Lo sviluppo secolare dell`economia ticinese

annuncio pubblicitario
gli appunti de
SETTIMANALE DELLA DOMENICA
Fr. 19.–
DAL PARADISO AL PURGATORIO
Angelo Rossi
SETTIMANALE DELLA DOMENICA
Angelo Rossi ha studiato economia in
Svizzera e in Inghilterra. È stato per
molti anni docente di economia regionale e urbana, nonché di pianificazione e
gestione nel settore pubblico, al politecnico e all’università di Zurigo, all’IDHEAP
di Losanna e all’università di Friborgo. In
Ticino ha diretto l’URE e la SUPSI.
Da pensionato si occupa di ricerche e
consulenze nei suoi campi di insegnamento e scrive regolarmente sul Caffè.
Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese
gli appunti de
Paradiso e purgatorio, in questo libro,
sono immagini che vengono usate per
facilitare al lettore la comprensione
delle situazioni che hanno caratterizzato
lo sviluppo di lungo termine (secolare)
dell’economia ticinese, dopo la seconda
guerra mondiale. Esse vengono presentate nelle prime due parti. Il paradiso
della crescita si situa tra la fine della
guerra e l’inizio degli anni settanta del
secolo scorso, un periodo contrassegnato da tassi di crescita del reddito
cantonale reale prossimi al 5%, dalla
piena occupazione, dall’immigrazione di
decine di migliaia di lavoratori, dalla
forte mobilità in ascesa della popolazione residente, e dall’accesso di tutti i
ceti di popolazione a nuovi tipo di
consumo come l’automobile, le vacanze
all’estero e numerose nuove attività del
tempo libero.
gli appunti de
SETTIMANALE DELLA DOMENICA
Per i 72 anni
dell’Ufficio cantonale di statistica
Angelo Rossi
DAL PARADISO AL PURGATORIO
Lo sviluppo secolare
dell’economia ticinese
Gli appunti de
SETTIMANALE DELLA DOMENICA
Indice
9
Introduzione
11
Presentazione
13
Parte prima: il paradiso
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Lo sviluppo secolare dell’economia e il ciclo di Kondratieff
Come si misura l’andamento dell’economia
Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese
Lo sviluppo degli ultimi cinquant’anni
Il periodo dal 1945 al 1975: il paradiso dello sviluppo economico
L’economia ticinese in paradiso: effetti al livello del potenziale
di produzione
7. L’economia ticinese in paradiso: il miglioramento delle condizioni
di vita
8. L’intervento del Cantone nel processo di crescita
9. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia nel periodo
del paradiso della crescita
Note bibliografiche alla prima parte
57
Parte seconda: il purgatorio
10. La deindustrializzazione dell’economia: un sopralluogo
11. Crescita e declino a livello di rami di produzione.
Il ruolo della produttività e del grado di apertura dei mercati
12. Il purgatorio della stagnazione e la produttività
13. Il purgatorio della stagnazione: fine della piena occupazione
14. Il purgatorio della stagnazione: due rami particolarmente colpiti
15. Il purgatorio della stagnazione: i rami che si sono sviluppati
16. Il purgatorio della stagnazione: effetti collaterali
17. Il ruolo dello Stato nel purgatorio della stagnazione
18. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, nel purgatorio
della stagnazione
Note bibliografiche alla seconda parte
115
Parte terza: in purgatorio non si sa per quanto ci si deve stare!
19. Sul futuro non si può che scommettere
20. Perché la crescita sostenuta è necessaria?
21. Due approcci alla previsione del tasso di crescita
22. La medicina che non piace: le riforme viste da destra
23. Vogliamoci bene: le riforme viste da sinistra
24. Il Ticino contro il resto del mondo! La fiaba del turbocapitalismo
25. Il purgatorio è meglio dell’inferno, ma può diventare scomodo
Note bibliografiche alla terza parte
9
Introduzione
Perché un giornale pubblica un libro? Solitamente per raccogliere una serie
di articoli. Non è il caso di questo volume. È allora l’ammissione dell’incapacità del giornale di affrontare certi argomenti? Nemmeno.
Da tempo, il Caffè si propone di promuovere un dibattito sull’economia ticinese. Ma per lanciare una discussione seria è necessario disporre di un punto
di partenza e di un elemento di riferimento solidi. Uno studio del genere utilizza un linguaggio specifico ed occupa spazi diversi da quelli del settimanale, costretto per sua natura a presentare le questioni in modo più semplice e stringato. Ecco il perché di questa pubblicazione. Dal canto suo, il Caffè
proporrà sulle sue pagine approfondimenti e pareri, favorirà il dibattito, cercherà di coinvolgere il lettore.
Non ci avvarremo però solo di questi due strumenti complementari, il libro
e il giornale, per promuovere la riflessione. Proporremo anche alcune serate pubbliche e in primavera una giornata di studio per fare il punto sulle
discussioni promosse dal libro di Angelo Rossi.
Naturalmente la validità o meno del punto di partenza dell’operazione
dipende principalmente dalla serietà dell’autore del libro. Ebbene, sulla
serietà e sull’indipendenza intellettuale di Angelo Rossi nessuno può dubitare. È un personaggio che ho sempre ammirato per la sua capacità di non
farsi abbindolare e abbagliare dal potere politico. Ha sempre affermato con
fermezza la sua indipendenza di studioso. Schivo di natura, l’ho corteggiato per anni prima che collaborasse al Caffè. Oggi, oltre alla sua rubrica, ho
la soddisfazione di pubblicare questa ricerca. L’idea è nata una sera a cena
in seguito ad alcune mie ingenue domande su storia, sviluppo e futuro dell’economia ticinese. Domande di giornalista, a cui Angelo Rossi dà una
risposta interessante.
Paradiso e Purgatorio, in questo libro, sono le immagini che vengono usate
per facilitare al lettore la comprensione delle situazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo di lungo termine (secolare) dell’economia ticinese dopo
10
Dal paradiso al purgatorio
la seconda guerra mondiale. Il Paradiso è rappresentato dalla grande crescita tra la fine della guerra e l’inizio degli anni Settanta. È seguito un periodo di Purgatorio. E la ripresa quando sarà? Ma soprattutto quali riforme si
renderanno necessarie per garantire all’economia ticinese e a quella svizzera una nuova opportunità di sviluppo?
In questi ultimi anni le questioni economiche sono state al centro del dibattito politico cantonale. Il discorso, a mio parere, si è però eccessivamente
concentrato sulle misure di risparmio per risanare le casse del Cantone. Ci
auguriamo che questo libro e il dibattito che vorremmo promuovere portino ad ampliare il discorso. Naturalmente al di là delle persone, degli schematismi ideologici e delle idee preconcette.
Giò Rezzonico
11
Presentazione
L’economia ticinese che, fino all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, si trovava in paradiso, è scivolata, nel corso degli ultimi trent’anni, in
purgatorio. Per far capire concetti complessi servono immagini semplici
come queste. Il paradiso in economia è una situazione di crescita, a tassi
sostenuti, in un regime di piena occupazione che assicura un potere di acquisto in aumento e, quindi, benessere a tutta la popolazione. La crescita profitta ai produttori come ai consumatori. Il purgatorio, invece, è una situazione di quasi stagnazione, nella quale una parte della popolazione attiva è
disoccupata e nella quale anche il potere di acquisto della maggioranza della
popolazione stenta a crescere. Per quel che riguarda la produzione, poi, il
purgatorio è caratterizzato dalla chiusura di aziende e dalla ristrutturazione
di interi settori.
La storia dello sviluppo dell’economia ticinese, nel corso degli ultimi cinquant’anni, è rappresentata dal succedersi di queste due situazioni. Le presentiamo nella prima e nella seconda parte di questo studio. È ovvio che il
paradiso è la situazione più gradita perché presenta vantaggi per tutti. Il purgatorio, invece, piace meno perché divide in due la popolazione: da una parte
coloro che possiedono un’attività lavorativa più o meno stabile, che continuano a godere di un potere di acquisto sicuro, dall’altra i disoccupati e gli
occupati in situazione di precariato, che devono accettare un reddito variabile o, addirittura, in diminuzione. Il purgatorio vede poi, per quel che concerne la produzione, da una parte i settori e le aziende che continuano a crescere, dall’altra i settori in ristrutturazione e le aziende che falliscono e chiudono. È chiaro a tutti che si potesse scegliere è il paradiso la situazione verso
la quale si indirizzerebbero le preferenze della maggioranza dei consumatori come degli imprenditori. Ma, purtroppo, lo dimostra l’esistenza dei
paesi in via di sviluppo, il desiderio di maggior benessere da parte dei suoi
agenti economici non basta per assicurare lo sviluppo di un’economia.
Pur essendo consci di non poter con i nostri desideri influenzare quello che
12
Dal paradiso al purgatorio
vien chiamato il “sentiero di sviluppo” dell’economia, ossia il suo tasso di
crescita futuro, tutti noi vorremmo almeno sapere in quale direzione l’economia si orienterà. Se, per tornare alla nostra allegoria, ritornerà in paradiso, resterà in purgatorio o, facciamo gli scongiuri, scenderà in inferno. La
terza parte del nostro studio è quindi dedicata alle previsioni di lungo termine. Fare una previsione su quel che succederà nell’economia ticinese tra
dieci o venti anni è per lo meno altrettanto difficile come fare una previsione del tempo che farà, in un dato giorno, tra quattro settimane. I fenomeni
che influenzano l’evoluzione dell’economia e del tempo sono molto numerosi, il loro andamento non è lineare: l’anticipazione risulta quindi difficile. Anche se rimane una condizione insufficiente per il rilancio economico,
desiderare di tornare in paradiso può quindi aiutare. Questa è un po’ la posizione del libro bianco sullo sviluppo dell’economia ticinese (Pelanda, 1998)
che sembra suggerire al lettore che il paradiso è a portata di mano: basta
volerlo! L’autore del presente studio è invece più cauto e si accontenta di
una previsione condizionata: se la popolazione continua a invecchiare e il
tasso annuale di aumento della produttività rimane sotto il 2%, l’economia
ticinese continuerà a restare in purgatorio. Buona lettura!
13
Parte prima: il paradiso
L’economia ticinese cresce a ritmo sostenuto
1. Lo sviluppo secolare dell’economia e il ciclo di Kondratieff
Lo sviluppo di un sistema economico (nazionale o regionale ) nel lungo termine, ossia su un periodo superiore ai 10 anni, è caratterizzato da fluttuazioni
cicliche, più o meno regolari. L’attività economica conosce infatti fasi di
espansione e di recessione che si susseguono nel tempo, tanto da far pensare
che, come nel caso delle previsioni meteorologiche, anche in quello delle previsioni economiche si possa affermare che: “dopo il brutto viene il bello!” o
viceversa. Con una differenza però: mentre il meteorologo non ha nessuna
influenza sull’evoluzione del tempo, gli economisti che si occupano di previsioni congiunturali, o di previsioni di lungo termine, possono avere un impatto sull’evoluzione economica da loro prevista. Se infatti una maggioranza di
loro si pronuncia nel medesimo modo, essi possono influenzare direttamente
le decisioni di chi intende effettuare investimenti, per il sì o per il no. Il compito di chi prevede l’evoluzione economica è quindi sempre delicato perché le
sue previsioni possono modificare le decisioni di chi opera nell’economia.
I cicli economici
L’evoluzione dell’economia è contrassegnata da alti e bassi, da fluttuazioni insomma, e assume la forma di cicli di diversa durata. Vi sono cicli
stagionali, legati per esempio al clima, che influiscono su raccolti e occupazione. Più interessanti per l’analisi dello sviluppo sono i cicli commerciali o legati all’attività di investimento, come quelli di Kitchin che durano circa 40 mesi e quelli di Juglar che durano dai 9 ai 10 anni. Infine vi
sono anche cicli più lunghi, come quello di Kuznets, che dura circa 25
anni e quello di Kondratieff, che dura 50 anni circa e che abbiamo scelto
per dare una struttura a questo libro. Il ciclo di Kondratieff è legato alle
ondate di aumento o di diminuzione dei prezzi, dei salari e dei tassi di
interesse della durata di mezzo secolo circa. Ogni ciclo è caratterizzato
da una fase di crescita e da una di recessione della lunghezza di circa 25
14
Dal paradiso al purgatorio
anni. Come nota Nathan Rosenberg, dall’ipotesi di Kondratieff, formulata nel 1925, presero vita due tipi di ricerca sulle ondate lunghe di sviluppo. Il primo era incentrato sull’esame dell’evoluzione degli indicatori
monetari (prezzi e tassi di interesse soprattutto) mentre l’altro cercava di
spiegare l’evoluzione di grandezze reali, concentrandosi sull’accumulazione secolare del capitale, nella tradizione kondratievana, oppure sull’innovazione tecnologica, in quella schumpeteriana (Rosenberg, 1982).
Prendendo come base il ciclo di Kondratieff gli economisti della scuola
schumpeteriana hanno identificato un ciclo di lungo periodo dell’innovazione tecnologica, che si sviluppa parallelamente al ciclo di lungo
periodo dei prezzi. Il ciclo comincia quando la conoscenza scientifica
permette di portare sul mercato una nuova generazione di prodotti o di
innovazioni che razionalizzano il processo produttivo. Questi prodotti e
processi sviluppano nuovi mercati e danno un impulso dinamico all’economia. La fase di crescita che segue dura una ventina di anni ed è facilitata all’inizio, da condizioni monopolistiche di produzione. Con la diffusione dei prodotti e dell’innovazione tecnologica nello spazio, il vantaggio competitivo del pioniere innovatore viene lentamente a cadere. La
vendita dei nuovi prodotti si sviluppa in condizioni di concorrenza nazionale e internazionale sempre maggiori. Finalmente il ciclo raggiunge il
suo punto più alto. Dopo di che, da un lato, senza investimenti di razionalizzazione, il contributo di un’unità aggiuntiva di lavoro o capitale
comincerà a diminuire e, dall’altro, si arriverà alla saturazione dei mercati. Inizia così la fase di declino che può durare, di nuovo, una ventina di
anni fino all’arrivo di una nuova generazione di innovazioni.
L’innovazione è un fattore di crescita economica perché assicura all’imprenditore che la promuove, per un certo periodo di tempo, una posizione di monopolista e, di conseguenza, profitti superiori alla media.
Dall’inizio della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della fine del
XVIII° secolo, ad oggi, gli economisti hanno potuto identificare quattro cicli
di lungo periodo, o di Kondratieff, basati su altrettante nuove generazioni
di innovazioni:
– dal 1790 al 1840
– dal 1840 al 1890
– dal 1890 al 1940
– dal 1940 al 1990
Questi cicli di lungo periodo si sono manifestati in tutte le nazioni industria-
Parte prima: il paradiso
15
lizzate, con uno scarto di alcuni anni in più o in meno, rispetto alle date di
riferimento, a seconda delle singole economie.
Il fatto che questi cicli, formati da una fase di espansione e da una di recessione siano apparsi nel passato con una certa regolarità, non significa che
essi siano destinati a ripetersi nel futuro. Purtroppo la teoria dello sviluppo
secolare, basata sul ciclo dell’innovazione tecnologica, non ha un fondamento scientifico paragonabile a quello di una legge della fisica o della chimica. Non è quindi garantito che dopo quattro cicli di Kondratieff, un quinto sia ora in gestazione. Se da una parte l’evoluzione della conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica ci fa pensare che siano in effetti riunite tutte le premesse necessarie per l’avvio di un quinto ciclo di crescita di
lungo termine (Chevalllier, 1998), dall’altra, la continua distruzione di posti
di lavoro dovuta al progresso tecnologico ci fa dubitare sul carattere positivo del suo impatto definitivo sulla crescita (Rifkin, 2000). Inoltre non è chiaro quando questo ciclo partirà effettivamente nel nostro paese e, ancora più
particolarmente nel Cantone Ticino.
Innovazione tecnologica
Nell’analisi economica del ciclo lungo, l’innovazione tecnologica è
uno dei fattori alla base della crescita della produzione. Secondo
Schumpeter (economista austriaco, trasferitosi, alla fine degli anni
venti dello scorso secolo, a Harvard), le innovazioni nascono per iniziativa spontanea di singoli imprenditori, o come risultato di una strategia di ricerca e sviluppo di un’azienda o di un gruppo economico.
Esse possono prendere la forma di:
– innovazioni di prodotto, quando, grazie a nuove conoscenze scientifiche, si possono lanciare uno o più prodotti nuovi (si pensi al tubo
catodico e al successo della televisione, o alla realizzazione dei
microcircuiti e alla diffusione del computer personale, per restare a
innovazioni degli ultimi 70 anni)
– innovazioni di processo, quando l’applicazione di nuove tecnologie
ai processi di produzione o nuove forme di organizzazione aziendale permettono di ridurre i costi e i prezzi, creando così per l’azienda
o le aziende che innovano, un vantaggio competitivo
La teoria del ciclo del prodotto di Vernon sostiene che prima viene l’innovazione di prodotto, che avvia un nuovo ciclo. Solo nelle fasi più
avanzate del ciclo del prodotto interviene l’innovazione di processo. Si
tratta però di ipotesi che non sono condivise da tutti gli economisti che
si occupano di innovazione tecnologica. Osserviamo infine che
16
Dal paradiso al purgatorio
Schumpeter, oltre a parlare di innovazione di processo e di innovazione del prodotto, pensava che l’innovazione potesse estendersi anche a
riforme organizzative dell’azienda.
L’evoluzione secolare dell’economia, come la vede l’esperto, è dunque
fatta di alti e bassi, di periodi di espansione e di periodi di recessione.
La percezione di questa evoluzione da parte dell’uomo della strada è invece diversa. Essa dipende dalla sua età, dalla sua professione, dal fatto se
lavora o no, dal suo livello di reddito e dall’ammontare dei suoi impegni
finanziari. Se si domandasse oggi ai ticinesi la loro opinione sull’andamento dell’economia, una persona che ha superato i sessantanni risponderebbe in modo più ottimista di una persona con meno di trent’anni,
semplicemente perché il primo ha conosciuto il periodo di forte espansione economica dal 1945 al 1975 e quindi ritiene che l’economia della
regione possa sempre ripetere quella prestazione. Avendo da poco compiuto i 65 anni, crediamo che, oltre alle ragioni già ricordate nella premessa, sia una riflessione analoga che ci ha spinto a scrivere questo libro.
Ci sembra che per dare maggiori opportunità alla futura ripresa della
nostra economia sia utile trasmettere, ai lettori più giovani, il patrimonio
di informazioni e conoscenza che una vita da osservatore dei fatti economici della Svizzera e del Ticino ci ha permesso di accumulare (e anche
di perdere e, solo in parte, recuperare, in seguito a disavventure con il
computer personale). Sapere che nel passato, da quando esiste il processo di produzione capitalistico, ossia all’incirca dalla fine del XVIII° secolo ad oggi, a un periodo di stagnazione e di crisi ha sempre fatto seguito un periodo di forte espansione può servire, se non come auspicio di
espansione certa nel prossimo futuro, almeno come informazione che
consente di affrontare in modo più sereno le difficoltà del presente. In
ogni modo il ciclo di lungo termine, o di Kondratieff, rappresenterà, in
questo lavoro sulla crescita secolare dell’economia ticinese, un riferimento di base per la strutturazione delle singole parti. Le prime due parti del
libro saranno infatti dedicate alla fase di crescita e a quella di decadenza del quarto ciclo di Kondratieff, nel caso dell’economia ticinese. La terza parte si occuperà invece della questione a sapere se e quando la fase
di crescita del quinto ciclo potrebbe cominciare. Ad opera terminata dobbiamo però confessare che se l’ottimismo su una ripresa della crescita
rimane, su quando questa ripresa comincerà a manifestarsi conserviamo
ancora molti dubbi. Per le ragioni che cerchiamo di esporre nella terza
Parte prima: il paradiso
17
parte del nostro lavoro, crediamo che passeranno ancora diversi anni, prima che il Paese e i suoi partner commerciali più importanti potranno
rilanciare la crescita dell’economia. Per quel che riguarda i contenuti di
ogni parte precisiamo che esamineremo l’evoluzione dell’economia regionale, seguendo quattro piste. In ogni parte ci occuperemo dapprima di
quantificare l’evoluzione del reddito, dell’occupazione e della produttività. In secondo luogo verificheremo, almeno nelle prime due parti, quale è stato l’impatto della crescita degli aggregati sulla struttura dell’occupazione per settori e per rami. In terzo luogo, cercheremo di
tratteggiare il dibattito sulle politiche economiche che si è svolto in ogni
fase e che si sta svolgendo ora in relazione all’evoluzione futura dell’economia svizzera e di quella ticinese. La quarta pista si ritrova solo nelle prime due parti e riguarda studi di caso sulle modifiche più importanti che la fase di crescita e quella di decadenza del ciclo di lungo termine
hanno avuto sull’economia ticinese e sul modo di vivere dei ticinesi.
2. Come si misura l’andamento dell’economia?
Sull’evoluzione secolare dell’economia ticinese non esistono statistiche
affidabili. Il nostro Ufficio Cantonale di statistica – che fu tra i primi ad essere creato in Svizzera – ha visto la luce nel 1933. Le statistiche economiche
a livello regionale, in Svizzera, sono però nate dopo il 1945. Si tratta soprattutto di statistiche dell’impiego. Le prime stime del reddito cantonale, fatte
a livello nazionale, apparvero invece solo alla fine degli anni settanta dello
scorso secolo. Chi vuole ricostruire l’evoluzione dell’economia e del benessere in Ticino, o in altri Cantoni, nel periodo precedente la seconda guerra
mondiale, deve perciò fare a livello di dati lo stesso sforzo che fa lo scalatore che vuole conquistare una delle tante pareti artificiali di cui sono dotate le nostre palestre e i nostri capannoni industriali in disuso, riciclati come
spazi per il tempo libero. La presa è sempre difficile, l’appoggio, quasi sempre insicuro. Con l’aiuto dell’esperienza e dell’allenamento, si può però riuscire a scalare qualsiasi ostacolo, non senza correre ovviamente qualche
rischio.
Il reddito di un’economia
Con il prodotto nazionale lordo, il reddito nazionale è uno degli indicatori di attività più importanti di un’economia. Corrisponde in pratica alla somma dei redditi distribuiti ai fattori che con le loro prestazioni contribuiscono alla produzione nazionale (capitale e lavoro). A livello regionale, per analogia, il reddito regionale (o cantonale) rappresen-
18
Dal paradiso al purgatorio
ta la somma dei redditi distribuiti ai fattori di produzione che risiedono nella regione. Stando al metodo di rilevazione utilizzato per stimare i redditi dei Cantoni svizzeri, il reddito cantonale è determinato dall’equazione seguente:
Reddito cantonale = Rimunerazione dei salariati + Redditi degli
indipendenti + Redditi dell’impresa e della proprietà
Per il Ticino, che occupa un considerevole numero di frontalieri (lavoratori attivi in Ticino, ma domiciliati all’estero), questo metodo di rilievo del reddito porta, con grande probabilità, a una sottovalutazione del
totale dei redditi distribuiti. L’ammanco nella componente “rimunerazione dei salariati” può essere stimato per il 2000 a circa 2 miliardi di
franchi. Stimiamo che se si potesse tener conto dei salari versati ai frontalieri, il totale dei redditi distribuiti dall’economia ticinese nel 2000
passerebbe da 12.4 a 14.4 miliardi di franchi, con un aumento pari al
16.1%. Questa affermazione viene fatta con beneficio di inventario perché la nostra correzione è legata a una stima del salario medio per frontaliero che potrebbe essere o troppo elevata o troppo bassa.
Da qualche anno sono apparse stime del prodotto interno lordo dei
Cantoni. Anche il Ticino le pubblica regolarmente. Il prodotto interno
lordo è la somma dei valori aggiunti di tutte le unità di produzione attive
sul territorio cantonale. Per il momento, le stime del prodotto interno lordo a livello regionale sono meno affidabili di quelle del reddito cantonale, ragione per cui, in questo studio si è optato per il primo indicatore.
È contando sull’esperienza che ci siamo permessi di stimare i dati sull’evoluzione secolare dell’economia ticinese che figurano nella tabella 1 del capitolo 3. Si tratta di dati che hanno una loro consistenza perché sono stati stimati assieme, cercando di evitare le contraddizioni che possono sorgere
quando ogni variabile viene stimata in modo separato. I risultati di questo
esercizio di stima rispettano, almeno da una prima verifica, l’evoluzione
secolare manifestatasi a livello dell’economia svizzera, nel corso degli ultimi duecento anni. Si tratta di indicatori che danno un’idea dell’ordine di
grandezza del balzo in avanti compiuto dalla nostra economia e dal livello
di benessere medio nel corso degli ultimi due secoli. L’autore raccomanda
tuttavia di non sopravvalutare la loro capacità di spiegare i fatti economici.
In particolare non bisognerà sopravvalutare la portata dell’indicatore di
benessere (reddito pro-capite) poiché in un’economia, come quella del
Ticino, fin nell’ultimo quarto del XIX° secolo, una parte importante della
Parte prima: il paradiso
19
popolazione era autosufficiente e non conosceva o quasi transazioni in denaro. Per cui misurare il livello di benessere degli abitanti in franchi e centesimi è un procedimento astratto che non permette di rendersi conto di quale
era veramente il livello di agiatezza o di povertà. Precisiamo che in un’economia autosufficiente, una parte molto rilevante dei prodotti necessari all’esistenza quotidiana vengono prodotti direttamente dalle famiglie, eventualmente con l’aiuto di parenti e amici, e quindi non vengono distribuiti dal
mercato. Chi lavora in regime di autosufficienza non viene, di regola, remunerato. Di conseguenza le sue prestazioni non possono essere rilevate con i
criteri della contabilità nazionale. Aggiungiamo ancora, per evitare confusioni, che i dati sul reddito e sul reddito pro-capite sono in termini reali,
ossia riflettono l’evoluzione depurata dall’aumento dei prezzi. Dal profilo
delle stime regionali del reddito e del reddito pro-capite, un calcolo del genere è da comparare a un sacrilegio. In effetti, i dati pubblicati a livello nazionale, nel corso degli ultimi tre decenni, sono stime del reddito regionale in
termini nominali. Non esiste infatti nessuna possibilità di deflazionare i redditi regionali con indicatori regionali dell’evoluzione dei prezzi. Nel nostro
caso, abbiamo calcolato il reddito reale del Cantone deflazionando i valori
nominali con l’indice nazionale dei prezzi al consumo.
Reddito nominale e reddito reale
Nel corso del tempo, i prezzi dei beni e dei servizi offerti da un’economia cambiano. Per quel che riguarda l’esperienza degli ultimi cinquant’anni, i prezzi sono sempre aumentati. Potrebbero però anche
diminuire, come è capitato durante il periodo della crisi mondiale degli
anni trenta. Le variazioni dei prezzi sono misurate dall’indice dei prezzi al consumo che è in grado di stimare di quanto il livello medio dei
prezzi dei beni di consumo cambi di mese in mese, di anno in anno.
Apriamo un inciso per precisare che i beni di consumo sono quelli che
vengono acquistati direttamente dai consumatori per appagare i loro
bisogni. L’economia produce però anche beni di investimento, come
macchine, sistemi di controllo, immobili industriali o commerciali.
Questi beni servono per la produzione e vengono di regola acquistati,
affittati o presi in leasing dagli imprenditori.
Riprendiamo ora il discorso sugli effetti delle variazioni dei prezzi.
L’aumento o la diminuzione dei prezzi influenzano il potere di acquisto di un consumatore. Supponiamo che un consumatore disponga di
100 fr. per i suoi acquisti. Con il livello dei prezzi di oggi, questo consumatore potrà acquistare una quantità x di beni e servizi. Se i prezzi
dovessero però raddoppiarsi, il suo potere di acquisto sarà uguale sol-
20
Dal paradiso al purgatorio
tanto alla metà, ossia a x/2. Per acquistare la stessa quantità di beni di
prima, il nostro consumatore dovrà disporre, dopo l’aumento dei prezzi, di fr. 200. Il raddoppio dei prezzi ha avuto per effetto di dimezzare
il suo potere di acquisto. Facciamo ora un passo avanti. Supponiamo
che prima del raddoppio dei prezzi, il consumatore disponeva di un reddito di fr. 60'000. Dopo il raddoppio dovrà disporre di un reddito di fr.
120'000 per conservare intatta la sua capacità di acquistare beni e servizi, ossia il suo potere di acquisto. I due redditi, prima e dopo l’aumento dei prezzi, sono definiti dagli economisti “redditi nominali”.
Sono redditi osservabili. I redditi reali sono invece quelli corrispondenti al potere di acquisto, ossia nel nostro esempio:
– ai prezzi precedenti l’aumento, il reddito reale è fr. 60'000 prima e
dopo l’aumento
– ai prezzi dopo l’aumento, il reddito reale è di fr. 120'000, prima e
dopo l’aumento
In conclusione, se si vuole verificare come è aumentato il benessere
materiale di una persona o di un paese nel tempo, si deve poter calcolare il potere di acquisto di un consumatore, eliminando l’effetto del
rincaro (aumento) o della possibile diminuzione dei prezzi. Bisogna
cioè poter calcolare il reddito reale.
Di fatto quindi, per la poca importanza delle transazioni di mercato è difficile stimare quale fosse il reddito dell’economia e il reddito pro-capite dei
ticinesi, prima della fine del secolo XIX°. Il che non ci ha impedito di fare
un tentativo. Questo tentativo si basa sulle fonti disponibili che sono i censimenti e le stime della popolazione come pure le indicazioni quantitative
su produzione, esportazione e livello dei consumi che si possono trarre dalle
cronache economiche del tempo e dalle pubblicazioni di storia economica
più recenti. Varrà la pena di ricordare che l’economia ticinese fino alla rivoluzione francese era essenzialmente un’economia agricola basata soprattutto sull’allevamento del bestiame. I prodotti dell’allevamento del bestiame
erano anche i principali prodotti di esportazione. Il reddito delle famiglie
veniva integrato, a partire almeno dalla metà del XVIII° secolo dai proventi dell’emigrazione stagionale. Da un quinto a un terzo della popolazione
maschile adulta emigrava annualmente per attendere alle attività di questo
tipo di emigrazione. L’industria, in Ticino, comincia a fare la sua apparizione, come in Lombardia, nel primo quarto del XIX° secolo. Il suo contributo al reddito delle famiglie diventa però importante solo nell’ultimo quarto
Parte prima: il paradiso
21
del medesimo secolo. Dopo l’apertura della galleria ferroviaria del S.
Gottardo (1881) anche il turismo si aggiunge alle attività produttive dell’economia ticinese. Il processo di sviluppo dell’industria si interrompe però
alla vigilia della prima guerra mondiale, periodo contrassegnato dal fallimento delle maggiori banche del Cantone (si veda Rossi, 1988). Dal 1914
al 1950 il Ticino vive di stenti e traversa una lunga fase di stagnazione economica, dalla quale può finalmente uscire negli anni cinquanta con il rilancio del turismo e dell’industria e con il forte sviluppo del settore dei servizi, in particolare dei servizi finanziari. Questa è, in poche righe, la storia
economica del Cantone. I dati presentati nel capitolo che segue ne danno
un’illustrazione statistica abbastanza fedele.
3. Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese
Con l’aiuto di tre indicatori, vogliamo, in questo capitolo, illustrare la crescita dell’economia ticinese nel corso degli ultimi due secoli. Come date
limite abbiamo scelto il 1790, il 1840, il 1890, il 1940 e il 1990. Sono date
che corrispondono ai cicli di Kondratieff. Ma possiedono anche un riferimento abbastanza preciso nella storia dello sviluppo economico del Ticino.
La prima perché, oltre ad essere indicata, dagli storici dell’economia, come
la data di inizio del primo ciclo di lungo termine, è per il Ticino, all’incirca, quella nella quale fu introdotta – con un ritardo di mezzo secolo sulle
altre regioni periferiche della Svizzera – la coltivazione della patata, un prodotto che avrebbe permesso di eliminare o quasi il pericolo di carestia. Il
1840 vede la conclusione del programma di costruzione e riattamento degli
assi principali delle strade cantonali, da Chiasso al Gottardo e da Bellinzona
a Locarno (Galli A., 1937). Il 1890, poi, non è solo la data della rivoluzione liberale, ma segna anche l’inizio delle attività turistiche e del processo
di industrializzazione della nostra economia, grazie da una parte alle possibilità di trasporto offerte dalla ferrovia del Gottardo e, dall’altra, dalle applicazioni industriali che due nuove forme di energia, il gas e l’elettricità, permettono di fare. Il 1940 è l’anno che chiude il lungo periodo di stagnazione tra le due guerre mondiali e avvia il periodo di maggiore crescita economica conosciuto dal Ticino sino ad oggi. Infine il 1990 è l’anno che chiude
questo periodo e apre le porte al nuovo purgatorio della stagnazione, uno
stato nel quale l’economia ticinese continua a trovarsi. Le stime sulla crescita della popolazione, del reddito e del reddito pro-capite della tabella 1
descrivono in modo conciso, ma chiaro, l’enorme balzo in avanti fatto in
Ticino, in termini di attività economica e benessere materiale, nel corso di
due secoli.
22
Dal paradiso al purgatorio
Tabella 1: Evoluzione della popolazione residente, del reddito e del reddito pro-capite,
durante i cicli di lungo periodo in Ticino (ai prezzi dell’anno 2000)
Anni Popolazione
In assoluto Tasso di
di variazione
annuale nel ciclo
1790 100'000
1840 110'000
0.2%
1890 126'700
0.3%
1940 161'800
0.5%
1990 282'281
1.1%
Reddito
In milioni
2000
10.0
33.0
230.0
615.0
12'494.0
Tasso di
variazione
annuale nel ciclo
2.4%
4.0%
2.0%
6.2%
Reddito pro-capite
In franchi
Tasso di
2000
variazione
annuale nel ciclo
100
300
2.2%
1'815
3.7%
3'800
1.5%
44'300
5.0%
Fonte: per il periodo 1940-1990 le fonti sono gli annuari cantonali di statistica e l’articolo di
Rossi M.(1996) citato alla fine di questa parte; per il periodo 1890-1940 l’articolo dell’autore sullo sviluppo economico e il progresso sociale pure citato nella bibliografia di questa prima
parte; per i periodi precedenti il 1890 esistono pochissime indicazioni: l’evoluzione della popolazione è conosciuta grazie alle pubblicazioni dell’abate Ghiringhelli e di Stefano Franscini,
per lo sviluppo dell’economia abbiamo, sempre da questi autori, delle stime della bilancia commerciale del Cantone che possono servire per costruire un’ipotesi di evoluzione del reddito (si
vedano le opere di Franscini e Ghiringhelli citate nella bibliografia di questa prima parte)
Si tratta ben inteso di valori medi che non riescono a illustrare lo spettro ampio di condizioni di vita diverse che prevalevano e prevalgono
all’interno del Cantone. Né abbiamo la possibilità di calcolare, nemmeno in modo astratto, quale poteva essere la varianza, ossia la distribuzione dei valori effettivi di questi indicatori intorno al loro valore medio, a
seconda delle classi sociali, oppure a seconda delle regioni, nei diversi
cicli di sviluppo.
Consideriamo ora l’evoluzione dei tre indicatori in modo separato.
Cominciamo dall’evoluzione demografica. Come è risaputo, la crescita di
una popolazione è alimentata da due componenti:
– la componente naturale, ossia la differenza tra il numero dei nati e il
numero dei decessi (notiamo che questa differenza può essere positiva
o negativa)
– il saldo migratorio, ossia l’eccedenza di immigrati, che va ad aumentare la popolazione, o l’eccedenza di emigrati, che la fa diminuire
Ambedue le componenti sono influenzate dall’evoluzione economica. Più
un paese si sviluppa e più basso diventa il tasso di mortalità, perché il paese
dispone progressivamente di risorse che può dedicare al miglioramento
delle condizioni igieniche, delle condizioni di vita e alla creazione delle
infrastrutture sanitarie.
Parte prima: il paradiso
23
Contemporaneamente però diminuisce anche il tasso di natalità, perché il
miglioramento del livello di vita e l’aumentata possibilità di risparmiare,
per assicurarsi un reddito per la vecchiaia, fanno diminuire il tasso di riproduzione della popolazione. In molte regioni povere i figli rappresentano per
i genitori la sola possibilità di conseguire un reddito nel periodo della loro
vecchiaia, quando non saranno più in grado loro stessi di lavorare. In un
paese avanzato dell’Europa occidentale, la componente naturale (differenza tra nascite e decessi) assicura oggi un tasso di aumento della popolazione pari, al massimo, allo 0.2-0.3% annuo. Prima del 1965, ossia prima dell’introduzione generalizzata della pillola anticoncezionale, la componente
naturale poteva assicurare un aumento annuo della popolazione pari allo
0.4-0.6%. È sulla base di questi tassi che possiamo giudicare l’evoluzione
demografica del Cantone. Fino al 1890, la stessa era caratterizzata da un
saldo migratorio negativo che, in termini aggregati, faceva perdere al Ticino
praticamente la metà del suo sviluppo demografico potenziale.
Media e varianza
Molto conosciuto è il detto di Enrico IV (vissuto tra la fine del 16° e l’inizio del 17° secolo) che per magnificare le condizioni di vita dei francesi
del suo tempo affermava che in Francia vi era “un pollo in ogni pentola”.
La quantità di polli consumati in Francia divisa per il numero delle economie domestiche dava questa media. Ma con grande probabilità la
maggioranza delle pentole dei francesi non vedeva mai il pollo, mentre
una piccola minoranza cuoceva in permanenza questo piatto. Questa è
per l’appunto la differenza tra la media e la varianza. La media è semplicemente il rapporto tra il totale della variabile esaminata e il totale di una
popolazione sulla quale questa variabile si distribuisce. Così il reddito
pro-capite è un valore medio ottenuto dividendo il totale del reddito cantonale per la popolazione del Cantone. Il suo valore assoluto non dice
molto. Più interessante è paragonare il reddito pro-capite di una regione
con quello di altre regioni, o il reddito pro-capite a una certa data con redditi pro-capite in altre date. Per ottenere indicazioni più complete sulle
condizioni di vita di una regione sarebbe però necessario poter calcolare
la varianza, ossia l’importanza degli scarti – positivi e negativi – del reddito di ogni individuo per rapporto al valore medio. I dati disponibili non
ci permettono purtroppo di calcolare la varianza. Ma vi sono descrizioni
dei diversi periodi che, affrontando il problema delle condizioni di vita,
ci danno qualche indicazione di quanto importante fosse la varianza.
Così, per quel che riguarda la fine del Settecento, possiamo rifarci ai testi
del tempo, in particolare al “Ticino all’inizio dell’Ottocento” dell’abate
24
Dal paradiso al purgatorio
Ghiringhelli, chiosato da Antonio Galli, per ottenere qualche indicazione supplementare sul variare delle condizioni di vita, all’interno del
Cantone e tra le diverse classi sociali. Citando una pubblicazione contemporanea, Ghiringhelli scrive: “nelle alte valli, dove cresce solo l’erba, e quindi solo la pastorizia e lo sfruttamento degli alpi occupano la
popolazione, regna minor miseria che nelle regioni piane poste più a sud,
il cui suolo è il più fertile e ricco d’Europa. Proprio qui invece la gente è
consunta dalla miseria e coperta di stracci. Nessun maiale della Svizzera
tedesca – come dice il signor Bonstetten – entrerebbe in una delle abitazioni degli uomini di qui…” .A queste note molto crude sulle condizioni
di vita in Ticino, il Ghiringhelli aggiunge: “È però questo un linguaggio
troppo duro: il linguaggio dei viaggiatori che talvolta da casi singoli, da
un’osservazione fatta forse in un momento di malumore, subito vogliono generalizzare. Vero è pertanto che il grado di cultura, l’industria, il
benessere, l’attrezzatura del Canton Ticino, senza trovarsi nelle condizioni infime, testé descritte, sono sensibilmente inferiori a quelli della
maggior parte degli altri Cantoni.” Il che resta vero anche oggi!
Se il saldo del movimento migratorio, invece di essere in permanenza negativo, fosse stato nullo, la popolazione ticinese durante il XIX° secolo sarebbe cresciuta a tassi annuali vicini allo 0.5% invece di crescere solo a tassi
dello 0.2-0.3%. Il Cantone Ticino, regione di emigrazione – non solo stagionale, ma certamente anche definitiva – è la realtà demografica del secolo che
ha seguito la dichiarazione di indipendenza. Come tutte le altre vallate, a sud
delle Alpi, anche quelle del Ticino conobbero in quel secolo un forte salasso di popolazione. Non bastò, quindi, al Ticino accedere all’indipendenza
per liberarsi dalla miseria. Nessuno ha mai tentato di stimare i costi di questo salasso. Possiamo, tuttavia, affermare che lo stesso è stato, con altri fattori forse meno importanti, certamente all’origine del ritardo economico che
il Ticino ha accumulato, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, nei confronti del resto della Svizzera e dell’Italia del nord.
Dal 1890 al 1940, periodo nel quale l’isolamento geografico, politico e economico del Ticino conobbe, con l’avvento del regime fascista e dell’autarchia economica in Italia, la sua situazione più estrema, i movimenti migratori persero molto della loro importanza. Si può sostenere che, durante quel
periodo, la popolazione si sviluppò unicamente in forza della componente
naturale. Infine, dopo il 1940, il saldo migratorio divenne largamente posi-
Parte prima: il paradiso
25
tivo e la popolazione ticinese profittò dell’apporto demografico degli immigrati dal resto della Svizzera e dal resto del mondo per avviare un periodo
di rapido sviluppo.
Sviluppo demografico
L’aumento, o la diminuzione, della popolazione residente in una determinata regione è dato dalla somma di due saldi:
– il saldo del movimento naturale N
– e il saldo del movimento migratorio M
Si ha quindi: Variazione della popolazione = N+M
Se la somma è positiva, la popolazione aumenta, se è negativa, diminuisce. Il saldo del movimento naturale è uguale alla differenza tra il
numero dei nati e il numero dei decessi. Per esempio in Ticino, nel
2002, il saldo naturale si è stabilito nel modo che segue:
N = Nascite – Decessi = 2904 – 2788 = 116
Il saldo migratorio è la differenza tra il numero di arrivi e il numero
delle partenze. Sempre per il Ticino e per il 2002, questo saldo è dato
dalla differenza seguente:
M = Arrivi – Partenze = 2630
La somma dei due saldi dà, per il 2002, la seguente variazione di popolazione per il Ticino:
N + M = 116 + 2630 = 2746
Il tasso di natalità in Ticino è tra i più bassi della Svizzera. Senza il
saldo migratorio, la popolazione ticinese non sarebbe quindi aumentata, o quasi. Da molti anni, in Ticino, è il saldo migratorio che determina l’evoluzione della popolazione residente.
Consideriamo ora l’evoluzione del reddito e del reddito pro-capite. In termini di potere di acquisto, il ticinese degli anni novanta del secolo scorso
disponeva di risorse pari a quelle di 400 ticinesi della fine del XVIII°secolo.
I ticinesi di oggi sono diventati tutti benestanti (in termini di confronto storico e con le limitazioni nel confronto di cui si è scritto) e il loro numero si
è praticamente triplicato. Un’economia che, alla fine del XVIII°secolo riusciva appena ad assicurare il minimo di sopravvivenza a una grande parte
della sua popolazione – prova ne sia l’importanza dell’emigrazione – oggi
riesce a mantenere, con un reddito medio che è tra i più alti in Europa, una
popolazione tre volte più grande. Questo miracolo è stato conseguito in forza
di un processo secolare di crescita delle sue attività che ha conosciuto, come
dimostrano i dati della tabella 1, fasi alterne.
26
Dal paradiso al purgatorio
Per renderci conto della diversa velocità di crescita, possiamo riferirci ai
tassi medi di aumento del reddito nei cicli di lungo periodo considerati
qui sopra. Per il lettore non addentro ai fatti economici possiamo suggerire di leggere questi tassi nel modo che segue:
– un tasso di crescita dell’1-1.5% è paragonabile alla velocità che si
può raggiungere in automobile, innestando la prima marcia;
– un tasso del 2-2.5% è paragonabile alla seconda marcia;
– un tasso del 3-3.5% alla terza;
– un tasso del 4-5% alla quarta marcia;
– un tasso superiore al 5% alla quinta marcia.
Alla stessa stregua si può affermare che nei paesi nei quali il tasso di crescita reale annuo è superiore all’8-10% la velocità è quella di una vettura di formula uno.
La tabella ci suggerisce che lo sviluppo del Cantone si è fatto in seconda e in terza durante il XIX° secolo, ossia durante il periodo che gli storici hanno convenuto di chiamare il periodo della prima e della seconda
rivoluzione industriale. Il ritmo di sviluppo dell’economia ticinese ha
subito un rallentamento significativo nel periodo tra la fine del XIX°
secolo e la seconda guerra mondiale, a causa soprattutto del suo isolamento rispetto al mercato svizzero e a quello internazionale. Dopo la
seconda guerra mondiale, invece, l’economia del Ticino ha innestato la
quarta e, in taluni anni, anche la quinta conoscendo un’accelerazione nello sviluppo che ha (se teniamo conto che i dati del reddito e del reddito
pro-capite sono in termini reali) dell’incredibile. Notiamo poi che da un
ciclo di lungo termine all’altro, le caratteristiche della vettura sulla quale viaggia l’economia ticinese sono molto migliorate. Innestare la quarta
marcia in un’economia che comincia a svilupparsi (come era il caso del
Ticino alla fine del XIX° secolo) è certamente più facile che innestarla
in un’economia che ha già raggiunto un certo livello di benessere (come
è stato il caso del Ticino dopo la seconda guerra mondiale). L’accelerazione realizzata nel secondo dopoguerra dall’economia ticinese può essere misurata comparando il numero di anni che, in base ai diversi tassi di
crescita, sarebbero necessari per raddoppiare il reddito pro-capite reale.
– con un tasso di crescita dell’1.5% - come nel periodo 1890-1940 –
occorrono quasi 47 anni per raddoppiare il reddito pro-capite;
– con un tasso di crescita del 2.2% - come nel periodo 1790-1840 –
sono necessari 32 anni;
– con un tasso di crescita pari al 3.7% - come nel periodo 1840-1890
Parte prima: il paradiso
–
27
(attenzione però che in questo caso la crescita del reddito pro-capite
è stata alimentata anche dall’emigrazione) - occorrono 19 anni;
infine con un tasso di crescita del 4.8%, come nel periodo 1940-1990,
bastano 14 anni e mezzo per raddoppiare il reddito pro-capite.
Rivoluzioni industriali
Secondo lo storico dell’economia David S. Landes la rivoluzione
industriale è il cambiamento nei modi di produzione determinato dall’applicazione dei seguenti tre principi generali (Landes, 1999):
– la sostituzione delle macchine – veloci, costanti, precise, instancabili – al lavoro e alla capacità umana
– la sostituzione di fonti di energia inanimata alle fonti animate; in particolare, l’invenzione dei motori capaci di convertire il calore in lavoro, che spalancò le porte a una fonte di energia pressoché inesauribile
– l’utilizzo di nuove e molto più abbondanti materie prime; in particolare la sostituzione di minerali e infine di materie artificiali alle
sostanze vegetali e animali.
Se parliamo di rivoluzioni industriali è perché questi tre processi si
sono manifestati nel tempo, in ondate successive. Per quel che
riguarda la Svizzera si può datare la prima rivoluzione industriale
agli venti-trenta del secolo XIX°; la seconda, agli anni ottanta-novanta dello stesso secolo. Da questa datazione si desume che le rivoluzioni industriali, in Svizzera coincidono, o quasi, con la fase di avvio
di due cicli di Kondratieff.
In conclusione, la constatazione che ci preme fare è che, a cavallo della
seconda guerra mondiale si incontrano il periodo con il tasso più basso
e quello con il tasso più alto di crescita del benessere materiale del
Cantone. I figli nati durante la seconda guerra mondiale e all’inizio del
secondo dopoguerra ebbero bisogno di meno di un terzo del tempo occorso ai loro padri per raddoppiare il loro reddito. Ci si può quindi facilmente immaginare quale cozzo di natura culturale l’accelerazione della
crescita economica e del benessere materiale possano aver creato nelle
famiglie ticinesi, nei primi venti trenta anni del secondo dopoguerra.
28
Dal paradiso al purgatorio
4. Lo sviluppo degli ultimi cinquant’anni
Come testimoniano i dati della tabella 1, il periodo dal 1940 al 1990, che corrisponde, più o meno, alla durata del quarto ciclo di Kondratieff, deve essere
ritenuto come il periodo di maggior sviluppo conosciuto dall’economia ticinese, dal momento dell’avvio della rivoluzione industriale in Europa ad oggi.
Osserviamo tuttavia che quello del Ticino non è un caso unico. Praticamente
le economie di tutti i Cantoni svizzeri hanno esperimentato, dopo il secondo
conflitto mondiale, un’evoluzione di questo tipo. La stessa considerazione
vale per le economie delle province italiane confinanti, sebbene a questo proposito si possa affermare che il tasso di crescita del reddito sull’insieme del
periodo sia stato, in Italia, inferiore a quello realizzato dall’economia ticinese. Dal 1940 al 1990:
– la popolazione del Ticino è aumentata del 75%;
– il reddito dell’economia ticinese si è moltiplicato per 20;
– il reddito pro-capite si è moltiplicato per 11.
Ma lo sviluppo di questo periodo non è stato una sola e unica marcia trionfante verso traguardi di benessere materiale sempre più alti. All’interno del cinquantennale ciclo di Kondratieff dobbiamo infatti distinguere, per quel che
riguarda la crescita economica, almeno tre fasi, caratterizzate da tassi di crescita diversi. La figura 1 riproduce l’evoluzione dell’attività dell’economia
ticinese nel periodo dal 1951 al 1995, dal momento in cui si dispone delle prime stime del reddito cantonale alla data in cui si è effettuata la prima, importante revisione del metodo di stima del reddito cantonale.
Figura 1: Tassi annuali di variazione del reddito reale e media mobile (5 anni) dell’economia ticinese
Fonte: Rossi M, 1996
Parte prima: il paradiso
29
Nella nostra analisi dell’evoluzione di lungo termine del reddito cantonale
ci siamo fermati al 1995, perché per il periodo 1950-1995 disponevamo di
una serie coerente di dati, elaborata, a metà degli anni novanta dello scorso
secolo, dall’IRE (Istituto di ricerche economiche, allora del Cantone, ora
dell’USI). Nel 1996 e nel 2004, il metodo di stima del reddito cantonale è
stato sottoposto a revisioni abbastanza importanti che, da un lato hanno portato, per gli anni novanta a differenze con le vecchie stime dell’ordine di
mezzo miliardo- un miliardo, a seconda degli anni e, dall’altro lato, a inversioni dello sviluppo congiunturale per certi anni. Diventava perciò impossibile prolungare la serie dell’IRE, valendosi delle nuove stime. A causa di
queste difficoltà, la nostra analisi di dettaglio del ciclo di Kondratieff più
recente porterà quindi sul periodo dal 1950 al 1995.
I tassi di variazione annuale del reddito reale, riportati nella figura 1, descrivono una traiettoria dello sviluppo dell’economia ticinese che, durante il
periodo osservato, è stata interrotta solo una volta da una diminuzione del
reddito reale, nel 1975, anno durante il quale l’economia svizzera fu colpita dalle conseguenze negative della prima forte esplosione dei prezzi del
petrolio. L’andamento ciclico dell’attività economica è pure illustrato, nella
figura 1, dalla media mobile dei tassi di variazione annua del reddito reale.
La stessa indica, forse in modo ancora più chiaro, che non sia in grado di
fare la serie delle variazioni annuali, la direzione dello sviluppo e l’ampiezza delle fasi del ciclo di lungo termine, nel corso della seconda metà del
secolo XX°. La fase di crescita va dalla fine della seconda guerra mondiale al 1963, quella del declino dei tassi di crescita dal 1963 a oggi. Basandoci
sul sentiero di sviluppo, descritto dalla media mobile, abbiamo scelto di suddividere questo periodo in due sotto-periodi di diversa durata:
– il primo va dall’inizio del dopoguerra al 1975
– e il secondo dal 1975 al 1995
La media mobile
Per cercare di identificare la tendenza di fondo che sottostà a una serie
di valori che sono in continuo cambiamento si può calcolare la media
mobile e sostituire i valori della serie esaminata con i valori calcolati
in base alla media mobile. Per serie annuali la media mobile può basarsi su 3 o 5 valori. Un esempio di media mobile su 3 anni può servire a
chiarire il concetto. La serie 200, 240, 280, 260, 290, 280, 320, 270,
330, 350 può essere resa più regolare nel suo andamento, calcolando
la media mobile su 3 anni. Il primo termine della media sarà dato dalla
media dei primi tre valori della serie:
ossia (200+240+280)/3 =240,
30
Dal paradiso al purgatorio
il secondo calcolando la media del secondo, del terzo e del quarto e
così via. I risultati sono riportati nel grafico. Si nota che effettivamente la linea della media mobile ha un andamento maggiormente regolare della linea che descrive l’evoluzione della serie di base.
Nel primo sottoperiodo il tasso di crescita medio era più elevato che nel
secondo. Mentre fino all’inizio degli anni settanta, esclusi i primi anni del
dopoguerra e brevissime recessioni nel 1958 e tra il 1964 e il 1967 (quest’ultima determinata dall’intervento dello Stato per frenare il “surriscaldamento” dell’economia) la macchina dell’economia ticinese viaggiava con
la quarta, vedi anche con la quinta innestata, a partire dal 1975 l’economia
ticinese ha innestato la terza, poi la seconda, e, dopo il 1990, è scesa ancora di una marcia, passando in prima.
Gli economisti europei descrivono il lungo periodo di crescita sostenuta
delle economie dell’Europa occidentale, durante i primi trent’anni del
secondo dopoguerra come “les trentes glorieuses” i trenta anni di gloriosa
e quasi ininterrotta crescita a tassi elevati del reddito reale, sempre, o quasi,
superiori al 4.5% annuale. Le prestazioni economiche di questo periodo si
ritrovano anche a livello dell’economia ticinese: ne fanno fede i tassi di
variazione del reddito reale della figura 1. Avviato dalle innovazioni che
sono giunte sul mercato tra il 1935 e il 1950 (si pensi, per fare un solo esempio, alla televisione), il ciclo di lungo periodo ha preso particolare vigore in
Europa nel dopoguerra, in seguito agli sforzi effettuati per ricostruire l’infrastruttura e l’apparato di produzione delle economie che avevano partecipato al conflitto. Si parla in questo contesto di un periodo di crescita alimentato dalla forte espansione delle componenti della domanda globale: gli
investimenti privati e i consumi pubblici in particolare. Dal 1945 al 1975,
Parte prima: il paradiso
31
le economie dell’Europa occidentale e quella ticinese hanno conosciuto un
periodo di sviluppo senza precedenti che, se teniamo conto anche delle conseguenze positive della crescita economica sul benessere possiamo descrivere come il paradiso dello sviluppo economico. Questa espansione si chiude all’inizio degli anni settanta certo per il rallentamento della domanda,
ma anche per il venir meno dell’impeto che le innovazioni avevano dato alla
produttività dei fattori di produzione. Ad aggravare il declino per i paesi
europei arrivano, proprio in quegli anni, eventi esterni come la decisione di
abbandonare l’accordo di Bretton Woods che, dalla fine del conflitto mondiale aveva impostato gli scambi internazionali su rapporti di cambio fissi,
nonché gli choc del prezzo del petrolio. Nei capitoli della prima parte che
seguono, ci occuperemo più in dettaglio della natura di questo sviluppo e
delle sue conseguenze. Nella seconda parte di questo lavoro, invece, ci concentreremo sul periodo dal 1975 a oggi, periodo caratterizzato dalla stagnazione economica e, che per contrasto con il primo, chiameremo il purgatorio dello sviluppo economico.
5. Il periodo dal 1945 al 1975: il paradiso dello sviluppo economico
Il periodo che va dal 1945 al 1975 è stato per l’economia ticinese come per
quella svizzera, e quelle della maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale, il periodo di maggior sviluppo degli ultimi due secoli. Pensiamo che
si possa parlare con ragione, nei confronti di quel periodo, di età dell’oro o,
come abbiamo proposto nel capitolo precedente, di paradiso della crescita
economica. Tuttavia, all’interno di questo periodo non sono mancate le fluttuazioni. Possiamo, in particolare, distinguere due sottoperiodi:
– il primo va dalla fine della seconda guerra mondiale al 1964 ed è caratterizzato, per la Svizzera, dall’assenza di una politica di controllo congiunturale,
– il secondo inizia nel 1964 e termina nel 1975 ed è caratterizzato dai problemi legati alla definizione di una politica di controllo dell’inflazione.
Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1966 lo sviluppo dell’economia svizzera e di quella ticinese si è svolto in condizioni molto libere.
Solo nei primi tre anni del dopoguerra vi fu una politica concertata della
Confederazione con i partners sociali per cercare di evitare un’impennata
di prezzi e salari. Ma, dal 1948 al 1964, la crescita dell’economia svizzera
non venne praticamente ostacolata da nessun intervento importante delle
autorità politiche o di quelle monetarie. Anche l’immigrazione di mano d’opera estera, pur svolgendosi in regime di controllo (la legge di controllo sul-
32
Dal paradiso al purgatorio
l’immigrazione era del 1933), non conobbe, oltre alla richiesta di un permesso di lavoro valido, restrizioni di sorta. I tassi di crescita elevati di questo periodo furono raggiunti, da noi come nel resto dell’Europa occidentale, per il forte aumento di tutte le componenti della domanda globale ma, in
particolare, degli investimenti privati e di quelli pubblici.
Domanda globale
Le teorie macroeconomiche e la contabilità nazionale contrappongono, a livello di un intero sistema economico, due aggregati:
– l’aggregato della produzione (o offerta globale)
– e quello della domanda globale
La domanda globale, a sua volta, è formata dalla somma dei consumi
privati, dei consumi pubblici (spesa degli enti pubblici), degli investimenti privati e del saldo tra esportazioni e importazioni
Domanda globale =
Consumi privati + Investimenti privati +
Consumi pubblici + Esportazioni - Importazioni
Per Keynes, la domanda globale è il determinante della crescita. Per i
neoclassici, invece, il determinante della crescita è l’offerta globale
(legge di Say, o legge degli sbocchi). Se l’economia fosse in equilibrio,
la domanda globale sarebbe uguale all’offerta globale (è l’ipotesi sulla
quale si basa la contabilità nazionale). Se la domanda eccede l’offerta,
il livello dei prezzi sale e l’economia può conoscere l’inflazione. Se
l’offerta supera la domanda si ha invece la crisi con riduzioni di produzione.
Nel caso dell’economia ticinese, le componenti più importanti della domanda globale sono state il consumo privato, con un tasso di aumento annuale
superiore al 4% e gli investimenti (privati e pubblici) che, nei primi trenta
anni dopo la seconda guerra mondiale, hanno conosciuto un tasso di crescita superiore al 10%. Poiché in questo periodo, nonostante il forte aumento
dei posti di lavoro e l’aumento sostenuto della produttività, il potenziale di
produzione aumentava meno rapidamente della domanda globale, con il
tempo, si manifestò nell’economia svizzera e in quella ticinese un fenomeno che i politici del tempo definirono di “surriscaldamento” che ebbe per
effetto un aumento significativo del livello dei prezzi.
Parte prima: il paradiso
33
Per tagliare la testa all’inflazione nel 1963 e nel 1964 la Confederazione
introdusse, per la prima volta, misure con le quali si intendeva restringere
l’ulteriore espansione delle varie componenti della domanda globale o, per
lo meno, frenarne lo sviluppo. Tra le stesse figuravano misure di contenimento degli investimenti nella costruzione e misure di limitazione all’immigrazione della manodopera estera. A partire dal 1964, l’immigrazione si
fece per contingenti fissati di anno in anno, in relazione al bisogno effettivo di mano d’opera, ma anche tenendo conto della situazione congiunturale. Citiamo i primi decreti di freno alla congiuntura non solo perché si trattava della prima volta, nel dopoguerra, che il governo interveniva per stabilizzare la congiuntura, ma anche perché attorno a queste misure nacque, a
livello nazionale, un dibattito interessante sulla continuità nel tempo del processo di crescita sostenuta e sulla necessità di riforme di struttura in campi
come il fondiario e gli investimenti pubblici. Questo dibattito doveva avere
un’interessante ripercussione in Ticino nella discussione tra i partners sociali sulla programmazione dell’economia. Nei fatti la tesi di chi sosteneva che
la crescita della seconda metà degli anni cinquanta, inizio degli anni sessanta, non era una febbre transitoria, ma sarebbe continuata nel tempo
(Kneschaurek, 1965) parve confermarsi con l’aumento dei prezzi negli anni
successivi. Nel 1971 (in giugno con un decreto urgente che limitava la possibilità di costruire e, in ottobre, con un altro decreto urgente che cercava di
limitare l’afflusso di capitali dall’estero), il Consiglio federale fu costretto
a intervenire di nuovo per cercare di contenere l’evoluzione inflazionistica.
Ma oramai eravamo arrivati quasi alla fine del periodo di sviluppo paradisiaco.
La fine degli anni dell’abbondanza fu segnata da avvenimenti di portata
internazionale. Dapprima dall’abbandono del sistema di Bretton Woods,
nella primavera del 1973 e, poi, dal primo “choc dei prezzi del petrolio” del
settembre 1973, con forti ripercussioni sull’evoluzione dell’inflazione nel
1974 e con una forte recessione nel 1975. Come viene spiegato nel riquadro, a pag. 30, nel 1973, le economie più importanti del globo decidevano
di passare dal regime dei cambi fissi al regime dei cambi variabili. Questa
decisione fece lievitare il valore del franco svizzero sui mercati delle divise in modo molto rapido e di sicuro compromise la capacità concorrenziale della produzione elvetica sui mercati mondiali.
La caduta del regime dei cambi fissi segnò l’avvio di forti turbolenze nell’economia mondiale. Di particolare importanza furono i due cosiddetti
“choc dei prezzi del petrolio” che, a partire dal 1975, generarono una for-
34
Dal paradiso al purgatorio
te recessione. Questi avvenimenti dovevano lasciare il segno anche in
Ticino. Dopo il 1973, con l’avvento del primo choc del petrolio (si veda
il riquadro a pag. 31 per i dettagli), lo sviluppo dell’economia ticinese
– che soffriva anche del blocco delle costruzioni e dell’impossibilità di
vendere immobili a stranieri (decreto Von Moos, prolungato per più
decenni) – cominciò a marcare il passo. I tassi di crescita calarono. Nel
1975, come in Svizzera, anche in Ticino si registrò una forte recessione.
Dopo di che, come dimostrano anche i tassi della figura 1, l’economia
ticinese non seppe più ritrovare lo slancio che aveva conosciuto nei due
decenni precedenti.
1973: la fine del sistema di Bretton Woods
Per facilitare la ripresa degli scambi internazionali, dopo la seconda
guerra mondiale, nel giugno del 1944 fu firmato da 44 paesi a Bretton
Woods un accordo con il quale veniva creato il Fondo Monetario
Internazionale. L’accordo prevedeva inoltre l’introduzione di cambi
fissi delle divise dei paesi aderenti rispetto al dollaro e un rapporto fisso
del dollaro rispetto al prezzo dell’oro.
I primi segni di difficoltà di questo sistema si manifestarono alla fine
degli anni sessanta, in seguito a forti acquisti di oro da parte di speculatori che si aspettavano una modifica del prezzo dell’oro in dollari. A
queste difficoltà si pose fine concedendo al prezzo dell’oro di fluttuare, mentre nel medesimo tempo le banche centrali dei paesi aderenti
avrebbero continuato a regolare i loro scambi con un prezzo fisso di $
35 l’oncia. Da allora gli attacchi di natura speculativa al dollaro si succedettero per diversi anni, senza che la comunità internazionale trovasse un mezzo per fermarli. Finalmente, all’inizio di marzo del 1973 si
arrivò alla drastica decisione di chiudere i mercati delle divise. Alla riapertura, il 19 marzo, le maggiori divise europee cominciarono a fluttuare nei confronti del dollaro. I principi di Bretton Woods erano oramai sotterrati per sempre. Si apriva l’era dei cambi variabili. Per la
Svizzera la conseguenza economicamente più importante fu la rivalutazione del franco rispetto alla maggior parte delle divise europee e al
dollaro. Se, prima del 1970, mille lire italiane valevano ancora 7 franchi, alla fine degli anni settanta, il cambio lira/franco si assestò sul franco e quaranta per mille lire. La svalutazione della lira rispetto al franco mutò del 100% o quasi i rapporti di scambio alla frontiera del Ticino
con l’Italia. La capacità concorrenziale delle ditte esportatrici svizzere venne compromessa. Da allora esiste quella che i commentatori eco-
Parte prima: il paradiso
35
nomici amano chiamare “l’isola svizzera dei prezzi”. I prezzi dei beni
al consumo sono in Svizzera del 30 al 50% superiori ai prezzi dei medesimi prodotti nel resto dell’Europa.
Con l’abbandono dell’accordo di Bretton Woods terminava la fase di ricostruzione delle economie europee, dopo la seconda guerra mondiale. Per
gli economisti tradizionali, che consideravano le misure di questo accordo come straordinarie e da abbandonare il più presto possibile, una volta che gli scambi internazionali si fossero stabilizzati, in seguito alla ripresa delle economie colpite dalla guerra, la decisione della primavera del
1973 rappresenta un ritorno allo stato normale, dove è il mercato a decidere del valore delle divise e non un accordo tra paesi. In Svizzera, la
maggioranza degli economisti del tempo, fecero loro questa posizione
senza, pensiamo, riflettere molto sulle conseguenze che un mercato dominato da speculatori poteva avere sul valore del franco svizzero e, di sicuro, senza pensare che una possibile rivalutazione del franco, in seguito al
passaggio al regime dei cambi fissi, avrebbe potuto durare nel tempo,
compromettendo la capacità concorrenziale dell’industria nazionale. Né
ci fu chi previde l’enorme spinta verso l’alto del livello dei nostri prezzi
all’esportazione con le conseguenze negative che la stessa ebbe. Per
nostra fortuna nel 2001 l’Unione Europea, introducendo l’euro in diversi paesi, ha, di fatto, ricreato una situazione di cambi fissi, per lo meno
all’interno dell’area euro, situazione che, da un paio d’anni, facilita il
commercio di frontiera del Ticino con l’Italia. Se tuttavia l’area euro
dovesse estendersi, includendo i nuovi paesi membri dell’UE, è difficile
che il tasso di cambio franco/euro possa restare, in futuro, ai livelli attuali. Più attendibile è una situazione che riporti il rapporto a quello che era
al momento in cui l’euro fu introdotto, il che, di nuovo, ci sfavorirebbe
nei nostri scambi con l’Italia.
Gli choc dei prezzi del petrolio
Nel corso degli anni settanta dello scorso secolo, per decisione del cartello dei paesi produttori di petrolio (OPEC) il prezzo del petrolio sui
mercati europei e americani aumentò rapidamente a due riprese.
Nell’autunno del 1973, il prezzo fu portato da 13 a 30 $ il barile,
lasciando aumentare l’indice svizzero dei prezzi all’importazione del
20%, con ripercussioni ovviamente inflazionistiche sui prezzi al consumo nel 1974. Nel 1979 la situazione si ripeté.
36
Dal paradiso al purgatorio
6. L’economia ticinese in paradiso: effetti a livello del potenziale
di produzione
Il lungo periodo di crescita, dalla fine degli anni quaranta alla metà degli
anni settanta del secolo scorso, trasformò profondamente il potenziale di
produzione dell’economia ticinese. Per la prima volta, dall’inizio della rivoluzione industriale, il mercato del lavoro ticinese conobbe una situazione di
eccedenza di domanda. Finalmente i ticinesi non erano più obbligati a
lasciare il Cantone per trovare un’occupazione. La disponibilità di risorse
permise poi di recuperare il ritardo in materia di infrastrutture (il cosiddetto capitale sociale). Da questo profilo, gli investimenti più importanti riguardarono la produzione di energia elettrica (con gli impianti della Blenio e
della Maggia), l’estensione e il continuo miglioramento della rete stradale,
nonché il grosso balzo in avanti fatto in materia di infrastrutture locali, dal
completamento delle fognature alla costruzione dei palazzi scolastici e delle
strutture per il tempo libero (palestre, campi sportivi, piscine). Infine, lo sviluppo dell’economia innestò un processo di crescita autonomo, sostenuto
dall’espansione del settore dei servizi. I rami di produzione che più contribuirono alla crescita dell’economia ticinese in questo periodo furono: l’edilizia e il genio civile, il turismo, le banche, i trasporti e l’artigianato dell’automobile.
Il raggiungimento della piena occupazione
Fino alla seconda guerra mondiale, il Cantone Ticino era una regione che
esportava mano d’opera. In altre parole, la domanda di lavoro della sua economia non bastava ad occupare tutti coloro che, nel Cantone, erano alla
ricerca di un’occupazione. Dal 1850 al 1920 circa, l’esportazione di mano
d’opera avveniva in due forme:
– l’emigrazione definitiva in paesi d’Oltre Oceano
– l’emigrazione stagionale
Dal 1920 in poi, l’emigrazione definitiva non è più importante perché gli
Stati Uniti introducono le loro leggi sul contingentamento dell’immigrazione e perché in Argentina comincia la parabola discendente che porterà
questa economia, che fu, all’inizio del secolo XX°, tra le prime del mondo, praticamente al fallimento verso la fine del secolo stesso. Continua
invece, fino al 1937 circa, l’emigrazione stagionale, ostacolata però, nel
corso degli anni trenta, dalla crisi mondiale. In cifre si può ricordare che
l’emigrazione stagionale, che, verso il 1870, coinvolgeva più di 5'000 persone (ossia quasi il 10% della popolazione attiva del Cantone di allora)
cominciò a diminuire con lo sviluppo del Cantone, nel periodo successivo all’apertura della galleria ferroviaria del S. Gottardo. Nel 1912, però,
Parte prima: il paradiso
37
interessava ancora più di 4'000 persone. La crisi degli anni trenta ridusse
le possibilità di lavoro anche per gli emigranti stagionali. Nel 1935, il loro
numero si ridusse a circa 1'700 per risalire però di nuovo a 3'000 unità
nel 1940. Finita la seconda guerra mondiale, il numero dei lavoratori stagionali diminuì rapidamente e si assestò sulle poche centinaia (sicuramente meno dell’1% della popolazione attiva). Si trattava per la maggior parte di persone che svolgevano stages o restavano comunque per periodi di
breve durata in aziende di Oltre S. Gottardo. La domanda di lavoro interna, in forte aumento, superò rapidamente l’offerta interna (si veda
Viscontini, 2005).
La piena occupazione interna essendo stata realizzata, verso la metà degli
anni cinquanta del XX° secolo, cominciò a diventare importante l’immigrazione di lavoratori stranieri, sia di lavoratori residenti (magari solo per
qualche mese come gli stagionali), sia di lavoratori frontalieri. I disoccupati, d’altra parte, non superavano più il centinaio di unità e restarono a
quota bassa fin verso la metà degli anni settanta. Questo perché, da un
lato, l’assicurazione sulla disoccupazione (base del censimento dei disoccupati) non era generalizzata, e, d’altro lato, perché la richiesta di manodopera era sempre sostenuta. Di conseguenza il Ticino non solo poté arrestare l’emigrazione dei suoi lavoratori, ma, ben presto, diventò tributario
di altri paesi in materia di manodopera. I lavoratori stranieri (frontalieri
compresi) passarono così da 8'900 unità nel febbraio del 1950 a 40'700
nel febbraio del 1964, con un tasso di aumento annuale pari al 12.4%. I
rilevamenti di agosto, che cominciarono solo nel 1956, mostrano un
aumento da 21'200 unità nel 1956 a 54'600 nel 1963, con un tasso di
aumento annuale pari al 14.4%. Stando ai dati pubblicati dal prof.
Kneschaurek, nel suo studio sullo stato dell’economia ticinese, il rapporto tra lavoratori immigrati (frontalieri compresi) e popolazione attiva del
Cantone aumentò in modo molto rapido a partire dal 1950, passando, in
poco più di 10 anni, dal 7% circa al 35% (Kneschaurek, 1964). Ciò che
colpisce in questa evoluzione non è solo la facilità con la quale l’obiettivo del pieno impiego ha potuto essere realizzato, ma anche il modo nel
quale l’economia ticinese ha saputo trasformare quello che era uno dei
suoi handicap più gravi (l’eccesso di offerta di manodopera) in uno dei
suoi vantaggi di localizzazione essenziale. Si può in conclusione affermare che, nonostante l’importanza degli investimenti, privati e pubblici,
realizzati dal 1945 al 1975, la crescita dell’economia ticinese (come del
resto quella dell’economia svizzera) di questo periodo resta contraddistinta dal ricorso a processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Si investiva allora per creare posti di lavoro, non per ridurli!
38
Dal paradiso al purgatorio
Il recupero infrastrutturale
Come abbiamo già osservato, gli investimenti costituirono la componente
della domanda globale che crebbe più rapidamente, durante il periodo del
paradiso della crescita. Il tasso di aumento annuale degli investimenti, in
questo periodo si aggirò attorno al 10%. Il consumo privato, altra componente importante della domanda globale della regione, non aumentò invece, nel periodo in esame, che a un tasso annuale pari al 4-4.5%. La seconda osservazione importante che riguarda l’evoluzione degli investimenti è
che gli stessi furono praticamente concentrati nel settore dell’edilizia.
L’aumento del capitale reale a disposizione dell’economia ticinese si realizzò quindi, in questo periodo, più nella forma di infrastrutture (di trasporto, energetiche, ospedaliere, formative e scolastiche, assistenziali, amministrative, ecc.) che di acquisti di macchine e sistemi elettrici e elettronici per
attrezzare gli impianti di produzione delle aziende private. Dal 1950 al 1975,
in parallelo alla crescita, l’economia ticinese recupera così il suo ritardo
infrastrutturale.
Figura 2: Evoluzione degli investimenti privati e pubblici in Ticino
Fonte: per il periodo 1950-1961 Kneschaurek F. (1964) , per il resto del periodo la stima è dell’autore
Da questo punto di vista gli investimenti più importanti sono stati realizzati:
– nel settore energetico con la realizzazione degli impianti di Blenio e
Maggia
– nel settore stradale con tutte le migliorie della rete stradale realizzate in
quel periodo e l’avvio dei lavori per l’autostrada Chiasso-Gottardo
Parte prima: il paradiso
–
39
nel settore immobiliare: costruzione di appartamenti e case ( importanti gli appartamenti e le case di vacanza), costruzione di immobili a destinazione amministrativa, scolastica, industriale e commerciale.
Osserviamo infine che l’investimento pubblico, pur essendo, durante la
maggior parte del periodo, meno importante di quello privato, ha avuto una
parte significativa nell’incentivare la crescita dell’economia ticinese e questo per due ragioni:
– in primo luogo perché, all’inizio del periodo, dette alla crescita un
impulso altrettanto importante dell’investimento privato;
– in secondo luogo, perché durante questo periodo l’investimento pubblico giocò un ruolo anticiclico, contribuendo a smorzare l’impatto della
recessione sia nella seconda metà degli anni sessanta, sia nel 1975.
Pensiamo sia utile rilevare, prima di chiudere questo paragrafo dedicato agli
investimenti, che il tasso elevato di investimento di questo periodo fu consentito dall’afflusso dall’esterno di ingenti capitali alla ricerca di un collocamento in Svizzera (Rossi A., 1975). Questo afflusso fu all’origine della
piazza bancaria e finanziaria ticinese e, fino al 1972 permise lo sviluppo di
una bolla speculativa importante nel settore immobiliare. La stessa fu bloccata e venne fatta esplodere dai provvedimenti anticongiunturali della
Confederazione, adottati proprio in quell’anno. Senza ombra di dubbio le
misure di freno agli investimenti nel settore immobiliare devono essere
aggiunte al ritorno ai cambi variabili e agli choc petrolieri nella lista dei fattori che misero fine al paradiso della crescita in Ticino.
La terziarizzazione dell’economia
Lo sviluppo del settore terziario si manifestò, nelle economie avanzate, nel
periodo di crescita che seguì la seconda guerra mondiale. In Svizzera, il settore dei servizi diventò il primo settore per importanza del suo impiego verso
la metà degli anni sessanta del secolo XX°.
I tre settori di produzione di un’economia
I rami di produzione di un’economia vengono raggruppati nelle analisi economiche, come pure in molte statistiche, per comodità di esposizione, in tre settori:
– il primario che comprende le attività legate alla natura come l’agricoltura, la foresticoltura e la pesca
– il secondario che comprende le miniere, la produzione di energia, le
attività manifatturiere e l’edilizia
40
Dal paradiso al purgatorio
– il terziario che è il settore dei servizi (attività che forniscono un prodotto immateriale). Tra i servizi più importanti, almeno in termini di
impiego, citiamo le attività commerciali, le attività di trasporto, l’industria della gastronomia e alberghiera, le attività finanziarie, le amministrazioni, le attività di formazione e le attività sanitarie e sociali.
Nel corso del processo secolare di sviluppo di un’economia, la sua
struttura di produzione per grandi settori si modifica, seguendo una tendenza che si manifesta praticamente in tutte le economie. All’inizio del
processo di sviluppo, il settore di produzione più importante è il primario. Più tardi, con la rivoluzione industriale, si affermano le attività
manifatturiere. Infine, la struttura di produzione si evolve in direzione
dei servizi, ossia del settore terziario. La terziariazzione comporta una
dematerializzazione della produzione che toglie importanza al trasporto e alle tariffe doganali, come pure ad altri costi basati sul peso o sul
valore materiale del prodotto, mentre dà importanza all’informazione
e alla conoscenza scientifica.
Anche in Ticino la trasformazione settoriale che portò al prevalere del settore terziario si produsse nel corso degli anni sessanta del secolo scorso. Lo
provano i due grafici che seguono.
Figura 3: Evoluzione della struttura dell’occupazione per grandi settori di produzione in
Ticino, dal 1950 al 1970.
Fonte: Censimenti federali della popolazione
Parte prima: il paradiso
41
Mentre la quota del primario nella popolazione attiva diminuì fortemente,
la quota del terziario diventò preponderante. Il settore secondario riuscì, fino
al 1970, a mantenere la sua quota. In seguito perse una parte della sua importanza a favore del terziario. Osserviamo che all’abbandono dell’agricoltura
e allo sviluppo del settore dei servizi si accompagnarono due fenomeni
altrettanto importanti a livello della società, ossia:
– la mobilità sociale, risoltasi in una generazione, grazie alla generalizzazione degli studi superiori. Il figlio del contadino diventò così direttore di banca;
– e l’urbanizzazione della popolazione con conseguente spopolamento
dei villaggi di montagna e delle valli. I posti del terziario si concentrarono nei quattro agglomerati di Bellinzona, Locarno, Lugano e
Mendrisio/ Chiasso.
7. L’economia ticinese in paradiso: il miglioramento delle condizioni di vita
Se per l’economista le caratteristiche importanti del periodo di forte crescita sono le trasformazioni conosciute dal potenziale di produzione, per l’uomo della strada la conseguenza più importante della crescita sostenuta è stata
il miglioramento del suo benessere materiale. I tassi di aumento annuale del
reddito pro-capite, della tabella 1, offrono una prima illustrazione di questo
apporto di ricchezza. Nel periodo dal 1945 al 1975 il tasso di aumento del
reddito pro-capite è stato però più forte di quello medio, registrato per il
terzo ciclo di Kondratieff nella tabella 1. In termini reali, ovverossia eliminando l’effetto dell’aumento dei prezzi, il tasso di crescita annuo del reddito pro-capite nei primi trenta anni del dopoguerra è stato pari al 6% circa.
Questo significa che, durante il periodo considerato, il potere di acquisto
del ticinese medio si raddoppiava ogni 12 anni. Grazie a questo rapido
aumento del potere di acquisto divenne possibile per i ticinesi soddisfare
consumi che, prima della seconda guerra mondiale, erano per la maggioranza di loro certamente inaccessibili. Se è vero che il cambiamento forse
più evidente, in termini di benessere, fu quello che si realizzò nella dieta
quotidiana del ticinese medio, altrettanto importante fu l’affermarsi di un
nuovo comportamento nella spesa, determinato per l’appunto, dal forte
aumento del potere di acquisto di cui il ticinese poteva ora disporre.
L’aumento nel potere di acquisto permette al ticinese di orientarsi verso l’acquisto di beni di consumo durevoli (ma non la casa, un bene che, nel dopoguerra, diventa rapidamente troppo caro per il ticinese oramai inurbato (si
veda Rossi A., 1985)). Gli elettrodomestici, il telefono, la radio e, più tardi,
la televisione, il giradischi, la macchina fotografica e, più tardi, la cinepre-
42
Dal paradiso al purgatorio
sa sono i prodotti che normalmente vengono citati quando si vogliono indicare gli esempi più conosciuti di questo nuovo orientamento della spesa. Per
quel che riguarda l’entità delle somme spese, però, gli esempi più importanti della nuova inclinazione all’acquisto di beni durevoli sono:
– il titolo universitario per i figli
– l’automobile
– le vacanze
La mobilità sociale
Il periodo di forte crescita, dal 1940 al 1975, è anche un periodo di mobilità sociale sostenuta. I figli degli agricoltori delle valli e della montagna,
grazie all’aumentato potere di acquisto dei genitori, possono accedere agli
studi superiori e diventare, in un’economia che si terziarizza rapidamente,
quadri direttivi o liberi professionisti. Il processo dura diversi anni. Tuttavia
l’ascensione sociale si realizza nel giro di una generazione. La figura 4 illustra lo sviluppo di questo processo al momento in cui incomincia, ossia al
momento dell’accesso agli studi universitari. Il tasso di aumento annuale
del contingente di studenti universitari è molto vicino al tasso di aumento
annuale del reddito pro-capite durante il periodo analizzato.
Dal 1959 al 1975, in meno di venti anni dunque, il numero degli studenti ticinesi negli atenei svizzeri si moltiplica per quattro. Il numero delle
Figura 4: Evoluzione del numero degli studenti ticinesi negli atenei svizzeri, dal 1950
al 1975
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
Parte prima: il paradiso
43
donne ticinesi che studiano si moltiplica, dal 1960 al 1975, per otto.
Osserviamo che il numero degli studenti universitari ticinesi comincia ad
aumentare verso la fine degli anni cinquanta e ad accelerare il ritmo di
aumento nella seconda metà degli anni sessanta. Le conseguenze in termini di mobilità sociale negli studi sono straordinarie: mentre nel 1950
solo 1 ticinese su 25 di una data classe d’età arrivava all’università, nel
1975 questo rapporto era sceso a 1 su 8.
Con un titolo universitario in tasca, ovviamente, il giovane ticinese e, a
partire da metà anni sessanta, la giovane ticinese potevano aspirare a una
carriera professionale molto più importante di quella che avevano potuto fare i loro genitori. L’aumento del numero dei laureati mette a disposizione dell’economia cantonale un’offerta di lavoro altamente qualificata che la aiuterà nel procedere del processo di terziarizzazione. Ma
all’inizio del fenomeno della mobilità sociale attraverso gli studi universitari, negli anni sessanta, i laureati ticinesi preferivano entrare al servizio dello Stato invece di operare per le aziende private del Cantone.
Queste, a loro volta, erano obbligate a far ricorso a giovani qualificati
di Oltre S. Gottardo per soddisfare il loro bisogno in quadri. Si trattava
di una realtà riscontrabile soprattutto nel settore industriale. Tuttavia,
anche tenendo conto di questa “distorsione” tra offerta e domanda di
qualifiche bisogna riconoscere che il progresso compiuto in Ticino, dalla fine degli anni cinquanta dello scorso secolo al 1975, in termini di
mobilità sociale, non ha precedenti nella storia del Cantone ed è eguagliato solo dal progresso manifestatosi nei venticinque anni seguenti.
Ricordiamo da ultimo che il merito di questa promozione è da suddividere tra i privati che si assunsero il finanziamento degli studi dei loro
figli, sopportando sicuramente grandi sacrifici, e lo Stato che, a partire
dalla metà degli anni sessanta e fino alla fine del secolo mise a disposizione borse di studio generose.
Il fenomeno della motorizzazione privata
Prima della seconda guerra mondiale circolavano in Ticino solo un paio
di migliaia di automobili. La vera e propria ondata di motorizzazione,
con automobili private, cominciò, come si può dedurre dal grafico che
segue, nella seconda metà degli anni cinquanta ed è quindi da attribuire
allo sviluppo del benessere materiale dei ticinesi. Mentre, nel 1950, solo
una famiglia su nove, in Ticino, possedeva l’automobile, nel 1975, il
numero delle automobili in circolazione era pari al numero di famiglie.
L’automobile era diventato un mezzo di trasporto generalizzato.
44
Dal paradiso al purgatorio
Figura 5: Evoluzione del numero di automobili in circolazione in Ticino, dal 1950 al 1975
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
L’aumento del numero di automobili in circolazione è stato rapidissimo. Il
tasso di aumento annuale fu, nel periodo analizzato, superiore al 10%. Con
la generalizzazione dell’automobile come mezzo di trasporto famigliare,
aumentò naturalmente anche la mobilità dei ticinesi. L’automobile permise
infatti sia l’intensificazione dei movimenti pendolari, sia la mobilità del
tempo libero (acquisti settimanali nei supermercati, vacanze). La mobilità
del tempo libero aumentò anche perché, verso la metà degli anni sessanta,
grazie a una riduzione del tempo di lavoro settimanale, per una larga parte
della manodopera fu possibile ottenere il sabato libero.
I movimenti pendolari
Si tratta di flussi giornalieri di lavoratori che esercitano la propria attività in un comune diverso dal comune di domicilio. Essi sono particolarmente importanti all’interno degli agglomerati urbani, ossia di quelle regioni formate dalla città che, in un’economia terziarizzata, rappresenta normalmente il centro dell’attività di lavoro e da diversi comuni
suburbani nei quali si sviluppano soprattutto le abitazioni dei lavoratori. Mentre nel 1950 il numero dei pendolari era ancora relativamente
limitato, nel 1970, in alcuni comuni suburbani, da un terzo alla metà
della popolazione attiva residente svolgeva la sua attività lavorativa in
un altro comune, in particolare nel centro dell’agglomerato.
Parte prima: il paradiso
45
Il rovescio della medaglia della motorizzazione privata generalizzata è rappresentato dai suoi costi sociali. Nel corso del periodo in esame, il numero degli
incidenti sulle strade del Ticino si moltiplicava per 4 e il numero dei morti si
moltiplicava per 5. Nel 1970, i morti in incidenti stradali erano 100. Per fortuna
questa cifra cominciò in seguito a diminuire, tanto che oggi, nonostante l’aumentato volume di traffico, il numero dei morti è annualmente inferiore alle 30
unità. Il contributo della circolazione di veicoli all’inquinamento dell’aria, invece, non ha cessato di aumentare almeno fin verso la fine del secolo. Solo nel corso degli ultimi anni si è potuto stabilizzare a un livello però ancora troppo alto.
Il tempo libero
È il bene che contraddistingue l’apparizione dell’agiatezza in ogni società.
Grazie all’incremento della produttività, che si è manifestato durante tutto
il periodo della crescita paradisiaca, la durata della settimana lavorativa
diminuì. La diffusione dei contratti collettivi di lavoro aiutò a generalizzare dapprima le due, poi le tre settimane di vacanza pagate. Le attività del
tempo libero diventarono quindi importanti. Sia le attività di formazione
continua, la cui diffusione verrà facilitata dalla creazione di scuole e programmi specialmente pensati per l’insegnamento agli adulti, sia le attività
sportive, sia ancora le vacanze, cominciano ad occupare un posto importante nella vita quotidiana del ticinese e nel budget della sua famiglia.
Figura 6: Evoluzione della quota di spesa famigliare dedicata all’educazione e al tempo
libero
Fonte: contabilità domestiche riportate nell’annuario statistico cantonale
Ancora non siamo arrivati all’inversione nei valori dell’individuo che si
manifesterà qualche anno più tardi: l’attività lavorativa continua a costituire, con la famiglia, il centro degli interessi dei ticinesi. Tuttavia il tempo libero e le sue attività acquistano progressivamente importanza. Lo
46
Dal paradiso al purgatorio
testimoniano anche gli investimenti che l’ente pubblico, in particolare i
comuni, cominciano a dedicare alle infrastrutture per lo sport e il tempo
libero, nel corso degli anni sessanta. Di uguale importanza, almeno rispetto alle risorse disponibili, sono gli investimenti dei ticinesi per il riattamento di proprietà immobiliari nelle valli e in montagna che vengono poi
utilizzate dalla famiglia come residenze secondarie per i soggiorni estivi
e di fine settimana. Alla transumanza, vita di sforzi e di sacrifici dei secoli precedenti, i ticinesi della seconda metà del secolo XX° sostituiscono
la mobilità del tempo libero. I ticinesi approdano così, dopo il 1960, nella società dei consumi e del benessere.
8. L’intervento del Cantone nel processo di crescita
La forte crescita del periodo 1950-1975, il periodo del paradiso economico,
fu determinata, in Ticino come in tutti gli altri Cantoni svizzeri e nei paesi
dell’Europa occidentale, secondo il parere quasi unanime degli esperti, dal
rapido aumento di tutte le componenti della domanda globale. Come abbiamo già visto, la spesa dello Stato è una di queste componenti. Essa assume
un’importanza particolare perché può essere utilizzata in funzione anticiclica. Quando la congiuntura economica si indebolisce, lo Stato può, aumentando il debito pubblico, incrementare la propria spesa, cercando di mantenere così il livello della domanda globale per attenuare la recessione. Poiché
il Cantone svizzero dispone di un margine assai largo di autonomia finanziaria, appare interessante esaminare come nel caso del Canton Ticino si sia
fatto uso della spesa dello Stato a fini di politica di controllo congiunturale
e di stimolo alla domanda globale. L’intervento dello Stato per favorire la
crescita o per controllarla può però esprimersi anche attraverso la sua politica fiscale. Di nuovo, in uno Stato federalista come la Svizzera, i Cantoni
dispongono di un buon margine di autonomia nel disegnare la loro politica
fiscale. È quindi opportuno estendere l’esame della gestione della domanda
globale da parte del Cantone anche alla politica fiscale e al suo possibile
impatto sui consumi e sugli investimenti privati. Infine il Cantone ha attuato, nel periodo di forte crescita in esame, anche una politica di sostegno e di
rafforzamento del potenziale di produzione, con strumenti e risultati che pure
conviene esaminare.
La gestione della componente pubblica della domanda globale
Gli anni dal 1950 al 1975 sono anni in cui la componente pubblica della
domanda globale si sviluppa in modo molto rapido. Nella figura 7 abbiamo
riportato l’evoluzione della spesa di funzionamento del Cantone e quella del
Parte prima: il paradiso
47
debito pubblico consolidato dal 1950 al 1975. Durante il periodo analizzato,
le due curve si sono sviluppate in modo parallelo.
Figura 7: Evoluzione della spesa e del debito del Cantone dal 1950 al 1975
Fonte: Pellanda, 1988
Il tasso di aumento annuale della spesa dello Stato fu del 7.5%. Osserviamo
però che questo tasso si riferisce ai valori nominali della spesa pubblica e
non – come nel caso del tasso di crescita del reddito cantonale – a valori
reali. Il 1962 rappresenta un anno chiave nella gestione finanziaria dello
Stato in quanto, da un lato, a partire da questa data, il tasso di crescita della
spesa e del debito pubblico aumentano e, dall’altro, come si può desumere
dal grafico 7, l’entità della spesa dello Stato supera quella del debito pubblico. Come negli altri Cantoni e negli altri paesi europei, l’aumento della
spesa dello Stato fu forte specialmente nel settore sociale (aumento del 17%
annuale) anche se l’economia, in questo periodo, funzionava in regime di
piena occupazione. Pure l’educazione vide i mezzi a sua disposizione
aumentare a un tasso superiore alla media (11.7% annuale), mentre l’economia pubblica (agricoltura e lavoro) fu, in quel periodo, il dipartimento la
cui spesa aumentò di meno (6.1%). Osserviamo ancora che, con tutta probabilità, la spesa dei comuni aumentò pure a un ritmo sostenuto contribuendo così a rafforzare la componente pubblica della domanda globale.
Contemporaneamente però aumentava la quota della spesa pubblica nel reddito cantonale – qui calcolata come rapporto tra la somma delle spese del
48
Dal paradiso al purgatorio
Cantone e dei comuni e il reddito cantonale – che passava dal 21-22% degli
anni cinquanta al 28-29% dell’inizio degli anni settanta.
Figura 8: Evoluzione della quota* del Cantone nel reddito cantonale
* In questo capitolo la “quota del Cantone” nel reddito cantonale è il rapporto tra la somma
delle spese del Cantone e dei comuni e il reddito cantonale
Fonte: calcoli dell’autore
La politica fiscale
La tassazione del reddito e della sostanza delle persone fisiche e quella
dell’utile e del capitale delle persone giuridiche hanno sicuramente influito sull’evoluzione delle componenti private della domanda globale (consumi e investimenti). È importante ricordare, a questo proposito, che il
Cantone Ticino ha introdotto solo all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso la tassazione diretta del reddito. Durante il periodo di forte crescita economica, il ritmo di aumento del gettito delle imposte dirette è
stato molto rapido. Il tasso di aumento annuale del gettito fiscale è stato
del 12.2%, mentre il reddito cantonale, in termini nominali, è aumentato
annualmente solo del 7.8%. Anche l’incidenza delle imposte nel reddito
cantonale è quindi aumentata nel corso del periodo analizzato. Limitando
la nostra analisi al gettito del Cantone possiamo osservare che l’incidenza di questi nel reddito cantonale è passata dal 3.3% nel 1950 all’8.5%
nel 1973. Questa evoluzione è da attribuire all’effetto della cosiddetta
“progressione a freddo”. Il persistere di questo effetto, nonostante le frequenti revisioni della tabella delle aliquote di imposizione doveva portare, verso la metà degli anni settanta, alla richiesta, espressa in maniera
Parte prima: il paradiso
49
sempre più forte, da parte delle organizzazioni dei contribuenti e dei partiti di destra di rivedere il sistema di imposizione per cercare e eliminare, con un adattamento automatico delle aliquote, gli effetti del fenomeno che, di fatto, veniva ad incidere negativamente sul potere di acquisto
dei consumatori-contribuenti.
La progressione a freddo
La progressione a freddo è l’effetto positivo che l’inflazione ha sul gettito delle imposte sul reddito, quando le aliquote di imposizione del
reddito sono progressive, il reddito aumenta e non esiste un meccanismo per eliminare questo effetto. L’aliquota fiscale di una determinata classe di reddito è il rapporto tra l’imposta che questa classe di reddito paga e il suo totale di reddito imponibile. Per esempio, nella tabella che segue, l’aliquota al tempo t, per la classe di reddito superiore ai
50'000 fr. di reddito imponibile si ottiene dividendo il gettito fiscale (in
1'000 fr.) di questa classe di reddito per il reddito imponibile (in 1'000
fr.) della classe, ossia 500/5000 = 10%. Un contribuente con un reddito imponibile di fr. 60'000, con un’aliquota fiscale del 10%, pagherebbe dunque fr. 6'000 di imposta. Per verificare l’effetto della progressione a freddo abbiamo costruito l’esempio che segue.
Classi di reddito
imponibile
Tempo t
>50’000
<50’000
totale
Tempo t+5
>50
<50
Totale
Reddito imponibile
totale in 1'000 fr.
Aliquota
Gettito
in 1'000 fr.
5000
10000
15000
10%
5%
500
500
1000
8000
11000
19000
10%
5%
800
550
1350
Per effetto delle aliquote diverse di imposizione dell’aumento del
reddito, determinato dall’inflazione, e dello spostamento del reddito imponibile verso la classe più elevata, il tasso di aumento del gettito è superiore al tasso di aumento del reddito. Nel nostro caso, mentre il reddito nei 5 anni è aumentato del 26.6%, da 15 a 19 milioni,
il gettito è aumentato del 35%, da 1 milione a 1.35 milioni. Per evitare che il gettito aumenti troppo rapidamente in periodi di inflazione è necessario correggere le aliquote in modo da adattarle alle modificazioni.
50
Dal paradiso al purgatorio
Sull’incidenza delle imposte sulle persone giuridiche esistono studi
dell’Ufficio delle Ricerche Economiche che proponevano, negli anni sessanta dello scorso secolo, un alleggerimento della tassazione dell’utile e del
capitale per migliorare il grado di attrattiva del Ticino rispetto al resto dei
Cantoni svizzeri. Tenuto conto dei risultati raggiunti in materia di crescita,
nel corso del periodo analizzato, non pensiamo però che la tassazione delle
persone giuridiche abbia costituito un ostacolo alla localizzazione di aziende o abbia compromesso in qualsiasi modo le possibilità di sviluppo dell’economia ticinese. È infine da rilevare che l’aumento rapido del gettito fiscale è stato alla base dell’estensione dei servizi dello Stato e dei suoi investimenti. Poiché questa evoluzione, dovuta sostanzialmente all’effetto della
progressione a freddo, si ritrova nei conti degli altri Cantoni, dei comuni e
della Confederazione, non possiamo escludere che la stessa abbia contribuito in modo significativo al surriscaldamento dell’economia.
Misure per far crescere e per migliorare il potenziale di produzione
Durante tutto il periodo di forte crescita, il Cantone si attivò per aumentare
l’attrattiva del Ticino come localizzazione di aziende del settore manifatturiero. Già all’inizio degli anni cinquanta viene introdotta una legge per la
promozione di nuove iniziative nel settore industriale. La misura più importante, prevista da questa legge, era certamente l’esenzione dal pagamento
delle imposte comunali e cantonali per un certo periodo di tempo.
Importante fu pure l’intervento del Cantone con la partecipazione al capitale dell’Azienda Elettrica Ticinese, creata nel 1958, e con la costituzione
dell’Ente Ospedaliero Cantonale, nel 1978.
Ma forse la misura che dette al Cantone il maggior vantaggio di localizzazione, rispetto alla maggioranza dei Cantoni svizzeri, fu la possibilità, dopo
il 1964, vale a dire dal momento in cui la Confederazione cominciò a contingentare l’immigrazione di lavoratori, di poter ricorrere, senza limitazioni, alla manodopera frontaliera. In seguito a questa misura, il numero dei
lavoratori frontalieri aumentò da circa 11'000, nel 1960, a 23'250 nel 1970.
In un periodo nel quale la crescita della produzione era assicurata dall’estensione dell’occupazione in misura significativa, la possibilità di far ricorso ai frontalieri senza limitazioni, o quasi, costituì un indubbio vantaggio
comparativo per la localizzazione in Ticino di aziende che ricorrevano in
maniera intensa al fattore lavoro. In una prospettiva di lungo termine, però,
dobbiamo riconoscere che fu un vantaggio fuggevole perché, tra l’altro, non
ci permise di recuperare in nessun modo il ritardo in termini di produttività
Parte prima: il paradiso
51
per addetto che l’economia del Cantone già aveva nei confronti del resto
della Svizzera (si veda a questo proposito Baggi M., 1991).
9. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia nel periodo
del paradiso della crescita
Gli ottimi risultati in termini di crescita e di livello occupazionale, ottenuti
durante il periodo de “les trentes glorieuses” furono conseguiti grazie allo
sforzo continuo dello Stato per garantire la stabilità e lo sviluppo dell’economia. Scrivendo questo non si vuol affermare che, se dopo il 1975, le prestazioni in termini di crescita delle economie nazionali dei paesi europei
siano peggiorate è perché si sono affermate, a livello politico, forze che si
opponevano all’intervento dello Stato nell’economia. Sarebbe troppo facile attribuire i mali della nostra e di altre economie europee alle coalizioni
di destra che, dalla fine degli anni settanta, si sono succedute al loro governo e alle loro ricette di politica economica. Non si può però nemmeno negare l’evidenza, ossia che durante il periodo nel quale le politiche di stabilizzazione di breve periodo di tipo keynesiano furono applicate, i governi di
molte nazioni avanzate riuscirono a soddisfarne gli obiettivi principali, ossia
– il raggiungimento della piena occupazione
– un tasso di crescita annuale del PIL sostenuto
– l’equilibrio della bilancia dei pagamenti
– un tasso di inflazione relativamente basso
Questo è vero per lo meno per gli anni cinquanta e gli anni sessanta del XX°
secolo. Con l’abbandono dei cambi fissi, invece, vennero meno, almeno in
Svizzera, le condizioni perché il paradiso economico della crescita potesse
continuare. Nel corso degli anni settanta si aprì un periodo di incertezze
caratterizzato dal fenomeno della “stagflazione”, ossia da una situazione
nella quale l’inflazione si manifestava anche se il tasso di crescita era debole e l’economia stagnava. La politica keynesiana non riusciva a combattere
l’inflazione e, d’altra parte, non sembrava più in grado di rilanciare la crescita dell’economia. Ma torniamo agli anni gloriosi. Senza tema di poter
essere smentiti possiamo sostenere che, in termini di obiettivi economici
centrati, gli anni dal 1945 al 1975 furono gloriosi anche per l’economia svizzera e per quella del Ticino. Pensiamo che, riandando questo periodo, si
possa parlare a giusto titolo di “paradiso perduto”.
Una larga maggioranza di economisti era convinta allora che l’intervento
dello Stato nell’economia fosse necessario, almeno in relazione alla politica di stabilizzazione di breve periodo. Ma alcuni andavano anche più in là.
52
Dal paradiso al purgatorio
Essi sostenevano, e non tutti erano economisti di sinistra, che lo Stato, nel
pieno rispetto delle leggi del mercato, doveva, di fronte al perdurare del
fenomeno di crescita sostenuta, dotarsi addirittura di una politica economica di medio e lungo periodo (che fu chiamata, a seconda delle esperienze,
politica strutturale, politica di pianificazione indicativa, politica di programmazione), che fosse capace di garantire la perpetuazione di questo stato di
grazia e a risolvere i grossi problemi che la crescita determinava a livello di
consumi sociali e di offerta di beni pubblici (Kneschaurek, 1965). Per dare
al lettore del 2005 la possibilità di rendersi conto di quali erano questi problemi, basterà ricordargli che, intorno al 1960, la popolazione residente cresceva a un tasso superiore all’1% annuale, per effetto di un saldo migratorio molto importante. Alle centinaia di migliaia di lavoratori stranieri che
affluivano in Svizzera e, più tardi, ai loro famigliari, occorreva assicurare
un tetto e i servizi pubblici di base (educazione, sanità, trasporti). Per far
fronte a questi problemi la Svizzera dovette per esempio, nel corso degli
anni sessanta, raddoppiare la costruzione di appartamenti e di case, avviare la realizzazione della rete di autostrade, avviare la realizzazione della rete
di stazioni di depurazione delle acque, assicurare un approvvigionamento
energetico che si era moltiplicato per tre. Si trattava di grossi investimenti
con forte partecipazione dello Stato.
In un’inchiesta svolta, all’inizio degli anni sessanta, dall’Istituto di Jan
Tinbergen, un economista olandese, convinto sostenitore della pianificazione economica indicativa, e titolare, più tardi, del premio Nobel di economia, si accertò che ben 19 paesi sviluppati e in via di sviluppo, non comunisti, dichiaravano di sostenere la loro politica economica con una pianificazione a medio termine (Tinbergen, 1964).
Se accenniamo a questa situazione in materia di pianificazione dell’economia in paesi che erano ben lontani dal modello di pianificazione sovietico
è anche perché la pianificazione economica indicativa, nella seconda metà
degli anni sessanta del secolo scorso, fu al centro di un dibattito politico,
condotto in più paesi europei sulla necessità per lo Stato di guidare lo sviluppo dell’economia nazionale nel lungo termine. In Francia, si passò dalle
parole ai fatti con l’introduzione dei piani quinquennali ( il primo fu il piano
1948-1952) che avevano come obiettivi non solo il mantenimento di un tasso
di crescita elevato a livello nazionale, ma anche la correzione delle ineguaglianze esistenti all’interno del territorio francese e l’eliminazione del ritardo che l’economia francese aveva accumulato nel processo di industrializzazione. (Lajugie e altri, 1985). In Italia, le proposte di programmazione
Parte prima: il paradiso
53
economica nazionale restarono a livello di discussione (Saraceno, 1963;
Lombardini, 1967). In Svizzera di pianificazione o programmazione dell’economia a livello nazionale non se ne parlò mai. Ma in questa direzione si
muoveva il progetto di “politica della crescita” elaborato da un gruppo di
studenti dell’università di S. Gallo, sotto la direzione del prof. F.
Kneschaurek, nel 1964. La discussione di questo interessante progetto restò
però confinata alle aule universitarie e a qualche circolo di illuminati come,
per fare un esempio, la Lega del S. Gottardo (Kneschaurek, 1965).
L’esperienza del prof. Kneschaurek come delegato ai problemi economici,
ossia consulente diretto del Consiglio federale per i problemi della crescita
di medio e lungo termine, fu molto breve.
Tuttavia la discussione avviata a S. Gallo è interessante dal punto di vista
storico perché ebbe ripercussioni in Ticino, non solo in forza dell’attività
della Lega del S. Gottardo, ma soprattutto perché alcuni esponenti del partito liberale-radicale, ispirati dalla discussione in atto in Italia, chiesero al
governo cantonale di verificare se, in Ticino, esistevano le premesse per affidare allo Stato il compito di pianificare l’economia. Non si trattava di abbandonare l’economia di mercato e le sue leggi, per sostituirle un sistema pianificato di tipo sovietico. Si trattava unicamente di esaminare cosa poteva
fare lo Stato per anticipare e per facilitare la soluzione dei problemi posti
dalla rapida crescita economica in atto. Il governo ticinese accettò questa
proposta e incaricò il professor Kneschaurek – un economista di origini ticinesi – di studiare il problema e presentare delle proposte concrete.
Il perito del Consiglio di Stato consegnò le sue conclusioni nel 1964, in un
rapporto che è ancora interessante leggere, anche se, con il senno di poi,
certe sue affermazioni possono apparire come superate (Kneschaurek,
1964). La questione della crescita a medio e a lungo termine veniva trattata dal perito nei seguenti termini. “Il ritmo di crescita che l’economia svizzera potrebbe conseguire con le proprie risorse di lavoro e di capitale – vale
a dire senza ulteriore aumento degli investimenti esteri e degli effettivi di
manodopera straniera in Svizzera – si aggira sul 3-31/2% per anno nei confronti di oltre il 5%, nel periodo 1950-1963.” Senza l’apporto dall’esterno,
quindi, il ritmo di crescita dell’economia svizzera rischiava di rallentarsi. Il
rallentamento sarebbe stato anche maggiore per il Cantone perché, secondo il perito, in Ticino
– le possibilità di reclutamento di manodopera erano nettamente inferiori a quelle della maggioranza dei Cantoni confederati, a causa del tasso
di natalità molto basso;
54
–
–
–
Dal paradiso al purgatorio
il grado di qualificazione del potenziale lavorativo ticinese tendeva ad
aumentare in misura inferiore a quello d’Oltre S. Gottardo;
la struttura dell’industria, orientata verso attività che non hanno grandi
possibilità, avrebbe determinato uno sviluppo inferiore alla media svizzera;
l’economia disponeva di un coefficiente di capitale inferiore alla media
svizzera, il che significava che 1 franco investito in Ticino rendeva, in
termini di produzione netta (ossia reddito cantonale) meno che 1 franco investito Oltre S. Gottardo.
Ma il perito non si limitava a esprimere critiche. Nel suo rapporto formulava anche raccomandazioni, in un capitolo dal titolo “Le condizioni per accelerare lo sviluppo economico nel Ticino”. Per il perito del Consiglio di Stato
occorreva rafforzare sia il contributo del fattore di produzione “lavoro”, sia
quello del fattore di produzione “capitale” alla crescita dell’economia.
Dapprima il prof. Kneschaurek considerava il contributo del fattore lavoro
e suggeriva di recuperare manodopera ticinese emigrata perché, nel futuro,
sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, per il Ticino, ottenere manodopera supplementare dall’estero. La realtà dello sviluppo del mercato del
lavoro ticinese, dal 1965 al 2000, doveva smentire in pieno il professore su
questo punto ma quasi unicamente per il fatto che il Ticino poté garantirsi
la riserva inesauribile del frontalierato.
Il secondo pacchetto di raccomandazioni del perito concerneva la produttività dell’economia che andava migliorata. Bisognava in particolare aumentare il capitale investito nei processi di produzione con una politica più aperta di credito da parte delle banche ma, anche, con misure fiscali che favorissero l’autofinanziamento delle aziende. Nella stessa direzione andavano
le proposte concernenti la promozione, con misure fiscali adeguate, del
risparmio privato e la raccomandazione di aumentare gli investimenti nelle
costruzioni stradali e nella produzione di energia (realizzando nientepopodimeno che una centrale termonucleare). Ma non solo il capitale materiale
andava incrementato, anche quello immateriale doveva ricevere molte più
attenzioni. Il prof. Kneschaurek raccomandava così la democratizzazione
degli studi, la riforma dell’apparato scolastico e dei sistemi e programmi di
insegnamento, nonché la riforma dell’orientamento professionale, incluso
l’orientamento pre-accademico.
Come si può dedurre da questo sintetico riassunto delle tesi e delle raccomandazioni del suo rapporto, due erano le preoccupazioni dominanti del
perito:
Parte prima: il paradiso
55
–
la prima era che il periodo di crescita sostenuta si stava avvicinando alla
fine e che non sarebbe continuato se lo Stato non si fosse fatto promotore di una politica economica favorevole alla crescita;
– la seconda era che questo compito, già difficile per gli altri Cantoni, lo
diventava anche di più per il Ticino, per una serie di fattori strutturali
sfavorevoli e perché il Ticino doveva recuperare un ritardo di sviluppo
notevole sulla media svizzera.
Per queste ragioni il Cantone doveva, con gli strumenti limitati di cui disponeva e rispettando il primato dell’iniziativa privata, cercare di promuovere la
crescita. Altrimenti il futuro dell’economia sarebbe stato meno roseo. Per la
Svizzera, Kneschaurek parlava di un passato immediato con un tasso di crescita del 5% e di un futuro con un tasso di crescita pari al 3-31/2%. Per il Ticino,
il tasso di crescita, dal 1950 al 1963, era stato del 4.8%. Dal 1963 al 1995, il
tasso scese al 2.8%. Lo Stato, nonostante i suoi sforzi, non riuscì quindi ad
impedire il rallentamento del processo di crescita nel lungo termine.
Le proposte del perito diedero la stura ad un lungo dibattito sulla programmazione economica, i cui risultati furono pubblicati dall’apposita commissione consultiva, nel 1968. Il rapporto della commissione non sembra aver
lasciato grandi tracce nella politica di tutti i giorni del Cantone
(Commissione consultiva, 1968). La sola eccezione è costituita dallo smilzo decretino, adottato molto più tardi dal Consiglio di Stato, su proposta
dell’Ufficio delle Ricerche Economiche, che serve, ancora oggi, da base
legislativa per la stesura del cosiddetto “rapporto degli indirizzi”; un esercizio di previsione a lungo termine che è arrivato, nel 2003, alla sua seconda e, probabilmente, ultima edizione. Le raccomandazioni settoriali (o,
forse, dovrei dire “dipartimentali”) del perito trovarono invece diversa fortuna. Mentre quelle concernenti la politica fiscale, la politica in favore della
formazione e per l’intensificazione degli investimenti stradali furono seguite, quasi alla lettera, le raccomandazioni in materia di miglioramento della
produttività delle aziende e quelle concernenti la produzione di energia elettrica non ebbero esito alcuno.
Note bibliografiche alla prima parte
Baggi M. (1991) : Un’indagine comparata sull’evoluzione della struttura produttiva del settore industriale ticinese, in Baggi M, R. Ratti, A. Rossi “Il futuro arriva presto”, Banca del Gottardo,
Lugano, 1991
Chevallier F.-X. (1998): Le bonheur économique, Albin Michel, Parigi
Commissione consultiva (1968): Programmazione economica, rapporto al Consiglio di Stato,
Bellinzona
56
Dal paradiso al purgatorio
Franscini Stefano (1971): La Svizzera Italiana, ristampa a cura di P. Chiara, BSI, Lugano
Galli A. (1937): Notizie sul Cantone Ticino, IET, Bellinzona
Galli A. (1943): Il Ticino all’inizio dell’Ottocento, nella “descrizione topografica e statistica” di P.
Ghiringhelli, IET, Bellinzona-Lugano
Kneschaurek F. (1964): Stato e sviluppo dell’economia ticinese: analisi e prospettive, Bellinzona
Kneschaurek F. (1965): Politique conjoncturelle e politique de croissance, Delachaux et Niestlé,
Neuchâtel
Lajugie J., Delfaud P., Lacour C. (1985) : Espace régional et aménagement du territoire, Dalloz,
Parigi, seconda edizione
Landes D. S. (1999): La ricchezza e la povertà delle nazioni, tradotto da “The Wealth and Poverty
of Nations”, Collezione storica Garzanti, Milano
Lombardini S. (1967): La programmazione: idee, esperienze, problemi, Einaudi, Torino
Pelanda C. (1998): Ticino 2015, libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario
della globalizzazione. Dipartimento delle finanze e dell’economia, Bellinzona
Rifkin J. (2000): The End of Work, Penguin Books, Londra
Rosenberg N. (1982): Inside the black Box: Technology and Economics, Cambridge University
Press, Cambridge
Rossi A. (1975): Un’economia a rimorchio, Bellinzona
Rossi A. (1985): Da un paese di piccoli proprietari a un paese di inquilini, in “Un paese che cambia”, a cura di Basilio M. Biucchi, pp. 165-180, Dadò, Locarno
Rossi A. (1988): E noi che figli siamo, Edizioni Nuova Critica, Lugano
Rossi A. (1990): Lo sviluppo economico e il progresso sociale, in Sviluppo economico e progresso sociale: qualche riflessione sul caso ticinese, a cura di A. Bernasconi e A. Rossi, fidinam,
Lugano
Rossi M. (1996): Cicli congiunturali dell’economia ticinese e svizzera fra il 1950 e il 1995,
Periodico IRE, 2/96, p.2-14
Saraceno P. (1963): Lo Stato e l’economia, Edizioni cinque lune, Roma
Tinbergen J. (1964): Central planning, Yale University Press, New Haven e Londra
Viscontini F. (2005): Alla ricerca dello sviluppo. La politica economica nel Ticino (1873-1953),
Armando Dadò, editore, Locarno
57
Parte seconda: il purgatorio
L’economia ticinese ristagna
10. La deindustrializzazione dell’economia: un sopralluogo
L’ultimo quarto del secolo XX° è caratterizzato, in Svizzera come nel
Ticino, da un rallentamento marcato del ritmo di crescita dell’economia.
Dai tassi del 41/2-5% che avevano alimentato il suo processo di sviluppo nel
periodo de “les trentes glorieuses” , l’economia ticinese scende a tassi appena superiori al 2% e, in fine di secolo, il suo tasso di sviluppo diventa anche
negativo. Abbiamo definito questo periodo, che, lo ricordiamo, per noi rappresenta la fase discendente del ciclo di lungo periodo, il “purgatorio della
stagnazione”. Purgatorio da un lato perché il basso tasso di crescita crea problemi seri come, per non citarne che uno, la disoccupazione. Ma purgatorio anche perché sulla lunghezza di questo periodo di stagnazione plana una
grande incertezza. Di fatto la tendenza alla riduzione dei tassi di crescita
dura oramai da più di un quarto di secolo e non accenna a cessare, come
invece dovrebbe fare se il ciclo di lungo periodo durasse effettivamente
50-60 anni. L’avvio del nuovo, il quinto, ciclo di Kondratieff è annunciato
come imminente da almeno una decina di anni, senza però che la ripresa
tenga fede alle sue promesse. Prima però di passare ad interrogarci sul futuro dell’economia ticinese, cosa che faremo nella terza parte di questo studio, in questa seconda parte vogliamo considerare un po’ più da vicino le
caratteristiche del periodo che abbiamo definito come il “purgatorio della
stagnazione”.
La prima, e forse la più importante di queste caratteristiche è il ritorno in primo piano, nella discussione sulle politiche che influenzano la crescita dell’economia, dei fattori che determinano l’offerta globale. Questo ritorno si
affermò a partire dalla metà degli anni settanta proprio perché l’approccio
keynesiano, basato sulla sollecitazione della domanda globale, sembrava non
essere più in grado di portare frutti. Molte economie sviluppate conobbero,
durante gli anni settanta dello scorso secolo, il fenomeno della “stagflazione”
58
Dal paradiso al purgatorio
ossia una situazione di stagnazione economica con tassi di inflazione elevati.
Nonostante i governi sollecitassero lo sviluppo della domanda globale, questa non sembrava più essere in grado di rilanciare la crescita. Il suo unico
influsso era negativo, perché agiva sul livello generale dei prezzi producendo
tensioni inflazionistiche. Il ritorno in primo piano dell’offerta globale fu però
determinato anche dai mutamenti che si manifestarono, a partire, come si è
già ricordato, dall’inizio degli anni settanta, nelle condizioni dello scambio
internazionale. La seconda guerra mondiale aveva consolidato, nel mondo
capitalistico, il ruolo di leader economico mondiale degli Stati Uniti. La
caduta del muro di Berlino, nel 1989, e la susseguente disintegrazione dell’impero sovietico fece di questa economia il leader mondiale assoluto. In
funzione di questo loro ruolo, gli Stati Uniti si erano assunti, alla fine del
secondo conflitto mondiale, la responsabilità di far funzionare il sistema economico mondiale (Korten, 2004). Da questo punto di vista, gli accordi di
BrettonWoods e il piano Marshall costituirono, all’uscita dalla seconda guerra mondiale, le misure di guida e controllo dell’andamento economico internazionale senza dubbio più importanti. È bene ricordare che l’azione degli
Stati Uniti in favore dei loro alleati europei non era unicamente ispirata da spirito di beneficenza. Durante tutto il periodo della guerra fredda, il confronto
dei tassi di crescita del prodotto interno lordo e del reddito pro-capite nei paesi capitalistici e in quelli comunisti rappresentò un’arma di propaganda molto persuasiva. Per fare un solo esempio: in un libro sulla crescita, scritto da
alcuni tra i maggiori economisti americani e pubblicato nel 1961, Klaus
Knorr scriveva: “Tenendo conto del modo con il quale oggi il mondo è organizzato, la capacità di una nazione di influenzare altre nazioni dipende sostanzialmente dalle prestazioni della sua economia, come pure dalla quota delle
sue risorse che viene destinata alle attività militari (Knorr, Baumol, 1961).
Le iniziative prese dagli americani dopo la seconda guerra mondiale ebbero
successo. Le economie dell’Europa occidentale furono rapidamente ricostruite e conobbero tassi di crescita elevati durante un lungo periodo di tempo.
Tuttavia questi successi ebbero una contropartita di costi importante per gli
Stati Uniti. Per non complicare troppo l’argomentazione, ci limitiamo a ricordare che, fino a quando il dollaro, in funzione degli accordi di Bretton-Woods,
restò la divisa di riserva dell’economia mondiale, legata al prezzo dell’oro da
una relazione fissa, ossia sino all’inizio degli anni settanta del secolo scorso,
gli Stati Uniti dovettero contentarsi di prestazioni della loro economia inferiori a quelle delle economie europee. Con un tasso di cambio di 1 a 4 tra il dollaro e il franco svizzero non esistevano problemi di concorrenza per le nostre
industrie esportatrici. In altre parole, fino a quando gli scambi internazionali
Parte seconda: il purgatorio
59
si basarono sul cambio fisso con il dollaro, la capacità concorrenziale dell’economia svizzera non fu messa in dubbio da nessuno.
Ma, come si è già visto nel cap. 5, la situazione in materia di esportazioni – in
particolare di esportazioni di prodotti industriali – cambiò sostanzialmente
nel marzo del 1973, con il passaggio dal regime dei cambi fissi a quello dei
cambi flessibili. Il rapporto tra dollaro e franco (ma anche il rapporto del franco con le divise degli altri paesi clienti dei prodotti svizzeri, l’Italia in particolare) scese rapidamente. Con il franco rivalutato, la produzione industriale
della Svizzera diventò improvvisamente, senza che a livello di tecnologia di
produzione, impiego o organizzazione della stessa qualche cosa fosse cambiato, troppo cara per i mercati esteri. In cinque o sei anni, in seguito alla rivalutazione del franco, i prezzi dei prodotti svizzeri esportabili raddoppiarono e
triplicarono. La capacità concorrenziale dell’industria svizzera andò a farsi
benedire. La conseguenza di questa evoluzione fu un processo di deindustrializzazione che dura ancora tutt’oggi. È probabile che per l’esaurirsi del dinamismo del ciclo di lungo termine basato sull’innovazione tecnologica, l’economia svizzera, come quella di altri paesi, si sarebbe ritrovata ugualmente nei
guai, durante gli anni settanta. Ne fa fede, per limitarci a citare l’esempio più
conosciuto, la crisi dell’industria orologiera che fu più una crisi tecnologica
(diffusione rapidissima dell’orologio a cristalli di quarzo propagato dall’industria giapponese) che una crisi dovuta alla rivalutazione del franco. Resta
però acquisito che il ritorno ai tassi di cambio flessibili contribuì in modo rilevante a precipitare l’economia svizzera nella stagnazione.
La deindustrializzazione
Nel corso degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, il numero degli
addetti nel settore industriale e la quota degli stessi nell’occupazione
totale delle economie del mondo occidentale sono diminuiti in modo
marcato. Nella letteratura economica questo processo viene definito
come il processo di deindustrializzazione. Stando agli autori che lo hanno studiato, il processo può assumere due forme:
– la deindustrializzazione positiva quando la diminuzione dell’occupazione nel settore industriale si accompagna a una crescita sostenuta
del valore aggiunto di questo settore, crescita che viene assicurata da
un balzo in avanti della produttività;
– negativa è invece la deindustrializzazione quando diminuisce non
solo la quota dell’occupazione, ma anche quella del valore aggiunto
del settore industriale.
Quello della Svizzera può essere considerato come un caso di deindustrializzazione negativa.
60
Dal paradiso al purgatorio
Gli effetti della deindustrializzazione sono molto visibili, nella forma di
zone industriali abbandonate, specialmente nelle regioni nelle quali l’industria svizzera è nata e nelle quali, come a Zurigo, Winterthur, Baden, Arbon,
Ginevra, Vevey, Thun, Neuhausen, Sciaffusa, Yverdon, Grenchen, Aarau,
Neuchâtel si concentravano le attività industriali, in particolare il ramo dei
tessili, quello delle macchine e quello orologiero.
La deindustrializzazione ha colpito in primo luogo i rami manifatturieri ad
alta intensità di lavoro e quelli che trasformavano prodotti agricoli. Anche in
Ticino, nell’ultimo quarto di secolo, si è manifestata una tendenza significativa alla deindustrializzazione. Lungo gli assi ferroviari (da Airolo a Chiasso,
da Bellinzona a Locarno e da Lugano a Ponte Tresa) dove è localizzata la
grande maggioranza delle aziende industriali (le uniche localizzazioni industriali importanti, non servite dalla ferrovia sono Brissago e quelle situate sull’asse Mendrisio-Stabio,) si sono registrate, come si può rilevare dalla figura
9, perdite importanti negli effettivi dei posti di lavoro del secondario.
Figura 9: Variazione dei posti di lavoro nel secondario lungo gli assi di traffico ferroviario dal 1975 al 2001
Fonte: censimenti federali delle aziende
Iniziamo il nostro sopralluogo sulla deindustrializzazione in Ticino a Airolo.
Airolo che in un quarto di secolo ha perso un cinquecento posti di lavoro,
vale a dire quasi il 60% dei posti del 1975, nel secondario. Questa perdita è
da attribuire alla chiusura del cantiere della galleria autostradale del Gottardo
e alla chiusura, o allo spostamento, di aziende meccaniche che lavoravano
Parte seconda: il purgatorio
61
per la ferrovia. A Quinto le perdite sono minori, sia in termini assoluti (- 144
posti di lavoro), sia in percentuale (- 37%). A Faido si sono persi il 50% dei
posti di lavoro nel secondario, ossia circa 170 posti. Scendiamo a Giornico
e Bodio, uno dei centri industriali tradizionali del Ticino, dove la perdita, a
causa della chiusura della Monteforno, è stata devastante: ben 937 posti di
lavoro persi, vale a dire il 71% dell’effettivo che ancora esisteva nel 1975.
Nella Bassa Leventina l’ industria è stata così rasa al suolo, senza che, per il
momento, si veda con quali attività la stessa possa essere sostituita. In tutto,
quindi, in Leventina, nell’ultimo quarto del secolo scorso, si sono persi 2115
posti di lavoro nel secondario. Un posto di lavoro su tre della regione è scomparso in seguito al fenomeno di deindustrializzazione e alla fine dei lavori
autostradali. Meno importante, invece, è stato l’impatto della deindustrializzazione in Riviera. L’industria tradizionale di quella zona – la lavorazione
del granito – non può infatti essere spostata altrove e, per lo meno durante il
periodo che stiamo analizzando – sembra sia riuscita a controbattere la concorrenza estera sui mercati nazionali.A Biasca, poi, nel corso di questo periodo, si è sviluppata, con il sostegno delle autorità cantonali e comunali, una
piccola zona industriale il che ha permesso al capoluogo della Riviera non
solo di conservare i suoi effettivi nel secondario, ma addirittura di aumentarli di circa una settantina di unità. Arriviamo così a Bellinzona, prima città
sul nostro percorso che ci permette di verificare che una componente della
deindustrializzazione è anche locale. Si tratta del fenomeno di suburbanizzazione delle aziende del secondario. Queste aziende lasciano la città per
una localizzazione in periferia urbana, più facilmente accessibile dalla rete
autostradale. Tra il 1975 e il 2001, la regione di Bellinzona ha perso ben 1166
posti di lavoro nel secondario, 590 a Bellinzona e 519 a Giubiasco, che era
un altro dei centri industriali tradizionali del Cantone. Una parte dei posti di
lavoro persi a Bellinzona, sono stati ricreati nel Piano di Magadino, che è
l’unica regione del Sopraceneri ad aver guadagnato posti di lavoro nel secondario (415). Il Locarnese è pure stato colpito dalla deindustrializzazione perdendo ben 1404 posti di lavoro, ossia il 20% dell’effettivo del 1975.
All’interno di questa regione si nota uno spostamento dei posti di lavoro del
secondario, con una concentrazione su Losone. I posti di lavoro nel secondario di Losone rappresentavano il 28.2% del totale dei posti di lavoro di
questo settore nella sub-regione “Sponda destra”, nel 1975. Nel 2001, la
quota di Losone era salita al 42.4%. Locarno, pur perdendo più di 500 posti
di lavoro, conserva la sua quota nel totale (circa il 38%), ma non è più che
il secondo centro manifatturiero della regione. Senza accesso alla rete ferroviaria, neanche a quella regionale, Ascona e Brissago hanno perso quasi 600
posti di lavoro nel secondario. Brissago, una delle prime località industriali
62
Dal paradiso al purgatorio
del Cantone (si pensi all’importanza storica della fabbrica dei tabacchi) è
diventata completamente turistica, nell’ultimo quarto di secolo e ha segnato, per così dire, il suo mutamento di orientamento, realizzando una delle più
belle passeggiate al lago del Cantone. In totale il Sopraceneri ha perso 3572
posti di lavoro nel secondario. La sua quota nel totale dell’occupazione del
secondario ticinese è scesa dal 38.7 del 1975 al 36.7% del 2001. Riprendiamo
il treno a Locarno, cambiamo a Giubiasco per spostarci nel Sottoceneri.
Dopo la galleria del Ceneri entriamo nella valle del Vedeggio che è forse la
valle dove l’industrializzazione è più giovane. Prima del 1960, infatti, in questa valle non esisteva o quasi una fabbrica. Oggi, da Rivera a Taverne attraversiamo praticamente una zona industriale senza soluzione di continuità. È
abbastanza logico ricondurre questo sviluppo alla possibilità di far ricorso,
senza limitazioni, alla manodopera frontaliera. Come si può leggere nel grafico, il Vedeggio ha guadagnato posti di lavoro nel secondario anche durante il periodo di deindustrializzazione. Questo perché il fenomeno di suburbanizzazione del secondario è stato particolarmente forte attorno a Lugano.
Lo dimostrano anche i dati che riguardano il Basso Malcantone (+572) e,
addirittura Mendrisio (+1271), dove l’aumento dei posti di lavoro nel secondario è stato abbastanza sostenuto, proprio in forza della creazione di nuove
aziende (nella regione attorno all’aeroporto diAgno, per il Basso Malcantone
e nella piana di S. Martino, rispettivamente nella zona di frontiera di Stabio,
nella regione di Mendrisio). Il rovescio della medaglia l’ha conosciuto la
regione di Lugano che, nel periodo osservato, ha perso quasi 4000 posti di
lavoro. Occorre dire che Lugano ha potuto largamente compensare questa
perdita, creando, nel settore terziario, 19'000 nuovi posti di lavoro tra il 1975
e il 2001. Dopo aver fatto, con la ferrovia Lugano-Ponte-Tresa, un’escursione fino ad Agno, continuiamo in direzione di Chiasso con la ferrovia del
Gottardo. I risultati positivi della regione di Mendrisio sono annientati dalle
perdite in posti di lavoro dovute alla ristrutturazione del secondario nella
regione di Chiasso (-2794, vale a dire -57%). Terminiamo il nostro sopralluogo sugli effetti della deindustrializzazione sull’occupazione nel secondario con alcune constatazioni:
– le attività del secondario in Ticino erano localizzate lungo gli assi ferroviari principali della ferrovia del Gottardo e lungo l’asse della ferrovia regionale Lugano-Ponte-Tresa. Uniche eccezioni il comprensorio di
Stabio e quello di Ascona-Brissago;
– le località industriali tradizionali erano Bodio, Giubiasco, Tenero,
Brissago, Taverne, Lamone-Cadempino, Mendrisio, Balerna e Chiasso.
La maggior parte di questi comuni ha perso molti posti di lavoro nel
secondario, durante il periodo analizzato. In alternativa a queste loca-
Parte seconda: il purgatorio
63
lità tradizionali, i cui fattori di localizzazione erano la disponibilità di
terreno, di energia (elettrica e idraulica), la vicinanza della ferrovia e la
vicinanza della materia prima di origine agricola, nell’ultimo quarto di
secolo si sono sviluppate nuove localizzazioni industriali nei comuni
suburbani degli agglomerati. Particolarmente impressionante è stato lo
sviluppo nella valle del Vedeggio e nel Mendrisiotto.
In conclusione si può dire che in Ticino il processo di deindustrializzazione è stato influenzato da un lato dalla perdita di capacità concorrenziale dell’industria svizzera rispetto al resto del mondo, ma, dall’altra, anche dal processo di suburbanizzazione e specializzazione funzionale degli spazi che
formano l’agglomerato. Infine, dopo il 1964, si è registrato, in seguito all’utilizzazione sempre maggiore di manodopera frontaliera, uno spostamento
di peso nel settore manifatturiero dal Sopraceneri verso il Sottoceneri.
Questo tipo di evoluzione ha avuto vincenti e perdenti. Le regioni e comprensori vincenti sono stati il Mendrisiotto, il Basso Malcantone, la valle
del Vedeggio e il Piano di Magadino. Le regioni maggiormente perdenti
sono stati la regione di Chiasso e la Leventina.
11. Crescita e declino a livello di rami di produzione:
il ruolo della produttività e del grado di apertura dei mercati
Data la sua portata e le sue conseguenze in termini di occupazione e di
abbandono degli spazi di produzione, il fenomeno della deindustrializzazione non poteva non interessare i ricercatori. La maggioranza degli studi
disponibili hanno però il carattere di monografie regionali o di settore. Pochi
sono invece i contributi che hanno cercato di dare una spiegazione complessiva del fenomeno. In questo capitolo vogliamo presentare una di queste
spiegazioni e, utilizzando le sue ipotesi, cercare di dare un’interpretazione
dello sviluppo della struttura di produzione dell’economia ticinese nel
periodo della deindustrializzazione. Nel 1979, un gruppo di economisti
dell’Istituto di ricerche economiche del Politecnico di Zurigo (WIF) avanzò
una spiegazione della deindustrializzazione che era basata sulle differenze
di produttività e sulle differenze nel grado di apertura dei mercati per i diversi rami dell’economia svizzera (Hollenstein, Loertscher, Stalder, 1979)
Offerta e produttività
L’economia è in equilibrio quando domanda e offerta globali si equivalgono. Abbiamo già definito la domanda globale (vedi cap. 5).
L’offerta globale è uguale al valore di tutte le produzioni (di beni e ser-
64
Dal paradiso al purgatorio
vizi), realizzate in un dato periodo di tempo, nell’economia in esame.
La produzione, a sua volta, è il risultato di un processo nel quale intervengono diversi fattori di produzione e un determinato stato della tecnologia. I fattori di produzione ai quali si fa di solito riferimento sono
il lavoro, il capitale e la terra. Stando alle ricerche empiriche disponibili sembra però che il loro contributo alla crescita della produzione sia
meno importante di quello che ha dato e può dare il progresso tecnico,
fattore che, di solito, non viene esplicitato nelle funzioni di produzione. Poiché nel commento all’evoluzione manifestatasi in Svizzera e in
Ticino, nell’ultimo quarto del secolo passato, si farà di sovente ricorso al termine produttività del lavoro, pensiamo che valga la pena di
spiegarlo. La produttività è il rapporto tra la produzione e il numero di
persone occupate, se viene misurata per addetto, oppure tra la produzione e il numero delle ore lavorate, se viene misurata per ora di lavoro. Se P è una misura della produzione e L una misura della prestazione del fattore lavoro, la produttività del lavoro è data dal rapporto:
p = P/L
dove p sta per produttività del lavoro.
In una giornata di lavoro, una sarta a domicilio della montagna di Arzo
riusciva, nel periodo tra le due guerre mondiali, a cucire due paia di
pantaloni. Questa era la sua produttività giornaliera in termini fisici. In
termini di valore della produzione, la produttività giornaliera di quella sarta era forse pari a una decina di franchi. Negli studi empirici sulla
produttività si usa quasi sempre misurare la produttività di un’economia come produttività del lavoro.
Riferendosi a questi due indicatori, i ricercatori del Politecnico di Zurigo
hanno suddiviso l’economia svizzera della fine degli anni settanta del secolo scorso in due settori:
– il settore delle attività orientate verso l’esportazione
– il settore delle attività orientate verso il mercato svizzero
A loro volta, questi due settori sono stati suddivisi in due sotto-settori. Di
conseguenza tutte le attività produttive dell’economia svizzera potevano
essere ripartite in uno dei quattro sotto-settori seguenti:
– il sotto-settore delle attività internazionali minacciate
– il sotto-settore delle attività internazionali forti
– il sotto-settore delle attività interne esposte alla concorrenza interna, ma
non a quella internazionale
Parte seconda: il purgatorio
–
65
il sotto-settore delle attività interne controllate (in un modo qualunque)
dallo Stato.
Le attività del primo settore erano minacciate dalla concorrenza internazionale perché si fondavano ancora troppo sul fattore lavoro, un fattore che era
diventato – a causa della rivalutazione del franco – troppo caro e troppo poco
competitivo a livello internazionale. La strada della sopravvivenza per queste attività era, di necessità, la ristrutturazione con, o senza, spostamento di
parte della loro produzione all’estero (la delocalizzazione è stata la causa
prima del fenomeno di deindustrializzazione).
Ristrutturazione e delocalizzazione
In teoria, la ristrutturazione può applicarsi a tutte le componenti del
processo produttivo di un’azienda o di un ramo di produzione. In questo studio parleremo di ristrutturazione però solo in relazione alle misure con le quali si cerca di aumentare la produttività di un’azienda o di
un ramo attraverso la riduzione del personale o del numero delle aziende. La ristrutturazione è un fenomeno comune nella seconda parte del
ciclo di lungo termine, quando cioè il contributo addizionale di un’ulteriore unità di fattore di produzione al totale della produzione (produttività marginale del fattore) comincia a diminuire. Essa può venir
realizzata anche introducendo innovazioni di processo.
La delocalizzazione, fenomeno di cui si discute molto a livello politico – attualmente in Francia e in Germania in relazione all’apertura
dell’Unione Europea verso i paesi dell’Est – consiste nello spostamento di una o più funzioni aziendali fuori del territorio nazionale. La delocalizzazione è totale quando tutta l’azienda viene spostata all’estero.
Il sotto-settore delle attività di esportazione forti, invece, possedeva la
capacità di resistere alla concorrenza internazionale e poteva contare su
un futuro tranquillo con crescita della produzione e della produttività, ma
non dell’occupazione (per la necessità di contenere i costi di produzione). Per quel che concerne le attività orientate verso il mercato interno,
senza però essere esposte alla concorrenza internazionale, gli studiosi del
WIF prevedevano una crescita della produzione e dell’occupazione. Infine
essi pensavano che il sotto-settore protetto dallo Stato sarebbe stato
ristrutturato, non perché patisse della concorrenza, ma perché la lievitazione dei prezzi in questo sotto-settore esercitava un influsso negativo sull’evoluzione dei costi di produzione degli altri sotto-settori. Per il futuro
gli autori di questo modello si attendevano perciò una stagnazione della
66
Dal paradiso al purgatorio
produzione e una forte diminuzione dell’occupazione in questo settore.
Produttività e grado di apertura dei mercati erano dunque i fattori che
potevano spiegare l’evoluzione della struttura di produzione dell’economia svizzera. Se la spiegazione è valida per l’intera economia del nostro
paese, dovrebbe applicarsi anche all’economia dei singoli Cantoni, tenendo ovviamente presente che quando si parla di mercato interno, si deve
pensare, anche a livello del singolo Cantone, che si tratta sempre del mercato nazionale. Utilizzando la ripartizione delle attività di produzione in
quattro sotto-settori proposta dal WIF abbiamo cercato di verificare se le
conclusioni valide per la Svizzera si applicassero anche al caso del
Cantone Ticino. Tenendo conto delle variazioni dell’occupazione nei rami
non agricoli (settori secondario e terziario) abbiamo costruito i due grafici della figura10. Essi illustrano in modo chiaro la significativa modifica che si è manifestata nel corso dell’ultimo quarto dello scorso secolo,
ossia durante il periodo della stagnazione economica, nella struttura dell’impiego dell’economia ticinese. In termini assoluti ricordiamo che l’impiego nei settori non agricoli dell’economia ticinese è aumentato dal 1975
al 2001 di quasi 30’000 unità. La deindustrializzazione, pur essendosi
manifestata nella sua forma negativa (ossia perdita di quote per il settore industriale nell’impiego e nel valore aggiunto) non ha messo in crisi
il mercato del lavoro. I posti persi nell’industria sono stati largamente
recuperati nel terziario.
Figura 10: Modificazione nella struttura dell’impiego dell’economia ticinese, per sottosettori
Fonte: Censimenti federali delle aziende
In termini relativi, il fenomeno della deindustrializzazione è leggibile
soprattutto nella riduzione della quota nel totale dell’impiego delle attività
di esportazione minacciate (dal 17.3% al 12.2%). La quota dell’impiego nei
rami che esportano non è però diminuita: la parte persa dai rami minaccia-
Parte seconda: il purgatorio
67
ti è stata recuperata dai rami forti. Questa tendenza deve essere considerata come uno dei fattori maggiormente positivi dell’evoluzione nel periodo
del purgatorio della stagnazione. I rami di esportazione forti hanno creato
numerosi nuovi posti di lavoro contribuendo in modo molto positivo alla
crescita della produzione. Si tenga però presente che l’aumento dei posti di
lavoro di questo sotto-settore si è realizzato in due rami che appartengono
al settore dei servizi, vale a dire il commercio all’ingrosso e i rami bancario, delle assicurazioni, dell’informatica e della consulenza. Il Ticino sembrerebbe dunque essere maggiormente agguerrito nell’esportazione di servizi che nell’esportazione di beni. L’internazionalizzazione della sua economia si è così compiuta in parallelo con l’espansione del settore terziario.
Poiché la quota dei due sotto-settori che esportano nell’impiego è restata più
o meno costante anche la quota degli altri due sotto-settori che servono il mercato svizzero è pure restata costante. Anche qui la perdita di un sotto-settore,
ossia il sotto-settore protetto, è stata recuperata dall’altro settore, il sotto-settore dei servizi pubblici. Occorre sottolineare che l’espansione dell’impiego
nel sotto-settore dei servizi pubblici e delle aziende regolate dallo Stato, nel
corso del periodo analizzato, è da attribuire in preponderanza all’espansione
dell’impiego nei rami del sanitario, del sociale e dell’educazione. Come
dimostra la tabella 2, le risultanze di questo processo di ristrutturazione dell’impiego, nel corso del periodo di relativa stagnazione dell’economia ticinese non corrispondono alle attese del modelloWIF se non in un caso: quello del
sotto-settore di esportazione minacciato. Per spiegare queste differenze si
possono avanzare almeno tre argomenti. Con il primo vogliamo sottolineare
il ruolo che il fattore lavoro ha giocato nello sviluppo dell’economia ticinese
dopo il secondo dopoguerra mondiale.Anche nella fase nella quale la concorrenza internazionale diventa importante, il Ticino, diversamente da altri
Cantoni, continua a giocare la carta di processi di produzione ad alta intensità
di lavoro perché dispone – grazie alla valvola del frontalierato – di una riserva
quasi inesauribile di manodopera a buon mercato.
Tabella 2: Attese di sviluppo dell’occupazione e risultati della verifica per sotto-settori nel
periodo 1975-2001 in Ticino
Sotto-settori
Attività internazionali, minacciato
Attività internazionali, forte
Interno, protetto dalla concorrenza estera
Interno, controllato o regolato dallo Stato
Fonte: elaborazione dell’autore
Attese di sviluppo delle quote di occupazione
Forte riduzione
Nessuna variazione
Forte aumento
Forte riduzione
Risultato della verifica
Forte riduzione
Forte aumento
Forte diminuzione
Forte aumento
68
Dal paradiso al purgatorio
È probabile tuttavia che il grado di qualifica di questa riserva sia, per effetto della sostituzione di esportazioni minacciate dalla concorrenza con esportazioni forti, aumentato. Il secondo argomento che conviene ricordare è che
con l’aumento del livello di benessere e con l’invecchiamento della popolazione è cresciuta in modo molto marcato, anche in Ticino, la domanda di
servizi pubblici nel campo sanitario e dell’educazione. Se gli anni sessanta
e settanta dello scorso secolo sono stati gli anni della democratizzazione
degli studi, gli anni settanta e ottanta sono stati quelli dell’avvio del fenomeno di esplosione dei costi della salute (democratizzazione degli acciacchi). La reazione politica, in termini di colpi di freno all’evoluzione dei costi
nei campi del sanitario, del sociale e dell’educazione o non venne, o fu molto
tenue, durante il periodo analizzato in questa parte del nostro studio. Il terzo
argomento riguarda l’evoluzione nel sotto-settore interno protetto dalla concorrenza estera, ma non da quella interna alla Svizzera. Qui la perdita di
importanza della quota nell’impiego è sicuramente da attribuire ai processi di concentrazione geografica – a livello del Cantone, ma anche a livello
nazionale – sviluppatisi nel periodo sotto osservazione. Le aziende che fornivano il mercato nazionale hanno cominciato a concentrare i punti dai quali
servivano le diverse zone. Si pensi, per limitarci a un solo esempio, al caso
della concentrazione dei servizi logistici, operata dalle aziende che possedevano una rete di distribuzione di beni o di informazioni a livello nazionale, che colpì il ramo dei trasporti e delle comunicazioni, il commercio al
minuto e anche la produzione di alimentari e bevande. L’insegnamento più
importante di questa verifica è che non sempre l’andamento previsto a livello nazionale deve per forza riprodursi nelle regioni.
12. Il purgatorio della stagnazione e la produttività
Come abbiamo potuto costatare nel capitolo 4 della prima parte, l’evoluzione dell’economia ticinese è stata contraddistinta, durante l’ultimo quarto del
secolo scorso, da una tendenza alla diminuzione dei tassi di crescita. Per
comodità di presentazione abbiamo deciso di chiamare questo periodo il
“purgatorio della stagnazione”. Si tratta di un periodo nel corso del quale
l’invecchiamento dei prodotti, usciti dall’ondata di innovazioni che aveva
lanciato la crescita all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso, porta
lentamente alla saturazione del mercato, in tutti i paesi dell’Europa occidentale. Per cercare di lottare contro la concorrenza, le aziende sono costrette a limare sui costi. Una delle possibilità di ridurre i costi di una produzione oramai molto standardizzata è quella di delocalizzare, in parte o totalmente, le unità produttive verso paesi nei quali il costo del lavoro è meno
Parte seconda: il purgatorio
69
caro. Della deindustrializzazione e del suo impatto sulla struttura dell’impiego ticinese abbiamo parlato nel capitolo che precede. In questo capitolo
vorremmo approfondire il discorso sui rapporti tra capacità concorrenziale,
produttività e crescita. La crescita del prodotto interno lordo del periodo del
“paradiso della crescita” era determinata da due fattori:
– il rapido estendersi dell’impiego, da una parte (con tassi di crescita
annuale superiori all’1%)
– e il forte aumento della produttività (con tassi di crescita che si avvicinavano al 4%)
La combinazione di questi due fattori assicurava all’economia svizzera e
a quella ticinese tassi di crescita annuali del prodotto lordo prossimi al
5% e un incremento proporzionale dei salari e del livello di vita della
popolazione. Con le misure di limitazione all’immigrazione di manodopera estera, che diventano effettive a partire dal 1964, la crescita dell’offerta di manodopera in Svizzera subì un drastico colpo di freno. Ma, circa alla medesima data, anche i tassi di crescita della produttività
cominciarono a diminuire. La stagnazione economica dell’ultimo quarto
di secolo è così data dalla combinazione di tassi di crescita dell’impiego
inferiori all’1% negli anni ottanta e praticamente nulli negli anni novanta, e da un tasso medio annuale di aumento della produttività che fatica
a raggiungere l’1%. Il risultato di questo indebolimento nella crescita di
impiego e produttività è un tasso di aumento del prodotto interno lordo
che, nel corso degli anni ottanta, ancora oscilla tra il 2 e il 3%, mentre
nel corso dell’ultimo decennio del secolo scende all’1%. Nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso, l’economia svizzera entra così in una
nuova fase di sviluppo, caratterizzata, come si è detto, da tassi bassi di
crescita della produttività e dell’occupazione.
Crescita economica e produttività
Nel presente studio utilizziamo il reddito cantonale come indicatore
della crescita perché, purtroppo, a livello cantonale le stime relative al
prodotto interno lordo (PIL) sono disponibili solo a partire dal 1985 e
sono meno affidabili di quelle del reddito. A livello nazionale, però,
l’indicatore delle prestazioni dell’economia è il PIL. Riprendendo la
definizione di produttività del cap. 11 e sostituendo P con PIL possiamo scrivere il rapporto tra produttività per addetto e PIL nel modo che
segue:
PIL = (PIL/L) x L = p.L
Il tasso di crescita di un’economia è misurato dal tasso di crescita
annuale reale del PIL. Il tasso di crescita della produttività dall’aumen-
70
Dal paradiso al purgatorio
to del rapporto PIL/L e il tasso di crescita di L, l’occupazione, dall’aumento relativo del numero degli occupati. Tenendo presente la definizione di cui sopra, possiamo scrivere:
Tasso di crescita = Tasso di variazione della produttività + Tasso di
variazione dell’occupazione
Come sono evoluti occupazione e produttività nel caso del Ticino? Per
rispondere a questa domanda, abbiamo calcolato i tassi di aumento annuale medio dell’occupazione e della produttività per i due periodi 1950-70 e
1970-2000, utilizzando – in mancanza di alternative migliori – per misurare l’evoluzione dell’occupazione, la popolazione attiva (escludendo quindi
i frontalieri), e per misurare l’evoluzione della produttività, il rapporto reddito reale/popolazione attiva. Siccome la popolazione attiva è rilevata solo
nel censimento federale della popolazione (che, come si sa, si svolge all’inizio di ogni decennio), la divisione tra paradiso e purgatorio si situa attorno al 1970 invece di situarsi – come abbiamo argomentato sin qui – attorno al 1975.
Tabella 3: Evoluzione della produttività e dell’occupazione in Ticino
Sotto-periodi
1950-1970
1970-2000
Tasso di variazione annuo
della produttività
4.3%
0.8%
Tasso di variazione
annuo dell’occupazione
1.4%
0.9%
Fonte: stime dell’autore
Possiamo osservare che la riduzione del tasso di crescita annuale, che si
è realizzata tra questi due sotto-periodi, è da attribuire più alla diminuzione della produttività che alla diminuzione dell’occupazione. Questa
conclusione è comune al Ticino e alla Svizzera e ha fatto sorgere molte
discussioni, nel corso degli ultimi quindici anni, sul modo con il quale si
potrebbe rilanciare la crescita della produttività. A livello aggregato della produzione, la risposta che viene data a questo quesito è quella di puntare sull’innovazione tecnologica, sia essa di processo, di prodotto, o
organizzativa. L’innovazione, in questo caso, viene considerata, accanto
al lavoro e al capitale, come un terzo fattore di produzione che può contribuire a tener alto il tasso di aumento delle produttività degli altri due
Parte seconda: il purgatorio
71
e, nel contempo, la crescita della produttività dell’insieme dell’economia.
Esistono numerosi studi empirici, a livello di altre nazioni e regioni, che
dimostrano che l’innovazione tecnologica (misurata per esempio dal
numero delle nuove patenti che vengono registrate ogni anno, o da inputs
nel processo di innovazione tecnologica come gli investimenti in ricerca
e sviluppo) ha un effetto positivo sulla produttività dell’economia. Più
difficile è invece mettere a punto una politica di promozione dell’innovazione che sia in grado di specificare come, a partire da un certo montante di investimenti in ricerca e sviluppo, una determinata economia sarà
in grado di ottenere risultati probanti in materia di innovazione e migliorare così la sua produttività aggregata. L’innovazione tecnologica rappresenta sicuramente una buona opportunità di sviluppo, ma non è, in nessun caso, una ricetta che fa crescere la produttività a colpo sicuro. Non
è poi detto, come invece sembra pensare una larga schiera dei nostri commentatori economici, che produttività e impiego evolvano in modo indipendente. Krugmann ci avverte per esempio che se un’economia si terziarizza, la stessa avrà tendenza a conoscere tassi di aumenti della
produttività sempre più bassi perché nel settore dei servizi il prodotto per
addetto cresce più lentamente che nel settore manifatturiero. Questa
osservazione potrebbe indurre i responsabili delle politiche economiche
a non promuovere le attività di servizio e a cercare di trasferire posti di
lavoro dal terziario al secondario come tentò di fare, negli anni sessanta
dello scorso secolo, senza successo, il governo laburista inglese, imponendo una tassa sui posti di lavoro nel terziario. Si tratterebbe di una politica sbagliata. Siccome la proporzione del terziario nell’occupazione si
avvicina oggi all’80% le misure da promuovere sarebbero invece quelle
che possono migliorare la produttività del terziario perché avrebbero un
impatto molto più ampio sul livello di produttività aggregato che non un
miglioramento della produttività del secondario. Osserviamo che nel caso
ticinese non si può affermare, in modo generico, che il terziario abbia
una produttività minore del secondario, poiché i rami del settore finanziario possiedono di fatto la produttività più alta di tutti i rami dell’economia. È tuttavia utile considerare le differenze di produttività per ramo
per cercare, dove si può, di evitare che la quota di un ramo a bassa produttività nel totale dell’occupazione aumenti troppo rapidamente. È il
caso per il Ticino dell’ampio sottosettore dei servizi pubblici che, nel corso degli ultimi 25 anni ha visto la sua quota nell’occupazione passare dal
14 al 25%. Miglioramenti importanti della produttività aggregata potrebbero quindi essere realizzati da un processo di ristrutturazione che fosse
in grado di far aumentare la produttività nei servizi pubblici, nei settori
72
Dal paradiso al purgatorio
sociale e sanitario in particolare. Quali siano le difficoltà di una simile
politica l’abbiamo potuto toccare con mano, nel corso degli ultimi venti
anni, seguendo gli sforzi da Sisifo che autorità federali e cantonali hanno fatto per tentare, inutilmente, di contenere l’esplosione dei costi della salute. Meno promettente è l’applicazione della strategia che consiglia
di promuovere l’attività di innovazione tecnologica a singoli rami, le
cosiddette industrie ad alta tecnologia. E questo per due ragioni. In primo luogo perché la quota di questi rami nell’occupazione è inferiore al
15% e in secondo luogo perché questa ricetta è diventata oramai la carta che viene giocata da ogni paese e da ogni regione. Tutti, oggi, vogliono promuovere le industrie ad alta tecnologia, dal sud del Portogallo al
nord della Svezia, dall’Ucraina all’Irlanda, seguendo un consiglio avanzato per la prima volta da Lester Thurow nel suo bestseller “La società
a somma nulla”, pubblicato nel 1980, nel quale l’autore suddivideva i
rami di produzione di un’economia in “Sunset industries” e in “Sunrise
industries”, vale a dire in “industrie al tramonto e industrie all’alba”. Il
consiglio di Thurow era di trasferire risorse dal gruppo dei rami al tramonto al gruppo dei rami che erano ancora all’alba del loro ciclo del prodotto (si veda Krugmann P., 1994). Ma il trasferimento di risorse non è
così facile: si tratta molte volte di chiudere vecchie aziende o di procedere, misura ugualmente problematica, a delle fusioni. Per quel che concerne il nostro paese, si ha l’impressione che questi esperimenti in materia di trasferimento di risorse in rami strategicamente più interessanti si
siano conclusi con la chiusura di stabilimenti di produzione in Svizzera
e il trasferimento di attività di produzione e know-how tecnologico all’estero. Per rilanciare la crescita e tenere alto il livello di benessere occorre quindi rilanciare produttività e occupazione. Ma per quel che riguarda
l’occupazione le possibilità di rilancio sono scarse in quanto i costi del
lavoro in Svizzera, e quindi anche in Ticino, sono diventati, specie dopo
la rivalutazione del franco nel corso degli anni settanta, tra i più alti del
mondo. Tutte le lavorazioni che fanno ricorso in modo intenso al fattore
lavoro hanno di fatto già lasciato il nostro paese per altri lidi, dove il
costo del lavoro è pari solo a 1/10 o ancora meno del nostro. Per queste
ragioni l’unico vero fattore di rilancio sul quale possiamo puntare è la
produttività. La produttività dell’economia svizzera e quella dell’economia ticinese crescono troppo lentamente.
13. Il purgatorio della stagnazione: fine della piena occupazione
Come abbiamo visto, nei capitoli della prima parte, ci fu un tempo, non
Parte seconda: il purgatorio
73
così lontano, nel quale la manodopera era scarsa e sia il Ticino, sia la
Svizzera, pensavano che non si poteva fare a meno dell’immigrazione di
manodopera estera. Poi vennero gli anni settanta e, anche per effetto della rivalutazione del franco svizzero, l’economia svizzera si ritrovò in
testa, a livello mondiale, per i costi del lavoro. Siccome, parallelamente, il suo livello di produttività cominciò a stagnare, la posizione concorrenziale di molte delle nostre industrie di esportazione si trovò indebolita. La parola d’ordine degli imprenditori non fu più, forziamo gli
investimenti per incrementare il nostro potenziale di produzione, ma,
cerchiamo di contenere l’evoluzione dei nostri costi di produzione e, in
particolare, quella del costo del lavoro. L’imprenditore si trasformò in
controllore. La Svizzera affidabile, la Svizzera del lavoro preciso e del
rispetto dei tempi, la Svizzera applicata e con l’occhio sempre fissato
sulla qualità, non bastò più per esportare. Essere la repubblica più vecchia e avere la settimana di lavoro più lunga d’Europa, i servizi pubblici meglio funzionanti, il tasso di criminalità forse più basso del mondo,
il segreto bancario e la neutralità di fronte ai conflitti internazionali, non
bastò più per attirare i capitali e stimolare le nostre esportazioni. Da un
mese all’altro e quasi senza accorgersene – almeno in un primo tempo
– la Svizzera era diventata un paese caro, un’isola di prezzi alti in
un’Europa che si integrava. La capacità competitiva della Svizzera era
minacciata. Occorreva ristabilire la competitività della produzione svizzera a livello internazionale o, altrimenti, le nostre industrie di esportazione si sarebbero, a poco, a poco, trasferite all’estero.
E poiché il costo dei materiali e dei prodotti semi-finiti importati continuava, in seguito al rincarare del franco, a diminuire, lo sforzo per rilanciare la competitività dell’economia portò, quasi immediatamente, sul
contenimento dei costi del lavoro.
Il costo unitario del lavoro
Il costo unitario del lavoro è dato dal rapporto tra i salari e gli altri
oneri del personale, da un lato e la produttività, dall’altro, diviso per
il numero delle unità prodotte. È bene precisare che il costo del lavoro aumenta quando aumentano i salari e gli oneri sociali a carico
dell’imprenditore e diminuisce quando aumenta la produttività del
lavoro. Se si vuole contenere l’evoluzione del costo del lavoro si può
quindi operare in due modi:
– da una parte, frenando l’aumento dei salari e degli oneri sociali
74
Dal paradiso al purgatorio
– dall’altra, aumentando la produttività del lavoro o la durata del
lavoro (senza aumentare i salari)
Facciamo un esempio. Se i salari aumentano del 2% e la produttività aumenta dell’1%, il costo del lavoro aumenterà pure dell’1% (21=1). Se i salari aumentano dell’1% e la produttività anche, il costo
del lavoro non aumenta (1-1 =0) e così via.
Il modo nel quale, a livello nazionale, si guardava al mercato del lavoro
cominciò lentamente a mutare. Mentre fino alla metà degli anni settanta,
l’obiettivo dichiarato della politica economica nazionale era la piena
occupazione e il problema centrale era quello di disporre della manodopera necessaria in una situazione nella quale non si poteva più ricorrere
liberamente all’immigrazione di manodopera dall’estero, alla fine degli
anni settanta questa visione si modificò. Si iniziò a parlare, in modo negativo, di “crescita in larghezza” (il termine è una traduzione poco italiana
dell’espressione tedesca “Wachstum in der Breite”) per definire il processo di crescita che si era manifestato dopo la seconda guerra mondiale. La
crescita in larghezza era una crescita alimentata in modo sostenuto da un
aumento dell’occupazione, basato sull’immigrazione di manodopera poco
qualificata.
La disoccupazione
Gli sforzi per migliorare il livello di produttività dell’economia portarono alle prime ristrutturazioni e queste all’apparizione della disoccupazione, come fenomeno normale sia nella fase di recessione, sia in quelle di
espansione dell’economia.
Si cominciò a parlare di uno “zoccolo” della disoccupazione, ossia di un
livello di disoccupazione al disotto del quale l’economia svizzera non
poteva più andare se non voleva correre il rischio di un aumento troppo
forte dei salari che poteva compromettere ancora di più la sua posizione
competitiva a livello internazionale. Se il “paradiso della crescita” era un
mondo di piena occupazione, il “purgatorio della stagnazione” è un mondo nel quale la disoccupazione possiede uno zoccolo insopprimibile. Allo
Stato toccò un nuovo ruolo: quello di mettere in piedi una politica della
reintegrazione dei disoccupati, rafforzando le misure di collocamento,
finanziando i programmi di riqualificazione e quelli di sostegno, e generalizzando, nel 1977, l’applicazione dell’assicurazione contro la disoccupazione.
Parte seconda: il purgatorio
75
Figura 11: Evoluzione della disoccupazione in Ticino
Fonte: Annuario cantonale di statistica
L’evoluzione del tasso di disoccupazione nel corso dell’ultimo quarto del
secolo scorso e nei primi anni del nuovo secolo mette in evidenza una
tendenza di fondo all’aumento che non può non preoccupare. Prima del
1984 il tasso medio di disoccupazione, come indicano sia i dati della serie
dei tassi di disoccupazione, sia quelli della media mobile, era pari all’1%.
Nella seconda metà degli anni ottanta, il tasso medio si raddoppia e sale
al 2%. In parte questo aumento è dovuto al fatto che la statistica sulla
disoccupazione incorpora, a partire dal 1984, anche i dati riguardanti la
disoccupazione parziale. Ma la presenza dei disoccupati parziali non
basta per spiegare l’intero aumento del tasso medio. Bisogna ammettere
che, anche nel corso degli anni ottanta, in un periodo tutto sommato di
crescita economica media, la media del tasso annuale di disoccupazione
è aumentata di un 1%. È come se allo zoccolo della disoccupazione si
fosse aggiunto uno scalino. Dal 1990 al 1998 la disoccupazione conosce
un periodo di forte aumento, seguito da una diminuzione che però non
riesce a riportare lo zoccolo al livello del 2%. Nel 2002, all’inizio del
nuovo periodo di recessione, la disoccupazione si assesta infatti sul 3%,
valore che sembra dar inizio a un nuovo livello dello zoccolo della disoccupazione incomprimibile, superiore di un 1% a quello precedente. Il
fenomeno dello spostamento verso l’alto del livello di disoccupazione
ineliminabile non è un problema particolare al solo Ticino. Nel suo volu-
76
Dal paradiso al purgatorio
me sui problemi di sviluppo dell’economia germanica dal titolo “Der
Kobra Effekt”, Horst Siebert descrive un’evoluzione dello zoccolo di
disoccupazione in quel Paese che è praticamente parallela a quella della
disoccupazione in Ticino (Siebert H., 2001). Quello che deve soprattutto
preoccupare è che la disoccupazione aumenti anche in periodo di espansione. Questa situazione può essere spiegata solo in due modi:
– o dall’esistenza di una forte disarmonia tra offerta e domanda di lavoro. Per fare un esempio, le operaie delle camicerie che perdono il loro
posto di lavoro non possono facilmente essere riassunte come infermiere negli ospedali o nelle case per anziani;
– o dal fatto che in certe professioni, in generale le meno qualificate,
il salario minimo offerto per essere riassunti è inferiore alla rendita
pagata dall’assicurazione di disoccupazione, aumentata dai costi che
il disoccupato deve affrontare per ritrovare un posto di lavoro.
Precarietà dell’impiego e flessibilità del lavoratore
Accanto alla disoccupazione è aumentata, nel corso degli ultimi ventanni, anche la precarietà dell’occupazione. Un indicatore dell’emergere di
questa nuova realtà è rappresentato dall’aumento della quota di occupati
a tempo parziale. Il censimento delle aziende registra questa nuova categoria di lavoratori solo dal 1985. In quell’anno, gli occupati a tempo parziale, in Ticino, rappresentavano appena il 6% del totale (frontalieri compresi). Nel 1991, la quota era già raddoppiata e dieci anni dopo, nel 2001,
raggiungeva il 20% dell’occupazione complessiva. La tendenza all’aumento della quota dei lavoratori a tempo parziale si accompagna alla tendenza all’aumento del tasso di attività femminile e all’aumento di importanza dei rami del sociale, della sanità e dell’educazione nel totale
dell’occupazione e al diffondersi delle agenzie che mettono a disposizione lavoratori per periodi di tempo limitati. La precarietà, quindi, non ha
solo aspetti negativi. Spesso il lavoro a tempo parziale è l’unica possibilità per la donna, che deve addossarsi anche gli impegni famigliari, di
poter esercitare un’attività lucrativa. È importante tener conto di questa
trasformazione della struttura delle forze di lavoro, in particolare quando
si misura la produttività. Poiché i dati circa la durata del lavoro (con o
senza le ore straordinarie) sono particolarmente frammentari, in Svizzera
si usa stimare la produttività per addetto e non la produttività oraria.
Supponiamo che il valore aggiunto, assicurato dalla manodopera impiegata in un certo anno sia lo stesso di quello realizzato dalla manodopera
impiegata l’anno successivo. Supponiamo che il numero degli addetti non
cambi da un anno all’altro, ma che la quota di lavoratori a tempo parzia-
Parte seconda: il purgatorio
77
le aumenti da 0 a 10%. In questo caso il valore aggiunto del secondo
anno sarebbe stato conseguito con un impegno di ore di lavoro minori.
La produttività oraria dovrebbe aumentare anche se la produttività per
addetto dovesse restare costante. Ovviamente il modo corretto di procedere in questo caso sarebbe di calcolare il numero degli addetti, aggiustandolo per tener conto dei lavoratori a tempo parziale, il che darebbe
una diminuzione degli effettivi, inferiore però al 10%. Dopo l’aggiustamento anche la produttività per addetto dovrebbe aumentare. Da ultimo
ricordiamo che la precarietà dell’impiego non si esprime naturalmente
solo attraverso la durata parziale della settimana lavorativa. Precaria è
l’occupazione quando il rapporto di lavoro non è stabile e quando la protezione giuridica del lavoratore si riduce. La precarietà si caratterizza
inoltre per il fatto che spesso la qualità delle mansioni affidate è inferiore alle qualifiche che il dipendente possiede o per il fatto che il dipendente non gode delle prestazioni sociali che gli possono essere assicurate con un posto a tempo pieno (si veda in particolare il caso della cassa
pensione).
Al concetto di precarietà del mercato o dell’offerta di posti di lavoro si
oppone il concetto di flessibilità. I paladini della flessibilità sostengono
che una parte della disoccupazione, se non tutta, è dovuta alla mancanza di flessibilità dell’offerta di lavoro. Le critiche maggiori, da questo
punto di vista, riguardano il livello dei salari e la mobilità. Poiché la
disoccupazione in Svizzera è di natura strutturale, vale a dire legata alla
chiusura e alla ristrutturazione di aziende che operavano in mercati nei
quali l’offerta è eccedente, capita spesso che i disoccupati non trovino
più occupazione nella professione che esercitavano prima del licenziamento, oppure che la possano trovare, solo però se accettano di spostarsi diverse decine di chilometri per trovare un nuovo posto. Se il disoccupato ha difficoltà a ritrovare un’occupazione nella sua professione dovrà
accettare di essere riqualificato. Nella maggioranza dei casi, tuttavia,
anche dopo la riqualifica il disoccupato non troverà un posto di lavoro
che lo retribuisca con il livello di salario che conseguiva prima. Per questa ragione la riqualifica o il cambiamento di professione non vengono
accettati da molti disoccupati. Lo stesso si può dire della mobilità.
Trasferirsi da una località a un’altra (anche se il trasferimento non comporta il trasloco) genera costi che vanno dedotti dal salario o dallo stipendio che la persona che ritrova il lavoro riceverà al nuovo posto. Questi
costi – inclusi quelli non quantificabili legati al deterioramento dei rapporti sociali nella località di residenza – possono essere importanti e quin-
78
Dal paradiso al purgatorio
di influenzare in modo negativo la volontà del disoccupato di ritrovare
un impiego.
Gli economisti sostengono d’altra parte che il salario non può essere
determinato dalla formazione avuta o dall’esperienza professionale dei
lavoratori, ma solamente dalla loro produttività al posto di lavoro che viene loro assegnato. Di conseguenza, se il posto di lavoro disponibile ha
una produttività inferiore a quella del posto che il lavoratore ha perso, il
lavoratore dovrà accettare una riduzione del suo salario. Generalizzando
a partire da questa argomentazione vi sono degli economisti che sostengono che gli alti tassi di disoccupazione che si registrano in certe economie (nazionali o regionali) sono da attribuire al fatto che, nel passato, i
salari in queste economie sono aumentati più rapidamente della produttività. Che ne è del Ticino? Per quel che riguarda una verifica empirica
di questo assunto ci scontriamo purtroppo con le insufficienze della statistica. L’annuario di statistica cantonale ha pubblicato una serie concernente l’evoluzione dei salari orari e degli stipendi mensili fino al 1993.
Dal 1994 la statistica dei salari cambia completamente di impostazione
cosicché diventa impossibile stabilire, nemmeno in lontananza, un indicatore dell’evoluzione salariale per gli ultimi anni. Ma il discorso del rapporto tra evoluzione dei salari e evoluzione della produttività non può
essere accantonato quando si discute di disoccupazione e dei rimedi che
si possono adottare per combatterla.
Il lavoro nero
Consideriamo da ultimo il problema del lavoro nero. Il mercato nero è,
di solito, la conseguenza di una regolamentazione statale alla quale l’imprenditore o il consumatore vogliono sottrarsi. Per quel che riguarda i
rapporti di lavoro, si può dire che la prima fonte di lavoro nero in
Svizzera sono state certamente le misure di restrizione all’immigrazione
di manodopera estera, introdotte nel 1964. Quando una disposizione di
questo tipo non è rispettata, altre, che pure regolano il rapporto di lavoro, come quelle che concernono i contributi alle assicurazioni sociali, o
l’assicurazione contro la disoccupazione, oppure le norme dei contratti
collettivi di lavoro, o misure fiscali concernenti il certificato di salario,
ecc., non lo saranno. E di fatto i settori nei quali il lavoro nero è più diffuso sono i servizi domestici e l’agricoltura che occupano molti lavoratori stranieri. Nell’edilizia e nei servizi del turismo (industria alberghiera, ristoranti) si può invece affermare che il lavoro nero si è sviluppato
parallelamente al diminuire del numero degli stagionali. Osserviamo
Parte seconda: il purgatorio
79
ancora che il lavoro nero può andare dall’esecuzione di un’attività che
domanda solo poche ore di applicazione (per esempio il disoccupato che
cura il giardino di un professionista, il sabato mattina, senza essere stato assunto con un regolare contratto di lavoro per questa mansione) a
un’occupazione costante con un tasso di attività del 100%, se non addirittura superiore (è il caso di certi “turisti” stranieri che fanno la stagione in agricoltura o in altre attività produttive). È difficile dire quale sia
attualmente la quota dei lavoratori al nero nel totale dell’occupazione,
oppure la quota del valore aggiunto da questi lavoratori nel totale del
valore aggiunto dell’economia ticinese. Studi fatti a livello nazionale, parlavano, per il 2001, di una quota di economia sommersa pari al 9.3% del
valore aggiunto complessivo, ossia di un importo pari a 37 miliardi di
franchi (Consiglio federale, 2002). È probabile che in Ticino, per il maggior grado di apertura del nostro mercato del lavoro e per la maggior
importanza di rami come l’edilizia e l’industria alberghiera, come pure
per la possibilità che il lavoro nero sia svolto da aziende di oltre frontiera (possibilità questa che non è contemplata negli studi a livello nazionale), la quota dell’economia sommersa possa essere maggiore.
Il lavoro nero, quando concerne una percentuale così alta del prodotto
di una regione, crea problemi non irrilevanti. Il primo e più importante
è un problema di carattere sociale rappresentato dal fatto che i lavoratori al nero non godono della necessaria protezione contro malattie e
incidenti o delle provvidenze per la vecchiaia. Ma il lavoro nero ha anche
risvolti negativi di tipo economico. Esso provoca infatti importanti perdite di risorse fiscali. Se si suppone che i salari al nero non vengono
praticamente dichiarati, il calcolo per il Ticino è presto fatto. Con un
tasso di lavoro al nero del 10%, i salari di questi lavoratori si aggirano
sugli 800 milioni di franchi all’anno e corrispondono a 560 milioni di
reddito imponibile sui quali i lavoratori al nero pagherebbero quasi 100
milioni di imposte al Cantone e ai Comuni. Un’altra conseguenza negativa del lavoro nero è di impedire un corretto funzionamento del mercato del lavoro, penalizzando in modo particolare i datori di lavoro onesti
che si vedono concorrenziati in modo sleale da ditte che fanno ricorso
al lavoro nero.
I lati negativi del “purgatorio della stagnazione” nel quale si trova coinvolta, da circa trent’anni, l’economia ticinese si manifestano soprattutto nei
confronti dell’occupazione. Nel corso di questo periodo si è infatti avviato, anche in Ticino, un processo di fragilizzazione del mercato del lavoro.
80
Dal paradiso al purgatorio
Figura 12: La fragilizzazione del mercato del lavoro ticinese
Fonte: per il tasso di disoccupazione l’Annuario statistico cantonale, per la quota di lavoro a
tempo parziale i censimenti federali delle aziende. La quota di lavoro nero è una stima dell’autore basata sui dati nazionali
14. Il purgatorio della stagnazione: due rami particolarmente colpiti
I processi di ristrutturazione, manifestatisi nel corso degli ultimi trent’anni,
hanno colpito in modo particolarmente forte due delle locomotive del processo di sviluppo della fase precedente, ossia l’industria delle costruzioni e
il turismo.
L’industria delle costruzioni
Si può affermare che questo ramo ha fatto il Ticino moderno. Se c’è un
momento simbolico che segna il passaggio del Ticino dalla civiltà rurale di
prima della seconda guerra mondiale a quella del terziario avanzato di oggi,
pensiamo che possa essere il periodo durante il quale furono realizzati i
grandi investimenti idroelettrici del Brenno e della Maggia. La diga, il lago
artificiale, gli elettrodotti dell’alta tensione vengono evocati in romanzi
come “L’anno della valanga” di Giovanni Orelli o “L’albero genealogico”
di Piero Bianconi come interventi dell’uomo che non solo cambiano il paesaggio, ma di fatto cambiano anche la struttura sociale e l’evoluzione delle
nostre valli. L’industria delle costruzioni non solo ha fatto il Ticino moderno, costruendone strutture e infrastrutture, ma, per tre decenni, dopo la
seconda guerra mondiale, ha guidato il suo sviluppo economico, incremen-
Parte seconda: il purgatorio
81
tando la quota degli investimenti nel reddito cantonale e accelerando così il
processo di accumulazione del capitale. Lo sviluppo della sua attività fu
spesso accompagnato da fenomeni speculativi.
Lo sviluppo e la decadenza di questa industria può quindi essere descritto
dalla curva che riproduce l’evoluzione degli investimenti nelle costruzioni,
riportata nella figura 13.
Figura 13: Evoluzione degli investimenti nell’industria delle costruzioni
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
L’andamento dell’attività nell’industria delle costruzioni è ciclico. La prima
forte ondata di espansione si conclude nel 1965, in seguito ai provvedimenti presi dalla Confederazione per combattere il surriscaldamento dell’economia. La ripresa, nel 1970, è dovuta all’avvio dei lavori per la realizzazione dell’asse autostradale del S.Gottardo e all’inizio del grosso programma
di costruzioni nel settore della depurazione delle acque. Ma anche l’edilizia privata, in particolare quella a fini commerciali (si veda, per fare un solo
esempio, il caso dei supermercati e delle sedi bancarie) conosce un forte
rilancio. Lo sviluppo dell’attività nell’industria delle costruzioni viene di
nuovo bloccato da provvedimenti di freno alla congiuntura nel 1972/73.
Questi provvedimenti segnano l’inizio di una profonda crisi di questo ramo
che permane praticamente fino alla fine degli anni settanta con un’eccedenza di vani costruiti da occupare sul mercato. La ripresa si manifesta solo
82
Dal paradiso al purgatorio
all’inizio degli anni ottanta e si rafforza notevolmente negli ultimi 4 anni
del decennio in seguito allo sviluppo di una bolla speculativa nella costruzione di uffici e alloggi che determina un forte rialzo dei prezzi dei terreni
e delle costruzioni (raddoppio annuale dei prezzi). La bolla speculativa è
alimentata dal credito bancario, concesso in modo generoso. Essa scoppia
però all’inizio degli anni novanta per l’operare congiunto, da un lato, dei tre
provvedimenti urgenti di lotta contro la speculazione nel mercato delle
costruzioni, adottati dalla Confederazione, e, dall’altro, per l’impennata dei
tassi ipotecari che salgono, cosa mai vista in precedenza in Svizzera, fino a
sfiorare l’8%. La diminuzione degli investimenti, dalla vetta del ciclo, nel
1990, al punto di maggiore depressione, nel 1999, è dell’ordine del 30%.
La ripresa comincia lentamente a manifestarsi a partire dalla fine del secolo. Ma i tempi sono cambiati. I fattori che alimentavano la crescita ossia gli
investimenti del settore pubblico, la crescita della popolazione e l’espansione dei flussi turistici o non influenzano più la domanda di costruzioni nella
misura in cui la influenzavano in precedenza, o sono spariti.
A questa evoluzione ciclica della domanda, interrotta dagli interventi di
freno alla congiuntura e alla speculazione fondiaria del governo federale,
come ha reagito l’offerta? Nella figura 14 abbiamo riprodotto l’evoluzione
degli indici del numero delle aziende e del numero degli occupati.
Figura 14: Evoluzione del numero delle imprese di costruzione e del numero degli occupati (indice = 100 nel 1962)
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
Parte seconda: il purgatorio
83
Se compariamo l’evoluzione di questi due indici dell’offerta con quella della
domanda (rappresentata dagli investimenti) ci scontriamo con messaggi contradditori difficili da interpretare. Dapprima osserviamo che, ad eccezione
del periodo successivo al 1990, il numero delle imprese di costruzione in
Ticino evolve nello stesso modo in cui evolvono gli investimenti nell’edilizia. Ricordiamo al lettore che quando si parla, per il Ticino, di mercato delle
costruzioni, ci si riferisce a un concetto astratto che non esiste nella realtà.
Nella realtà esistono invece un certo numero di mercati regionali, almeno
uno per ogni distretto, se non di più. Il mercato delle costruzioni è un mercato regolato non solo per il fatto che la sua attività, quando tende ad espandersi troppo rapidamente, viene sempre frenata da interventi del governo
federale, ma anche perché le aree costruibili sono fissate dai piani regolatori e per costruire occorre ottenere un permesso di costruzione. La forte densità della regolamentazione e la difficoltà quindi di ottenere facilmente le
informazioni necessarie allo svolgimento dell’attività edile in una determinata localizzazione, fanno emergere mercati locali, dominati da singole
imprese o da un numero limitato di imprese. L’importanza della componente pubblica degli investimenti non fa che rafforzare questo stato di cose. In
certe valli del Ticino vi sono imprese di costruzione che vivono, da decenni degli appalti legati alla manutenzione di poche strade di montagna. Questo
fa si che esistano ostacoli alla razionalizzazione dell’offerta di questo ramo
di produzione. Il numero delle imprese quindi, fino al 1990 è cresciuto, o
diminuito, a seconda della congiuntura senza che nel settore si sia manifestata una ristrutturazione. Nel corso degli ultimi quindici anni, invece, il
numero delle imprese tende a diminuire lentamente. Ma è ancora troppo presto per affermare che una ristrutturazione sia effettivamente in corso, perché
oggi contiamo praticamente lo stesso numero di aziende di 40 anni fa. Nel
prossimo futuro, però, nella misura in cui la libera circolazione potrà esercitare i suoi effetti anche nei mercati delle costruzioni, una drastica ristrutturazione dell’offerta indigena sarà inevitabile.
Anche l’evoluzione del numero degli occupati pone qualche problema interpretativo. A prima vista, si potrebbe affermare che questa evoluzione, tenendo presente la costanza dell’effettivo di imprese, nasconda un fenomeno
positivo, ossia l’aumento della produttività. La dimensione media delle
imprese si è più che dimezzata, nel corso degli ultimi quarant’anni. Se i dati
dell’occupazione rispecchiassero veramente l’evoluzione, manifestatasi in
questo periodo, questo significherebbe che la produttività nel ramo delle
costruzioni sarebbe aumentata a un tasso del 3.5% annuo, risultato da considerare come molto positivo. Tenendo però presente la piccola dimensio-
84
Dal paradiso al purgatorio
ne delle aziende è difficile accettare questo risultato come plausibile, ragione per cui reputiamo che solo una parte della diminuzione degli effettivi sia
da attribuire a un aumento della produttività. Il resto deve essere fatto risalire a una delle due seguenti cause, o a tutte e due:
– errori nella statistica che rileva l’occupazione nelle imprese di costruzione
– emergere di una forte tendenza al lavoro nero in questo ramo.
Anche accettando per buona l’ipotesi del lavoro nero, resta acquisito che
l’industria delle costruzioni, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, ha perso
molto della sua importanza come ramo di produzione dell’economia ticinese. I dati del censimento federale delle aziende ci dicono infatti che, nel
1965, cioè quasi all’apice della sua prima ondata di espansione, questa industria dava occupazione al 22.2% dei lavoratori occupati nell’economia ticinese. Nel 2001 questa percentuale era scesa al 9.3%. Mentre oggi la quota
degli occupati nel ramo delle costruzioni è quella normale di ogni economia sviluppata, nel 1965, nel Canton Ticino, essa era sovradimensionata.
Per il futuro occorre attendersi a una liberalizzazione del mercato interno e
quindi all’insediarsi, anche in Ticino (nel resto della Confederazione la tendenza è in atto da almeno un decennio) di un processo di concentrazione a
livello delle imprese di costruzione.
Il turismo
In Ticino, l’attività turistica ha una lunga tradizione che risale alla fine del
XIX° secolo, ossia al momento in cui fu aperta la galleria ferroviaria del S.
Gottardo. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, però, l’attività turistica si limitò a qualche centinaia di migliaia di pernottamenti di ospiti, concentrati negli alberghi dei capoluoghi del Ceresio e del Lago Maggiore. Con l’espandersi della motorizzazione privata in Europa occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, il turismo lacuale divenne un turismo di massa. Così,
mentre prima della seconda guerra mondiale il numero dei pernottamenti in
albergo si aggirava sul milione, dal 1950 al 1971, i pernottamenti in albergo
salirono da 1,4 a 3,7 milioni. Dopo il 1970 però, inizia un periodo di stagnazione della domanda, interrotto solamente da un’impennata nel 1975 e negli
anni 1980 e 1981. Quest’ultimo aumento fu provocato dall’apertura della
galleria autostradale del S. Gottardo. Nel 2003, i pernottamenti erano scesi a
2,5 milioni. La composizione dei pernottamenti è mutata di molto nel corso di
questo lungo periodo. Mentre all’inizio degli anni cinquanta, la maggioranza
dei pernottamenti erano assicurati da persone provenienti dal resto della
Svizzera (62.9%), a partire dalla metà degli anni cinquanta e fino al 1970, la
Parte seconda: il purgatorio
85
maggioranza dei pernottamenti era assicurata da turisti provenienti dall’estero. Nel 1965, la quota degli stranieri aveva raggiunto il 60.9%.
Figura 15: Evoluzione del numero dei pernottamenti in albergo
Fonte: Annuario di statistica cantonale
In seguito, invece, la percentuale dei pernottamenti di turisti stranieri è diminuita e si sta attualmente avvicinando, come mostra la figura 16, ai valori
che aveva all’inizio degli anni cinquanta (circa 40%).
Figura 16: Evoluzione della quota degli stranieri nel totale dei pernottamenti in albergo
Fonte: Annuario di statistica cantonale
86
Dal paradiso al purgatorio
Come si deduce dal grafico, la diminuzione più forte di questa quota si è
verificata nel corso degli anni settanta. Si può calcolare che, in seguito alla
rivalutazione del franco svizzero, gli alberghi ticinesi abbiano perso, tra il
1973 e il 1978, almeno 300'000 pernottamenti di turisti stranieri. Notiamo
ancora che la ripresa nella quota dei pernottamenti di turisti stranieri, che si
verifica all’inizio degli anni novanta, è dovuta semplicemente al fatto che
in quel periodo la diminuzione dei pernottamenti degli stranieri è meno rapida della diminuzione dei pernottamenti degli svizzeri. Non è dunque da considerare come un fenomeno positivo o una correzione di tendenza importante.
L’offerta turistica nel settore alberghiero si è sviluppata di conseguenza. La
diminuzione dei pernottamenti ha portato a una diminuzione del tasso di
occupazione dei letti e quindi della redditività degli esercizi alberghieri. A
poco, a poco si è istallata una tendenza alla chiusura di esercizi. Quando,
per continuare l’attività, sarebbero stati necessari degli investimenti, i proprietari o chiudevano, o cambiavano la destinazione del loro edificio (appartamenti in condominio, apartment-hotel, residenze per anziani, ecc.). Per gli
alberghi più piccoli, a gestione famigliare, la decisione di chiudere arrivava al momento del ricambio generazionale. In certi casi, la tendenza alla
riduzione dei letti in albergo ebbe un influsso negativo sull’evoluzione dei
pernottamenti perché anticipò addirittura la diminuzione degli stessi.
Figura 17: Evoluzione del numero degli alberghi, dal 1960
Fonte: Annuario di statistica cantonale
Parte seconda: il purgatorio
87
Come dimostra la curva della figura 17, mentre nel corso degli anni sessanta l’effettivo degli alberghi era aumentato, dalla fine di quel decennio
in poi, la tendenza è alla diminuzione. In trent’anni, il numero degli alberghi è passato in Ticino da quasi 900 a meno di 600. Dal 1970 al 2002,
quindi, un albergo su tre ha chiuso le sue porte. Il numero dei letti in
albergo è pure diminuito, ma a un ritmo più lento. Questo significa che
la dimensione media dell’esercizio alberghiero, misurata con il numero
di letti è aumentata. Dai 27 letti del 1960, la dimensione media dell’albergo ticinese è aumentata a 42 letti nel 2002, nel tentativo di contenere
i costi e il rincaro dovuto alla rivalutazione del franco attraverso le economie di scala. Gli esperti del settore affermano tuttavia che oggi continua ad esistere un eccesso di offerta nel settore alberghiero e che, nel
corso dei prossimi anni, la tendenza alla diminuzione del numero degli
esercizi continuerà a manifestarsi.
In relazione al turismo di massa si parla molto del ruolo giocato dalle strutture di ricezione para-alberghiero (appartamenti e case di vacanza, campeggi, ostelli per la gioventù). La statistica che riguarda i pernottamenti in queste strutture non è molto precisa. Osserviamo che dal 1977 in avanti il numero dei pernottamenti in strutture para-alberghiero è uguale, per dimensione,
a quello dei pernottamenti in albergo. La recessione di cui soffre oggi il turismo ticinese si applica quindi sia al turismo alberghiero, sia ai flussi ospitati da strutture non alberghiere. La perdita di attrattiva è quindi generalizzata a tutti i tipi di strutture ricettive. Neanche l’apertura della galleria autostradale del Gottardo e la realizzazione dell’autostrada da Chiasso ad Airolo
sono riuscite a frenare, in modo definitivo, il declino dei pernottamenti.
Il turismo è oggi uno dei grandi malati dell’economia ticinese. Al suo capezzale sono accorsi molti esperti. Molto più che nel caso del declino dell’edilizia o della ristrutturazione dei rami ad alta intensità di lavoro, la decadenza del turismo ha dato la stura a studi, visioni, concetti e strategie. Non da
ultimo questa situazione di particolare attenzione è data dal fatto che nel
turismo lo Stato ha versato e versa notevoli risorse finanziarie. Tante diagnosi, tanti suggerimenti sul da farsi, che però non hanno avuto successo.
Chi scrive pensa che la decadenza del turismo ticinese sia da attribuire a
perdita di quote di mercato dovuta alla insufficiente competitività dell’offerta ticinese, in un mercato nel quale, nel corso degli ultimi decenni, la
domanda è stata in buona parte appropriata dai grandi operatori internazionali. Per dirla in modo più chiaro: la settimana di soggiorno in Ticino costa
troppo rispetto alla settimana di soggiorno al mare che un turista tedesco,
88
Dal paradiso al purgatorio
olandese o scandinavo può comperare in qualsiasi località turistica marittima, affacciata sul Mediterraneo e che, per soprammercato, può raggiungere in aereo, con il biglietto dell’aereo incluso nel prezzo del soggiorno. Il
grande operatore trascura quindi l’offerta ticinese.
Figura 18: Il circolo vizioso della decadenza del turismo alberghiero
Fonte: Elaborazione dell’autore
Come si può rilevare dal grafico, la decadenza è determinata da due processi che si sviluppano contemporaneamente e le cui conseguenze negative si
cumulano. Il primo è quello determinato dai prezzi troppo elevati che porta
a una perdita di competitività, a una diminuzione dei pernottamenti, alla redditività insufficiente degli alberghi e, quindi, alla necessità di aumentare i
prezzi per poter mantenere l’albergo in attività. Se questo non è più possibile, si avvia il secondo processo che porta o alla riduzione del numero dei
letti o alla chiusura dell’albergo, il che ovviamente determina una perdita
di attrattiva e competitività complementare a quella determinata dai prezzi
troppo elevati. La decadenza, insomma, rafforza la decadenza in un circolo vizioso di cui, per il momento, non si vede la fine. Per il futuro non si
tratta tanto di rilanciare i flussi turistici, quanto di ottimizzarli, rispetto
soprattutto alle esigenze di gestione delle strutture alberghiere.
15. Il purgatorio della stagnazione: i rami che si sono sviluppati
Dal 1975 al 2000, durante la fase del ciclo di lungo termine, che abbiamo
chiamato il purgatorio della stagnazione a causa del declino del tasso di cre-
Parte seconda: il purgatorio
89
scita e di quello del tasso di aumento della produttività, la struttura di produzione dell’economia ticinese si è profondamente modificata. Se i tassi di
variazione di produzione, occupazione e produttività sono stati molto più
contenuti che nel periodo de “les trentes glorieuses”, la struttura di produzione ha conosciuto cambiamenti sostanziali che hanno permesso, almeno
nei primi due decenni, di mantenere l’aumento dell’occupazione. Il merito
di questi risultati è da attribuire a pochi rami che hanno conosciuto un’espansione dell’occupazione, durante questo periodo.
Tabella 4: Variazione dell’occupazione per ramo dal 1975 al 2001
Ramo
Altri rami manifatturieri
Tessili, abbigliamento
Metallurgia
Alimentari, bevande, tabacco
Energia, protezione ambiente
Altri servizi
Produzione carta
Edilizia, genio civile
Cave e miniere
Trasporti, depositi, spedizioni, posta e telecom.
Prodotti minerari non metalliferi
Legno e mobili
Arti grafiche
Commercio al minuto
Industria alberghiera, ristoranti
Amministrazione pubblica, assicurazioni sociali
Cuoio e calzature
Macchine, apparecchi, veicoli, elettronica
Gomma e materie plastiche
Banche, assicurazioni e istituti finanziari
Chimica e petrolio
Commercio all’ingrosso
Istruzione, scuole, istituti
Cultura, divertimenti, sport
Attività organizzazioni associative
Sanità, servizi sociali
Immobili, noleggio, informatica
Totale
Fonte: Censimenti federali delle aziende
Variazione percentuale
– 82.3%
– 69.6%
– 51.1%
– 50.9%
– 20.2%
– 17.4%
– 11.4%
– 3.2%
– 1.1%
– 0.4%
11.1%
20.0%
24.4%
25.2%
26.5%
33.5%
35.4%
51.5%
65.4%
71.8%
76.5%
90.8%
111.0%
180.2%
191.9%
216.7%
3332.0%
30.3%
90
Dal paradiso al purgatorio
L’evoluzione dell’occupazione nell’economia ticinese, durante l’ultimo
quarto del secolo scorso, è caratterizzata da fenomeni di aumento e da fenomeni di diminuzione. Considerando le cifre ramo per ramo ci accorgiamo
che, complessivamente, le aziende ticinesi hanno creato 53'150 e soppresso 15'718 posti di lavoro. Il saldo di questi due dati dà un aumento pari a
37'432 posti di lavoro. I rami nei quali l’occupazione si è sviluppata in misura superiore alla media, nel corso del periodo 1975-2001, si trovano, in generale, nel settore dei servizi. L’aumento proporzionalmente più forte l’ha
registrato il gruppo “immobili, noleggio e informatica”, grazie all’aumento degli addetti del ramo “informatica”.
Il ruolo dell’innovazione tecnologica
Dei 12 rami con un tasso di aumento dell’occupazione superiore alla media
in questo periodo, solo 4 si trovano nel settore manifatturiero. Si tratta del
ramo cuoio e calzature, del ramo macchine, apparecchi, veicoli e elettronica, del ramo gomma e materie plastiche e del ramo della chimica e del petrolio. I dati riguardanti il ramo del cuoio e delle calzature possono però essere influenzati dalla nuova definizione dei rami, adottata nel 2001. Se lasciamo cadere questo ramo ci accorgiamo che la crescita dell’occupazione nel
settore manifatturiero è legata all’attività di innovazione. Chimica, elettronica, elettrotecnica, meccanica, veicoli sono infatti rami dominati dall’attività di innovazione tecnologica che aiuta di certo a tener alto il ritmo di
aumento della produttività. Non esistono molti dati sull’innovazione tecnologica per ramo in Svizzera. Nel rapporto del Consiglio svizzero della scienza del 1999, erano contenute informazioni sul numero delle patenti per ramo
di produzione industriale, nel periodo 1991/93 e 1994/96 (Consiglio svizzero della scienza, 1999). In particolare il rapporto riportava la quota di
aziende per ramo che avevano registrato, nel corso del triennio analizzato,
almeno 1 patente, da 2 a 5 patenti, o più di 5 patenti. Se ci limitiamo all’ultima categoria e consideriamo la media delle due quote (ossia la media della
quota 91/93 e della quota 94/96) ci accorgiamo che il ramo con maggiore
innovazione tecnologica è la chimica, seguita dal gruppo macchine, elettrotecnica, elettronica, veicoli, e dal gruppo lavorazione dei metalli e prodotti
in metallo. Tutti gli altri rami possiedono quote molto meno importanti.
Tuttavia questi rami del settore manifatturiero, più il ramo della gomma e
delle materie plastiche, assieme, non rappresentano, in Ticino, che il 9.1%
dell’aumento dell’occupazione, manifestatosi tra il 1975 e il 2001 (aumento che è stato di 53150 unità). L’innovazione tecnologica è quindi importante nel settore industriale come determinante di nuovi posti di lavoro. Il
suo impatto sulla domanda addizionale di lavoro dell’economia ticinese non
Parte seconda: il purgatorio
91
è però stato molto importante. Vedremo invece che un ramo come l’informatica, dove l’innovazione è pure importante, ha generato un volume importante di nuovi posti di lavoro, ma nel settore dei servizi. L’innovazione tecnologica è importante perché permette di rafforzare la competitività della
nostra produzione. Ma non è un’attività che porta alla creazione di molti
posti di lavoro. Anzi, nella forma dell’innovazione di processo, essa può
portare piuttosto alla riduzione che all’aumento dei posti di lavoro (Rifkin
J., 2000). È un dato di fatto che sfugge spesso a chi raccomanda una politica di promozione dell’innovazione e pensa che la stessa possa risolvere i
problemi dell’occupazione nel Cantone (si veda anche la discussione sul
rapporto Evoluzione/produttività/occupazione nel cap. 12).
La creazione di posti di lavoro nel settore dei servizi
Bisogna dunque riconoscere che il periodo della stagnazione economica, in
Ticino, è caratterizzato dall’espansione dell’occupazione nel settore terziario. Ma non si tratta di tutto il terziario. L’espansione dell’occupazione nel
terziario è concentrata praticamente in quattro rami:
– il ramo dell’immobiliare, noleggio e informatica
– il ramo della sanità e del sociale
– il ramo dell’istruzione delle scuole e degli istituti
– e il ramo del commercio all’ingrosso
Questi quattro rami hanno creato 32'701 posti di lavoro, pari al 61.5% di
tutti i posti di lavoro creati nell’economia ticinese nel corso del periodo analizzato. Se nel caso del settore manifatturiero, la creazione di posti di lavoro è legata, in modo abbastanza evidente, a un solo fattore, l’innovazione
tecnologica, nel terziario l’espansione dell’occupazione ha più determinanti. L’innovazione tecnologica è di sicuro responsabile dell’aumento dell’occupazione nel ramo dell’immobiliare, del noleggio e dell’informatica.
Reputiamo infatti che l’occupazione di questo ramo si sia sviluppata soprattutto per l’importanza che hanno assunto le attività dell’informatica.
L’occupazione del ramo della sanità e quella del ramo dell’istruzione crescono invece per l’operare congiunto di fattori demografici, politici ed economici. Tra i fattori demografici bisogna citare l’invecchiamento della
popolazione che fa crescere la domanda di servizi sanitari e sociali. Tra i
fattori politici, invece, ricordiamo, a livello federale, l’introduzione dell’assicurazione invalidità e, a livello cantonale, la pianificazione ospedaliera e
la creazione dell’Ente ospedaliero cantonale, la pianificazione delle case per
anziani, la democratizzazione degli studi e la creazione, da parte delle autorità cantonali dei nuovi licei e, nell’ultimo decennio del secolo scorso, di
92
Dal paradiso al purgatorio
due istituzioni universitarie (l’USI e la SUPSI). Il fattore economico che ha
influenzato, in modo determinante, l’aumento della domanda per i servizi
offerti da questi due rami è stato infine l’aumento del reddito pro-capite.
Un discorso a parte merita l’evoluzione dell’occupazione nel ramo del
commercio all’ingrosso e dell’intermediazione. Non vi sono a prima vista
ragioni evidenti per spiegare il forte sviluppo di questo ramo, nel corso
dell’ultimo quarto del secolo scorso. Nel grafico che segue abbiamo
riportato gli indici di evoluzione del numero delle aziende e dell’effettivo degli occupati di questo ramo dal 1975 al 2001, per calcolare gli indici (base 100 nel 1975) abbiamo utilizzato i risultati dei censimenti federali delle aziende.
Figura 19: Evoluzione del ramo del commercio all’ingrosso e della mediazione commerciale
Fonte: Censimenti federali delle aziende
Ci si accorge subito che lo sviluppo di questo ramo si è manifestato nel corso
degli anni ottanta. Dopo il 1991, invece, il ramo ristagna, sia in termini di
aziende, sia in termini di occupati. Delle due attività integrate in questo ramo
è quella del commercio all’ingrosso a nutrire lo sviluppo, mentre l’attività
di mediazione non ha conosciuto praticamente nessuna crescita, dal 1975
in poi. Le aziende del ramo sono piccole (l’occupazione media varia, durante tutto il periodo analizzato, tra le 5 e le 6 persone). Le aziende individuali formano una quota consistente del totale (almeno 30%). Questi dati suggeriscono come possibile interpretazione che lo sviluppo del ramo debba
Parte seconda: il purgatorio
93
essere fatto risalire ai processi di liberalizzazione del commercio internazionale di merci che si sono manifestati nel corso degli anni settanta e ottanta. La liberalizzazione nel traffico di merci sembra aver tolto ostacoli all’entrata di nuove aziende nel ramo del commercio all’ingrosso. Più che di una
spiegazione si tratta però di un’ipotesi che andrebbe verificata. Un’altra ipotesi che andrebbe verificata attribuirebbe la crescita del settore alla forte
espansione dell’informatica nel corso degli anni ottanta. Mentre tra il 1965
e il 1975 l’effettivo delle aziende di questo ramo era restato stabile, tra il
1975 e il 1985 sono state create quasi 400 nuove aziende nel ramo del commercio all’ingrosso. Tra il 1985 e il 1991 altre 300. In quindici anni, quindi, il numero delle aziende si è più che raddoppiato. Può darsi che con la
deindustrializzazione talune aziende abbiano rinunciato alla produzione e
si siano trasformate in aziende importatrici di componenti o prodotti finiti
che vendono all’ingrosso. Anche il numero dei posti di lavoro è aumentato
in misura notevole. Si tratta di un fenomeno rilevante per la struttura di produzione dell’economia ticinese. Ma non sembra che abbia attirato l’interesse dei commentatori economici. Anche noi non siamo in grado di dire molto
e dobbiamo accontentarci delle ipotesi riportate qui sopra. Il mistero dell’espansione del ramo del commercio all’ingrosso permane quindi. È come
se avessimo ricevuto un regalo e non sapessimo il nome del mittente.
16. Il purgatorio della stagnazione: effetti collaterali
Vi sono diversi effetti collaterali al fenomeno della stagnazione economica
e della trasformazione della struttura di produzione nell’economia ticinese.
Due degli stessi riguardano l’organizzazione territoriale e, più precisamente, la struttura dell’abitato. Si tratta, da un lato, dell’urbanizzazione, ossia
del processo di concentrazione della popolazione residente in pochi centri
urbani, e, dall’altro, del rafforzamento della gerarchia dei centri con l’emergenza di Lugano come centro più importante del Cantone. Questo secondo
effetto ha messo un po’ in crisi il concetto di “città-regione” sul quale era
stato costruito il primo Piano Direttore del Cantone. Approvato verso la fine
degli anni ottanta dello scorso secolo, ma concepito di fatto all’inizio di quel
decennio, il Piano Direttore cantonale aveva infatti coniato questa formula,
politicamente geniale, anche se generatrice di qualche confusione dal profilo tecnico, per definire il principio dell’organizzazione territoriale del
Cantone. Si trattava di una formula geniale perché se da un lato riconosceva
l’evidenza, ossia il rapido progredire dell’urbanizzazione del nostro territorio, dall’altro preservava un discorso di equilibri spaziali tra le regioni, o per
lo meno tra Sopraceneri e Sottoceneri, attribuendo ad ambedue le regioni un
ruolo consistente nella costruzione della città-regione.
94
Dal paradiso al purgatorio
Di fatto questa città si snodava da Chiasso a Biasca e da Bellinzona a
Locarno, riempiendo tutti i fondovalle e le poche pianure del Cantone. La
città-regione – qualcuno parla anche di città-Ticino – mostrava di avere una
vitalità economica interessante, sostenuta, si pensava allora, da una specializzazione che, se all’inizio degli anni ottanta era ancora in nuce, avrebbe
dovuto svilupparsi con il passare del tempo. Bellinzona sarebbe così divenuta la capitale amministrativa, Lugano quella finanziaria, con un’appendice importante nel Mendrisiotto che restava però anche regione industriale e
di attività logistiche. Infine Locarno si sarebbe orientata verso il turismo e
le altre attività del tempo libero e della cultura, conservando però nel centro e in periferia di agglomerato importanti aziende industriali. Poiché il
fenomeno di urbanizzazione era generale, il concetto di città-regione era,
come si usava dire allora, un concetto “win-win”, che faceva vincere tutti.
Il fatto che taluni disponevano di migliori carte degli altri e, di conseguenza, erano probabilmente destinati a guadagnare di più, non suscitava allora
né critiche, né gelosie particolari.
Semmai il problema dell’equilibrio spaziale era quello di trovare opportunità di sviluppo per tutte le zone – che rappresentano anche oggi più del
90% del territorio cantonale – che non rientravano nella città-regione. Si
puntava allora per queste zone sul rilancio delle attività agricole e sulla promozione di forme di turismo particolare, molto più in sintonia con l’ambiente naturale di quanto non fosse il turismo dei laghi.
Di fatto queste attese sono andate deluse. Nel corso degli ultimi venti anni,
per effetto dell’autostrada e della rivoluzione telematica, con il suo impatto significativo sulla concentrazione spaziale dei servizi, l’organizzazione
del territorio ticinese è mutata sostanzialmente. Non solo i 3 agglomerati
urbani maggiori si sono affermati in modo quasi schiacciante rispetto allo
sviluppo del resto del Paese, ma anche la gerarchia urbana si è verticalizzata, favorendo l’emergere dell’agglomerato di Lugano come zona urbana più
importante e della “nuova Lugano” come località centrale leader nel
Cantone. Questo fenomeno può essere misurato anche in termini quantitativi. Nella tabella che segue abbiamo riportato l’evoluzione delle quote nell’occupazione totale e nella popolazione residente nel Cantone dei 3 agglomerati principali e di quello di Lugano in particolare.
Si osserva che sia le quote dei 3 agglomerati principali (Lugano, Bellinzona
e Locarno) sia quella dell’agglomerato di Lugano sono aumentate in modo
molto rilevante. È vero che parte di questo aumento di importanza delle
Parte seconda: il purgatorio
95
quote degli agglomerati deve essere attribuito all’aumentato numero di
comuni che li compongono. Ma il fatto che la superficie degli agglomerati
aumenta non viene che a confermare l’importanza del processo di concentrazione di attività economiche e popolazione a livello cantonale. Gli agglomerati si sviluppano infatti in modo centrifugo.
Tabella 5: Evoluzione delle quote degli agglomerati nel totale dell’occupazione e della
popolazione residente
Variabili osservate e agglomerati
Occupazione
3 agglomerati principali
Lugano
1975
2001
55.3%
29.1%
74.1%
44.5%
Popolazione residente
3 agglomerati principali
Lugano
52.6%
25.2%
71.6%
39.3%
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
Notiamo intanto che la concentrazione è maggiore per i posti di lavoro che
per la popolazione. Da un po’più della metà, nel 1975, la quota dei tre agglomerati nel totale è passata a quasi 3/4 nel 2001. Osserviamo che la superficie dei tre agglomerati insieme non rappresenta nemmeno il 10% della
superficie del Cantone. La quota dei tre agglomerati nel totale della popolazione residente è però solo leggermente inferiore, mentre l’evoluzione nel
corso dell’ultimo quarto di secolo è analoga. La differenza tra la quota nell’occupazione e la quota nella popolazione residente rappresenta il saldo
positivo dei movimenti pendolari dal resto del Cantone verso gli agglomerati.
Agglomerato e pendolari
Si tratta di una nozione tipica della statistica svizzera. Per agglomerato la statistica intende un gruppo di comuni, formato, di regola, da una
città-centro con più di 10'000 abitanti e da una corona di comuni che
sono uniti da una continuità di costruzione con la città e che con la stessa intrattengono importanti relazioni economiche. L’intensità delle
relazioni economiche viene misurata con la quota di lavoratori pendolari che dai comuni della corona si recano, quotidianamente, in città
per esercitare la loro attività. In Svizzera si contano una quarantina di
agglomerati di cui 4 in Ticino: Bellinzona, Locarno, Lugano e
Mendrisio/Chiasso. L’agglomerato di Mendrisio/Chiasso presenta tre
96
Dal paradiso al purgatorio
caratteristiche particolari. In primo luogo perché conta due centri. In
secondo luogo, perché questi centri non raggiungono i 10'000 abitanti. In terzo luogo perché si estende oltre frontiera.
Il guadagno maggiore di quota lo realizza però l’agglomerato di Lugano.
Di conseguenza, nel corso del periodo della stagnazione economica, non
solo si è realizzato una forte concentrazione di attività economiche e popolazione sugli agglomerati principali, ma, all’interno degli agglomerati, è
l’agglomerato di Lugano che, di gran lunga, si è sviluppato nel modo più
rapido. Questa tendenza si spiega con la modificazione della struttura dell’occupazione che ha visto l’affermarsi sempre maggiore del settore dei servizi. Aggiungiamo che se all’inizio del periodo esaminato i servizi erano
concentrati, in misura molto forte, nei centri dei tre agglomerati urbani principali (per fare un solo esempio, nell’agglomerato di Lugano nel 1975 più
dei 3/4 della superficie di vendita dei commerci al dettaglio si trovava ancora in città), nel corso dell’ultimo decennio, una parte dei servizi ha cominciato a spostarsi verso località periferiche dell’agglomerato.
All’interno degli agglomerati si manifesta così una tendenza alla suburbanizzazione. In altre parole, la città-centro perde di importanza in favore dei
comuni della zona suburbana.
Tabella 6: La deconcentrazione dell’occupazione nei tre agglomerati urbani
Città
Lugano
Bellinzona
Locarno
Quota nell’occupazione
dell’agglomerato nel 1975
67.6%
71.5%
43.5%
Quota nell’occupazione
dell’agglomerato nel 2001
43.3%
58.3%
37.9%
Fonte: Annuario statistico cantonale e Statistica delle città svizzere
Nel caso di Bellinzona e di Lugano, il deconcentramento dei posti di
lavoro è stato favorito dalla realizzazione dell’autostrada che, di fatto, viene utilizzata in questi agglomerati, come strada di circonvallazione da una
parte dei consumatori dei comuni suburbani e del centro per evitare le
code e la mancanza di parcheggi in centro e raggiungere direttamente i
supermercati, sviluppatisi in prossimità delle uscite autostradali. È probabile che la realizzazione della circonvallazione in galleria di Locarno
abbia provocato lo stesso fenomeno anche se nel Locarnese i centri del
Parte seconda: il purgatorio
97
commercio al dettaglio non sono ancora così deconcentrati come negli
altri due agglomerati.
Prima di terminare questo capitolo sull’evoluzione dell’organizzazione territoriale nel periodo della stagnazione, pensiamo sia necessario fare un
accenno alle cattedrali del consumo sorte in prossimità delle uscite autostradali di Chiasso, Mendrisio, Lugano-sud, Bellinzona-sud e -nord. Si potrebbe quasi affermare che in contrapposizione ai vecchi nuclei cittadini, costruiti per una popolazione che si spostava a piedi, nel corso degli ultimi venticinque anni si sia sviluppato un nuovo Ticino urbano, una città per chi vive
con l’automobile, attorno ai centri di acquisto e ai parcheggi gratuiti del
Serfontana (Morbio Inferiore), di Grancia e di S. Antonino, per non parlare
della Fox Town di Mendrisio e dei centri di Castione. Non è difficile mettere in contrapposizione questi nuovi centri e i vecchi nuclei cittadini in quanto una specializzazione delle funzioni è andata sviluppandosi nel corso di
questo periodo. I vecchi nuclei sono i luoghi del lavoro mentre i centri shopping alle uscite dell’autostrada stanno diventando i luoghi di incontro del
tempo libero. Non solo per le offerte sempre più ampie e più variate di merci
e di servizi che vi si trovano, ma anche perché i promotori di questi centri
hanno, come visione a lungo termine, l’ambizione di diventare il gestore del
tempo libero 24 ore su 24 attraverso un’integrazione sul posto di tutte le attività di consumo, di comunicazione e di svago. Ai negozi specializzati e alle
grandi superfici si aggiungeranno – se già non ci sono – le banche, i ristoranti, le diagnosi mediche rapide, le consulenze legali in stile telegrafico, i
centri internet, i casinò e i disco, i centri wellness, le sale di ginnastica e di
body building e i cinema multisala. Non è escluso che gli stadi per il gioco
del calcio, i campi da tennis e, di sicuro, anche i campi per il golf, o per lo
meno i terreni di esercizio per i golfisti, vengano a completare l’offerta di
svago di queste nuove città di periferia, concepite e gestite in funzione dell’accesso in automobile e di un tempo libero a ritmo frenetico.
L’ultima osservazione sul fenomeno dell’urbanizzazione concerne l’emergere di una vera e propria gerarchia urbana. L’agglomerato di Lugano
rappresenta oggi il 60% dei posti di lavoro nel secondario e nel terziario
e il 55% della popolazione residente nei tre agglomerati urbani principali. La “nuova Lugano” con quasi 50'000 abitanti e 36'000 posti di lavoro è dominante anche dal profilo della gerarchia dei centri cittadini.
L’emergere di questa nuova gerarchia urbana, molto più verticalizzata di
quella che prevaleva ancora venti anni fa, corrisponde al fenomeno di
gerarchizzazione che si riscontra nell’economia. Si tratta di un fenomeno che non genera più solo vincitori, come era il caso nell’approccio soli-
98
Dal paradiso al purgatorio
dale della città-regione. Occorre infatti riconoscere che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’equilibrio spaziale tra Sopra- e Sottoceneri, ma
anche quello all’interno della rete di agglomerati urbani, si è rotto in favore di Lugano. Se la città-regione del Ticino resiste, come rete di centri
urbani, bisogna ammettere che, all’interno di questa rete, un nodo si è
ingrossato molto più degli altri e tende ad assumere una posizione dominante. Il discorso sull’organizzazione del territorio avrà così difficoltà a
continuare a svilupparsi attorno a un concetto di equilibrio spaziale, come
poteva essere quello della città-regione; l’evoluzione in atto sembra indirizzarlo sempre di più verso una contrapposizione tra vincenti e perdenti, tra Sottoceneri e Sopraceneri, se non addirittura tra Lugano e il resto
del Cantone.
17. Il ruolo dello Stato nel purgatorio della stagnazione
Le cause della diminuzione dei tassi di crescita del prodotto interno lordo e
della produttività sono diverse. È giusto però includere tra le stesse la perdita di importanza dell’attività dello Stato come agente che investe nell’economia. Nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso, gli investimenti
dello Stato non giocarono più, in Ticino, il ruolo di motore trainante dello
sviluppo che avevano avuto nel corso degli anni cinquanta. Lo Stato continuò tuttavia a esercitare una forte influenza sullo sviluppo dell’occupazione. Come abbiamo visto nel capitolo che precede, due dei rami nei quali lo
sviluppo dell’occupazione fu più forte, ossia il ramo dell’educazione e quello del sanitario e del sociale sono largamente finanziati dall’ente pubblico.
Economicamente parlando non sono però più gli investimenti che determinano l’impatto economico dello Stato, ma il consumo. Cercheremo in questo capitolo di passare in rassegna l’azione economica del Cantone, riprendendo la tripartizione in:
– impatto sulla domanda globale
– politica fiscale
– e misura di promozione del potenziale di produzione che avevamo già
utilizzato nel capitolo 8 della prima parte.
La gestione della componente pubblica della domanda globale
Anche nella seconda fase del ciclo secolare, la spesa pubblica si sviluppa in modo rapido ma i tassi annuali di espansione rimangono al disotto
dei livelli raggiunti nel corso della prima parte. La figura 20 riproduce
l’evoluzione della spesa pubblica e del debito pubblico nel corso di questo periodo.
Parte seconda: il purgatorio
99
m
Figura 20: Evoluzione della spesa e del debito pubblico del Cantone dal 1975 al 1973
Fonte: Fino al 1985 Pellanda G. (1988), dal 1985 Annuario statistico cantonale
L’evoluzione della spesa e del debito pubblico del Cantone nel corso degli
ultimi decenni è abbastanza simile all’evoluzione che queste due variabili
avevano avuto nel periodo 1950-1975. Infatti, per una prima parte del periodo (1975-1986), l’andamento delle due variabili è stato abbastanza parallelo, mentre nella seconda parte dello stesso, la spesa è cresciuta, più o meno
allo stesso ritmo, mentre il debito pubblico dapprima diminuiva in modo
marcato (fino al 1990-91), poi riprendeva a salire, più o meno al ritmo della
spesa, fino al 1998. Nel corso degli ultimi 5 anni del periodo analizzato, il
debito pubblico è di nuovo diminuito. Ma probabilmente questa è una tendenza non destinata a durare nel tempo. L’andamento di queste due serie è
influenzato dalle modifiche che, nel 1990, sono intervenute a livello di piano
contabile del Cantone. Non pensiamo tuttavia che le stesse abbiano modificato in maniera drastica le tendenze di fondo. L’evoluzione descritta nel grafico suggerirebbe che nel corso della seconda metà degli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta, le finanze del Cantone si siano trovate di fronte a
problemi di equilibrio abbastanza forti (si veda anche la valutazione che ne
dà il Pellanda nella sua tesi di laurea), mentre in seguito il Cantone è riuscito a finanziare il suo preventivo senza dover ricorrere, in maniera eccessiva
all’indebitamento. La curva che dà l’evoluzione della spesa mette però in
evidenza che, tra il 1984 e il 1986 il ritmo di crescita della spesa del Cantone
è stato interrotto. Sono gli effetti dei pacchetti di risparmio che parlamento
100
Dal paradiso al purgatorio
e governo avevano introdotto per ritrovare l’equilibrio finanziario che era
stato perso a partire dalla fine degli anni settanta. Per mancanza di informazioni statistiche non sono inclusi nell’analisi gli ultimi due anni, ossia il 2003
e il 2004, che sembrano essere stati anni di gravi difficoltà finanziarie.
Interessante è anche verificare come sia evoluta, nel corso di questo periodo, la quota della spesa cantonale nel reddito cantonale.
Figura 21: Evoluzione del rapporto tra spesa del Cantone e reddito cantonale dal 1975
al 2002
Fonte: Annuario statistico cantonale, diverse annate
L’effetto delle misure di risparmio, adottate nei primi anni ottanta è ancora
maggiormente visibile nella curva che riporta l’evoluzione del rapporto tra
spesa del Cantone e reddito cantonale (vedi figura 21). Dopo aver toccato
un apice nel 1980, questo rapporto è diminuito durante tutto il decennio dal
1980 al 1990, per ricominciare a risalire, a partire dal 1995. Ricordiamo al
lettore che se la spesa pubblica aumenta in parallelo al reddito cantonale, il
valore del rapporto spesa pubblica/reddito cantonale resta costante. Il rapporto diminuisce quando la spesa aumenta meno rapidamente del reddito e,
viceversa, aumenta quando la spesa aumenta più rapidamente del reddito.
Sono state le gestioni Generali e Marti che hanno determinato un contenimento della spesa pubblica. Ma è difficile dire se questo contenimento
seguiva principi neo-liberisti di finanza pubblica oppure era semplicemente in accordo con il principio keynesiano di una finanza pubblica anticon-
Parte seconda: il purgatorio
101
giunturale. Che la seconda spiegazione sia la più probabile lo dimostra l’andamento del rapporto spesa pubblica/crescita dopo il 1995 e cioè al tempo
della gestione della consigliera di stato Masoni. Anche questa gestione è
ispirata al principio keynesiano, se non nelle parole, nei fatti. La storia delle
finanze pubbliche del Cantone, nel corso degli ultimi trent’anni dimostra
insomma che risparmiare è possibile, ma solo quando l’economia tira.
Quando l’economia invece ristagna, come nel periodo 1995-2000, la spesa
statale cresce molto più rapidamente del reddito cantonale, come mostrano
anche i dati sull’evoluzione dell’elasticità della spesa del Cantone, rispetto
al reddito. Si tratta del rapporto tra i tassi di variazione della spesa del
Cantone e del reddito cantonale. Se la spesa del Cantone fosse finanziata
solo dalle imposte sul reddito e non vi fossero fenomeni di progressione a
freddo, il valore del rapporto tra il tasso di variazione della spesa del
Cantone e il tasso di variazione del reddito cantonale dovrebbe aggirarsi
attorno a 1. Se l’inflazione è sostenuta, l’imposizione del reddito progressiva e il fenomeno della progressione a freddo non viene eliminato, il rapporto in questione assume valori superiori a 1. La stessa cosa capita se l’aumento della spesa viene in parte finanziato con l’aumento del debito pubblico o da quote crescenti di imposte indirette.
Tabella 5: Variazione della spesa del Cantone, del reddito cantonale e elasticità della spesa
rispetto al reddito per periodi di 5 anni (dati di base in termini nominali)
Periodi
1950-1955
1955-1960
1960-1965
1965-1970
1970-1975
1975-1980
1980-1985
1985-1990
1990-1995
1995-2000
Variazione della spesa
del Cantone
31.9
28.3
190.5
39.6
91.5
35.4
14.2
18.2
27.1
12.3
Variazione del reddito
cantonale
32.2
34.2
77.8
53.7
63.4
22.5
44.7
34.4
19.3
1.1
Elasticità della spesa
rispetto al reddito
0.99
0.82
2.45
0.74
1.44
1.57
0.32
0.53
1.40
11.20
Elasticità = variazione della spesa/variazione del reddito
Fonte: elaborazione dell’autore
I dati della tabella danno un’altra illustrazione dell’evoluzione del rapporto tra la variazione percentuale della spesa del Cantone e la variazione percentuale del reddito cantonale (elasticità della spesa pubblica). Prima dell’introduzione di provvedimenti per eliminare la progressione a freddo, l’e-
102
Dal paradiso al purgatorio
lasticità della spesa rispetto al reddito poteva superare, in periodo di inflazione elevata, l’unità (si vedano i valori per i quinquenni 1960-65, 1970-75
e 1975-80). In situazioni di inflazione moderata, il valore dell’elasticità si
aggirava attorno all’unità (si vedano i quinquenni 1950-55, 1955-60 e 196570). Dopo l’introduzione dei provvedimenti intesi a eliminare la progressione a freddo, l’inflazione non ha praticamente più nessun influsso sull’evoluzione dell’elasticità. L’evoluzione dei valori del rapporto resta influenzata dalle decisioni in materia di politica della spesa e da quelle che concernono il suo finanziamento. In periodi di crisi economica, il rapporto tra
variazione della spesa e variazione del reddito può aumentare (anche in
modo marcato come nel periodo 1995-2000). Questo perché la crisi economica fa aumentare rapidamente il fabbisogno per certi tipi di spesa pubblica (in particolare la spesa di natura sociale).
La politica fiscale
Il periodo della stagnazione economica è anche il periodo delle revisioni
fiscali. Dal 1975 al 1995 si contano infatti due nuove leggi fiscali 1976 e 1994
e una serie di importanti revisioni delle leggi esistenti negli anni 1978, 1980,
1982, 1984, 1990, 1994 (Franchini, 1996). La tendenza a una sempre più frequente revisione di singole disposizioni fiscali non ha cessato di manifestarsi
dopo il 1995. Nel periodo dal 1975 al 1994, le modifiche più importanti della
legislazione fiscale hanno riguardato la progressività (modifiche delle aliquote, ma anche eliminazione a tappe della progressione a freddo) e le deduzioni sul reddito. Nel periodo più recente, le modifiche più importanti sono
state la riduzione dell’imposizione per le persone fisiche e per le persone giuridiche, la soppressione delle tasse di successione e l’introduzione dell’imposizione annuale del reddito e della sostanza. Nonostante le molte modifiche
apportate sia al regime delle deduzioni sia alle aliquote di imposizione, la
struttura fiscale nel Cantone Ticino rimane, stando al Franchini, che ha studiato l’evoluzione della legislazione fiscale fino al 1995, molto stabile. Non
abbiamo purtroppo a disposizione indicazioni sull’evoluzione più recente e,
in particolare, sull’impatto delle riduzioni di imposte sulla struttura stessa.
Tenuto conto di quanto affermato dal Franchini si può tuttavia affermare che,
almeno fino al 1995, la stagnazione dell’economia non aveva determinato
nessuna reazione importante a livello fiscale. L’aumento nella frequenza delle modifiche della legislazione in atto non era quindi legata all’evoluzione
economica, ma piuttosto a necessità di tecnica fiscale. Questo almeno fino
alla decisione di ridurre le imposte. Sull’impatto di quest’ultima misura non
siamo in grado di dire nulla perché non disponiamo, lo ripetiamo, dei dati
necessari per fare una verifica.
Parte seconda: il purgatorio
103
Figura 22: Evoluzione delle entrate da imposte e tasse cantonali dal 1978 al 2002
Fonte: Finances publiques en Suisse e Annuario statistico cantonale
L’evoluzione delle entrate da imposte e tasse nel corso del periodo della stagnazione è sensibilmente diversa da quella manifestatasi nel corso del periodo di crescita. Il ritmo di variazione del gettito non è più esponenziale, come
nel periodo 1950-1975, ma solamente lineare, probabilmente a causa dell’eliminazione della progressione a freddo. Non solo, ma dal 1994 al 1997
il gettito conosce, per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, una diminuzione. La forte recessione economica degli anni novanta
dello scorso secolo si è quindi ripercossa in modo negativo sull’evoluzione
delle entrate fiscali del Cantone. Al più tardi verso la metà degli anni novanta, il paradiso è finito anche per gli amministratori pubblici. Le finanze dello
Stato conoscono problemi sempre più difficili da risolvere perché la spesa
pubblica si evolve più rapidamente del gettito fiscale. Lentamente la visione dell’attività dello Stato cambia, nel corso di questo periodo. Si passa dal
più Stato al meno Stato.
Rafforzamento del potenziale di produzione
La politica di sostegno all’economia del Cantone ha conosciuto una modifica importante, nel corso del periodo in esame. Negli anni settanta dello
scorso secolo, la politica di promozione economica del Cantone che, fino
allora si era limitata al settore industriale (questa legge verrà riformata due
volte nel corso del periodo di stagnazione, soprattutto per permettere di
104
Dal paradiso al purgatorio
sostenere progetti che promuovano l’innovazione tecnologica nelle aziende del secondario e del terziario), viene completata da due serie di provvedimenti. In primo luogo da una legge di promozione settoriale: la legge sul
turismo che prevede misure organizzative e finanziarie a sostegno delle attività turistiche. In secondo luogo dai provvedimenti di economia regionale
adottati dalla Confederazione. Si trattava in particolare della legge di aiuto
agli investimenti nelle regioni di montagna, del 1974, e alle misure introdotte dal cosiddetto “decreto Bonny” del 1978 (rinnovato in seguito fino
alla fine del periodo considerato in questa parte). I quattro strumenti a disposizione del Cantone per promuovere la propria economia non erano stati
concepiti con obiettivi coordinati e con misure complementari. Cominciamo dal campo di applicazione. Mentre le leggi settoriali cantonali di promozione dell’industria e dell’economia valevano per tutto il territorio cantonale, le due leggi federali (che il Cantone metteva in esecuzione in ossequio al principio della ripartizione delle competenze) si applicavano solo
su una parte del territorio. Più precisamente, la legge di aiuto agli investimenti solo nelle regioni di montagna e il decreto Bonny solo nelle regioni
industriali colpite da fenomeni di forte disoccupazione e ristrutturazione,
ossia a delle vere e proprie microregioni formate da pochi comuni. Per quel
che riguarda le misure, gli interventi federali si distinguono da quelli cantonali perché non contemplano la possibilità del sussidio, possibilità che
invece continua a restare importante nella politica di sostegno cantonale.
Anche l’esenzione fiscale (sussidio indiretto) non viene contemplata a livello federale se non come misura eccezionale. Un terzo ambito di differenziazione è quello organizzativo. Il decreto Bonny e la legge sulla promozione industriale sostengono singole aziende o progetti di creazione di
aziende. La legge sul turismo contempla misure che possono essere applicate a singole aziende, ma anche misure che sostengono l’azione di organizzazioni locali e regionali che promuovono il turismo. Infine la LIM,
legge sull’aiuto agli investimenti nelle regioni di montagna, sostiene soprattutto progetti di infrastruttura promossi dai comuni o da associazioni di
comuni, a patto che gli stessi facciano parte di un programma di sviluppo
coordinato della regione che cerchi di rispondere a problemi di sviluppo
ben identificati e che contenga un elenco delle priorità. Questo aumento
degli strumenti di intervento, con obiettivi, beneficiari, aree di applicazione, misure e livelli amministrativi diversi, obbliga il Cantone a una notevole attività di coordinamento nella loro applicazione. Il periodo della stagnazione è anche il periodo nel quale fanno la loro apparizione questi strumenti. In primo luogo il piano finanziario quadriennale che, dai primi tentativi
all’inizio degli anni ottanta, si sviluppa in modo continuo fino a diventare
Parte seconda: il purgatorio
105
uno strumento di riferimento importante nella definizione dei preventivi
annuali e della politica finanziaria a medio termine dello Stato. Parallelamente al piano finanziario, il Cantone introduce il piano degli indirizzi,
che ha un orizzonte temporale molto più lungo e che dovrebbe contenere la
visione strategica di lungo termine (15-20 anni) del governo cantonale.
Ricordiamo ancora che a partire dal 1980 entra in vigore la legge federale
sulla pianificazione del territorio che pure prevede uno strumento di coordinamento dello sviluppo di lungo termine: il piano direttore cantonale. Non
mancano quindi gli strumenti per disegnare una strategia di sviluppo di
lungo termine. Tuttavia questa strategia, a tutt’oggi, non esiste o, se esiste,
non viene sempre osservata. Più le difficoltà finanziarie crescono e più crescono i bisogni dello Stato e più difficile sembra divenire la formulazione
di una strategia di lungo termine che sia condivisa da tutti i membri del
governo. D’altra parte occorre riconoscere che non esistono oggi metodi
affidabili che permettano di mettere in piedi una visione dello sviluppo di
lungo termine, che vada al di là dei desideri o delle paure dei singoli gruppi di attori nell’economia o nella società. Più si va avanti nel tempo e più
sembra che le logiche delle politiche dipartimentali si impongano sui tentativi di creare un disegno strategico comune di lungo termine. Non solo,
ma con sempre maggior frequenza il governo, o qualche suo dipartimento,
propone all’opinione pubblica una nuova visione strategica senza spiegare
come la stessa si inserisca in quelle esistenti. Oggi non esiste infatti né un
calendario delle strategie, né una loro gerarchia. In questa situazione i contrasti e le contraddizioni a livello di obiettivi e di priorità possono essere
molti. Le strategie che non dispongono di un sostegno politico consolidato
perdono rapidamente di credibilità.
18. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, nel purgatorio
della stagnazione
Come abbiamo potuto costatare nella prima parte del nostro lavoro, nel
periodo di forte crescita dell’economia svizzera e ticinese, allo Stato era
stato riconosciuto un ruolo se non di guida, almeno di orientatore, nella
impostazione di una politica di sviluppo di lungo termine.
Contemporaneamente si attribuiva allo Stato il compito di dotare l’economia delle condizioni-quadro migliori e delle infrastrutture necessarie allo
sviluppo della stessa. Pur tenendo conto delle restrizioni al ruolo dello Stato
nell’economia che le cerchie della destra economica non si stancavano di
precisare, bisogna riconoscere che, fintanto che l’economia restò nel paradiso della crescita, le opinioni sul ruolo dello Stato nell’economia erano
106
Dal paradiso al purgatorio
positive. Anzi, in taluni casi, entusiastiche. La situazione in materia di opinioni sul ruolo dello Stato cambiò in modo sostanziale durante il periodo
della stagnazione. Anche se il dibattito fu più nutrito nel resto della Svizzera
che in Ticino, in questo capitolo ci occuperemo soprattutto del risvolto ticinese, concentrandoci sull’apporto di due contributi critici che ci sembrano
riassumano molto bene la discussione sviluppatasi qui da noi.
Contro lo Stato da destra e da sinistra
Dalla fine degli anni settanta l’intervento dello Stato nell’economia
viene sottoposto a verifica critica sia da rappresentanti della sinistra
marxista, sia da rappresentanti della destra neo-liberale.
La critica da sinistra si ispira, in generale, al lavoro di James O’Connor
sulla crisi fiscale dello Stato (O’Connor J, 1979). Con il termine di
“crisi fiscale” O’Connor intende designare le difficoltà che gli Stati
nella fase del capitalismo maturo (la fase del cosiddetto “warfare-welfare State”) incontrano nel finanziamento di una spesa pubblica sempre più in espansione. Per gli autori di sinistra il capitalismo è responsabile di questa evoluzione. Per poter invertire la rotta, e ricondurre lo
Stato a una dimensione accettabile, occorrerà mutare il sistema.
La critica da destra, o neo-liberista, non è molto diversa nell’analisi.
Essa dimostra come la quota dello Stato nel prodotto interno lordo
tenda a crescere negli Stati più avanzati. Sostiene, in secondo luogo,
che questa crescita del settore pubblico limiti le possibilità di crescita
del privato e, per finire, tenda a frenare il processo di crescita economica aggregato. Suggerisce quindi come soluzione di ridurre la quota
dello Stato, aumentando l’efficienza dell’amministrazione e privatizzando una parte delle prestazioni pubbliche.
Dal più al meno Stato
Mentre a livello nazionale il dibattito critico sul ruolo dello Stato è stato
condotto, in preponderanza, da economisti di matrice liberista, nel Canton
Ticino lo stesso è stato avviato dalla sinistra e più precisamente dalla pubblicazione di Martino Rossi “Dal più al meno Stato” (Rossi M., 1984) che
riprende, in parte, uno slogan elettorale, coniato dal partito liberale radicale nel 1979: meno Stato, più libertà. Rossi parte dall’analisi generale della
crisi fiscale dello Stato, fatta da James O’Connor, un classico per la sinistra
in relazione al problema della riconversione dello Stato nella fase di stagnazione economica. Ma il suo discorso concerne il caso ticinese che viene considerato come il caso di una regione che stava conoscendo le conseguenze
Parte seconda: il purgatorio
107
negative di un periodo di forte crescita, che Rossi definisce come “il periodo dell’economia del più”. Dopo aver presentato l’evoluzione delle finanze
dello Stato e delle misure di politica economica del Cantone ( occupandosi
in particolare dell’insuccesso di queste misure), nel periodo di forte crescita, Rossi concentra il suo esame sul cambiamento che si era manifestato,
durante gli anni settanta, nella concezione del ruolo che lo Stato doveva avere
nei confronti dello sviluppo economico. Lo fa soprattutto nell’ultimo capitolo del suo libro “il perché del meno Stato” sul quale vogliamo ora soffermarci. Per il nostro autore, all’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo
era percepibile, anche in Ticino, una “reticenza del contribuente e una certa
disillusione verso le virtù dello Stato e della spesa pubblica”. Per Rossi si
tratta di una crisi di “legittimità” che trae la sua origine da tre cause:
– la crisi economica e i risultati deludenti della politica economica
– la cosiddetta “crisi fiscale”dello Stato
– l’onere crescente dello “Stato sociale”
Mentre nel periodo del paradiso della crescita o dell’economia del più, gli
investimenti pubblici – se non l’intera spesa dello Stato – erano considerati come elementi portanti dello sviluppo economico, con il rallentamento
della crescita, manifestatosi a partire dalla metà degli anni settanta, per utilizzare un’espressione di Rossi, “gli investimenti pubblici manifestano rendimenti decrescenti”. Questa spiegazione è interessante. In effetti Martino
Rossi è l’unico tra i commentatori dell’azione dello Stato che cerca di spiegare perché lo Stato, nel periodo della stagnazione economica, investa di
meno. Di conseguenza, mentre dieci anni prima si pensava che lo Stato
potesse farsi carico dello sviluppo dell’economia, ora si chiede il ridimensionamento dello Stato. La crisi fiscale è la seconda causa della crisi di legittimità. Rossi attribuisce la crisi fiscale (in italiano dovremmo piuttosto scrivere finanziaria invece dell’aggettivo anglosassone fiscale) – citando
O’Connor – alla “socializzazione dei costi e all’appropriazione privata dei
profitti” una definizione che non valeva certo per le difficoltà finanziarie
dell’inizio degli anni ottanta, ma era sorprendentemente anticipatrice di
quanto succederà invece nel corso degli anni novanta dello scorso secolo,
con le privatizzazioni e l’enorme aumento della disoccupazione. Tornando
all’analisi del caso ticinese, Martino Rossi mostra come quella che lui chiama “l’aliquota fiscale” – ossia la quota di reddito sociale prelevata fiscalmente dal Cantone e dai comuni – che era aumentata molto lentamente dal
1950 al 1970, cresca invece molto rapidamente dal 1970 al 1978, passando
dal 12 al 20%, costituendo così la causa prima della “resistenza del contribuente”.
108
Dal paradiso al purgatorio
L’aliquota fiscale sale in Ticino, secondo il nostro autore per due ragioni:
– in primo luogo perché questa è una tendenza comune a tutti i paesi sviluppati durante il periodo 1950-1970, tendenza che, secondo noi, deve
essere fatta risalire all’ampliamento delle prestazioni dello Stato, in particolare nei settori dell’educazione (effetto del baby boom degli anni
cinquanta e sessanta e della democratizzazione degli studi) e del sociale (il fenomeno che noi, scherzosamente, abbiamo chiamato democrazia degli acciacchi), nonché al fenomeno della progressione a freddo;
– in secondo luogo perché, a partire dalla metà degli anni settanta, i contributi della Confederazione a Cantone e comuni cominciano a diminuire, aggravando così le tensioni finanziarie già esistenti.
La conseguenza di questo stato di cose, vale a dire di una tendenza dei conti
dello Stato ad essere deficitari e della pratica impossibilità di aumentare
ancora l’incidenza fiscale, è un forte aumento del debito pubblico del
Cantone (al momento in cui Martino Rossi pubblicava il suo saggio, il debito pubblico del Cantone toccava il suo apice). Queste modifiche delle tendenze evolutive delle finanze cantonali si manifestano in parallelo con cambiamenti profondi della struttura della spesa stessa. Dopo aver esaminato
l’evoluzione dal 1970 al 1980, Rossi osserva che le principali modifiche in
questa struttura sono rappresentate dalla caduta della quota degli investimenti e dall’aumento della quota delle remunerazioni. Nei 20 anni successivi queste tendenze hanno continuato a manifestarsi, completate però da
una terza: l’espansione della quota dei trasferimenti a terzi (sussidi). Il grafico 23 mette bene in evidenza queste modifiche.
Figura 23: Evoluzione della struttura della spesa del Cantone secondo la classificazione
economica dal 1970 al 2002
1970
0.5
Remunerazioni
27
36
Consumo di beni e
servizi
Interessi passivi
Trasferimenti a terzi
12
Investimenti
Prestiti e partecipazioni
16
8
Parte seconda: il purgatorio
109
1980
Fonte: I dati sono tratti dal saggio di M. Rossi
2002
Fonte: I dati sono pubblicati nell’Annuario statistico cantonale 2004
La crisi dello Stato sociale si manifesta quindi soprattutto negli ultimi venti
anni e modifica profondamente non solo la struttura della spesa, ma anche
il ruolo dello Stato nell’economia. Mentre nel periodo di forte crescita il
Cantone aveva sostenuto lo sviluppo degli investimenti attraverso, in particolare, la sua politica di estensione e miglioramento delle infrastrutture, nel
periodo della stagnazione il Cantone deve intervenire non più a monte, ma
a valle del processo di sviluppo facendosi carico di una parte dei suoi costi,
in particolare attraverso le assicurazioni sociali (assicurazione contro la
disoccupazione inclusa) e la spesa ospedaliera. Mentre nel periodo del paradiso della crescita il ruolo del Cantone poteva essere rappresentato con la
figura di un operaio delle acciaierie, nel periodo del purgatorio della stagna-
110
Dal paradiso al purgatorio
zione, il ruolo economico del Cantone può essere rappresentato con la figura di un’infermiera. Tenuto conto di queste tendenze il titolo del saggio di
Martino Rossi non sembra più giustificato. Dal 1950 al 1980 si è passati
“Dal più Stato al meno Stato” per quel che riguarda la politica di sostegno
dello sviluppo economico regionale, ma non per quel che riguarda la politica di sostegno dei redditi della popolazione ticinese. Considerato da questo punto di vista, il periodo della stagnazione è anche il periodo nel quale
lo Stato di benessere, come testimonia l’evoluzione della quota dei trasferimenti a terzi, raggiunge il suo punto di espansione massima, sostituendosi agli investimenti come funzione di spesa principale del Cantone. Meno
investimenti e più consumi pubblici. Non più uno Stato investitore, ma uno
Stato benefattore.
Arriva il neo-liberismo
Qualche anno dopo la pubblicazione dello studio di Martino Rossi, usciva la tesi sulle finanze del Cantone di Giorgio Pellanda (Pellanda G.,
1988). Lo studio è particolarmente interessante perché non si limita solamente alla descrizione dell’evoluzione delle finanze cantonali, come è il
caso di molte tesi del genere, ma cerca anche di valutare l’utilizzazione
delle finanze dello Stato come strumento di politica economica, in una
prospettiva neo-liberista. Per questo autore, le finanze del Cantone rappresentano uno strumento importante per la realizzazione della sua politica economica. La critica del Pellanda non va quindi, di principio, contro l’intervento dello Stato nell’economia, ma contro l’inefficacia di
questo intervento in relazione agli obiettivi della politica economica da
esso perseguita. Guardando all’esperienza del periodo 1950-1985 l’autore di questo studio afferma che “il giudizio sulle finanze del Cantone non
può essere (a prima vista) positivo”, perché pur spendendo molto, il
Cantone non è riuscito né a conservare l’obiettivo del pieno impiego, né
a ridurre la distanza che lo separava dalla media svizzera in termini di
reddito pro-capite (di fatto lo scarto in termini di reddito pro-capite era
restato costante. Alla luce dell’evoluzione degli anni seguenti, si può oggi
affermare che aver saputo mantenere uno scarto costante deve essere considerato come un merito dell’azione dello Stato, anche se le ambizioni
erano ben altre). Ma, aggiunge Pellanda, questo giudizio sarebbe poco
generoso perché il Cantone, durante il periodo citato, ha comunque investito e speso molto per recuperare il ritardo infrastrutturale e per sostenere il reddito delle classi più deboli. Domanda, tuttavia, che si faccia
attenzione perché la politica della mano bucata può portare a crisi finanziarie importanti, come quella dell’inizio degli anni ottanta. A questo
Parte seconda: il purgatorio
111
punto Pellanda si chiede quali siano stati i fattori che hanno permesso,
verso la metà degli anni ottanta, di riportare alla “normalità” le finanze
del Cantone. Trova fra l’altro che vi sono stati importanti fattori interni
come:
– il controllo della spesa corrente e l’adozione di una mentalità e di un
comportamento severi (blocco del personale, ricerca di soluzioni meno
costose, coordinamento all’interno dell’amministrazione)
– l’abbandono di determinate illusioni e una maggior consapevolezza
delle reali possibilità di intervento dello Stato. L’autore osserva che
quando le cause della crisi sono più strutturali che congiunturali “si assiste al decadimento del mito dell’intervento statale alla Keynes” (un’osservazione che non collima però per niente con l’esperienza di spesa del
Cantone degli ultimi cinquant’anni!). Nel peggiore dei casi, aggiunge,
l’intervento dello Stato può addirittura avere un effetto destabilizzante.
Invece di una politica di sostegno della domanda, il Pellanda raccomanda quindi una politica “neutrale” del bilancio statale, “orientata più
verso un rafforzamento delle strutture produttive, nel rispetto dello spostamento strutturale dell’economia”.
Politica di bilancio neutrale
Senza perderci nei meandri della teoria delle finanze, definiamo, con
Pellanda, una politica di bilancio dello Stato come neutrale quando le
seguenti condizioni sono rispettate:
a) le uscite non devono crescere più del potenziale produttivo – a condizione però che sia assicurata la piena occupazione a medio termine (se questo non è Keynes!)
b) le entrate da imposte non devono aumentare più di quanto aumenti
il reddito dell’economia (eliminazione della progressione a freddo,
dunque)
c) a lungo termine l’indebitamento netto non può crescere più rapidamente del prodotto dell’economia
d) la quota dello Stato nel prodotto dell’economia fondamentalmente
non deve cambiare. Si tratta di un principio che il Cantone ha potuto rispettare solo nei periodi di crescita economica.
Gli altri fattori che Pellanda cita in questo elenco non hanno niente a che
fare con il risanamento delle finanze cantonali e riguardano piuttosto l’avvenire che il passato delle stesse. Pellanda si occupa in seguito dell’integrazione della politica finanziaria con la politica di sviluppo economico
112
Dal paradiso al purgatorio
del Cantone, un’integrazione che, secondo lui, fino all’inizio degli anni
ottanta del secolo scorso, non era per niente riuscita. Nelle sue conclusioni, l’autore di questo studio trova però che:
– grazie alla “legge sulla pianificazione cantonale”, che prevede la stesura di un “rapporto sugli indirizzi” con gli obiettivi di sviluppo a lungo
termine e di linee direttive e piani finanziari quadriennali,
– grazie anche all’introduzione, sempre all’inizio degli anni ottanta, del
Piano direttore urbanistico cantonale, finalmente lo Stato poteva disporre degli strumenti atti a facilitare l’integrazione.
“Si assiste quindi alla nascita di un nuovo modo di agire dello Stato – dichiara
festosamente in chiusura il nostro autore – incentrato sui principi della politica economica di stampo neo-liberale, e al definitivo abbandono della concezione ‘keynesiana’. L’intervento statale ruota attorno all’offerta e tende pertanto a rafforzare la base produttiva del Cantone, piuttosto che sostenere la
‘Domanda’e il livello di occupazione attraverso un intervento diretto”.
Ora a sostegno di questa conclusione nel testo del Pellanda non si trova gran
che. Forse la sola indicazione valida è l’accenno alla “neutralità” del bilancio statale rispetto alla congiuntura, principio che giunse in Svizzera dalla
Germania verso la metà degli anni settanta.
Della neutralità dei conti dello Stato oggi non parla più nessuno. Tuttavia è
da ritenere che la sua realizzazione presupponeva che, in tempi di buona
congiuntura, lo Stato spendesse meno di quanto incassava, mentre in tempi
di cattiva congiuntura poteva spendere al massimo quello che incassava. Era
una politica del contenimento del debito pubblico che, nonostante la definizione, non lasciava molto spazio a una politica anticongiunturale a sostegno dell’occupazione. Nonostante questo contributo alla definizione dei criteri di un bilancio statale austero, il neo-liberismo di Pellanda deve essere
considerato, rispetto a quanto dovevamo aver modo di conoscere negli anni
novanta e in questo secolo, come all’acqua di rose.
Per quel che riguarda poi il suo postulato dei conti dello Stato neutrali, il
bilancio dal 1975 al 1995 non è dei migliori (si veda anche la tabella 5 nel
cap. 17).
Mentre la spesa del Cantone segue più o meno l’andamento del reddito cantonale e, almeno per il periodo 1977-1987, rispetta appieno il postulato della
neutralità, per le entrate fiscali il periodo di neutralità è durato solo 5 anni,
dal 1977 al 1982. È tuttavia comprensibile che Pellanda, che scriveva verso
la metà degli anni ottanta, abbia creduto data l’evoluzione in atto, che, con
Parte seconda: il purgatorio
113
un’adeguata politica di austerità finanziaria, fosse veramente realizzabile.
L’evoluzione delle finanze del Cantone, a partire dalla fine degli anni ottanta dimostra invece il contrario. Ovviamente la forte recessione degli anni
novanta, con la crescita della spesa nel settore sociale, ma anche l’ampliamento dei compiti dello Stato, in particolare nel settore dell’educazione,
doveva mandare a catafascio tutti i piani di mantenimento dell’austerità
finanziaria.
Figura 24: Evoluzione del reddito cantonale, della spesa del Cantone e delle entrate fiscali
dal 1977 al 2002
Fonte: elaborazione dell’autore
Note bibliografiche alla seconda parte
Agustoni S. (1994): Produzione snella, scenari della delocalizzazione e limiti della deindustrializzazione in Svizzera, in “La Svizzera verso un deserto industriale?”, p. 13-88, “Quaderni della
Fondazione Guido Pedroli”, NadaLibri, Casablanca Edizioni
Consiglio federale (2002): Messaggio concernente la legge contenente misure di lotta contro il lavoro al nero del 16 gennaio 2002, Berna
Consiglio svizzero della scienza (1999): La compétitivité technologique de la Suisse, F&B 2/99,
Berna
Franchini G. (1996): La fiscalità in Ticino dal 1800 al 1995, Bellinzona
Hollenstein H., Lörtscher R., Stalder P. (1979): Regionale und branchenstrukturelle Differenzierung
der wirtschaftliche Entwicklung und der Wirtschaftspolitik, Schweizerische Zeitschrift für
Volkswirtschaft und Statistik, Hft. 3, p. 407-432
Knorr K., Baumol W.J. (1961): What price Economic Growth? Prentice Hall Inc., Englewood Cliffs,
N.J.
114
Dal paradiso al purgatorio
Korten D. (2004): Das Scheitern von Bretton Woods, in J. Mander e E. Goldsmith “Schwarzbuch
Globalisierung”, p. 58-72, Goldmann Verlag, Monaco
Krugmann P. (1994): Peddling Prosperity, W.W. Norton & Company, New York
Krugmann P. (2000): Economisti per caso, Garzanti, Milano
O. Connor James (1979): La crisi fiscale dello Stato, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino
Pellanda G. (1988): Analisi critica delle finanze del Canton Ticino, Arti Grafiche Rezzonico,
Locarno
Rifkin J. (2000): The End of Work, Pinguin Books, Londra
Rossi M. (1984): Dal più al meno Stato, Politica economica e finanze pubbliche nel Ticino del dopoguerra, Edizioni Fondazione Piero Pellegrini, Lugano
Siebert H. (2001): Der Kobra-Effekt, Deutsche-Verlags Anstalt, Monaco
115
Parte terza: in purgatorio, non si sa
per quanto ci si deve stare!
L’economia alla ricerca di una nuova strada
19. Sul futuro non si può che scommettere
Nelle due prime parti di questo saggio, abbiamo descritto l’evoluzione dell’economia ticinese durante le due fasi di quello che, per il momento, è stato l’ultimo ciclo di lungo termine, il ciclo economico che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale. Nel corso della fase di ascensione, che abbiamo definito
il “paradiso della crescita”, l’economia ticinese, come quella svizzera ha
conosciuto tassi elevati di aumento del reddito regionale, della produttività
per addetto e del reddito pro-capite in un regime di piena occupazione. Nel
corso della fase successiva, che abbiamo definito il “purgatorio della stagnazione” i tassi di crescita del reddito, della produttività e del reddito pro-capite
si sono ridotti a poca cosa, mentre la disoccupazione si è istallata, da noi e nel
resto della Svizzera, come una componente costante, anche se indesiderata,
del panorama congiunturale. Da circa venti anni questa situazione ha dato il
via, in Svizzera e in Ticino, a un dibattito sul futuro e a diversi tentativi di
rilanciare l’economia. Ma i risultati concreti, in termini di una netta ripresa
dei tassi di crescita di prodotto nazionale e regionale, di produttività e di occupazione ancora si fanno attendere. La situazione non è quindi molto incoraggiante. Da un lato vi è una richiesta pressante da parte della popolazione, ma
anche da parte di partiti e sindacati, alle autorità politiche perché facciano il
necessario per riportare il treno della nostra economia sul binario della crescita. Dall’altro, vi è, come si è già ricordato, l’elenco sempre più lungo di tentativi di rilancio abortiti e di misure che non hanno avuto, o non hanno ancora
avuto, l’effetto desiderato anche perché chi chiede misure non è sempre pronto ad approvarle.
In questa situazione i buoni consigli valgono oro. Poterne offrire anche solo
uno, che sia applicabile e il cui esito pratico sia sicuro, basterebbe forse per
rialzare le sorti di una professione, quella dell’economista, che, se continua
così, arrischia di essere abbandonata per mancanza di risultati.
116
Dal paradiso al purgatorio
Intendiamoci, non è che ci si chieda di assicurare un rilancio dell’economia
duraturo e solido per domani o dopodomani. Imprenditori, sindacalisti, datori di lavoro e lavoratori, autorità politiche, provati dal lungo periodo di stagnazione, sono anche disposti ad aspettare. Ma tutti vogliono sapere quando e
come si manifesterà il rilancio. Tutti chiedono quali sono i rami sui quali
potremo in futuro basarci per ritrovare la strada della crescita permanente,
con la stessa partecipazione come se chiedessero i 6 numeri che facciano vincere al lotto svizzero. E nessuno tra gli esperti è in grado di dare alle loro
domande, risposte attendibili. Perché? Perché i modelli di cui disponiamo
non sono in grado di simulare l’andamento dell’economia, che su un periodo
di due anni al massimo e basandosi su ipotesi molto conservative sulla natura
delle relazioni che corrono tra gli aggregati della nostra contabilità nazionale
come consumi (pubblici e privati), investimenti, esportazioni e importazioni
e altre grandezze importanti dell’economia, come il livello dei prezzi, quello
dei salari, l’aggregato della produzione, l’occupazione e chi ne ha più ne metta. Si tratta di un deficit di conoscenze teoriche sull’evoluzione del sistema
economico nel lungo termine che non è, attualmente, eliminabile. Chi volesse rendersi conto delle difficoltà insite in una previsione economica a ventitrenta anni può dare un’occhiata all’esempio che segue. Lo stesso si basa su
un’ipotesi molto semplice e cioè che l’evoluzione della struttura dell’occupazione tra il 1985 e il 2001 si sarebbe modificata nel medesimo modo in cui
cambiò nel periodo 1975-1985. Si tratta dunque di un’estrapolazione su un
periodo di 16 anni dell’evoluzione manifestatasi nei dieci anni precedenti. I
risultati dell’estrapolazione figurano nel grafico a sinistra della figura 25. Il
grafico a destra, invece, mostra la distribuzione effettiva, ossia quella che si
può dedurre dai risultati del censimento delle aziende del 2001.
Figura 25: Struttura dell’occupazione nei settori secondario e terziario nel 2001
2001 simulato
2001 effettivo
Fonte: Censimenti federali delle aziende, elaborazione dell’autore
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
117
Per non complicare la presentazione abbiamo raggruppato i rami del secondario e del terziario in otto gruppi, di cui tre nel secondario e cinque nel terziario. Le differenze tra la previsione e la realtà sono visibili anche in questi grafici. L’errore di previsione varia tra il -35.3% e il 65.5%. L’errore maggiore concerne il gruppo degli altri servizi pubblici e privati che è stato per
l’appunto sottostimato del 65.5%. È il gruppo nel quale si trovano riuniti i
rami dell’educazione, della sanità e del sociale che, come abbiamo già osservato, hanno conosciuto l’aumento più forte di occupazione nel corso degli
ultimi decenni. All’altro estremo, il ramo che è stato maggiormente sovrastimato è stato quello dell’edilizia e del genio civile che registra una diminuzione del 35.3% rispetto alla quota simulata. Se cerchiamo una spiegazione di questa evoluzione la troviamo unicamente a livello di demografia.
L’invecchiamento della popolazione spiega infatti sia il rapido aumento dell’occupazione nei settori sanitario e sociale, sia la diminuzione dell’occupazione nel ramo dell’edilizia e del genio civile. Ora che la popolazione
sarebbe invecchiata lo si sapeva già nel 1985. Ma nessuno sarebbe stato in
grado di simulare, scegliendo i parametri adeguati, l’effetto dell’invecchiamento della popolazione sulla domanda di servizi sanitari e sociali, rispettivamente di costruzioni e sull’occupazione in questi rami. Notiamo poi che
nessuno sarebbe stato in grado di anticipare la differenza nel totale dei posti
di lavoro che risulta dalla nostra simulazione. Mentre la simulazione dà un
totale di 172'500 posti di lavoro, i dati del censimento federale delle aziende ci dicono che nel 2001, probabilmente per effetto delle ristrutturazioni,
nei settori secondario e terziario, i posti di lavoro erano solo 157'100 (un
errore di previsione pari al 9.8%).
A dire il vero, una spiegazione dell’evoluzione economica a lungo termine
ci sarebbe. Si chiama, come abbiamo già ricordato, iniziando il nostro volume, ciclo di Kondratieff, nella versione schumpeteriana, ossia nella versione che collega l’andamento del ciclo all’apparizione di grappoli di innovazioni tecnologiche. Tuttavia, il ciclo di Kondratieff è più una spiegazione
ex-post dell’evoluzione economica, manifestatasi dall’epoca della rivoluzione industriale ad oggi, che un modello che permetta di anticipare lo sviluppo secolare futuro. Lo storico dell’economia Nathan Rosenberg, che si
è occupato a fondo del possibile carattere previsionale di questa teoria, ha
negato, concludendo il suo esame, che il ciclo di Kondratieff possa essere
riconosciuto come una specie di legge dell’evoluzione a lungo termine dell’economia che permetterebbe di prevedere, con una frequenza tra i 45 e i
60 anni, il riproporsi di fasi di rapido sviluppo. Ci pare interessante seguire il suo ragionamento (Rosenberg, 1982). Per essere in grado di dimostrare che esiste effettivamente un ciclo economico di lungo termine, legato
118
Dal paradiso al purgatorio
all’innovazione tecnologica, bisogna essere in grado di spiegare quale sia il
meccanismo teorico che ne permette una più o meno regolare riproduzione
nel tempo, con intervalli, come si è detto, che vanno da 45 a 60 anni.
Schumpeter, ci dice Rosenberg, credeva all’esistenza di un nesso causale tra
le fluttuazioni nell’innovazione tecnologica, le fluttuazioni negli investimenti e le fluttuazioni nella crescita dei sistemi economici. Inoltre
Schumpeter pensava che le innovazioni si raggruppassero in particolari
momenti del tempo, generando così dei processi di accelerazione della crescita, le ondate di crescita di lungo termine. Queste ipotesi però non sono
mai state verificate empiricamente. Né si è verificato che cambiamenti nel
tasso di innovazione generino cambiamenti nel tasso di crescita degli investimenti, né tanto meno quale sia effettivamente l’impatto dei grappoli di
innovazioni sull’evoluzione del prodotto nazionale e dell’occupazione. Ma
c’è di più: Rosenberg dimostra che le condizioni che devono essere rispettate per procedere a una verifica empirica di questi nessi causali sono tali
da rendere praticamente impossibile – nello stato attuale dell’elaborazione
teorica e partendo dalle informazioni statistiche attualmente esistenti – una
tale verifica. Senza addentrarci nell’esame dei numerosi problemi legati alla
verifica del fondamento del ciclo di Kondratieff, ci accontentiamo di riportare la conclusione di Rosenberg: “Deve ancora essere dimostrato perché
mai ci si debba attendere che i fattori responsabili di un ciclo di Kondratieff
e dei suoi punti di svolta presentino un carattere ricorrente”. Rosenberg dunque non respinge la teoria del ciclo di lungo termine anche se dichiara di
possedere un forte scetticismo nei suoi confronti. Che l’innovazione incida
positivamente sugli investimenti e che questi incidano, pure positivamente,
sulla crescita del prodotto nazionale, come pensava Schumpeter, è una catena di nessi causali che non può non essere accettata. Quello che Rosenberg
non accetta è il resto: ossia la pretesa che le innovazioni appaiano a grappoli con grande regolarità per far ripartire una nuova ondata di crescita economica, tutti i 50 anni circa. Non lo accetta perché secondo lui le conoscenze disponibili in relazione al modo in cui le innovazioni appaiono nel tempo,
al modo nel quale esse si diffondono nello spazio, alle loro relazioni di sostituibilità e di complementarità con prodotti esistenti, ai loro effetti netti sulla
crescita del prodotto e dell’occupazione, sono ancora insufficienti per permetterci di verificare empiricamente l’esistenza di una simile regolarità.
Nonostante i progressi fatti dalla ricerca empirica ancora non disponiamo
di una relazione stimata che ci permetta di misurare quale potrebbe essere,
nel lungo periodo, l’impatto degli investimenti in ricerca e sviluppo sul tasso
di crescita di un’economia di piccole dimensioni come quella ticinese. Le
critiche all’utilizzazione della teoria dei cicli di lungo termine per svilup-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
119
pare un modello di previsione della crescita basato sull’investimento nella
ricerca restano valide, anche se oggi una frazione molto larga degli economisti sostiene che la crescita dell’economia, nei paesi più sviluppati, non
può venire, in ultima analisi, che dall’innovazione tecnologica. Esse ci inducono a essere più attenti nell’esame dei meccanismi che trasmettono gli
influssi positivi dell’innovazione a livello economico aggregato.
In conclusione sulla natura dell’evoluzione a lungo termine, ossia quella dei
prossimi venti anni, dell’economia ticinese non si può fare molto di più che
scommettere. Da un lato sappiamo che i fenomeni che modificano la struttura di produzione si manifestano solo lentamente. Dall’altro sappiamo pure
che gli effetti dell’innovazione tecnologica di prodotto possono essere sconvolgenti, decretando la morte in pochi anni di rami di produzione importanti o facendone nascere dei nuovi. Lo stesso effetto lo possono avere modificazioni importanti delle condizioni che regolano il commercio internazionale, come ulteriori processi di liberalizzazione degli scambi o misure che
possono influire, in modo positivo o negativo, sul valore del franco. Nel
corso dell’ultimo quarto di secolo, la struttura dell’economia svizzera –
inclusa quella dell’economia ticinese – ha dovuto avviare un processo di
adattamento molto costoso in termini di posti di lavoro, alle nuove condizioni economiche dettate dal procedere dei processi di liberalizzazione e
dalla globalizzazione. Il processo di ristrutturazione proseguirà anche nel
futuro e colpirà rami che fino ad oggi sono stati protetti, come quelli che
producono per il mercato interno o quelli che godono di un sostegno finanziario da parte dell’ente pubblico.
20. Perché la crescita sostenuta è necessaria?
Dall’inizio degli anni novanta dello scorso secolo, l’economia ticinese,
come quella svizzera, conosce tassi di crescita molto contenuti che raramente superano il 2% annuo, in termini reali. Questi tassi vengono considerati
dalla maggioranza dei commentatori come insufficienti. Ma non sempre
risulta chiaro all’opinione pubblica il perché di tale insufficienza. Perché,
nelle condizioni di un’economia capitalistica, è vero il motto che afferma:
Chi si ferma è perduto? Perché la crescita del prodotto nazionale lordo a un
tasso superiore a quello medio, realizzato nel corso degli ultimi dieci o quindici anni, è una necessità? Quando si leggono e si sentono i commenti dei
media, l’argomento principe per giustificare la crescita sostenuta è un argomento di carattere sportivo. Il tasso di crescita deve aumentare per permettere alla Svizzera di conservare la sua posizione di testa nella classifica mon-
120
Dal paradiso al purgatorio
diale dei paesi secondo il prodotto nazionale lordo pro capite. Dobbiamo
quindi crescere a un tasso sostenuto per restare tra i primi paesi per ricchezza della popolazione? Personalmente non vedo quale possa essere l’utilità
per la Svizzera di essere nella prima, nella decima o nella ventesima posizione in questa classifica. Non considero insomma il prestigio nazionale
come un criterio valido per giustificare la richiesta di un tasso di crescita
più elevato. Questo almeno fino a quando il nostro livello di benessere materiale (misurato dal prodotto nazionale lordo pro capite) resterà superiore alla
media.
Maggiormente valido mi sembra invece un altro argomento, ossia quello che
sostiene che la crescita dell’economia è necessaria per mantenere il potere
di acquisto della popolazione e, se possibile, accrescerlo. Siccome il livello
di benessere è misurato dal rapporto PIL/POP dove PIL sta per prodotto
nazionale lordo e POP per popolazione, ciò significa che la crescita del PIL,
misurato in termini reali, deve essere per lo meno uguale alla crescita della
popolazione, se si vuole che la stessa possa mantenere il suo potere di acquisto. Nel corso degli ultimi dieci anni (1992-2002), la popolazione del
Cantone Ticino è aumentata a un tasso annuale dello 0.71%. Nello stesso
periodo, il reddito dell’economia cantonale è pure cresciuto a un tasso
annuale pari allo 0.71%, ragione per cui la situazione in materia di reddito
pro-capite, in termini nominali, è uno stallo. In termini reali, ossia tenendo
conto del deprezzamento del potere di acquisto dovuto all’aumento dei prezzi, il reddito pro-capite del 2002 era inferiore a quello del 1992. Nel prossimo futuro il tasso di crescita della popolazione residente – a meno di cambiamenti attualmente imprevedibili – dovrebbe diminuire a qualcosa come
lo 0.4-0.5%. Se vogliamo che il potere di acquisto della nostra popolazione
sia mantenuto, l’economia dovrebbe quindi crescere a un tasso reale almeno pari allo 0.5% annuo. Si tratta di una prestazione che, anche di questi
tempi, l’economia ticinese sarebbe, tutto sommato, in grado di assicurare.
Tenendo anche conto del continuo progredire dell’invecchiamento della
popolazione, meno sicura è invece la possibilità di conseguire un traguardo
più elevato di crescita, il traguardo necessario per assicurare il finanziamento della spesa sociale, in particolare delle assicurazioni sociali, senza modificazioni né rispetto al modo di finanziamento dell’istituzione, né alle rendite che la stessa distribuisce, né rispetto all’età del pensionamento. Esistono
diversi studi sul futuro del finanziamento della spesa sociale e le conclusioni dei loro autori non sempre convergono. Diciamo che c’è chi è preoccupato dalla quota sempre ascendente della spesa sociale nel totale del pro-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
121
dotto nazionale lordo e chi invece si affida alle virtù taumaturgiche di una
crescita sostenuta per contenere questo incremento. Martino Rossi e Elena
Sartoris, in un volume dal titolo “Ripensare la solidarietà”, pubblicato nel
1995 (Rossi, Sartoris, 1995) si allineano tra i rappresentanti del secondo
gruppo, citando i risultati di una ricerca svolta da Wechsler e Savioz all’inizio degli anni novanta del secolo scorso (Wechsler, Savioz, 1993). Questi
due autori avevano previsto che entro il 2040 la quota della spesa sociale
nel prodotto nazionale lordo sarebbe aumentata al 32.8% contro il 28.3%
del 1994. Questo risultato avrebbe potuto essere assicurato con un tasso di
crescita annuo pari all’1.5% in una situazione nella quale la popolazione
attiva sarebbe stata in leggera diminuzione (almeno a partire dal 2010) e il
tasso di disoccupazione si sarebbe assestato sul 3%. Nel lungo termine,
secondo questi autori, la crescita del PIL non si discosterebbe molto da quella della produttività. È ovvio che se si volesse stabilizzare la quota della
spesa sociale nel PIL sarebbe necessario un tasso di crescita superiore. Non
disponiamo dei dati per simulare una simile variante, né sappiamo se, tenuto conto del basso tasso di crescita degli ultimi dieci anni, l’ipotesi di
Wechsler e Savioz possa oggi essere considerata ancora come valida. Per i
bisogni della nostra argomentazione le previsioni di questi due autori bastano per permetterci di affermare che, considerando l’invecchiamento della
popolazione e partendo dall’ipotesi di uno zoccolo non riducibile di disoccupazione situato attorno al 3%, il prodotto nazionale lordo dovrebbe crescere almeno dell’1.5% annuo per contenere l’ascesa della quota della spesa
sociale entro limiti ancora accettabili. Se si volesse, come predicano i rappresentanti del neo-liberismo, bloccare l’ascesa della quota stessa (o addirittura ridurla) è evidente che il tasso di crescita necessario non potrebbe
essere inferiore al 2%. E questo tasso sembra trovarsi attualmente al di sopra
delle possibilità reali di prestazione dell’economia svizzera e di quella ticinese.
Ma c’è ancora un livello di crescita da considerare, ossia quello necessario
ad assicurare il pieno impiego. Se l’economia funzionasse in regime di piena
occupazione (come funzionava negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo) il tasso di crescita necessario per assicurare il pieno impiego
sarebbe pari al tasso di crescita della popolazione attiva, ossia, più o meno,
al tasso di crescita della popolazione totale. Nelle condizioni demografiche
attuali, il tasso di crescita demografico sarebbe inferiore di sicuro all’1%.
Ma nel nostro mercato del lavoro non vige attualmente una situazione di
pieno impiego. Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 3 e il 4%. Supponendo
che attraverso la crescita della produzione fosse possibile riassorbire que-
122
Dal paradiso al purgatorio
sta manodopera, quale sarebbe il tasso di crescita necessario? Se il riassorbimento dovesse essere realizzato nel corso di un solo anno, il tasso di
aumento della produttività si mantenesse sull’1.5% circa e la popolazione
attiva aumentasse dello 0.5%, il tasso di crescita del PIL necessario per riassorbire l’attuale 4% di disoccupazione sarebbe del 6% (1.5 + 0.5 + 4 = 6).
Ipotizzando invece che la disoccupazione possa essere riassorbita solo in
misura dello 0.5% all’anno, ci vorrebbero 8 anni per ritrovare un livello di
piena occupazione e il tasso di crescita annuale – mantenendo gli aumenti
di produttività e di popolazione attiva di cui sopra – sarebbe del 2.5%. Se
invece ipotizziamo che la popolazione attiva non cresca più, allora il tasso
necessario per eliminare su 8 anni la disoccupazione sarebbe del 2%. Quello
che abbiamo cercato di fare è un esercizio di stima basato sull’ipotesi che
esista per l’economia ticinese una “legge di Okun” per la quale a un 1% di
crescita supplementare corrisponderebbe una diminuzione del tasso di
disoccupazione dell’1%. Si tratta, come si può constatare leggendo la definizione della legge nello specchietto che segue, di un’ipotesi molto ottimista. Senza approfondire l’analisi possiamo quindi concludere che il tasso di
crescita necessario per riassorbire la disoccupazione si situa con grande probabilità sopra il 2% annuale. Se l’economia ticinese e quella svizzera fossero in grado di realizzare una crescita reale pari al 2.5% annuale su un
periodo di 10 anni è probabile che la disoccupazione scenderebbe a zero. In
mancanza di una simile prestazione sembra difficile contenere la disoccupazione al disotto di livelli pari al 3 o al 4%.
La legge di Okun
Si tratta di una relazione tra il tasso di crescita del prodotto interno
lordo e la variazione del tasso di disoccupazione, che prende il nome
da Arthur Okun, l’economista americano che fu consulente del presidente Kennedy e che per primo la stimò. Per l’economia americana le
stime di Okun hanno dato che con un tasso di crescita inferiore al 3%,
la disoccupazione aumenta, mentre con un tasso di crescita superiore
al 3%, il tasso di disoccupazione diminuisce di un mezzo per cento per
ogni aumento di un 1% del tasso di crescita.
In conclusione, in una regione nella quale la popolazione tende ad aumentare a tassi sempre più moderati e a invecchiare, in una regione nella quale
la disoccupazione ha raggiunto livelli significativi, vi sono almeno tre ragioni per promuovere la crescita in termini reali del prodotto interno lordo, vale
a dire:
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
–
–
–
123
la volontà di mantenere il potere di acquisto dei consumatori
l’intenzione di frenare l’aumento della quota della spesa sociale nel PIL,
senza dover ricorre a riforme importanti della legislazione sociale
lo sforzo per ritrovare il livello della piena occupazione.
Come abbiamo cercato di mostrare in questo capitolo, ognuno di questi
obiettivi presuppone il raggiungimento di tassi di crescita del PIL reale
diversi. L’obiettivo più difficile da raggiungere è quello relativo al riassorbimento della disoccupazione perché richiede la realizzazione di tassi di
crescita reale superiori al 2% su più anni. Ma anche il finanziamento della
spesa sociale, senza un aumento troppo forte della sua quota nel PIL, richiede un tasso di aumento del PIL che, attualmente, né l’economia svizzera,
né l’economia ticinese sono in grado di assicurare. Uscire dal purgatorio
della stagnazione diventa quindi urgente. Ritrovare tassi di crescita superiori al 2% reale rappresenta infatti una premessa necessaria per risolvere almeno tre problemi economici importanti.
21. Due approcci alla previsione del tasso di crescita
Iniziando la terza parte di questo saggio, abbiamo affermato che gli economisti non sono in grado di procedere a previsioni di lungo termine, intendendo per lungo termine il periodo di una generazione, ossia 20-25 anni.
Restiamo di questa opinione anche se, nel corso di questo capitolo, cercheremo di presentare delle previsioni economiche per un periodo lungo. I dati
sull’evoluzione del potenziale di produzione dell’economia ticinese che
presenteremo, non devono però essere considerati come delle informazioni
su cosa potrebbe veramente avvenire in campo economico da qui al 2020,
ma come delle indicazioni sulla capacità di sviluppo della nostra economia
nell’ipotesi che si possa realizzare, durante tutto il periodo di previsione, il
pieno impiego. Oltre al pieno impiego, per procedere a questa stima sono
necessarie altre ipotesi:
– la prima riguarda il tasso di aumento dell’offerta di manodopera (popolazione attiva, ma anche frontalieri)
– la seconda riguarda l’evoluzione del numero di ore lavorative settimanali
– la terza riguarda invece l’evoluzione della produttività
Per procedere alla definizione dell’evoluzione della capacità di produzione
partiamo dall’identità che avevamo già presentato nella seconda parte:
P = (L.O) . P/(L.O)
124
Dal paradiso al purgatorio
nella quale P rappresenta la produzione dell’economia ticinese, L i lavoratori occupati nella stessa, O il numero di ore lavorate da un lavoratore nel
corso di un anno nell’economia ticinese, (L.O) il totale delle ore di lavoro
necessarie per produrre P e P/(L.O) la produzione per ora lavorata, ossia la
produttività per ora di lavoro nel contesto di questa economia. Se accettiamo questa definizione della capacità di produzione, il tasso di crescita della
capacità stessa sarà dato dalla somma dei tassi di crescita di L, di O e di
P/(L.O). Sull’evoluzione della produttività non abbiamo molte informazioni. La tendenza di lungo termine, come è già stato ricordato nel capitolo 12,
è alla diminuzione ( si veda la tabella 3). Oggigiorno, la produttività aumenta a un tasso annuo inferiore all’1%. Per rilanciare la produttività o, espressa in altri termini, l’efficienza con la quale i fattori di produzione operano,
sono previste misure di politica economica importanti sia a livello nazionale, sia a livello del Cantone. Per una volta vogliamo essere ottimisti e supporre che il successo di queste misure, con quello delle misure di ristrutturazione prese nelle aziende, sia tale da riportare il tasso di crescita della produttività all’1.5% annuo. La popolazione attiva potrebbe a sua volta crescere, nei prossimi 15 anni, a un tasso pari allo 0.5%. Se, per il momento, ipotizziamo che il numero delle ore lavorative settimanali non vari (tasso di
aumento 0%), il tasso di aumento del potenziale di produzione, nel corso
dei prossimi anni, potrebbe essere pari al 2%. Per verificare quale potrebbe
essere l’impatto di un aumento della durata del lavoro annuale – una misura che, nel corso degli ultimi tempi è stata discussa da più parti – supponiamo che, da domani, la durata settimanale del lavoro sia portata da 41 a 44
ore e che il numero di settimane lavorative non muti, durante il periodo analizzato. In questo caso la capacità di produzione aumenterebbe ancora dello
0.47%, realizzando quindi – almeno sulla carta – un tasso di aumento annuale pari circa al 2.5%. Diciamo sulla carta perché l’aumento delle ore di lavoro potrebbe avere un impatto negativo sulla produttività per ora di lavoro,
oppure sull’occupazione, tale da, nell’ipotesi estrema, addirittura annullare l’impatto positivo sulla capacità di produrre dovuto all’estensione della
settimana lavorativa.
La funzione di produzione
Se consideriamo l’insieme delle aziende produttive di un’economia
come fosse un’azienda sola, possiamo definire il rapporto che corre tra
l’utilizzazione di fattori di produzione come il lavoro o il capitale e la
produzione complessiva come la funzione di produzione di quell’azienda, ovverosia dell’economia esaminata. Disponendo dei dati sull’impiego di fattori di produzione e sulla produzione di economie come
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
125
quella della Svizzera o del Ticino, sarebbe dunque possibile stimare la
funzione di produzione corrispondente. Nella teoria economica vi sono
intere famiglie di funzioni di produzione. Quella che utilizziamo nel
presente capitolo è forse la più semplice. In effetti, più che di una funzione si tratta di un’identità perché la produttività del lavoro moltiplicata per il lavoro (misurato in lavoratori o ore lavorate) dà sempre la
produzione. È quindi più corretto parlare, come facciamo nel testo, di
identità di produzione che di funzione di produzione. In relazione funzionale con la produzione potrebbe invece stare l’efficienza con la
quale il fattore lavoro viene impiegato nel processo produttivo. È il
discorso che viene fatto più avanti in questo capitolo e, soprattutto nel
prossimo.
Se abbiamo considerato la variante di un aumento della durata del lavoro settimanale è per dare al lettore un’idea dell’ordine di grandezza dell’effetto che questo fenomeno potrebbe avere sulla crescita, a patto che
il pieno impiego continui ad essere assicurato e che la produttività per
ora di lavoro continui ad aumentare al tasso previsto. Ma si tenga però
anche presente che un effetto di questo tipo potrebbe essere raggiunto
anche da un aumento del tasso di crescita della produttività, dall’1.5 al
2%, per effetto dell’innovazione di prodotto o di processo, oppure da un
aumento dell’effettivo di occupati pari allo 0.5% annuo. Queste sono dunque le previsioni che oggi si possono fare sull’evoluzione del potenziale di produzione (potenziale perché si lavora con l’ipotesi della piena
occupazione) dell’economia ticinese. I tassi di crescita raggiungibili con
le nostre forze sono dell’ordine del 2-2.5% annuale. Basterebbero di sicuro per portarci fuori dal purgatorio della stagnazione, ma non per farci
ritrovare il paradiso della crescita. Dal purgatorio passeremmo a una specie di limbo economico. Non avremmo di certo ritrovato il ritmo di espansione degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, ma disporremmo
di una crescita che ci permetterebbe di riempire gli obiettivi enunciati nel
capitolo che precede. Non si tratta di una crescita eccezionale. Varrà la
pena notare che tassi di crescita reali tra il 2 e il 3% vengono oggi realizzati regolarmente dai paesi membri dell’Unione Europea dei 15, con
le sole eccezioni della Germania e dell’Italia, i nostri due possenti vicini. Per ottenerla però dovremo essere in grado di:
– eliminare la disoccupazione
– assicurare una crescita della produttività pari all’1.5-2% annuale
126
Dal paradiso al purgatorio
Le misure e i programmi che oggi ci vengono proposti per – come dicono
i nostri confederati – “rinnovare” l’economia devono essere valutati in base
a questi due criteri, ossia in base all’impatto che esse possono avere (almeno nel lungo termine) sulla disoccupazione e al loro effetto sul tasso di crescita della produttività. Per quel che riguarda infine la durata della settimana di lavoro pensiamo che non valga la pena di perdere troppo tempo. La
Svizzera, già oggi, possiede una delle più lunghe settimane lavorative
d’Europa. Quello che ieri poteva sembrare un’assurdità sta oggi rivelandosi come un alleato prezioso nel mantenimento della nostra capacità concorrenziale. Personalmente non crediamo che la riduzione della durata settimanale del lavoro possa rilanciare l’impiego. Ma non crediamo neppure che
l’aumento della durata settimanale del lavoro possa contribuire a rialzare il
tasso di crescita del PIL nazionale o di quello regionale. Siamo comunque
favorevoli a quelle misure che, in modo ragionevole e eticamente accettabile, si sforzano di flessibilizzare la durata del lavoro, in particolare per far
fronte alle esigenze di aziende che devono fornire just in time, o che devono soddisfare le richieste di consumatori che hanno modificato le loro abitudini di consumo. Ci riferiamo qui, per fare solo un esempio, agli orari di
apertura dei negozi.
Nei paragrafi che precedono abbiamo cercato di analizzare quale potrebbe
essere il futuro della crescita economica in Ticino, proiettando l’evoluzione
delle componenti di una semplice funzione di produzione composta dal
numero delle ore lavorate e dalla produttività per ora di lavoro. Un altro modo
di guardare al problema della crescita economica è quello adottato da S.
Borner e F. Bodmer nel loro saggio sul rapporto tra benessere e crescita economica, pubblicato nel 2004 (Borner, Bodmer, 2004). La funzione da loro
stimata fa dipendere la variazione annuale del prodotto nazionale lordo di
una nazione da una serie di fattori che servirebbero a descrivere l’influenza
di macro-variabili come il sistema economico, il sistema politico e la società,
piuttosto che, come nel caso delle nostre proiezioni, l’evoluzione del potenziale di produzione. È interessante occuparsi di questo approccio perché aiuta
a comprendere quali potrebbero essere i fattori che spiegano la differenza tra
il tasso di crescita dell’economia svizzera e quelli delle altre economie europee. Gli autori citati qui sopra hanno stimato, in forza del loro modello, basato sulla crescita delle economie europee, quale avrebbe dovuto essere il tasso
medio di crescita dell’economia svizzera negli anni sessanta, negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta dello scorso secolo. Hanno poi
comparato il risultato della loro previsione ex-post con il tasso effettivo, stimando così la quota di crescita non spiegata dal modello. Quali sono i fatto-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
127
ri determinanti della crescita nel modello stimato da questi due autori? Il
primo fattore è di natura storica e si riferisce a forze che in diversi periodi di
tempo operano in modo positivo sulla crescita economica in tutti i paesi europei. Borner e Bodmer chiamano queste forze effetti temporali o di periodo e
trovano che esse sono state diverse negli anni sessanta, negli anni settanta,
negli anni ottanta e negli anni novanta dello scorso secolo.
Previsione ex-ante e previsione ex-post
Nel linguaggio comune la previsione corrisponde a una valutazione di
cosa potrà succedere nel futuro. Prevedere significa esprimersi sul futuro, prima che lo stesso si manifesti. La previsione non può quindi essere che ex-ante. In econometria, la scienza che aiuta a stimare i modelli economici, la previsione invece può essere anche ex-post.
Utilizzando i dati di un periodo nel passato (per esempio il periodo
1970-1980) io posso infatti, sulla base del modello che ho scelto, stimare che cosa sarebbe successo nel periodo successivo (1980-1990)
che però è già trascorso. Questo tipo di esercizio serve per verificare
quanto sia efficace il modello scelto se applicato alle previsioni. Si
veda, per un esempio di previsione ex-post, la figura 25.
Gli altri fattori ritenuti per il confronto tra tasso stimato dal modello e tasso
di crescita effettivo sono:
– la quota degli investimenti nel prodotto nazionale lordo
– la quota delle persone con formazione secondaria nel totale della popolazione
– il grado di apertura dell’economia (somma delle esportazioni e delle
importazioni divisa per il prodotto nazionale lordo, ponderata con la
popolazione)
– la quota dello Stato (spesa dello Stato, inclusiva degli investimenti e dei
sussidi divisa per il prodotto nazionale lordo)
– il tasso di inflazione, misurato dall’indice con il quale si calcola il prodotto nazionale lordo in termini reali.
Mentre l’effetto temporale, la quota degli investimenti e la quota delle persone con formazione secondaria hanno un’influenza positiva sul tasso di
crescita, la quota della spesa statale e il tasso di inflazione hanno un effetto negativo. Il grado di apertura, come illustra la tabella che segue, ha avuto
un’influenza negativa negli anni sessanta e settanta, positiva nell’ultimo
ventennio del secolo scorso.
128
Dal paradiso al purgatorio
Tabella 6: Le determinanti del tasso di crescita dell’economia svizzera in diversi decenni
Variabili indipendenti
Effetto temporale
Quota investimenti
Quota persone formate
Grado di apertura
Quota dello Stato
Tasso di inflazione
Tasso di crescita previsto dal modello
Tasso di crescita effettivo
1960-70
2.88%
0.58%
0.71%
- 0.42%
- 0.90%
- 0.43%
2.41%
3.23%
1970-80
2.13%
0.53%
0.80%
- 0.20%
- 1.18%
- 0.53%
1.55%
1.19%
1980-90
2.08%
0.55%
0.85%
0.05%
- 1.40%
- 0.36%
1.77%
1.54%
1990-2000
1.36%
0.58%
0.90%
0.24%
- 1.51%
- 0.19%
1.38%
0.37%
Fonte: S. Borner, F. Bodmer, opera citata
Che cosa ci dicono queste cifre? Sostanzialmente esse ci dicono che se l’economia svizzera fosse cresciuta nelle stesse condizioni e per effetto dei
medesimi fattori che influenzano la crescita delle altre economie europee,
essa avrebbe realizzato un tasso di crescita inferiore a quello effettivo, nel
corso degli anni sessanta del secolo scorso, superiore a quello effettivo, nei
tre decenni successivi. La capacità del modello di spiegare il tasso di crescita raggiunto dall’economia svizzera è abbastanza buona per gli anni settanta e per gli anni ottanta, molto meno buona per il periodo degli anni sessanta e per quello più recente, ossia l’ultima decade dello scorso secolo. In
secondo luogo, questi tassi ci dicono che lo zoccolo di crescita, determinato dall’effetto temporale (e quindi da fattori che operano per tutte le economie europee ma che non si conoscono in modo più trasparente) è forte.
Questa costatazione viene a ridurre ulteriormente la capacità del modello di
spiegare effettivamente il tasso di crescita dell’economia svizzera. I dati
della tabella 6 ci dicono infine che l’unico fattore che incide in modo negativo e in misura significativa sulla crescita dell’economia svizzera è la quota
dello Stato. Di più, come si può dedurre dal valore del coefficiente di questa variabile, il suo peso negativo sulla crescita dell’economia aumenta di
decennio in decennio. Ma che valore ha questa costatazione se, come abbiamo già notato, il modello non è in grado di spiegare in modo consistente l’evoluzione del tasso di variazione del prodotto nazionale lordo su un periodo di quarant’anni? Dobbiamo concludere che, sebbene la struttura del
modello sia alquanto lacunosa, esso è comunque in grado di indicare che la
quota crescente della spesa dello Stato ha un effetto negativo sul tasso di
crescita dell’economia, perché il coefficiente stimato è significativo e in continua crescita? Oppure non dobbiamo, con maggiore onestà, concludere che
il modello di Bodmer e Borner è interessante ma che, da un lato, non poggia su nessuna base teorica consistente, e, dall’altro, nella sua verifica empi-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
129
rica, non approda a nessuna conclusione? Gli autori appena citati propendono per la prima interpretazione e, nonostante le lacune teoriche e empiriche del modello, sembrano credere che le stime dei parametri siano fondate e spieghino almeno in parte perché il tasso di crescita in Svizzera si sia
indebolito in modo così forte. Personalmente propendiamo per la seconda
spiegazione e suggeriamo di considerare il modello dei due autori citati
come un approccio per il momento fallito a una spiegazione del tasso di crescita della nostra economia in un quadro di riferimento internazionale.
22. La medicina che non piace: le riforme viste da destra
Il capitolo che precede ci ha permesso di fissare qualche idea rispetto alla
crescita futura del potenziale dell’economia ticinese. In primo luogo abbiamo potuto stabilire che la produzione potenziale, in forza della debolezza
demografica non dovrebbe aumentare che in misura prossima all’1% nel
corso del prossimo ventennio. Questo tasso non sarà di molto superiore a
livello nazionale. L’economia svizzera e quella ticinese cresceranno quindi
molto lentamente, se la crescita dovesse limitarsi alle possibilità offerte dall’espansione prevedibile del fattore lavoro. Certamente più lentamente che
la maggioranza delle economie europee. Se, per fare un’ipotesi diversa,
introduciamo la possibilità che l’efficienza con la quale il fattore lavoro
viene utilizzato possa migliorare, sarebbe possibile conseguire un tasso di
crescita superiore. Questo miglioramento non può venire in pratica che da
un aumento della produttività. Sottolineamo questa conclusione che vorremmo restasse acquisita: il ritorno a tassi sostenuti di crescita – superiori
a quelli che si possono raggiungere attraverso l’espansione dell’offerta di
lavoro e attraverso l’aumento del numero delle ore lavorative – non potrà
realizzarsi che se l’economia svizzera e quella ticinese saranno capaci di
realizzare un tasso di aumento della produttività più elevato. Il rapporto tra
produttività e crescita diventa così, in Svizzera, il tema centrale verso il
quale si orientano, da qualche tempo, le ricerche sulla nostra economia.
Variazione dei fattori e tipo di sviluppo
Se, nella funzione economica del capitolo precedente, teniamo fisso il
numero delle ore lavorate, il tasso di crescita del prodotto nazionale
lordo corrisponde alla somma tra il tasso di variazione della produttività e il tasso di variazione dell’occupazione.
Vi sono autori che, combinando i tassi di variazione della produttività
e dell’occupazione hanno messo a punto una classificazione dei tipi più
130
Dal paradiso al purgatorio
recenti di sviluppo delle economie avanzate (Camagni, 1991). A seconda della combinazione dei segni delle variazioni (+, se la variazione è
positiva, - se è negativa) possiamo per esempio distinguere le quattro
modalità di sviluppo seguenti:
+
produttività
Ristrutturazione
e Delocalizzazione
Competitività
-
occupazione
Stagnazione
Take-off economico
-
+
L’economia svizzera, che tra il 1945 e il 1975 si era trovata nel quadrante della competitività, si trova oggi, almeno per quel che riguarda un certo numero di rami industriali e dei servizi, in quello della ristrutturazione/delocalizzazione. Difficile dire quale sarà l’evoluzione futura. Se
essa seguirà il movimento delle lancette dell’orologio andremo verso un
rafforzamento della competitività. Se invece dovesse muoversi in direzione opposta, andremo definitivamente verso la stagnazione
A livello macroeconomico, cioè a livello di una funzione di produzione per
l’economia nazionale, il problema è, come si è detto, un problema di efficienza: come far aumentare il valore aggiunto per ora di lavoro in misura
superiore a quella che si è in grado di realizzare attualmente. Facciamo notare che, sempre a livello macroeconomico, il problema di una utilizzazione
maggiormente efficiente dei fattori di produzione (nel caso della nostra funzione di produzione del fattore lavoro) coincide con il problema della competitività (Kappel, Landmann, 1997). Quando si parla di migliorare l’efficienza del processo produttivo o si fa accenno alla necessità di incrementare la capacità concorrenziale dell’economia svizzera, o di quella ticinese, si
intende quindi parlare di misure che possono incrementare il tasso di aumento della produttività, rafforzando i fattori che agiscono in modo positivo sull’evoluzione della stessa e togliendo forza o eliminando i fattori che invece
sono capaci di frenare la sua evoluzione.
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
131
Ma quali sono questi fattori? Scorrendo gli articoli della stampa economica
l’elenco dei fattori che frenano o possono incrementare la crescita della produttività della nostra economia e la sua capacità competitiva è abbastanza
facile da fare. In positivo vengono citate le attività di ricerca e sviluppo e in
negativo il protezionismo, interno e internazionale, la poca flessibilità del
mercato del lavoro e la quota sempre crescente della fiscalità e della spesa statale unita alla sclerosi istituzionale di cui sarebbe afflitto il nostro federalismo. Questa lista di colpevoli è venuta costituendosi nel tempo, grazie in particolare ai lavori del prof. Silvio Borner dell’università di Basilea e dei suoi
collaboratori. Citiamo qui in particolare “Schweiz AG: Vom Sonderfall zum
Sanierungsfall?”, “Die Schweiz im Alleingang”, “Wieviel direkte Demokratie verträgt die Schweiz?” e “Wohlstand ohne Wachstum. Eine Schweizer
Illusion” (S. Borner e altri, 1990, 1994, 1997, 2004). Sulla stessa lunghezza
d’onda, ma concentrandosi sulla necessità di riforme istituzionali, si trova
anche Hansjörg Blöchliger con il suo recente libro “Baustelle Foederalismus” (H. Blöchliger, 2005). Qual è la ricetta che questi rappresentanti del
neo-liberismo elvetico raccomandano per far ritrovare all’economia svizzera
un tasso di aumento della produttività superiore all’1% attuale?
Tabella 7: Le riforme del settore pubblico necessarie per rilanciare l’economia elvetica,
secondo la scuola neo-liberista
In materia di politica economica
- Rilanciare la concorrenza
- Ridurre la regolamentazione
- Incrementare l’apertura internazionale
- Risanare le finanze degli enti pubblici
- Riformare il sistema di sicurezza sociale
e pensionistico
- Riformare la politica sanitaria
- Riformare la politica scolastica
e il finanziamento della ricerca
- Ridurre i sussidi all’agricoltura
e al traffico nelle regioni rurali e di montagna
In materia istituzionale
- Estendere i processi di privatizzazione
(Scuola, Sanità, Socialità)
- Rafforzare l’espressione della volontà popolare
con elezioni piuttosto che con votazioni
su oggetti concreti.
Esempi: far eleggere il Consiglio Federale dal popolo.
Introdurre una proporzione minima di voti a livello
nazionale perché un partito possa ottenere seggi
in consiglio nazionale, ecc.
- Rafforzare i diritti individuali
- Contenere e ridurre i diritti popolari in particolare
il diritto di iniziativa e il diritto di referendum
Fonte: S. Borner, F. Bodmer (2004) e elaborazione dell’autore
Si tratta di un programma di liberalizzazione economica e di trasformazione istituzionale che propugna da una parte una serie di riforme che concernono la politica economica del nostro Paese e, dall’altro, una serie di modifiche del nostro sistema istituzionale. Rimandando i lettori che volessero
saperne di più alla consultazione delle opere originali, ci limitiamo qui a
132
Dal paradiso al purgatorio
commentare in modo succinto le due serie di riforme proposte dagli esponenti della scuola neo-liberista, che chiameremo i riformatori per l’insistenza con la quale chiedono appunto delle riforme. Come si potrà costatare l’attuazione di queste riforme incombe alla Confederazione e ai Cantoni.
Questo programma si basa sulla fede nelle qualità taumaturgiche delle scelte economiche individuali che, esprimendosi su mercati, nei quali, si suppone, il postulato della concorrenza sia stato realizzato, non possono che
contribuire a massimizzare l’efficienza. Di fatto, però, né i mercati sono concorrenziali, perché forme di protezionismo e di controllo da parte di coalizioni di produttori e di consumatori continuano ad esistere, né purtroppo le
decisioni individuali portano all’efficienza, perché esistono effetti esterni
che raramente possono venir compensati con transazioni di natura mercantile. Il lettore non deve quindi sorprendersi di apprendere che le verifiche
empiriche dell’efficacia di queste riforme non sono approdate, almeno in
Svizzera, a risultati incontestabili.
Prendiamo, per fare un solo esempio, il grosso lavoro di ricerca che il professor Blattner e i suoi collaboratori realizzarono alla fine degli anni ottanta del secolo scorso sui fattori che influenzavano la capacità competitiva dell’economia svizzera (de Saussure, Blattner, 1988). In questo lavoro si cercava di misurare l’impatto sulla competitività dell’economia nazionale di
una serie di fattori e fenomeni come il protezionismo commerciale, la promozione delle attività di ricerca e sviluppo, la sclerosi delle istituzioni politiche, la tendenza alla concentrazione delle aziende, l’intervento dello Stato
( sussidi, regolamentazione dei prezzi e della produzione, barriere commerciali), la disponibilità di capitale-rischio, la capitalizzazione in borsa, l’attività sul mercato del capitale e l’importanza del capitale detenuto dal cosiddetto “top-management”. I risultati della verifica empirica non permettono
di costruire uno scenario in bianco e nero con certi fattori chiaramente identificati come nocivi e altri, altrettanto chiaramente, riconosciuti come benefici per l’incremento della capacità competitiva dell’economia svizzera. Né
bianchi, né neri sono anche i risultati dei numerosi studi che, nel corso degli
ultimi anni sono stati fatti, di qua e di là dall’Atlantico, per verificare se l’aumento della quota dello Stato nel prodotto nazionale lordo avesse o meno
un impatto negativo sul tasso di crescita di questo aggregato. Le difficoltà
della verifica empirica indeboliscono naturalmente l’appello che il programma neo-liberista può avere a livello sia dei politici, sia dell’opinione
pubblica. È come se una parte del corpo medico si mettesse a raccomandare un medicamento che ancora non ha passato tutti i test che si rendono
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
133
necessari, prima che possa venir introdotto su larga scala. Sulla sua efficacia continueranno a pesare, per un periodo più o meno lungo di tempo, grossi dubbi.
Ricordiamo poi che, al di là del fatto che la sua verifica empirica non dà
risultati indiscutibili, il programma dei riformatori non piace al pubblico o,
per essere più precisi, non piace ai pubblici che rischierebbero di perdere
una parte del loro benessere, del loro potere economico o del loro potere
politico, se queste riforme dovessero venir realizzate. L’elenco delle votazioni popolari che hanno rifiutato tagli e risparmi potrebbe qui essere molto
lungo. Meno numerose, ma altrettanto negative sono state le decisioni popolari sulle proposte di privatizzazione sia nel campo dell’energia elettrica, sia
nel campo della scuola. Sulla questione di aprire maggiormente il Paese alla
concorrenza internazionale, la Svizzera è divisa in due. Si ha inoltre l’impressione che, nel corso degli ultimi 15 anni, gli oppositori a un’apertura
siano aumentati. Questo almeno per quel che riguarda il problema di una
possibile adesione della Svizzera all’Unione Europea. Qualsiasi riforma,
anche minima, del sistema di sicurezza sociale e pensionistico che dovesse
essere sottoposta a votazione popolare sarebbe travolta da una valanga di
no. Delle riforme elencate nella tabella 7 le uniche che hanno una probabilità di essere accettate in votazione popolare sono quelle per le quali la coalizione degli interessi toccati è minoritaria, come potrebbe essere il caso per
misure che intendono ridurre la regolamentazione o i sussidi a clientele
poco numerose come gli agricoltori o la popolazione che abita nelle regioni rurali e di montagna. Come dimostrano anche gli esempi di altri Stati,
bisogna attendersi che, fino a quando la prova del 9 dell’efficacia del programma riformistico non sarà stata fatta, l’opposizione popolare a molte
delle riforme promosse dallo stesso continuerà a manifestarsi, almeno a
livello di votazioni popolari. Anzi, c’è da temere che la stessa continuerà
anche dopo che la prova dell’efficacia sarà stata data, perché è difficilmente pensabile che chi viene direttamente colpito nei propri interessi da queste riforme sia disposto ad accettarle.
23. Vogliamoci bene: le riforme viste da sinistra
Il programma neo-liberista, esposto nel capitolo precedente, riempie oggi
in Svizzera i giornali, come pure le trasmissioni specialistiche delle radio e
delle televisioni pubbliche e private. Grazie alle iniziative di “Avenir
Suisse”, un gruppo di riflessione le cui pubblicazioni sono finanziate da
“Economie suisse” l’associazione-cartello dei datori di lavoro, l’insieme del
134
Dal paradiso al purgatorio
programma, ma anche singoli temi vengono regolarmente analizzati e
approfonditi in pubblicazioni firmate da professori di economia delle nostre
università che sono in generale fautori di un approccio liberista all’economia. Fatte queste precisazioni, occorre aggiungere che sarebbe sbagliato
definire il discorso sulla riforma dello Stato come un discorso unicamente
di destra. Per due ragioni: in primo luogo perché non tutta la destra politica sarebbe pronta a sottoscrivere il pacchetto di riforme che figura nella
tabella 7 del capitolo precedente. L’Unione Democratica di Centro, ma
anche gli esponenti delle varie correnti nazionaliste, pur approvando il proposito di snellire lo Stato, non approverebbero di certo tutte le misure intese a favorire la liberalizzazione interna dei mercati e, soprattutto la loro liberalizzazione verso l’esterno. Attenzione quindi alle semplificazioni di coloro che scrivono l’identità Borner = Blocher. Se il programma di riforme di
Borner è chiaro, quello di Blocher, sul piano dei principi economici, è molto
più contraddittorio. Ma l’etichetta di programma di destra, affibbiata alle
riforme proposte da Borner e compagni, è riduttiva anche perché, da qualche anno, le stesse stanno incontrando approvazione e sostegno da parte di
esponenti della sinistra, nei partiti verdi come nella socialdemocrazia. È
interessante quindi, prima di ritornare a discutere del Ticino, occuparci per
un momento delle proposte di questo secondo gruppo di riformatori. Lo
faremo riferendoci a una pubblicazione recente di Simonetta Sommargua e
Rudolf H. Strahm, la prima, consigliera agli Stati socialdemocratica, e il
secondo, consigliere nazionale socialdemocratico, per molti anni e, oggi,
delegato al controllo dei prezzi (Sommaruga, Strahm, 2005). Prima di entrare nel vivo della discussione, ricordiamo che i due autori fanno parte, con
altri intellettuali socialdemocratici che gravitano sulla capitale nazionale,
del gruppo che, qualche anno fa, aveva promosso il “manifesto del Gurten”,
che deve essere considerato come una tra le prime prese di posizione pubblicate dai “riformatori” di sinistra.
Un piano di riforme pratico: con questo sottotitolo i due autori citati riassumono il contenuto del loro libro. Nella seconda parte, che è anche la parte
più consistente, essi non si contentano di analizzare i problemi più scottanti della politica federale, ma avanzano anche, in modo molto concreto e
con conoscenze da insiders, proposte di riforma. Abbiamo cercato di riassumere la sostanza di queste proposte nella tabella 8 che segue. Se si confronta il decalogo di temi di questa tabella con le riforme in materia di politica economica proposte dal prof. Borner, riassunte nella tabella 7, ci si
accorge che, almeno per quel che riguarda la scelta dei temi, neo-liberisti
e socialdemocratici riformisti sono molto vicini. Nel decalogo di
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
135
Sommaruga e Strahm mancano è vero proposte in materia di riduzione della
regolamentazione statale e di riforma del sistema sanitario; vi figurano però
problemi come l’integrazione degli stranieri, la povertà, la riduzione dei
prezzi e la protezione dell’ambiente, che i neo-liberisti di solito non citano perché pensano che l’apertura verso l’estero e la realizzazione del postulato della concorrenza anche all’interno della Svizzera dovrebbero bastare per risolverli. Ma la prossimità dei due programmi di riforma non si
ferma ai temi. Anche nelle misure socialdemocratici e neo-liberisti sembrano darsi la mano, almeno laddove scelgono di trattare i medesimi problemi. Se dovessimo ricercare i punti di non-convergenza li troveremmo
nell’accento che i neo-liberisti mettono sulla necessità di ridurre l’intervento statale e nell’accento che i riformisti socialdemocratici mettono, con
altrettanta decisione, sulla necessità di mantenere il potere di acquisto dei
lavoratori. È probabile che un secondo gruppo di differenze potrebbe manifestarsi a proposito delle proposte di riforma istituzionale dei neo-liberisti.
Quello che però rimane acquisito è che tra i riformatori socialdemocratici
e riformatori neo-liberisti esiste un terreno di intesa e di azione comune
che sembrerebbe esteso. Ma allora perché non promuovere una coalizione
di interessi a sostegno di un programma di riforme comune? Sommaruga
e Strahm sono convinti che questo programma possa essere formulato e
possa trovare in parlamento una maggioranza politica per sostenerlo. Ma
non sottostimano le difficoltà che si potrebbero incontrare sul cammino
delle riforme, in particolare a causa del nostro sistema di governo. La terza
e ultima parte del loro libro è dedicata ai problemi della realizzazione politica delle riforme. A differenza dei neo-liberisti che argomentano soprattutto per una riforma istituzionale e una limitazione dei diritti di iniziativa
e di referendum, i riformatori socialdemocratici insistono per dare ai parlamentari maggiori risorse, per contenere gli eventuali abusi di potere dei
gruppi di interesse e il lobbysmo, per rafforzare il ruolo dei partiti. Essi
propongono inoltre che si ritorni a concepire una politica basata su una
visione strategica e non quotidiana del divenire del nostro Paese. L’appello
con il quale chiudono il libro, infine, è un appello perché si cerchi di rivitalizzare il regime di concordanza tra i partiti. Sul terreno delle riforme da
realizzare i punti di vista dei riformatori non sono dunque così diversi. Per
il momento, però, almeno a livello nazionale, le possibilità concrete di
riforma sono bloccate dalla paura che i partiti di centro hanno del populismo di destra e di quello di sinistra. Di conseguenza è difficile giudicare
quanta fortuna potrà avere il “Vogliamoci bene!” che i riformisti socialdemocratici che sostengono le proposte di Sommaruga e di Strahm lanciano
a PPD e a PLR.
136
Dal paradiso al purgatorio
Tabella 8: I problemi della politica svizzera e le proposte di riforma della sinistra
Elenco dei problemi
Proposte di riforma
1) Quota dello Stato
Non è un problema rilevante. Occorre tuttavia limitare il nuovo indebitamento,
introducendo i limiti di Maastricht e accordandosi su un elenco di priorità di
spesa
2) Educazione e formazione
La spesa per l’educazione deve poter crescere. A livello dell’obbligo, occorre
incrementare il coordinamento. La formazione degli apprendisti deve essere
maggiormente sostenuta dallo Stato. Le università devono passare in mano
alla Confederazione. Le SUP devono profilarsi come un modello alternativo
alle università. Incrementare gli sforzi per la formazione permanente
3) Povertà
Accordare maggiori incentivi al povero che lavora
4) Integrazione degli stranieri
Imparare la lingua.Apprendere una professione. Naturalizzazione facilitata per
chi è nato in Svizzera. Contingentare l’immigrazione dai paesi extra-europei
5) Finanziamento delle pensioni
1% di IVA in più entro il 2015 per l’AVS. L’età del pensionamento può essere
aumentata solo con flessibilizzazione del momento di entrata in pensione.
Bloccare il reddito assicurabile del secondo pilastro a un massimo di fr.
150’000
6) Riduzione dei prezzi al consumo
Ridurre il prezzo dei beni importati autorizzando importazioni parallele.
Liberalizzare il mercato interno. Per i medicamenti adottare la prassi di introduzione europea. Più concorrenza sul mercato interno però non per la produzione culturale, non per i libri, la musica, la radio e la televisione. Le associazioni dei consumatori e la sorveglianza sui prezzi sono da mantenere
7) Protezione dell’ambiente
Sviluppo sostenibile come principio guida. Tre settori importanti: il consumo
di energia, l’agricoltura e la protezione del paesaggio. Dove possibile, ricorrere al mercato. Impegnarsi per una regolamentazione a livello mondiale
8) Posizione della Svizzera nel mondo
Creare le condizioni per un’adesione a tappe all’Unione Europea. Rafforzare
l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Allentare il segreto bancario. Operare per
l’introduzione di standard sociali e standard ecologici nelle trattative
dell’OMC e della Banca Mondiale
9) E il fisco?
Semplificare il sistema delle imposte dirette e renderlo più giusto. Al posto
dell’imposta sulla sostanza un’imposta nazionale sulle eredità e le donazioni.
Realizzare, almeno in parte, l’armonizzazione fiscale. Evitare misure che riducono il gettito fiscale. Utilizzare maggiormente lo strumento delle tasse e dei
contributi, specie nel campo ecologico e a livello comunale
10) Crescita e occupazione
Misure quadro: politica monetaria intelligente, misure di lotta contro il dumping salariale, mantenimento degli investimenti pubblici, aumento del tasso di
attività femminile
Misure strategiche in favore della crescita: rafforzare la concorrenza interna e
ridurre i prezzi, aumentare le risorse in favore di educazione, formazione e
ricerca di almeno il 30%, facilitare il finanziamento delle PMI, ridurre l’obbligatorietà del secondo pilastro per redditi elevati (> fr. 150'000)
Fonte: S. Sommaruga, R.H. Strahm (2005)
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
137
24. Il Ticino contro il resto del mondo! La fiaba del turbocapitalismo
Se il programma neo-liberista è una medicina che non piace a larghi strati della popolazione, almeno in Europa, non per questo fa fatica, come
abbiamo visto nel caso della Svizzera, a trovare sostenitori tra coloro che
consigliano i politici di nazioni e regioni alla ricerca di una via per rilanciare la crescita economica. Quel che vale a livello nazionale, vale a livello di un piccolo Cantone come il Ticino che questa ricetta se l’è vista
presentare, avvolta come una caramella, nell’attrattivo involucro di un
libro bianco.
L’autore del libro, il professor Pelanda, si fa paladino del “turbocapitalismo”, un modello economico che, grazie alla “globalizzazione, si sta
diffondendo dagli Stati Uniti in tutto il mondo, a grande velocità. Chi non
si adatta velocemente al modello paga la sua titubanza in termini di crescita economica mancata. È questo, secondo Pelanda, il caso di molti paesi europei tra i quali la Svizzera e anche il Ticino. Da questo profilo
Pelanda riprende, senza citarle, le conclusioni che l’economista americano Porter aveva fatto sulla Svizzera nel libro da lui dedicato al vantaggio competitivo delle nazioni (vedi Porter M., 1990) e che erano state
riprese da Borner nelle pubblicazioni che abbiamo citato nel capitolo che
precede. Per uscire dalla stasi nella quale si trovano attualmente queste
economie è necessario adottare le riforme del programma liberista che
sole potranno permettere loro di rilanciare la loro competitività.
L’economia ticinese si trova su una parabola discendente, non solo nei
confronti di regioni europee che vanno per la maggiore, ma anche nei
confronti del resto della Svizzera (si veda a questo proposito la fig. 26).
Per far ripartire il processo di sviluppo occorre rilanciare la competitività. La competitività dell’economia ticinese non esiste in sé e per sé.
Come abbiamo visto, a livello macroeconomico, parlare di competitività
non può avere altro significato che parlare dell’efficienza con la quale i
fattori di produzione vengono utilizzati. L’autore del libro bianco adotta
però un approccio diverso per parlare di competitività. Per lui il tasso di
crescita dell’economia ticinese non è determinato da una funzione di produzione aggregata, ma dalla somma algebrica e ponderata dei tassi di
variazione del valore aggiunto dei diversi settori e rami di produzione.
Non solo, ma Pelanda, uguale in questo ai riformisti basilesi di cui abbiamo parlato nel capitolo che precede, estende l’applicazione del suo concetto di competitività anche a istituzioni, processi di decisione e fattori
quadro come il sistema politico, il sistema amministrativo, l’autonomia e
la cultura, che si situano al di fuori del mondo economico.
138
Dal paradiso al purgatorio
Per quel che riguarda l’economia, la sua analisi della competitività abbraccia i settori e i rami che esportano i loro prodotti e servizi e che assicurano,
di fatto, il contributo più importante al valore aggiunto dell’economia cantonale. Si tratta, in particolare:
– dei servizi finanziari
– dei servizi turistici e commerciali
– dell’industria
– e del settore delle costruzioni.
Come mostra la tabella che segue, per l’autore del libro bianco, i rami
che formano la base economica dell’economia ticinese, con l’eccezione
dei servizi finanziari, non sono competitivi e quindi non crescono.
Secondo noi, però, l’argomento di Pelanda a proposito del rapporto crescita-competitività non è che uno pseudo-argomento. Nella sua analisi dei
rami, infatti, non è purtroppo possibile separare la crescita dalla competitività. Gli economisti direbbero che la relazione tra crescita e competitività di cui si serve Pelanda è un’identità: crescita è uguale a competitività. Nel suo ragionamento crescita e competitività sono due termini
identici, non i poli di una relazione di causa ad effetto. Nel libro bianco,
crescita e produttività sono dunque la stessa cosa. Di conseguenza è evidente che se rilanciamo la competitività, rilanceremmo anche la crescita.
Ma questo è argomento del tipo “zuppa è pan bagnato” e, purtroppo, arrischia di lasciare il tempo che trova. Non è la competitività in sé che va
analizzata, ma i fattori che determinano la competitività. Se si sapesse
qualcosa di più su questi fattori, allora potremmo anche disegnare un programma di rilancio della crescita.
Tabella 9: La competitività dei rami che formano la base dell’economia ticinese secondo
il libro bianco
Ramo
Apprezzamento
della competitività
intrinsicamente elevata
Altre osservazioni
Vantaggio competitivo
minore autonomia
non sufficiente
servizi turistici
e commerciali
buona qualità dei servizi
rovinati dal cambio
manca attrattore speciale
industria
non è competitiva
mancano nuove industrie
costruzioni
non è competitivo
concentrazione necessaria
servizi finanziari
Pelanda non sembra tuttavia rendersi conto della circolarità del suo ragio-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
139
namento ed estende la sua analisi della competitività a quello che lui chiama il “sistema comunitario”. In un mondo globalizzato come l’attuale, i
capitali sono liberi di circolare e di approdare dove meglio loro conviene.
Una regione come il Ticino si trova quindi potenzialmente in concorrenza
con tutte le altre regioni del mondo per attrarre capitali e per non lasciar partire quelli che già vi si sono insediati. Un governo in grado di decidere rapidamente e con maggioranze stabili, un’amministrazione snella e che costa
poco sono, per Pelanda, fattori che rafforzano l’attrattiva di una regione.
Quando parla di competitività del sistema comunitario, l’autore del libro
bianco ragiona quindi in termini di marketing territoriale e esamina in che
modo politica, amministrazione e cultura possono, come si è già detto,
rafforzare il complesso dei fattori di localizzazione regionali. In ognuno dei
quattro domini esaminati, Pelanda trova, basandosi sui risultati di interviste con leader di opinione, delle lacune e delle insufficienze. Il suo ragionamento, in questa parte del libro, si basa quindi sul “sentito dire” , e giunge
a conclusioni che fanno sorridere, per non dire di più. Molto più interessante della diagnosi è invece la terapia che viene descritta negli ultimi tre capitoli del libro. Dapprima, nel capitolo III, si presenta uno scenario-quadro che
definisce la cornice entro la quale il Ticino alla ricerca di una nuova competitività sarà costretto a muoversi. In un mondo nel quale la mobilità del capitale diventa assoluta, un’azienda può sopravvivere e restare indipendente,
secondo Pelanda, solo se il suo vantaggio competitivo è mondiale. Pelanda
echeggia anche qui i lavori di Porter, parlando di vantaggio competitivo assoluto e mandando così al macero duecento anni di teoria del commercio internazionale, basata sui vantaggi comparativi, ossia sulla convinzione che per
esportare non sia necessario possedere un vantaggio competitivo mondiale,
ma sia però necessario specializzarsi in quelle attività che, date le condizioni in cui opera l’economia esaminata, sono quelle che le riescono meglio. In
un secondo tempo, però, il nostro autore diventa un po’ più conciliante e suggerisce che qualche specie economica potrebbe sopravvivere in Ticino qualora non possedesse un vantaggio competitivo assoluto, e questo in forza del
fenomeno di “diffusione della varietà”. Non è molto chiaro cosa l’autore del
libro bianco intenda per “diffusione della varietà”. Nell’esempio che presenta sembrerebbe che il mercato mondiale continui ad essere ripartito in grandi regioni e che il Ticino potrebbe competere per ottenere la sede dei terminali per la commercializzazione dei prodotti e dei servizi di aziende globalizzate in mercati che possono essere convenientemente serviti dal Ticino.
Indipendentemente dal senso preciso che l’autore del libro bianco intendeva dare al concetto di “diffusione della varietà” l’esempio da lui proposto
contiene, in parole povere, un invito alla specializzazione.
140
Dal paradiso al purgatorio
Vantaggi comparativi, vantaggi assoluti e vantaggi competitivi
La teoria del commercio internazionale dimostra che lo scambio di beni
e servizi tra nazioni è conveniente perché un dato bene, o un dato servizio, può essere prodotto con produttività diverse da una nazione
all’altra. Può darsi che le nazioni del sud dell’Europa producano vino
e legumi con una produttività maggiore che le nazioni del nord. Queste
però sono probabilmente in grado di produrre beni di investimento
come macchine o prodotti chimici con una produttività maggiore. In
questo caso vi sarebbe convenienza per il sud ad esportare prodotti agricoli verso il nord e per il nord a esportare prodotti industriali verso il
sud. Può darsi però che una nazione o un gruppo di nazioni del nord
possiedano un vantaggio di produttività sia per i prodotti agricoli, sia
per i prodotti industriali. Ma è probabile che le stesse guadagneranno
maggiormente se si concentrano nella produzione di quei prodotti per
i quali il vantaggio, rispetto alle altre nazioni è maggiore. Nel nostro
caso probabilmente nella produzione dei prodotti industriali. Le nazioni che non hanno nessun vantaggio nella produzione si specializzeranno nella produzione di quei prodotti o servizi per i quali il loro svantaggio in termini di produttività è minore. La teoria del commercio
internazionale dimostra che il vantaggio dello scambio è massimo
quando ogni nazione specializza la sua produzione non in funzione dei
vantaggi assoluti, ma di quelli comparativi.
Le teorie recenti sull’internazionalizzazione dello sviluppo mettono
l’accento su una terza categoria di vantaggi: i vantaggi competitivi. Il
vantaggio competitivo è quello che un dato imprenditore trae dal fatto
che, durante un certo periodo, può sfruttare in condizioni di monopolista una data innovazione. Chi scopre un nuovo prodotto e lo fa brevettare acquisisce, per un certo periodo, questo vantaggio. Con qualche difficoltà, questo concetto può essere esteso dalla singola azienda
al ramo di produzione, al settore o, addirittura, all’intera economia.
La medicina del “turbocapitalismo” per l’economia ticinese che esporta non
è quindi diversa dalla medicina tradizionale: per sopravvivere occorre specializzarsi. Le prospettive per l’economia ticinese del futuro sono quindi
limitate. Nel capitolo IV si parla del Ticino del 2015, uno scenario che,
secondo il suo autore, riproduce non quello che potrebbe avvenire, nel corso
dei prossimi anni, ma quello che sarebbe desiderabile che avvenga.
Si tratta insomma dell’“happy end” della fiaba competitiva che Pelanda ci
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
141
sciorina nel resto del testo del suo libro bianco. Il colpo di bacchetta magica che permetterà ai ticinesi di vivere contenti e felici nel 2015 è un modello che comprende requisiti e scelte e che presentiamo nel grafico che segue.
In quindici anni o poco più il Cantone realizzerebbe due requisiti importanti:
– un centro universitario di importanza internazionale e, contemporaneamente, legato direttamente al suo tessuto economico al quale potrebbe
dare sostanziali inputs di creatività e di competenze;
– la diversificazione competitiva del terziario avanzato, cioè, specifica
Pelanda, riorientato sui servizi di nuova generazione (non più crediti,
ma servizi di consulenza e di gestione dell’informazione)
Figura 26: Gli elementi del modello a tendere del libro bianco
Soddisfatti i requisiti, resterebbe ancora tempo per effettuare tre tipi di scelte per il rilancio dell’economia cantonale; scelte di funzione, di prodotto e
di servizio. Il numero di progetti elencato in queste pagine è tale che proprio solo dotandosi di una bacchetta magica appropriata il Ticino potrebbe
realizzarli, in poco più di 15 anni. Ma all’autore del libro bianco non si può
addebitare di non avere visto il problema. Alla fattibilità del suo scenario
dedica infatti un ultimo capitolo, il capitolo V intitolato “La strategia precompetitiva del Ticino”. Si tratta di una specie di fervorino finale. La strategia pre-competitiva si basa sulla ridefinizione dello Stato sociale e su una
delimitazione chiara di quello che può fare lo Stato e di quello che deve fare
il mercato. A queste due, Pelanda aggiunge una terza esortazione: anche in
142
Dal paradiso al purgatorio
Ticino deve nascere l’“homo competitivus” il supereroe che accetta le sfide
del turbocapitalismo, anzi che le fa sue. Il segreto del successo economico,
pare quasi voler suggerire Pelanda, non è tanto nel possedere la bacchetta
magica per dar dimensione concreta, facendoli nascere dal niente, a requisiti e scelte, quanto di capire che il potere della bacchetta magica sta in tutti
noi. Bisogna essere capaci di capire questo arcano. Nelle parole dell’autore del libro bianco: “In ogni cambiamento c’è la perdita di qualcosa di noto
e abitudinario per qualcos’altro che, pur migliore sulla carta, non presenta
immediatamente i vantaggi promessi”. Il suo è dunque un invito ad avere il
coraggio di firmare una cambiale in bianco. Forse è perché contiene solo
una promessa che il libro di Pelanda è un libro bianco! Anche l’autore si
rende conto della debolezza del suo appello e conclude “E ciò crea un enorme ostacolo politico”. Alla fine del libro bianco sul Ticino del 2015 riemergono quindi le insufficienze del programma neo-liberista. Sul futuro si può
solo scommettere. E chi sta bene non ha nessuna voglia di mettere in gioco
l’acquisito. Sono pochi i corvi che, in materia di discussioni sul benessere
di oggi e su quello di domani, sono disposti a cantare e a lasciar cadere il
pezzo di formaggio che tengono nel becco.
25. ll purgatorio è meglio dell’inferno, ma può diventare scomodo
Questa è la storia fin qui! L’economia ticinese che, negli anni cinquanta,
sessanta e, in parte, settanta, dello scorso secolo, si trovava nel paradiso della
crescita sostenuta e della piena occupazione è discesa, a partire dalla metà
degli anni settanta nel purgatorio della stagnazione e della disoccupazione.
Il paradiso della crescita che, grazie alle politiche di sostegno della domanda globale di tipo keynesiano, sembrava uno stato di grazia che sarebbe durato per sempre, non ha saputo, in Svizzera, reggere il colpo della rapida internazionalizzazione dell’economia, contrassegnata, negli anni settanta, dal
passaggio dal sistema dei cambi fissi a quello dei cambi variabili e dalle
crisi nel mercato del petrolio e, negli anni ottanta e novanta dello scorso
secolo, dall’accelerazione del processo di liberalizzazione dei mercati internazionali e dell’integrazione europea. Per effetto di queste trasformazioni
del quadro economico internazionale, in poco meno di trent’anni, si è realizzata, per quel che riguarda l’economia e la politica economica della
Svizzera, la transizione da un modello di sviluppo, ancorato sull’esportazione di prodotti “made in Switzerland”, sull’espansione dei consumi privati e pubblici e sul largo consenso per una politica di ridistribuzione del
reddito, realizzata dallo Stato, a quello della “Svizzera Società Anonima” –
per utilizzare l’azzeccata definizione del prof. Borner e dei suoi collabora-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
143
tori – dominata dagli interessi delle multinazionali, con tensioni forti tra
produttori di beni manifatturati e produttori di servizi, con una tendenza al
contenimento se non addirittura alla riduzione degli investimenti pubblici,
nonché divisa nettamente in due per quel che riguarda l’importanza della
politica di ridistribuzione del reddito realizzata dallo Stato e la necessità o
meno di integrarsi nell’Unione Europea.
Il Ticino, cantone periferico e frontaliero, ha seguito questa transizione
senza grandi eccezioni.
Figura 26: Evoluzione del rapporto tra il reddito pro-capite del Ticino e il reddito pro
capite svizzero (1978-2002)
Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate
Se si volessero cercare le differenze si potrebbe affermare che, soprattutto
per effetto della sua posizione alla frontiera e dell’importanza relativamente minore del settore secondario nel suo valore aggiunto, l’economia ticinese ha saputo adattarsi più facilmente alle trasformazioni imposte dall’internazionalizzazione dell’economia nazionale. A conferma di questo giudizio
riportiamo, nella figura 26, l’evoluzione del rapporto tra il reddito pro-capite del Ticino e quello nazionale. Ricordiamo che la riduzione dello scarto
in questo rapporto era tra gli obiettivi principali dell’esercizio di pianificazione economica abortito del periodo del paradiso della crescita. Dall’inizio
degli anni cinquanta, fino alla metà degli anni ottanta il valore del rapporto
144
Dal paradiso al purgatorio
resta costante. Lo scarto del reddito pro-capite del Ticino rispetto alla media
nazionale resta del 18-20%. Poi, con il 1985, il Ticino avvia una fase di ricupero che dura fino al 1993, interrotta brevemente nel 1987, nel 1988 e nel
1989. Nel 1993 lo scarto di reddito pro capite con il resto della Svizzera è
al suo minimo storico (-10%). Da allora, proprio per effetto dell’adattamento più rapido del Ticino alle condizioni internazionali, lo scarto non ha fatto
che aumentare. Nel 2003, ultime stime a nostra disposizione, il rapporto era
disceso a 0.76. Se l’economia ticinese si adatta più rapidamente alle condizioni internazionali di quella svizzera, questo dato deve essere considerato
come positivo, nonostante l’aumento continuo dello scarto del nostro reddito pro capite rispetto alla media nazionale. Il giudizio d’assieme positivo
deve essere relativizzato quando dalla considerazione del prodotto interno
lordo scendiamo all’esame del contributo dei settori e dei rami al valore
aggiunto dell’economia, perché allora dobbiamo riconoscere che l’internazionalizzazione ha messo in forte crisi due regioni importanti del Cantone,
e cioè il Basso Mendrisiotto e la Leventina, e oltre all’industria ad alta intensità di lavoro, altri due rami che, nel periodo del paradiso della crescita, fungevano da pilastri portanti della nostra economia e cioè il turismo e l’edilizia. Il Ticino economico della stagnazione non è più il Ticino della formula “win-win”, ma piuttosto quello della “Economia a somma nulla”, un’economia fatta di vincenti e perdenti, sia per quel che riguarda i rami di produzione, sia per quel che riguarda le regioni.
Da circa 15 anni, sia l’economia svizzera, sia la ticinese si trovano nel purgatorio della stagnazione, caratterizzato da bassi tassi di crescita del PIL e
da un tasso di disoccupazione superiore al 2%. Non si vede come ne potranno uscire, almeno a medio termine. Le prospettive economiche non sono
infatti buone. Come negli stati confinanti anche in Svizzera e soprattutto
anche in Ticino, il potenziale di produzione non aumenterà che molto lentamente nel prossimo futuro. Facciamo questa affermazione partendo dall’ipotesi che le previsioni attuali di sviluppo demografico (tassi di crescita
che rallentano e incremento dell’invecchiamento) si realizzeranno. Per
effetto dell’invecchiamento, il fattore lavoro non crescerà più di quel tanto,
nel corso dei prossimi due decenni. Certo si potrà aumentare la settimana
lavorativa per cercare di incrementare il suo contributo alla produzione. Ma
se si aumentano le ore di lavoro è probabile che l’equilibrio tra offerta e
domanda sul mercato del lavoro sarà ancora più difficile da trovare di quanto non lo sia già attualmente. Lo stesso effetto potrebbe manifestarsi purtroppo se si decidesse di aumentare la durata della vita lavorativa spostando la data del pensionamento da 65 a 67 o più anni o si riuscisse a compri-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
145
mere la quota del lavoro a tempo parziale. Senza parlare dei possibili effetti negativi sull’evoluzione della produttività. In parole povere: tutti i tentativi di aumentare il contributo del lavoro attraverso un aumento del numero delle ore di lavoro e non del numero degli occupati porteranno probabilmente a un aumento della disoccupazione. Con ore di lavoro stabili, età del
pensionamento e quota del lavoro a tempo parziale immutate il contributo
del fattore lavoro alla crescita della produzione potrebbe essere dell’ordine
dello 0.5%. La produttività in Svizzera, e anche in Ticino, cresce attualmente a un tasso prossimo allo 0.8%. Sommando i due tassi otteniamo il tasso
di crescita reale potenziale dell’economia svizzera e ticinese di lungo termine: 1.3%. Con un tasso di crescita reale appena superiore all’1%, la
Svizzera e il Ticino non saranno in grado di:
– mantenere il loro posto nella graduatoria internazionale dei paesi secondo il livello del reddito pro-capite
– continuare a finanziare il loro sistema sanitario e il loro sistema pensionistico, mantenendo le attuali condizioni di finanziamento e le attuali
prestazioni
– ritornare al pieno impiego della popolazione attiva, permettendo, in più,
al tasso di attività femminile di aumentare
Ripetiamolo ancora una volta e in modo chiaro: per poter soddisfare questi
obiettivi, il tasso di crescita reale necessario per i prossimi venti anni dovrebbe oscillare tra il 2.5 e il 3%.
Ogni provvedimento o proposta che promette di essere in grado di rilanciare la crescita non può quindi che essere benvenuto e meritare di essere esaminato seriamente, anche se è vero che la stagnazione dovrebbe permetterci di contenere il degrado ambientale e l’inquinamento. Esaminare seriamente le proposte per il rilancio della crescita significa dapprima cercare di
verificare l’attendibilità degli effetti sperati. È proprio vero che se tagliamo
in due la spesa sociale o quella sanitaria, l’economia elvetica ritroverà la
strada dei tassi di crescita elevati? E se lo è, quanto tempo ci vorrà tra il
momento in cui la quota dello Stato nel prodotto interno lordo sarà ridotta,
diciamo al 25%, e il momento in cui l’economia sarà in grado di dare il
colpo di acceleratore atteso? Per il momento le risposte a questi interrogativi da parte dei riformatori neo-liberisti sono solamente del tipo: guardate
cosa è successo in Gran Bretagna, Irlanda o Stati Uniti, nel corso degli ultimi decenni. Un po’ poco per persuadere l’elettorato svizzero che dovrà per
forza di cose sempre pronunciarsi sulle riforme più importanti. Esaminare
seriamente le proposte di riforma significa poi prenderne in considerazione
i costi sia per i privati (tutti i pubblici che oggi vivono, almeno per una parte
146
Dal paradiso al purgatorio
del loro reddito, sui contributi, le rendite e i sussidi finanziati, in parte o in
tutto, dallo Stato, ossia, per quel che riguarda il Ticino circa un terzo della
popolazione), sia per la collettività (se la riduzione della quota dello Stato
dovesse toccare investimenti e contributi che servono a contenere i costi
sociali provocati, per esempio, dall’inquinamento dell’ambiente, dalla
minor sicurezza sulle strade, o dall’aumento della criminalità). Diciamolo
in termini ancora più chiari: se le riforme neo-liberiste dovessero avere per
effetto di far aumentare la quota di poveri che vivono dei contributi statali
e ulteriormente diminuire il tasso di attività della popolazione residente, il
costo politico di tali riforme non sarà mai approvato né da una maggioranza dell’elettorato elvetico, né da una maggioranza degli elettori ticinesi.
Nella situazione politica, che prevale attualmente nel nostro Paese, esiste
una chiara maggioranza, che si forma ad hoc con coalizioni di elettori di
destra e di sinistra, per bloccare ogni tipo di riforma i cui costi privati o
sociali dovessero essere troppo elevati. Per queste ragioni pensiamo che l’economia ticinese, come quella svizzera, conserverà, ancora per anni, il suo
posto nel purgatorio della stagnazione.
Ma attenzione: crescere a un tasso dell’1-1.5% non significa essere sul lastrico! È un punto che deve essere sottolineato. Anche se la nostra economia
dovesse continuare a crescere a un tasso così basso, il reddito pro-capite
continuerebbe a crescere e, se i prelevamenti fiscali e per gli oneri assicurativi obbligatori crescessero a un ritmo più contenuto del tasso di crescita
reale, anche il potere di acquisto della popolazione crescerebbe. Il purgatorio nel quale la nostra economia rischierebbe di continuare a soggiornare,
se queste dovessero essere le condizioni della nostra crescita, non sarebbe
la fine del mondo! O, almeno, non sarebbe la fine del mondo per la maggioranza della popolazione. Sempre meglio dell’inferno di una crisi prolungata con riduzione del potere di acquisto a livello di quello della popolazione di un’economia emergente e tasso di disoccupazione superiore al 10%.
Pensiamo che sia necessario mettere in evidenza questo punto perché oggi,
da molte parti, la crescita a tassi bassi viene considerata come l’avvio di una
crisi che, di sicuro, farà ripetere alla Svizzera, in pochi anni, l’esperienza
dell’Argentina o del Paraguay nei primi trent’anni dello scorso secolo: dall’opulenza alla miseria senza soluzione di continuità.
Se il tasso di crescita dovesse restar basso vi sarebbero tuttavia dei perdenti, perché la crescita a un tasso reale inferiore all’1.5% annuo non permetterebbe di recuperare il pieno impiego della popolazione attiva e di continuare a finanziare senza riforme la politica sociale, in particolare le rendi-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
147
te per i disoccupati, la spesa per la salute e la spesa per le pensioni. A meno
di aggravare il carico fiscale dei contribuenti: una soluzione questa difficilmente accettabile dal punto di vista politico. Di conseguenza le finanze degli
enti pubblici – dal comune, al Cantone e alla Confederazione – rischierebbero di continuare a dover sopportare un aumento della spesa superiore a
quello che potrebbe essere lo sviluppo delle risorse fiscali. L’aumento del
debito pubblico non si arresterebbe e queste tendenze comprometterebbero
di sicuro la competitività dell’economia svizzera e di quella ticinese a livello internazionale. Riassumendo: con un tasso di crescita reale inferiore
all’1.5% annuo, il potere di acquisto di buona parte della popolazione continuerebbe a crescere. Questo tasso di crescita non è però in grado di assicurare il pieno impiego. È probabile che la disoccupazione aumenterebbe.
D’altra parte, con un simile tasso di crescita, l’economia non potrebbe mettere a disposizione dello Stato le risorse necessarie per finanziare la spesa
sanitaria e sociale. Di conseguenza, a lungo andare, non si potrebbero evitare le drastiche riforme in materia di politica sociale che una parte dei nostri
politici già oggi invoca ad alta voce. Chi si oppone a queste riforme, per
paura di perdere una parte dei suoi attuali diritti, rischia così, a lungo termine, di cadere dalla padella nella brace. Mi spiego: rifiutando le riforme
che si vorrebbero introdurre oggi, si accetta di correre il rischio di vedere la
situazione finanziaria delle nostre assicurazioni sociali peggiorare così marcatamente che, quando, più tardi, si dovrà intervenire le misure saranno di
sicuro molto più dolorose sia in termini di crescita economica, sia in termini di potere di acquisto.
Oggi queste misure vengono proposte più per migliorare la competitività
dell’economia che per risanare la situazione finanziaria. Domani, probabilmente, l’effetto sulla competitività non avrà più nessuna importanza. Le
misure diventeranno inevitabili per sanare una situazione che sarà diventata quasi ingovernabile. Come è sempre il caso in economia, l’una e l’altra
delle varianti, ossia riforma del sociale oggi o riforma del sociale quando
sarà venuto l’ultimo momento possibile per intervenire, hanno vantaggi e
svantaggi, favoriscono o colpiscono gruppi di popolazione e agenti economici diversi. Molto importante sarà perciò anche il disegno che assumeranno queste riforme. Se le stesse dovessero essere attuate con un programma
di drastica riduzione della quota dello Stato potrebbero avere, come si è già
ricordato, un costo politico insopportabile. Diverso forse potrebbe essere il
caso se queste riforme venissero realizzate grazie a un compromesso politico, del tipo di quello proposto dai riformatori socialdemocratici, che accetta una modifica delle prestazioni, ma prevede anche la possibilità di assicu-
148
Dal paradiso al purgatorio
rare il finanziamento da parte dello Stato con un aumento della tassazione
indiretta. La sostanza dell’argomento, che vale la pena ripetere è questa: in
un’economia che cresce solo all’1-1.5% annuo e che non può evitare un
ulteriore invecchiamento della sua popolazione, le riforme nel settore sociale sono inevitabili. Noi possiamo solo decidere la data e le condizioni nelle
quali queste riforme dovranno essere fatte. È probabile però che ritardare
queste riforme non faciliti la crescita dell’economia.
Le cose da fare nel purgatorio della stagnazione non si fermano qui, vale a
dire alla necessaria riforma della politica sociale. Dobbiamo anche cercare
i mezzi per fare aumentare la produttività che, come si ricorda, a livello
aggregato è anche l’indicatore più appropriato per la competitività della
nostra economia. Si tratterebbe, da un lato, di far aumentare gli investimenti nell’innovazione tecnologica e, dall’altro, di arricchire qualifiche e conoscenze del capitale umano. C’è poi chi aggiunge a questi due tipi di misure, altri due tipi e cioè: la realizzazione di nuove infrastrutture internazionali per facilitare i trasporti e le comunicazioni e la riduzione della tassazione delle aziende (qualcuno ha addirittura suggerito di sopprimere la tassazione delle aziende, perché sarebbe più importante mantenerle in vita che
cercare di trarre da esse un contributo fiscale). Per il Ticino tutti e quattro
questi tipi di misura sono stati proposti nel “libro bianco” che abbiamo presentato nel capitolo 24. Esiste un volume cospicuo di letteratura economica empirica che cerca di valutare gli effetti positivi di misure di questo tipo,
introdotte a livello nazionale o regionale, sulla crescita dell’economia. I
risultati non sono unanimi, ma, soprattutto, non è sicuro che un certo tipo
di misura che va bene per un’economia A nel tempo t0, possa rivelarsi altrettanto positiva per l’economia B nel tempo t1. Occorre quindi considerare
con molta prudenza generalizzazioni e volgarizzazioni del tipo “libro bianco” ed essere pronti a sottoporre qualsiasi misura proposta a una verifica
regolare degli effetti. Insomma l’influsso di queste misure sulla produttività
del lavoro non può essere solo attesa come gli ebrei attendevano la manna
nel deserto, ma deve essere attentamente e regolarmente misurata per essere sicuri che l’effetto sperato si manifesti veramente. La verifica è relativamente facile per gli effetti di settore o per quelli aggregati di investimenti
nell’infrastruttura, o nelle attività di ricerca e di innovazione. Essa diventa
molto più difficile, invece, quando si tratta di appurare se l’arricchimento
delle conoscenze e delle competenze del capitale umano, o la riduzione delle
imposte, abbiano davvero esercitato un impatto positivo e significativo sull’aumento del tasso di crescita aggregato dell’economia. Dire che la verifica in questi casi non è facile non significa consigliare di rinunciarvi. Infine
la verifica degli effetti diventa indispensabile in un periodo nel quale le risor-
Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare!
149
se dello Stato non aumenteranno che molto lentamente e governo e parlamento saranno obbligati a introdurre, soprattutto per effetto dei limiti posti
all’indebitamento, delle priorità, rinunciando a realizzare progetti e programmi anche in settori che oggi vengono ritenuti di grande importanza.
Per tutte queste ragioni, chi crede di persuadere l’elettorato della validità
dei suoi programmi di rilancio con gran colpi di grancassa e senza attuare
una verifica regolare dei risultati, sarà rapidamente considerato come un
imbonitore, un tipico rappresentante della politica del quotidiano che promette molto, ma non mantiene niente. Ma anche chi pensa di far passare i
propri messaggi, operando con dati e stime che non hanno un fondamento
attendibile avrà fatto male i suoi conti. Chi scrive sa quanto gli è costato in
termini di paziente ricerca delle fonti, lo sforzo di mettere assieme le basi
statistiche, molto fragili e quasi sempre troppo aggregate, per questo lavoro. Egli non può perciò chiudere la sua perorazione senza indirizzare un
appello ai responsabili della statistica economica cantonale perché vogliano cercare di migliorare la loro offerta di dati e di indicatori. Si tratta in
primo luogo di riempire le lacune che ancora esistono, in particolare in materia di prezzi e di salari. In secondo luogo si tratta di mettere in piedi una piccola contabilità regionale affidabile con aggregati come il PIL, i consumi
privati, quelli pubblici e gli investimenti privati e pubblici. Infine è importante che sulla produttività dei rami che formano la nostra base economica
si sappia qualcosa di più degli apprezzamenti basati su inchieste in campioni più o meno rappresentativi di aziende che caratterizzano la situazione
attuale. Dal profilo della conoscenza statistica, la mia visione, per quasi quarant’anni, è stata quella di poter un giorno prendere conoscenza delle previsioni di corto e medio termine fatte sulla base di un modello regionale per
il Ticino, che fosse costruito in modo da poter conoscere anche l’evoluzione dei settori che maggiormente contano per l’economia cantonale e come
pure quella dell’occupazione, rispettivamente della disoccupazione. So che
ci sono ricercatori che vi stanno lavorando. Spero sempre di poter essere
ancora vivo e vegeto per poter discutere i risultati concreti delle loro ricerche.
Note bibliografiche alla seconda parte
Borner S., Brunetti A., Straubhaar Th. (1990): Schweiz AG: Vom Sonderfall zum Sanierungsfall?,
Verlag Neue Zürcher Zeitung, Zurigo
Borner S., Brunetti A., Straubhaar Th. (1994): Die Schweiz im Alleingang, Verlag Neue Zürcher
Zeitung, Zurigo
Borner S., Rentsch H., editori (1997): Wieviel direkte Demokratie verträgt die Schweiz?, Verlag
Rüegger, Coira/Zurigo
150
Dal paradiso al purgatorio
Borner S., Bodmer F. (2004): Wohlstand ohne Wachstum. Eine Schweizer Illusion, Avenir Suisse,
Orell Füssli Verlag, Zurigo
Camagni R.(1991): Regional deindustrialization and revitalization processes in Italy, in L. Rodwin,
H. Sazanami “Industrial Change and Regional Economic Transformation”, p. 137-167,
HarperCollinsAcademic Londra
De Saussure C., Blattner N. (1988): Die Schweizerische Wettberwerbsfähigkeit in der Diskussion,
Schweiz. Bankiervereinigung, Basilea
Kappel R., Landmann O. (1997): Die Schweiz im globalen Wandel, Verlag Neue Zürcher Zeitung,
Zurigo
Pelanda C. (1998): Ticino 2015, libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario
della globalizzazione, Dipartimento delle finanze e dell’economia, Bellinzona
Porter M. (1990): The Competitive Advantage of Nations, London, New York
Rosenberg N. (1991): Dentro la scatola nera. Tecnologia e economia, il Mulino, Bologna
Rossi M., Sartoris E. (1995): Ripensare la solidarietà. Istituto Ricerche Economiche, Armando
Dadò editore, Bellinzona/Locarno
Sommaruga S., Strahm R. H. (2005): Für eine moderne Schweiz, ein praktischer Reformplan, Nagel
und Kimche im Karl Hanser Verlag, Monaco, Vienna
Wechsler M., Savioz M. (1993): Soziale Sicherheit nach 2000. Finanzielle Perspektiven und
Szenarien für die Schweiz, Verlag Rüegger, Coira/Zurigo
Finito di stampare nel mese di ottobre 2005
Scarica