ma come una delle dimensioni nuove della loro vita contemporanea, una
dimensione che li impegna e di cui vanno fieri, è un aspetto della propria identità che associano alla
modernità, contrastandola con un passato associato ad uno stato primitivo e di ignoranza.
Dal punto di vista della cosmologia tradizionale, per i Korafe, il cristianesimo è stato come la
rivelazione dell’esistenza di un ulteriore livello di socialità, e di esseri di natura sacra, che
inglobava il sistema tradizionalmente conosciuto di clan derivati, idealmente per discendenza
patrilineare, da un gruppo di fratelli, differenziati per età e ognuno con conoscenze, poteri, e
responsabilità rituali specifiche. Questo nuovo livello superiore, più inclusivo, era naturalmente
associato a poteri e ricchezze maggiori, appunto quelli esibiti dai bianchi, portatori della nuova
conoscenza.
La struttura sociale Korafe è organizzata concettualmente in termini derivati dalle relazioni tra
fratelli maggiori e minori. I clan, che idealmente corrispondono a gruppi co-residenti nello stesso
villaggio, sono composti da un gruppo di fratelli, discesi in linea patrilineare dallo stesso antenato,
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con le rispettive mogli e figli. I figli adulti si sposano e costruiscono la propria casa nel villaggio.
All’interno del clan il fratello senior (il maggiore della generazione più anziana) è il custode della
conoscenza magica specifica di quel clan. Diversi clan, discesi rispettivamente da un gruppo di
fratelli, gli ancestri d’origine, formano un gruppo di alleanza che occupa un dato territorio
all’interno dell’area linguistica Korafe. All’interno di questo gruppo d’alleanza il clan che traccia la
propria discendenza dal fratello maggiore tra gli ancestri d’origine, gode di status superiore, ed è
detto Kotofu, tutti gli altri sono di status comune e sono detti Sabùa6. A loro volta i gruppi di
alleanza, ognuno associato al proprio clan Kotofu, sono appaiati in relazioni di scambio competitivo
reciproco, nate in tempi precoloniali.
I clan sono gruppi corporati, sia rispetto alla terra che alla conoscenza rituale ed ai poteri magici
associati ad essi. Esiste una specializzazione rituale tra i clan di un gruppo di alleanza. I Kotofu
sono i clan che controllano la magia della parola, questo gli conferisce il potere di persuasione e, ai
loro membri anziani, lo status di leader: con la loro magia convincono i propri seguaci a partecipare
alle loro imprese, che siano guerre, danze, o feste. Discendenti di un fratello maggiore, sono
considerati i fratelli maggiori degli altri clan: sono responsabili, posati, ed usano la loro autorità per
il bene comune, promuovono iniziative a cui partecipano i clan minori, e si occupano della
distribuzione tra questi dei benefici ottenuti (dalla guerra o dalle cerimonie di scambio).
Nell’ideologia politica locale i Kotofu hanno la responsabilità di prendersi cura dei Sabùa. In
contrasto i discendenti dei fratelli minori, i membri dei clan classificati come Sabùa, hanno il
dovere di lavorare per i Kotofu, ma si aspettano che questi si prendano cura di loro. Come i fratelli
minori in una famiglia sono più irresponsabili, uomini d’azione non di pensiero. Ognuno di questi
clan è associato alla conoscenza rituale e magica di un ambito diverso, che può essere usato per
scopi benefici (quando è diretta all’interno del gruppo) o malefici (quando è diretta a nemici o
rivali). Per questo lato negativa la magia all’infuori di quella per parola è preclusa ai clan Kotofu.
Gli ambiti sono l’agricoltura, il tempo, la salute, la pesca, la caccia, eccetera.
All’interno di ogni clan è il fratello senior ad avere in custodia le reliquie degli antenati, e, cosa più
importante, la conoscenza rituale che permette di convocarne i poteri. Come per gli altri tipi di
lavoro, ogni specialista rituale dovrebbe utilizzare i propri poteri solo per la promozione del
benessere generale del gruppo di alleanza, sotto la guida del Kotofu. L’ideologia sociale dei Korafe
promuove la cooperazione tra i clan di un gruppo di alleanza come tra un gruppo di fratelli, guidati
dal maggiore.
A questa struttura ideale il cristianesimo ha sovrapposto un livello superiore, quello di un Dio
“Padre”, che rende tutti gli uomini del mondo “fratelli”. Questa espansione dell’orizzonte morale
riflette un effettivo allargamento del mondo sociale dei Korafe, avvenuto in seguito alla
colonizzazione.
Il fatto che il cristianesimo fosse così evidentemente associato alla maggior prosperità e ai poteri
straordinari dimostrati dai bianchi, è stato un fattore determinante per la pronta conversione dei
Korafe. Era come se i missionari, rivelando l’esistenza di un padre, a un livello superiore dei fratelli
originari, avessero rivelato un livello superiore di conoscenza, evidentemente portatore di poteri
superiori e maggior ricchezza .
Il problema, per i Korafe contemporanei, è che la ricchezza e il potere dei bianchi non sono arrivati
ai loro villaggi, nonostante la loro nuova fede e l’assidua partecipazione alle attività rituali della
chiesa. E allo stesso tempo i problemi tradizionalmente gestiti con il ricorso a rituali magici in cui si
faceva appello ai poteri degli spiriti ancestrali, non se ne sono andati. La risposta a questo paradosso
è di ordine morale. Nella tradizione Korafe il successo sia individuale che collettivo dipende da un
6
Questa ereditarietà è simile a quella nelle Trobriand, dove non l’individuo ma il sub-clan eredita lo
status di chiefly. La cultura Korafe ha caratteristiche associate agli austronesiani ed altre più
comunemente associate ai papuani, come la lingua che è non-Austronesiana. Questo riflette la
movimentata storia precoloniale delle popolazioni costiere, in cui gruppi austronesiani e papuani si
sono contesi il territorio, sposati e scambiato beni, idee, e morti per anni.
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rapporto morale positivo con gli antenati, che potevano aiutare od ostacolare i loro discendenti per
esprimere la propria approvazione o per punire i trasgressori.
Questo aspetto si scontra col fatto che gli insegnamenti dei missionari condannano senza esclusione
qualsiasi contatto con la magia, con gli spiriti e con gli antenati: tutti elementi della cultura
tradizionale associati non solo ad un passato primitivo e inferiore, ma alla superstizione pagana e al
diavolo. Per accedere al paradiso cristiano (che i Korafe si immaginano come un supermercato di
beni di lusso occidentali) è necessario rinnegare completamente il contatto con gli antenati e
soprattutto l’uso dei poteri che ne derivano. Nella concezione cristiana non c’è più la distinzione di
magia positiva e negativa, la magia è un’espressione della malvagità di Satana.
Se in tempi tranquilli questa contraddizione è mascherata e praticamente tutti i Korafe possono
sostenere che la magia e gli spiriti sono cose che appartengono al loro passato, ai loro precedessori,
ma che non interessano più la loro vita, in quanto preferiscono dedicarsi alle attività legate al
cristianesimo ed all’acquisizione del denaro, la situazione è diversa in momenti di crisi. Il problema
è che nella visione morale Korafe ai poteri sono sempre accoppiate delle responsabilità rituali, e
quando succede qualcosa di brutto al gruppo (una siccità, un’epidemia, un periodo di sfortune) gli
uomini che sono i custodi della proprietà e della conoscenza rituale del gruppo sono sotto lo
sguardo di tutti. Se normalmente sono un po’ derisi per il loro ruolo rituale, ora ci si aspetta che
agiscano, che si dichiarino cristiani o meno.
Se in un periodo di siccità tutti gli orti producono poco, ci si aspetta che l’uomo più anziano del clan
associato alla magia del giardinaggio si faccia carico del problema e convinca i suoi antenati a
riportare la fertilità agli appezzamenti del suo gruppo. Altrimenti il sospetto nasce che sia stato lui,
per motivi politici, di vendetta, o d’accordo con un rivale, a causare il problema e la punizione
comporta l’uso della stregoneria per farlo ammalare a sua volta.
Il risultato è una situazione diversa da quella descritta per esempio da Keesing per i Kwaio delle
Salomone, in cui le comunità si differenziano tra tradizionalisti e cristiani. Qui il conflitto tra
cristianesimo e tradizione ancestrale è vissuto a livello individuale dagli anziani che normalmente
sono scoraggiati dal sottolineare il loro ruolo rituale per conquistarsi il diritto di essere “buoni
cristiani”, e hanno difficoltà a trovare un giovane a cui trasmettere la propria conoscenza e i poteri
magici, ma che in periodi di crisi sono sotto pressione per dimostrare di voler prendersi cura del
benessere generale.
Per altri aspetti, la chiesa anglicana locale ha fatto proprie alcune caratteristiche della tradizione
Korafe. Anche se i Korafe rimpiangono le feste di un tempo, queste sono sostituite dalle Church
Day feasts, che sono molto simili in struttura a quelle tradizionali, con la differenza che i partner di
scambio cerimoniale non sono più i nemici tradizionali, ma gruppi associati ad un’altra chiesa, di un
gruppo linguistico diverso e più distante geograficamente, ancora una volta riflettendo l’espansione
dell’orizzonte sociale dei Korafe e delle altre popolazioni di questa costa (Gnecchi-Ruscone 1997).
Anche le tradizionali feste di corteggiamento, sospettano molti genitori, hanno trovato il loro
corrispondente nelle riunioni serali del gruppo giovanile della chiesa, che si riunisce per cantare e
suonare la chitarra al chiaro di luna.
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Culture “fluviali” della Nuova Guinea
In questo capitolo prenderemo in considerazione alcune culture della Nuova Guinea che non sono
associate né all’area del Massim, né a quelle delle Highlands. Sarebbero moltissime le culture
interessanti da considerare, ma ho scelto di concentrarmi su quelle che sono conosciute come
“lowland cultures”, perché includono culture con caratteristiche interessanti in termini comparativi,
sia tra loro che rispetto alle culture delle Highlands che abbiamo considerato. Sono due le principali
aree associate a importanti sistemi fluviali e alle paludi tropicali in Nuova Guinea. Ricordiamo che
la Nuova Guinea è divisa da est a ovest da due catene montuose più o meno parallele, che formano
il complesso di altipiani e di vallate conosciute come le Highlands. Il principale sistema fluviale a
nord di questa barriera è il Sepik, a sud Il Fly.
Sepik
Il fiume Sepik nasce vicino al confine tra la Nuova Guinea e la Papua Occidentale e, scorrendo
verso est, attraversa una regione della Nuova Guinea Centrale, forma un vasto bacino paludoso per
raggiungere il mare di Bismark. Sia il Sepik che il Ramu, e tutto il sistema di tributari sono
relativamente recenti. Nel tardo Pleistocene tutto il bacino è stato allagato e costituiva un mare
interno di acqua salata, gradualmente sono riaffiorate alcune parti di terra, e si è formato il bacino
fluviale. Ad Angoram durante la stagione secca è ancora possibile vedere formazioni coralline che
emergono dalla riva del fiume. Il corso del fiume (oltre 1100 chilometri) è quasi interamente
navigabile, è caratterizzato dai numerosi meandri e dai laghi formati dai cambiamenti del corso
d’acqua, il più grande dei quali è il Chambri Lake. Durante la stagione delle piogge l’area
circostante al Chambri e tutto il bacino del Sepik-Ramu (il Ramu è uno degli affluenti principali)
sono inondati, formando un’immensa distesa paludosa. Nella stagione secca, i fiumi minori ed il
lago si restringono a stretti canali e i meandri che rimangono isolati formano dei laghetti
semicircolari ( chiamati in Tok Pisin raunwaras: da round water). A causa dei movimenti del corso
d’acqua capita che interi villaggi debbano essere ricostruiti in un altro posto, o che una sezione del
villaggio si accampi in un sito separato.
La regione del Sepik si distingue in Upper, Middle, e Lower Sepik, tutta la regione, ma in
particolare le culture del Middle Sepik sono rinomate per la produzione artistica: praticamente ogni
villaggio ha sviluppato uno stile particolare di sculture lignee, associate tradizionalmente alle case
degli spiriti o haus tambaran, luoghi di culto maschile in cui si praticano le iniziazioni. Oggi molti
rituali legati alla religione ancestrale sono solo una memoria, ma le architetture e le decorazioni
rituali delle case degli spiriti sonno diventate uno dei simboli non solo per le culture del Sepik, ma
anche dell’identità nazionale della Papua New Guinea, e attirano numerosi turisti e commercianti di
arte etnica nella regione. Molti musei espongono pezzi di arte del Sepik, in particolare sono
conosciute le collezioni di arte del Sepik del museo etnografico di Basilea, in Svizzera, e quelle di
New York: al Museum of Primitive Art, e nelll’ala Rockefeller del Metropoliotan Museum.
Le società della regione del Sepik si distinguono tra quelle popolazioni che abitano villaggi sulle
rive dei fiumi e quelle di terraferma, associate alla foresta. Il modo di sussistenza tradizionale delle
popolazioni fluviali è basato principalmente sulla caccia e la raccolta sedentaria. Quello del fiume e
della palude è un ambiente ricco di risorse acquatiche, e la pesca nelle lagune abbondante. L’altra
risorsa importante di questo ambiente è la palma da sago, (Metroxylum rumphii) che fornisce la
principale fonte di carboidrati. La pianta non è coltivata, anche se il suo sfruttamento necessita di
qualche cura, e permette di produrre in brevi periodi di lavoro concentrato, grandi quantità di cibo
che si può conservare nel clima caldo e umido della Nuova Guinea. Gli uomini cacciano maiali e
casoari selvatici nella foresta, e sia uomini che donne coltivano piccoli appezzamenti di ignami e
altri ortaggi. Gli abitanti dei villaggi sui corsi d’acqua si definiscono pescatori e considerano i fiumi
ed i laghi il proprio habitat, e le canoe il mezzo di comunicazione preferito. Per loro la terra ferma è
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un ostacolo al movimento, la foresta un ambiente pericoloso ed inospitale. Gli abitanti delle zone
più interne invece, considerano I corsi d’acqua delle barriere temibili, in genere non sanno nuotare o
pagaiare, e sono orticoltori e produttori di sago, oltre che cacciatori. Gli abitanti dei grandi villaggi
sui fiumi disprezzano le popolazioni della foresta, li considerano primitivi e più selvaggi. Il fatto
che le loro case non sono costruite sulle palafitte ma sulla nuda terra li fa sembrare simili agli
animali, e le loro abitudini strane li rendono “pericolosi”. Anche i loro villaggi, piccoli, recintati e
protetti da barriere di piante spinose sono in netto contrasto con quelli grandi e soleggiati sulle rive
dei fiumi. Gli abitanti delle rive dicono dei bushmen che vivono nella foresta come i maiali
selvatici, e possano mutarsi in questi animali per attaccare chi si avventura nelle parti buie della
foresta. Gli abitanti dei villaggi sui fiumi attribuiscono a quelli della foresta conoscenze e poteri
magici negativi, sono rinomati per la stregoneria fatta usando i rifiuti delle vittime.
I Manambu, una popolazione fluviale, hanno un detto per cui gli abitanti della foresta muoiono tutti
di stregoneria, mentre gli abitanti dei villaggi sulle rive dei fiumi muoiono a causa delle infrazioni
rituali o di relazioni incestuose. In passato questi gruppi erano le principali vittime dei raid dei
guerrieri dei villaggi fluviali, e viceversa (Harrison, 1993: 33).
In generale le popolazioni del Sepik vivono in villaggi popolosi composti da diversi gruppi o clan di
discendenza patrilineare, in cui l’antagonismo sessuale è pronunciato, ma i legami col clan materno
sono promossi da relazioni di patronato tra i ragazzi e il fratello della madre, che contribuiscono al
nutrimento dei bambini ed assumono un ruolo protettivo e di sostegno durante le fasi più dure
dell’iniziazione. Queste relazioni, che si intersecano con quelle patrilineari che determinano
l’appartenenza al clan, servono a imbastire una serie di relazioni che facilitano la convivenza di
membri di diversi gruppi in villaggi numerosi, nonostante un ethos violento ed individualista.
Iatmul
Tra le popolazioni del Sepik, una di quelle più conosciute è quella degli Iatmul, studiati da Gregory
Bateson e descritti negli anni 1930 nella sua monografia “Naven”. Gli Iatmul sono pescatori e
orticoltori che abitano venticinque villaggi prosperosi sulle rive del tratto mediano del Sepik. Alcuni
anni dopo la sua prima ricerca sul Sepik, Bateson ha fatto ritorno al villaggio di Tambunum insieme
a Margaret Mead, nel 1938, Lo stesso villaggio è stato ripetutamente visitato da Eric Kline
Silverman durante gli anni ’80 e 90’, che lo descrive come un bellissimo villaggio vibrante e
prospero, con 1000 abitanti che risiedono in centoventi case enormi ed elaboratamente decorate.
L’aspetto della cultura Iatmul che più interessava Bateson era una tradizione chiamata, appunto,
naven, e che, secondo lui, permetteva ai membri di diversi gruppi di discendenza ma che
risiedevano nello stesso villaggio, di costruire delle salde relazioni e alleanza. Questo era uno dei
motivi per cui nonostante la violenza e la volatilità degli uomini del Sepik (caratteristiche
apprezzate e volutamente promosse dai riti di passaggio a cui erano sottomessi i ragazzi) i membri
di diversi clan riuscissero a convivere in grandi villaggi numerosi. La società Iatmul è strutturata in
gruppi di discendenza fortemente patrilineari, ma l’usanza del naven serve a sottolineare e a
rinforzare sia simbolicamente che nella pratica i legami matrilineari che si intersecano con quelli
che determinano l’appartenenza dell’individuo ad un clan.
Ogni bambino ed ogni bambina sono “assegnati”, fin dalla nascita, ad uno zio materno, il suo wau.
Lo wau si impegna a costruire e sostenere una relazione privilegiata con il figlio della sorella, il suo
laua, gli fa dei doni di cibo, lo sostiene durante le diverse fasi dolorose e spaventose del processo
d’iniziazione e, in periodi pre-pacificazione, lo aiutava a commettere i primi omicidi, necessari per
diventare un uomo adulto. Inoltre, ogni volta che il suo laua riesce in un’impresa difficile per la
prima volta (tipo costruire una canoa, uccidere un coccodrillo, uccidere un abitante di un altro
villaggio, o attirarlo con l’inganno in un’imboscata per permettere agli altri uomini di ucciderlo), il
wau si traveste da vecchia malandata, e per commemorare l’evento si trasforma in buffone,
marciando su e giù per il villaggio e ballando. E’ questo atto di travestimento e di buffoneria, a cui
si uniscono anche altri uomini e donne travestiti da membri del sesso opposto che si chiama naven,
e la domanda principale che si è posto Bateson nella sua etnografia è perché gli Iatmul avessero
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questa usanza.
La sua risposta era formulata secondo le teorie del funzionalismo strutturale che si stava
sviluppando in quegli anni, e dimostrava come da un lato il naven era una conseguenza della
struttura della società Iatmul, e dall’altro contribuisse alla riproduzione di quella stessa struttura.
La relazione tra wau e laua è una relazione importante per entrambi i partecipanti, è fonte di
orgoglio personale, ma soprattutto fornisce ad entrambi un’alleanza stabile e duratura, che li
accompagna per tutta la vita, forgiado un legame importante tra membri di due clan diversi. Questa
alleanza può essere di importanza fondamentale dato la violenza che caratterizza l’ambiente sia
interno che esterno al villaggio.
Uno dei processi analizzati da Bateson nella struttura sociale Iatmul è quello che ha chiamato la
schismogenesi. Secondo lui questo processo caratterizza le relazioni tra diversi tipi di gruppi e di
categorie sociali tra gli Iatmul, ed è una sorta di “interazione cumulativa” in cui un conflitto si
intensifica via via che gli antagonisti reagiscono uno all’altro, e reagiscono alle reazioni reciproche,
in un processo di feedback positivo, fino a portare alla formazione di fazioni nel villaggio, ed
eventualmente alla dipartita di una o più fazioni che decidono di stabilirsi in in altro luogo,
formando un nuovo villaggio. Secondo Harrison (1993) questo processo, tipico delle società
melanesiane, e in particolare del Sepik, è uno in cui il conflitto e la competizione sono relazioni
sociali che in un certo senso “creano” i competitori unendoli in una relazione di conflitto. E’ proprio
attraverso questo processo conflittuale, che sfocia in una scissione tra individui o gruppi antagonisti,
che si formano le identità sociali degli attori.
Il naven, quindi funge come meccanismo di controllo di questa tendenza separatista ed
individualista degli Iatmul; permette a tutta una serie di diversi gruppi di convivere più o meno
stabilmente in grandi villaggi popolosi, anche in assenza di strutture politiche di controllo sociale.
La tradizione del naven lega membri di clan diversi tra loro in relazioni determinati da discendenza
matrilineare, che si intrecciano con quelli patrilineari. Questo meccanismo funziona per tenere
assieme i villaggi fino a una certa misura, oltre un certo punto l’equilibrio tra le tendenze
individualiste e quelle unificatrici si spezza, e la schismogenesi giunge alla sua conclusione.
Bateson considerava il naven come un esercizio di travestitismo, e per comprenderlo meglio ha
analizzato le differenze e le relazioni di genere tra gli Iatmul. Descrive gli uomini come duri,
arroganti, individualisti e poco propensi alla collaborazione, tanto che trovava sorprendente il fatto
che riuscissero a convivere in villaggi così numerosi per gli standard melanesiani. Le donne, invece,
tendono ad essere allegre e conviviali, soprattutto quando sono lontane dagli uomini. Le relazioni
tra uomini e donne sono piuttosto antagoniste, il lavoro quotidiano ricade quasi esclusivamente sulle
spalle delle donne, che raccolgono il cibo dalla foresta, pescano pesci e gamberetti dal fiume,
allevano i maiali e si occupano dei bambini. Gli uomini sono cacciatori e, tradizionalmente,
guerrieri: attività maschili legate ad un’intensa attività rituale che comporta la costruzione di case
rituali speciali, riservate agli uomini, e l’organizzazione di festività spettacolari e riti segreti, da cui
sono esclusi i ragazzi non iniziati e le donne. Uno degli scopi di questi rituali e della segretezza che
li accompagna è quella di impressionare le donne con il potere maschile e la loro associazione con
gli spiriti.
Secondo Silverman (2001) il rito del naven è una celebrazione dei successi individuali tramite uno
sguaiato capovolgimento caricaturale dei ruoli di genere, in particolare delle caratteristiche
associate alla maternità da un lato ed alla mascolinità dall’altra. Tra le imprese che vengono
celebrate con la cerimonia del naven nel periodo contemporaneo, Silverman include l’acquisto di
un motore fuoribordo e un viaggio in areo.
Un altro aspetto della vita sociale degli Iatmul descritto nella monografia di Bateson è la
risoluzione dei conflitti. In caso di discordia, o se qualcuno trasgrediva qualche norma veniva
convocata una riunione suonando lo slit gong della casa cerimoniale degli uomini, vietata alle
donne. Qui i diversi partecipanti prendevano la parte di una delle parti e dibattevano la questione,
punteggiando le proprie orazioni coll’azione di sbattere alcuni rami di una pianta particolare su uno
sgabello cerimoniale. In alcuni discussioni particolarmente accese gli uomini di una fazione
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minacciavano di rivelare i segreti totemici del gruppo antagonista. Quando questo avveniva, e un
gruppo rivelava in tono di scherno i segreti dei rivali, questi rispondevano con violenza.
Silverman, tornato nello stesso villaggio cinquant’anni dopo Bateson, descrive molte trasfomazioni
nella vita quotidiana degli Iatmul: le canoe sono fornite di motori fuoribordo, e la dieta tradizionale
abase di sago, pesci e tuberi è variata dall’aggiunta di beni comperati nei magazzini commerciali
(tradestores) come pesce in scatola, riso, biscotti, caffè, latte in polvere, birra. Altri beni importati
ormai entrati in uso comune sono le pile, il kerosene per le lanterne, le aspirine ed il sapone. I
bambini vanno a scuola, e c’è un costante flusso di persone che si muovono tra il villaggio ed i
centri urbani dove numerosi Iatmul lavorano come insegnanti, commessi, poliziotti, cameriere di
hotel, ma anche come avvocati e impiegati negli uffici pubblici. Una delle trasformazioni fisiche
più evidenti nel villaggio è che l’imponente casa cerimoniale riservata agli uomini è stata distrutta
durante la seconda guerra mondiale, questo ha avuto la conseguenza di sospendere le cerimonie di
iniziazione maschili. Eppure, secondo Silverman la modernità non ha completamente eclissato le
tradizioni, se la casa cerimoniale non è stata ricostruita, esistono comunque dei luoghi di ritrovo
esclusivamente maschili, in scala ridotta, dove gli uomini continuano a fare i preparativi per le
cerimonie, a rilassarsi, e partecipare ai dibattiti politici. Le radio o i registratori che trasmettono
musica contemporanea sono spenti quando si sente il suono dei flauti sacri, i giovani imparano gli
inni della chiesa cristiana, ma sono ugualmente interessati ai canti totemici, alla mitologia
tradizionale, e ad apprendere la magia. Il villaggio stesso Tambunum, una volta un nodo centrale
dei commerci della regione è diventato un importante “emporio turistico” del Sepik, e vanta una
guesthouse per i turisti ed i mercanti d’arte.
Il villaggio di Tambunum è considerato uno dei più prolifici produttori di “arte per turisti” del
Sepik. E’ vero che la produzione artistica è stimolata soprattutto dal desiderio di guadagnare dei
soldi, ma questo non impedisce ai lavori di esprimere visivamente come gli uomini e le donne
Iatmul costruiscono la propria identità etnica e personale. L’arte turistica, com’è stata denominata
la produzione più commerciale per distinguerla dagli oggetti di carattere sacro che per primi hanno
attirato l’attenzione dei visitatori occidentali al Sepik, riesce ad integrare temi tradizionali con
simboli e materiali moderni, e rappresenta l’era contemporanea con la giustapposizione di elementi
locali ad altri globali. Nonostante che gli abitanti del villaggio siano orgogliosi delle proprie
tradizioni, delle loro tradizioni architettoniche, della loro fama di artisti, oltre che della guesthouse
per i turisti, anch’essi sono frustrati dalla mancanza di sviluppo economico nella loro regione.
Gli Abelam
Gli Abelam sono un gruppo numeroso, abitano le pendici meridionali delle Prince Alexander
Mountains, del distretto del Sepik. Parlano diversi dialetti di una lingua della famiglia Ndu, uno dei
gruppi linguistici più numerosi della Lowland New Guinea.
I villaggi costituiscono la principale unità politica e, tradizionalmente, il gruppo funzionale alla
guerra. Anche i villaggi sono piuttosto popolosi, la popolazione varia dai 300 agli 800.
L’alimento base sono gli ignami, ma si coltivano anche taro, cocchi, frutto del pane e sago;
l’allevamento dei maiali fornisce un’importante fonte di proteine, oltre a un bene di scambio per
ottenere degli anelli di conchiglia che hanno un valore molto alto tra gli Abelam, costituiscono la
ricchezza.
Le relazioni di scambio cerimoniale sono molto importanti per gli Abelam e, assieme alle relazioni
di scambio occasionate dai matrimoni, che continuano per tre generazioni, costituiscono il modo
principale per ridistribuire i prodotti nel villaggio e tra villaggi. Il sistema di scambi cerimoniali,
però è soprattutto il principio organizzativo per tutte le cerimonie degli Abelam.
Le cerimonie sono eseguite da una metà di un’organizzazione dualistica, che organizza l’iniziazione
dei figli dei propri partner di scambi, che appartengono all’altra metà, e ricevono in cambio dei
maiali.
La cerimonia successiva è eseguita dall’altra metà e i ruoli sono capovolti. Otto cerimonie, di
importanza ed elaborazione crescente formano un ciclo rituale. Dato che un uomo può essere
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iniziato solo ad una cerimonia organizzata dai suoi partner di scambi, ci vogliono due cicli interi per
completare l’iniziazione di un uomo, permettendogli di raggiungere lo stadio più alto in questo
sistema di iniziazioni graduate.
Negli anni 1970 Antony Forge, l’antropologo che ha studiato la società e l’arte degli Abelam,
meravigliava alla tenacità con cui gli Abelam continuavano a praticare i culti tradizionali, resistendo
alla tentazione dei numerosi cargo cults che hanno interessato l’area del Sepik dopo la fine
dell’occupazione Giapponese (Forge 1970: 271), come esempio di questa intensa attività rituale
tradizionale cita di aver assistito ad oltre venti cerimonie in due anni e mezzo di ricerca sul campo,
e della costruzione di quindici nuove case di culto Abelam nell’arco di sei mesi. Questi dati però
risalgono agli anni ’60 e ’70, non so oggi quale sia la situazione.
Numerose missioni cristiane hanno iniziato ad operare nell’area dopo la fine della guerra, e quasi
tutte inizialmente si opponevano sia al culto che l’arte che costituiva il punto focale delle diverse
cerimonie del culto. Quest’area era anche relativamente prosperosa, gli Abelam vendevano caffè,
ricavavano polvere d’oro da alcuni torrenti e vendevano sculture lignee, quindi poteva considerarsi
tra le aree più “sviluppate” in termini economici, eppure era fortemente tradizionalista e resisteva i
culti del cargo, capovolgendo gli stereotipi sullo sviluppo e la religione in Nuova Guinea. Due
fattori contribuiscono a spiegare questa situazione: il primo è la natura soddisfacente del long-yam
cult (il culto degli ignami lunghi), un culto che Forge definisce “di fertilità e nutrimento di natura
decisamente fallica” (:271), che è anche la via principale per l’ottenimento del prestigio maschile; il
secondo è la funzione che assume la frequente esecuzione delle cerimonie nella cristallizzazione e
riorganizzazione delle relazioni tra individui e gruppi, che quindi permette di portare a termine
imprese su larga scala, tra cui quelle che producono denaro, a persone che normalmente sarebbero
caratterizzate da un individualismo profondo ed aggressivo.
I rituali degli Abelam possono essere divisi in due culti, il culto degli ignami lunghi e il culto
tambaran (questo è un termine in tok pisin, che corrisponde al termine Abelam maira, ed è
diventato un termine nella letteratura etnografica melanesiana per indicare i culti legati agli spiriti
ed alle case cerimoniali maschili del Sepik). I due culti sono distinti concettualmente, e i
cerimoniali sono eseguiti in tempi diversi. A livello simbolico i due culti sono uniti in quanto
concernono aspetti diversi degli nggwalndu gli spiriti associati con i clan, nominalmente
patrilineari, che costituiscono l’unità di base della struttura cerimoniale e dell’organizzazione
interna dei villaggi e delle frazioni. Entrambi i culti sono legati alla promozione della fertilità, del
prestigio e dell’aggressività maschile.
Il long-yam cult comporta la coltivazione di una varietà particolare di ignami, la Discorsa alata in
appezzamenti speciali, vietati alle donne, e in cui possono entrare solo gli uomini che osservano
tutta una serie di tabù, tra cui quello sul sesso e sull’ingestione di carne. Le diverse fasi della
coltivazione di questi ignami lunghi comporta molti rituali e magie, e dura circa sei mesi. Una volta
raccolti, gli ignami sono decorati in maniera elaborata, gli viene applicata una maschera di legno o
di fibre vegetali intrecciate, sono esposti ed in seguito donati cerimoniosamente al partner di scambi
dell’uomo che li ha coltivati. Il prestigio del donatore dipende dal numero e dalla lunghezza degli
ignami presentati. (I più lunghi possono raggiungere 4 metri, ma di solito se ne vedono alcuni
esemplari di circa 3 metri in tutti i villaggi ad ogni stagione).
Le cerimonie del culto del tambaran si tengono dopo che tutti gli scambi di ignami sono conclusi e
quando gli ignami sono stati deposti nei loro magazzini. Tutte le cerimonie di questo culto
richiedono grandi quantità di cibo, e di solito il raccolto del taro e della varietà di igname da cibo
(Discorsa esculenta) sono già completati prima dell’inizio delle cerimonie. La stagione cerimoniale
del tambaran deve concludersi prima che inizi il lavoro di disboscamento dei nuovi appezzamenti
per la crescita degli ignami lunghi, quindi dura circa quattro mesi. Non si può tenere nessuna
cerimonia di nessun tipo durante la crescita degli ignami lunghi.
Il culto del tambaran comporta una serie di esposizioni di oggetti d’arte. Ad ogni stadio di
iniziazione viene detto agli iniziandi che gli sono mostrati gli spiriti nggwalndu; poi alla cerimonia
successiva gli viene rivelato che erano stati imbrogliati la volta precedente, e che questa volta
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vedranno quello vero. Questo meccanismo si ripete ad ogni stadio fino alla cerimonia finale, quando
agli iniziandi sono finalmente mostrate le enormi figure intagliate che sono considerate gli autentici
nggwalndu. Dato che un individuo non può essere iniziato dai membri della propria metà
dell’organizzazione dualistica, un uomo impiega da venti a trent’ anni a vedere tutte otto le
esposizioni. Queste esibizioni avvengono nella casa cerimoniale haus tambaran, costruita su un lato
del terreno cerimoniale, con un’altissima facciata cerimoniale (fino a due metri d’altezza) che
domina il villaggio e si può vedere da chilometri di distanza. La base della facciata è costituita da
stuoie intrecciate in cui si apre l’accesso, sopra c’è un’asse intagliata con delle teste, e la parte
superiore e più estesa è occupata da fasce di pitture policrome sulle falange della palma del sago.
Tra queste le pitture più grandi e più importanti sono nella fascia inferiore, rappresentano una fila di
teste di nggwalndu con grandi occhi rotondi che guardano verso il terreno cerimoniale.
L’iniziazione femminile
Le bambine sono promesse in sposa ben prima della pubertà. Alla prima mestruazione sono
sottoposte ad una cerimonia di iniziazione che comprende un periodo di reclusione ed una serie di
scambi ed esibizioni di ricchezza tra il padre ed il suo partner di scambi, seguiti da una cerimonia in
cui la ragazza è picchiata e massaggiata con le ortiche dagli uomini. La parte principale della
cerimonia è responsabilità delle donne e prende un giorno intero. All’alba la ragazza, tenuta dal
fratello della madre, è scarificata sul seno sul ventre e sulle braccia dalle donne anziane. Avvenuta
la scarificazione gli uomini sono scacciati dal terreno cerimoniale, dove le donne eseguono i propri
cerimoniali segreti in cui, tra l’altro, donne travestite da uomo imitano il comportamento dei mariti
e dei fratelli, vengono recitate pantomime sull’atto sessuale che includono consigli su come
comportarsi con gli amanti, il rituale è accompagnato da una festa e da molte risate. Solo al
tramonto le donne abbandonano il terreno cerimoniale e permettono agli uomini di ritornare per
ripulirlo e purificarlo dagli effetti di “tutte quelle vulve” (:274). Dopo l’iniziazione la ragazza è
decorata con pitture del viso per accentuarne la bellezza ed inizia un periodo idilliaco in cui non
deve lavorare, è la benvenuta ovunque nel villaggio e le viene offerto il cibo migliore. I genitali
sono coperti da una versione miniaturizzata di borse di rete, bilum, che in tempi precoloniali era
l’unico capo di vestiario mai indossato da uomini o donne Abelam. Dopo circa un anno, la
copertura genitale è rimossa, segno che il matrimonio è stato consumato e la ragazza ha iniziato la
sua carriera di donna sposata.
Iniziazioni tambaran
Dati i lunghi tempi necessari per completare il ciclo rituale delle iniziazioni tambaran, un bambino
sarà presente a tutte le cerimonie organizzate dal partner di scambio del padre dalla nascita. Tutto
quel che è necessario è che il bambino sia fisicamente presente per parte della cerimonia e che il
padre doni un maiale al partner che funge da iniziatore. Ci sono anche neonati in braccio al fratello
della madre, e bambini di quattro e cinque anni formano un gruppo, una banda di iniziandi che
dovrebbero seguire tutta la cerimonia, spesso sono spaventati scappano, soprattutto se sanno che la
cerimonia comporta percosse cerimoniali; non sono puniti per questo, ma presi un giro dai loro
compagni, e saranno considerati iniziati anche se non hanno effettivamente visto l’esposizione.
L’iniziazione non comporta un’istruzione formale, gli iniziandi devono superare alcune ordalie, di
solito percosse o massaggi con le ortiche, durante le quali sono portati a braccia dal fratello della
madre che in realtà prende su di sé gran parte delle percosse. Uomini con una reputazione di
coraggiosi tendono a percorrere il passaggio lentamente, senza schivare i picchiatori, ance se i loro
protetti ne sofriranno le conseguenze. Le percosse sono una parte essenziale di alcune cerimonie, e
non hanno scopi ulteriori, mentre i massaggi con le ortiche sono considerati di beneficio agli
iniziandi.
Gli iniziandi devono anche osservare dei tabù per qualche giorno, e devono partecipare a riti
specifici, ma non gli viene spiegato niente: vengono tirati fuori per eseguire alcuni riti, poi mandati
via fino alla prossima volta in cui sono chiamati. Anche se le cerimonie sono teoricamente eseguite
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per il loro beneficio gli iniziandi sono le persone meno importanti e reagiscono con un misto di
spaesamento e terrore.
Le percosse e i massaggi con le ortiche sono particolarmente severi prima del periodo di reclusione,
e sono seguiti da istruzioni sulla purificazione necessaria dopo il contatto sessuale tramite delle
incisioni sul pene, che vanno eseguite sulla riva di un corso d’acqua in cui va fatto scorrere il
sangue. Durante la
reclusione i ragazzi sono nutriti col cibo migliore e sono generalmente istruiti sul ruolo degli
uomini nella società e sul pericolo rappresentato dal contatto sessuale con le donne agli ignami
lunghi e alle cose sacre in generale. L’istruzione non include interpretazioni delle varie cerimonie
o racconti di miti. La reclusione dura da tre settimane a due mesi e termina con il rientro
cerimoniale degli iniziati, pitturati e decorati con copricapo di penne imponenti. Le pitture facciali
sono nello stesso stile utilizzato per le maschere di ignami, per gli nggwalndu, per gli iniziatori,
eccetto che gli iniziati hanno gli occhi interamente dipinti dello stesso colore delle guance, tanto da
sembrare non solo ciechi, ma senza occhi.
Alla fine di questa sfilata la haus tambaran e la camera interna in cui sono avvenute le iniziazioni
sono chiuse, per dare inizio alla stagione della coltivazione degli ignami lunghi: i padri doneranno
ai propri partner di scambi gli ignami decorati pre “pagare” l’esibizione rituale. Al termine degli
scambi la camera iniziatica è riaperta e smantellata dagli iniziati e dai loro padri: solo ora gli iniziati
imparano com’era costruita l’esibizione, e vedono le diverse componenti di quello che durante
l’iniziazione appariva una massa di colore e facce spaventose. Circa dieci anni dopo gli stessi
iniziandi, assieme ai loro padri e fratelli maggiori, costruiranno a loro volta l’esibizione per i
ragazzi dell’altra metà rituale, imparando a loro volta a preparare la cerimonia. Ogni Abelam
partecipa nel corso della sua vita a quattro esecuzioni di ogni cerimonia del ciclo rituale (come
iniziando e come padre dell’iniziando in cerimonie organizzate dall’altra metà rituale, e come
iniziatore junior e senior quando è la propria metà organizzare la cerimonia), dopodiché viene
escluso dai rituali del tambaran.
Oltre a partecipare alle cerimonie del tambaran, i bambini tra gli otto e la pubertà hanno un ruolo
importante nella vita rituale degli uomini adulti, proprio per il fatto di essere vergini. Gli Abelam
hanno credenze molto forti sui pericoli dell’attività sessuale per le attività rituali, anche se parlano
del pericolo della vulva, in realtà non sono le donne in quanto donne ad essere temute, ma i rapporti
sessuali. Gli uomini giovani, sposati da poco non sono considerati abbastanza affidabili da seguire i
tabù sull’attività sessuale per tutti i sei mesi necessari alla coltivazione degli ignami lunghi. Fino ai
trent’anni i giovani adulti sono esclusi dal culto degli ignami lunghi. Sono gli anziani che si
occupano dei loro ignami cerimoniali, accrescendo il proprio prestigio personale. I bambini prepuberali sono molto importanti per la coltivazione degli ignami cerimoniali, sono loro a preparare il
terreno per la piantagione e, sotto la supervisione degli anziani, a preparare e distribuire le
sostanze magiche utilizzate ad ogni fase della coltivazione.
I bambini pre puberali sono anche usati per evitare i pericoli della contaminazione nella
distribuzione dei benefici di una cerimonia tambaran. I villaggi che hanno contribuito ai preparativi
portano alcuni anelli in conchiglia di grandi dimensioni e valore e li dispongono davanti
all’esposizione per i tre giorni della cerimonia. Questi anelli, col pugnale di osso di casoario
piantato nel mezzo sono simboli di pace e collaborazione, ma sono anche nel cuore dell’esposizione
vera e propria e al centro dell’aspetto sacro della cerimonia. Alla fine sono portati fuori sul terreno
cerimoniale, adagiati su foglie di banano e lavati cerimoniosamente con latte di cocco trattato
magicamente dai bambini vergini, i quali in seguito prenderanno lo stesso latte di cocco e lo
spargeranno sulle case cerimoniali, sui nggwalndu, e sugli ignami lunghi del villaggio, trasferendo a
tutti questi oggetti i benefici rituali ottenuti con la cerimonia. Una volta raggiunta la pubertà i
ragazzi sono esclusi dai riti della coltivazione degli ignami lunghi fino a quando hanno raggiunto la
maturità da privilegiare le attività legate alla costruzione del proprio prestigio all’attività sessuale.
Gli uomini non sono considerati veramente adulti fino ai trent’anni, nei primi anni di matrimonio
sono pochi quelli che riescono a sostenere da soli la propria famiglia, allo stesso tempo sono esposti
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ad una serie di cerimonie durante le quali gli vengono mostrati oggetti scolpiti e pitture in
condizioni di grande tensione, e associate a rituali di cui non capiscono molto se non la costante
associazione al dolore.
L’arte degli Abelam e i rituali
Tutta l’arte degli Abelam è fondamentalmente legata ai culti, l’arte decorativa esiste ma è derivata
da quella sacra, e non comporta la pittura. La pittura, diversamente dalle sculture e dalle incisioni, è
un’attività sacra. La magia viene usata dagli artisti anche per le altre forma di produzione artistica,
ma solo per motivi utilitari, mentre nel caso della pittura è una parte essenziale del rito, è eseguita
da tutto il gruppo degli iniziatori nelle fasi finali dei preparativi. La fase della pittura è inaugurata e
conclusa con feste e distribuzioni di cibo; gli iniziatori si purificano ritualmente dai contatti con le
donne e osservano tabù sul sesso e sull’ingestione di carne per tutta la durata di questa fase (gli
stessi tabù associati alla coltivazione degli ignami)
Tutte le sostanze che hanno poteri magici e sovrannaturali sono classificati dagli Abelam come
pittura. La pittura usata nelle cerimonie tambaran non è intrinsecamente potente, ma diventa il
mezzo per trasferire i benefici rituali della cerimonia a coloro che vi partecipano. L’effetto dell’arte
Abelam dipende dai colori vivaci e contrastati nelle pitture policrome. Le sculture hanno meno
valore rituale, è un’attività specialistica, eseguita in segreto, ma non è una parte essenziale del
rituale. Molti uomini non partecipano mai alla scultura, mentre tutti dipingono o preparano la pittura
che è applicata a tutte le sculture, ai pannelli della facciata e ai pannelli utilizzati per costruire la
camera dell’iniziazione costruita all’interno della haus tambaran in occasione di ogni cerimonia.
In generale le sculture sono di forme umane, ma alcune, soprattutto quelle che rappresentano gli
spiriti hanno una testa molto grande. Le facce sono dipinte secondo modelli precisi che includono
una serie di elementi: ornamenti della fronte e del naso, e colori convenzionali: occhi neri, guance
gialle, ecc. In questo modo tutte le facce si somigliano e sono anche assimilabili a quelle delle
maschere applicate agli ignami lunghi, e a quelle degli iniziatori delle cerimonie. Secondo Forge
l’identificazione tra uomini, spiriti ed ignami è uno dei principali messaggi simbolici dell’arte sacra
Abelam (1970:280). Ma gli spiriti hanno più di una faccia, sono rappresentati diversamente nelle
sculture e nelle pitture bidimensionali. Infatti né le pitture né le sculture sono intese dagli Abelam
come “rappresentazioni” degli nggwalndu, non sono tentativi di mostrare come sono fatti gli spiriti,
ma sono differenti “manifestazioni” degli spiriti. (Questi si possono anche manifestare come maiali
selvatici feroci, rumori nella foresta, in sogno come uomini giganteschi). Le sculture chiamata
nggwalndu sono gli oggetti più sacri per gli Abelam, permettono un contatto ravvicinato con gli
spiriti, possono essere usate dagli uomini per manipolare o controllare il comportamento degli
spiriti, ad esempio in seguito ad una serie di malattie o eventi sfortunati è stato scolpito un nuovo
nggwalndu che ha rimpiazzato quello dall’influenza negativa, inaugurando un periodo di prosperità
e benessere.
Per Forge, l’arte Abelam comunica dei valori fondamentali della società, ma questa comunicazione
non avviene a livello pienamente cosciente, comunque non costituisce un bagaglio di conoscenza
verbalizzabile. Non esiste una iconografia sicura, i differenti elementi dei disegni, e le varie
combinazioni possibili sono essenzialmente ambigui, l’interpretazione varia a seconda del contesto
artistico e sociale e della persona che lo interpreta. Infatti gli Abelam non si interrogano sul
significato delle pitture. I singoli elementi hanno nomi e sono assemblati in composizioni
armoniche, che agiscono su chi le guarda, senza essere verbalizzate. L’arte degli Abelam, per
Forge, concerne relazioni, non cose. La sua funzione principale è di mettere in relazione cose
differenti nei termini della loro collocazione nell’ordine cosmologico e rituale, ma questa funzione
non è espletata direttamente, non è l’illustrazione di concetti espressi anche tramite la parola. L’arte
degli Abelam è una forma di comunicazione che opera con regole proprie per comunicare cose che
non possono essere comunicate altrimenti. Una delle funzioni del sistema delle iniziazioni, con le
ripetute esposizioni ad oggetti d’arte è quello di insegnare ai giovani a vedere l’arte, non per poterla
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interpretare consciamente, ma in modo che ne siano direttamente toccati. Dalle loro esperienze
quando erano bambini vergini, e da quelle associate alle iniziazioni, i giovani Abelam imparano a
considerare la pittura come un elemento associato ai poteri sovrannaturali, e gli oggetti pitturati
come oggetti misteriosi di grande importanza rituale; sono al cuore delle cerimonie e loro devono
soffrire prima di vederle. Non è dall’iniziazione vera e propria che gli iniziandi apprendono delle
verità cerimoniali, secondo Forge, ma prima smontando la propria camera iniziatica e poi
preparando quella per gli iniziandi dell’altra metà rituale del villaggio (1970: 278).
Gli Umeda
Gli Umeda vivono in una zona remota e montuosa della West Sepik Province, vicino al confine con
l’Irian Jaya. Anche questa cultura è caratterizzata da un’intensa attività rituale collegata alla
promozione della fertilità sia naturale che umana, ma in questo caso le attività rituali sono associati
ad una diversa forma di espressione artistica, la danza. Alfred Gell ha analizzato una sequenza di
danze rituali, chiamata ida (Gell, 1975).
A differenza degli abitanti dei grandi villaggi sulle rive del fiume, il problema per gli Umeda, è
quello di assicurarsi l’esistenza e formare un gruppo sociale duraturo nel tempo in un ambiente
difficile e ostile. Il terreno poco fertile e la malaria endemica risultano in una densità di popolazione
molto bassa, e un’alta mortalità. Gli Umeda vivono delle risorse della foresta e per la maggior parte
dell’anno devono abbandonare i villaggi e sparpagliarsi in piccoli gruppi negli accampamenti
provvisori dove possono cacciare e produrre il sago. Una volta l’anno, se le condizioni lo
permettono, e durante un periodo di relativa prosperità i membri dei villaggi si riuniscono e
danzano per celebrare il fatto di essere riusciti a non soccombere; celebrano la vittoria sulla morte e
sulla disintegrazione sociale.
Il tema principale di queste danze è proprio la relazione ambivalente tra l’uomo e la foresta che da
un lato gli permette di vivere, ma dall’altro lo costringe ai ritmi dettati dalla foresta e a vivere
scomodamente, ed in balia dei pericoli che lì si trovano (spiriti, fantasmi e stregoni). Con le danze
gli Umeda affermano la supremazia della cultura e della civilizzazione umana sulla natura, e allo
stesso tempo dimostrano di avere il controllo in ultima analisi della fertilità delle donne da un lato e
della foresta dall’altro.
Lo scopo di queste danze è di drammatizzare in un contesto rituale, e quindi di promuovere, i
processi della rigenerazione bio-sociale, un compito che culmina con l’apparenza degli arcieri ipele,
che sono uomini “nuovi”, prodotti proprio dall’azione rituale delle danze. Sia le maschere che i
diversi stili associati ai diversi momenti delle danze codificano questo ciclo di rigenerazione rituale
dell’ambiente naturale e della società e, secondo Gell, rappresentano un insieme di trasformazioni
dello stesso essere, non esseri diversi.
La cerimonia ida dura due giorni e due notti. Consiste nell’apparizione nel centro del villaggio, di
una sequenza di danzatori mascherati, che danzano in uno spiazzo rituale davanti a un pubblico
composto da membri del villaggio e da alcuni visitatori. Anche le donne danzano, ma senza
maschere o ruoli specifici, lo stile della loro danza e il loro abbigliamento le associa alla natura ed
ai poteri della fertilità. Ogni fase del rituale è inaugurata dall’ingresso di un nuovo tipo di danzatore,
che rappresenta una trasformazione dei danzatori precedenti, uno “stadio evolutivo” che li avvicina
all’apoteosi rappresentata dagli arcieri ipeli, l’uomo. Come per culture delle rive del Sepik, la
pittura è considerata come una sostanza dai poteri magici, ma gli Umeda la applicano al corpo dei
danzatori non solo per abbellirli, ma per esprimere una trasformazione avvenuta. Dipingere è
un’attività sacra e trasformatrice.
I primi danzatori sono mascherati da casoari, dipinti di nero e con una maschera che richiama la
boscaglia, e danzano in maniera scomposta, rappresentano la natura, il selvatico, l’incontrollabile, il
primordiale. Questo ruolo porta grande prestigio al danzatore ma, allo stesso tempo ha un valore
negativo. Man mano che il rituale procede i danzatori rappresentano ruoli che si distanziano sempre
più da questo modello, i casoari sono seguiti dai danzatori che rappresentano il sago, pianta che
cresce naturalmente ma è trasformata in cibo dall’operazione culturale di uomini e donne, questi
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sono seguiti dai danzatori che rappresentano la legna da ardere, poi i pesci, emblematici della
mascolinità eroticamente attraenti, ma con maschere che evocano temi culturali (costruite con
piante coltivate e dipinte con gli emblemi del clan). Durante il secondo giorno arrivano i danzatori
“termiti”, uomini maturi, con astucci penici più discreti di quelli precedenti e maschere più
semplici, rappresentano la domesticità e la cura dei bambini, ogni tanto sono raggiunti da danzatori
spaventosi o ridicoli. Al culmine della seconda giornata arrivano i danzatori ipele nuovi uomini
dipinti di rosso, cacciatori novelli , accompagnati dai precettori.
Con le danze rituali ida gli Umeda effettuano a livello simbolico una rassicurante riconciliazione tra
la cultura e la natura. I poteri naturali della foresta e delle donne sono celebrati ma civilizzati per
renderli risorse culturali dell’uomo: la cultura è usata per controllare la natura. Solo alla fine entrano
i nuovi uomini, che chiudono il ciclo rituale scoccando delle frecce che volano sopra i tetti del
villaggio per infilarsi nella fitta vegetazione della foresta, così fecondandola e rendendola
produttiva per la stagione successiva.
Le Culture della costa sud della Nuova Guinea
L’area culturale delle popolazioni non-Austonesiane, o Papuane della costa meridionale della
Nuova Guinea si estende per 2500 chilometri di costa paludosa. Questa costa paludosa e influenzata
da forti correnti e maree era difficile da avvicinare dal mare, l’interno prometteva poche opportunità
di sfruttamento o di profitto, e gli abitanti avevano una reputazione di violenza: tutti questi fattori
hanno scoraggiato l’intrusione coloniale nel XIX secolo. Questa regione è rimasta fuori
dall’influenza dell’economia politica statale più a lungo di tutte le altre regioni costiere del mondo,
a parte quelle delle regioni artiche (Knauft 1993:26).
Il primo Europeo a stabilire un contatto continuativo con le popolazioni della parte orientale della
costa fino all’estuario del fiume Fly, il Reverendo James Chalmers della London Mission Society. Il
missionario fu ucciso con i suoi dodici compagni a Goriari Island nel 1901. Il controllo coloniale
della parte papuana della costa è stato stabilito molto gradualmente con pattugliamenti occasionali
e laboriosi tra il 1890 e il 1920, l’influenza coloniale in genere si diffondeva gradualmente lungo la
costa da est a ovest. Fino alla seconda guerra mondiale l’influenza occidentale in quest’area si
limitava alla soppressione della caccia alle teste, un piccolo flusso di beni importati, una
cristianizzazione superficiale tranne che in alcune mission stations stabili e ben radicate in località
definite, e alcuni tentativi di sviluppare imprese commerciali. Anche qui il disinteresse politicoeconomico ha stimolato l’interesse di numerosi etnografi tra il 1910 e il 1930, incoraggiati da
Haddon a registrare i dettagli etnografici che sarebbero serviti ai teorici completare un mosaico
comparativo, per esempio sulla diffusione dei tratti culturali e dei culti (Knauft, 1993: 31).
La parte occidentale della costa sud divenne colonia olandese nel 1828. Se la parte settentrionale
della colonia aveva avuto numerosi contatti con i commercianti provenienti da Indonesia e Malesia,
questa costa aveva scoraggiato anche questi navigatori. Gli olandesi lasciarono il controllo
dell’area quasi totalmente al sultano di Tidore fino alla metà del 1900. La prima postazione
coloniale fu stabilita tra i Marind-Anim nel 1902 in risposta alle proteste del governo inglese per i
raid che cacciatori di teste di queste tribù conducevano oltre confine. Nelle tre decadi successive i
Marind-Anim furono pacificati e portati sotto influenza missionaria dagli olandesi. Van Baal ( ha
compilato un’imponente ricostruzione della cultura precoloniale, utilizzando fonti diverse, ma dopo
il primo periodo coloniale ci sono state poche opportunità per studi etnografici in quest’area, e
attualmente il governo Indonesiano non favorisce la ricerca sui temi degli sviluppi contemporanei in
Irian Jaya.
Indipendentemente delle differenti storie degli ultimi centocinquanta anni, la costa della Nuova
Guinea meridionale è caratterizzata da attributi sia geografici che culturali che hanno influito sulla
loro storia a lungo termine e giustificano la definizione di quest’area come regione culturale (Knauft
1993:37). Queste caratteristiche includono la facilità del movimento e del trasporto su canoa lungo i
fiumi, nei delta e nelle paludi; la crescita spontanea ed abbondante di palme da sago, e l’abbondanza
di pesce e mollluschi. Questi due fattori sommati hanno permesso agli abitanti dell’area di
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sviluppare affiliazioni politiche su larga scala, che comprendevano abitanti di territori estesi, o
l’aggregazione residenziale di diversi gruppi in villaggi popolosi, nonostante che la densità della
popolazione in quest’area è, in generale, bassa. Questa regione ha visto lo sviluppo di diverse
tipologie di formazioni socio-politiche, accompagnate da sistemi rituali e di culto elaborati e per noi
occidentali, esotici.
Dal punto di vista linguistico quest’area comprende numerose lingue non-Austronesiane (o
Papuan), a est e a ovest di questa regione, dove la costa diventa più stretta e montuosa, si sono
insediate popolazioni Austronesiane. Esistono alcune differenze tra le popolazioni costiere e quelle
dell’interno, legate all’ambiente in cui vivono: i villaggi sul mare tendono ad essere più popolosi, a
mantenere un maggior livello di coerenza interna e integrità sia sociale che culturale dei gruppi più
piccoli e più mobili dell’interno, su cui comunque esiste meno materiale etnografico pubblicato.
Quest’area è associata nella letteratura con l’omosessualità rituale, anche se in realtà questa è
presente in una minoranza di culture della costa meridionale, soprattutto nella porzione centrale
della costa, e all’interno lungo il fiume Fly.
Permutazioni “a catena” di pratiche simboliche e politiche simili attraversavano i confini culturali e
linguistici della costa meridionale, fornendo una base per l’interazione tra gruppi diversi e distanti,
tramite legami commerciali e la diffusione di culti. Nel periodo pre-coloniale, e quello
immediatamente successivo al contatto le popolazioni di quest’area presentavano molte
caratteristiche comuni:
1. credenze mito-cosmologiche legate alla necessità di rigenerare la fertilità
2. queste credenze si articolavano in diverse maniere con:
• rappresentazioni rituali elaborate usando oggetti o maschere per incarnare esseri mitici o
ancestrali
• riti per la promozione della fertilità e della rigenerazione basati su pratiche orgiastiche
rituali, eterosessuali e in certi casi omosessuali
• organizzazione di feste di scambi
• guerre tribali, particolarmente associate alla caccia alle teste, come mezzo di esplicitare e
aumentare la forza spirituale e sociale del gruppo locale.
Le variazioni locali su questi temi comuni sono numerose e risultano in moltissime differenze
culturali tra le diverse culture di questa regione. Ogni cultura articola diverse versioni delle
credenze sulla fertilità con pratiche di sussistenza, di organizzazione politica, di genere, oltre che di
guerra e rituali, con risultati differenti. Alcuni di questi temi generali, però richiamano alla memoria
quelli che, sempre a livello di generalizzazione su scala regionale, sono associati all’altra grande
zona associata alle pianure e ai grandi sistemi di fiumi e paludi, il Sepik.
Gli Asmat: L’arte e la trasformazione dei significati
Gli Asmat popolano la costa meridionale dell’Irian Jaya (o West Papua) sono rinomati per la
produzione di sculture lignee elaborate e per il fatto che nel periodo precedente alla pacificazione
erano cacciatori di teste, nel contesto di serie di raid vendicativi tra gruppi vicini. Sia le missioni
cristiane che il governo indonesiano hanno vietato le guerre aperte e le tradizioni legate
all’acquisizione di prestigio maschile tramite la caccia alle teste umane. Questa tradizione era basata
sull’idea che un guerriero, prendendo la testa di un nemico aumentasse la propria forza vitale e allo
stesso tempo appagasse gli spiriti dei morti che pretendevano di essere vendicati. Solo dopo essersi
provato come guerriero, procurandosi sei teste, un uomo poteva sponsorizzare una festa cerimoniale
per far erigere un palo rituale intagliato, chiamato bisj. Uomini che non riuscivano a procurarsi una
testa erano disprezzati e difficilmente riuscivano sposarsi (Knauft: 1993). I leader dei guerrieri,
spesso avevano più di una moglie.
Il territorio degli Asmat copre un’area di circa 422 chilometri quadrati, e la loro popolazione attuale
è stimata tra i 65.000 e gli 85.000. L’ambiente costiero è costituito da una palude fangosa e soggetta
ad alluvioni, un complesso reticolato di corsi d’acqua: una sfida alla resistenza ed all’ingegno
93
umano. Gli Asmat si muovono spesso e coprono grandi distanze, usando i fiumi e le canoe. La
sussistenza degli abitanti è assicurata dal sago, a cui si aggiungono le proteine apportate dalla caccia
ai maiali selvatici, ai marsupiali, ai coccodrilli, e al casuario, oltre che dalla pesca e dalla raccolta di
frutti della foresta e dalle larve del sago (larve dello scarabeo capricorno). Il casuario è importante
sia come selvaggina che per il posto che occupa nella mitologia. Le lunghe ossa delle gambe erano
utilizzate nella produzione di coltelli e attrezzi per scolpire il legno. Il coccodrillo, il calao (bucero),
la lucertola e la tartaruga hanno tutti un ruolo nella mediazione spirituale tra i vivi e i morti.
Non tutti gli Asmat vivono in questo ambiente ricco ma difficile delle paludi, alcuni abitano le
colline Jayawijaya all’interno. Le paludi sono dominate da arbusti spinosi e grandi alberi, piogge
torrenziali e alluvioni sono occorrenze comuni, come la malaria.
Data la frequenza dei raid di guerrieri gli Asmat costruivano torri di guardia: la frammentazione
sociale dovuta a questo stato di guerra costante è anche considerata la causa delle numerose lingue
parlate nell’area, anche se alleanze politiche hanno occasionalmente unito gruppi di lingue diverse.
Un ulteriore motivo per la frammentazione dei gruppi erano le epidemie.
Gli Olandesi si aggiudicarono la metà occidentale della Nuova Guinea nel 1793, ma questa regione
rimase inesplorata fino ai primi anni del 1900; stabilirono una postazione a Meruke e da lì
procedettero a pattugliare il territorio Asmat. Nel 1938 gli Olandesi impiantarono una centro a
Agats, gli Indonesiani arrivarono negli anni ’60.
L’arte e i riti tradizionali Asmat erano legati alle attività della guerra, quindi molti aspetti della loro
vita cerimoniale sono stati vietati dal governo Indonesiano. Le autorità volevano costruire una
nazione nuova e moderna, inoltre gli ufficiali indonesiani erano spaventati dalle storie di
cannibalismo di caccia alle teste degli Asmat, quindi assunsero un atteggiamento repressivo nei
confronti di questa cultura. Bruciarono le case degli uomini, i centri rituali dei villaggi, e vietarono
le danze e i tamburi.
Più tardi però, dal 1968 le sculture lignee degli Asmat (come quelle dei Gogodala in Papua Nuova
Guinea) hanno vissuto un revival: sono state riappropriate come forma artistica legata all’identità
locale, oltre che come oggetto da vendere ai turisti. Questo revival è stato possibile per l’interesse
occidentale per le sculture Asmat, un interesse che ha origine nei primi due decenni del 1900
quando alcune sculture furono portate in Europa dagli esploratori e dai collezionisti di arte etnica.
Dal 1968 gli sforzi del vescovo cattolico americano ad Agats, Alphonse A. Sowada, e dell’United
Nations Asmat Art Project, hanno contribuito alla rinascita di questa forma di espressione artistica.
Dal 1981 i missionari cattolici organizzano ogni anno un festival competitivo per villaggi ed artisti
individuali. Esiste anche un museo di arte Asmat nel loro territorio (Schneebaum, 1990).
Gli scultori Asmat sono conosciuti soprattutto per i pali intagliati bisj e per la diversità dei disegni
intagliati sugli scudi. Sia la parte superiore dei bisj che gli scudi erano intagliati da ‘assi’ ricavate
dalle flangie esterne delle mangrovie della palude. Per procurarsi queste flangie si organizzava una
spedizione rituale; l’albero della mangrovia era considerato uno spirito nemico che doveva essere
‘inseguito’ prima di essere ‘catturato’ e abbattuto. I bisj raggiungevano una lunghezza tra i 5 e i 7
metri, ed erano intagliati con una serie di rappresentazioni di antenati e di calao. Alla base veniva
intagliata una canoa, considerata il ricettacolo della forza vitale delle vittime uccise dagli sponsor
della festa durante la quale un bisj veniva eretto. Gli sponsor avevano la responsabilità di retribuire
gli scultori, wow-ipits, e di fornire il sago dalle proprie palme per una festa durante la quale si
erigeva il nuovo palo. L’idea centrale di questi rituali era quella della ciclicità delle sostanze: la
forza vitale, o nammu, del cacciatore di teste passava nel bisj, che era piantato nella foresta, vicino
alle palme del sago, di modo che le palme potessero assorbirne il nammu. Più tardi, quando la gente
consumava il sago prodotto dalle palme ingerivano quindi la forza vitale del proprio leader.
La caccia alle teste era collegata anche all’iniziazione dei ragazzi. Un guerriero, presa una testa, la
dava ad un ragazzo che doveva rimanere recluso con la testa per un certo periodo, fino ad emergere
con l’identità della vittima. Perfino i parenti della vittima riconoscevano al ragazzo un legame di
parentela.
I wow-ipits, o gli intagliatori, erano rispettati nella comunità. Con le loro sculture catturavano la
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forza vitale che per sua natura era sfuggevole e circolante, legandola al ciclo vitale di un leader
specifico ed al suo gruppo. Data l’importanza della guerra, gli intagliatori erano anche molto
richiesti per decorare gli scudi dei guerrieri, oltre che le prue delle canoe da guerra.
Ad ogni scudo veniva attribuito il nome di un antenato specifico. La sua forza veniva inscritta nello
scudo, e aiutava il guerriero a prevalere sui nemici. I disegni sullo scudo, bianchi rossi e neri,
dovevano terrorizzare il nemico. Il colore bianco era ricavato polverizzando delle conchiglie
bruciate, applicato alle canoe serviva a proteggerle e renderle veloci. Il rosso era ottenuto arrostendo
la terra ocra, anche questo colore attribuiva velocità, ma essendo associato agli occhi di un cacatoa
nero arrabbiato, era applicato anche per spaventare il nemico. Nelle rappresentazioni pittoriche
degli esseri umani il bianco rappresenta la pelle, il rosso le scarificazioni della pelle, il nero i
capelli.
I disegni sugli scudi Asmat variano a seconda della zona di provenienza, anche se hanno molti
elementi in comune. La parte alta dello scudo, o testa, a volte è chiamata il pene, come anche la
parte superiore dei bisj , anche questa intagliata dalle flangie della mangrovia utilizzata negli scudi.
I disegni sugli scudi rappresentano canguri arboricoli, buceri, pipistrelli, tartarughe, casoari, o razze,
tutte creature associate alla natura selvaggia, che incarnano la fertilità. Gli scudi dovevano sempre
essere mantenuti in piedi dal verso giusto, capovolti significavano la perdita del potere ed
indicavano la resa. Gli Asmat della costa credevano che i loro antenati prendessero la forma di
cacatoa neri o di pipistrelli, quindi li dipingevano sugli scudi. Questi ed altri animali erano
rappresentati con disegni stilizzati, figure di cerchi e ganci. I disegni astratti erano più comuni negli
scudi degli Asmat delle zone interne. Nella parte alta di alcuni scudi venivano disegnati dei cerchi, a
rappresentare gli occhi, che attribuivano allo scudo l’apparenza di una smorfia aggressiva. Altri
disegni mostravano le creature della foresta in associazione con gli esseri umani, ed erano comuni
sui pali cerimoniali, sugli scudi, sui tamburi e sulle canoe, dimostrando un comune senso estetico
che si riproponeva in diversi contesti.
Questa unità di concetti in origine era fondata nelle attività legate alla guerra ed alla caccia delle
teste. Le forme artistiche sono sopravvissute alle trasformazioni dovute all’imposizione della pace e
del cristianesimo, anche grazie all’interesse dimostrato dagli stranieri, oltre che per l’orgoglio
interno per l’abilità artistica degli scultori. Gli intagliatori Asmat utilizzano attrezzi metallici che
sostituiscono o si aggiungono a quelli tradizionali in osso di casuario o pietra.
In seguito al recente revival artistico degli Asmat, i wow-ipits hanno cominciato a modificare i
disegni per la vendita ai turisti e ad allargare il proprio repertorio ad includere simboli nuovi, come
madri col bambino e l’uccello Garuda, simbolo dell’Indonesia, ma con una testa di calao. Gli artisti
usano anche ritagli di legname utilizzato dalle segherie locali per la costruzione di case e chiese, ed
hanno sviluppato un nuovo stile di scultura, ajur, utilizzando dei legni moto duri (ironwood).
Queste sculture sono ideali per il mercato turistico perché non si rompono in viaggio. Per venire
incontro alle richieste dei turisti sono state modificate alcune altre cose rispetto ai lavori
tradizionali: i falli od altre parti sporgenti sono stati ‘piegati’ all’insù per evitare che si rompano nel
trasporto, si producono delle false prue per canoe, o su commissione, crocifissi per le chiese
cattoliche che in questa zona sono costruite incorporando elementi della cultura indigena.
Anche se la caccia alle teste è stata soppressa, la creatività degli Asmat, e l’idea della ciclicità della
vita e della morte continua ad essere espressa dalla vita e dalle sculture Asmat.
forms unsure
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VANUATU
Repubblica di Vanuatu “Isole senza tempo” o “Terra che si regge in piedi (da sola)” è il nome scelto
dai suoi abitanti per questa piccola nazione del Pacifico quando ha ottenuto l’indipendenza nel
1980. Da allora Vanuatu è una repubblica, con una costituzione democratica ed elezioni ogni
quattro anni. Il Capo di Stato è un Presidente (attualmente John Bani) e il Capo del Governo il
Primo Ministro (Edward Natapei)
Geografia
Vanuatu comprende 82 isole nel mar dei Coralli, divise in 3 gruppi. Si trovano a circa 2250
chilometri a nord-est dall’Australia. Le nazioni vicine sono tutti island states, ci sono le Figi a 800
chilometri verso est, le Isole Solomoni a nord e la Nuova Caledonia a sudest. La superficie totale
della terra di Vanuatu copre 14.700 chilometri, mentre le acque territoriali coprono una superficie di
450.000 chilometri quadrati.
L’arcipelago si trova sul Pacific Rim of Fire, una faglia nella crosta terrestre, soggetta a terremoti
ed eruzioni. Le isole sono tutte di origine vulcanica, e contano numerosi crateri estinti e vulcani
attivi. La zona più attiva è la linea centrale delle isole. Aoba (1450 metri) e Ambrym sono i vulcani
più pericolosi, Lopevi sembrava addormentato fino a 50 anni fa quando ha ripreso ad eruttare.
Yasur, sull’isola meridionale di Tanna è considerato il vulcano più attivo del mondo. Questa attività
geologica costituisce uno dei problemi economici del paese, anche se cercano di sfruttarne il
potenziale turistico. Un grave terremoto nel 1999 fu seguito da un’onda anomala, tsunami, che
causò gravi danni all’isola di Pentecoste distruggendo migliaia di case. Nel 2002 fu la capitale PortVila ad essere colpita da un terremoto seguito da uno tsunami.
Il clima è tropicale, moderato da venti da sud-est, ma soggetto a cicloni tropicali nella stagione delle
piogge che va da novembre ad aprile (in certi posti le precipitazioni possono raggiungere i 4 metri
all’anno!).
Il territorio è prevalentemente montuoso (arriva a 1877 metri) con strette pianure costiere.
L’economia dipende largamente sull’agricoltura di sussistenza, che sostiene il 65% della
popolazione.
Altrimenti le risorse economiche principali sono costituite dall’estrazione del manganese, foreste di
alberi di legno duro, l’esportazione della copra, e dalla pesca.
In anni recenti il governo, convinto che lo sviluppo economico basato sull’esportazione di risorse
naturali sia comunque difficile per una nazione piccola, vulnerabile a disastri naturali, costituita da
isole distanti tra di loro, e lontana dai mercati principali, ha puntato sullo sviluppo del turismo,
sfruttando le meraviglie naturali e spettacolarizzando cerimonie rituali dei suoi cittadini più esotici
e “primitivi “ (50.000 turisti nel 1997).
Dagli anni ’70 il settore del terziario è stato favorito da politiche basate sull’offerta di servizi
finanziari e facilitazioni fiscali a imprenditori stranieri, e con lo sviluppo di un international
offshore finance centre (http://www.vanuatugovernment.gov.vu/vanuatugov.html.) .
I maggiori problemi di carattere ambientale sono la mancanza di fonti di acqua potabile e sicura per
la maggioranza della popolazione e la deforestazione, anche se il terreno ripido di alcune isole ha
scoraggiato lo sfruttamento delle foreste, che ancora ospitano alberi giganti di baniano (Ficus
benghalensis) e pini (Agathus australis), oltre a qualche albero di sandalo sopravvissuto ai
commercianti di legname del secolo scorso.
Popolazione
Gli abitanti di Vanuatu si chiamano Ni-Vanuatu.
La capitale, Port Vila, è sull’isola Efate, che Cook aveva battezzato Sandwich, in onore di
Lord Sandwich.
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La maggioranza della popolazione, che si aggira sui 199.000 (2003) abita le dodici isole più grandi.
La grande maggioranza, oltre il 90% sono melanesiani, ma a Vanuatu vivono anche minoranze
francesi, inglesi, australiane, neozelandesi, vietnamite, cinesi, oltre che provenienti da altre isole del
Pacifico.
Le lingue ufficiali sono tre: l’inglese, il francese ed il bislama (l’inglese pidgin di Vanuatu), che è
condivisa da tutti in ni-Vanuatu, a prescindere sia del gruppo locale, che dalle influenze coloniali.7
Nei villaggi sparsi sulle isole si parlano circa 115 lingue diverse, ognuna associata a tradizioni
culturali distinte.8
Le religioni praticate dai Ni-Vanuatu riflettono la loro storia: mentre il 7,6 % dichiara di aderire a
religioni animiste o tradizionali e il 15,7% si professano seguaci di altre religioni, tra cui il culto di
John Frum (cargo cult che si è diffuso dall’isola di Tanna), il resto si divide tra le diverse chiese
cristiane che hanno inviato missionari nelle isole 15% Anglicani, 15% Cattolici, 6,2% Avventisti
del Settimo Giorno, e il 3,8% Chiesa di Cristo (dati del 2003).
Storia pre-coloniale
I ritrovamenti archeologici suggeriscono che i primi coloni, portatori della cultura “Lapita”, sono
arrivati oltre 3000 anni fa sull’isola di Erromango. In seguito si svilupparono altri stili locali di
ceramiche sulle isole circostanti, con incisioni e rilievi applicati (che gli archeologi hanno
battezzato Mangaasi). Le tradizioni orali ni-Vanuatu hanno fornito importanti informazioni sulla
preistoria delle isole, poi confermate da scavi archeologici. La tradizione riferiva di una località
sull’isola di Retoka in cui Roy Mata, un capo molto importante, sarebbe stato seppellito insieme a
numerosi parenti. Gli scavi di José Garanger confermarono l’esistenza di una sepoltura collettiva, in
cui uno scheletro maschile occupava una posizione centrale, mentre coppie di scheletri maschi e
femmine abbracciati erano sepolti ai lati. Gli scheletri erano decorati con frontali di conchiglie,
bracciali in conchiglia, e zanne di maiale. Il sito è stato datato tra 650 e 400 anni fa, il che
testimonia l’attendibilità e la durabilità delle tradizioni orali locali.
L’archeologo Matthew Spriggs riferisce che secondo le tradizioni orali dell’isola le donne sarebbero
state drogate con la kava, mentre gli uomini erano coscienti al momento della sepoltura.
Questa sepoltura dimostra che il sistema gerarchico dei capi era radicato a Retoka in tempi precoloniali, ed è considerata da alcuni studiosi la dimostrazione che prima dell’arrivo degli europei, le
strutture politiche legate ai capi avessero raggiunto uno sviluppo che fu oscurato dal crollo
demografico che seguì il loro arrivo. ( Kirch, 2000: 130-140; Jolly 1994: 29-34)
I primi contatti con gli Europei
L’esploratore spagnolo Pedro Fernandez de Quiros fu il primo Europeo a visitare queste isole.
L’isola ora conosciuta come Santu fu battezzata dal navigatore Nuestra Senora de Australia del
Espirito Santu. De Quiros progettava di fondare una Nuova Gerusalemme nel Pacifico, ma la
resistenza degli indigeni ai suoi sforzi di convertirli, e le difficoltà di ormeggiare con i venti da sudest, lo fecero desistere. Altri navigatori, da tutte le potenze europee lo seguirono, tra loro Louise
Antoine de Bouganville che navigò tra le isole di Espiritu Santu e Maleluka nel 1768 e chiamò le
isole Le Grandi Cicladi, paragonandole al paradiso terrestre; ma fu James Cook a battezzarle col
loro nome coloniale, Nuove Ebridi, dopo averne completata la cartografia nel 1774.
Storia del “condominio” coloniale
La storia coloniale di queste isole è stata turbolenta: agli esploratori sono seguiti avventurieri,
7
http://www.chez.com/webyumi/lexi_fr.htm
lessico bislama- francese
8
(http://www.linguistics.unimelb.edu.au/contact/studentsites/thieberger/vanlangs/index.ht
ml elenco di lingue parlate nelle varie isole di Vanuatu)
97
cacciatori di balene, mercanti di sandalo, e missionari a caccia di anime. Gli europei portarono con
se epidemie di influenza, morbillo, e malattie veneree, il vaiolo fu introdotto attraverso vestiti
infetti dall’Europa. I mercanti di sandalo provocarono violenza tra il 1825 ed il 1869, ma anche i
missionari furono spesso al centro di episodi di violenza: nel 1839 furono uccisi dei missionari della
London Missionary Society, mentre un missionario presbiteriano, John Paton, incitò la Marina a
bombardare l’isola di Tanna nel 1865, cinque anni dopo che gli abitanti avevano espulso lui e la
moglie in seguito ad un’epidemia di morbillo (vedi Linnekin 1997: 199).
Il blackbirding era una forma di reclutamento (spesso forzato) di lavoratori da molte isole del
Pacifico, con un contratto che li legava per un certo numero di anni alle piantagioni, soprattutto
quelle di zucchero del Queensland (Australia) e delle Figi. Per oltre un secolo questa pratica fornì
lavoratori a basso costo, fino a 50.000 uomini e donne furono prelevati dai villaggi delle Nuove
Ebridi, molti dei quali non fecero mai ritorno. (Moore 1985)
Tutti questi fattori contribuirono a un gravissimo crollo demografico nelle isole. Nel 1920 erano
rimasti solo 40.000 abitanti, da un numero originale stimato attorno ai 500.000, in alcune isole
settentrionali si risente ancora di questo spopolamento.
Compagnie sia inglesi che francesi occuparono le terre degli indigeni, e utilizzarono le navi da
guerra per bombardare i villaggi di quelli che si opponevano. Anche le relazioni tra le due potenze
coloniali non erano facili, in quanto dovevano convivere in qualche nelle Nuove Ebridi, sebbene
fossero spesso in guerra tra loro in Europa. Solo nel 1887 le due potenze si accordarono per una
giurisdizione congiunta sulle isole, che divenne il protocollo Anglo-Francese, o il ”condominio” per
amministrare, con poteri uguali, la colonia d’oltremare.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Americani costruirono importanti basi militari sulle isole
di Etafe e di Espiritu Santu, fondamentali per la guerra nel Pacifico. Questo ebbe due effetti: da un
lato gli Americani portarono con loro tecnologia e ricchezza mai viste prima, per molti indigeni fu
la prima occasione di guadagnare un vero stipendio. Dall’altro gli isolani videro i neri Americani
che apparentemente godevano degli stessi beni materiali disponibili ai soldati bianchi, questa
realizzazione ebbe un ruolo non indifferente nelle agitazioni per l’indipendenza che seguirono.
Indipendenza
Vero la fine degli anni ’60 il movimento Nagriamel, guidato da Jimmy Stevens, attrasse molti
seguaci soprattutto nelle isole del nord. Inizialmente questo movimento si limitava a richiedere
diritti sul “dark bush”, cioè sulla terra che non era mai stata occupata dagli Europei. Nel 1971 il
movimento era diventato più politicizzato e fece richiesta alle Nazioni Unite per avere una libera
scelta sulla questione dell’indipendenza. Nello stesso anno nacque la New Hebrides Cultural
Association, un movimento di resistenza all’acquisto di grandi appezzamenti di terra da parte di un
affarista Americano. L’associazione divenne partito politico nazionalista, il Vana’aku Party,
capeggiato dal prete anglicano Walter Lini.
Nei termini del “condominio” Francesi ed Inglesi fecero un accordo di non ritirarsi senza l’altro,
una ricetta per non fare niente. Allo stesso tempo, però i due poteri cominciarono a prepararsi per
un cambiamento che cominciava a sembrare inevitabile: gli inglesi lavoravano per preparare una
classe politica indigena che potesse sostenere dei ruoli di governo, mentre i francesi provarono,
senza riuscirci, a costruire una maggioranza francofona.
Nel 1975 ci fu una riforma costituzionale, seguita da elezioni in preparazione per l’indipendenza
che era stata fissata per la metà degli anni ’80.
Walter Lini del Vana’aku party fu eletto primo ministro, nonostante l’opposizione dei Francesi. Il
crescente secessionismo, portò disordini anche nei centri urbani, che le forze inglesi e francesi,
divise, non riuscivano a controllare. Il nuovo governo sopravvisse ad una ribellione dei seguaci di
Jimmy Stevens, sull’isola di Espiritu Santu chiamando l’esercito della Papua Nuova Guinea a
sostituire le forze anglo-francesi. In seguito dichiarò l’indipendenza del paese, Vanuatu, nel 1980.
Con l’indipendenza tutta la terra che era stata sottratta dai coloni fu restituita a coloro che furono
considerati i possidenti tradizionali.
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Per tutti gli anni ’90 la situazione politica di Vanuatu è stata caratterizzata da instabilità dovuta alla
continua opposizione di interessi tra i francofoni egli anglofili. I problemi economici, aggravati
anche dai terremoti, e le accuse reciproche di corruzione hanno portato a numerosi cambiamenti di
governo.
Tratti culturali comuni
Come in tutto il Pacifico, l’esistenza di gruppi autonomi su isole separate ha portato ad una grande
diversità culturale. Le tradizioni rituali ni-Vanuatu e quelle artistiche a cui sono associate sono
svariate. Eppure ci sono elementi comuni: i temi principali dei riti si dipanano attorno
all’importanza delle iniziazioni graduate, l’istituzione dei capi, l’allevamento dei maiali per
sacrifici rituali, l’uso delle zanne di maiale per decorazioni prestigiose, e scambi reciproci di
ignami, taro, kava, da un lato e danze e canti dall’altro.
Tutte queste caratteristiche legano le culture di Vanuatu a quelle della Nuova Guinea e delle
Salomone, così come la varietà linguistica (oltre cento varianti di lingua Austronesiana). Inoltre
anche il Bislama, la lingua franca delle Vanuatu, assomiglia molto al Tok Pisin della Papua Nuova
Guinea, ed al Pijin delle Solomons. Tutte queste sono forme linguistiche “creole” che combinano
un vocabolario basato soprattutto su quello inglese con forme grammaticali derivate dalle lingue
indigene.
Acquisire prestigio: arte e potere
Le culture di Vanuatu sono conosciute nella letteratura etnografica per i sistemi graduati di riti
attraverso i quali gli uomini conquistano prestigio. Apparentemente diversi culti associati a questa
idea sono circolati in diversi periodi storici, ed è quindi difficile districarli a posteriori, per
determinare quale elemento appartenesse a quale culto specifico.
Alcune delle attività principali associate a questi culti erano:
• piantare alberi e arbusti sacri,
• erigere statue fatte intagliando il tronco delle felci arboree9
• costruire dolmen, piattaforme in pietra, e cerchi di pietre.
Questa caratteristica di utilizzare costruzioni in pietra, non molto comune in altre parti del Pacifico
ad eccezione dell’Isola di Pasqua, ha portato alla denominazione delle culture ni-Vanuatu col
termine culture megalitico (Patterson, 1981:191).
In termini di parentela, un altro elemento comune è l’introduzione di un candidato nei gradi inferiori
della gerarchia del prestigio da parte dei parenti materni. A questa pratica sono associati i sacrifici
di maiali con grandi zanne sulle piattaforme in pietra, prima di darli ai parenti della madre o della
moglie.
Patterson descrive tre di questi riti, localizzati alla parte settentrionale dell’isola di Ambrym; uno di
questi è denominato tobuan, praticato ancora durante la ricerca della Patterson (1968-71) eccetto
dagli indigeni convertiti alla chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno.
Come sottolineano Strathern e Stewart (2002:27) questi rituali hanno molti aspetti comuni con gli
scambi moka praticati nell’area Hagen nelle Highlands della Nuova Guinea.
Tobuan erano, in sostanza, dei riti che fornivano al protagonista le circostanze per aumentare il
proprio prestigio e crearsi un seguito politico.
Prima del rito vero o proprio la persona che intende fare tobuan sollecita i suoi parenti (la linea
patrilineare della madre o della moglie) a fargli dei doni preliminari di maiali.
Questi doni saranno poi restituiti, con un incremento, nel corso del tobuan vero e proprio.
Altri parenti del protagonista costruiscono la piattaforma sacrificale in pietra, e vengono retribuiti
per questo. Grossi maiali allevati dall’uccisore e dai suoi sostenitori, con zanne grosse e circolari
sono adagiati sulla piattaforma e ammazzati a colpi di mazza; questi maiali costituiscono il
9
(sono felci comuni in alcune zone del Pacifico in cui si sviluppa un tronco ligneo sovrastato da una
corona di foglie),
99
pagamento di ritorno ai parenti di linea patrilineare per i doni sollecitati in precedenza dall’uccisore
dei maiali.
Coloro che riceveranno i maiali sacrificati costruiscono una scala per la cerimonia: ogni piolo
rappresenta un maiale precedentemente sacrificato dall’uccisore. Quest’ultimo si arrampica un
gradino per volta, pronunciando man mano i nomi dei partecipanti che avevano già ricevuto i maiali
commemorati dalla scala.
Oltre ai maiali, sono distribuite anche foglie di palme cycas, e piante con fiori rossi, probabilmente
associate a poteri vitali.
Durante la stessa cerimonia, l’organizzatore di un tobuan, oltre a sacrificare dei maiali in
restituzione di quelli ricevuti dai parenti della madre o della moglie, può iniziare un’ulteriore catena
di prestazioni sacrificando maiali per dei giovani che desidera introdurre nella categoria dei suoi
“figli”, legandoli a sé come sostenitori.
Nel corso della sua vita, una persona organizza una serie di sacrifici tobuan. Ad ogni evento
successivo l’uccisore si identifica progressivamente con gli antenati, assicurandosi un posto nel
mondo ancestrale. In un certo senso ogni sacrificio può essere visto come la rinascita dell’identità
dell’uccisore dei maiali, che assume un nuovo nome e un nuovo titolo dopo ogni evento
organizzato.
Questi sacrifici avevano anche una funzione propiziatoria od apotropaica (cioè di scongiurare un
influsso magico maligno), si sacrificavano i maiali per placare gli spiriti e scongiurare pericoli, un
uomo doveva continuare a sacrificare la vita nel corso della propria vita “per evitare che gli spiriti
dei parenti di sua madre lo divorino quando muore, lo facciano ammalare mentre è in vita, o
addirittura lo uccidano” (Patterson, 1981: 197). Anche questo rapporto ambiguo con la linea dei
parenti materni, “che sono quelli che passano, attraverso le sorelle o le figlie, il sangue vitale,
sostenitore della vita, e che hanno il potere di garantire l’esistenza di uno spirito di una persona
dopo la morte”(Patterson, 1981:217) e quindi vanno placati con doni e pagamenti, è simile a quello
riscontrato da Strathern in Nuova Guinea.
In altre forme rituali il protagonista punta una freccia ai parenti materni, in un gesto rituale che
esprime la minaccia di ucciderli, per dimostrare la propria audacia nei confronti di coloro che gli
danno la vita.
I riti sacrificali erano continuamente importati da zone e isole diverse, usati come veicoli per
costruire il proprio prestigio politico e personale. Apparentemente i riti tobuan erano la forma più
antica, e basilare, strettamente legata alle relazioni di parentela. Gli abitanti di Ambrym avevano
recentemente importato un altro sistema di gradi si prestigio, chiamato mage. Con questi riti i
membri di certe famiglie di prestigio erano in grado di consolidare il proprio status, trasmettendolo
ai propri successori.
Lo studio di queste importazioni culturali, e dei prerequisiti per l’acquisizione di status che
accompagnava questi nuovi riti, può fornire preziosi indizi sulla sequenza delle trasformazioni
storiche della leadership locale, probabilmente legate all’influenza coloniale, oltre che alla microevoluzione endogena.
I rituali ni-Vanuatu sono molto complessi, ed esteticamente impressionanti, accompagnati da forme
artistiche affascinanti. Secondo Bonnemaison (1996), gran parte della produzione artistica di
Vanuatu era motivata dagli stimoli sociali della competizione e della ricerca di prestigio. Questo a
sua volta era il risultato storico dell’origine religiosa dei rituali. Ricordiamo che per Patterson i riti
erano sì legati alla parentela, ma contavano un elemento di trasgressione rispetto all’ordine
parentale: la cornice ideologica fondamentale era comunque quella di dipendenza dal supporto
ancestrale. I partecipanti indossavano maschere come segno dell’ascesa nella scala del prestigio.
Man mano che un uomo saliva i ranghi della scala del prestigio, cominciava ad essere associato agli
antenati, trattato come un essere sovrannaturale, vincolato e protetto da numerosi tabù e tenuto in
disparte dal mondo dei “vivi “(Bonnemaison 1996:209).
Questo aspetto è totalmente assente nelle cerimonie moka della Nuova Guinea, in cui il prestigio
acquisito durante la vita non era automaticamente trasferito al contesto ancestrale.
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Le produzioni artistiche ni-Vanuatu erano espressamente legate a questo sistema di conquista di
prestigio. I partecipanti dovevano intagliare tronchi di alberi di felce per accedere ai gradi inferiori,
più tardi, per passare ai gradi intermedi, dovevano circondare queste statue con cerchi di piccole
pietre erette, pietre più grandi erano utilizzate per accedere ai gradi superiori.
Nel sud dell’isola di Malaluka gli uomini che in vita sono riusciti ad accedere ai ranghi superiori del
ciclo rituale Nevimbur o Nimangki, dopo la morte sono rappresentati con delle effigi
commemorative , Rambaramp, costruite di legno di felce, bamboo, e altri materiali vegetali, e attaccate
al teschio del deceduto, trattato per conservarlo, modellato e dipinto in bianco, blu, nero e rosso. Tutti
i simboli del rango ottenuti in vita sono riprodotti sull’effige. Il teschio contiene lo spirito
dell’uomo di rango deceduto, e l’effige a grandezza naturale è costruita per rivestirlo, conferendogli
corpo e dignità. Queste effigi sono conservate nella “casa degli antenati”, da cui sono prelevate
periodicamente per dei riti che servono a rinforzare lo spirito dell’antenato rappresentato. Dopo un
certo numero di anni (circa venti, quindi col passaggio di una generazione, quando la memoria del
deceduto è probabilmente meno presente nei vivi) lo spirito lascia l’effige che, dopo un’ultima
cerimonia, è rimossa dal santuario. 10
Associati ai riti graduati erano anche altre forme artistiche: gli uomini tessevano abiti speciali e
preparavano cinture di tapa particolari per indicare il proprio accesso ai ranghi superiori. Le donne
si decoravano in maniera elaborata in queste occasioni ed intessevano stuoie particolarmente
elaborate. Bolton (1996) ha analizzato la produzione di manufatti femminili a Vanuatu, per
dimostrare la complementarità dei ruoli di genere nelle tradizioni legate allo status.
Alcune stuoie prodotte dalle donne sono utilizzate per avvolgere i morti, altre (chiamate singo
sull’isola di Ambae) sono stuoie piccole, finemente intrecciate ed intrinsecamente potenti, capaci di
nuocere chiunque le maneggi male). Sempre di produzione femminile è un altro oggetto di foglie di
pandano intrecciate, indossato nella cintura dagli uomini che raggiungevano un grado alto nelle
cerimonie associate ai sacrifici di maiali hungwe, (Bolton 1996:113).
Bolton osserva che anche le donne indossano mantelli di tapa finemente intessuti nelle loro danze,
e che sono le maggiori produttrici delle stuoie usate nelle occasioni sociali, tra cui i riti collegati al
ciclo vitale degli individui. A Lontana, per esempio, i matrimoni comportano il passaggio di mano
di oltre 1500 stuoie. Storicamente le donne hanno inventato nuovi tipi di stuoie, immettendoli nelle
reti di scambio, e commemorando i nomi dei luoghi dove ogni tipo di stuoia è stato prodotto per la
prima volta.
E’ evidente che il “ciclo delle stuoie” costituisce una sfera importante per la riproduzione sociale e
la costituzione della memoria storica associata alle reti di relazioni tra donne e luoghi, parallela in
importanza all’impulso maschile di creare potere individuale e ancestrale attraverso la
partecipazione ai rituali graduati. Inoltre i manufatti prodotti dalle donne erano essenziali per gli
uomini: erano i segni artistici dello status ottenuto da vivi, e li avvolgevano per accompagnarli nel
tratto finale della morte corporea. In questa rilettura al femminile si comprende meglio il ruolo dei
legami materni e della discendenza matrilineale come elementi complementari nel sistema di
interazione equilibrata nell’ottenimento di status maschile e femminile.
Cultura e turismo, un binomio rischioso
Margaret Jolly è un’antropologa che si occupa del concetto post-coloniale di Kastom a Vanuatu e
nel Pacifico in generale. In un articolo del 1982 descrive il modo in cui la commercializzazione dei
riti tradizionali nel sud dell’isola di Pentecost agisce subdolamente per portare cambiamenti nelle
comunità più tradizionaliste dell’isola. Ad uno sguardo superficiale, l’apertura dei rituali
tradizionali ai turisti sembra fornire ai villaggi tradizionalisti un’opportunità di guadagnare facendo
10
(Vedi http://www.tribalsite.com/articles/malekula.htm per descrizione di questo
complesso rituale con alcune fotografie delle effigi).
101
quello che desiderano, cioè continuando a vivere secondo le proprie tradizioni. In pratica però, il
turismo etnico tanto promosso dai governi dei piccoli stati isolani, portano il costume e la tradizione
nell’ambito moderno dell’economia capitalista. Il conflitto tra i due sistemi trova espressione nelle
divergenze nate nei villaggi tradizionalisti tra coloro che volevano approfittare dell’opportunità di
guadagno, e quelli che ritenevano fosse contrario alla tradizione chiedere soldi per assistere ad un
rito. Anche se si raggiunge un’accordo sul fatto di far pagare i turisti, subentrano dispute su chi
siano i proprietari dei diritti sui riti, e quindi su chi debba tenere ed amministrare i guadagni dello
spettacolo. Queste discussioni non sono di poca importanza, anche perché la riuscita dei pericolosi
lanci dalle torri dipende (secondo la tradizione ni-Vanuatu) dal sostegno degli antenati, i quali
notoriamente lo offrono solo quando nel villaggio c’è armonia. Tradizionalmente questi rituali
avvenivano in un periodo dell’anno ben preciso, e servivano ad assicurare il benestare degli antenati
e la fertilità dei raccolti, il vero pericolo per i partecipanti al rito, i giovani “tuffatori” è
rappresentato dalle esigenze di far coincidere il rito con l’arrivo dei gruppi di turisti, in quanto le
liane adoperate hanno differente elasticità in diversi periodi dell’anno.
La sacralità dello spazio nelle religioni indigene e cristiane di Vanuatu
Sia nelle religione tradizionale che nelle diverse forme di cristianesimo adottate dai ni-Vanuatu, lo
spazio assume valenze di sacralità, analizzate da Margaret Jolly nel contesto delle comunità che
abitano il sud dell’isola di Pentecost (Jolly e Macintyre 1989: 213-235).
La situazione in questa regione assomiglia quella descritta da Keesing per i Kwaio di Malaita
(Salomone), per cui esiste sia un contrasto tra la religione ancestrale del passato e il cristianesimo
contemporaneo, ma la coesistenza di villaggi che si identificano come villaggi cristiani e altri come
tradizionalisti. Inoltre esistono villaggi cristiani di tre diverse denominazioni in un’area di 12
chilometri quadrati abitata da circa 3000 persone, che permettono un’analisi comparativa delle
trasformazioni nel modo in cui è organizzato lo spazio dalle diverse comunità, riflettendo le
rispettive politiche sulle relazioni di genere e sulla vita famigliare. Le divisioni tra le differenti
denominazioni sono rigidamente rispettate a livello dei singoli villaggi e, anche se legami di
parentela o altre relazioni intersecano le divisioni religiose, le denominazioni costituiscono gruppi
endogami, relazioni di affinità sono raramente contemplate, e con disfavore. Nel sistema indigeno la
sacralità era creata attraverso la separazione fisica dei vivi dagli antenati, delle persone di ranghi
differenti, degli uomini dalle donne. Questa separazione avveniva, e tuttora avviene nei villaggi
tradizionalisti, tramite la separazione dell’insediamento umano dall’ambiente circostante, tra zone
sacre e altre destinate alle attività ordinarie, tra case degli uomini ed abitazioni domestiche e,
all’interno di queste due tipi di case, la differenziazione dei focolari in base, rispettivamente , al
genere e al rango.
I missionari cristiani ed i convertiti locali hanno volutamente trasgredito queste divisioni sacre e, in
modi e gradi differenti hanno cercato di decostruire questi spazi sacri rimpiazzandoli con altri: non
solo con la costruzione di chiese, ma anche con nuove forme di abitazioni e con la concomitante
promozione di nuove forme di vita domestica e famigliare.
La tradizione a Vanuatu, come in altre parti della Melanesia, può dirsi scritta sul terreno, non solo i
miti sulle origine umane e della terra, ma anche le gesta degli antenati sono codificate su elementi
del paesaggio. Per esempio i siti da cui provengono i diversi gruppi di discendenza sono chiamati ut
loas (spazio sacro) e, seppure in un’area coltivata, non vengono mai coltivati, un’isola di foresta
primaria in un paesaggio altrimenti modificato da secoli di orticoltura itinerante e di allevamento di
maiali. Anche solo avventurarsi in questi luoghi può causare malattie o altri guai. Questa è la più
evidente distinzione tra spazio dei vivi e quello degli antenati.
Per quel che riguarda i viventi, le distinzioni tradizionali più importanti sono quelle di genere e di
rango (ottenuto con una serie di iniziazioni graduate), e sono visibilmente espresse
nell’organizzazione spaziale dei villaggi. Il villaggio si distingue sia dalla foresta che dal territorio
coltivabile, ed è circondato da un recinto che dev’essere scavalcato per entrare o uscire. Il nucleo
102
del villaggio è formato da una casa comune riservata agli uomini, mal, e da un terreno cerimoniale,
nasara, utilizzato per una serie di riti e cerimonie. Lo spazio interno al villaggio è chiaramente
differenziato secondo il genere, anche i sentieri usati da uomini e donne sono diversi in quanto le
donne devono fare attenzione ad attraversare il terreno cerimoniale, che in alcuni periodi è vietato
per loro, così come è vietato l’accesso ad un boschetto sacro piantato vicino alla casa degli uomini.
Gli uomini e le donne usano latrine separate, ma a differenza di altre culture non vi sono case per la
reclusione femminile durante il parto o le mestruazioni.
La differenziazione di genere e di status si può notare anche nella divisione interna dello spazio nei
due tipi di case. L’abitazione domestica è divisa in due da una trave sul pavimento, creando una
sfera maschile ed una femminile, verso l’entrata della casa. I membri della famiglia possono
muoversi liberamente in entrambi gli spazi delimitati, ma le principali attività quotidiane del gruppo
famigliare (mangiare e dormire) sono attività segregate per sesso, quindi gli uomini (di qualsiasi
grado iniziatico) cucinano, mangiano e dormono nella metà posteriore della casa, mentre le donne
ed i bambini fanno le stesse cose nell’altra metà. A differenza di altre culture in cui esiste una
segregazione tra i sessi, il pericolo nella condivisione di cibo, a Vanuatu, è per le donne e i bambini,
non per gli uomini. Normalmente gli uomini dormono nella casa della famiglia (in tempi di
poliginia visitavano le case delle diverse mogli a turno), ma nella loro metà della casa, mentre la
moglie dorme coi bambini. Dormire insieme tutta la notte è considerato pericoloso per la fertilità
della coppia. Prima dell’ingerenza coloniale le case delle famiglie erano anche condivise dai maiali,
in un recinto davanti all’entrata, e dai membri deceduti della famiglia, sepolti sotto la casa.
La casa degli uomini, in cui questi mangiano e dormono solo in periodi specifici legati ad attività
rituali che comportano la seclusione o in occasione di visite da altri villaggi, è divisa in quattro
compartimenti. Ad ognuno corrisponde un grado iniziatico, ed in ognuno c’è un focolare diverso
per la preparazione del cibo che è cucinato e condiviso solo dagli uomini dello stesso status. Nei
mal vengono custoditi una serie di attrezzature sacre, usate per i rituali della comunità. Queste case
sono quindi simboli importanti della religione tradizionale. Il cristianesimo passa anche tramite la
sostituzione o la ri-concettualizzazione di questi spazi sacri. Secondo Jolly, però, non bisogna
ripetere l’errore dei missionari che hanno fatto coincidere il contrasto tra case residenziali e case
cerimoniali, con una dicotomia eurocentrica tra spazi pubblici e spazi domestici. Anche se è vero
che il contrasto tra queste due abitazioni sono centrali nell’ideologia sulle relazioni di genere nei
villaggi tradizionali, le relazioni di genere sono radicalmente differenti da quelle occidentali per tre
motivi: gli uomini partecipano in ugual misura delle donne alle attività domestiche quotidiane; le
case degli uomini, pur essendo precluse alle donne, non sono associate alla vita pubblica, né alla
vita politica; le donne, escluse dalla casa degli uomini sono comunque attrici sociali che partecipano
alla vita rituale del gruppo, non solo come spettatrici. Quindi anche se le differenze di genere sono
codificate nell’organizzazione dello spazio dei villaggi tradizionali, le forme ed i significati di
queste differenti sfere maschili e femminili non sono sovrapponibili a quelle derivate dall’ideologia
occidentale in cui il femminile è associato alla sfera domestica e il maschile a quella pubblica. Per i
ni-Vanuatu questa distinzione è senza fondamento in quanto le istituzione più pubbliche e centrali
alla cultura riguardavano proprio la sacralizzazione della vita domestica: coltivare piante, allevare
bambini, crescere bambini, e perpetuare i cicli di parentela che univano gli antenati ai discendenti
erano attività della sfera di vita pubblica, oltre che domestica.
I missionari delle diverse denominazioni erano tutti d’accordo sulla necessità di riformare le
relazioni di genere esistenti. L’introduzione di modelli cristiani di separazione tra sfere maschili e
femminili era un elemento fondamentale dell’opera di conversione. I modelli introdotti dal
cristianesimo separano radicalmente gli uomini dalle donne, come avveniva nel villaggio
tradizionale, e introducono la dimensione tra pubblico e domestico. La divisione tradizionale è
condannata in quanto considerata degradante per le donne, ma i nuovi modelli proposti dalle chiese
cristiane non attribuivano alle donne gli stessi poteri rituali che godevano nella separazione
tradizionale delle sfere di competenze.
Le denominazioni cristiane presenti in questa zona ora sono: Cattolica, Church of Christ, e
103
Melanesian Mission., ognuna di queste chiese ha avuto una storia differente, e ha associato la
conversione alla propria religione a diverse regole di vita, che risultano in diverse concezioni della
divisione dello spazio nelle comunità.
Per i cattolici (presenti dalla fine del 1900), mentre la poliginia era inammissibile, lo scambio di
sorelle ed il pagamento del prezzo della sposa era tollerato, e sono tuttora diffusi tra i convertiti al
cattolicesimo. Inoltre era inaccettabile per i cattolici la segregazione dei pasti tra uomini e donne e
l’esclusività maschile della casa degli uomini. L’abitazione domestica dei villaggi cattolici ha subito
trasformazioni più drastiche: un solo focolare, in una costruzione separata in cui cucinano e
mangiano insieme uomini donne e bambini, e la casa per dormire che, quando è divisa in due parti è
abitata da marito e moglie in una parte e dai figli nell’altra. In molti villaggi cattolici esiste ancora il
mal, che però è nominalmente accessibile alle donne, anche se è utilizzato dagli uomini per
socializzare, preparare il kava. La chiesa è un elemento di innovazione, e lì sono custoditi gli
oggetti del culto cristiano ed è celebrata la messa. La separazione dei sessi è severamente osservata
nel contesto della messa ed è riflessa nei ruoli di genere associati al personale della missione (prete
e suore). Inoltre nel contesto coloniale di questa missione la divisione tra clero e laici, e la struttura
gerarchica della chiesa cattolica mantiene ancora una evidente dimensione etnica.
Questa struttura è in contrasto con quella della Church of Christ, un’ organizzazione protestante
evangelica basata sulle congregazioni, che sono principalmente gestite da un certo numero di
indigeni con cariche efunzioni diverse, non espatriati di origine europea od anglosassone. Questa
missione, che opera dagli anni ’50, si è opposta con più severità al kastom, combattendo molti
aspetti della vita famigliare tradizionale. Ai membri di questa chiesa è vietato partecipare ai riti
tradizionali legati alla nascita, alla circoncisione, al matrimonio ed alla morte. I convertiti sono
anche scoraggiati dall’allevare i maiali e dal bere kava. Questo atteggiamento più abolizionista si
riflette anche nei nuovi villaggi associati alla Church of Christ, in cui non esistono più le case degli
uomini. Le uniche strutture pubbliche sono al chiesa e ed una casa per i banchetti festivi comune, in
cui uomini e donne mangiano insieme. Anche le case delle famiglie sono più simili a quelle
europee, sono costruite in materiali occidentali, mariti e mogli dormono e mangiano insieme,
spesso in letti matrimoniali con zanzariera. Questi sono gli unici villaggi costruiti sulla costa ovest
dell’isola, dove ci sono le zanzare ma anche le migliori condizioni per lo sviluppo economico.
Secondo Jolly l’impatto del cristianesimo evangelico è intrecciato in questi villaggi con la
formazione di classi sociali, espresse con la costruzione delle case dei più abbienti su terreni fuori
dal villaggio. Rimane da comprendere, però quanto la privatizzazione della famiglia sia avvenuta in
risposta all’incoraggiamento dei missionari, o in un tentativo di allontanamento dalle richieste dei
parenti per la condivisione delle risorse.
La terza missione, la Melanesian Mission è presente nell’area dagli anni ’50, ed è una missione
anglicana. Dal punto di vista dell’organizzazione è simile alla struttura cattolica, in quanto la
missione è condotta da un uomo solo, il prete ordinato, ma la differenza è nell’indigenizzazione del
personale. Anche questa missione ha promosso una riforma della vita famigliare e delle relazioni di
genere tra i suoi convertiti. Nonostante uomini e donne partecipino insieme alla vita rituale della
chiesa, che fornisce le basi per una vita di comunità, secondo i missionari, la disciplina e la routine
di questa comunità sono differenti per gli uomini e le donne, a cui sono insegnate nozioni di
economia domestica. Il ruolo delle donne in questa, come nelle altre chiese, è comunque quello di
ausiliaria alle attività maschili, in quanto mogli e madri. Come nei villaggi cattolici molte delle
divisioni di genere tradizionali perdurano. La segregazione nel mangiare e nel dormire non esistono
più, ma continuano ad esistere i mal che non sono vietati alle donne, ma sono frequentati solo da
uomini, la monogamia prevale, ma si continuano a praticare i pagamenti per le spose e gli scambi di
sorelle.
Jolly conclude che tutte le missioni cristiane hanno sentito il bisogno di trasformare le relazioni di
genere e la vita famigliare degli abitanti di South Pentecost, e lo hanno fatto proponendo politiche,
strutture e modelli differenti. La Church of Christ ha adottato una politica più abolizionista che
riformista, eppure le trasformazioni nei villaggi associati alle diverse chiese non sono il risultato
104
semplicemente dell’intervento della chiesa, i ni-Vanuatu hanno adattato il messaggio cristiano, in
qualche caso hanno resistito all’insegnamento, e quando la resistenza non è stata ammessa si sono
ritirati, scegliendo di seguire le vie del kastom. Queste trasformazioni sono avvenute in un contesto
di trasformazioni socio-economiche più vaste, che hanno comunque influito anche sui villaggi più
tradizionalisti. Anche se gli interventi delle diverse missioni erano ispirati dall’idea di recuperare le
donne da uno stato considerato degradante, promettendo la salvezza in nome di Dio, la segregazione
e la dominazione maschile perdurano nelle chiese cristiane. Nel nuovo modello proposto la
segregazione celebra le donne in quanto mogli e madri, ma le depriva dell’associazione con quegli
aspetti sacri legati alla parentela che attribuiva loro un ruolo cruciale, anche se subordinato, nella
religione tradizionale.
105
LE ISOLE SALOMONE
Geografia
Le Salomone sono un arcipelago nel Pacifico sud-orientale, subito a est dell’isola di Bouganville
che per motivi legati alla storia coloniale di quest’area, fa parte della nazione della Papua Nuova
Guinea. Le Solomoni comprendono 992 isole montuose e atolli corallini, di cui solo un terzo sono
abitate. Le isole più importanti sono Choiseul, Isabel, Malaita, New Georgia, Guadalcanal, e
Makira. Il clima è tropicale, con grande variazione nelle precipitazioni, che abbondano soprattutto
nella stagione monsonica, tra gennaio ed aprile. Questa stagione porta anche sporadici tifoni, ma
generalmente non sono distruttivi. L’area è geologicamente instabile, ci sono attività vulcaniche
oltre a frequenti tremori della crosta terrestre.
La posizione geografica di questo arcipelago, tra l’Oceano Pacifico Meridionale il Mare delle
Salomone e il Mare dei Coralli, le rende di importanza strategica per le rotte commerciali.
L’economia è tuttora basata principalmente sulla pesca e sull’agricoltura di sussistenza. I principali
prodotti esportati (soprattutto verso l’Asia) sono il legname, il pesce, la copra, l’olio di palma ed il
cacao. La deforestazione, un problema comune a tutta l’area Melanesiana, ha ha lasciato il 10% del
territorio denudato, portando anche problemi di erosione. Nel 1994 l’Australia ha offerto 2 milioni
di Dollari Australiani di assistenza economica a patto di terminare le concessioni per il legname
dalla foresta pluviale attorno alla laguna di Marovo, sito proposto per il World Heritage.
Ultimamente il governo ha imposto una tassa di riforestazione sui raccolti di legname. Anche se in
realtà non è utilizzato per piantare nuovi alberi, si sta facendo strada tra i proprietari terrieri la
consapevolezza che ci sono modi migliori di usare la terra che abbattere le foreste pluviali con i
bulldozer. D’altra parte dal 1994 il governo ha utilizzato la propria polizia paramilitare per
difendere le operazioni delle compagnie del legname Malesiane dall’opposizione locale.
I mari delle Salomone sono pescosissimi, particolarmente ricchi di tonni. Fino al 2000 i tonni sono
stati pescati e surgelati soprattutto da una compagnia Giapponese, la Taiyo. Il ritiro della Taiyo dal
paese ha lasciato il governo col difficile compito di riorganizzare l’industria ittica.
La maggior parte dei prodotti industriali e petroliferi sono importati, principalmente dall’Australia,
Singapore, ed altre nazioni del Pacifico. Le isole sono ricche di risorse minerali non sviluppate, ma
gravi problemi di stabilità e violenza etnica hanno portato problemi finanziari, e le casse dello stato
sono vuote. L’insolvenza da parte del governo causa occasionali sospensioni nella consegna dei
combustibili, tra cui quello utilizzato per produrre l’energia elettrica. Una situazione simile si è
verificata per le telecomunicazioni.
Popolazione
La popolazione stimata nel 2003 era di 509,190. Il 93% degli abitanti sono melanesiani, il 4%
polinesiani, l’1,5 % micronesiani, ci sono anche pochi cinesi ed europei. Il 45% degli abitanti si
riconoscono nella chiesa Anglicana, il 18% in quella Cattolica, il 7% appartengono alla Chiesa
degli Avventisti del Settimo Giorno, il 4% si dichiarano seguace di credenze tradizionali, il
rimanente si dividono tra varie altre denominazioni protestanti.
Nelle Isole Salomone si parlano 120 lingue differenti, ma il pidgin melanesiano funziona da lingua
franca. L’inglese, una lingua ufficiale, è parlato solo dall’1-2% della popolazione.
Storia pre-coloniale
In termini archeologici, l’isola di Bouganville appartiene al gruppo delle Salomone. Si pensa che i
primi occupanti arrivarono dal nord-est circa 30000 anni fa, ma i primi insediamenti organizzati
risalgono a 4000 anni fa, e da allora si può datare lo sviluppo di tecniche legate alla navigazione,
all’agricoltura e all’allevamento. Kirch ha compilato il lavoro di numerosi studiosi della preistoria
106
della regione e indica che Spriggs ha trovato una sequenza di ceramiche prodotte nell’arco degli
ultimi 1500 anni nella parte centrale di Bouganville, mentre Peter Sheppard ha trovato tracce di una
possibile occupazione Lapita nella laguna di Roviana, sull’isola di New Georgia (Kirch 2000:133).
D’altra parte David Roe analizzando resti da scavi effettuati su Guadalcanal ha trovato tracce di
insediamenti datati da 6400 a 150 anni fa: nel corso di quel periodo si può dimostrare una
intensificazione dell’agricoltura, ma non vi sono tracce di produzioni in terracotta.
Cripte di sepoltura studiate da Kirch, Yen, e Rosendahl sull’isola di Kolombangara contenevano
crani umani e dischi ricavati da conchiglie associati con attività di scambi cerimoniali competitivi.
Le ricerche archeologiche ed etno-storiche di Sheppard e Aswani sull’isola di Roviana tendono a
stabilire con maggior precisione il momento storico dell’apparizione di oggetti di valore nelle
sepolture, e la concomitante intensificazione di strutture politiche basate sulla struttura gerarchica
dei capi, il che permetterebbe anche di collegare tra loro le storie degli Austronesiani costieri, con
quella di popolazioni di lingua non-Austronesiana che abitano le zone interne. In questa maniera si
riescono a considerare insieme i ritrovamenti recenti degli archeologi (prehistorians) con quelli
dell’antropologia sociale. A questo proposito è anche interessante notare che sia Granger che
Spriggs attribuiscono la camera mortuaria di Roy Mata a Vanuatu ad un ritorno migratorio da
parte di popolazioni Polinesiane, un’ ipotesi che è compatibile con altri ritorni migratori dalla
Polinesia verso ovest avvenuti negli ultimi 1500 anni, tra cui quelli che portarono popolazioni
polinesiane ad Anuta, Tikopia, e Bellona.
Trovando le isole maggiori già occupate dai Melanesiani, questi Polinesiani di ritorno si stabilirono
sulle isole minori, eliminando piccole popolazioni locali. Per i quattro secoli successivi queste isole
appartate furono bersagli di ripetute aggressioni da parte di abitanti di Tonga e Tokelau. Anche le
isole di Santa Cruz sono abitate tuttora da popolazioni sia melanesiane (che parlano lingue nonaustonesiane) che polinesiane. Un risultato di queste successive ondate migratorie è una
commistione culturale di elementi associati alla Melanesia e altri considerati più polinesiani, un
altro è una diffidenza verso gli stranieri che, nel diciannovesimo secolo, rese queste isole tra le più
ostili verso gli esploratori occidentali.
Primi contatti con gli occidentali
I primi ad avventurarsi in queste acque furono gli esploratori spagnoli, che dal Perù cominciavano a
spaziare in ricerca di El Dorado. Nel 1567 Don Alvaro de Mondana y Neyra partì alla ricerca di
nuove terre, nel 1568 avvistò un’isola che chiamò Santa Isabel, prima di procedere nella
navigazione delle isole dell’arcipelago, che battezzò con i nomi spagnoli che ancora rimangono.
Dopo sei mesi di conflitti con gli indigeni, gli spagnoli ripartirono. Mendana descrisse le isole in
termini esaltanti, ma fu Pedro Fernandez de Quiros a chiamarle Isole Salomone, associandole ai
tesori di Re Salomone. Fino al 1605 gli spagnoli tentarono di stabilire delle colonie alle Salomone,
ma desistettero per via della malaria e dell’ostilità dei nativi.
A causa delle imprecisioni delle carte degli spagnoli, le Salomone rimasero indisturbate dagli
europei per circa un secolo e mezzo fino a quando, nel 1767, il Capitano Inglese Philip Cartaret
capitò casualmente nell’arcipelago. Egli non credeva di aver ritrovato le famose isole Salomone, ma
fu presto seguito dal navigatore francese De Bouganville e da un assortimento vario di avventurieri
che lasciarono il segno nelle isole.
Storia coloniale
Dal 1830 si aprì una fase di commerci coloniali, mercanti marittimi cercavano conchiglie, cetrioli
di mare e legno di sandalo, li scambiavano con beni di scambio occidentali, come ferro e tessuti, ma
in molti casi imbrogliarono gli indigeni con cui commerciavano, e portarono molte nuove malattie
alle isole. Tra il 1870 e il 1910 i reclutatori “blackbirders” portarono via migliaia di isolani, spesso
con la forza, per mandarli a lavorare nelle piantagioni australiane del Queensland o nelle Figi. Gli
107
isolani impararono presto a diffidare degli europei, avendo acquisito dei fucili dai mercanti meno
scrupolosi presero ad usarli contro chiunque si avvicinasse, guadagnandosi la reputazione di
selvaggi pericolosi e bellicosi. Anche i missionari più temerari tardarono ad approdare in queste
isole. Nel diciannovesimo secolo i missionari cattolici arrivarono sull’isola di Gadalcanal, mentre i
lavoratori di ritorno dalle piantagioni portarono con loro le influenze di altre chiese cristiane. Nel
1893 l’Inghilterra, dopo trattative con la Germania che aveva interessi coloniali a Bouganville,
dichiarò un protettorato nelle altre isole dell’arcipelago, chiamato British Solomon Islands
Protectorate. Furono messe in piedi delle grandi piantagioni di palme da cocco, di proprietà di
Levers e della Burns Philip. Il primo Resident Commissioner, Charles Woodford, amministrò le
isole dal 1856 al 1815, era considerato un amministratore illuminato perché rifiutava di girare
armato, ed è a lui che si attribuisce la nascita di una struttura di governo organizzato alle Salomone.
Nel 1942 i giapponesi si impossessarono delle isole Shortland e di Tulagi, quando cominciarono a
costruire una pista per gli aerei a Guadalcanal gli alleati reagirono duramente. Gli americani
sbarcarono numerosi in agosto, ma i giapponesi li sorpresero ed inflissero una delle peggiori
sconfitte alla marina americana, nella battaglia di Savo. Per sei mesi gli americani mantennero il
controllo di Guadalcanal, ma i giapponesi attaccavano di notte e continuavano a mandare rinforzi.
Gradualmente gli americani presero possesso di tutte le isole, una per volta. Nel frattempo gli
isolani, per via dei maltrattamenti da parte dei giapponesi, più che per obbedienza agli ordini
britannici, rimasero leali agli alleati. Dopo la resa dei giapponesi nel 1945 molti indigeni,
soprattutto da Malaita, lavorarono alla costruzione della base US su Guadalcanal. Gli isolani furono
impressionati dalla ricchezza e dal potere degli americani e dai diversi rapporti, più egalitari, che
questi stabilivano con gli indigeni.
Alla fine della guerra prese piede alle Salomone Il Ma’asina Ruru (o Masing Rule), un movimento
a favore del cambiamento e della rivalutazione delle tradizioni locali, kastom, come mezzo per
promuovere l’autonomia culturale e politica, in opposizione al dominio coloniale britannico.
Il nome Ma’asina è una parola derivata dalla lingua degli ‘Are are, che significa “gruppo di
fratelli”. Lo scopo del movimento era di unire numerosi gruppi linguistici nella lotta di opposizione
al governo coloniale. L’aspetto peculiare di questo movimento di liberazione era l’altro scopo
promosso: convincere gli Americani, con i loro mezzi e la loro ricchezza, a tornare per
amministrare le isole (Keesing 1992: 103). L’arresto dei capi del movimento e di molti seguaci nel
1947 e 1948 indebolì il movimento, che si divise internamente e si estinse definitivamente con la
partenza degli Americani nel 1950. Le autorità coloniali furono costrette da questi movimenti
popolari a organizzare un sistema di governo locale: dal 1953 istituirono delle assemblee regionali
iniziando da Malaita, nel 1970 fu eletto il consiglio di governo, nel 1976 le Salomone ottennero
l’autogoverno, e l’indipendenza fu raggiunta il 7 Luglio 1978.
Storia post-coloniale
Alle Salomone vige una democrazia parlamentare. Il capo dello stato è la Regina Elisabetta II,
rappresentata dal Governatore Generale che è nominato dalla regina su consiglio del parlamento. Il
parlamento è eletto, il primo ministro viene scelto dal parlamento (di solito capo del partito o della
coalizione vincente) il vice primo ministro è un parlamentare nominato dal Governatore su
consiglio del Primo Ministro. Un gabinetto di governo è costituito da 20 parlamentari nominati dal
Governatore dietro consiglio del Primo Ministro. Il parlamento nazionale è unicamerale, ed è
composto da 50 parlamentari eletti per quattro anni in elezioni popolari. Dall’ultima elezione del
2001 il primo Ministro è Sir Allan Kemakeza (People's Alliance Party o PAP), e il Vice-Primo
Ministro Snyder Rini (di una coalizione di indipendenti), le prossime elezioni sono programmate
entro il 2005.
Da quando hanno ottenuto l’indipendenza, l’unico coinvolgimento delle Salomone a livello
internazionale è stato durante la crisi dell’isola di Bougainville in Papua Nuova Guinea, i rapporti
tradizionali tra gli isolani di Shortland e quelli della vicina isola indipendista, hanno determinato
disaccordo tra le Salomone e i governi dell’Australia e della Papua Nuova Guinea sulle politiche
108
adottate rispetto al movimento separatista.
Internamente violenze etniche, illegalità da parte dei governanti, e criminalità endemica hanno
minato la società civile e la stabilità politica del paese.
Il problema di Bouganville ha influito negativamente anche sui problemi tra i Malaitiani e gli
abitanti di Guadalcanal, nati a causa della massiccia migrazione di Malaitiani verso Guadalcanal, e
sfociati recentemente in gravi conflitti interetnici intorno alla capitale del paese, Honiara. Nel
giugno del 1999, la situazione è degenerata al punto che nelle isole fu dichiarato lo stato di
emergenza. Un anno dopo la violenza nelle strade sfociò in un colpo di stato.
Il Primo Ministro, Bartholomew Ulufa’alu, anche se era originario di Malaita, fu minacciato dai
membri di una forza paramilitare, di quell’isola The Malaita Eagles Force, e dovette dimettersi. La
Malaita Eagle Force e l’Isatabu Freedom Movement firmarono un accordo nell’ottobre del 2000,
ma la tregua non durò molto. Sir Allan Kemakeza, che era stato licenziato pochi mesi prima dalla
posizione di Vice Primo Ministro a causa di scandali finanziari, divenne Primo Ministro nel
dicembre 2001, promise di ristabilire la pace e la prosperità. La violenza continuò a dispetto di
queste promesse al punto da costringere le forze di pace ad andarsene nel 2002.
Gruppi armati illegali come gli “Special Police Constables”, sfuggendo al controllo della polizia,
minacciavano ed estorcevano denari dagli ufficiali governativi. Nel febbraio 2003 un membro del
National Peace Council, ex commissario di polizia, fu assassinato ad Auki, nella Provincia di
Malaita. Vista la propria incapacità ad assicurare l’ordine, il governo delle Salomone ha richiesto
l’intervento di una forza di pace internazionale, costituita da forze di polizia e militari australiane,
neozelandesi, e da altri paesi del pacifico, per ristabilire l’ordine e la pace nella nazione. I risultati,
fino ad ora sembrano essere incoraggianti, molti dei ribelli si sono avvantaggiati dell’amnistia e la
situazione si sta stabilizzando, anche se il potenziale di violenza continua ad esistere, soprattutto
nelle aree rurali di Guadalcanal e su Malaita.11
Trasformazioni Storiche a Marovo
La vita degli abitanti del Pacifico è caratterizzata dall’Oceano, che hanno attraversato per
colonizzare le zone più ospitali. Per tutti gli insediamenti costieri, la pesca ha sempre rappresentato
un’importante risorsa e un elemento fondamentale della cultura. Come per la terra coltivabile e la
foresta, i gruppi che vivono sulla costa riconoscono dei diritti su diverse aree dell’acqua che li
circonda. Edvard Hviding ha pubblicato uno studio sul possesso marino nella zona di Marovo
Lagoon, sul versante orientale dell’isola di New Georgia. In questo studio sono illustrati alcuni dei
temi principali dell’etnografia contemporanea del Pacifico: “le contrapposizioni tra tradizionalismo
e modernità…e i multipli coinvolgimenti della gente di Marovo nei sistemi culturali antichi, in
varietà diverse di religione Cristiana, nello stato-nazione moderno, e nel sistema capitalista”
(1996:xv).
I proprietari tradizionali della zona intorno a Marovo Lagoon si considerano i guardiani delle risorse
della laguna; le compagnie malesi giunte sull’isola per tagliare gli alberi sono stati vissuti come
sfruttatori da combattere. In questa zona i conflitti tra proprietari tradizionali e le compagnie che
avevano fatto contratti per lo sfruttamento del legname con lo stato sono stati particolarmente
accesi.
Circa 10000 Marovo appartengono a gruppi parentali, butubutu, con nomi specifici. Ogni butubutu
è associato con una tenuta, puava, composta da tratti di terra, barriera corallina e mare, su cui
11
Vedi sito http://www.peoplefirst.net.sb/intervention/ per evidenza degli sforzi da parte dei
rappresentanti di questa forza internazionale per comunicare alla popolazione che sono stati
chiamati formalmente ed esplicitamente dal governo, e che rispettano la sovranità e l’indipendenza
delle Salomone- in effetti questo genere di intervento sollecita quesiti sulla natura neo-coloniale
dell’interesse delle nazioni più potenti nell’area del Pacifico per la stabilità interna delle nuove
nazioni indipendenti.
109
hanno controllo. L’appartenenza a questi gruppi è determinata da legami di parentela bilaterali (cioè
che possono essere trasmessi da entrambi i genitori). I membri di ogni butubutu sostengono un
senso di legame sociale con le creature all’interno del loro puava, e controllano conoscenze
essenziali per il ritrovamento delle risorse marine. Per questi motivi i gruppi tradizionali di
quest’area si sono dimostrati essere forti oppositori di stranieri desiderosi di appropriarsi degli
alberi e dei tonni che si trovano nelle loro tenute tradizionali.
Il termine Marovo significa “verso l’alba” (est). La parte occidentale dell’isola di New Georgia, è
conosciuta come Roviana , che significa “verso il tramonto”. L’isola di Kolombangara è un’isola
vulcanica all’estremità nord-ovest di New Georgia, la foresta è stata tagliata intensamente in anni
recenti, grazie all’intervento di forze governative a difesa delle operazioni di disboscamento.
L’ambiente di Marovo fornisce risorse alimentari molto varie; gli abitanti cacciano maiali selvatici
e marsupiali nella foresta, raccolgono prodotti della laguna e del mare come molluschi, pesci e
crostacei, e piantano banane e una varietà di tuberi nei loro orti, tra cui taro e patate dolci, con
questi e le noci selvatiche confezionano dei pasticci che arrostiscono in forni scavati nella terra. Gli
abitanti dei villaggi considerano questo stile di cucina come una parte importante del loro kino,
modo di vita.
Le tempeste tropicali limitano i viaggi in canoa. Infatti, nel repertorio magico dei locali sono più gli
incantesimi per far smettere la pioggia che quelli per provocarla.
L’interno dell’isola consiste di crateri estinti, pinnacoli di roccia e pendii ripidi. Come in tutta la
zona del sud-ovest del Pacifico, ci sono vulcani attivi e frequenti terremoti, eppure l’isola è stata
abitata estensivamente nel passato. Si trovano numerosi santuari ancestrali nella foresta, questi
contengono corni ricavati da grosse conchiglie (chonch), denti di balena, e anelli di conchiglia,
oltre a cranii umani come quelli ritrovati nei siti archeologici di Kolombangara. I luoghi scelti per i
santuari dimostrano un senso di legame spirituale con la foresta stessa come entità ancestrale, un
senso comune anche a popolazioni dell’interno della Nuova Guinea, come i Duna della Southern
Highlands Province in P.N.G.
I Marovo sono anche legati ad un’economia monetaria, per soddisfare i propri bisogni di beni
introdotti, come il sapone, sale, cherosene, e fiammiferi. Per procurarsi il denaro necessario gli
abitanti dei villaggi producono dei mortai in pietra, come quelli che usano per macinare le noci, che
sono molto richiesti in altre zone del paese. Inoltre vendono piccole conchiglie nassa agli indigeni
di altre isole, o cetrioli di mare a mercanti esterni; ma ultimamente c’è stato un boom nella vendita
di figurine intagliate nel legno dagli uomini, promossa dalla chiesa degli Avventisti del Settimo
Giorno. Anche questo è un fenomeno simile a quello verificatosi in Nuova Guinea tra gli Asmat
dell’Irian Jaya. I missionari cattolici inizialmente avevano soppresso le sculture lignee in quanto
associate alle pratiche dei tagliatori di teste, ma in anni recenti hanno incoraggiato un revival della
scultura per motivi culturali e commerciali. Inoltre gli abitanti dei villaggi dipendono in larga
misura dalle rimesse spedite dai famigliari che sono andati a lavorare nei centri urbani, ma che
vogliono mantenere i legami sociali e i loro diritti nei luoghi d’origine (un altro fenomeno molto
diffuso nel Pacifico).
Le tre chiese Cristiane principali del paese (Avventisti del Settimo Giorno, Metodista e Anglicana)
si sono rese responsabili per il mantenimento di scuole, segherie, piste di atterraggio per gli aerei e
centri di assistenza medica.
Nelle Salomone non è permesso alienare dai gruppi butubutu le zone di terra e di mare riconosciute
come tenute tradizionali (all’infuori di quelle aree già alienate sotto il regime coloniale). Ogni
villaggio ha un bangara, o capo ereditario, che trae il suo potere dal fatto di aver ereditato la
custodia di oggetti di valore fatti di conchiglia e associati ai capi ancestrali; egli sovrintende
all’attuazione delle leggi tradizionali. I nuovi rappresentanti del governo non hanno rimpiazzato i
bangara, e l’adesione all’idea di kastom (tradizione) come modo di vita continua ad essere
importante. Questo non vuole dire che l’idea del kastom sia necessariamente immutevole o senza
una storia, anzi la storia orale locale porta esempi di movimenti e trasformazioni anche nel passato
pre-coloniale. L’idea del Kastom fornisce un’ancora concettuale per nozioni identitarie locali,
110
vissute come radicate nel passato, in un contesto di continue trasformazioni nella vita dal
diciannovesimo secolo. Inoltre il concetto di kastom fornisce un mezzo di sostenere una
regolamentazione sulle risorse marine e terrestri.
Kastom è usato come base per negoziare con gli interessi commerciali esterni, come i pescherecci
dei tonni, e come cornice entro la quale gestire le tendenze interne a individualizzare la proprietà
delle risorse. Nel corso di questi negoziati, la tradizione stessa è re-interpretata e trasformata. I
conflitti più gravi sono emersi riguardo allo sfruttamento delle foreste, iniziato da compagnie
Inglesi ed Australiane ma dagli anni ’90 intrapreso soprattutto da interessi di nazioni asiatiche.
Levers Pacific Timbers cominciò a tagliare gli alberi attorno a Marovo negli anni ’70. Nel 1983 i
leader dei butubutu locali rifiutarono di negoziare oltre con la Levers che, tre anni dopo, smise le
operazioni e lasciò le Salomone, causando una grossa perdita degli esporti nazionali. I gruppi legati
alle chiese della Christian Fellowship ebbero un ruolo rilevante nel guidare la resistenza alla
compagnia.
Questa chiesa, nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, fonde il metodismo con forti tendenze
comunitarie e alcuni elementi del culto degli Antenati. E’ stata fondata da un profeta carismatico,
Silas Eto, conosciuto come Holy Mama (Santo Padre), che ruppe con la chiesa metodista per
fondare una chiesa indigena indipendente nel 1960. Il fondatore morì nel 1984, e fu succeduto dai
figli, uno dei quali divenne il leader dell’opposizione alla Levers. Anche se il governo aveva
trattato con gli isolani per conto della compagnia del legname, quando videro l’impatto delle attività
di disboscamento sul loro ambiente, gli abitanti della zona lo giudicarono insopportabile. Inoltre
non tutti i leaders avevano firmato l’accordo per tagliare gli alberi, e i locali non rispettavano la
compagnia che non li aveva riconosciuti, non aveva mandato i propri rappresentanti negoziare
direttamente con loro.
Seppure loro stessi invitarono le compagnie del legname Malesiane nel 1989, gli stessi problemi si
ripresentarono, soprattutto a causa della distruzione di alcuni antichi siti sacri nella foresta. Hviding
illustra come questo tipo di conflitto metta gli stati-nazioni contemporanei in una posizione
doppiamente scomoda: da un lato sono tenuti a salvaguardare gli interessi delle proprie popolazioni
locali, dall’altro hanno bisogno di generare reddito a livello nazionale per promuovere lo sviluppo
economico, ugualmente richiesto dalla popolazione. In queste circostanze è difficile che il governo
riesca a guadagnarsi il rispetto da parte delle popolazioni rurali o da quella delle multinazionali con
le quali tratta affari su larga scala. Questo stesso dilemma è al centro dei conflitti in Papua Nuova
Guinea riguardo alle operazioni minerarie, per esempio l’enorme miniera di oro e rame a Ok Tedi
nella Western Province che ha causato danni ambientali di una tale gravità da obbligare il governo
ad una decisione molto difficile: o rinunciare al reddito portato dalla miniera, o perdere l’agibilità di
tutto il territorio a valle della miniera per un lasso di tempo indeterminato.
Scambi e trasformazioni sociali sull’Isola di Choiseul
L’isola di Choiseul si trova a nord di New Georgia. Harold Scheffler ha studiato la zona dell’isola
popolata da gente associata alla lingua Varisi tra il 1958 e il 1961. La lingua Varisi, una delle sei
divisioni linguistiche identificate sull’isola, contava circa persone negli anni ’60 (un sesto della
popolazione totale dell’isola).
Gli isolani hanno avuto esperienze storiche difficili e complesse nei confronti degli stranieri dal
1860. Hanno subito ondate di mercanti di gusci di tartaruga e cetrioli di mare, reclutatori
“blackbirders” che usavano la forza per persuadere gli isolani a salire sulle navi per le piantagioni e
vendevano fucili. Inoltre dal 1893 si sono scontrati col governo coloniale Britannico che rimase
coinvolto con le politiche locali, punendo i partecipanti ai raid e chi uccideva europei. Gli inglesi
punivano severamente gli isolani di Choiseul in un tentativo di interrompere i cicli di uccisioni e
vendette locali, ma così facendo sembrava entrare nella stessa logica. Questo intrecciarsi di
politiche colonialiste con le faide locali è una componente frequente della storia coloniale, ed ha
avuto un ruolo importante nella storia dei Kwaio di Malaita, per esempio (Keesing 1992).
111
Missionari cristiani, soprattutto Metodisti e Anglicani, furono strumentali nel persuadere gli isolani
a riunirsi in insediamenti più numerosi sulla costa, commerciare la copra, e mandare i figli a scuola.
Come in altre aree del pacifico, furono i lavoratori convertiti nelle piantagioni, una volta tornati al
loro villaggio, ad aiutare i missionari ad essere accettati (Scheffler 1965:21), contemporaneamente
il governo coloniale dava anche molto supporto ai missionari. I Cattolici e gli Avventisti del
Settimo Giorno raggiunsero Choiseul nel 1920, e negli anni seguenti il cristianesimo e le credenze
tradizionali si sono parzialmente mescolati: Dio ha rimpiazzato gli spiriti indigeni, e le offerte di
prodotti degli orti non sono più fatte ai leader dei gruppi locali (che Scheffler chiamava i
“manager”) ma ai predicatori cristiani.
La descrizione di Scheffler dei Varisi è contemporaneamente uno studio storico ed una
ricostruzione della società com’era intorno al 1900, poco dopo la dichiarazione del Protettorato
Britannico, quindi molti dei dati si riferiscono alla situazione di oltre un secolo fa, eppure questo
studio è importante per due motivi.
Primo perché analizza una struttura sociale molto particolare, in cui la discendenza è sia patrilineare
che bilaterale (parentela tramite legami sia della madre che del padre). Questo potrebbe sembrare un
tecnicismo, ma è importante dal punto di vista comparativo, in quanto ci sono molte similitudini
con la struttura sociale dei Duna della Nuova Guinea.
Il secondo motivo è che questo studio analizza le pratiche di scambi cerimoniali quali erano a un
tempo precedente al totale controllo coloniale dell’isola, un altro aspetto che si può confrontare con
un’altra popolazione della Nuova Guinea, gli abitanti di Mount Hagen.
L’analisi delle strutture sociali di Choiseul Island proposta da Scheffler va considerata nell’ambito
dei dibattiti teorici degli anni ’60 sull’applicabilità dei “modelli africani” alle società delle
Highlands della Nuova Guinea. Gli etnografi di queste società melanesiane notavano che esisteva
una considerevole flessibilità nelle scelte individuali in relazione al luogo di residenza e alla scelta
delle persone da cui farsi aiutare nelle proprie attività. John Barnes (1962) per esempio suggeriva
che questa flessibilità nell’affiliazione e il fatto che i processi di segmentazione non avvenissero con
regolarità, ma in maniera denominata “catastrofica”, cioè determinata da conflitti imprevedibili,
fosse un elemento di differenziazione dai modelli di struttura sociale basati sullo studio delle società
africane. In realtà è molto difficile fare dei confronti tra strutture sociali di due entità così varie
come le Highlands da una parte e l’Africa dall’altra. Il punto è che Scheffler trovò le
generalizzazioni di Barnes sulle Highlands utili per pensare alla situazione incontrata su Choiseul.
Su Choiseul, però, anche la flessibilità postulata da Barnes era a sua volta chiaramente strutturata.
I gruppi locali erano costituiti attorno a un nucleo di persone imparentate per via patrilineare o di un
comune antenato di sesso maschile (agnazione), i quali erano riconosciuti come i principali tenutari
di diritti sulla tenuta territoriale. Uno tra i membri di questo gruppo era detto batu, termine che
Scheffler (seguendo Burridge 1961) traduceva come “manager”. Il batu era generalmente il figlio
maggiore del batu precedente, ma l’ottenimento di questa posizione dipendeva anche dall’abilità, e
quindi poteva anche accadere che fosse attribuita ad un altro membro del gruppo. Questo significa
che potevano anche esserci dei conflitti per la successione. Il gruppo costituito attorno al batu era
un sinangge, ed un certo numero di sinangge erano raggruppati in un gruppo più vasto, chiamato
anch’esso sinangge “big sinangge”. Il ruolo del batu era molto significativo, egli era custode della
prosperità del gruppo, in particolar modo di oggetti di valore in conchiglia chiamati kesa. I Kesa
erano dischi ricavati da fossili di conchiglie giganti (Tridacna), servivano per pagare i debiti,
premiare gli alleati, e per le prestazioni effettuate nel corso delle feste chiamate kelo.
Oltre agli agnati (discendenti per via patrilineare da un antenato comune) del batu i gruppi potevano
includere altre persone, soprattutto i figli o discendenti di donne nate nel gruppo, per esempio nel
caso di matrimoni in cui non viene pagato il prezzo della sposa, e quindi la coppia risiede nel
villaggio di origine della donna (residenza uxorilocale). Questo genere di matrimonio, chiamato
tamazira, era spesso organizzato volutamente da un batu per assicurarsi la collaborazione delle
figlie e dei loro mariti per le proprie attività (Scheffler 1965: 47, 196). Più generalmente un
sinangge può accogliere al suo interno chiunque possa dimostrare di avere qualche legame di
112
sangue con i suoi membri. I discendenti cognatici venivano chiamati “nati dalle donne” popodo
nggole, mentre i discendenti per via patrilineare erano chiamati popodo valeke, “nati dagli uomini”.
Una differenza esisteva tra questi sottogruppi, i “nati dalle donne” erano considerati ospiti del
gruppo, e meno “forti” nel rivendicare diritti politici dei popodo valeke. I discendenti delle donne
avevano il diritto di residenza, ma non potevano esercitare la stessa influenza sull’organizzazione
delle attività del gruppo dei membri che potevano dimostrare di appartenere tramite la discendenza
patrilineare. Questa situazione è simile a quella riscontrata da Stewart e Strathern tra i Duna della
Nuova Guinea (2002).
Il secondo motivo di interesse per il lavoro di Scheffler è la sua descrizione delle attività di scambio
imperniate sui kesa. Una particolarità di questi oggetti di valore è che non solo non erano prodotti
regolarmente dagli abitanti di Choiseul, ma non provenivano neppure da rotte commerciali stabilite,
come avviene per altre popolazioni melanesiane, come le Highlands. Gli isolani dissero a Scheffler
che i kesa erano stati fatti e dati agli uomini da Bangara Laena, un dio dell’acqua che risiede nel
mare. Il dio aveva dato questi oggetti perché fossero il marchio degli uomini di prestigio “big
men”. (1965:200). Se gli oggetti sono in numero limitato, e controllati dai batu, è chiaro che
potevano essere usati per controllare politicamente gli altri membri del gruppo, in accordo con il
loro mito di origine.
I kesa erano conservati in serie di nove dischi che formavano un cilindro e si distinguevano in kesa
“da lavoro” e kesa “grandi. Questi ultimi non erano usati negli scambi minori, ma conservati per il
prestigio che attribuivano ai possessori, per sicurezza, e per essere utilizzati per fissare alleanze
importanti. Non erano quindi oggetti “inalienabili” nel senso utilizzato da Annette Weiner per
descrivere una certa categoria di oggetti di valore delle Trobriand ( 1992) o da Godelier (1997), ma
venivano riservati per trattare unicamente le alleanze politiche più importanti, come nel caso di
alcuni oggetti di madreperla con nomi individuali, usati nelle Highlands della Nuova Guinea.
Ogni cilindro era chiamato mata (“occhio”) e le storie individuali di quelli più grossi erano
conosciute dettagliatamente. Dopo l’introduzione del denaro, furono stabilite delle equivalenze tra il
valore dei kesa e quello monetario.
I kesa potevano essere acquisiti in diverse maniere. Un modo era di allevare maiali e venderli agli
organizzatori delle feste tradizionali, che richiedono molti maiali da donare. Queste vendite
potevano solo avvenire all’esterno del proprio gruppo di appartenenza, in quanto all’interno di un
sinangge i maiali per una festa dovevano essere dati liberamente, e reciprocamente. I kesa si
ottenevano anche come prezzo della sposa, e i batu potevano pretendere questo pagamento per
eventuali donne orfane o di status inferiore adottate in gioventù. Se qualcuno moriva mentre aiutava
un altro, si poteva richiedere un pagamento in kesa. Come tra i Kwaio dell’isola di Malaita (Keesing
1992), anche tra gli abitanti di Choiseul c’era chi si costruiva una reputazione come assassino
prezzolato, ed era ripagato per le proprie commissioni in kesa.
Un altro modo per ottenere gli oggetti di valore era di andare ospite da un partner di scambi e fare
nggare. Il padrone di casa offriva della carne di maiale al vapore all’ospite, il quale chiedeva anche
kesa per accompagnare la carne, e il partner era obbligato a dargliene (Scheffler 1965:204).
Successivamente i ruoli dei due partner si sarebbero rovesciati, permettendo al primo donatore di
pretendere un ritorno di kesa.
In maniera meno coercitiva, i giovani desiderosi di iniziare delle relazioni di scambio con dei
partner, potevano ottenere dai fratelli della madre o dai padri della madre i primi kesa portando loro
del maiale arrostito e del pasticcio di taro. Queste richieste incontravano successo solo se esistevano
delle buone relazioni tra i giovani e i parenti matrilineali a cui si rivolgevano. La nozione di buone
relazioni era allargata anche al mondo degli spiriti: si pensava che alcuni spiriti chiamati sinipa
potessero far amicizia con un essere umano e mostrargli dove poteva trovare dei kesa che erano stati
seppelliti da uomini deceduti prima di rivelare il loro nascondiglio ai discendenti. In alcuni casi i
sinipa erano obbligati a rivelare il nascondiglio dopo che l’uomo gli aveva rubato il coltello usato
per tagliare il taro, in altri casi era lo spirito che voleva “sposare” l’umano. Dopo aver passato
qualche tempo nella foresta con il sinipa, l’umano faceva ritorno con i kesa ottenuti. (Anche questa
113
concezione di ottenere ricchezza o buona fortuna da un matrimonio con uno spirito è comune sia in
Nuova Guinea che in Indonesia).
Gli isolani degli anni ’60 attribuivano ancora molto valore ai kesa e descrivevano chi non ne aveva
come “nessuno”. I manager dei gruppi erano responsabili per l’organizzazione di festival kelo in cui
si potessero scambiare gli oggetti di valore. Due batu di gruppi diversi potevano competere come
organizzatori di una serie crescente di kelo reciproci. In alternativa un batu, in qualità di leader del
suo gruppo poteva dare kesa ad un altro gruppo i cui uomini avessero accettato di aiutarli in un raid
contro un villaggio nemico. Alleati in questa maniera erano anche chiamati ad aiutare in caso di
morte: costruivano con lastre di pietra la sepoltura per le ceneri del deceduto, ed erano ripagati dai
parenti più prossimi con almeno tre kesa. Se ne ricevevano molti di più si sentivano in obbligo di
reciprocare, ed organizzavano a loro volta una kelo per non perdere prestigio. Se restituivano più
kesa di quelli ricevuti obbligavano i parenti del morto ad organizzare una festa ulteriore, per
restituire i kesa ricevuti, magari qualcuno in più… In qualunque momento in questo ciclo di
prestazioni un gruppo poteva segnalare la sua intenzione di ritirarsi dalla competizione facendo solo
un piccolo dono di restituzione. Ogni sequenza di scambi richiedeva un’organizzazione notevole,
soprattutto nel piantare piantagioni di taro sufficienti per le feste che accompagnavano ogni
scambio di doni. I debiti in questo sistema potevano essere ereditati da padre in figlio, anche se un
figlio poteva negare di essere a conoscenza del debito del padre, o sostenere che i debiti erano stati
ripagati. Le strategie legate alle attività del kelo erano complesse e richiedevano manovre politiche
continue da parte dei “managers” per assicurarsi il supporto dei sostenitori ed il successo nella
competizione.
Oltre a custodire i kesa, dunque, era la capacità di organizzare i loro scambi nell’ambito di festival
kelo, ad essere il vero marchio di un batu. L’abilità di iniziare tutte quelle transazioni che sarebbero
sfociate nello scambio di oggetti di valore era la qualità necessaria a diventare manager, e il
partecipare a questi scambi cerimoniali faceva accrescere il prestigio e lo status sia del manager che
del suo sinangge.
I paralleli tra questo sistema di scambi cerimoniali e quello più conosciuto del Moka di Mount
Hagen in Nuova Guinea sono numerosi, e Strathern suggerisce che sarebbe opportuno considerare
uno studio comparativo di tutti i sistemi politici basati sul prestigio costruito tramite
l’organizzazione di scambi agonistici, minando la supposta divisione tra le popolazioni austonesiane
e non-austronesiane della Melanesia.
I “piccoli grandi uomini” Kwaio
Una delle caratteristiche che si sono venute ad associare con la struttura politica dei popoli
melanesiani è la figura dei “big men”, in opposizione ai capi delle società polinesiane. Questa è una
generalizzazione che si è verificata a partire dalla descrizione etnografica di società delle Highlands
della Nuova Guinea, (Strarthern 1971) in cui la densità della popolazione, il surplus di tuberi
prodotti, e la conseguente abbondanza di maiali, permette agli uomini più carismatici e
intraprendenti di vincere il supporto di altri uomini e donne attraverso la prominenza
nell’organizzazione di feste e nel controllo di sistemi di scambi cerimoniali a livello regionale,
come la moka di Mount Hagen e il tee degli Enga. Caratteristiche simili nello stile di leadership
sono poi state riscontrate in altre società melanesiane, da cui la generalizzazione, ma per motivi
ambientali le società costiere o isolane della Melanesia non permettono ai loro big men di
sviluppare lo stesso grado di “grandezza”, di crearsi una posizione di prestigio che spazi su un
territorio così vasto, influisca su una rete così larga di relazioni o di essere così fermamente radicati
nelle strutture politiche locali. Roger Keesing (1978) descrive un big man dei Kwaio nelle
Salomone, come esempio minore della figura del big man che si è andata configurando nella
letteratura antropologica sulla Melanesia negli anni ’80.
La società Kwaio è frammentata, composta da decine di gruppi locali basati sulla discendenza. Ogni
gruppo possiede un territorio e non esiste una organizzazione che unisca questi gruppi ad un livello
politico più inclusivo, o una carica politica ufficiale. L’influenza, l’autorità, e la leadership negli
114
affari secolari del gruppo derivano dall’abilità di mobilitare e manipolare le risorse. All’interno del
gruppo, colui che ha più successo nell’utilizzare le risorse visibili, come dischi di conchiglia infilati
e maiali, per accrescere il proprio “capitale” di prestigio è riconosciuto come il big man. Perché un
gruppo acquisisca rinomanza e rispetto deve organizzare dei festeggiamenti mortuari in onore dei
propri morti importanti. Se muore un uomo appartenente ad un gruppo, un suo parente appartenente
ad un altro gruppo può essere uno dei molti emissari a cui è permesso di seppellirlo. Il big man del
gruppo del morto coordinerà uno sforzo collettivo per mobilitare le risorse del suo gruppo. Coloro
che trasportano la salma, tra cui il parente appartenente ad un altro gruppo, sono ricompensati con
grandi quantità di oggetti di valore. Questi doni però saranno reciprocati dai membri del secondo
gruppo quando ci sarà una morte nel primo gruppo.
Quello che può sembrare un atto dovuto verso i parenti in lutto, si rivela essere un duello tra i big
men dei due gruppi per il prestigio del proprio gruppo. Per divenire il big man del gruppo, un uomo
dev’essere abile nel gestire le risorse. Perché possa ottenere successo un big man dev’essere un
fratello maggiore, e deve avere un numero consistente di parenti vicini e di persone con la sua stessa
discendenza, da poter mobilitare. La sua strategia è di obbligare gli altri a lui contribuendo alle loro
festività, finanziando i matrimoni, e attraverso altri investimenti delle sue risorse.
Un big man non ha autorità o poteri formali, non ha una posizione definita; è semplicemente uno
che comanda perché gli altri lo seguono, uno che decide perché gli altri si rimettono alle sue
decisioni. Un big man prende la guida nell’accampare diritti o pretese a verso altri gruppi, e nelle
contese. I Kwaio dicono che un big man è colui che mantiene la stabilità interna del gruppo e ne
determina la direzione, come il timoniere di una canoa. Il figlio maggiore di un big man avrà
sempre un leggero vantaggio nella competizione per il prestigio ed il potere, ma la successione non
è ereditaria, anche perché quella del big man non è una carica. La “grandezza” è una questione di
gradi in una società dove ogni uomo organizza delle feste e partecipa agli investimenti del gruppo
per il prestigio; esistono molti gruppi in cui il big man non c’è.
In contesti in cui la produzione economica è intensificata, la densità della popolazione è maggiore e
quindi il controllo del big man sui maiali e sugli oggetti di valore aumentano la loro base di potere,
come nel caso delle Highlands, questi leader non solo dispongono di più potere ed influenza, ma
possono cominciare a comportarsi come elite e ad essere in grado di trasmettere il proprio potere e
la propria influenza ai figli. Nell’allargarsi del golfo tra uomini comuni e big men si può intravedere
lo sviluppo di un principio di classe sociale. Un passaggio successivo sarebbe quello in cui i big
men diventano più simili ai capi, controllano le risorse usate negli scambi con altri gruppi ed i
prodotti del lavoro delle mogli e dei seguaci, cominciano a circondarsi con i simboli di uno status
elevato, e a legittimare la propria posizione attraverso la mitologia ed i rituali, come nel sistema
politico delle Trobriand, che rappresenta una parziale trasformazione del sistema dei big men.
Struttura sociale e religione tradizionali dei Kwaio
Roger Keesing è stato uno degli antropologi più prominenti in Melanesia, unendo una profonda
conoscenza dei Kwaio di Malaita tra i quali è tornato ripetutamente a fare ricerca, con un intenso
interesse per le tematiche teoriche legate alla contrapposizione tra tradizione da una parte e
trasformazione storica dall’altra, e per gli aspetti politici della cultura, sia internamente alla società
che ai livelli nazionale e globale. Una particolarità dei Kwaio rispetto alle situazioni più miste che
sono comuni altrove in Melanesia, è che per motivi legati alla storia della colonizzazione di
Malaita, si sono differenziati i gruppi di Kwaio cristianizzati, che si sono stabiliti perlopiù in
villaggi sviluppati attorno alle missioni sulla costa, e gruppi di Kwaio tradizionalisti, che hanno
rifiutato e si sono attivamente opposti all’ingerenza dei missionari e sono rimasti a vivere in piccoli
villaggi dell’interno dell’isola.
Questo non significa che la cultura dei Kwaio tradizionalisti non sia stata influenzata dal contatto
con la religione e le strutture politiche coloniali, anzi il fatto stesso di dover operare una scelta, e di
definire la propria identità tradizionale in opposizione a quella di chi si è lasciato convertire
115
comporta una presa di coscienza della propria cosmologia e dell’esistenza di alternative, da un lato,
e l’evolvere di una ideologia della tradizione come atto identitario e di resistenza politica.
Keesing descrive il sistema religioso e la struttura sociale dei Kwaio tradizionalisti facendo
risaltare le relazioni sistematiche tra le due sfere culturali. Come abbiamo visto in precedenza i
Kwaio sono organizzati in piccoli gruppi composti dai discendenti agnatici e cognatici degli
antenati fondatori del territorio su cui vivono.
La cosmologia Kwaio colloca il mondo degli uomini in una posizione intermedia tra il reame del
sacro, dominato dagli antenati e da cui le donne sono escluse, e la sua immagine speculare, un
mondo in cui sono i poteri delle donne, pericolosi per gli uomini, a dominare.
I legami tra gli uomini ed i loro antenati sono molteplici, per gli osservatori occidentali è difficile
comprendere le realtà soggettive del vivere in un mondo dominato dagli antenati. Per chi lo fa gli
antenati non sono una parte separata della realtà quotidiana, ma attori sociali, anche se invisibili,
nella vita della comunità. In questo senso sarebbe più coerente considerare i lignaggi come
composti da membri sia vivi che morti. I Kwaio credono che il loro mondo sia dominato dagli
spiriti ancestrali, adalo, i quali sono invisibili e diffusi “come il vento”, e comunicano coi vivi. Le
ombre dei vivi e gli spiriti comunicano in sogno; gli spiriti degli antenati comunicano il proprio
dispiacere causando malattie o disgrazie; e gli officianti religiosi parlano con essi per conto del loro
gruppo di discendenza.
I luoghi attorno ai quali avviene questa comunicazione tra i vivi e i morti sono le case degli uomini
e santuari, cioè dei boschetti in cui sono custodite delle pietre sacrificali, sono particolarmente sacri.
Qui i ragazzi e gli uomini del gruppo, oltre ad altri discendenti dei fondatori si riuniscono per
consumare la comunione sacrificale.
Ogni adulto, uomo o donna, dopo il decesso, è tramutato in antenato, come spirito. Gli adalo si
distinguono in “minori” e “importanti”. Gli adalo minori sono gli spiriti di coloro che uno ha
conosciuto in vita - parenti vicini nella generazione dei genitori e dei nonni; le loro attività incidono
solo sulla vita dei parenti in vita più vicini. Antenati importanti sono coloro che sono cresciuti in
importanza attraverso le generazioni, la maggior parte risultano essere della sesta o settima
generazione precedente a quella del loro discendente più anziano ancora in vita. Certe volte gli
adalo minori fanno da tramiti tra gli umani viventi e gli spiriti più importanti. Come tra i vivi ci
sono adalo più o meno prestigiosi, più o meno “grandi”. In pratica esiste una categoria di adalo
dalle generazioni precedenti che non sono considerati particolarmente potenti o pericolosi, e ai quali
non sono offerti sacrifici specifici, che esistono in una sorta di limbo. Questa organizzazione tra gli
adalo è parallela alla struttura sociale dei vivi. Ogni gruppo di discendenti ha generalmente due o
tre antenati potenti ai quali il sacerdote sacrifica dei maiali, normalmente uno di questi antenati è
considerato avere poteri maggiori degli altri del suo gruppo, corrisponde quindi alla figura del big
man. Quando un maiale è sacrificato in onore di un antenato principale, si considera che la sua
carne sia distribuita da questo a tutti gli antenati del gruppo. Anche se è possibile pensare al gruppo
di discendenza degli antenati come a una proiezione nel supernaturale della struttura sociale, è
culturalmente più sensato considerare il gruppo di discendenza come un’unica corporazione
perpetua, che include sia i vivi che i loro antenati, Così come i vivi sono frammentati in numerosi
gruppi di discendenza basati in località specifiche, anche i culti ancestrali sono circoscritti e basati
in località limitate. Gli spiriti ancestrali si preoccupano solo dei propri discendenti e i viventi si
occupano solo dei propri antenati. La preoccupazione degli antenati per gli affari dei propri
discendenti ha due facce: essi sostengono e proteggono i vivi quando vedono che vi sono maiali
sacrificati per loro, quando le procedure rituali sono seguite scrupolosamente, e quando i viventi
seguono le rigide regole necessarie per contenere entro i propri limiti i poteri potenzialmente
contaminanti delle donne.
Le relazioni tra i vivi ed i morti riflettono ed esprimono le strutture della parentela Kwaio. Individui
appartengono a numerose categorie di discendenza cognatica, definite dalla comune discendenza da
un antenato fondatore. Sono questi antenati più antichi a conferire i poteri per lottare, rubare,
coltivare, organizzare feste cerimoniali, e riuscire in tutte le attività terrene. Quando i membri
116
maschi di un gruppo di discendenza partecipano insieme ad un sacrificio per la purificazione,
possono partecipare anche i discendenti cognatici che sono principalmente affiliati ad altri gruppi.
Le donne sono sempre escluse da tutte queste attività rituali che mettono in comunicazione il
mondo dei vivi con quello degli antenati. Il motivo per questa esclusione è che il corpo femminile è
potenzialmente contaminante. L’atto di urinare o defecare in una donna sono contaminanti, le
mestruazioni lo sono ancora di più, e la cosa più contaminante di tutte è il parto. La causa più
comunemente attribuita in questa cultura per malattia, morte, o disgrazie, è una violazione da parte
di una donna dei rigidi tabù imposti per prevenire la contaminazione.
Le maggiori preoccupazioni rituali dei Kwaio servono a mantenere i reami sacri e contaminanti ben
demarcati e separati da quello ordinario in cui si coltiva l’orto, si mangia, si parla e si dorme. La
separazione di queste categorie è centrale nelle attività rituali dei Kwaio, per cui uomini e donne
devono usare stoviglie separate per mangiare e bere, eccetera. Il modello simbolico che si può
rappresentare con una serie di opposizioni binarie in cui gli elementi si specchiano reciprocamente:
DONNA:UOMO
CONTAMINATO:SACRO
SOTTO: SOPRA
Lo stesso modello simbolico è riprodotto nella divisione dello spazio di un villaggio Kwaio.
Al margine superiore della radura c’è la casa degli uomini, considerata sacra e quindi vietata alle
donne, in cui gli uomini dormono e mangiano. Al margine inferiore c’è la casa mestruale,
contaminata, e vietata agli uomini. Nel centro della radura, la parte più neutrale, ci sono delle
abitazioni domestiche, ma anche all’interno di queste si riproduce la divisione degli spazi; la parte
della casa più a monte (dal focolare) è riservata agli uomini, la parte a valle può essere condivisa da
uomini e donne. Una linea invisibile divide la radura del villaggio, la parte più a monte è
prevalentemente occupata dagli uomini, anche se pragmaticamente , gli uomini permettono alle
donne di arrivare fino ai margini della casa degli uomini per pulire la radura e portate legna. Gli
uomini si possono muovere liberamente tra le abitazioni domestiche e la casa degli uomini; le
donne, di riflesso hanno libertà di movimento in tutto lo spazio tra l’abitazione domestica e la casa
mestruale.
Ma le transizioni da un’area del villaggio ad un'altra avvengono con cautela. Una donna deve
lasciare la pipa e la sua sporta prima di entrare nell’area contaminata della casa mestruale. Se porta
la legna dall’abitazione alla casa mestruale deve accendere un legno intermedio prima di accendere
il fuoco nella casa contaminata. Se un uomo ha partecipato ad un sacrificio ed è quindi in uno stato
sacro, o una donna è contaminata dalle mestruazioni, i riti di desacrazione o di purificazione
necessari per passare da un reame all’altro sono più drastici.
Questo modo di rispecchiare il sacro ed il contaminato è molto chiaro nell’attività maschile più
sacra, il sacrificio di un maiale tramite la cremazione, e quella femminile più contaminante, il parto.
Quando una donna deve partorire si ritira in una capanna nella foresta, a valle della casa mestruale,
dov’è assistita da una ragazzina. Mentre il sacerdote che fa un sacrificio si ritira nella casa degli
uomini vicino al santuario, e si mette a letto, dove è accudito da un ragazzino.
Cristianesimo tra i Kwara’ae
Le Salomone, come il resto del Pacifico, sono state terreno di un’intensa storia missionaria da parte
delle chiese cristiane, fin dall’inizio dell’influenza coloniale. Ben Burt ha studiato questo processo
storico presso i Kwara’ae di Malaita, abitanti di un’area confinante con quella dei Kwaio studiati da
Keesing (1992). Burt ha trovato che, come tra i Kwaio, i Kwara’ae Cristiani vivono in villaggi
separati dai Tradizionalisti. Per Burt questo fenomeno si spiega con il carattere particolarmente
fondamentalista della missione (South Sea Evangelical Mission) che opera in questa zona; egli
117
osserva anche che gli stessi valori della religione tradizionale Kwara’ae si riflettono anche
nell’opposizione alla tradizione così come formulata dai convertiti (Burt 1994:14).
I Kwara’ae vivono nell’interno di Malaita, e sono divisi in clan con lunghe genealogie, si
conoscono tutti gli antenati fino a dieci o venti generazioni addietro, principalmente nella linea
maschile. I legami con gli antenati servono a convalidare le pretese di diritti sulla terra.
Un sistema elaborato di tabù serve a tutelare certi valori e alcune relazioni particolari. Esistono
regole di separazione tra uomini e donne. I Kwara’ae cristianizzati descrivono le loro usanze
tradizionali come i Dieci Comandamenti del Vecchio Testamento. Secondo Burt il sistema di divieti
tradizionali serviva anche a proteggere il ruolo dominante degli uomini, cioè sia la loro superiorità
in ambito rituale che la loro autorità politica nella società tradizionale. Gli uomini prominenti nella
società, cioè che aiutano e supportano gli altri soprattutto attraverso la sponsorizzazione di feste, si
guadagnano una posizione di importanza nella comunità. Shell money cioè dischetti di conchiglia
infilati su uno spago sono utilizzati sia come prezzo per la sposa che per compensare i famigliari di
persone uccise, pena la vendetta.
Le pratiche religiose indigene erano soprattutto incentrate sul mantenimento di buone relazioni con
gli spiriti per evitare le disgrazie ed assicurarsi il successo. Gli spiriti possono assicurarlo se gli
umani gli sono “fedeli” e gli offrono sacrifici. Nonostante la differenza di status e la separazione
vigente tra uomini e donne, gli spiriti sia maschili che femminili sono importanti, gli spiriti delle
donne hanno poteri legati alla promozione della crescita degli esseri viventi, oltre al potere di
portare la calma una qualità espressa come “rinfrescare”. Sacerdoti specializzati si prendono cura
dei santuari costruiti per gli spiriti ancestrali e dirigono i preparativi per i festival durante i quali i
maiali vengono sacrificati nei luoghi dove sono custodite le reliquie ancestrali. I sacerdoti possono
utilizzare il potere degli spiriti per uccidere i trasgressori, mentre alcuni individui usano i poteri
della stregoneria per i loro scopi individuali, causando malattie o disgrazie ai propri nemici. Il
timore della stregoneria continua ad esercitare un forte potere sui Kwara’ae nonostante il fatto che
quasi tutti siano convertiti ad una delle fedi cristiane.
Il Cristianesimo Anglicano fu introdotto inizialmente dagli isolani che erano stati reclutati per
lavorare nelle piantagioni del Queensland, Australia e che facevano ritorno nei primi anni del 1900.
Il ritorno di questi isolani convertiti risultò nella separazione tra tradizionalisti e cristiani, entrambi i
gruppi cercavano di difendere la propria purezza dalla contaminazione degli altri (Burt 1994: 121).
Come per i Kwaio questo è un importante motivo storico per il separatismo che perdura ancora tra
le due parti della comunità. Il successo dei Kwara’ae cristiani crebbe con il supporto da parte del
governo coloniale britannico, che proteggeva le comunità costiere di convertiti contro le incursioni
dei Kwara’ae della foresta. Il District Officer Bell, che fu poi ucciso da un capo guerriero Kwara’ae,
contribuì moltissimo alla pacificazione delle zone interne dell’isola dopo il 1915.
I Kwara’ae contemporanei spiegano la conversione che avvenne intorno a quel periodo dicendo che
i sacrifici tradizionali comportavano troppi sforzi e comunque gli spiriti non potevano veramente
aiutarli o prevenire le malattie e altre disgrazie. Citano l’idea che Gesù era già stato sacrificato, e
quindi non c’era più bisogno di sacrificare i maiali. Leggendo tra le righe si può notare l’effetto del
controllo coloniale, attraverso il quale gli indigeni si confrontavano con poteri che non si curavano
dei loro spiriti ancestrali e apparentemente potevano agire impunemente col supporto del Dio
cristiano. Un ruolo importante in questo processo di conversione lo ebbero sicuramente la
soppressione delle faide da un lato, e la diffusione di epidemie dall’altro.
I missionari della South Seas Evangelical Mission (SSEM) in questa situazione storica
cominciarono ad offrire assistenza medica e a promettere “una nuova vita” , offerta che venne
interpretata dai Kwara’ae come protezione contro le disgrazie. L’acqua di cocco sacrificale era
utilizzata per “lavare” i convertiti ed iniziarli alla “nuova vita”. Si pensava che quest’azione avesse
un effetto rinfrescante, calmante, come quello degli spiriti femminili della religione tradizionale.
Secondo Burt questo collegamento fu facilitato dal ruolo importante delle donne nella missione in
questione. Ad ogni modo assistiamo ad un capovolgimento delle pratiche legate ai tabù originali. Il
Cristianesimo infranse i vecchi tabù sugli uomini, ma contemporaneamente introdusse nuove
118
regole “femminili” che, però, traevano anch’esse significato localmente dalla religione indigena. La
SSEM propagava i suoi insegnamenti ed i nuovi rituali attraverso l’istituzione di “scuole” nei
villaggi che producevano convertiti.
Gli evangelisti cristiani cominciarono anche a proibire i festival tradizionali, legati ai sacrifici dei
maiali, e permettevano soltanto la partecipazione a festività organizzate dalla chiesa. Insegnanti
religiosi locali presero il posto dei missionari espatriati, e divennero un nuovo tipo di leader locale
(come i pastori nelle Highlands della Nuova Guinea e in gran parte della Polinesia). Questi leader
erano anche disposti a resistere l’amministrazione coloniale secolare, e contribuirono alla diffusione
del movimento Maasina Rule nato dopo gli sconvolgimenti portati dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il contatto con le truppe americane e con la loro apparente generosità causò un senso di
insoddisfazione della gente con gli inglesi che li amministravano. La resistenza al controllo
coloniale inglese si diffuse tramite le reti dell’SSEM, che contribuì all’allestimenti di nuove “città”
in cui gli isolani potevano organizzarsi in attesa di ulteriori cambiamenti. Contemporaneamente il
movimento ingiungeva ai seguaci un ritorno al kastom tradizionale, come modello di vita sociale
comunitaria, che divenne un simbolo dell’autonomia di Malaita. La SSEM appoggiò la spinta
autonomista dei Malaitani che, eventualmente, presero controllo della propria chiesa. Da allora,
come tra i Kwaio, i Kwara’ae si sono imbarcati in un progetto di codificare il kastom tradizionale
per verificare fino a che punto fosse compatibile col cristianesimo, e per produrre le genealogie
ufficiali dei clan. Questi processi di codificazione scritta di saperi trasmessi oralmente suscitano
intensi dibattiti e sono al centro di movimentate azioni politiche. Si può vedere in questi sviluppi
storici la genesi di una mentalità di “gruppo etnico”, forgiato come spesso accade, nel contesto di
politiche a livello nazionale. La categoria di “capi tribali” fu creata in questo contesto nel 1975.
Questi capi attivisti svilupparono un modello di organizzazione politica tradizionale basata sul
sistema politico e rituale pre-cristiano, ma adattato per assolvere a funzioni di gruppo di pressione
nel contesto del sistema politico statale che si sta sviluppando (Burt 1994:215). E’ interessante
notare che l’influenza allargata dei capi nella situazione post-coloniale è, come nelle Figi,
un’innovazione basata sulle strutture organizzative coloniali. Le chiese acconsentirono a questo
nuovo ordine offrendo benedizioni per i capi a festival tenuti per discutere la “tradizione”. Alcuni
antropologi hanno coniato il termine neo-tradizionale per questo tipo di organizzazione. I gruppi
locali contemporanei, strutturati dall’appartenenza ad una chiesa della SSEC (South Seas
Evangelical Church, come si chiama ora) sono basati sull’appartenenza ai villaggi, non più su quella
basata sulla comune discendenza dei clan. Ma gli stessi villaggi sono il risultato
dell’amalgamazione tra diversi clan scaturita dalle attività dei missionari e del movimento Maasina
Rule.
Le strutture dell’SSEC come organizzazione spirituale hanno largamente rimpiazzato gli spiriti
ancestrali e i loro santuari. I pastori hanno rimpiazzato i sacerdoti tradizionali e, come questi ultimi
erano i tenutari della conoscenza del kastom, ora custodiscono la conoscenza rituale legata alla
Bibbia. L’SSEC incoraggia anche sogni, visioni e possessioni spirituali (Burt 1994: 240), lo Spirito
Santo è considerato ispiratore di cambiamenti nei posseduti, secondo Burt questo aspetto di vitalità
della chiesa è un’elemento di indigenizzazione. Quindi alcuni aspetti della religione tradizionale
sono stati incorporati nella versione Kwara’ae di cristianesimo: in particolare le regole associate ai
tabù e la pratica di creare una relazione spirituale con Gesù Cristo, come nella religione tradizionale
si sacrificavano i maiali per forgiare relazioni personali con gli spiriti.
119
NUOVA CALEDONIA
La Nuova Caledonia si trova ad est dell’Australia, e consiste di una grossa isola principale, La
Grande Terre, di 400 chilometri di lunghezza, dell’arcipelago delle isole della Lealtà ad est, e di
numerosi piccoli isolotti e atolli scarsamente popolati. A metà del diciannovesimo secolo vi si erano
insediati coloni sia francesi che inglesi, ma divenne un possedimento francese nel 1853. La Nuova
Caledonia è tuttora un Territorio d’Oltremare della Francia.
Geografia
La Grande Terre è un’isola lunga e stretta, divisa da una catena di montagne centrale. La cima delle
montagne è coperta da una fitta e umida foresta tropicale, la costa est è fertile e relativamente meno
sfruttata di quella occidentale che, essendo protetta dalla pioggia, è più secca, oltre ad esser stata più
danneggiata dalle miniere e dagli allevamenti di bestiame. Le isole sono al limite dei tropici, ci
sono poche variazioni climatiche, con un leggero aumento dell’umidità da novembre ad aprile, e
temperature moderate tutto l’anno. La stagione dei cicloni è da dicembre a marzo.
La grande ricchezza della Nuova Caledonia sta nel sottosuolo, possiede circa il 25 % delle risorse
mondiali di nichel. In contrasto solo una piccola porzione del territorio è adatto a coltivazioni
agricole commerciali, di conseguenza, il 20% dell’importazione è di cibo; considerando questo dato
è importante notare l’alta percentuale di abitanti di origine europea, per i quali l’importazione di
cibi esteri è sicuramente più importante che per le popolazioni indigene. L’economia locale è anche
sostenuta dal turismo, dalla pesca e dal supporto finanziario della Francia (40%).
Popolazione
La popolazione stimata per la Nuova Caledonia nel 2003 era di 210,798 abitanti, di cui solo 42%
melanesiani, il 37,1% europei, l’8,4% dell’isola di Wallis, il 3,8% polinesiani, e il 5% asiatici. Le
religioni dichiarate sono il cattolicesimo (60%) ed il protestantesimo (30%). La lingua ufficiale è il
francese. Esistono oltre trenta lingue indigene, ma a differenza di altre nazioni del Pacifico
Occidentale, non si è sviluppata nessuna lingua franca indigena. Il territorio della Nuova Caledonia
è diviso in tre province amministrative: La Grande Terre è divisa in Nord e Sud, la terza provincia è
costituita dalle Iles Loyaute.
Storia
Come gli altri arcipelaghi del Pacifico la Nuova Caledonia è stata colonizzata dai navigatori
Austronesiani. Questi antichi abitanti hanno dato origine, nel corso del tempo, a trentasette gruppi
linguistici distinti. Costruirono delle fortificazioni in pietra nelle aree dove la competizione per la
terra coltivabile era probabilmente più acuta: gli altipiani asciutti e calcarei, sull’isola principale
svilupparono delle terrazze irrigate per la coltivazione del taro, e la coltivazione degli ignami in
cumuli di terra. Le tracce lasciate da queste coltivazioni fanno supporre che in tempi preistorici ci
sia stata una forte crescita demografica, accompagnata dallo sviluppo di strutture socio-politiche
legate alla figura dei capi, seguita da un collasso demografico nei primi anni di contatto con gli
europei, dovuto all’introduzione di nuove malattie infettive e dal caos portato dai coloni
all’organizzazione agricola indigena (Kirch 2000: 155).
L’esploratore inglese James Cook avvistò la Grande Terre nel 1774, durante la sua seconda
spedizione in cerca della Terra Australis, e la battezzò ”New Caledonia” perché gli ricordava la
regione dei monti scozzesi che i Romani avevano chiamato Caledonia (ironia dei nomi coloniali!).
Nel 1788 Luigi XVI mandò il Compte de la Pérouse a cercare le isole, ma la spedizione finì con un
ciclone alle Vanuatu. Tre anni più tardi l’Ammiraglio Bruny D’Entrecasteaux fu incaricato di
cercarle. Con alcuni uomini l’ammiraglio impiegò un mese per attraversare La Grande Terre a
piedi. Seguirono balenieri inglesi ed americani, che nel 1840 costruirono una stazione per
120
l’estrazione dell’olio sull’isola di Lifou, nelle Isole della Lealtà. Arrivarono anche mercanti di
sandalo e di cetrioli di mare. Dagli ultimi anni del secolo cominciarono a passare per le isole della
Nuova Caledonia anche i “Blackbirders”, cioè i reclutatori di lavoratori per le piantagioni delle Fiji
e del Queensland in Australia. Tutti questi personaggi portarono nuove malattie infettive e veneree,
introdussero le armi da fuoco e precipitarono numerosi combattimenti feroci. Anche i missionari
cristiani contribuirono alla violenza di quegli anni: i protestanti inglesi della London Missionary
Society ed i cattolici francesi si contendevano i convertiti e causarono delle guerre tra gruppi
indigeni rivali. Inoltre i missionari pensavano di aver acquistato la terra delle missioni dagli abitanti
originali i quali, invece, pensavano di aver solamente concesso ai nuovi arrivati il permesso di
risiedervi temporaneamente. Questo genere di malintesi risultò in ulteriori conflitti. I militari
francesi furono mandati a calmare la situazione e per proteggere i missionari. Napoleone III
dichiarò l’annessione della Grande Terre alla Francia nel 1853, anche per prevenire una simile
azione da parte dell’Inghilterra.
Mentre la popolazione indigena era messa a dura prova dalle malattie introdotte dagli europei e
dalle incursioni dei “blackbirders”, la popolazione francese sulla Grande Terre aumentò
notevolmente dal 1864, con l’arrivo dei deportati francesi, sia criminali comuni che detenuti
politici, destinati alla colonia penale sulla Grande Terre. I deportati erano utilizzati per costruire
chiese e strade e, una volta scontata la pena, erano incoraggiati a rimanere nella colonia. L’apertura
della prima miniera di nichel nel 1864 determinò l’arrivo sulla Grande Terre di lavoratori asiatici.
Altri coloni, liberi, arrivavano dalla Francia e cominciarono a occupare la terra per allevare bovini,
distruggendo i terrazzamenti per la coltivazione del taro. Le tensioni causate da questa massiccia
occupazione sfociarono nel 1878 in una rivolta degli indigeni che durò sette mesi e portò la morte di
200 francesi e 1200 melanesiani. La rivolta fu repressa duramente dai francesi che utilizzarono a
loro vantaggio le rivalità tra i diversi gruppi locali, alcuni dei quali a loro volta si allearono agli
europei per ottenere vantaggi militari e protezione dalle incursioni di nemici melanesiani. Il risultato
fu che gli indigeni furono esclusi dallo statuto legale francese, e segregati in riserve che
comprendevano solo l’11% del territorio.
La dura politica coloniale dei francesi ebbe gravi conseguenze, non solo a livello sociale e culturale,
ma anche per la sopravvivenza stessa dei melanesiani in Nuova Caledonia. Si stima che fossero più
di 100,000 prima che arrivassero i coloni, mentre nel 1927 erano soltanto 26,000.
Numerosi indigeni furono reclutati dall’esercito francese in occasione delle due guerre mondiali.
Durante la seconda guerra mondiale fu costruita una base americana sulla Grande Terre, che ospitò
40,000 soldati americani. Come in altre basi americane del Pacifico, questa fu la prima volta in cui i
lavoratori indigeni furono retribuiti con un vero stipendio, e in cui videro che tra bianchi e neri
americani vigevano dei rapporti relativamente paritari.
La lotta per l’indipendenza
I francesi adottarono il termine Canaques per gli abitanti indigeni della Nuova Caledonia, le
sfumature denigratorie associate al termine sono evidenti, tanto che in Papua Nuova Guinea la
parola kanaka in Tok Pisin è diventata un insulto usato per descrivere chi si comporta da
“primitivo”. Invece in Nuova Caledonia il movimento indipendentista moderno si è appropriato di
questo termine e usando un’ortografia melanesiana, lo ha fatto proprio, sottolineando il fatto che
l’identità culturale indigena è basata proprio sulla comune esperienza del regime coloniale.
I Kanak della Nuova Caledonia combattono una lotta doppia, da una parte la lotta per il
riconoscimento dei diritti alle popolazioni autoctone, e dall’altro la lotta per il diritto
all’autodeterminazione delle popolazioni colonizzate (Lekanak, 2001). © 2001 - PALIKA Dopo la guerra i Kanak cominciarono ad avanzare richieste sia politiche che sociali. Chef
Naisseline di Maré, preparò una dichiarazione dei diritti dei nativi, in cui argomentava che siccome
i Kanak avevano combattuto ed erano morti sotto la bandiera francese in entrambi i conflitti
mondiali, dovevano essergli attribuiti gli stessi diritti dei cittadini francesi.
121
Nel 1946 lo status della Nuova Caledonia fu cambiato da colonia a Territorio d’Oltremare, la
segregazione tra bianchi e Kanak fu abolita, e agli indigeni fu accordata la cittadinanza francese.
Nel 1953 fondarono il primo partito politico, l’Union Calédonienne, e nel 1957 ottennero il diritto
di voto.
Il boom del nichel degli anni 1960 risultò in una rapida crescita di Noumea, la capitale. Da un lato
la promessa prosperità stimolò il desiderio di una maggiore indipendenza da un’amministrazione
lontana da parte dei Caldoches (gli abitanti urbanizzati di origine francese), dall’altro aumentarono
le richieste di diritti sulla terra da parte dei Kanak. In quello stesso periodo fecero ritorno in Nuova
Caledonia i primi studenti che erano andati all’università in Francia, dove avevano assistito alle
proteste studentesche del 1968. La coscienza politica e la spinta indipendentista crescevano,
stimolate anche dalla conquista dell’indipendenza di altre nazioni oceaniche negli anni 1970.
L’indipendenza e la restituzione della terra ai Kanak erano due dei principali temi della campagna
elettorale del 1977, ma nel frattempo i Kanak erano diventati una minoranza nel loro paese (tuttora
il governo di Parigi incoraggia, con premi economici e sgravi fiscali, il trasferimento di funzionari
statali, insegnanti, francesi nel territorio d’oltremare).
Nel 1984 iniziarono due anni di caos generalizzato, conosciuti come “Les Evènements”, gli eventi.
Disillusi con il governo socialista francese, che fece vuote promesse di riforma, alcuni partiti
indipendentisti formarono il FLNKS (Front de Libération National Kanak et Socialiste), con JeanMarie Tjibau come leader. Il fronte di liberazione boicottò le elezioni territoriali del 1984, e
cominciarono delle violente lotte di fazione tra i Caldoches ed i Kanak. Dopo l’uccisione di uno dei
più radicali esponenti dell’FLNKS da parte di un gruppo paramilitare, i disordini si diffusero in
tutta la Nuova Caledonia. Il governo mandò i paracadutisti e dichiarò lo stato di emergenza per sei
mesi.
Seguirono ulteriori boicottaggi elettorali, uccisioni, e attentati dinamitardi nel centro di Noumea.
Nel 1986 le Nazioni Unite iscrissero la Nuova Caledonia sulla lista dei paesi da decolonizzare, un
riconoscimento importante per il movimento per l’indipendenza. Il governo francese interpretò
questo atto formale come un’ ingerenza nei suoi affari interni e reagì con l’espulsione del Console
Generale dell’Australia a Noumea, incolpato di aver avuto un ruolo di rilievo nel processo di
riconoscimento diplomatico.
Nel 1988 fu firmato l’accordo di Matignon in cui si gettarono le basi per il riconoscimento dei
diritti delle popolazioni autoctone a livello culturale, dell’insegnamento (per esempio delle lingue
Kanak), della proprietà della terra, e della rappresentazione istituzionale, tramite l’istituzione del
conseil consultatif coutumier. Tjibau fu assassinato nel 1989 dai membri di una fazione kanak che
pensavano che l’FLNKS li avesse svenduti nel fare degli accordi di pace col governo. Durante gli
anni ’90 si è visto una diminuzione nella violenza, e una ricerca di consenso verso l’indipendenza
negoziata. Nel 1998 c’è stato un referendum sull’indipendenza che non è passato. Lo stato, l’RPCR
(partito di maggioranza, rappresentante della destra coloniale) e l’FLNKS negoziarono e firmarono
l’Accordo di Nouméa, in cui si decise un processo progressivo ed irreversibile per portare la Nuova
Caledonia alla piena sovranità nel giro di 15-20 anni, non prima del 2013; un altro referendum è
programmato per il 2014. Come parte di questo processo gli esponenti indigeni auspicano la
costruzione di una cittadinanza basata sull’identità kanak. (Per approfondimenti visitare il sito del
giornale del movimento kanak: http://www.kanaky.org/lekanak/index.html.)
Alcuni critici vedono in questo trattato un’ulteriore tentativo da parte della Francia di procrastinare
la rinuncia alle entrate del turismo e del nichel, evidentemente la forte presenza dei Caldoches è un
fattore che rende più difficile e lenta la transizione all’indipendenza, rispetto ad altri paesi del
Pacifico.
In parte per compensare implicitamente la Nuova Caledonia per la storia coloniale turbolenta, il
governo Francese ha finanziato la costruzione di un centro culturale a dieci chilometri da Nouméa,
che è stato chiamato col nome di Jean-Marie Tjibau. Progettato dall’architetto italiano Renzo Piano
per riflettere i legami dei kanak con la terra, il centro integra l’architettura moderna con la cultura
122
indigena, al suo interno sono esposti oggetti e documenti simbolici del retaggio kanak e delle altre
culture dell’Oceania.
Un commentatore storico, Robert Aldricht (1993), ha predetto che nei prossimi anni, oltre alle
problematiche concrete su questioni come la proprietà della terra e la suddivisione dei poteri
economici e politici, i dibattiti sui simboli della sovranità come il nome della nazione e la sua
bandiera, metteranno in evidenza la politica della cultura e della tradizione - un processo comune a
molte nazioni post-coloniali del pacifico che devono affermare le proprie radici locali e tradizionali
nel crearsi una identità nazionale che da un lato sia comune a tutti i disparati gruppi che sono stati
portati dalle casualità della storia coloniale a condividere la stessa nazione, che abbia elementi di
unicità nella regione, ma che permetta anche loro di essere in relazione alla realtà globale
contemporanea e del futuro.
Etnografia
Le culture indigene della Nuova Caledonia si sono sviluppate contestualmente a strutture politiche
basate su un capo (la chefferie) e sulle relazioni segmentarie tra gruppi (I gruppi di discendenza
sono definiti in base all’identificazione con capostipiti via via più lontani nel tempo, pertanto la
struttura della società è idealmente concepita in forma ramificata: segmenti distinti a livello
inferiore vengono raggruppati in unità più ampie ad un livello superiore). Nella reale
organizzazione sociale queste strutture fondamentali che esistevano a livello ideologico, erano
modificate sia dalle reti di connessioni interpersonali che dalle funzioni integrative associate ad una
tradizione in cui vari culti sacri si sono susseguiti nel tempo, diffondendosi tra le diverse
popolazioni tramite le strade che attraversavano il territorio. Il centro culturale Tjibau cerca di
riprodurre alcuni di questi principi culturali nella forma delle case cerimoniali, in cui i capi e gli
anziani si riunivano per discutere.
Antropologi come Alan Bensa (1963) e Jean Guiart (1982), e storiche come Bronwen Douglas
(1992) hanno contribuito a ricostruire come un puzzle un’immagine sia delle organizzazioni sociali
indigene, che della storia coloniale e del suo impatto iniziale sugli indigeni. Nei suoi primi lavori la
storica Bronwen Douglas ha ipotizzato che le strutture sociali indigene della Nuova Caledonia
fossero basate in parte sul potere acquisito, e in parte sul potere ereditato e che ad una maggiore
enfasi sulla parentela e sulla discendenza nella formazione e coesione dei gruppi corrispondesse un
maggior peso attribuito all’anzianità ed all’ereditarietà come principi della leadership.
A proposito dell’analisi storica, Bronwen Douglas ha sottolineato la necessità di un’approccio
critico nella lettura etno-storica delle società della Nuova Caledonia, per esempio nella
ricostruzione dei significati delle lotte del diciannovesimo secolo tra gli indigeni ed i militari
francesi. I missionari e gli amministratori coloniali che descrivevano le guerre tra gruppi indigeni
degli anni fino alla pacificazione tendevano ad attribuire a queste guerre dei significati determinati
dal proprio sguardo etnocentrico, davano cioè per scontato che gli indigeni lottassero tra loro per
sostenere o resistere le missioni o il regime coloniale. Questo atteggiamento etnocentrico è poi stato
adottato dagli storici che hanno successivamente lavorato su questi dati, trattando gli indigeni come
vittime passive che non hanno avuto altre iniziative se non quelle di reagire alla situazione imposta
dall’arrivo degli europei. Secondo Douglas, invece, i melanesiani continuarono ad agire nel
contesto coloniale secondo schemi che erano per loro culturalmente appropriati. Anche quando le
loro azioni erano una risposta diretta agli europei, le reazioni melanesiane erano impostate secondo
i propri schemi culturali, e quindi non erano le risposte attese degli europei.
Nei suoi lavori più recenti, prendendo spunto dall’analisi delle relazioni di genere nella tesi di
dottorato di Anna Paini sui gruppi di donne sull’isola di Lifou, Douglas ha volto il suo sguardo alle
relazioni di genere in contesto pre-coloniale, cercando di individuare le tracce della strumentalità
femminile indigena, come per esempio il ruolo attivo delle donne nelle lotte tra gruppi (1998: 115).
Per quanto riguarda l’impatto coloniale, Anna Paini ricorda che questo varia notevolmente a
seconda della località considerata. In generale l’intrusione coloniale nelle isole della Lealtà fu meno
intensa che sulla Grande Terre. Comunque gli isolani soffrirono le conseguenze dei “blackbirders”,
123
e ci furono episodi di repressione violenta, ma dato che gli interessi economici erano minori la terra
non fu mai espropriata, anzi le isole furono dichiarate riserve naturali ed in generale ci furono meno
interferenze da parte dell’apparato statale. Nelle isole i principali agenti del colonialismo francese
sono stati i missionari, sia protestanti che cattolici. Le comunità sono generalmente associate ad una
o l’altra confessione. Mentre sulla Grande Terre la maggioranza è cattolica, per esempio, la
popolazione dell’isola di Lifou è soprattutto protestante, anche se in alcuni villaggi, come quello
studiato da Anna Paini, praticanti delle due confessioni convivono. Le due missioni rivali hanno
dato un’impronta identitaria forte alle comunità convertite, rispecchiata in tutti gli aspetti della vita
sociale e rituale, dal modo di aggregarsi a quello di vestire, a quello di pregare e celebrare le
festività. Erano le missioni, non lo stato, a fornire servizi sanitari e scolastici, ed a portare le
innovazioni del mondo culturale occidentale.
Solo negli anni ’90 con la firma dell’accordo di Matignon cominciarono ad arrivare fisicamente
nelle isole della Lealtà rappresentanti dello stato, creando tensioni e preoccupazione da parte degli
isolani, che temevano che anche qui l’arrivo dei bianchi avrebbe significato l’alienazione della
terra. I timori degli isolani rispetto ai cambiamenti di costume associati all’arrivo di queste nuove
influenze coloniali, statali, si facevano sentire soprattutto nell’ambito delle relazioni di genere, in
quanto gli uomini temevano la perdita di una serie di prerogative politiche legate alla tradizione o
all’idea di costume (tradizione o costume).
L’istituzione dei capi e le trasformazioni storiche
Alban Bensa, un etnologo francese, ha scritto alcuni dei principali studi sull’istituzione dei capi in
Nuova Caledonia, seguendo le orme di studiosi precedenti come Maurice Leenhart e Jean Guiart.
Questa presenza di numerosi accademici francesi, inusuale in Melanesia, riflette la situazione
politica e l’interesse della Francia per la sua colonia.
Nel suo lavoro Bensa si occupa principalmente dei problemi di interpretare le variazioni nei
modelli di leadership, con uno sguardo comparativo ai modelli basati sui “big men”, sui capi, e sui
“great men” sviluppati dagli osservatori di popolazioni in nuova Guinea ed altrove in Melanesia.
Inoltre Bensa riprende anche un altro tema che si ritrova altrove nel Pacifico fino all’Indonesia,
ovvero l’idea che i capi siano rappresentati come discendenti di stranieri dai poteri straordinari,
accolti dagli abitanti autoctoni che si sono spontaneamente assoggettati a loro attribuendogli lo
status di capo (Sahlins 1987). Sahlins, seguendo il lavoro di Dumézil sulle tradizioni indo-europee
di parentela, delinea l’idea fondamentale in questo caso. Nelle società formate da persone legate da
legami di parentela, di lignaggi, e di clan, il capo è considerato superiore al resto della società, ma è
considerato essere oltre la società, e quindi di provenienza altra. Valerio Valeri, nel suo studio sui
reami e sul sacrificio alle Hawai’i, nota inoltre che il re è considerato al di fuori dalla società anche
per un altro motivo, in quanto egli è la più vicina rappresentazione concreta degli dei stessi, e quindi
ha il potere di consacrare la forma suprema di sacrificio agli dei, ed è proprio questo potere a
conferirgli l’autorità sugli uomini (Valeri 1985:142).
Bensa contrasta questa immagine del capo come estraneo a quella del capo come figlio maggiore di
una linea di discendenza maschile, che si assume la responsabilità di prendersi cura della sua gente,
ed ancora con l’immagine del capo che emerge dai resoconti del diciannovesimo secolo, un capo
guerriero e dispotico (Bensa 2000:10). Da un lato quello di Bensa è un’analisi delle trasformazioni
storiche delle istituzioni indigene, dall’altro il suo è un ragionamento più sottile, sulla
trasformazione delle rappresentazioni di queste istituzioni, rappresentazioni create dagli osservatori
in diversi contesti storici ed ideologici. In effetti tutte e tre le descrizioni dei capi hanno qualche
elemento di validità: l’idea del capo come immigrante da oltremare è preservata nella mitologia
indigena riguardo alle proprie origini; quella del capo come esponente anziano della linea di
discendenza patrilineare è contenuta nelle tradizioni orali successive che descrivono
ideologicamente il rapporto tra capo e seguaci, ed il ritratto di capo come leader guerriero è
influenzato dai movimenti della popolazione e dai cambiamenti nelle alleanze risultati
124
dall’intrusione francese documentata dagli storici francesi dell’epoca, soprattutto dopo che la Nuova
Caledonia divenne colonia nel 1853.
Una particolarità dell’istituzione del capo discussa da Bensa sembra essere una variazione su un
tema comune nel Pacifico: cioè che la parentela sia costruita dal fatto di condividere la stessa
“sostanza” , condivisione resa possibile dalla condivisione del cibo, e spesso in concomitanza con
idee che riguardano il sangue e la terra. Quando in Nuova Caledonia veniva fatto capo un
forestiero, era necessario che venisse simbolicamente incorporato nel gruppo, per trasformare uno
straniero in “parente” gli venivano offerti da mangiare degli ignami di un’ antica varietà locale,
associata alla terra del gruppo ed alla sua sostanza vitale. Ma per poter assicurare che il capo ed il
gruppo a lui assoggettato condividessero la stessa sostanza corporea, gli veniva anche offerto il
corpo sacrificato di un uomo di status elevato appartenente al gruppo locale. Consumando la carne
sacrificale di quest’uomo il nuovo venuto veniva ad essere “uno” con quelli su cui comandava, a
condividerne la sostanza. Una pratica collegata a questa era quella per cui un capo prima di morire
poteva offrire il proprio corpo in sacrificio. Il suo fegato veniva consumato in ambito rituale dagli
uomini del gruppo, mentre altre parti del suo corpo erano sistemate su pietre sacrificali in un
santuario dedicato ad un antenato, allo scopo di assicurare la sua protezione al gruppo.
Le ricostruzioni mitologiche delle gesta di uno dei capi guerrieri, Goodu, figlio minore di un capo
precedente, narrano che dopo aver effettuato scorribande di vendetta contro i gruppi nemici, questo
capo rivolse la sua aggressione contro i suoi stessi parenti, incluso il suo fratello maggiore
classificatorio. Per spiegare questo comportamento il mito racconta che Goodu doveva il suo potere
straordinario ad una pietra magica che, però, pretendeva la carne umana delle sue vittime, in
mancanza di altro avrebbe divorato Goodu stesso.
Storicamente Goodu sembra essere una figura che emerse durante i tempi turbolenti dei primi anni
coloniali. Egli agiva in maniera talmente violenta con gli altri gruppi indigeni, che alcuni di questi
decisero di allearsi e collaborare coi francesi per liberarsene. Bensa inoltre fa notare che mangiando
indiscriminatamente i suoi stessi parenti, Goodu trasgrediva le regole del cannibalismo rituale, un
rito che tradizionalmente aveva un ruolo costitutivo del poter dei capi. Fu per questa trasgressione
che i parenti materni ritirarono la loro protezione rituale, mentre i suoi fratelli si allearono con i
francesi per sconfiggerlo. Così, forse involontariamente, gruppi indigeni aiutarono il potere
coloniale a rimuovere uno dei più pericolosi ostacoli alla loro espansione, anche se, secondo
l’analisi storica di Douglas, le loro azioni non vanno interpretate come mere reazioni all’intrusione
coloniale, ma come determinate da logiche politiche locali determinate e plasmate da una logica
culturale melanesiana che continuava ad operare in termini di reciprocità, retribuzione e vendetta,
con lo scopo di raggiungere e mantenere una situazione di equilibrio tra i diversi gruppi locali.
Il controllo coloniale francese trasformò la posizione del capo tradizionale, attribuendogli una
stabilità istituzionale senza precedenti. La struttura sociale e l’istituzione dei capi che descrisse
Leenhardt quando arrivò nel 1902 era in parte una creazione coloniale- come il modello di struttura
sociale basata sui capi che si sviluppò alle Fiji grazie al governo coloniale inglese. I capi dei gruppi
della Nuova Caledonia descritti da Leenhardt erano rappresentanti del loro popolo, ma erano privi
di alcun potere proprio. Bensa ci ricorda che le descrizioni etnografiche appartengono a un dato
luogo e un determinato tempo, oltre che ad un osservatore particolare.
La sua analisi di Goodu ricorda anche un dibattito che ci fu sullo stile di leadership nelle Highlands
della Nuova Guinea subito dopo l’imposizione coloniale negli anni 1930. Esisteva un big man,
chiamato Matoto che si comportava in maniera spregiudicata e violenta, e venne definito dagli
osservatori come un despota. In retrospettiva è possibile spiegare le storie mitologiche che si sono
sviluppate intorno a questa figura in termini storici, i resoconti delle sue imprese sono creazioni di
un periodo di turbolenza e trasformazioni associate all’ingerenza coloniale. Matoto viveva quando i
primi esploratori australiani penetrarono i territori della sua gente, ma morì poco prima che il
controllo coloniale fu imposto, quindi non si può affermare che fosse in conflitto diretto con il
potere coloniale. Però la brusca interruzione dell’ethos del guerriero che avvenne, a causa della
pacificazione australiana poco dopo la sua morte, potrebbe essere responsabile per la creazione di
125
una leggenda esagerata della sua abilità e delle sue imprese improbabili. E’ probabile che un
meccanismo simile abbia operato nel caso di Goodu in nuova Caledonia.
L’economia di mercato
Secondo Jean Guiart, in seguito agli accordi di Matignon il governo coloniale ha utilizzato la parola
chiave “sviluppo” per calmare le acque, per far dimenticare le rivendicazioni del movimento
indipendentista kanak, promettendo ricompense in termini economici per la sottomissione al regime
coloniale. Questo processo non è una novità, ma richiama i metodi coloniali più antichi, in cui si
distribuivano medaglie o altri emblemi associati al potere coloniale ai capi per incoraggiarli a
fornire i lavoratori per la creazione delle strade “la strada che porta alla civilizzazione”.
Ma la parola magica “sviluppo” non è solo un’arma ideologica dei poteri coloniali, è sicuramente
un interesse espressamente palesato dai melanesiani in Nuova Caledonia, e oltre. Infatti, nonostante
i numerosi ostacoli allo sviluppo di attività economiche da parte dei kanak, questi si sono via via
cimentati nella coltivazione di diversi prodotti commerciali, come la copra il caffè, il cotone ed i
mandarini. In alcuni campi sono stati proprio loro a conquistarsi la fetta di mercato più larga,
nonostante sia difficile per loro espandere le proprie coltivazioni o accedere a sovvenzioni statali
per apportare migliorie all’irrigazione. Inoltre hanno un minor accesso al mercato dei consumatori
urbani, pressoché monopolizzato dalle produzioni di aziende caldoches alle porte della città.
Da questa situazione, secondo Guiart, hanno preso vita in questo periodo storico due idee parallele:
da una parte quella degli uomini politici che utilizzano i fondi pubblici per trasformarsi in
industriali minerari, o i fondi pubblici per costituire il capitale di aziende di trasporti marittimi;
dall’altra quella di chi, rimanendo al suo livello lavora per creare un nuovo tessuto economico
locale, in particolare attraverso la riappropriazione delle tenute fondiarie da parte dei kanak.
Entrambi i modelli hanno subito delle sconfitte, destinate, secondo l’autore, a peggiorare dato lo
stato globale delle economie del consumo, in particolare in asia. Ma, secondo l’autore questa
esperienza insegna che lo sviluppo facile non ha un’avvenire diverso da quello dei fondi sprecati, e
che la realtà economica dimostra che lo sviluppo economico promosso dalle sovvenzioni attribuite
in realtà con la motivazione di imbonire le elites politiche del territorio d’oltremare, non hanno
l’effetto desiderato di portare miglioramenti economici alla maggioranza della popolazione.
La Coutume e l’identità
La Coutume, (il costume o la tradizione) è una componente essenziale dell’identità kanak
contemporanea, può essere considerata come un codice che include riti, rituali ed interazioni sociali
basati tuttora sull’identità di clan e sui rapporti con gli antenati, nonostante sia stata fortemente
influenzata e modulata dall’ideologia cristiana introdotta in oltre due secoli di lavoro missionario.
La coutume, come il kastom in PNG, a Vanuatu ed alle Salomone, e vakavanua nelle Figi, non
sono codici tradizionali immutati o inconsci che determinano e controllano il comportamento delle
popolazioni indigene. Tutt’altro, sono termini ideologici, frutto di tensioni, negoziazioni, definizioni
contrastanti, di un costante lavorio a tutti i livelli sociali e strutturali- soggetto di alcuni dei più
interessanti studi antropologici nel Pacifico, quelli sulla politica delle tradizioni.
Come ci ricorda Anna Paini sono diversi gli elementi dell’identità a cui possono attingere le persone
ed i gruppi sociali a diversi livelli. In diversi contesti si utilizzano o evidenziano aspetti diversi della
propria identità sociale, a seconda degli scopi e anche rispetto a chi ci si identifica come gruppo. Si
può evidenziare la propria appartenenza ad un genere, ad un villaggio, ad una tribù, a una fede, o la
comune esperienza di repressione coloniale in quanto kanak. L’identità quindi non è una definizione
fissata nel tempo e nello spazio, ma un complesso processo di differenziazione come persone o
membri di una data comunità, elaborata di volta in volta utilizzando diversi elementi. Questa
concezione di identità permette di concepire l’esistenza di diversi livelli di inclusione in gruppi
sociali, in quanto gli individui posseggono affiliazioni multiple, che possono intersecarsi o
includersi una nell’altra. Secondo Paini 1998 il cristianesimo è un elemento cruciale nell’identità
contemporanea degli abitanti di Lifou, per esempio, ma cattolici e protestanti utilizzano una retorica
126
differente per parlare delle differenze tra passato e presente nei termini della relazione, che non è
considerata antitetica, tra la costume e l’adesione alla chiesa cristiana. Mentre i fedeli di entrambe le
chiese riconoscono l’esistenza di alcune differenze con il passato pre-cristiano, i protestanti
tendono a sottolineare le continuità, mentre i cattolici evidenziano le trasformazioni.
127
LE FIGI
Geografia
Il nome Figi si riferisce ad un’entità politica creata come risultato della storia coloniale di
quest’area del mondo, che comprende 844 isole sparse su una superficie di oceano di 1.290.000
chilometri quadrati, e includono l’isola di Rotuma, accorpata alla colonia nel 1884, nonostante la
notevole distanza dal resto dell’arcipelago. Le isole abitate sono solo 106, altre 216 sarebbero
abitabili se non fosse per l’estremo isolamento e la mancanza di acqua. La isole più grandi sono di
origine vulcanica e circondate da barriera corallina, le più piccole sono coralline. Solo il 16% della
terra è adatta all’agricoltura, e si trova soprattutto lungo la costa e i fiumi delle isole principali. Il
clima, tropicale, è caratterizzato da una stagione più asciutta da maggio a ottobre, e da una stagione
delle piogge da novembre ad aprile.
Le risorse economiche principali sono lo zucchero, la manifattura di abbigliamento, l’estrazione
dell’oro, il legname, la pesca ed il turismo.
Popolazione
Le due isole maggiori sono Vanua Levu e Viti Levu, insieme formano l’87% del territorio delle
Figi.
Nel censimento del 1996 sono stati contati 772.655 Figiani.
Tre quarti della popolazione risiede su Viti Levu dove si trovano la capitale, Suva, e l’unica altra
città Lautoka. Il 46% dei Figiani risiedono in zone urbane.
La popolazione include Figiani Melanesiani (51,8%), e Indo-Figiani (43,6%), il restante 5,3%
comprende Europei, Cinesi e altre nazionalità del Pacifico. Nelle Figi si parla l’inglese, l’hindi, il
figiano che sono insegnati a scuola, e la lingua dell’isola di Rotula; le religioni ufficiali sono il
cristianesimo e l’induismo.
Storia pre-coloniale
Una leggenda figiana attribuisce il popolamento delle isole al capo Lutunasobasoba, che portò la
sua gente attraverso il mare fino alle Figi. Ricerche sulla preistoria del Pacifico concordano che
l’arcipelago fu popolato 3500 anni fa da migranti provenienti dal Sud-Est dell’Asia attraverso
l’Indonesia. La migrazione di questa popolazione può essere ricostruita dagli archeologi che hanno
ritrovato nella zona del Pacifico compresa tra le isole ad Est della Nuova Guinea e l’isola
polinesiana di Tonga, un particolare stile di ceramica (modellata a mano, cotta sul fuoco, e decorata
con motivi incisi dentellati). Dal luogo dei primi ritrovamenti sia lo stile dei vasi che la cultura a
questo associata ha preso il nome di Lapita. Linguisticamente questa popolazione è associata con
lingue Austronesiane, ed infatti gli isolani delle Figi oggi parlano due forme dialettali (orientale ed
occidentale) della lingua Figiana, un ramo Oceanico della famiglia linguistica Austronesiana.
Il popolamento di tutta quest’area del Pacifico, che si estende tra le Hawaii a Nord, Rapanui (Isola
di Pasqua) a Est, e Aoteaora (Nuova Zelanda) a Sud, comportò grandi navigazioni, nel corso di
molti anni.
Al contrario della Polinesia, la cui storia successiva al popolamento sembra essere stata lineare, le
isole delle Figi hanno avuto almeno due periodi caratterizzati da trasformazioni culturali repentine,
che suggeriscono l’arrivo di nuove ondate migratorie dall’Ovest. Questa ipotesi sembra trovare
conferma nei ritrovamenti archeologici che collegano la sparizione delle ceramiche Lapita a
Vanuatu in seguito ad una violenta eruzione nel XII secolo, con l’improvvisa apparizione di questo
stile sulle Figi.
Nonostante nella storia orale delle Figi siano esistiti capi potenti, come Naulivou ed i suoi
successori, che avevano esteso il controllo su una vasta area delle Figi orientali, prima del periodo
coloniale le isole Figi non hanno mai fatto parte di un’entità politica unitaria.
Le Figi sembrano rappresentare una zona di confine tra le culture cosiddette melanesiane e quelle
polinesiane. Fisicamente molti Figiani assomigliano ai Melanesiani, con i quali hanno sempre
128
mantenuto rapporti, mentre la struttura politica tradizionale legata alla figura di un capo li collega
maggiormente ai Polinesiani ad est, oltre che ad alcune culture delle isole della Melanesia.
Durante l’ultimo millennio il paesaggio delle isole è stato modificato dalla coltivazione intensiva
12
del taro e dalla costruzione di numerosi insediamenti fortificati.
Secondo Kirch (2000:160) queste fortificazioni riflettono guerre tra piccole unità politiche associate
a diversi capi, apparentemente legate al cannibalismo, e che sarebbero state causate da
un’involuzione competitiva tra gruppi locali.
I primi contatti con gli Europei
Le Figi furono avvistate dall'olandese Tasman nel 1643 ed esplorate dagli inglesi Cook e Bligh
(dopo l’ammutinamento del Bounty) nella seconda metà del XVIII secolo. Al principio del XIX
secolo, arrivarono i primi coloni Inglesi, mentre le navi americane che commerciavano il legno di
sandalo si fermavano sulla costa delle isole.
Il nome Figi è stato attribuito a queste isole dal Capitano Cook che, a Tonga, incontrò alcuni
Figiani. Le loro isole in Tongano si chiamavano Fisi, e Figi è la pronuncia anglicizzata del nome di
origine Tongana (I Figiani chiamavano le loro isole col nome di Viti). Gli europei, influenzati anche
dalle opinioni dei Tongani, furono impressionati dai Figiani, e li descrissero come guerrieri
formidabili e cannibali feroci, li consideravano come costruttori delle imbarcazioni migliori del
Pacifico, ma non come bravi navigatori. Particolarmente apprezzati da Cook e dagli altri navigatori
occidentali che lo seguirono, erano le mazze da guerra intagliate e i tapa decorati.
I numerosi mercanti che seguirono i primi esploratori portarono armi e attrezzi nuovi alle isole Figi,
e con queste avvennero le prime trasformazioni.
Per un cinquantina di anni le Figi conobbero un periodo d’oro. Alcuni capi intraprendenti misero a
buon uso le innovazioni tecnologiche permesse dall’introduzione del ferro, furono costruite
moltissime case e canoe, e formate confederazioni. Il rovescio della medaglia furono le numerose
guerre tra gruppi locali che avvennero in questo periodo, probabilmente causate delle
trasformazioni negli equilibri di potere dovuti a queste innovazioni.
Nel 1854 Ratu Seru Cakobau, un capo molto influente, fu convertito al cristianesimo dai
missionari Wesleyani (metodisti), e col loro supporto divenne Re (Tui Viti) delle Fiji Occidentali.
Molti altri Figiani, seguendo il suo esempio, si convertirono. L’influenza dei missionari portò la
fine del cannibalismo e delle guerre tribali.
Storia coloniale
Nel 1874 Le Figi divennero una colonia della corona Britannica.
Epidemie di malattie infettive introdotte sulle isole dagli occidentali rischiarono di decimare la
popolazione, le politiche sanitarie introdotte dal governo coloniale li salvarono in extremis.
Il governo coloniale vietò la vendita di terreni indigeni.
12
Taro (Colocasia esculenta) è una pianta commestibile molto comune nei suoli umidi dei tropici, è
mangiato da 10% della popolazione mondiale, e rappresenta un alimento di base per oltre 100
milioni di persone. Si possono mangiare anche le foglie, dette ad orecchio di elefante per forma e
dimensione, ma principalmente si utilizza il cormo, un rigonfiamento della parte sotterranea del
gambo che può crescere fino ad un metro. Molto ricca di amido, si consuma arrostita o bollita: deve
essere cucinata per rimuoverne le proprietà irritanti. Le piante fioriscono raramente e non
producono mai semi, devono essere propagate tagliando l’estremità superiore del cormo con il
nuovo getto, e mettendolo a riposo nella terra umida, dove produrrà nuove foglie e radici. Il fatto
che queste piante non possano riprodursi con i semi è stato interpretato come una dimostrazione che
il taro è una delle più antiche piante coltivate dall’uomo.
129
Dal 1878 al 1916 gli inglesi trasportarono lavoratori indiani sulle isole e li impiegarono nelle
piantagioni, molti indiani rimasero oltre il termine dei loro contratti come agricoltori e
commercianti.
Storia post-coloniale
Nel 1970 le Figi ottennero l’indipendenza e divennero parte del Commonwealth.
Il Partito dell'Alleanza, guidato da R. K. Mara, rappresentante della comunità figiana, governò per i
primi anni dell’indipendenza, turbati da incidenti tra i Figiani indigeni e la comunità indiana. I
problemi di natura etnica hanno influenzato la storia post-coloniale del paese.
Nel 1987 le elezioni furono vinte dal Laburista Bavadra (di etnia indiana), ma fu
deposto da un colpo di stato organizzato dal colonnello Rabuka, espressione della
comunità autoctona.
Il rappresentante della corona britannica (sotto il sistema del Commonwealth) disconobbe i golpisti
e tentò di istituire un governo provvisorio, che fu a sua volta rovesciato da un secondo golpe.
Rabuka proclamò la Repubblica e la conseguente uscita delle Figi dal Commonwealth, nominò l'ex
governatore Ganilau presidente della Repubblica e pose Mara a capo del governo.
Nel 1990 fu approvata la nuova carta costituzionale che assicurava la preminenza politica e militare
dei rappresentanti indigeni.
Nel 1992, a seguito delle elezioni legislative vinte dal Partito Politico Figiano (FPP), Rabuka
assunse la carica di primo ministro.
Nel 1997 le Figi rientrarono nel Commonwealth, e fu approvata un’altra costituzione di spirito
multirazziale.
Nel 1999 furono indette le elezioni generali, vinte da Chaudhry, un Indo-Figiano del Partito
Laburista.
Nel 2000 un colpo di Stato portò al potere il nazionalista G. Speight, che chiedeva la modifica della
Costituzione per impedire l'accesso dei Figiani di origine indiana alle alte cariche dello Stato.
Fallito il colpo di Stato, seguì un periodo di instabilità politica che continua ancora oggi.
Conflitti politici contemporanei e relazioni internazionali
Mentre gli indigeni erano relativamente soddisfatti del loro status protetto sotto il sistema coloniale,
gli Indo-Figiani hanno voluto, ed ottenuto, l’indipendenza delle Figi ed il diritto di voto, nel 1970.
Quando, alcuni anni dopo, sia la popolazione Info-Figiana che i loro rappresentati politici sono
cresciuti a sufficienza da influire sul sistema politico, sono cominciati i problemi .
La situazione politica delle Figi è un problema per i governi (come quelli Australiano e
NeoZelandese) che a suo tempo appoggiarono la creazione di stati-nazione governati da indigeni, e
che si trovano a dover decidere chi appoggiare tra i due gruppi, entrambi con buone ragioni di
pretendere diritti politici. Questo conflitto etnico non ha paralleli in altre nazioni del Pacifico e,
nonostante le sue radici si trovino nelle politiche di colonizzazione e decolonizzazione, potrà solo
essere risolto da coloro che sono direttamente coinvolti, anche se le soluzioni non saranno
necessariamente gradite alla comunità internazionale.
Il conflitto etnico delle Figi è il caso più evidente di politica etnica nella regione Melanesiana, ma è
indicativo di un trend più generale, in questa regione di chiamare l’etnicità a sostegno di discorsi
dell’ambito politico.
Trasformazioni delle istituzioni politiche locali
Una delle caratteristiche della struttura sociale che più accomuna le Figi con le culture polinesiane,
è sicuramente l’organizzazione politica basta su una struttura gerarchica di capi “chieftainship”.
Nelle Figi questa è la forma dominante di leadership; storicamente questa istituzione è stata
130
assoggettata alle strutture di potere e di autorità coloniali Britanniche, risultando in notevoli
trasformazioni.
L’antropologo Figiano Rusiate Nayacakalou (1975) ha descritto le istituzioni politiche delle Figi,
riconoscendo la complessa dialettica tra pressioni per la trasformazione e l’impeto di preservare le
tradizioni che tuttora sono negoziate attraverso tutta l’area del Pacifico in situazioni di conflitto e di
conciliazione. Già negli anni ’70 riconobbe un fattore principale di questo processo: le
trasformazioni economiche e la necessità degli indigeni di conservare la terra e di aumentarne la
produttività per non farsi spodestare dalla minoranza indiana, economicamente più forte.
Nayacakalou ha così anticipato i problemi etnici che sarebbero emersi negli anni ’80 e ’90 tra gli
indigeni Figiani, proprietari della terra, e gli indiani, originariamente trasportati sulle isole come
lavoratori nelle piantagioni britanniche, e successivamente divenuti agricoltori e commercianti,
l’elite economica. Egli ha anche evidenziato il conflitto tra gli ideali comunitari che sostengono
l’istituzione dei capi da un lato, e quelli più individualistici associati allo sviluppo ed alla
modernità. Questi due termini rappresentano i due poli ideologici di una realtà molto più complessa,
attorno ai quali si coagulano sia sensi d’identità che conflitti specifici.
Può sembrare una contraddizione l’affermare che la struttura di chiefship sia basta su principi
comunitari, mentre istituzioni occidentali sono individualistiche ma nella tradizione Figiana (e nel
Pacifico in generale) l’autorità dei capi è fortemente legata alla responsabilità nei confronti della
comunità.
Dal 1890 il governo coloniale istituì la Native Land Commission13 (Commissione per la terra
indigena), che causò una ristrutturazione della struttura sociale e dell’istituzione del capo villaggio.
Per stabilire chi fossero i proprietari della terra, questa commissione fissò una struttura sociale
tradizionale segmentata in cui un Yavusa, gruppo di primo livello fondato da un dio-antenato
arrivato d’oltremare, si divideva in Matanngali, fondati dai figli maschi dell’ancestro originale, che
a loro volta si dividevano in Itikayoka, gruppi ancora più ristretti.
L’appartenenza a questi gruppi divenne la base su cui vennero attribuiti i titoli di proprietà della
terra in base a dei questionari compilati in ogni villaggio. Questo modello era una semplificazione
della realtà locale, in cui persone di discendenza diversa risiedevano nello stesso villaggio, e in cui
persone di lignaggio diverso venivano inclusi in gruppi diversi da quelli a cui erano legati da una
comune discendenza.
Dato che i capi sono riconosciuti come guide autorevoli del loro gruppo, la definizione di cosa
costituisce un gruppo e di chi vi appartiene, sono così diventate questioni determinanti. Inoltre la
successione dei capi tendenzialmente avviene per primogenitura, ovvero al capo succede il figlio
maggiore del lignaggio senior, più “anziano”. Questo però non era l’unico criterio nella selezione
del successore di un capo, contavano anche qualità come la sapienza e l’abilità; questa pluralità di
13
Dal 1940 è diventato la Native Land Board, la cui responsabilità principale è di amministrare la
terra degli indigeni per il beneficio dei proprietari terrieri indigeni. La commissione, composta da
10 membri più il Presidente della repubblica ed il Ministro per gli Affari Figiani, amministra circa
l’83% della terra delle Figi, di appartenenza indigena, e contemporaneamente promuove lo sviluppo
economico del paese. Il NLTB è responsabile verso i proprietari terrieri indigeni e vero le Figi per
un utilizzo saggio e sostenibile della terra e delle sue risorse. Parte della terra è denominata riserva,
e destinata al sostentamento delle famiglie che ci vivono, il resto può essere ceduta in affitto per
scopi agricoli, commerciali o industriali. I proprietari ricevono in cambio un affitto e altri benefici
come occupazione, dividendi, e opportunità commerciali legate allo sviluppo del territorio. Molte
delle piantagioni che rappresentano un’importante fonte di reddito nazionale, sono state sviluppate
su terra che appartiene agli indigeni, e affittata ai piantatori. Attualmente il governo sta lavorando
ad un progetto di riforma del sistema di amministrazione della terra, in particolare per rivedere il
ruolo del NLB e rendere più flessibili i regolamenti.(Da fijitoday 2003, sito ufficiale del governo delle
Figi http://www.fiji.gov.fj/)
131
criteri poteva portare conflitti pretese di ascesa ad una posizione di capo in competizione con quelle
del lignaggio più anziano.
Al livello di distretto, che include un certo numero di villaggi, esiste un capo riconosciuto, chiamato
il Tui, seguito dal nome del suo distretto o vanua (termine col significato generale di terra associata
ad un gruppo specifico). Egli, come i suoi discendenti, ha il diritto ad un titolo associato allo status
di capo (Ratu, al maschile, e Bulou al femminile). Questo livello di capi ha una posizione di
rispetto, sostenuta da tabù che esprimono una relazione gerarchica con i seguaci. Generalmente un
Tui succede al suo predecessore per anzianità, ma può accadere che la successione avvenga tramite
l’adozione o per i servizi prestati, o anche in seguito a conflitti interni e processi di selezione. La
posizione di Tui è politica, legata al Bose Levu Vakaturaga14 (Gran Consiglio dei Capi), creato
dagli inglesi per facilitare i processi di governo indiretto.
Il Consiglio dei Capi era direttamente legato alla gerarchia amministrativa coloniale; la sua
funzione era di consigliare il Governatore su tutte le questioni concernenti i nativi. Inoltre i suoi
membri eleggevano tra sette e dieci rappresentanti indigeni nel Consiglio Legislativo della colonia.
Data questa derivazione dalla struttura gerarchica coloniale, è evidente che il consiglio abbia
interesse a mantenere il controllo di una struttura di rappresentazione politica piramidale. In nome
del comunitarismo tradizionale, i capi possono tentare di sfruttare la propria relazione con la gente
comune. Nelle parole di uno dei capi più influenti citate da Nayacakalou:
“Alcuni di noi sono troppo avidi- pretendiamo solo cose dalla nostra gente senza pensare ad un
ritorno, come sarebbe corretto nel nostro costume” (Nayacakalou, 1975:138)
Struttura sociale e gerarchia
I dettagli dei processi di successione sono complessi, e determinati di volta in volta, anche dalle
situazioni interne contingenti, ma il principio gerarchico incapsulato nell’istituzione del capo,
sembra pervadere la struttura sociale Figiana. Cristina Toren (1990) ha illustrato il funzionamento
di questo principio in numerose relazioni sociali: tra coniugi, tra fratelli, e tra parenti matrilineali.
Nonostante le donne abbiano il dovere di mostrare deferenza verso il marito, anche le donne
anziane, come gli uomini, devono essere trattate con rispetto, ed i legami di parentela da parte
materna sono importanti.
La gerarchia pervade tutte le relazioni sociali, le uniche relazioni paritarie sono quelle tra persone
connesse da relazioni in cui la convenzione permette di scherzare, ad esempio tra i cugini incrociati
(figli della sorella del padre o del fratello della madre). Questa categoria è anche quella preferita per
le unioni matrimoniali. Dopo il matrimonio tra due cugini incrociati, però, la relazione scherzosa è
sostituita da quella di tipo gerarchico insita nei rapporti tra marito e moglie.
Il rispetto per le gerarchie è largamente espresso anche nella distribuzione dei posti a sedere in
chiesa o nelle riunioni tra capi per discutere questioni amministrative.
La parola è un’ulteriore importante aspetto del rapporto gerarchico: chi ha il diritto di parlare è
determinato dalla struttura gerarchica, in questo modo i capi tradizionali riescono a influenzare
anche le riunioni convocate da autorità elette, arrogando il diritto di parola. In altri casi è proprio lo
status di capo ad essere usato per sostenere le autorità elette.
14
Bose Levu Vakaturaga (BLV) é la più alta assemblea dei capi tradizionali delle Fiji, più qualche cittadino
non nobile ma di preparazione specifica, che si riunisce almeno una volta l’anno per discutere argomenti di
interesse ai Figiani. In passato questo Consiglio aveva il potere di approvare leggi e regolamenti per i
Figiani, ma questo potere cessò verso la fine dell’era coloniale con l’abolizione dei regolamenti separati per I
Figiani. Nonostante questa abolizione il Consiglio è sempre consultato su temi che riguardano i Figiani. Il
BVL nomina il Presidente della Repubblica delle Figi. Oggi ha 55 membri: ogni provincia ne nomina tre, tre
sono nominati dall’isola di Rotuma, ed altri sei sono nominati dal ministro per gli affari Figiani in
consultazione col Presidente della Repubblica. Il Primo Ministro, ilPresidente ed il Vice-Presidente sono
anche automaticamente membri del consiglio, mentre Sitiveni Rabuka è un membro a vita. (Da fijitoday
2003, sito ufficiale del governo delle Figi http://www.fiji.gov.fj/)
132
Il lavoro di Andrew Arno (1993) nell’area di Lau sottolinea l’importanza della parola nel comporre
dispute, sia nel contesto gerarchico del chiefship, che in quello paritario delle relazioni scherzose
tra cugini incrociati.
La gerarchia nella vita quotidiana
La struttura gerarchica della cultura figiana è evidente in molti aspetti, anche nella vita quotidiana,
per cui sono molto attenti alla disposizione dei corpi nello spazio, in termini di posizioni più o meno
alte, che rispecchiano il rispetto per gli anziani e per i capi.
Uno dei contesti in cui le gerarchie sono evidenziate è l’etichetta a cui aderiscono gli indigeni
Figiani durante la preparazione, la mescita, ed il consumo del kava (Yanngona). In tempi
tradizionali, questa bevanda, tipica anche delle isole polinesiane ad Est delle Figi, era consumata
solo dai capi e dai sacerdoti in situazioni rituali. Oggi è consumata in molti ambienti, anche non
puramente indigeni ed è diventato un’icona dell’identità Figiana contemporanea. Il kava si può bere
per dare il benvenuto a dei visitatori, e in generale per aprire riunioni, anche semplicemente
conviviali, ma comporta un protocollo preciso.
Eccone un resoconto per visitatori : i partecipanti siedono in terra a gambe incrociate, rivolti verso il
capo e un bacino di legno tanoa. Le donne siedono dietro agli uomini e a loro non viene offerto il
primo assaggio. E’ vietato attraversare il circolo dei partecipanti, voltare le spalle al tanoa (e quindi
al capo), o scavalcare una fune che lega il tanoa con una conchiglia bianca, e che rappresenta il
legame con gli spiriti. La bevanda è preparata nel tanoa mischiando la radice secca e polverizzata
della pianta del Kava (Piper methysticum) con dell’acqua. Un giovane di rango specifico offre ai
presenti una mezza nocce di cocco riempita di liquido, secondo un ordine stabilito dalle differenze
di rango tra i presenti. Ognuno deve accettare la bevanda dopo aver battuto le mani e pronunciato la
parola bula (vita), dopo averne vuotato il contenuto bisogna battere le mani tre volte. Dopo il primo
giro non è necessario accettare altre offerte, ma la cerimonia continua fino all’esaurimento della
bevanda contenuta nel tanoa.
Moralità, malattia, e medicina
Richard Katz (1993) ha studiato i sistemi di medicina olistica nelle Figi durante gli anni ’70. Ha
fatto una distinzione tra le pratiche comuni nei centri urbani, in cui i guaritori erano spesso donne e
giovani che utilizzavano la possessione (considerata da Katz come un’introduzione recente nel
sistema di medicina tradizionale) e le pratiche più radicate nella tradizione, che avvenivano
prevalentemente nei villaggi rurali, ed erano presiedute da uomini anziani.
Katz sottolinea i due principi fondamentali di vu (antenati e dei) e mana 15 (che in questa accezione
significa sia il potere di curare che quello di causare danno o morte, se usato in maniera scorretta).
Come in molte altre parti del Pacifico, queste idee sono state modificate, mutuate e parzialmente
superate dai concetti introdotti col cristianesimo, vista la presenza storica delle chiese Metodiste e
Cattoliche nel paese. I guaritori intervistati da Katz sostenevano di aver sostituito i clan
“sacerdotali” del passato che avevano fatto cattivo uso dei loro poteri, secondo una visione storica
e morale tipica degli esponenti tradizionalisti in società cristianizzate.
Le sedute di cura sono sempre aperte con una cerimonia kava, cui è invocata la presenza dei vu.
Dopo la presentazione del kava, il curatore massaggia il paziente e miscela delle erbe per preparare
un rimedio. Questo metodo è usato per curare sia malanni fisici che quelli considerati essere causati
da infrazioni contro le norme, e puniti dai vu tramite l’invio della malattia. Utilizzare il mana per
guarire questo tipo di malattia è considerata “la strada dritta”, in opposizione all’uso dei poteri per
causare danni, malanni o morte. Così il lavoro dei guaritori può essere considerato un esempio in
piccolo degli sforzi fatti in generale dai Figiani di sostenere le loro “vere” usanze ancestrali. I
curatori e la loro posizione sono anche sostenuto dalla credenza che le malattia causate dai vu non
15
Cf. Carmela Pignato, 2001:capitolo 3, per una sintesi della storia del concetto di mana nella
storia della teoria antropologica.
133
possano essere curate dalla medicina occidentale. (Questa spiegazione è comune in molte culture
del pacifico dove l’efficacia delle medicine occidentali sono comunque state provate in molti casi,
ma ovviamente e non in tutti). In quanto alla credenza sulla responsabilità dei vu per alcune
malattie, questa è sostenuta da ragionamenti di tipo circolare, ad esempio Tevita, un guaritore
intervistato da Katz, dice che quando cura un malato con le erbe utilizzate per le malattie causate
dai vu, ed il paziente guarisce, ha la conferma che erano stati i vu a farlo ammalare. (Anche questo
tipo di ragionamento è comune nel sostenere le credenze dei poteri sopranaturali in generale).
Un’aspetto interessante è che i guaritori non sono limitati ad intervenire solo sui malanni del corpo
umano. Possono anche usare il proprio mana per scopi protettivi, per esempio per evitare incidenti
alle barche dei pescatori, allo stesso modo a Mount Hagen, nelle Highlands della Nuova Guinea si
celebrano cerimonie kela memb, allo scopo di assicurare protezione alle automobili nuove. I
guaritori hanno un importante ruolo di mediazione in tutti quei contesti di conflitto causati dai
cambiamenti sociali, o dalle iniziative economiche. Tevita, ad esempio, è stato chiamato da un
gruppo di giovani pescatori coinvolti in un progetto commerciale, e che attribuivano dei problemi
avuti alla stregoneria provocata dalla gelosia di pescatori anziani non coinvolti nel progetto. Si
crede che i guaritori siano in grado di combattere questo tipo di stregoneria in quanto rappresenta la
faccia malvagia del proprio mana, il male che essi devono evitare per poter continuare a far del
bene.
In generale in Melanesia si considera che ogni potere possa essere usato per il bene o il male. La
distinzione assoluta tra bene e male è probabilmente una sovrascrittura cristiana, in tempi premissionari era consuetudine accettata utilizzare il proprio potere a beneficio del proprio gruppo e a
detrimento di gruppi rivali. Una delle influenze maggiori della pacificazione coloniale e della
cristianizzazione degli indigeni è stata proprio l’allargamento dell’orizzonte sociale, almeno in
teoria, alla fratellanza globale, e di conseguenza considerare l’uso dei propri poteri per causare
effetti negativi contro qualcuno, chiunque, come un male in senso assoluto. Da qui il passo a
condannare l’uso dei poteri magici in generale il passo sembra breve, ma nonostante le pressioni da
parte dei missionari e dell’ideologia cristiana, la magia continua ad esser praticata, anche se
ufficialmente viene legittimata solo la sua accezione positiva.
Un esempio di questo tipo di conflitto è riportato da Katz nel descrivere eventi accaduti nel
villaggio durante la sua ricerca sul campo. Un pastore evangelico arrivato nel villaggio predicava
alla gente di rinunciare a tutte le forme di medicina tradizionale, rewa, da considerare strumenti di
Satana, e di rivolgersi invece a Gesù. L’intero villaggio venne coinvolto in un’ondata di
fondamentalismo e il guaritore Tevita decise di smettere di operare.16
I sostenitori del movimento fondamentalista, rimpiazzando il guaritore, tennero riunioni di
preghiera per combatter un’epidemia di malattia che raggiunse il villaggio, portando con se
un’atmosfera di paura e di crisi. Uno dei leader del movimento, un uomo del villaggio, stava
evidentemente usando la nascita di un nuovo gruppo, all’interno del villaggio, per crearsi un
contesto in cui venire alla ribalta guadagnare importanza.
16
Anche questi fenomeni di “conversione in massa” ad una diversa forma di cristianesimo in
seguito all’arrivo di un missionario convincente, sono una caratteristica comune nella storia recente
della Melanesia. Sembrano essere facilitati da un senso di insoddisfazione con i risultati delle
pratiche religiose finora accettate come migliori di quelle ancestrali, ma non pienamente
soddisfacenti dal punto di vista concreto - perché se seguiamo gli insegnamenti della religione degli
Occidentali, non riusciamo ad ottenere i loro poteri di tipo economico? Forse non ce l’hanno
raccontata tutta, proviamo un’altra versione – sembra essere un ragionamento comune, legato alla
cultura di segretezza implicata in quasi tutte le forme di conoscenza esoterica tradizionale.
134
Nonostante i loro sforzi, i gruppi di preghiera cristiana non riuscirono ad abolire la credenza nella
stregoneria, nè a convincere che le loro preghiere sarebbero state efficaci contro la malattia.17 Ratu
Noa, un anziano Figiano di Suva con cui lavorava l’antropologo commentò l’accaduto condannando
l’insegnamento del pastore. Per lui era un errore predicare la rinuncia ai riti figiani tradizionali,
perché Il mana usato da Gesù è lo stesso mana dei guaritori. Secondo lui il pastore nel villaggio non
stava agendo secondo il volere di Dio, ma per il desiderio di accrescere il proprio potere e prestigio
e “Sta uccidendo le fondamenta stesse del nostro modo di vita” (Katz, 1993:267).
Il caso presentato da Katz è solo un esempio dei conflitti che sono emersi nel passato, stanno
emergendo nel presente, e continueranno ad emerger ogniqualvolta che c’è un confronto diretto tra
il Cristianesimo evangelico e i tradizionalisti in Melanesia. Questi confronti diretti possono essere
seguiti da fasi di difficile accomodamento e convivenza scomoda, ma quello che risalta da questo
caso Figiano, è che i guaritori, o più in generale i membri della comunità accreditati di poteri legati
alla tradizione o agli antenati, sono spesso al centro di conflitti che riguardano trasformazioni
sociali più generali. Rappresentano il nodo locale di forze che, da diverse parti del mondo,
raggiungono anche i villaggi più remoti, e lì possono intrecciarsi in maniera anche traumatica e
dolorosa, nelle interazioni giornaliere e personali tra individui di una comunità. I discorsi retorici
utilizzati sia da Tevita che da Ratu Noa per sostenere la propria attività di guaritore, sono da un lato
chiaramente influenzati da queste forze di trasformazione, mentre dall’altro rappresentano
coraggiosi tentativi di rispondere alle sollecitazioni esterne serbando un senso della propria dignità
e di potere d’azione.
Il risultato di questi conflitti, dei processi di negoziazione e di adattamento culturale, risultano in
forme di cristianesimo fortemente improntate dalla cultura tradizionale locale.
Cristianesimo Figiano
Christina Toren, in un articolo recente (2003), descrive i processi attraverso i quali le idee che
informano una forma specificamente figiana di cristianesimo sono costituiti attraverso alcuni anni,
nei bambini e ragazzi di un villaggio figiano. Pur senza postulare alcun tentativo, implicito o
esplicito, di resistenza culturale, o di sincretismo “cosciente” da parte dei ragazzi o di chi è
responsabile della loro socializzazione, dimostra come una pratica cristiana fedele alla dottrina non
produca necessariamente dei cristiani allineati.
Il suo è uno studio sull’importanza dei comportamenti rituali nel processo di sviluppo che determina
ciò in cui si crede, l’autopoiesi.18
Toren osserva che per i Figiani adulti contemporanei l’identità include sia il cristianesimo che una
radice tradizionale; per loro “la via cristiana”, “la via della terra” e “la via dei capi”, sono
esplicitamente in accordo. Essi riconciliano la devozione cristiana e la fede nel Dio della Bibbia,
con l’uguale certezza che i vecchi dei ed antenati Figiani continuino ad esistere e che, nella loro
forma benigna, rientrino sotto l’egida del Dio cristiano e facciano la sua volontà punendo chi abiura
i suoi doveri di parentela o verso un capo riconosciuto. Toren si domanda come possa avvenire
17
E’ sempre questo l’empasse: i missionari di varie specie possono condannare l’uso della
stregoneria, ma non riescono ad sradicare la credenza nella sua esistenza ed efficacia – l’esperienza,
culturalmente interpretata , ne ha dimostrato il potere molte volte nella vita .
18
Autopoiesi : auto-creazione umana, sempre e necessariamente radicata nella socialità. (Cf. F.
Remotti, a cura di: 1999). In termini di sviluppo Toren sostiene che la relazione tra infante e chi se
ne prende cura è tale per cui crescendo il bambino si trova per forza a confrontare un mondo che è
già stato, e continua ad essere, reso significativo da altri, quelli appunto che si occupano di lui. Gli
altri strutturano le condizioni di esistenza vissute dal bambino, eppure non possono determinare ciò
che questi ne farà. Inoltre, per quanto il bambino possa essere rispettoso verso chi è più anziano,
l’autopoiesi umana implica che il significato sia necessariamente creato in un processo in cui la
conoscenza viene trasformata mentre è mantenuta , ed in cui il significato è sempre emergente, mai
fisso.
135
questa riconciliazione, se in nessun contesto esplicitamente cristiano (i servizi in chiesa, le
preghiere, o la scuola domenicale) si fa mai riferimento esplicito alla continua esistenza degli
antenati.
La risposta va ricercata da un lato nel fatto che la vita in un villaggio è pervasa da comportamenti
ritualizzati, e dall’altro nell’idea che essere cristiani sia esplicitato dalla performance rituale, più
che da una dottrina, o nell’idea che sia il fatto che le persone servano il Dio cristiano, o l’antenato,
o il capo, a conferirgli potere, e nell’idea che il potere degli antenati sia insito nel mondo,
immanente, mentre quello del dio cristiano sia trascendente.
L’impegno verso il cristianesimo e verso la tradizione locale (vakavanua, letteralmente “secondo la
terra”) si costituiscono vicendevolmente per i bambini di un villaggio figiano attraverso le attività
ritualizzate di tutti i giorni e le cerimonie a cui assistono nel corso della loro vita, e così entrambi
contribuiscono insieme a definire l’essere Figiano.
I bambini di un villaggio Figiano sono presto avvezzi a dimostrare la propria adesione al
cristianesimo tramite un’infinità di obblighi e proibizioni rituali (pregare prima di ogni pasto o
spuntino, partecipazione a numerose funzioni in chiesa – tutte le mattina e tre sere-della settimana due funzioni domenicali, presenza alla scuola domenicale, divieto di giocare la domenica, preghiere
cristiane all’apertura e chiusura di cerimonie tradizionali, come quella del Kava, o di benvenuto a
visitatori) Questi comportamenti ritualizzzati sono incorporati, automatizzati nei bambini molto
prima che essi possano aver compreso le ortodossie dottrinali che, secondo gli adulti, li rendono
obbligatori.
Allo stesso tempo l’esperienza di cerimonie tradizionali come quelle che si tengono in caso di
morte è cruciale nella creazione, in base a relazioni intersoggettive, dell’idea di sè che il ragazzo o
la ragazza costituiscono nel tempo. Idee investite di impegno nei confronti degli altri, una funzione
del principio tradizionale di veilomani (la compassione reciproca, o amore compassionevole che
idealmente caratterizza tutte le relazioni tra parenti).
Prevedibilmente, per chiunque cresca in villaggio Figiano in prevalenza Wesleyano, la pratica del
cristianesimo sarà investita della forza emotiva esperita precocemente e ripetutamente durante le
cerimonie legate alla morte. Queste concernono gli obblighi causati dall’amore reciproco dei legami
di parentela, e i sacrifici e il dolore questo amore può comportare.
In questa maniera i riti mortuari, senza mai esplicitare pensieri poco ortodossi, assimilano il potere
di Dio al mana degli antenati e dei capi insediati. A sua volta questo potere agisce nel mondo in
maniera da convalidare quelle concezioni di persona e di relazioni sociali che sono imperniate sulla
mutualità.
Il risultato è la trasmissione da una generazione all’altra di una forma di cristianesimo permeato di
concetti tradizionali Figiani, per cui l’essere credenti non si riferisce alla fede nell’esistenza di Dio,
problema che non si pone, ma si riferisce invece alla necessità sia di riconoscere la sua preminenza
(viene aggiunto un livello alla scala gerarchica tradizionale), sia di aumentarne il potere
partecipando alle funzioni in chiesa, allo stesso modo in cui il potere dei capi e degli antenati sono
alimentati dalla corretta dimostrazione di rispetto e dalla corretta esecuzione dei rituali adatti.
136
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INDICE
- Introduzione alla Melanesia
- Perché la Melanesia
- La Nuova Guinea
Le Trobriands
Le Highlands della Nuova Guinea
Guerra, leadership, genere e scambi nelle Highlands e oltre
Antenati, Cristianesimo e Cargo
Culture “fluviali” della Nuova Guinea
- Vanuatu
- Le Isole Salomone
- La Nuova Caledonia
- Le Figi
- Bibliografia
144
p.2
p.3
p.18
p.32
p.46
p. 61
p.76
p. 83
p. 96
p. 106
p. 120
p.128
p.137
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