gli appunti de SETTIMANALE DELLA DOMENICA Fr. 19.– DAL PARADISO AL PURGATORIO Angelo Rossi SETTIMANALE DELLA DOMENICA Angelo Rossi ha studiato economia in Svizzera e in Inghilterra. È stato per molti anni docente di economia regionale e urbana, nonché di pianificazione e gestione nel settore pubblico, al politecnico e all’università di Zurigo, all’IDHEAP di Losanna e all’università di Friborgo. In Ticino ha diretto l’URE e la SUPSI. Da pensionato si occupa di ricerche e consulenze nei suoi campi di insegnamento e scrive regolarmente sul Caffè. Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese gli appunti de Paradiso e purgatorio, in questo libro, sono immagini che vengono usate per facilitare al lettore la comprensione delle situazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo di lungo termine (secolare) dell’economia ticinese, dopo la seconda guerra mondiale. Esse vengono presentate nelle prime due parti. Il paradiso della crescita si situa tra la fine della guerra e l’inizio degli anni settanta del secolo scorso, un periodo contrassegnato da tassi di crescita del reddito cantonale reale prossimi al 5%, dalla piena occupazione, dall’immigrazione di decine di migliaia di lavoratori, dalla forte mobilità in ascesa della popolazione residente, e dall’accesso di tutti i ceti di popolazione a nuovi tipo di consumo come l’automobile, le vacanze all’estero e numerose nuove attività del tempo libero. gli appunti de SETTIMANALE DELLA DOMENICA Per i 72 anni dell’Ufficio cantonale di statistica Angelo Rossi DAL PARADISO AL PURGATORIO Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese Gli appunti de SETTIMANALE DELLA DOMENICA Indice 9 Introduzione 11 Presentazione 13 Parte prima: il paradiso 1. 2. 3. 4. 5. 6. Lo sviluppo secolare dell’economia e il ciclo di Kondratieff Come si misura l’andamento dell’economia Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese Lo sviluppo degli ultimi cinquant’anni Il periodo dal 1945 al 1975: il paradiso dello sviluppo economico L’economia ticinese in paradiso: effetti al livello del potenziale di produzione 7. L’economia ticinese in paradiso: il miglioramento delle condizioni di vita 8. L’intervento del Cantone nel processo di crescita 9. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia nel periodo del paradiso della crescita Note bibliografiche alla prima parte 57 Parte seconda: il purgatorio 10. La deindustrializzazione dell’economia: un sopralluogo 11. Crescita e declino a livello di rami di produzione. Il ruolo della produttività e del grado di apertura dei mercati 12. Il purgatorio della stagnazione e la produttività 13. Il purgatorio della stagnazione: fine della piena occupazione 14. Il purgatorio della stagnazione: due rami particolarmente colpiti 15. Il purgatorio della stagnazione: i rami che si sono sviluppati 16. Il purgatorio della stagnazione: effetti collaterali 17. Il ruolo dello Stato nel purgatorio della stagnazione 18. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, nel purgatorio della stagnazione Note bibliografiche alla seconda parte 115 Parte terza: in purgatorio non si sa per quanto ci si deve stare! 19. Sul futuro non si può che scommettere 20. Perché la crescita sostenuta è necessaria? 21. Due approcci alla previsione del tasso di crescita 22. La medicina che non piace: le riforme viste da destra 23. Vogliamoci bene: le riforme viste da sinistra 24. Il Ticino contro il resto del mondo! La fiaba del turbocapitalismo 25. Il purgatorio è meglio dell’inferno, ma può diventare scomodo Note bibliografiche alla terza parte 9 Introduzione Perché un giornale pubblica un libro? Solitamente per raccogliere una serie di articoli. Non è il caso di questo volume. È allora l’ammissione dell’incapacità del giornale di affrontare certi argomenti? Nemmeno. Da tempo, il Caffè si propone di promuovere un dibattito sull’economia ticinese. Ma per lanciare una discussione seria è necessario disporre di un punto di partenza e di un elemento di riferimento solidi. Uno studio del genere utilizza un linguaggio specifico ed occupa spazi diversi da quelli del settimanale, costretto per sua natura a presentare le questioni in modo più semplice e stringato. Ecco il perché di questa pubblicazione. Dal canto suo, il Caffè proporrà sulle sue pagine approfondimenti e pareri, favorirà il dibattito, cercherà di coinvolgere il lettore. Non ci avvarremo però solo di questi due strumenti complementari, il libro e il giornale, per promuovere la riflessione. Proporremo anche alcune serate pubbliche e in primavera una giornata di studio per fare il punto sulle discussioni promosse dal libro di Angelo Rossi. Naturalmente la validità o meno del punto di partenza dell’operazione dipende principalmente dalla serietà dell’autore del libro. Ebbene, sulla serietà e sull’indipendenza intellettuale di Angelo Rossi nessuno può dubitare. È un personaggio che ho sempre ammirato per la sua capacità di non farsi abbindolare e abbagliare dal potere politico. Ha sempre affermato con fermezza la sua indipendenza di studioso. Schivo di natura, l’ho corteggiato per anni prima che collaborasse al Caffè. Oggi, oltre alla sua rubrica, ho la soddisfazione di pubblicare questa ricerca. L’idea è nata una sera a cena in seguito ad alcune mie ingenue domande su storia, sviluppo e futuro dell’economia ticinese. Domande di giornalista, a cui Angelo Rossi dà una risposta interessante. Paradiso e Purgatorio, in questo libro, sono le immagini che vengono usate per facilitare al lettore la comprensione delle situazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo di lungo termine (secolare) dell’economia ticinese dopo 10 Dal paradiso al purgatorio la seconda guerra mondiale. Il Paradiso è rappresentato dalla grande crescita tra la fine della guerra e l’inizio degli anni Settanta. È seguito un periodo di Purgatorio. E la ripresa quando sarà? Ma soprattutto quali riforme si renderanno necessarie per garantire all’economia ticinese e a quella svizzera una nuova opportunità di sviluppo? In questi ultimi anni le questioni economiche sono state al centro del dibattito politico cantonale. Il discorso, a mio parere, si è però eccessivamente concentrato sulle misure di risparmio per risanare le casse del Cantone. Ci auguriamo che questo libro e il dibattito che vorremmo promuovere portino ad ampliare il discorso. Naturalmente al di là delle persone, degli schematismi ideologici e delle idee preconcette. Giò Rezzonico 11 Presentazione L’economia ticinese che, fino all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, si trovava in paradiso, è scivolata, nel corso degli ultimi trent’anni, in purgatorio. Per far capire concetti complessi servono immagini semplici come queste. Il paradiso in economia è una situazione di crescita, a tassi sostenuti, in un regime di piena occupazione che assicura un potere di acquisto in aumento e, quindi, benessere a tutta la popolazione. La crescita profitta ai produttori come ai consumatori. Il purgatorio, invece, è una situazione di quasi stagnazione, nella quale una parte della popolazione attiva è disoccupata e nella quale anche il potere di acquisto della maggioranza della popolazione stenta a crescere. Per quel che riguarda la produzione, poi, il purgatorio è caratterizzato dalla chiusura di aziende e dalla ristrutturazione di interi settori. La storia dello sviluppo dell’economia ticinese, nel corso degli ultimi cinquant’anni, è rappresentata dal succedersi di queste due situazioni. Le presentiamo nella prima e nella seconda parte di questo studio. È ovvio che il paradiso è la situazione più gradita perché presenta vantaggi per tutti. Il purgatorio, invece, piace meno perché divide in due la popolazione: da una parte coloro che possiedono un’attività lavorativa più o meno stabile, che continuano a godere di un potere di acquisto sicuro, dall’altra i disoccupati e gli occupati in situazione di precariato, che devono accettare un reddito variabile o, addirittura, in diminuzione. Il purgatorio vede poi, per quel che concerne la produzione, da una parte i settori e le aziende che continuano a crescere, dall’altra i settori in ristrutturazione e le aziende che falliscono e chiudono. È chiaro a tutti che si potesse scegliere è il paradiso la situazione verso la quale si indirizzerebbero le preferenze della maggioranza dei consumatori come degli imprenditori. Ma, purtroppo, lo dimostra l’esistenza dei paesi in via di sviluppo, il desiderio di maggior benessere da parte dei suoi agenti economici non basta per assicurare lo sviluppo di un’economia. Pur essendo consci di non poter con i nostri desideri influenzare quello che 12 Dal paradiso al purgatorio vien chiamato il “sentiero di sviluppo” dell’economia, ossia il suo tasso di crescita futuro, tutti noi vorremmo almeno sapere in quale direzione l’economia si orienterà. Se, per tornare alla nostra allegoria, ritornerà in paradiso, resterà in purgatorio o, facciamo gli scongiuri, scenderà in inferno. La terza parte del nostro studio è quindi dedicata alle previsioni di lungo termine. Fare una previsione su quel che succederà nell’economia ticinese tra dieci o venti anni è per lo meno altrettanto difficile come fare una previsione del tempo che farà, in un dato giorno, tra quattro settimane. I fenomeni che influenzano l’evoluzione dell’economia e del tempo sono molto numerosi, il loro andamento non è lineare: l’anticipazione risulta quindi difficile. Anche se rimane una condizione insufficiente per il rilancio economico, desiderare di tornare in paradiso può quindi aiutare. Questa è un po’ la posizione del libro bianco sullo sviluppo dell’economia ticinese (Pelanda, 1998) che sembra suggerire al lettore che il paradiso è a portata di mano: basta volerlo! L’autore del presente studio è invece più cauto e si accontenta di una previsione condizionata: se la popolazione continua a invecchiare e il tasso annuale di aumento della produttività rimane sotto il 2%, l’economia ticinese continuerà a restare in purgatorio. Buona lettura! 13 Parte prima: il paradiso L’economia ticinese cresce a ritmo sostenuto 1. Lo sviluppo secolare dell’economia e il ciclo di Kondratieff Lo sviluppo di un sistema economico (nazionale o regionale ) nel lungo termine, ossia su un periodo superiore ai 10 anni, è caratterizzato da fluttuazioni cicliche, più o meno regolari. L’attività economica conosce infatti fasi di espansione e di recessione che si susseguono nel tempo, tanto da far pensare che, come nel caso delle previsioni meteorologiche, anche in quello delle previsioni economiche si possa affermare che: “dopo il brutto viene il bello!” o viceversa. Con una differenza però: mentre il meteorologo non ha nessuna influenza sull’evoluzione del tempo, gli economisti che si occupano di previsioni congiunturali, o di previsioni di lungo termine, possono avere un impatto sull’evoluzione economica da loro prevista. Se infatti una maggioranza di loro si pronuncia nel medesimo modo, essi possono influenzare direttamente le decisioni di chi intende effettuare investimenti, per il sì o per il no. Il compito di chi prevede l’evoluzione economica è quindi sempre delicato perché le sue previsioni possono modificare le decisioni di chi opera nell’economia. I cicli economici L’evoluzione dell’economia è contrassegnata da alti e bassi, da fluttuazioni insomma, e assume la forma di cicli di diversa durata. Vi sono cicli stagionali, legati per esempio al clima, che influiscono su raccolti e occupazione. Più interessanti per l’analisi dello sviluppo sono i cicli commerciali o legati all’attività di investimento, come quelli di Kitchin che durano circa 40 mesi e quelli di Juglar che durano dai 9 ai 10 anni. Infine vi sono anche cicli più lunghi, come quello di Kuznets, che dura circa 25 anni e quello di Kondratieff, che dura 50 anni circa e che abbiamo scelto per dare una struttura a questo libro. Il ciclo di Kondratieff è legato alle ondate di aumento o di diminuzione dei prezzi, dei salari e dei tassi di interesse della durata di mezzo secolo circa. Ogni ciclo è caratterizzato da una fase di crescita e da una di recessione della lunghezza di circa 25 14 Dal paradiso al purgatorio anni. Come nota Nathan Rosenberg, dall’ipotesi di Kondratieff, formulata nel 1925, presero vita due tipi di ricerca sulle ondate lunghe di sviluppo. Il primo era incentrato sull’esame dell’evoluzione degli indicatori monetari (prezzi e tassi di interesse soprattutto) mentre l’altro cercava di spiegare l’evoluzione di grandezze reali, concentrandosi sull’accumulazione secolare del capitale, nella tradizione kondratievana, oppure sull’innovazione tecnologica, in quella schumpeteriana (Rosenberg, 1982). Prendendo come base il ciclo di Kondratieff gli economisti della scuola schumpeteriana hanno identificato un ciclo di lungo periodo dell’innovazione tecnologica, che si sviluppa parallelamente al ciclo di lungo periodo dei prezzi. Il ciclo comincia quando la conoscenza scientifica permette di portare sul mercato una nuova generazione di prodotti o di innovazioni che razionalizzano il processo produttivo. Questi prodotti e processi sviluppano nuovi mercati e danno un impulso dinamico all’economia. La fase di crescita che segue dura una ventina di anni ed è facilitata all’inizio, da condizioni monopolistiche di produzione. Con la diffusione dei prodotti e dell’innovazione tecnologica nello spazio, il vantaggio competitivo del pioniere innovatore viene lentamente a cadere. La vendita dei nuovi prodotti si sviluppa in condizioni di concorrenza nazionale e internazionale sempre maggiori. Finalmente il ciclo raggiunge il suo punto più alto. Dopo di che, da un lato, senza investimenti di razionalizzazione, il contributo di un’unità aggiuntiva di lavoro o capitale comincerà a diminuire e, dall’altro, si arriverà alla saturazione dei mercati. Inizia così la fase di declino che può durare, di nuovo, una ventina di anni fino all’arrivo di una nuova generazione di innovazioni. L’innovazione è un fattore di crescita economica perché assicura all’imprenditore che la promuove, per un certo periodo di tempo, una posizione di monopolista e, di conseguenza, profitti superiori alla media. Dall’inizio della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della fine del XVIII° secolo, ad oggi, gli economisti hanno potuto identificare quattro cicli di lungo periodo, o di Kondratieff, basati su altrettante nuove generazioni di innovazioni: – dal 1790 al 1840 – dal 1840 al 1890 – dal 1890 al 1940 – dal 1940 al 1990 Questi cicli di lungo periodo si sono manifestati in tutte le nazioni industria- Parte prima: il paradiso 15 lizzate, con uno scarto di alcuni anni in più o in meno, rispetto alle date di riferimento, a seconda delle singole economie. Il fatto che questi cicli, formati da una fase di espansione e da una di recessione siano apparsi nel passato con una certa regolarità, non significa che essi siano destinati a ripetersi nel futuro. Purtroppo la teoria dello sviluppo secolare, basata sul ciclo dell’innovazione tecnologica, non ha un fondamento scientifico paragonabile a quello di una legge della fisica o della chimica. Non è quindi garantito che dopo quattro cicli di Kondratieff, un quinto sia ora in gestazione. Se da una parte l’evoluzione della conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica ci fa pensare che siano in effetti riunite tutte le premesse necessarie per l’avvio di un quinto ciclo di crescita di lungo termine (Chevalllier, 1998), dall’altra, la continua distruzione di posti di lavoro dovuta al progresso tecnologico ci fa dubitare sul carattere positivo del suo impatto definitivo sulla crescita (Rifkin, 2000). Inoltre non è chiaro quando questo ciclo partirà effettivamente nel nostro paese e, ancora più particolarmente nel Cantone Ticino. Innovazione tecnologica Nell’analisi economica del ciclo lungo, l’innovazione tecnologica è uno dei fattori alla base della crescita della produzione. Secondo Schumpeter (economista austriaco, trasferitosi, alla fine degli anni venti dello scorso secolo, a Harvard), le innovazioni nascono per iniziativa spontanea di singoli imprenditori, o come risultato di una strategia di ricerca e sviluppo di un’azienda o di un gruppo economico. Esse possono prendere la forma di: – innovazioni di prodotto, quando, grazie a nuove conoscenze scientifiche, si possono lanciare uno o più prodotti nuovi (si pensi al tubo catodico e al successo della televisione, o alla realizzazione dei microcircuiti e alla diffusione del computer personale, per restare a innovazioni degli ultimi 70 anni) – innovazioni di processo, quando l’applicazione di nuove tecnologie ai processi di produzione o nuove forme di organizzazione aziendale permettono di ridurre i costi e i prezzi, creando così per l’azienda o le aziende che innovano, un vantaggio competitivo La teoria del ciclo del prodotto di Vernon sostiene che prima viene l’innovazione di prodotto, che avvia un nuovo ciclo. Solo nelle fasi più avanzate del ciclo del prodotto interviene l’innovazione di processo. Si tratta però di ipotesi che non sono condivise da tutti gli economisti che si occupano di innovazione tecnologica. Osserviamo infine che 16 Dal paradiso al purgatorio Schumpeter, oltre a parlare di innovazione di processo e di innovazione del prodotto, pensava che l’innovazione potesse estendersi anche a riforme organizzative dell’azienda. L’evoluzione secolare dell’economia, come la vede l’esperto, è dunque fatta di alti e bassi, di periodi di espansione e di periodi di recessione. La percezione di questa evoluzione da parte dell’uomo della strada è invece diversa. Essa dipende dalla sua età, dalla sua professione, dal fatto se lavora o no, dal suo livello di reddito e dall’ammontare dei suoi impegni finanziari. Se si domandasse oggi ai ticinesi la loro opinione sull’andamento dell’economia, una persona che ha superato i sessantanni risponderebbe in modo più ottimista di una persona con meno di trent’anni, semplicemente perché il primo ha conosciuto il periodo di forte espansione economica dal 1945 al 1975 e quindi ritiene che l’economia della regione possa sempre ripetere quella prestazione. Avendo da poco compiuto i 65 anni, crediamo che, oltre alle ragioni già ricordate nella premessa, sia una riflessione analoga che ci ha spinto a scrivere questo libro. Ci sembra che per dare maggiori opportunità alla futura ripresa della nostra economia sia utile trasmettere, ai lettori più giovani, il patrimonio di informazioni e conoscenza che una vita da osservatore dei fatti economici della Svizzera e del Ticino ci ha permesso di accumulare (e anche di perdere e, solo in parte, recuperare, in seguito a disavventure con il computer personale). Sapere che nel passato, da quando esiste il processo di produzione capitalistico, ossia all’incirca dalla fine del XVIII° secolo ad oggi, a un periodo di stagnazione e di crisi ha sempre fatto seguito un periodo di forte espansione può servire, se non come auspicio di espansione certa nel prossimo futuro, almeno come informazione che consente di affrontare in modo più sereno le difficoltà del presente. In ogni modo il ciclo di lungo termine, o di Kondratieff, rappresenterà, in questo lavoro sulla crescita secolare dell’economia ticinese, un riferimento di base per la strutturazione delle singole parti. Le prime due parti del libro saranno infatti dedicate alla fase di crescita e a quella di decadenza del quarto ciclo di Kondratieff, nel caso dell’economia ticinese. La terza parte si occuperà invece della questione a sapere se e quando la fase di crescita del quinto ciclo potrebbe cominciare. Ad opera terminata dobbiamo però confessare che se l’ottimismo su una ripresa della crescita rimane, su quando questa ripresa comincerà a manifestarsi conserviamo ancora molti dubbi. Per le ragioni che cerchiamo di esporre nella terza Parte prima: il paradiso 17 parte del nostro lavoro, crediamo che passeranno ancora diversi anni, prima che il Paese e i suoi partner commerciali più importanti potranno rilanciare la crescita dell’economia. Per quel che riguarda i contenuti di ogni parte precisiamo che esamineremo l’evoluzione dell’economia regionale, seguendo quattro piste. In ogni parte ci occuperemo dapprima di quantificare l’evoluzione del reddito, dell’occupazione e della produttività. In secondo luogo verificheremo, almeno nelle prime due parti, quale è stato l’impatto della crescita degli aggregati sulla struttura dell’occupazione per settori e per rami. In terzo luogo, cercheremo di tratteggiare il dibattito sulle politiche economiche che si è svolto in ogni fase e che si sta svolgendo ora in relazione all’evoluzione futura dell’economia svizzera e di quella ticinese. La quarta pista si ritrova solo nelle prime due parti e riguarda studi di caso sulle modifiche più importanti che la fase di crescita e quella di decadenza del ciclo di lungo termine hanno avuto sull’economia ticinese e sul modo di vivere dei ticinesi. 2. Come si misura l’andamento dell’economia? Sull’evoluzione secolare dell’economia ticinese non esistono statistiche affidabili. Il nostro Ufficio Cantonale di statistica – che fu tra i primi ad essere creato in Svizzera – ha visto la luce nel 1933. Le statistiche economiche a livello regionale, in Svizzera, sono però nate dopo il 1945. Si tratta soprattutto di statistiche dell’impiego. Le prime stime del reddito cantonale, fatte a livello nazionale, apparvero invece solo alla fine degli anni settanta dello scorso secolo. Chi vuole ricostruire l’evoluzione dell’economia e del benessere in Ticino, o in altri Cantoni, nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, deve perciò fare a livello di dati lo stesso sforzo che fa lo scalatore che vuole conquistare una delle tante pareti artificiali di cui sono dotate le nostre palestre e i nostri capannoni industriali in disuso, riciclati come spazi per il tempo libero. La presa è sempre difficile, l’appoggio, quasi sempre insicuro. Con l’aiuto dell’esperienza e dell’allenamento, si può però riuscire a scalare qualsiasi ostacolo, non senza correre ovviamente qualche rischio. Il reddito di un’economia Con il prodotto nazionale lordo, il reddito nazionale è uno degli indicatori di attività più importanti di un’economia. Corrisponde in pratica alla somma dei redditi distribuiti ai fattori che con le loro prestazioni contribuiscono alla produzione nazionale (capitale e lavoro). A livello regionale, per analogia, il reddito regionale (o cantonale) rappresen- 18 Dal paradiso al purgatorio ta la somma dei redditi distribuiti ai fattori di produzione che risiedono nella regione. Stando al metodo di rilevazione utilizzato per stimare i redditi dei Cantoni svizzeri, il reddito cantonale è determinato dall’equazione seguente: Reddito cantonale = Rimunerazione dei salariati + Redditi degli indipendenti + Redditi dell’impresa e della proprietà Per il Ticino, che occupa un considerevole numero di frontalieri (lavoratori attivi in Ticino, ma domiciliati all’estero), questo metodo di rilievo del reddito porta, con grande probabilità, a una sottovalutazione del totale dei redditi distribuiti. L’ammanco nella componente “rimunerazione dei salariati” può essere stimato per il 2000 a circa 2 miliardi di franchi. Stimiamo che se si potesse tener conto dei salari versati ai frontalieri, il totale dei redditi distribuiti dall’economia ticinese nel 2000 passerebbe da 12.4 a 14.4 miliardi di franchi, con un aumento pari al 16.1%. Questa affermazione viene fatta con beneficio di inventario perché la nostra correzione è legata a una stima del salario medio per frontaliero che potrebbe essere o troppo elevata o troppo bassa. Da qualche anno sono apparse stime del prodotto interno lordo dei Cantoni. Anche il Ticino le pubblica regolarmente. Il prodotto interno lordo è la somma dei valori aggiunti di tutte le unità di produzione attive sul territorio cantonale. Per il momento, le stime del prodotto interno lordo a livello regionale sono meno affidabili di quelle del reddito cantonale, ragione per cui, in questo studio si è optato per il primo indicatore. È contando sull’esperienza che ci siamo permessi di stimare i dati sull’evoluzione secolare dell’economia ticinese che figurano nella tabella 1 del capitolo 3. Si tratta di dati che hanno una loro consistenza perché sono stati stimati assieme, cercando di evitare le contraddizioni che possono sorgere quando ogni variabile viene stimata in modo separato. I risultati di questo esercizio di stima rispettano, almeno da una prima verifica, l’evoluzione secolare manifestatasi a livello dell’economia svizzera, nel corso degli ultimi duecento anni. Si tratta di indicatori che danno un’idea dell’ordine di grandezza del balzo in avanti compiuto dalla nostra economia e dal livello di benessere medio nel corso degli ultimi due secoli. L’autore raccomanda tuttavia di non sopravvalutare la loro capacità di spiegare i fatti economici. In particolare non bisognerà sopravvalutare la portata dell’indicatore di benessere (reddito pro-capite) poiché in un’economia, come quella del Ticino, fin nell’ultimo quarto del XIX° secolo, una parte importante della Parte prima: il paradiso 19 popolazione era autosufficiente e non conosceva o quasi transazioni in denaro. Per cui misurare il livello di benessere degli abitanti in franchi e centesimi è un procedimento astratto che non permette di rendersi conto di quale era veramente il livello di agiatezza o di povertà. Precisiamo che in un’economia autosufficiente, una parte molto rilevante dei prodotti necessari all’esistenza quotidiana vengono prodotti direttamente dalle famiglie, eventualmente con l’aiuto di parenti e amici, e quindi non vengono distribuiti dal mercato. Chi lavora in regime di autosufficienza non viene, di regola, remunerato. Di conseguenza le sue prestazioni non possono essere rilevate con i criteri della contabilità nazionale. Aggiungiamo ancora, per evitare confusioni, che i dati sul reddito e sul reddito pro-capite sono in termini reali, ossia riflettono l’evoluzione depurata dall’aumento dei prezzi. Dal profilo delle stime regionali del reddito e del reddito pro-capite, un calcolo del genere è da comparare a un sacrilegio. In effetti, i dati pubblicati a livello nazionale, nel corso degli ultimi tre decenni, sono stime del reddito regionale in termini nominali. Non esiste infatti nessuna possibilità di deflazionare i redditi regionali con indicatori regionali dell’evoluzione dei prezzi. Nel nostro caso, abbiamo calcolato il reddito reale del Cantone deflazionando i valori nominali con l’indice nazionale dei prezzi al consumo. Reddito nominale e reddito reale Nel corso del tempo, i prezzi dei beni e dei servizi offerti da un’economia cambiano. Per quel che riguarda l’esperienza degli ultimi cinquant’anni, i prezzi sono sempre aumentati. Potrebbero però anche diminuire, come è capitato durante il periodo della crisi mondiale degli anni trenta. Le variazioni dei prezzi sono misurate dall’indice dei prezzi al consumo che è in grado di stimare di quanto il livello medio dei prezzi dei beni di consumo cambi di mese in mese, di anno in anno. Apriamo un inciso per precisare che i beni di consumo sono quelli che vengono acquistati direttamente dai consumatori per appagare i loro bisogni. L’economia produce però anche beni di investimento, come macchine, sistemi di controllo, immobili industriali o commerciali. Questi beni servono per la produzione e vengono di regola acquistati, affittati o presi in leasing dagli imprenditori. Riprendiamo ora il discorso sugli effetti delle variazioni dei prezzi. L’aumento o la diminuzione dei prezzi influenzano il potere di acquisto di un consumatore. Supponiamo che un consumatore disponga di 100 fr. per i suoi acquisti. Con il livello dei prezzi di oggi, questo consumatore potrà acquistare una quantità x di beni e servizi. Se i prezzi dovessero però raddoppiarsi, il suo potere di acquisto sarà uguale sol- 20 Dal paradiso al purgatorio tanto alla metà, ossia a x/2. Per acquistare la stessa quantità di beni di prima, il nostro consumatore dovrà disporre, dopo l’aumento dei prezzi, di fr. 200. Il raddoppio dei prezzi ha avuto per effetto di dimezzare il suo potere di acquisto. Facciamo ora un passo avanti. Supponiamo che prima del raddoppio dei prezzi, il consumatore disponeva di un reddito di fr. 60'000. Dopo il raddoppio dovrà disporre di un reddito di fr. 120'000 per conservare intatta la sua capacità di acquistare beni e servizi, ossia il suo potere di acquisto. I due redditi, prima e dopo l’aumento dei prezzi, sono definiti dagli economisti “redditi nominali”. Sono redditi osservabili. I redditi reali sono invece quelli corrispondenti al potere di acquisto, ossia nel nostro esempio: – ai prezzi precedenti l’aumento, il reddito reale è fr. 60'000 prima e dopo l’aumento – ai prezzi dopo l’aumento, il reddito reale è di fr. 120'000, prima e dopo l’aumento In conclusione, se si vuole verificare come è aumentato il benessere materiale di una persona o di un paese nel tempo, si deve poter calcolare il potere di acquisto di un consumatore, eliminando l’effetto del rincaro (aumento) o della possibile diminuzione dei prezzi. Bisogna cioè poter calcolare il reddito reale. Di fatto quindi, per la poca importanza delle transazioni di mercato è difficile stimare quale fosse il reddito dell’economia e il reddito pro-capite dei ticinesi, prima della fine del secolo XIX°. Il che non ci ha impedito di fare un tentativo. Questo tentativo si basa sulle fonti disponibili che sono i censimenti e le stime della popolazione come pure le indicazioni quantitative su produzione, esportazione e livello dei consumi che si possono trarre dalle cronache economiche del tempo e dalle pubblicazioni di storia economica più recenti. Varrà la pena di ricordare che l’economia ticinese fino alla rivoluzione francese era essenzialmente un’economia agricola basata soprattutto sull’allevamento del bestiame. I prodotti dell’allevamento del bestiame erano anche i principali prodotti di esportazione. Il reddito delle famiglie veniva integrato, a partire almeno dalla metà del XVIII° secolo dai proventi dell’emigrazione stagionale. Da un quinto a un terzo della popolazione maschile adulta emigrava annualmente per attendere alle attività di questo tipo di emigrazione. L’industria, in Ticino, comincia a fare la sua apparizione, come in Lombardia, nel primo quarto del XIX° secolo. Il suo contributo al reddito delle famiglie diventa però importante solo nell’ultimo quarto Parte prima: il paradiso 21 del medesimo secolo. Dopo l’apertura della galleria ferroviaria del S. Gottardo (1881) anche il turismo si aggiunge alle attività produttive dell’economia ticinese. Il processo di sviluppo dell’industria si interrompe però alla vigilia della prima guerra mondiale, periodo contrassegnato dal fallimento delle maggiori banche del Cantone (si veda Rossi, 1988). Dal 1914 al 1950 il Ticino vive di stenti e traversa una lunga fase di stagnazione economica, dalla quale può finalmente uscire negli anni cinquanta con il rilancio del turismo e dell’industria e con il forte sviluppo del settore dei servizi, in particolare dei servizi finanziari. Questa è, in poche righe, la storia economica del Cantone. I dati presentati nel capitolo che segue ne danno un’illustrazione statistica abbastanza fedele. 3. Lo sviluppo secolare dell’economia ticinese Con l’aiuto di tre indicatori, vogliamo, in questo capitolo, illustrare la crescita dell’economia ticinese nel corso degli ultimi due secoli. Come date limite abbiamo scelto il 1790, il 1840, il 1890, il 1940 e il 1990. Sono date che corrispondono ai cicli di Kondratieff. Ma possiedono anche un riferimento abbastanza preciso nella storia dello sviluppo economico del Ticino. La prima perché, oltre ad essere indicata, dagli storici dell’economia, come la data di inizio del primo ciclo di lungo termine, è per il Ticino, all’incirca, quella nella quale fu introdotta – con un ritardo di mezzo secolo sulle altre regioni periferiche della Svizzera – la coltivazione della patata, un prodotto che avrebbe permesso di eliminare o quasi il pericolo di carestia. Il 1840 vede la conclusione del programma di costruzione e riattamento degli assi principali delle strade cantonali, da Chiasso al Gottardo e da Bellinzona a Locarno (Galli A., 1937). Il 1890, poi, non è solo la data della rivoluzione liberale, ma segna anche l’inizio delle attività turistiche e del processo di industrializzazione della nostra economia, grazie da una parte alle possibilità di trasporto offerte dalla ferrovia del Gottardo e, dall’altra, dalle applicazioni industriali che due nuove forme di energia, il gas e l’elettricità, permettono di fare. Il 1940 è l’anno che chiude il lungo periodo di stagnazione tra le due guerre mondiali e avvia il periodo di maggiore crescita economica conosciuto dal Ticino sino ad oggi. Infine il 1990 è l’anno che chiude questo periodo e apre le porte al nuovo purgatorio della stagnazione, uno stato nel quale l’economia ticinese continua a trovarsi. Le stime sulla crescita della popolazione, del reddito e del reddito pro-capite della tabella 1 descrivono in modo conciso, ma chiaro, l’enorme balzo in avanti fatto in Ticino, in termini di attività economica e benessere materiale, nel corso di due secoli. 22 Dal paradiso al purgatorio Tabella 1: Evoluzione della popolazione residente, del reddito e del reddito pro-capite, durante i cicli di lungo periodo in Ticino (ai prezzi dell’anno 2000) Anni Popolazione In assoluto Tasso di di variazione annuale nel ciclo 1790 100'000 1840 110'000 0.2% 1890 126'700 0.3% 1940 161'800 0.5% 1990 282'281 1.1% Reddito In milioni 2000 10.0 33.0 230.0 615.0 12'494.0 Tasso di variazione annuale nel ciclo 2.4% 4.0% 2.0% 6.2% Reddito pro-capite In franchi Tasso di 2000 variazione annuale nel ciclo 100 300 2.2% 1'815 3.7% 3'800 1.5% 44'300 5.0% Fonte: per il periodo 1940-1990 le fonti sono gli annuari cantonali di statistica e l’articolo di Rossi M.(1996) citato alla fine di questa parte; per il periodo 1890-1940 l’articolo dell’autore sullo sviluppo economico e il progresso sociale pure citato nella bibliografia di questa prima parte; per i periodi precedenti il 1890 esistono pochissime indicazioni: l’evoluzione della popolazione è conosciuta grazie alle pubblicazioni dell’abate Ghiringhelli e di Stefano Franscini, per lo sviluppo dell’economia abbiamo, sempre da questi autori, delle stime della bilancia commerciale del Cantone che possono servire per costruire un’ipotesi di evoluzione del reddito (si vedano le opere di Franscini e Ghiringhelli citate nella bibliografia di questa prima parte) Si tratta ben inteso di valori medi che non riescono a illustrare lo spettro ampio di condizioni di vita diverse che prevalevano e prevalgono all’interno del Cantone. Né abbiamo la possibilità di calcolare, nemmeno in modo astratto, quale poteva essere la varianza, ossia la distribuzione dei valori effettivi di questi indicatori intorno al loro valore medio, a seconda delle classi sociali, oppure a seconda delle regioni, nei diversi cicli di sviluppo. Consideriamo ora l’evoluzione dei tre indicatori in modo separato. Cominciamo dall’evoluzione demografica. Come è risaputo, la crescita di una popolazione è alimentata da due componenti: – la componente naturale, ossia la differenza tra il numero dei nati e il numero dei decessi (notiamo che questa differenza può essere positiva o negativa) – il saldo migratorio, ossia l’eccedenza di immigrati, che va ad aumentare la popolazione, o l’eccedenza di emigrati, che la fa diminuire Ambedue le componenti sono influenzate dall’evoluzione economica. Più un paese si sviluppa e più basso diventa il tasso di mortalità, perché il paese dispone progressivamente di risorse che può dedicare al miglioramento delle condizioni igieniche, delle condizioni di vita e alla creazione delle infrastrutture sanitarie. Parte prima: il paradiso 23 Contemporaneamente però diminuisce anche il tasso di natalità, perché il miglioramento del livello di vita e l’aumentata possibilità di risparmiare, per assicurarsi un reddito per la vecchiaia, fanno diminuire il tasso di riproduzione della popolazione. In molte regioni povere i figli rappresentano per i genitori la sola possibilità di conseguire un reddito nel periodo della loro vecchiaia, quando non saranno più in grado loro stessi di lavorare. In un paese avanzato dell’Europa occidentale, la componente naturale (differenza tra nascite e decessi) assicura oggi un tasso di aumento della popolazione pari, al massimo, allo 0.2-0.3% annuo. Prima del 1965, ossia prima dell’introduzione generalizzata della pillola anticoncezionale, la componente naturale poteva assicurare un aumento annuo della popolazione pari allo 0.4-0.6%. È sulla base di questi tassi che possiamo giudicare l’evoluzione demografica del Cantone. Fino al 1890, la stessa era caratterizzata da un saldo migratorio negativo che, in termini aggregati, faceva perdere al Ticino praticamente la metà del suo sviluppo demografico potenziale. Media e varianza Molto conosciuto è il detto di Enrico IV (vissuto tra la fine del 16° e l’inizio del 17° secolo) che per magnificare le condizioni di vita dei francesi del suo tempo affermava che in Francia vi era “un pollo in ogni pentola”. La quantità di polli consumati in Francia divisa per il numero delle economie domestiche dava questa media. Ma con grande probabilità la maggioranza delle pentole dei francesi non vedeva mai il pollo, mentre una piccola minoranza cuoceva in permanenza questo piatto. Questa è per l’appunto la differenza tra la media e la varianza. La media è semplicemente il rapporto tra il totale della variabile esaminata e il totale di una popolazione sulla quale questa variabile si distribuisce. Così il reddito pro-capite è un valore medio ottenuto dividendo il totale del reddito cantonale per la popolazione del Cantone. Il suo valore assoluto non dice molto. Più interessante è paragonare il reddito pro-capite di una regione con quello di altre regioni, o il reddito pro-capite a una certa data con redditi pro-capite in altre date. Per ottenere indicazioni più complete sulle condizioni di vita di una regione sarebbe però necessario poter calcolare la varianza, ossia l’importanza degli scarti – positivi e negativi – del reddito di ogni individuo per rapporto al valore medio. I dati disponibili non ci permettono purtroppo di calcolare la varianza. Ma vi sono descrizioni dei diversi periodi che, affrontando il problema delle condizioni di vita, ci danno qualche indicazione di quanto importante fosse la varianza. Così, per quel che riguarda la fine del Settecento, possiamo rifarci ai testi del tempo, in particolare al “Ticino all’inizio dell’Ottocento” dell’abate 24 Dal paradiso al purgatorio Ghiringhelli, chiosato da Antonio Galli, per ottenere qualche indicazione supplementare sul variare delle condizioni di vita, all’interno del Cantone e tra le diverse classi sociali. Citando una pubblicazione contemporanea, Ghiringhelli scrive: “nelle alte valli, dove cresce solo l’erba, e quindi solo la pastorizia e lo sfruttamento degli alpi occupano la popolazione, regna minor miseria che nelle regioni piane poste più a sud, il cui suolo è il più fertile e ricco d’Europa. Proprio qui invece la gente è consunta dalla miseria e coperta di stracci. Nessun maiale della Svizzera tedesca – come dice il signor Bonstetten – entrerebbe in una delle abitazioni degli uomini di qui…” .A queste note molto crude sulle condizioni di vita in Ticino, il Ghiringhelli aggiunge: “È però questo un linguaggio troppo duro: il linguaggio dei viaggiatori che talvolta da casi singoli, da un’osservazione fatta forse in un momento di malumore, subito vogliono generalizzare. Vero è pertanto che il grado di cultura, l’industria, il benessere, l’attrezzatura del Canton Ticino, senza trovarsi nelle condizioni infime, testé descritte, sono sensibilmente inferiori a quelli della maggior parte degli altri Cantoni.” Il che resta vero anche oggi! Se il saldo del movimento migratorio, invece di essere in permanenza negativo, fosse stato nullo, la popolazione ticinese durante il XIX° secolo sarebbe cresciuta a tassi annuali vicini allo 0.5% invece di crescere solo a tassi dello 0.2-0.3%. Il Cantone Ticino, regione di emigrazione – non solo stagionale, ma certamente anche definitiva – è la realtà demografica del secolo che ha seguito la dichiarazione di indipendenza. Come tutte le altre vallate, a sud delle Alpi, anche quelle del Ticino conobbero in quel secolo un forte salasso di popolazione. Non bastò, quindi, al Ticino accedere all’indipendenza per liberarsi dalla miseria. Nessuno ha mai tentato di stimare i costi di questo salasso. Possiamo, tuttavia, affermare che lo stesso è stato, con altri fattori forse meno importanti, certamente all’origine del ritardo economico che il Ticino ha accumulato, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, nei confronti del resto della Svizzera e dell’Italia del nord. Dal 1890 al 1940, periodo nel quale l’isolamento geografico, politico e economico del Ticino conobbe, con l’avvento del regime fascista e dell’autarchia economica in Italia, la sua situazione più estrema, i movimenti migratori persero molto della loro importanza. Si può sostenere che, durante quel periodo, la popolazione si sviluppò unicamente in forza della componente naturale. Infine, dopo il 1940, il saldo migratorio divenne largamente posi- Parte prima: il paradiso 25 tivo e la popolazione ticinese profittò dell’apporto demografico degli immigrati dal resto della Svizzera e dal resto del mondo per avviare un periodo di rapido sviluppo. Sviluppo demografico L’aumento, o la diminuzione, della popolazione residente in una determinata regione è dato dalla somma di due saldi: – il saldo del movimento naturale N – e il saldo del movimento migratorio M Si ha quindi: Variazione della popolazione = N+M Se la somma è positiva, la popolazione aumenta, se è negativa, diminuisce. Il saldo del movimento naturale è uguale alla differenza tra il numero dei nati e il numero dei decessi. Per esempio in Ticino, nel 2002, il saldo naturale si è stabilito nel modo che segue: N = Nascite – Decessi = 2904 – 2788 = 116 Il saldo migratorio è la differenza tra il numero di arrivi e il numero delle partenze. Sempre per il Ticino e per il 2002, questo saldo è dato dalla differenza seguente: M = Arrivi – Partenze = 2630 La somma dei due saldi dà, per il 2002, la seguente variazione di popolazione per il Ticino: N + M = 116 + 2630 = 2746 Il tasso di natalità in Ticino è tra i più bassi della Svizzera. Senza il saldo migratorio, la popolazione ticinese non sarebbe quindi aumentata, o quasi. Da molti anni, in Ticino, è il saldo migratorio che determina l’evoluzione della popolazione residente. Consideriamo ora l’evoluzione del reddito e del reddito pro-capite. In termini di potere di acquisto, il ticinese degli anni novanta del secolo scorso disponeva di risorse pari a quelle di 400 ticinesi della fine del XVIII°secolo. I ticinesi di oggi sono diventati tutti benestanti (in termini di confronto storico e con le limitazioni nel confronto di cui si è scritto) e il loro numero si è praticamente triplicato. Un’economia che, alla fine del XVIII°secolo riusciva appena ad assicurare il minimo di sopravvivenza a una grande parte della sua popolazione – prova ne sia l’importanza dell’emigrazione – oggi riesce a mantenere, con un reddito medio che è tra i più alti in Europa, una popolazione tre volte più grande. Questo miracolo è stato conseguito in forza di un processo secolare di crescita delle sue attività che ha conosciuto, come dimostrano i dati della tabella 1, fasi alterne. 26 Dal paradiso al purgatorio Per renderci conto della diversa velocità di crescita, possiamo riferirci ai tassi medi di aumento del reddito nei cicli di lungo periodo considerati qui sopra. Per il lettore non addentro ai fatti economici possiamo suggerire di leggere questi tassi nel modo che segue: – un tasso di crescita dell’1-1.5% è paragonabile alla velocità che si può raggiungere in automobile, innestando la prima marcia; – un tasso del 2-2.5% è paragonabile alla seconda marcia; – un tasso del 3-3.5% alla terza; – un tasso del 4-5% alla quarta marcia; – un tasso superiore al 5% alla quinta marcia. Alla stessa stregua si può affermare che nei paesi nei quali il tasso di crescita reale annuo è superiore all’8-10% la velocità è quella di una vettura di formula uno. La tabella ci suggerisce che lo sviluppo del Cantone si è fatto in seconda e in terza durante il XIX° secolo, ossia durante il periodo che gli storici hanno convenuto di chiamare il periodo della prima e della seconda rivoluzione industriale. Il ritmo di sviluppo dell’economia ticinese ha subito un rallentamento significativo nel periodo tra la fine del XIX° secolo e la seconda guerra mondiale, a causa soprattutto del suo isolamento rispetto al mercato svizzero e a quello internazionale. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, l’economia del Ticino ha innestato la quarta e, in taluni anni, anche la quinta conoscendo un’accelerazione nello sviluppo che ha (se teniamo conto che i dati del reddito e del reddito pro-capite sono in termini reali) dell’incredibile. Notiamo poi che da un ciclo di lungo termine all’altro, le caratteristiche della vettura sulla quale viaggia l’economia ticinese sono molto migliorate. Innestare la quarta marcia in un’economia che comincia a svilupparsi (come era il caso del Ticino alla fine del XIX° secolo) è certamente più facile che innestarla in un’economia che ha già raggiunto un certo livello di benessere (come è stato il caso del Ticino dopo la seconda guerra mondiale). L’accelerazione realizzata nel secondo dopoguerra dall’economia ticinese può essere misurata comparando il numero di anni che, in base ai diversi tassi di crescita, sarebbero necessari per raddoppiare il reddito pro-capite reale. – con un tasso di crescita dell’1.5% - come nel periodo 1890-1940 – occorrono quasi 47 anni per raddoppiare il reddito pro-capite; – con un tasso di crescita del 2.2% - come nel periodo 1790-1840 – sono necessari 32 anni; – con un tasso di crescita pari al 3.7% - come nel periodo 1840-1890 Parte prima: il paradiso – 27 (attenzione però che in questo caso la crescita del reddito pro-capite è stata alimentata anche dall’emigrazione) - occorrono 19 anni; infine con un tasso di crescita del 4.8%, come nel periodo 1940-1990, bastano 14 anni e mezzo per raddoppiare il reddito pro-capite. Rivoluzioni industriali Secondo lo storico dell’economia David S. Landes la rivoluzione industriale è il cambiamento nei modi di produzione determinato dall’applicazione dei seguenti tre principi generali (Landes, 1999): – la sostituzione delle macchine – veloci, costanti, precise, instancabili – al lavoro e alla capacità umana – la sostituzione di fonti di energia inanimata alle fonti animate; in particolare, l’invenzione dei motori capaci di convertire il calore in lavoro, che spalancò le porte a una fonte di energia pressoché inesauribile – l’utilizzo di nuove e molto più abbondanti materie prime; in particolare la sostituzione di minerali e infine di materie artificiali alle sostanze vegetali e animali. Se parliamo di rivoluzioni industriali è perché questi tre processi si sono manifestati nel tempo, in ondate successive. Per quel che riguarda la Svizzera si può datare la prima rivoluzione industriale agli venti-trenta del secolo XIX°; la seconda, agli anni ottanta-novanta dello stesso secolo. Da questa datazione si desume che le rivoluzioni industriali, in Svizzera coincidono, o quasi, con la fase di avvio di due cicli di Kondratieff. In conclusione, la constatazione che ci preme fare è che, a cavallo della seconda guerra mondiale si incontrano il periodo con il tasso più basso e quello con il tasso più alto di crescita del benessere materiale del Cantone. I figli nati durante la seconda guerra mondiale e all’inizio del secondo dopoguerra ebbero bisogno di meno di un terzo del tempo occorso ai loro padri per raddoppiare il loro reddito. Ci si può quindi facilmente immaginare quale cozzo di natura culturale l’accelerazione della crescita economica e del benessere materiale possano aver creato nelle famiglie ticinesi, nei primi venti trenta anni del secondo dopoguerra. 28 Dal paradiso al purgatorio 4. Lo sviluppo degli ultimi cinquant’anni Come testimoniano i dati della tabella 1, il periodo dal 1940 al 1990, che corrisponde, più o meno, alla durata del quarto ciclo di Kondratieff, deve essere ritenuto come il periodo di maggior sviluppo conosciuto dall’economia ticinese, dal momento dell’avvio della rivoluzione industriale in Europa ad oggi. Osserviamo tuttavia che quello del Ticino non è un caso unico. Praticamente le economie di tutti i Cantoni svizzeri hanno esperimentato, dopo il secondo conflitto mondiale, un’evoluzione di questo tipo. La stessa considerazione vale per le economie delle province italiane confinanti, sebbene a questo proposito si possa affermare che il tasso di crescita del reddito sull’insieme del periodo sia stato, in Italia, inferiore a quello realizzato dall’economia ticinese. Dal 1940 al 1990: – la popolazione del Ticino è aumentata del 75%; – il reddito dell’economia ticinese si è moltiplicato per 20; – il reddito pro-capite si è moltiplicato per 11. Ma lo sviluppo di questo periodo non è stato una sola e unica marcia trionfante verso traguardi di benessere materiale sempre più alti. All’interno del cinquantennale ciclo di Kondratieff dobbiamo infatti distinguere, per quel che riguarda la crescita economica, almeno tre fasi, caratterizzate da tassi di crescita diversi. La figura 1 riproduce l’evoluzione dell’attività dell’economia ticinese nel periodo dal 1951 al 1995, dal momento in cui si dispone delle prime stime del reddito cantonale alla data in cui si è effettuata la prima, importante revisione del metodo di stima del reddito cantonale. Figura 1: Tassi annuali di variazione del reddito reale e media mobile (5 anni) dell’economia ticinese Fonte: Rossi M, 1996 Parte prima: il paradiso 29 Nella nostra analisi dell’evoluzione di lungo termine del reddito cantonale ci siamo fermati al 1995, perché per il periodo 1950-1995 disponevamo di una serie coerente di dati, elaborata, a metà degli anni novanta dello scorso secolo, dall’IRE (Istituto di ricerche economiche, allora del Cantone, ora dell’USI). Nel 1996 e nel 2004, il metodo di stima del reddito cantonale è stato sottoposto a revisioni abbastanza importanti che, da un lato hanno portato, per gli anni novanta a differenze con le vecchie stime dell’ordine di mezzo miliardo- un miliardo, a seconda degli anni e, dall’altro lato, a inversioni dello sviluppo congiunturale per certi anni. Diventava perciò impossibile prolungare la serie dell’IRE, valendosi delle nuove stime. A causa di queste difficoltà, la nostra analisi di dettaglio del ciclo di Kondratieff più recente porterà quindi sul periodo dal 1950 al 1995. I tassi di variazione annuale del reddito reale, riportati nella figura 1, descrivono una traiettoria dello sviluppo dell’economia ticinese che, durante il periodo osservato, è stata interrotta solo una volta da una diminuzione del reddito reale, nel 1975, anno durante il quale l’economia svizzera fu colpita dalle conseguenze negative della prima forte esplosione dei prezzi del petrolio. L’andamento ciclico dell’attività economica è pure illustrato, nella figura 1, dalla media mobile dei tassi di variazione annua del reddito reale. La stessa indica, forse in modo ancora più chiaro, che non sia in grado di fare la serie delle variazioni annuali, la direzione dello sviluppo e l’ampiezza delle fasi del ciclo di lungo termine, nel corso della seconda metà del secolo XX°. La fase di crescita va dalla fine della seconda guerra mondiale al 1963, quella del declino dei tassi di crescita dal 1963 a oggi. Basandoci sul sentiero di sviluppo, descritto dalla media mobile, abbiamo scelto di suddividere questo periodo in due sotto-periodi di diversa durata: – il primo va dall’inizio del dopoguerra al 1975 – e il secondo dal 1975 al 1995 La media mobile Per cercare di identificare la tendenza di fondo che sottostà a una serie di valori che sono in continuo cambiamento si può calcolare la media mobile e sostituire i valori della serie esaminata con i valori calcolati in base alla media mobile. Per serie annuali la media mobile può basarsi su 3 o 5 valori. Un esempio di media mobile su 3 anni può servire a chiarire il concetto. La serie 200, 240, 280, 260, 290, 280, 320, 270, 330, 350 può essere resa più regolare nel suo andamento, calcolando la media mobile su 3 anni. Il primo termine della media sarà dato dalla media dei primi tre valori della serie: ossia (200+240+280)/3 =240, 30 Dal paradiso al purgatorio il secondo calcolando la media del secondo, del terzo e del quarto e così via. I risultati sono riportati nel grafico. Si nota che effettivamente la linea della media mobile ha un andamento maggiormente regolare della linea che descrive l’evoluzione della serie di base. Nel primo sottoperiodo il tasso di crescita medio era più elevato che nel secondo. Mentre fino all’inizio degli anni settanta, esclusi i primi anni del dopoguerra e brevissime recessioni nel 1958 e tra il 1964 e il 1967 (quest’ultima determinata dall’intervento dello Stato per frenare il “surriscaldamento” dell’economia) la macchina dell’economia ticinese viaggiava con la quarta, vedi anche con la quinta innestata, a partire dal 1975 l’economia ticinese ha innestato la terza, poi la seconda, e, dopo il 1990, è scesa ancora di una marcia, passando in prima. Gli economisti europei descrivono il lungo periodo di crescita sostenuta delle economie dell’Europa occidentale, durante i primi trent’anni del secondo dopoguerra come “les trentes glorieuses” i trenta anni di gloriosa e quasi ininterrotta crescita a tassi elevati del reddito reale, sempre, o quasi, superiori al 4.5% annuale. Le prestazioni economiche di questo periodo si ritrovano anche a livello dell’economia ticinese: ne fanno fede i tassi di variazione del reddito reale della figura 1. Avviato dalle innovazioni che sono giunte sul mercato tra il 1935 e il 1950 (si pensi, per fare un solo esempio, alla televisione), il ciclo di lungo periodo ha preso particolare vigore in Europa nel dopoguerra, in seguito agli sforzi effettuati per ricostruire l’infrastruttura e l’apparato di produzione delle economie che avevano partecipato al conflitto. Si parla in questo contesto di un periodo di crescita alimentato dalla forte espansione delle componenti della domanda globale: gli investimenti privati e i consumi pubblici in particolare. Dal 1945 al 1975, Parte prima: il paradiso 31 le economie dell’Europa occidentale e quella ticinese hanno conosciuto un periodo di sviluppo senza precedenti che, se teniamo conto anche delle conseguenze positive della crescita economica sul benessere possiamo descrivere come il paradiso dello sviluppo economico. Questa espansione si chiude all’inizio degli anni settanta certo per il rallentamento della domanda, ma anche per il venir meno dell’impeto che le innovazioni avevano dato alla produttività dei fattori di produzione. Ad aggravare il declino per i paesi europei arrivano, proprio in quegli anni, eventi esterni come la decisione di abbandonare l’accordo di Bretton Woods che, dalla fine del conflitto mondiale aveva impostato gli scambi internazionali su rapporti di cambio fissi, nonché gli choc del prezzo del petrolio. Nei capitoli della prima parte che seguono, ci occuperemo più in dettaglio della natura di questo sviluppo e delle sue conseguenze. Nella seconda parte di questo lavoro, invece, ci concentreremo sul periodo dal 1975 a oggi, periodo caratterizzato dalla stagnazione economica e, che per contrasto con il primo, chiameremo il purgatorio dello sviluppo economico. 5. Il periodo dal 1945 al 1975: il paradiso dello sviluppo economico Il periodo che va dal 1945 al 1975 è stato per l’economia ticinese come per quella svizzera, e quelle della maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale, il periodo di maggior sviluppo degli ultimi due secoli. Pensiamo che si possa parlare con ragione, nei confronti di quel periodo, di età dell’oro o, come abbiamo proposto nel capitolo precedente, di paradiso della crescita economica. Tuttavia, all’interno di questo periodo non sono mancate le fluttuazioni. Possiamo, in particolare, distinguere due sottoperiodi: – il primo va dalla fine della seconda guerra mondiale al 1964 ed è caratterizzato, per la Svizzera, dall’assenza di una politica di controllo congiunturale, – il secondo inizia nel 1964 e termina nel 1975 ed è caratterizzato dai problemi legati alla definizione di una politica di controllo dell’inflazione. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1966 lo sviluppo dell’economia svizzera e di quella ticinese si è svolto in condizioni molto libere. Solo nei primi tre anni del dopoguerra vi fu una politica concertata della Confederazione con i partners sociali per cercare di evitare un’impennata di prezzi e salari. Ma, dal 1948 al 1964, la crescita dell’economia svizzera non venne praticamente ostacolata da nessun intervento importante delle autorità politiche o di quelle monetarie. Anche l’immigrazione di mano d’opera estera, pur svolgendosi in regime di controllo (la legge di controllo sul- 32 Dal paradiso al purgatorio l’immigrazione era del 1933), non conobbe, oltre alla richiesta di un permesso di lavoro valido, restrizioni di sorta. I tassi di crescita elevati di questo periodo furono raggiunti, da noi come nel resto dell’Europa occidentale, per il forte aumento di tutte le componenti della domanda globale ma, in particolare, degli investimenti privati e di quelli pubblici. Domanda globale Le teorie macroeconomiche e la contabilità nazionale contrappongono, a livello di un intero sistema economico, due aggregati: – l’aggregato della produzione (o offerta globale) – e quello della domanda globale La domanda globale, a sua volta, è formata dalla somma dei consumi privati, dei consumi pubblici (spesa degli enti pubblici), degli investimenti privati e del saldo tra esportazioni e importazioni Domanda globale = Consumi privati + Investimenti privati + Consumi pubblici + Esportazioni - Importazioni Per Keynes, la domanda globale è il determinante della crescita. Per i neoclassici, invece, il determinante della crescita è l’offerta globale (legge di Say, o legge degli sbocchi). Se l’economia fosse in equilibrio, la domanda globale sarebbe uguale all’offerta globale (è l’ipotesi sulla quale si basa la contabilità nazionale). Se la domanda eccede l’offerta, il livello dei prezzi sale e l’economia può conoscere l’inflazione. Se l’offerta supera la domanda si ha invece la crisi con riduzioni di produzione. Nel caso dell’economia ticinese, le componenti più importanti della domanda globale sono state il consumo privato, con un tasso di aumento annuale superiore al 4% e gli investimenti (privati e pubblici) che, nei primi trenta anni dopo la seconda guerra mondiale, hanno conosciuto un tasso di crescita superiore al 10%. Poiché in questo periodo, nonostante il forte aumento dei posti di lavoro e l’aumento sostenuto della produttività, il potenziale di produzione aumentava meno rapidamente della domanda globale, con il tempo, si manifestò nell’economia svizzera e in quella ticinese un fenomeno che i politici del tempo definirono di “surriscaldamento” che ebbe per effetto un aumento significativo del livello dei prezzi. Parte prima: il paradiso 33 Per tagliare la testa all’inflazione nel 1963 e nel 1964 la Confederazione introdusse, per la prima volta, misure con le quali si intendeva restringere l’ulteriore espansione delle varie componenti della domanda globale o, per lo meno, frenarne lo sviluppo. Tra le stesse figuravano misure di contenimento degli investimenti nella costruzione e misure di limitazione all’immigrazione della manodopera estera. A partire dal 1964, l’immigrazione si fece per contingenti fissati di anno in anno, in relazione al bisogno effettivo di mano d’opera, ma anche tenendo conto della situazione congiunturale. Citiamo i primi decreti di freno alla congiuntura non solo perché si trattava della prima volta, nel dopoguerra, che il governo interveniva per stabilizzare la congiuntura, ma anche perché attorno a queste misure nacque, a livello nazionale, un dibattito interessante sulla continuità nel tempo del processo di crescita sostenuta e sulla necessità di riforme di struttura in campi come il fondiario e gli investimenti pubblici. Questo dibattito doveva avere un’interessante ripercussione in Ticino nella discussione tra i partners sociali sulla programmazione dell’economia. Nei fatti la tesi di chi sosteneva che la crescita della seconda metà degli anni cinquanta, inizio degli anni sessanta, non era una febbre transitoria, ma sarebbe continuata nel tempo (Kneschaurek, 1965) parve confermarsi con l’aumento dei prezzi negli anni successivi. Nel 1971 (in giugno con un decreto urgente che limitava la possibilità di costruire e, in ottobre, con un altro decreto urgente che cercava di limitare l’afflusso di capitali dall’estero), il Consiglio federale fu costretto a intervenire di nuovo per cercare di contenere l’evoluzione inflazionistica. Ma oramai eravamo arrivati quasi alla fine del periodo di sviluppo paradisiaco. La fine degli anni dell’abbondanza fu segnata da avvenimenti di portata internazionale. Dapprima dall’abbandono del sistema di Bretton Woods, nella primavera del 1973 e, poi, dal primo “choc dei prezzi del petrolio” del settembre 1973, con forti ripercussioni sull’evoluzione dell’inflazione nel 1974 e con una forte recessione nel 1975. Come viene spiegato nel riquadro, a pag. 30, nel 1973, le economie più importanti del globo decidevano di passare dal regime dei cambi fissi al regime dei cambi variabili. Questa decisione fece lievitare il valore del franco svizzero sui mercati delle divise in modo molto rapido e di sicuro compromise la capacità concorrenziale della produzione elvetica sui mercati mondiali. La caduta del regime dei cambi fissi segnò l’avvio di forti turbolenze nell’economia mondiale. Di particolare importanza furono i due cosiddetti “choc dei prezzi del petrolio” che, a partire dal 1975, generarono una for- 34 Dal paradiso al purgatorio te recessione. Questi avvenimenti dovevano lasciare il segno anche in Ticino. Dopo il 1973, con l’avvento del primo choc del petrolio (si veda il riquadro a pag. 31 per i dettagli), lo sviluppo dell’economia ticinese – che soffriva anche del blocco delle costruzioni e dell’impossibilità di vendere immobili a stranieri (decreto Von Moos, prolungato per più decenni) – cominciò a marcare il passo. I tassi di crescita calarono. Nel 1975, come in Svizzera, anche in Ticino si registrò una forte recessione. Dopo di che, come dimostrano anche i tassi della figura 1, l’economia ticinese non seppe più ritrovare lo slancio che aveva conosciuto nei due decenni precedenti. 1973: la fine del sistema di Bretton Woods Per facilitare la ripresa degli scambi internazionali, dopo la seconda guerra mondiale, nel giugno del 1944 fu firmato da 44 paesi a Bretton Woods un accordo con il quale veniva creato il Fondo Monetario Internazionale. L’accordo prevedeva inoltre l’introduzione di cambi fissi delle divise dei paesi aderenti rispetto al dollaro e un rapporto fisso del dollaro rispetto al prezzo dell’oro. I primi segni di difficoltà di questo sistema si manifestarono alla fine degli anni sessanta, in seguito a forti acquisti di oro da parte di speculatori che si aspettavano una modifica del prezzo dell’oro in dollari. A queste difficoltà si pose fine concedendo al prezzo dell’oro di fluttuare, mentre nel medesimo tempo le banche centrali dei paesi aderenti avrebbero continuato a regolare i loro scambi con un prezzo fisso di $ 35 l’oncia. Da allora gli attacchi di natura speculativa al dollaro si succedettero per diversi anni, senza che la comunità internazionale trovasse un mezzo per fermarli. Finalmente, all’inizio di marzo del 1973 si arrivò alla drastica decisione di chiudere i mercati delle divise. Alla riapertura, il 19 marzo, le maggiori divise europee cominciarono a fluttuare nei confronti del dollaro. I principi di Bretton Woods erano oramai sotterrati per sempre. Si apriva l’era dei cambi variabili. Per la Svizzera la conseguenza economicamente più importante fu la rivalutazione del franco rispetto alla maggior parte delle divise europee e al dollaro. Se, prima del 1970, mille lire italiane valevano ancora 7 franchi, alla fine degli anni settanta, il cambio lira/franco si assestò sul franco e quaranta per mille lire. La svalutazione della lira rispetto al franco mutò del 100% o quasi i rapporti di scambio alla frontiera del Ticino con l’Italia. La capacità concorrenziale delle ditte esportatrici svizzere venne compromessa. Da allora esiste quella che i commentatori eco- Parte prima: il paradiso 35 nomici amano chiamare “l’isola svizzera dei prezzi”. I prezzi dei beni al consumo sono in Svizzera del 30 al 50% superiori ai prezzi dei medesimi prodotti nel resto dell’Europa. Con l’abbandono dell’accordo di Bretton Woods terminava la fase di ricostruzione delle economie europee, dopo la seconda guerra mondiale. Per gli economisti tradizionali, che consideravano le misure di questo accordo come straordinarie e da abbandonare il più presto possibile, una volta che gli scambi internazionali si fossero stabilizzati, in seguito alla ripresa delle economie colpite dalla guerra, la decisione della primavera del 1973 rappresenta un ritorno allo stato normale, dove è il mercato a decidere del valore delle divise e non un accordo tra paesi. In Svizzera, la maggioranza degli economisti del tempo, fecero loro questa posizione senza, pensiamo, riflettere molto sulle conseguenze che un mercato dominato da speculatori poteva avere sul valore del franco svizzero e, di sicuro, senza pensare che una possibile rivalutazione del franco, in seguito al passaggio al regime dei cambi fissi, avrebbe potuto durare nel tempo, compromettendo la capacità concorrenziale dell’industria nazionale. Né ci fu chi previde l’enorme spinta verso l’alto del livello dei nostri prezzi all’esportazione con le conseguenze negative che la stessa ebbe. Per nostra fortuna nel 2001 l’Unione Europea, introducendo l’euro in diversi paesi, ha, di fatto, ricreato una situazione di cambi fissi, per lo meno all’interno dell’area euro, situazione che, da un paio d’anni, facilita il commercio di frontiera del Ticino con l’Italia. Se tuttavia l’area euro dovesse estendersi, includendo i nuovi paesi membri dell’UE, è difficile che il tasso di cambio franco/euro possa restare, in futuro, ai livelli attuali. Più attendibile è una situazione che riporti il rapporto a quello che era al momento in cui l’euro fu introdotto, il che, di nuovo, ci sfavorirebbe nei nostri scambi con l’Italia. Gli choc dei prezzi del petrolio Nel corso degli anni settanta dello scorso secolo, per decisione del cartello dei paesi produttori di petrolio (OPEC) il prezzo del petrolio sui mercati europei e americani aumentò rapidamente a due riprese. Nell’autunno del 1973, il prezzo fu portato da 13 a 30 $ il barile, lasciando aumentare l’indice svizzero dei prezzi all’importazione del 20%, con ripercussioni ovviamente inflazionistiche sui prezzi al consumo nel 1974. Nel 1979 la situazione si ripeté. 36 Dal paradiso al purgatorio 6. L’economia ticinese in paradiso: effetti a livello del potenziale di produzione Il lungo periodo di crescita, dalla fine degli anni quaranta alla metà degli anni settanta del secolo scorso, trasformò profondamente il potenziale di produzione dell’economia ticinese. Per la prima volta, dall’inizio della rivoluzione industriale, il mercato del lavoro ticinese conobbe una situazione di eccedenza di domanda. Finalmente i ticinesi non erano più obbligati a lasciare il Cantone per trovare un’occupazione. La disponibilità di risorse permise poi di recuperare il ritardo in materia di infrastrutture (il cosiddetto capitale sociale). Da questo profilo, gli investimenti più importanti riguardarono la produzione di energia elettrica (con gli impianti della Blenio e della Maggia), l’estensione e il continuo miglioramento della rete stradale, nonché il grosso balzo in avanti fatto in materia di infrastrutture locali, dal completamento delle fognature alla costruzione dei palazzi scolastici e delle strutture per il tempo libero (palestre, campi sportivi, piscine). Infine, lo sviluppo dell’economia innestò un processo di crescita autonomo, sostenuto dall’espansione del settore dei servizi. I rami di produzione che più contribuirono alla crescita dell’economia ticinese in questo periodo furono: l’edilizia e il genio civile, il turismo, le banche, i trasporti e l’artigianato dell’automobile. Il raggiungimento della piena occupazione Fino alla seconda guerra mondiale, il Cantone Ticino era una regione che esportava mano d’opera. In altre parole, la domanda di lavoro della sua economia non bastava ad occupare tutti coloro che, nel Cantone, erano alla ricerca di un’occupazione. Dal 1850 al 1920 circa, l’esportazione di mano d’opera avveniva in due forme: – l’emigrazione definitiva in paesi d’Oltre Oceano – l’emigrazione stagionale Dal 1920 in poi, l’emigrazione definitiva non è più importante perché gli Stati Uniti introducono le loro leggi sul contingentamento dell’immigrazione e perché in Argentina comincia la parabola discendente che porterà questa economia, che fu, all’inizio del secolo XX°, tra le prime del mondo, praticamente al fallimento verso la fine del secolo stesso. Continua invece, fino al 1937 circa, l’emigrazione stagionale, ostacolata però, nel corso degli anni trenta, dalla crisi mondiale. In cifre si può ricordare che l’emigrazione stagionale, che, verso il 1870, coinvolgeva più di 5'000 persone (ossia quasi il 10% della popolazione attiva del Cantone di allora) cominciò a diminuire con lo sviluppo del Cantone, nel periodo successivo all’apertura della galleria ferroviaria del S. Gottardo. Nel 1912, però, Parte prima: il paradiso 37 interessava ancora più di 4'000 persone. La crisi degli anni trenta ridusse le possibilità di lavoro anche per gli emigranti stagionali. Nel 1935, il loro numero si ridusse a circa 1'700 per risalire però di nuovo a 3'000 unità nel 1940. Finita la seconda guerra mondiale, il numero dei lavoratori stagionali diminuì rapidamente e si assestò sulle poche centinaia (sicuramente meno dell’1% della popolazione attiva). Si trattava per la maggior parte di persone che svolgevano stages o restavano comunque per periodi di breve durata in aziende di Oltre S. Gottardo. La domanda di lavoro interna, in forte aumento, superò rapidamente l’offerta interna (si veda Viscontini, 2005). La piena occupazione interna essendo stata realizzata, verso la metà degli anni cinquanta del XX° secolo, cominciò a diventare importante l’immigrazione di lavoratori stranieri, sia di lavoratori residenti (magari solo per qualche mese come gli stagionali), sia di lavoratori frontalieri. I disoccupati, d’altra parte, non superavano più il centinaio di unità e restarono a quota bassa fin verso la metà degli anni settanta. Questo perché, da un lato, l’assicurazione sulla disoccupazione (base del censimento dei disoccupati) non era generalizzata, e, d’altro lato, perché la richiesta di manodopera era sempre sostenuta. Di conseguenza il Ticino non solo poté arrestare l’emigrazione dei suoi lavoratori, ma, ben presto, diventò tributario di altri paesi in materia di manodopera. I lavoratori stranieri (frontalieri compresi) passarono così da 8'900 unità nel febbraio del 1950 a 40'700 nel febbraio del 1964, con un tasso di aumento annuale pari al 12.4%. I rilevamenti di agosto, che cominciarono solo nel 1956, mostrano un aumento da 21'200 unità nel 1956 a 54'600 nel 1963, con un tasso di aumento annuale pari al 14.4%. Stando ai dati pubblicati dal prof. Kneschaurek, nel suo studio sullo stato dell’economia ticinese, il rapporto tra lavoratori immigrati (frontalieri compresi) e popolazione attiva del Cantone aumentò in modo molto rapido a partire dal 1950, passando, in poco più di 10 anni, dal 7% circa al 35% (Kneschaurek, 1964). Ciò che colpisce in questa evoluzione non è solo la facilità con la quale l’obiettivo del pieno impiego ha potuto essere realizzato, ma anche il modo nel quale l’economia ticinese ha saputo trasformare quello che era uno dei suoi handicap più gravi (l’eccesso di offerta di manodopera) in uno dei suoi vantaggi di localizzazione essenziale. Si può in conclusione affermare che, nonostante l’importanza degli investimenti, privati e pubblici, realizzati dal 1945 al 1975, la crescita dell’economia ticinese (come del resto quella dell’economia svizzera) di questo periodo resta contraddistinta dal ricorso a processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Si investiva allora per creare posti di lavoro, non per ridurli! 38 Dal paradiso al purgatorio Il recupero infrastrutturale Come abbiamo già osservato, gli investimenti costituirono la componente della domanda globale che crebbe più rapidamente, durante il periodo del paradiso della crescita. Il tasso di aumento annuale degli investimenti, in questo periodo si aggirò attorno al 10%. Il consumo privato, altra componente importante della domanda globale della regione, non aumentò invece, nel periodo in esame, che a un tasso annuale pari al 4-4.5%. La seconda osservazione importante che riguarda l’evoluzione degli investimenti è che gli stessi furono praticamente concentrati nel settore dell’edilizia. L’aumento del capitale reale a disposizione dell’economia ticinese si realizzò quindi, in questo periodo, più nella forma di infrastrutture (di trasporto, energetiche, ospedaliere, formative e scolastiche, assistenziali, amministrative, ecc.) che di acquisti di macchine e sistemi elettrici e elettronici per attrezzare gli impianti di produzione delle aziende private. Dal 1950 al 1975, in parallelo alla crescita, l’economia ticinese recupera così il suo ritardo infrastrutturale. Figura 2: Evoluzione degli investimenti privati e pubblici in Ticino Fonte: per il periodo 1950-1961 Kneschaurek F. (1964) , per il resto del periodo la stima è dell’autore Da questo punto di vista gli investimenti più importanti sono stati realizzati: – nel settore energetico con la realizzazione degli impianti di Blenio e Maggia – nel settore stradale con tutte le migliorie della rete stradale realizzate in quel periodo e l’avvio dei lavori per l’autostrada Chiasso-Gottardo Parte prima: il paradiso – 39 nel settore immobiliare: costruzione di appartamenti e case ( importanti gli appartamenti e le case di vacanza), costruzione di immobili a destinazione amministrativa, scolastica, industriale e commerciale. Osserviamo infine che l’investimento pubblico, pur essendo, durante la maggior parte del periodo, meno importante di quello privato, ha avuto una parte significativa nell’incentivare la crescita dell’economia ticinese e questo per due ragioni: – in primo luogo perché, all’inizio del periodo, dette alla crescita un impulso altrettanto importante dell’investimento privato; – in secondo luogo, perché durante questo periodo l’investimento pubblico giocò un ruolo anticiclico, contribuendo a smorzare l’impatto della recessione sia nella seconda metà degli anni sessanta, sia nel 1975. Pensiamo sia utile rilevare, prima di chiudere questo paragrafo dedicato agli investimenti, che il tasso elevato di investimento di questo periodo fu consentito dall’afflusso dall’esterno di ingenti capitali alla ricerca di un collocamento in Svizzera (Rossi A., 1975). Questo afflusso fu all’origine della piazza bancaria e finanziaria ticinese e, fino al 1972 permise lo sviluppo di una bolla speculativa importante nel settore immobiliare. La stessa fu bloccata e venne fatta esplodere dai provvedimenti anticongiunturali della Confederazione, adottati proprio in quell’anno. Senza ombra di dubbio le misure di freno agli investimenti nel settore immobiliare devono essere aggiunte al ritorno ai cambi variabili e agli choc petrolieri nella lista dei fattori che misero fine al paradiso della crescita in Ticino. La terziarizzazione dell’economia Lo sviluppo del settore terziario si manifestò, nelle economie avanzate, nel periodo di crescita che seguì la seconda guerra mondiale. In Svizzera, il settore dei servizi diventò il primo settore per importanza del suo impiego verso la metà degli anni sessanta del secolo XX°. I tre settori di produzione di un’economia I rami di produzione di un’economia vengono raggruppati nelle analisi economiche, come pure in molte statistiche, per comodità di esposizione, in tre settori: – il primario che comprende le attività legate alla natura come l’agricoltura, la foresticoltura e la pesca – il secondario che comprende le miniere, la produzione di energia, le attività manifatturiere e l’edilizia 40 Dal paradiso al purgatorio – il terziario che è il settore dei servizi (attività che forniscono un prodotto immateriale). Tra i servizi più importanti, almeno in termini di impiego, citiamo le attività commerciali, le attività di trasporto, l’industria della gastronomia e alberghiera, le attività finanziarie, le amministrazioni, le attività di formazione e le attività sanitarie e sociali. Nel corso del processo secolare di sviluppo di un’economia, la sua struttura di produzione per grandi settori si modifica, seguendo una tendenza che si manifesta praticamente in tutte le economie. All’inizio del processo di sviluppo, il settore di produzione più importante è il primario. Più tardi, con la rivoluzione industriale, si affermano le attività manifatturiere. Infine, la struttura di produzione si evolve in direzione dei servizi, ossia del settore terziario. La terziariazzione comporta una dematerializzazione della produzione che toglie importanza al trasporto e alle tariffe doganali, come pure ad altri costi basati sul peso o sul valore materiale del prodotto, mentre dà importanza all’informazione e alla conoscenza scientifica. Anche in Ticino la trasformazione settoriale che portò al prevalere del settore terziario si produsse nel corso degli anni sessanta del secolo scorso. Lo provano i due grafici che seguono. Figura 3: Evoluzione della struttura dell’occupazione per grandi settori di produzione in Ticino, dal 1950 al 1970. Fonte: Censimenti federali della popolazione Parte prima: il paradiso 41 Mentre la quota del primario nella popolazione attiva diminuì fortemente, la quota del terziario diventò preponderante. Il settore secondario riuscì, fino al 1970, a mantenere la sua quota. In seguito perse una parte della sua importanza a favore del terziario. Osserviamo che all’abbandono dell’agricoltura e allo sviluppo del settore dei servizi si accompagnarono due fenomeni altrettanto importanti a livello della società, ossia: – la mobilità sociale, risoltasi in una generazione, grazie alla generalizzazione degli studi superiori. Il figlio del contadino diventò così direttore di banca; – e l’urbanizzazione della popolazione con conseguente spopolamento dei villaggi di montagna e delle valli. I posti del terziario si concentrarono nei quattro agglomerati di Bellinzona, Locarno, Lugano e Mendrisio/ Chiasso. 7. L’economia ticinese in paradiso: il miglioramento delle condizioni di vita Se per l’economista le caratteristiche importanti del periodo di forte crescita sono le trasformazioni conosciute dal potenziale di produzione, per l’uomo della strada la conseguenza più importante della crescita sostenuta è stata il miglioramento del suo benessere materiale. I tassi di aumento annuale del reddito pro-capite, della tabella 1, offrono una prima illustrazione di questo apporto di ricchezza. Nel periodo dal 1945 al 1975 il tasso di aumento del reddito pro-capite è stato però più forte di quello medio, registrato per il terzo ciclo di Kondratieff nella tabella 1. In termini reali, ovverossia eliminando l’effetto dell’aumento dei prezzi, il tasso di crescita annuo del reddito pro-capite nei primi trenta anni del dopoguerra è stato pari al 6% circa. Questo significa che, durante il periodo considerato, il potere di acquisto del ticinese medio si raddoppiava ogni 12 anni. Grazie a questo rapido aumento del potere di acquisto divenne possibile per i ticinesi soddisfare consumi che, prima della seconda guerra mondiale, erano per la maggioranza di loro certamente inaccessibili. Se è vero che il cambiamento forse più evidente, in termini di benessere, fu quello che si realizzò nella dieta quotidiana del ticinese medio, altrettanto importante fu l’affermarsi di un nuovo comportamento nella spesa, determinato per l’appunto, dal forte aumento del potere di acquisto di cui il ticinese poteva ora disporre. L’aumento nel potere di acquisto permette al ticinese di orientarsi verso l’acquisto di beni di consumo durevoli (ma non la casa, un bene che, nel dopoguerra, diventa rapidamente troppo caro per il ticinese oramai inurbato (si veda Rossi A., 1985)). Gli elettrodomestici, il telefono, la radio e, più tardi, la televisione, il giradischi, la macchina fotografica e, più tardi, la cinepre- 42 Dal paradiso al purgatorio sa sono i prodotti che normalmente vengono citati quando si vogliono indicare gli esempi più conosciuti di questo nuovo orientamento della spesa. Per quel che riguarda l’entità delle somme spese, però, gli esempi più importanti della nuova inclinazione all’acquisto di beni durevoli sono: – il titolo universitario per i figli – l’automobile – le vacanze La mobilità sociale Il periodo di forte crescita, dal 1940 al 1975, è anche un periodo di mobilità sociale sostenuta. I figli degli agricoltori delle valli e della montagna, grazie all’aumentato potere di acquisto dei genitori, possono accedere agli studi superiori e diventare, in un’economia che si terziarizza rapidamente, quadri direttivi o liberi professionisti. Il processo dura diversi anni. Tuttavia l’ascensione sociale si realizza nel giro di una generazione. La figura 4 illustra lo sviluppo di questo processo al momento in cui incomincia, ossia al momento dell’accesso agli studi universitari. Il tasso di aumento annuale del contingente di studenti universitari è molto vicino al tasso di aumento annuale del reddito pro-capite durante il periodo analizzato. Dal 1959 al 1975, in meno di venti anni dunque, il numero degli studenti ticinesi negli atenei svizzeri si moltiplica per quattro. Il numero delle Figura 4: Evoluzione del numero degli studenti ticinesi negli atenei svizzeri, dal 1950 al 1975 Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate Parte prima: il paradiso 43 donne ticinesi che studiano si moltiplica, dal 1960 al 1975, per otto. Osserviamo che il numero degli studenti universitari ticinesi comincia ad aumentare verso la fine degli anni cinquanta e ad accelerare il ritmo di aumento nella seconda metà degli anni sessanta. Le conseguenze in termini di mobilità sociale negli studi sono straordinarie: mentre nel 1950 solo 1 ticinese su 25 di una data classe d’età arrivava all’università, nel 1975 questo rapporto era sceso a 1 su 8. Con un titolo universitario in tasca, ovviamente, il giovane ticinese e, a partire da metà anni sessanta, la giovane ticinese potevano aspirare a una carriera professionale molto più importante di quella che avevano potuto fare i loro genitori. L’aumento del numero dei laureati mette a disposizione dell’economia cantonale un’offerta di lavoro altamente qualificata che la aiuterà nel procedere del processo di terziarizzazione. Ma all’inizio del fenomeno della mobilità sociale attraverso gli studi universitari, negli anni sessanta, i laureati ticinesi preferivano entrare al servizio dello Stato invece di operare per le aziende private del Cantone. Queste, a loro volta, erano obbligate a far ricorso a giovani qualificati di Oltre S. Gottardo per soddisfare il loro bisogno in quadri. Si trattava di una realtà riscontrabile soprattutto nel settore industriale. Tuttavia, anche tenendo conto di questa “distorsione” tra offerta e domanda di qualifiche bisogna riconoscere che il progresso compiuto in Ticino, dalla fine degli anni cinquanta dello scorso secolo al 1975, in termini di mobilità sociale, non ha precedenti nella storia del Cantone ed è eguagliato solo dal progresso manifestatosi nei venticinque anni seguenti. Ricordiamo da ultimo che il merito di questa promozione è da suddividere tra i privati che si assunsero il finanziamento degli studi dei loro figli, sopportando sicuramente grandi sacrifici, e lo Stato che, a partire dalla metà degli anni sessanta e fino alla fine del secolo mise a disposizione borse di studio generose. Il fenomeno della motorizzazione privata Prima della seconda guerra mondiale circolavano in Ticino solo un paio di migliaia di automobili. La vera e propria ondata di motorizzazione, con automobili private, cominciò, come si può dedurre dal grafico che segue, nella seconda metà degli anni cinquanta ed è quindi da attribuire allo sviluppo del benessere materiale dei ticinesi. Mentre, nel 1950, solo una famiglia su nove, in Ticino, possedeva l’automobile, nel 1975, il numero delle automobili in circolazione era pari al numero di famiglie. L’automobile era diventato un mezzo di trasporto generalizzato. 44 Dal paradiso al purgatorio Figura 5: Evoluzione del numero di automobili in circolazione in Ticino, dal 1950 al 1975 Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate L’aumento del numero di automobili in circolazione è stato rapidissimo. Il tasso di aumento annuale fu, nel periodo analizzato, superiore al 10%. Con la generalizzazione dell’automobile come mezzo di trasporto famigliare, aumentò naturalmente anche la mobilità dei ticinesi. L’automobile permise infatti sia l’intensificazione dei movimenti pendolari, sia la mobilità del tempo libero (acquisti settimanali nei supermercati, vacanze). La mobilità del tempo libero aumentò anche perché, verso la metà degli anni sessanta, grazie a una riduzione del tempo di lavoro settimanale, per una larga parte della manodopera fu possibile ottenere il sabato libero. I movimenti pendolari Si tratta di flussi giornalieri di lavoratori che esercitano la propria attività in un comune diverso dal comune di domicilio. Essi sono particolarmente importanti all’interno degli agglomerati urbani, ossia di quelle regioni formate dalla città che, in un’economia terziarizzata, rappresenta normalmente il centro dell’attività di lavoro e da diversi comuni suburbani nei quali si sviluppano soprattutto le abitazioni dei lavoratori. Mentre nel 1950 il numero dei pendolari era ancora relativamente limitato, nel 1970, in alcuni comuni suburbani, da un terzo alla metà della popolazione attiva residente svolgeva la sua attività lavorativa in un altro comune, in particolare nel centro dell’agglomerato. Parte prima: il paradiso 45 Il rovescio della medaglia della motorizzazione privata generalizzata è rappresentato dai suoi costi sociali. Nel corso del periodo in esame, il numero degli incidenti sulle strade del Ticino si moltiplicava per 4 e il numero dei morti si moltiplicava per 5. Nel 1970, i morti in incidenti stradali erano 100. Per fortuna questa cifra cominciò in seguito a diminuire, tanto che oggi, nonostante l’aumentato volume di traffico, il numero dei morti è annualmente inferiore alle 30 unità. Il contributo della circolazione di veicoli all’inquinamento dell’aria, invece, non ha cessato di aumentare almeno fin verso la fine del secolo. Solo nel corso degli ultimi anni si è potuto stabilizzare a un livello però ancora troppo alto. Il tempo libero È il bene che contraddistingue l’apparizione dell’agiatezza in ogni società. Grazie all’incremento della produttività, che si è manifestato durante tutto il periodo della crescita paradisiaca, la durata della settimana lavorativa diminuì. La diffusione dei contratti collettivi di lavoro aiutò a generalizzare dapprima le due, poi le tre settimane di vacanza pagate. Le attività del tempo libero diventarono quindi importanti. Sia le attività di formazione continua, la cui diffusione verrà facilitata dalla creazione di scuole e programmi specialmente pensati per l’insegnamento agli adulti, sia le attività sportive, sia ancora le vacanze, cominciano ad occupare un posto importante nella vita quotidiana del ticinese e nel budget della sua famiglia. Figura 6: Evoluzione della quota di spesa famigliare dedicata all’educazione e al tempo libero Fonte: contabilità domestiche riportate nell’annuario statistico cantonale Ancora non siamo arrivati all’inversione nei valori dell’individuo che si manifesterà qualche anno più tardi: l’attività lavorativa continua a costituire, con la famiglia, il centro degli interessi dei ticinesi. Tuttavia il tempo libero e le sue attività acquistano progressivamente importanza. Lo 46 Dal paradiso al purgatorio testimoniano anche gli investimenti che l’ente pubblico, in particolare i comuni, cominciano a dedicare alle infrastrutture per lo sport e il tempo libero, nel corso degli anni sessanta. Di uguale importanza, almeno rispetto alle risorse disponibili, sono gli investimenti dei ticinesi per il riattamento di proprietà immobiliari nelle valli e in montagna che vengono poi utilizzate dalla famiglia come residenze secondarie per i soggiorni estivi e di fine settimana. Alla transumanza, vita di sforzi e di sacrifici dei secoli precedenti, i ticinesi della seconda metà del secolo XX° sostituiscono la mobilità del tempo libero. I ticinesi approdano così, dopo il 1960, nella società dei consumi e del benessere. 8. L’intervento del Cantone nel processo di crescita La forte crescita del periodo 1950-1975, il periodo del paradiso economico, fu determinata, in Ticino come in tutti gli altri Cantoni svizzeri e nei paesi dell’Europa occidentale, secondo il parere quasi unanime degli esperti, dal rapido aumento di tutte le componenti della domanda globale. Come abbiamo già visto, la spesa dello Stato è una di queste componenti. Essa assume un’importanza particolare perché può essere utilizzata in funzione anticiclica. Quando la congiuntura economica si indebolisce, lo Stato può, aumentando il debito pubblico, incrementare la propria spesa, cercando di mantenere così il livello della domanda globale per attenuare la recessione. Poiché il Cantone svizzero dispone di un margine assai largo di autonomia finanziaria, appare interessante esaminare come nel caso del Canton Ticino si sia fatto uso della spesa dello Stato a fini di politica di controllo congiunturale e di stimolo alla domanda globale. L’intervento dello Stato per favorire la crescita o per controllarla può però esprimersi anche attraverso la sua politica fiscale. Di nuovo, in uno Stato federalista come la Svizzera, i Cantoni dispongono di un buon margine di autonomia nel disegnare la loro politica fiscale. È quindi opportuno estendere l’esame della gestione della domanda globale da parte del Cantone anche alla politica fiscale e al suo possibile impatto sui consumi e sugli investimenti privati. Infine il Cantone ha attuato, nel periodo di forte crescita in esame, anche una politica di sostegno e di rafforzamento del potenziale di produzione, con strumenti e risultati che pure conviene esaminare. La gestione della componente pubblica della domanda globale Gli anni dal 1950 al 1975 sono anni in cui la componente pubblica della domanda globale si sviluppa in modo molto rapido. Nella figura 7 abbiamo riportato l’evoluzione della spesa di funzionamento del Cantone e quella del Parte prima: il paradiso 47 debito pubblico consolidato dal 1950 al 1975. Durante il periodo analizzato, le due curve si sono sviluppate in modo parallelo. Figura 7: Evoluzione della spesa e del debito del Cantone dal 1950 al 1975 Fonte: Pellanda, 1988 Il tasso di aumento annuale della spesa dello Stato fu del 7.5%. Osserviamo però che questo tasso si riferisce ai valori nominali della spesa pubblica e non – come nel caso del tasso di crescita del reddito cantonale – a valori reali. Il 1962 rappresenta un anno chiave nella gestione finanziaria dello Stato in quanto, da un lato, a partire da questa data, il tasso di crescita della spesa e del debito pubblico aumentano e, dall’altro, come si può desumere dal grafico 7, l’entità della spesa dello Stato supera quella del debito pubblico. Come negli altri Cantoni e negli altri paesi europei, l’aumento della spesa dello Stato fu forte specialmente nel settore sociale (aumento del 17% annuale) anche se l’economia, in questo periodo, funzionava in regime di piena occupazione. Pure l’educazione vide i mezzi a sua disposizione aumentare a un tasso superiore alla media (11.7% annuale), mentre l’economia pubblica (agricoltura e lavoro) fu, in quel periodo, il dipartimento la cui spesa aumentò di meno (6.1%). Osserviamo ancora che, con tutta probabilità, la spesa dei comuni aumentò pure a un ritmo sostenuto contribuendo così a rafforzare la componente pubblica della domanda globale. Contemporaneamente però aumentava la quota della spesa pubblica nel reddito cantonale – qui calcolata come rapporto tra la somma delle spese del 48 Dal paradiso al purgatorio Cantone e dei comuni e il reddito cantonale – che passava dal 21-22% degli anni cinquanta al 28-29% dell’inizio degli anni settanta. Figura 8: Evoluzione della quota* del Cantone nel reddito cantonale * In questo capitolo la “quota del Cantone” nel reddito cantonale è il rapporto tra la somma delle spese del Cantone e dei comuni e il reddito cantonale Fonte: calcoli dell’autore La politica fiscale La tassazione del reddito e della sostanza delle persone fisiche e quella dell’utile e del capitale delle persone giuridiche hanno sicuramente influito sull’evoluzione delle componenti private della domanda globale (consumi e investimenti). È importante ricordare, a questo proposito, che il Cantone Ticino ha introdotto solo all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso la tassazione diretta del reddito. Durante il periodo di forte crescita economica, il ritmo di aumento del gettito delle imposte dirette è stato molto rapido. Il tasso di aumento annuale del gettito fiscale è stato del 12.2%, mentre il reddito cantonale, in termini nominali, è aumentato annualmente solo del 7.8%. Anche l’incidenza delle imposte nel reddito cantonale è quindi aumentata nel corso del periodo analizzato. Limitando la nostra analisi al gettito del Cantone possiamo osservare che l’incidenza di questi nel reddito cantonale è passata dal 3.3% nel 1950 all’8.5% nel 1973. Questa evoluzione è da attribuire all’effetto della cosiddetta “progressione a freddo”. Il persistere di questo effetto, nonostante le frequenti revisioni della tabella delle aliquote di imposizione doveva portare, verso la metà degli anni settanta, alla richiesta, espressa in maniera Parte prima: il paradiso 49 sempre più forte, da parte delle organizzazioni dei contribuenti e dei partiti di destra di rivedere il sistema di imposizione per cercare e eliminare, con un adattamento automatico delle aliquote, gli effetti del fenomeno che, di fatto, veniva ad incidere negativamente sul potere di acquisto dei consumatori-contribuenti. La progressione a freddo La progressione a freddo è l’effetto positivo che l’inflazione ha sul gettito delle imposte sul reddito, quando le aliquote di imposizione del reddito sono progressive, il reddito aumenta e non esiste un meccanismo per eliminare questo effetto. L’aliquota fiscale di una determinata classe di reddito è il rapporto tra l’imposta che questa classe di reddito paga e il suo totale di reddito imponibile. Per esempio, nella tabella che segue, l’aliquota al tempo t, per la classe di reddito superiore ai 50'000 fr. di reddito imponibile si ottiene dividendo il gettito fiscale (in 1'000 fr.) di questa classe di reddito per il reddito imponibile (in 1'000 fr.) della classe, ossia 500/5000 = 10%. Un contribuente con un reddito imponibile di fr. 60'000, con un’aliquota fiscale del 10%, pagherebbe dunque fr. 6'000 di imposta. Per verificare l’effetto della progressione a freddo abbiamo costruito l’esempio che segue. Classi di reddito imponibile Tempo t >50’000 <50’000 totale Tempo t+5 >50 <50 Totale Reddito imponibile totale in 1'000 fr. Aliquota Gettito in 1'000 fr. 5000 10000 15000 10% 5% 500 500 1000 8000 11000 19000 10% 5% 800 550 1350 Per effetto delle aliquote diverse di imposizione dell’aumento del reddito, determinato dall’inflazione, e dello spostamento del reddito imponibile verso la classe più elevata, il tasso di aumento del gettito è superiore al tasso di aumento del reddito. Nel nostro caso, mentre il reddito nei 5 anni è aumentato del 26.6%, da 15 a 19 milioni, il gettito è aumentato del 35%, da 1 milione a 1.35 milioni. Per evitare che il gettito aumenti troppo rapidamente in periodi di inflazione è necessario correggere le aliquote in modo da adattarle alle modificazioni. 50 Dal paradiso al purgatorio Sull’incidenza delle imposte sulle persone giuridiche esistono studi dell’Ufficio delle Ricerche Economiche che proponevano, negli anni sessanta dello scorso secolo, un alleggerimento della tassazione dell’utile e del capitale per migliorare il grado di attrattiva del Ticino rispetto al resto dei Cantoni svizzeri. Tenuto conto dei risultati raggiunti in materia di crescita, nel corso del periodo analizzato, non pensiamo però che la tassazione delle persone giuridiche abbia costituito un ostacolo alla localizzazione di aziende o abbia compromesso in qualsiasi modo le possibilità di sviluppo dell’economia ticinese. È infine da rilevare che l’aumento rapido del gettito fiscale è stato alla base dell’estensione dei servizi dello Stato e dei suoi investimenti. Poiché questa evoluzione, dovuta sostanzialmente all’effetto della progressione a freddo, si ritrova nei conti degli altri Cantoni, dei comuni e della Confederazione, non possiamo escludere che la stessa abbia contribuito in modo significativo al surriscaldamento dell’economia. Misure per far crescere e per migliorare il potenziale di produzione Durante tutto il periodo di forte crescita, il Cantone si attivò per aumentare l’attrattiva del Ticino come localizzazione di aziende del settore manifatturiero. Già all’inizio degli anni cinquanta viene introdotta una legge per la promozione di nuove iniziative nel settore industriale. La misura più importante, prevista da questa legge, era certamente l’esenzione dal pagamento delle imposte comunali e cantonali per un certo periodo di tempo. Importante fu pure l’intervento del Cantone con la partecipazione al capitale dell’Azienda Elettrica Ticinese, creata nel 1958, e con la costituzione dell’Ente Ospedaliero Cantonale, nel 1978. Ma forse la misura che dette al Cantone il maggior vantaggio di localizzazione, rispetto alla maggioranza dei Cantoni svizzeri, fu la possibilità, dopo il 1964, vale a dire dal momento in cui la Confederazione cominciò a contingentare l’immigrazione di lavoratori, di poter ricorrere, senza limitazioni, alla manodopera frontaliera. In seguito a questa misura, il numero dei lavoratori frontalieri aumentò da circa 11'000, nel 1960, a 23'250 nel 1970. In un periodo nel quale la crescita della produzione era assicurata dall’estensione dell’occupazione in misura significativa, la possibilità di far ricorso ai frontalieri senza limitazioni, o quasi, costituì un indubbio vantaggio comparativo per la localizzazione in Ticino di aziende che ricorrevano in maniera intensa al fattore lavoro. In una prospettiva di lungo termine, però, dobbiamo riconoscere che fu un vantaggio fuggevole perché, tra l’altro, non ci permise di recuperare in nessun modo il ritardo in termini di produttività Parte prima: il paradiso 51 per addetto che l’economia del Cantone già aveva nei confronti del resto della Svizzera (si veda a questo proposito Baggi M., 1991). 9. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia nel periodo del paradiso della crescita Gli ottimi risultati in termini di crescita e di livello occupazionale, ottenuti durante il periodo de “les trentes glorieuses” furono conseguiti grazie allo sforzo continuo dello Stato per garantire la stabilità e lo sviluppo dell’economia. Scrivendo questo non si vuol affermare che, se dopo il 1975, le prestazioni in termini di crescita delle economie nazionali dei paesi europei siano peggiorate è perché si sono affermate, a livello politico, forze che si opponevano all’intervento dello Stato nell’economia. Sarebbe troppo facile attribuire i mali della nostra e di altre economie europee alle coalizioni di destra che, dalla fine degli anni settanta, si sono succedute al loro governo e alle loro ricette di politica economica. Non si può però nemmeno negare l’evidenza, ossia che durante il periodo nel quale le politiche di stabilizzazione di breve periodo di tipo keynesiano furono applicate, i governi di molte nazioni avanzate riuscirono a soddisfarne gli obiettivi principali, ossia – il raggiungimento della piena occupazione – un tasso di crescita annuale del PIL sostenuto – l’equilibrio della bilancia dei pagamenti – un tasso di inflazione relativamente basso Questo è vero per lo meno per gli anni cinquanta e gli anni sessanta del XX° secolo. Con l’abbandono dei cambi fissi, invece, vennero meno, almeno in Svizzera, le condizioni perché il paradiso economico della crescita potesse continuare. Nel corso degli anni settanta si aprì un periodo di incertezze caratterizzato dal fenomeno della “stagflazione”, ossia da una situazione nella quale l’inflazione si manifestava anche se il tasso di crescita era debole e l’economia stagnava. La politica keynesiana non riusciva a combattere l’inflazione e, d’altra parte, non sembrava più in grado di rilanciare la crescita dell’economia. Ma torniamo agli anni gloriosi. Senza tema di poter essere smentiti possiamo sostenere che, in termini di obiettivi economici centrati, gli anni dal 1945 al 1975 furono gloriosi anche per l’economia svizzera e per quella del Ticino. Pensiamo che, riandando questo periodo, si possa parlare a giusto titolo di “paradiso perduto”. Una larga maggioranza di economisti era convinta allora che l’intervento dello Stato nell’economia fosse necessario, almeno in relazione alla politica di stabilizzazione di breve periodo. Ma alcuni andavano anche più in là. 52 Dal paradiso al purgatorio Essi sostenevano, e non tutti erano economisti di sinistra, che lo Stato, nel pieno rispetto delle leggi del mercato, doveva, di fronte al perdurare del fenomeno di crescita sostenuta, dotarsi addirittura di una politica economica di medio e lungo periodo (che fu chiamata, a seconda delle esperienze, politica strutturale, politica di pianificazione indicativa, politica di programmazione), che fosse capace di garantire la perpetuazione di questo stato di grazia e a risolvere i grossi problemi che la crescita determinava a livello di consumi sociali e di offerta di beni pubblici (Kneschaurek, 1965). Per dare al lettore del 2005 la possibilità di rendersi conto di quali erano questi problemi, basterà ricordargli che, intorno al 1960, la popolazione residente cresceva a un tasso superiore all’1% annuale, per effetto di un saldo migratorio molto importante. Alle centinaia di migliaia di lavoratori stranieri che affluivano in Svizzera e, più tardi, ai loro famigliari, occorreva assicurare un tetto e i servizi pubblici di base (educazione, sanità, trasporti). Per far fronte a questi problemi la Svizzera dovette per esempio, nel corso degli anni sessanta, raddoppiare la costruzione di appartamenti e di case, avviare la realizzazione della rete di autostrade, avviare la realizzazione della rete di stazioni di depurazione delle acque, assicurare un approvvigionamento energetico che si era moltiplicato per tre. Si trattava di grossi investimenti con forte partecipazione dello Stato. In un’inchiesta svolta, all’inizio degli anni sessanta, dall’Istituto di Jan Tinbergen, un economista olandese, convinto sostenitore della pianificazione economica indicativa, e titolare, più tardi, del premio Nobel di economia, si accertò che ben 19 paesi sviluppati e in via di sviluppo, non comunisti, dichiaravano di sostenere la loro politica economica con una pianificazione a medio termine (Tinbergen, 1964). Se accenniamo a questa situazione in materia di pianificazione dell’economia in paesi che erano ben lontani dal modello di pianificazione sovietico è anche perché la pianificazione economica indicativa, nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso, fu al centro di un dibattito politico, condotto in più paesi europei sulla necessità per lo Stato di guidare lo sviluppo dell’economia nazionale nel lungo termine. In Francia, si passò dalle parole ai fatti con l’introduzione dei piani quinquennali ( il primo fu il piano 1948-1952) che avevano come obiettivi non solo il mantenimento di un tasso di crescita elevato a livello nazionale, ma anche la correzione delle ineguaglianze esistenti all’interno del territorio francese e l’eliminazione del ritardo che l’economia francese aveva accumulato nel processo di industrializzazione. (Lajugie e altri, 1985). In Italia, le proposte di programmazione Parte prima: il paradiso 53 economica nazionale restarono a livello di discussione (Saraceno, 1963; Lombardini, 1967). In Svizzera di pianificazione o programmazione dell’economia a livello nazionale non se ne parlò mai. Ma in questa direzione si muoveva il progetto di “politica della crescita” elaborato da un gruppo di studenti dell’università di S. Gallo, sotto la direzione del prof. F. Kneschaurek, nel 1964. La discussione di questo interessante progetto restò però confinata alle aule universitarie e a qualche circolo di illuminati come, per fare un esempio, la Lega del S. Gottardo (Kneschaurek, 1965). L’esperienza del prof. Kneschaurek come delegato ai problemi economici, ossia consulente diretto del Consiglio federale per i problemi della crescita di medio e lungo termine, fu molto breve. Tuttavia la discussione avviata a S. Gallo è interessante dal punto di vista storico perché ebbe ripercussioni in Ticino, non solo in forza dell’attività della Lega del S. Gottardo, ma soprattutto perché alcuni esponenti del partito liberale-radicale, ispirati dalla discussione in atto in Italia, chiesero al governo cantonale di verificare se, in Ticino, esistevano le premesse per affidare allo Stato il compito di pianificare l’economia. Non si trattava di abbandonare l’economia di mercato e le sue leggi, per sostituirle un sistema pianificato di tipo sovietico. Si trattava unicamente di esaminare cosa poteva fare lo Stato per anticipare e per facilitare la soluzione dei problemi posti dalla rapida crescita economica in atto. Il governo ticinese accettò questa proposta e incaricò il professor Kneschaurek – un economista di origini ticinesi – di studiare il problema e presentare delle proposte concrete. Il perito del Consiglio di Stato consegnò le sue conclusioni nel 1964, in un rapporto che è ancora interessante leggere, anche se, con il senno di poi, certe sue affermazioni possono apparire come superate (Kneschaurek, 1964). La questione della crescita a medio e a lungo termine veniva trattata dal perito nei seguenti termini. “Il ritmo di crescita che l’economia svizzera potrebbe conseguire con le proprie risorse di lavoro e di capitale – vale a dire senza ulteriore aumento degli investimenti esteri e degli effettivi di manodopera straniera in Svizzera – si aggira sul 3-31/2% per anno nei confronti di oltre il 5%, nel periodo 1950-1963.” Senza l’apporto dall’esterno, quindi, il ritmo di crescita dell’economia svizzera rischiava di rallentarsi. Il rallentamento sarebbe stato anche maggiore per il Cantone perché, secondo il perito, in Ticino – le possibilità di reclutamento di manodopera erano nettamente inferiori a quelle della maggioranza dei Cantoni confederati, a causa del tasso di natalità molto basso; 54 – – – Dal paradiso al purgatorio il grado di qualificazione del potenziale lavorativo ticinese tendeva ad aumentare in misura inferiore a quello d’Oltre S. Gottardo; la struttura dell’industria, orientata verso attività che non hanno grandi possibilità, avrebbe determinato uno sviluppo inferiore alla media svizzera; l’economia disponeva di un coefficiente di capitale inferiore alla media svizzera, il che significava che 1 franco investito in Ticino rendeva, in termini di produzione netta (ossia reddito cantonale) meno che 1 franco investito Oltre S. Gottardo. Ma il perito non si limitava a esprimere critiche. Nel suo rapporto formulava anche raccomandazioni, in un capitolo dal titolo “Le condizioni per accelerare lo sviluppo economico nel Ticino”. Per il perito del Consiglio di Stato occorreva rafforzare sia il contributo del fattore di produzione “lavoro”, sia quello del fattore di produzione “capitale” alla crescita dell’economia. Dapprima il prof. Kneschaurek considerava il contributo del fattore lavoro e suggeriva di recuperare manodopera ticinese emigrata perché, nel futuro, sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, per il Ticino, ottenere manodopera supplementare dall’estero. La realtà dello sviluppo del mercato del lavoro ticinese, dal 1965 al 2000, doveva smentire in pieno il professore su questo punto ma quasi unicamente per il fatto che il Ticino poté garantirsi la riserva inesauribile del frontalierato. Il secondo pacchetto di raccomandazioni del perito concerneva la produttività dell’economia che andava migliorata. Bisognava in particolare aumentare il capitale investito nei processi di produzione con una politica più aperta di credito da parte delle banche ma, anche, con misure fiscali che favorissero l’autofinanziamento delle aziende. Nella stessa direzione andavano le proposte concernenti la promozione, con misure fiscali adeguate, del risparmio privato e la raccomandazione di aumentare gli investimenti nelle costruzioni stradali e nella produzione di energia (realizzando nientepopodimeno che una centrale termonucleare). Ma non solo il capitale materiale andava incrementato, anche quello immateriale doveva ricevere molte più attenzioni. Il prof. Kneschaurek raccomandava così la democratizzazione degli studi, la riforma dell’apparato scolastico e dei sistemi e programmi di insegnamento, nonché la riforma dell’orientamento professionale, incluso l’orientamento pre-accademico. Come si può dedurre da questo sintetico riassunto delle tesi e delle raccomandazioni del suo rapporto, due erano le preoccupazioni dominanti del perito: Parte prima: il paradiso 55 – la prima era che il periodo di crescita sostenuta si stava avvicinando alla fine e che non sarebbe continuato se lo Stato non si fosse fatto promotore di una politica economica favorevole alla crescita; – la seconda era che questo compito, già difficile per gli altri Cantoni, lo diventava anche di più per il Ticino, per una serie di fattori strutturali sfavorevoli e perché il Ticino doveva recuperare un ritardo di sviluppo notevole sulla media svizzera. Per queste ragioni il Cantone doveva, con gli strumenti limitati di cui disponeva e rispettando il primato dell’iniziativa privata, cercare di promuovere la crescita. Altrimenti il futuro dell’economia sarebbe stato meno roseo. Per la Svizzera, Kneschaurek parlava di un passato immediato con un tasso di crescita del 5% e di un futuro con un tasso di crescita pari al 3-31/2%. Per il Ticino, il tasso di crescita, dal 1950 al 1963, era stato del 4.8%. Dal 1963 al 1995, il tasso scese al 2.8%. Lo Stato, nonostante i suoi sforzi, non riuscì quindi ad impedire il rallentamento del processo di crescita nel lungo termine. Le proposte del perito diedero la stura ad un lungo dibattito sulla programmazione economica, i cui risultati furono pubblicati dall’apposita commissione consultiva, nel 1968. Il rapporto della commissione non sembra aver lasciato grandi tracce nella politica di tutti i giorni del Cantone (Commissione consultiva, 1968). La sola eccezione è costituita dallo smilzo decretino, adottato molto più tardi dal Consiglio di Stato, su proposta dell’Ufficio delle Ricerche Economiche, che serve, ancora oggi, da base legislativa per la stesura del cosiddetto “rapporto degli indirizzi”; un esercizio di previsione a lungo termine che è arrivato, nel 2003, alla sua seconda e, probabilmente, ultima edizione. Le raccomandazioni settoriali (o, forse, dovrei dire “dipartimentali”) del perito trovarono invece diversa fortuna. Mentre quelle concernenti la politica fiscale, la politica in favore della formazione e per l’intensificazione degli investimenti stradali furono seguite, quasi alla lettera, le raccomandazioni in materia di miglioramento della produttività delle aziende e quelle concernenti la produzione di energia elettrica non ebbero esito alcuno. Note bibliografiche alla prima parte Baggi M. (1991) : Un’indagine comparata sull’evoluzione della struttura produttiva del settore industriale ticinese, in Baggi M, R. Ratti, A. Rossi “Il futuro arriva presto”, Banca del Gottardo, Lugano, 1991 Chevallier F.-X. (1998): Le bonheur économique, Albin Michel, Parigi Commissione consultiva (1968): Programmazione economica, rapporto al Consiglio di Stato, Bellinzona 56 Dal paradiso al purgatorio Franscini Stefano (1971): La Svizzera Italiana, ristampa a cura di P. Chiara, BSI, Lugano Galli A. (1937): Notizie sul Cantone Ticino, IET, Bellinzona Galli A. (1943): Il Ticino all’inizio dell’Ottocento, nella “descrizione topografica e statistica” di P. Ghiringhelli, IET, Bellinzona-Lugano Kneschaurek F. (1964): Stato e sviluppo dell’economia ticinese: analisi e prospettive, Bellinzona Kneschaurek F. (1965): Politique conjoncturelle e politique de croissance, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel Lajugie J., Delfaud P., Lacour C. (1985) : Espace régional et aménagement du territoire, Dalloz, Parigi, seconda edizione Landes D. S. (1999): La ricchezza e la povertà delle nazioni, tradotto da “The Wealth and Poverty of Nations”, Collezione storica Garzanti, Milano Lombardini S. (1967): La programmazione: idee, esperienze, problemi, Einaudi, Torino Pelanda C. (1998): Ticino 2015, libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario della globalizzazione. Dipartimento delle finanze e dell’economia, Bellinzona Rifkin J. (2000): The End of Work, Penguin Books, Londra Rosenberg N. (1982): Inside the black Box: Technology and Economics, Cambridge University Press, Cambridge Rossi A. (1975): Un’economia a rimorchio, Bellinzona Rossi A. (1985): Da un paese di piccoli proprietari a un paese di inquilini, in “Un paese che cambia”, a cura di Basilio M. Biucchi, pp. 165-180, Dadò, Locarno Rossi A. (1988): E noi che figli siamo, Edizioni Nuova Critica, Lugano Rossi A. (1990): Lo sviluppo economico e il progresso sociale, in Sviluppo economico e progresso sociale: qualche riflessione sul caso ticinese, a cura di A. Bernasconi e A. Rossi, fidinam, Lugano Rossi M. (1996): Cicli congiunturali dell’economia ticinese e svizzera fra il 1950 e il 1995, Periodico IRE, 2/96, p.2-14 Saraceno P. (1963): Lo Stato e l’economia, Edizioni cinque lune, Roma Tinbergen J. (1964): Central planning, Yale University Press, New Haven e Londra Viscontini F. (2005): Alla ricerca dello sviluppo. La politica economica nel Ticino (1873-1953), Armando Dadò, editore, Locarno 57 Parte seconda: il purgatorio L’economia ticinese ristagna 10. La deindustrializzazione dell’economia: un sopralluogo L’ultimo quarto del secolo XX° è caratterizzato, in Svizzera come nel Ticino, da un rallentamento marcato del ritmo di crescita dell’economia. Dai tassi del 41/2-5% che avevano alimentato il suo processo di sviluppo nel periodo de “les trentes glorieuses” , l’economia ticinese scende a tassi appena superiori al 2% e, in fine di secolo, il suo tasso di sviluppo diventa anche negativo. Abbiamo definito questo periodo, che, lo ricordiamo, per noi rappresenta la fase discendente del ciclo di lungo periodo, il “purgatorio della stagnazione”. Purgatorio da un lato perché il basso tasso di crescita crea problemi seri come, per non citarne che uno, la disoccupazione. Ma purgatorio anche perché sulla lunghezza di questo periodo di stagnazione plana una grande incertezza. Di fatto la tendenza alla riduzione dei tassi di crescita dura oramai da più di un quarto di secolo e non accenna a cessare, come invece dovrebbe fare se il ciclo di lungo periodo durasse effettivamente 50-60 anni. L’avvio del nuovo, il quinto, ciclo di Kondratieff è annunciato come imminente da almeno una decina di anni, senza però che la ripresa tenga fede alle sue promesse. Prima però di passare ad interrogarci sul futuro dell’economia ticinese, cosa che faremo nella terza parte di questo studio, in questa seconda parte vogliamo considerare un po’ più da vicino le caratteristiche del periodo che abbiamo definito come il “purgatorio della stagnazione”. La prima, e forse la più importante di queste caratteristiche è il ritorno in primo piano, nella discussione sulle politiche che influenzano la crescita dell’economia, dei fattori che determinano l’offerta globale. Questo ritorno si affermò a partire dalla metà degli anni settanta proprio perché l’approccio keynesiano, basato sulla sollecitazione della domanda globale, sembrava non essere più in grado di portare frutti. Molte economie sviluppate conobbero, durante gli anni settanta dello scorso secolo, il fenomeno della “stagflazione” 58 Dal paradiso al purgatorio ossia una situazione di stagnazione economica con tassi di inflazione elevati. Nonostante i governi sollecitassero lo sviluppo della domanda globale, questa non sembrava più essere in grado di rilanciare la crescita. Il suo unico influsso era negativo, perché agiva sul livello generale dei prezzi producendo tensioni inflazionistiche. Il ritorno in primo piano dell’offerta globale fu però determinato anche dai mutamenti che si manifestarono, a partire, come si è già ricordato, dall’inizio degli anni settanta, nelle condizioni dello scambio internazionale. La seconda guerra mondiale aveva consolidato, nel mondo capitalistico, il ruolo di leader economico mondiale degli Stati Uniti. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, e la susseguente disintegrazione dell’impero sovietico fece di questa economia il leader mondiale assoluto. In funzione di questo loro ruolo, gli Stati Uniti si erano assunti, alla fine del secondo conflitto mondiale, la responsabilità di far funzionare il sistema economico mondiale (Korten, 2004). Da questo punto di vista, gli accordi di BrettonWoods e il piano Marshall costituirono, all’uscita dalla seconda guerra mondiale, le misure di guida e controllo dell’andamento economico internazionale senza dubbio più importanti. È bene ricordare che l’azione degli Stati Uniti in favore dei loro alleati europei non era unicamente ispirata da spirito di beneficenza. Durante tutto il periodo della guerra fredda, il confronto dei tassi di crescita del prodotto interno lordo e del reddito pro-capite nei paesi capitalistici e in quelli comunisti rappresentò un’arma di propaganda molto persuasiva. Per fare un solo esempio: in un libro sulla crescita, scritto da alcuni tra i maggiori economisti americani e pubblicato nel 1961, Klaus Knorr scriveva: “Tenendo conto del modo con il quale oggi il mondo è organizzato, la capacità di una nazione di influenzare altre nazioni dipende sostanzialmente dalle prestazioni della sua economia, come pure dalla quota delle sue risorse che viene destinata alle attività militari (Knorr, Baumol, 1961). Le iniziative prese dagli americani dopo la seconda guerra mondiale ebbero successo. Le economie dell’Europa occidentale furono rapidamente ricostruite e conobbero tassi di crescita elevati durante un lungo periodo di tempo. Tuttavia questi successi ebbero una contropartita di costi importante per gli Stati Uniti. Per non complicare troppo l’argomentazione, ci limitiamo a ricordare che, fino a quando il dollaro, in funzione degli accordi di Bretton-Woods, restò la divisa di riserva dell’economia mondiale, legata al prezzo dell’oro da una relazione fissa, ossia sino all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, gli Stati Uniti dovettero contentarsi di prestazioni della loro economia inferiori a quelle delle economie europee. Con un tasso di cambio di 1 a 4 tra il dollaro e il franco svizzero non esistevano problemi di concorrenza per le nostre industrie esportatrici. In altre parole, fino a quando gli scambi internazionali Parte seconda: il purgatorio 59 si basarono sul cambio fisso con il dollaro, la capacità concorrenziale dell’economia svizzera non fu messa in dubbio da nessuno. Ma, come si è già visto nel cap. 5, la situazione in materia di esportazioni – in particolare di esportazioni di prodotti industriali – cambiò sostanzialmente nel marzo del 1973, con il passaggio dal regime dei cambi fissi a quello dei cambi flessibili. Il rapporto tra dollaro e franco (ma anche il rapporto del franco con le divise degli altri paesi clienti dei prodotti svizzeri, l’Italia in particolare) scese rapidamente. Con il franco rivalutato, la produzione industriale della Svizzera diventò improvvisamente, senza che a livello di tecnologia di produzione, impiego o organizzazione della stessa qualche cosa fosse cambiato, troppo cara per i mercati esteri. In cinque o sei anni, in seguito alla rivalutazione del franco, i prezzi dei prodotti svizzeri esportabili raddoppiarono e triplicarono. La capacità concorrenziale dell’industria svizzera andò a farsi benedire. La conseguenza di questa evoluzione fu un processo di deindustrializzazione che dura ancora tutt’oggi. È probabile che per l’esaurirsi del dinamismo del ciclo di lungo termine basato sull’innovazione tecnologica, l’economia svizzera, come quella di altri paesi, si sarebbe ritrovata ugualmente nei guai, durante gli anni settanta. Ne fa fede, per limitarci a citare l’esempio più conosciuto, la crisi dell’industria orologiera che fu più una crisi tecnologica (diffusione rapidissima dell’orologio a cristalli di quarzo propagato dall’industria giapponese) che una crisi dovuta alla rivalutazione del franco. Resta però acquisito che il ritorno ai tassi di cambio flessibili contribuì in modo rilevante a precipitare l’economia svizzera nella stagnazione. La deindustrializzazione Nel corso degli anni settanta e ottanta del secolo scorso, il numero degli addetti nel settore industriale e la quota degli stessi nell’occupazione totale delle economie del mondo occidentale sono diminuiti in modo marcato. Nella letteratura economica questo processo viene definito come il processo di deindustrializzazione. Stando agli autori che lo hanno studiato, il processo può assumere due forme: – la deindustrializzazione positiva quando la diminuzione dell’occupazione nel settore industriale si accompagna a una crescita sostenuta del valore aggiunto di questo settore, crescita che viene assicurata da un balzo in avanti della produttività; – negativa è invece la deindustrializzazione quando diminuisce non solo la quota dell’occupazione, ma anche quella del valore aggiunto del settore industriale. Quello della Svizzera può essere considerato come un caso di deindustrializzazione negativa. 60 Dal paradiso al purgatorio Gli effetti della deindustrializzazione sono molto visibili, nella forma di zone industriali abbandonate, specialmente nelle regioni nelle quali l’industria svizzera è nata e nelle quali, come a Zurigo, Winterthur, Baden, Arbon, Ginevra, Vevey, Thun, Neuhausen, Sciaffusa, Yverdon, Grenchen, Aarau, Neuchâtel si concentravano le attività industriali, in particolare il ramo dei tessili, quello delle macchine e quello orologiero. La deindustrializzazione ha colpito in primo luogo i rami manifatturieri ad alta intensità di lavoro e quelli che trasformavano prodotti agricoli. Anche in Ticino, nell’ultimo quarto di secolo, si è manifestata una tendenza significativa alla deindustrializzazione. Lungo gli assi ferroviari (da Airolo a Chiasso, da Bellinzona a Locarno e da Lugano a Ponte Tresa) dove è localizzata la grande maggioranza delle aziende industriali (le uniche localizzazioni industriali importanti, non servite dalla ferrovia sono Brissago e quelle situate sull’asse Mendrisio-Stabio,) si sono registrate, come si può rilevare dalla figura 9, perdite importanti negli effettivi dei posti di lavoro del secondario. Figura 9: Variazione dei posti di lavoro nel secondario lungo gli assi di traffico ferroviario dal 1975 al 2001 Fonte: censimenti federali delle aziende Iniziamo il nostro sopralluogo sulla deindustrializzazione in Ticino a Airolo. Airolo che in un quarto di secolo ha perso un cinquecento posti di lavoro, vale a dire quasi il 60% dei posti del 1975, nel secondario. Questa perdita è da attribuire alla chiusura del cantiere della galleria autostradale del Gottardo e alla chiusura, o allo spostamento, di aziende meccaniche che lavoravano Parte seconda: il purgatorio 61 per la ferrovia. A Quinto le perdite sono minori, sia in termini assoluti (- 144 posti di lavoro), sia in percentuale (- 37%). A Faido si sono persi il 50% dei posti di lavoro nel secondario, ossia circa 170 posti. Scendiamo a Giornico e Bodio, uno dei centri industriali tradizionali del Ticino, dove la perdita, a causa della chiusura della Monteforno, è stata devastante: ben 937 posti di lavoro persi, vale a dire il 71% dell’effettivo che ancora esisteva nel 1975. Nella Bassa Leventina l’ industria è stata così rasa al suolo, senza che, per il momento, si veda con quali attività la stessa possa essere sostituita. In tutto, quindi, in Leventina, nell’ultimo quarto del secolo scorso, si sono persi 2115 posti di lavoro nel secondario. Un posto di lavoro su tre della regione è scomparso in seguito al fenomeno di deindustrializzazione e alla fine dei lavori autostradali. Meno importante, invece, è stato l’impatto della deindustrializzazione in Riviera. L’industria tradizionale di quella zona – la lavorazione del granito – non può infatti essere spostata altrove e, per lo meno durante il periodo che stiamo analizzando – sembra sia riuscita a controbattere la concorrenza estera sui mercati nazionali.A Biasca, poi, nel corso di questo periodo, si è sviluppata, con il sostegno delle autorità cantonali e comunali, una piccola zona industriale il che ha permesso al capoluogo della Riviera non solo di conservare i suoi effettivi nel secondario, ma addirittura di aumentarli di circa una settantina di unità. Arriviamo così a Bellinzona, prima città sul nostro percorso che ci permette di verificare che una componente della deindustrializzazione è anche locale. Si tratta del fenomeno di suburbanizzazione delle aziende del secondario. Queste aziende lasciano la città per una localizzazione in periferia urbana, più facilmente accessibile dalla rete autostradale. Tra il 1975 e il 2001, la regione di Bellinzona ha perso ben 1166 posti di lavoro nel secondario, 590 a Bellinzona e 519 a Giubiasco, che era un altro dei centri industriali tradizionali del Cantone. Una parte dei posti di lavoro persi a Bellinzona, sono stati ricreati nel Piano di Magadino, che è l’unica regione del Sopraceneri ad aver guadagnato posti di lavoro nel secondario (415). Il Locarnese è pure stato colpito dalla deindustrializzazione perdendo ben 1404 posti di lavoro, ossia il 20% dell’effettivo del 1975. All’interno di questa regione si nota uno spostamento dei posti di lavoro del secondario, con una concentrazione su Losone. I posti di lavoro nel secondario di Losone rappresentavano il 28.2% del totale dei posti di lavoro di questo settore nella sub-regione “Sponda destra”, nel 1975. Nel 2001, la quota di Losone era salita al 42.4%. Locarno, pur perdendo più di 500 posti di lavoro, conserva la sua quota nel totale (circa il 38%), ma non è più che il secondo centro manifatturiero della regione. Senza accesso alla rete ferroviaria, neanche a quella regionale, Ascona e Brissago hanno perso quasi 600 posti di lavoro nel secondario. Brissago, una delle prime località industriali 62 Dal paradiso al purgatorio del Cantone (si pensi all’importanza storica della fabbrica dei tabacchi) è diventata completamente turistica, nell’ultimo quarto di secolo e ha segnato, per così dire, il suo mutamento di orientamento, realizzando una delle più belle passeggiate al lago del Cantone. In totale il Sopraceneri ha perso 3572 posti di lavoro nel secondario. La sua quota nel totale dell’occupazione del secondario ticinese è scesa dal 38.7 del 1975 al 36.7% del 2001. Riprendiamo il treno a Locarno, cambiamo a Giubiasco per spostarci nel Sottoceneri. Dopo la galleria del Ceneri entriamo nella valle del Vedeggio che è forse la valle dove l’industrializzazione è più giovane. Prima del 1960, infatti, in questa valle non esisteva o quasi una fabbrica. Oggi, da Rivera a Taverne attraversiamo praticamente una zona industriale senza soluzione di continuità. È abbastanza logico ricondurre questo sviluppo alla possibilità di far ricorso, senza limitazioni, alla manodopera frontaliera. Come si può leggere nel grafico, il Vedeggio ha guadagnato posti di lavoro nel secondario anche durante il periodo di deindustrializzazione. Questo perché il fenomeno di suburbanizzazione del secondario è stato particolarmente forte attorno a Lugano. Lo dimostrano anche i dati che riguardano il Basso Malcantone (+572) e, addirittura Mendrisio (+1271), dove l’aumento dei posti di lavoro nel secondario è stato abbastanza sostenuto, proprio in forza della creazione di nuove aziende (nella regione attorno all’aeroporto diAgno, per il Basso Malcantone e nella piana di S. Martino, rispettivamente nella zona di frontiera di Stabio, nella regione di Mendrisio). Il rovescio della medaglia l’ha conosciuto la regione di Lugano che, nel periodo osservato, ha perso quasi 4000 posti di lavoro. Occorre dire che Lugano ha potuto largamente compensare questa perdita, creando, nel settore terziario, 19'000 nuovi posti di lavoro tra il 1975 e il 2001. Dopo aver fatto, con la ferrovia Lugano-Ponte-Tresa, un’escursione fino ad Agno, continuiamo in direzione di Chiasso con la ferrovia del Gottardo. I risultati positivi della regione di Mendrisio sono annientati dalle perdite in posti di lavoro dovute alla ristrutturazione del secondario nella regione di Chiasso (-2794, vale a dire -57%). Terminiamo il nostro sopralluogo sugli effetti della deindustrializzazione sull’occupazione nel secondario con alcune constatazioni: – le attività del secondario in Ticino erano localizzate lungo gli assi ferroviari principali della ferrovia del Gottardo e lungo l’asse della ferrovia regionale Lugano-Ponte-Tresa. Uniche eccezioni il comprensorio di Stabio e quello di Ascona-Brissago; – le località industriali tradizionali erano Bodio, Giubiasco, Tenero, Brissago, Taverne, Lamone-Cadempino, Mendrisio, Balerna e Chiasso. La maggior parte di questi comuni ha perso molti posti di lavoro nel secondario, durante il periodo analizzato. In alternativa a queste loca- Parte seconda: il purgatorio 63 lità tradizionali, i cui fattori di localizzazione erano la disponibilità di terreno, di energia (elettrica e idraulica), la vicinanza della ferrovia e la vicinanza della materia prima di origine agricola, nell’ultimo quarto di secolo si sono sviluppate nuove localizzazioni industriali nei comuni suburbani degli agglomerati. Particolarmente impressionante è stato lo sviluppo nella valle del Vedeggio e nel Mendrisiotto. In conclusione si può dire che in Ticino il processo di deindustrializzazione è stato influenzato da un lato dalla perdita di capacità concorrenziale dell’industria svizzera rispetto al resto del mondo, ma, dall’altra, anche dal processo di suburbanizzazione e specializzazione funzionale degli spazi che formano l’agglomerato. Infine, dopo il 1964, si è registrato, in seguito all’utilizzazione sempre maggiore di manodopera frontaliera, uno spostamento di peso nel settore manifatturiero dal Sopraceneri verso il Sottoceneri. Questo tipo di evoluzione ha avuto vincenti e perdenti. Le regioni e comprensori vincenti sono stati il Mendrisiotto, il Basso Malcantone, la valle del Vedeggio e il Piano di Magadino. Le regioni maggiormente perdenti sono stati la regione di Chiasso e la Leventina. 11. Crescita e declino a livello di rami di produzione: il ruolo della produttività e del grado di apertura dei mercati Data la sua portata e le sue conseguenze in termini di occupazione e di abbandono degli spazi di produzione, il fenomeno della deindustrializzazione non poteva non interessare i ricercatori. La maggioranza degli studi disponibili hanno però il carattere di monografie regionali o di settore. Pochi sono invece i contributi che hanno cercato di dare una spiegazione complessiva del fenomeno. In questo capitolo vogliamo presentare una di queste spiegazioni e, utilizzando le sue ipotesi, cercare di dare un’interpretazione dello sviluppo della struttura di produzione dell’economia ticinese nel periodo della deindustrializzazione. Nel 1979, un gruppo di economisti dell’Istituto di ricerche economiche del Politecnico di Zurigo (WIF) avanzò una spiegazione della deindustrializzazione che era basata sulle differenze di produttività e sulle differenze nel grado di apertura dei mercati per i diversi rami dell’economia svizzera (Hollenstein, Loertscher, Stalder, 1979) Offerta e produttività L’economia è in equilibrio quando domanda e offerta globali si equivalgono. Abbiamo già definito la domanda globale (vedi cap. 5). L’offerta globale è uguale al valore di tutte le produzioni (di beni e ser- 64 Dal paradiso al purgatorio vizi), realizzate in un dato periodo di tempo, nell’economia in esame. La produzione, a sua volta, è il risultato di un processo nel quale intervengono diversi fattori di produzione e un determinato stato della tecnologia. I fattori di produzione ai quali si fa di solito riferimento sono il lavoro, il capitale e la terra. Stando alle ricerche empiriche disponibili sembra però che il loro contributo alla crescita della produzione sia meno importante di quello che ha dato e può dare il progresso tecnico, fattore che, di solito, non viene esplicitato nelle funzioni di produzione. Poiché nel commento all’evoluzione manifestatasi in Svizzera e in Ticino, nell’ultimo quarto del secolo passato, si farà di sovente ricorso al termine produttività del lavoro, pensiamo che valga la pena di spiegarlo. La produttività è il rapporto tra la produzione e il numero di persone occupate, se viene misurata per addetto, oppure tra la produzione e il numero delle ore lavorate, se viene misurata per ora di lavoro. Se P è una misura della produzione e L una misura della prestazione del fattore lavoro, la produttività del lavoro è data dal rapporto: p = P/L dove p sta per produttività del lavoro. In una giornata di lavoro, una sarta a domicilio della montagna di Arzo riusciva, nel periodo tra le due guerre mondiali, a cucire due paia di pantaloni. Questa era la sua produttività giornaliera in termini fisici. In termini di valore della produzione, la produttività giornaliera di quella sarta era forse pari a una decina di franchi. Negli studi empirici sulla produttività si usa quasi sempre misurare la produttività di un’economia come produttività del lavoro. Riferendosi a questi due indicatori, i ricercatori del Politecnico di Zurigo hanno suddiviso l’economia svizzera della fine degli anni settanta del secolo scorso in due settori: – il settore delle attività orientate verso l’esportazione – il settore delle attività orientate verso il mercato svizzero A loro volta, questi due settori sono stati suddivisi in due sotto-settori. Di conseguenza tutte le attività produttive dell’economia svizzera potevano essere ripartite in uno dei quattro sotto-settori seguenti: – il sotto-settore delle attività internazionali minacciate – il sotto-settore delle attività internazionali forti – il sotto-settore delle attività interne esposte alla concorrenza interna, ma non a quella internazionale Parte seconda: il purgatorio – 65 il sotto-settore delle attività interne controllate (in un modo qualunque) dallo Stato. Le attività del primo settore erano minacciate dalla concorrenza internazionale perché si fondavano ancora troppo sul fattore lavoro, un fattore che era diventato – a causa della rivalutazione del franco – troppo caro e troppo poco competitivo a livello internazionale. La strada della sopravvivenza per queste attività era, di necessità, la ristrutturazione con, o senza, spostamento di parte della loro produzione all’estero (la delocalizzazione è stata la causa prima del fenomeno di deindustrializzazione). Ristrutturazione e delocalizzazione In teoria, la ristrutturazione può applicarsi a tutte le componenti del processo produttivo di un’azienda o di un ramo di produzione. In questo studio parleremo di ristrutturazione però solo in relazione alle misure con le quali si cerca di aumentare la produttività di un’azienda o di un ramo attraverso la riduzione del personale o del numero delle aziende. La ristrutturazione è un fenomeno comune nella seconda parte del ciclo di lungo termine, quando cioè il contributo addizionale di un’ulteriore unità di fattore di produzione al totale della produzione (produttività marginale del fattore) comincia a diminuire. Essa può venir realizzata anche introducendo innovazioni di processo. La delocalizzazione, fenomeno di cui si discute molto a livello politico – attualmente in Francia e in Germania in relazione all’apertura dell’Unione Europea verso i paesi dell’Est – consiste nello spostamento di una o più funzioni aziendali fuori del territorio nazionale. La delocalizzazione è totale quando tutta l’azienda viene spostata all’estero. Il sotto-settore delle attività di esportazione forti, invece, possedeva la capacità di resistere alla concorrenza internazionale e poteva contare su un futuro tranquillo con crescita della produzione e della produttività, ma non dell’occupazione (per la necessità di contenere i costi di produzione). Per quel che concerne le attività orientate verso il mercato interno, senza però essere esposte alla concorrenza internazionale, gli studiosi del WIF prevedevano una crescita della produzione e dell’occupazione. Infine essi pensavano che il sotto-settore protetto dallo Stato sarebbe stato ristrutturato, non perché patisse della concorrenza, ma perché la lievitazione dei prezzi in questo sotto-settore esercitava un influsso negativo sull’evoluzione dei costi di produzione degli altri sotto-settori. Per il futuro gli autori di questo modello si attendevano perciò una stagnazione della 66 Dal paradiso al purgatorio produzione e una forte diminuzione dell’occupazione in questo settore. Produttività e grado di apertura dei mercati erano dunque i fattori che potevano spiegare l’evoluzione della struttura di produzione dell’economia svizzera. Se la spiegazione è valida per l’intera economia del nostro paese, dovrebbe applicarsi anche all’economia dei singoli Cantoni, tenendo ovviamente presente che quando si parla di mercato interno, si deve pensare, anche a livello del singolo Cantone, che si tratta sempre del mercato nazionale. Utilizzando la ripartizione delle attività di produzione in quattro sotto-settori proposta dal WIF abbiamo cercato di verificare se le conclusioni valide per la Svizzera si applicassero anche al caso del Cantone Ticino. Tenendo conto delle variazioni dell’occupazione nei rami non agricoli (settori secondario e terziario) abbiamo costruito i due grafici della figura10. Essi illustrano in modo chiaro la significativa modifica che si è manifestata nel corso dell’ultimo quarto dello scorso secolo, ossia durante il periodo della stagnazione economica, nella struttura dell’impiego dell’economia ticinese. In termini assoluti ricordiamo che l’impiego nei settori non agricoli dell’economia ticinese è aumentato dal 1975 al 2001 di quasi 30’000 unità. La deindustrializzazione, pur essendosi manifestata nella sua forma negativa (ossia perdita di quote per il settore industriale nell’impiego e nel valore aggiunto) non ha messo in crisi il mercato del lavoro. I posti persi nell’industria sono stati largamente recuperati nel terziario. Figura 10: Modificazione nella struttura dell’impiego dell’economia ticinese, per sottosettori Fonte: Censimenti federali delle aziende In termini relativi, il fenomeno della deindustrializzazione è leggibile soprattutto nella riduzione della quota nel totale dell’impiego delle attività di esportazione minacciate (dal 17.3% al 12.2%). La quota dell’impiego nei rami che esportano non è però diminuita: la parte persa dai rami minaccia- Parte seconda: il purgatorio 67 ti è stata recuperata dai rami forti. Questa tendenza deve essere considerata come uno dei fattori maggiormente positivi dell’evoluzione nel periodo del purgatorio della stagnazione. I rami di esportazione forti hanno creato numerosi nuovi posti di lavoro contribuendo in modo molto positivo alla crescita della produzione. Si tenga però presente che l’aumento dei posti di lavoro di questo sotto-settore si è realizzato in due rami che appartengono al settore dei servizi, vale a dire il commercio all’ingrosso e i rami bancario, delle assicurazioni, dell’informatica e della consulenza. Il Ticino sembrerebbe dunque essere maggiormente agguerrito nell’esportazione di servizi che nell’esportazione di beni. L’internazionalizzazione della sua economia si è così compiuta in parallelo con l’espansione del settore terziario. Poiché la quota dei due sotto-settori che esportano nell’impiego è restata più o meno costante anche la quota degli altri due sotto-settori che servono il mercato svizzero è pure restata costante. Anche qui la perdita di un sotto-settore, ossia il sotto-settore protetto, è stata recuperata dall’altro settore, il sotto-settore dei servizi pubblici. Occorre sottolineare che l’espansione dell’impiego nel sotto-settore dei servizi pubblici e delle aziende regolate dallo Stato, nel corso del periodo analizzato, è da attribuire in preponderanza all’espansione dell’impiego nei rami del sanitario, del sociale e dell’educazione. Come dimostra la tabella 2, le risultanze di questo processo di ristrutturazione dell’impiego, nel corso del periodo di relativa stagnazione dell’economia ticinese non corrispondono alle attese del modelloWIF se non in un caso: quello del sotto-settore di esportazione minacciato. Per spiegare queste differenze si possono avanzare almeno tre argomenti. Con il primo vogliamo sottolineare il ruolo che il fattore lavoro ha giocato nello sviluppo dell’economia ticinese dopo il secondo dopoguerra mondiale.Anche nella fase nella quale la concorrenza internazionale diventa importante, il Ticino, diversamente da altri Cantoni, continua a giocare la carta di processi di produzione ad alta intensità di lavoro perché dispone – grazie alla valvola del frontalierato – di una riserva quasi inesauribile di manodopera a buon mercato. Tabella 2: Attese di sviluppo dell’occupazione e risultati della verifica per sotto-settori nel periodo 1975-2001 in Ticino Sotto-settori Attività internazionali, minacciato Attività internazionali, forte Interno, protetto dalla concorrenza estera Interno, controllato o regolato dallo Stato Fonte: elaborazione dell’autore Attese di sviluppo delle quote di occupazione Forte riduzione Nessuna variazione Forte aumento Forte riduzione Risultato della verifica Forte riduzione Forte aumento Forte diminuzione Forte aumento 68 Dal paradiso al purgatorio È probabile tuttavia che il grado di qualifica di questa riserva sia, per effetto della sostituzione di esportazioni minacciate dalla concorrenza con esportazioni forti, aumentato. Il secondo argomento che conviene ricordare è che con l’aumento del livello di benessere e con l’invecchiamento della popolazione è cresciuta in modo molto marcato, anche in Ticino, la domanda di servizi pubblici nel campo sanitario e dell’educazione. Se gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo sono stati gli anni della democratizzazione degli studi, gli anni settanta e ottanta sono stati quelli dell’avvio del fenomeno di esplosione dei costi della salute (democratizzazione degli acciacchi). La reazione politica, in termini di colpi di freno all’evoluzione dei costi nei campi del sanitario, del sociale e dell’educazione o non venne, o fu molto tenue, durante il periodo analizzato in questa parte del nostro studio. Il terzo argomento riguarda l’evoluzione nel sotto-settore interno protetto dalla concorrenza estera, ma non da quella interna alla Svizzera. Qui la perdita di importanza della quota nell’impiego è sicuramente da attribuire ai processi di concentrazione geografica – a livello del Cantone, ma anche a livello nazionale – sviluppatisi nel periodo sotto osservazione. Le aziende che fornivano il mercato nazionale hanno cominciato a concentrare i punti dai quali servivano le diverse zone. Si pensi, per limitarci a un solo esempio, al caso della concentrazione dei servizi logistici, operata dalle aziende che possedevano una rete di distribuzione di beni o di informazioni a livello nazionale, che colpì il ramo dei trasporti e delle comunicazioni, il commercio al minuto e anche la produzione di alimentari e bevande. L’insegnamento più importante di questa verifica è che non sempre l’andamento previsto a livello nazionale deve per forza riprodursi nelle regioni. 12. Il purgatorio della stagnazione e la produttività Come abbiamo potuto costatare nel capitolo 4 della prima parte, l’evoluzione dell’economia ticinese è stata contraddistinta, durante l’ultimo quarto del secolo scorso, da una tendenza alla diminuzione dei tassi di crescita. Per comodità di presentazione abbiamo deciso di chiamare questo periodo il “purgatorio della stagnazione”. Si tratta di un periodo nel corso del quale l’invecchiamento dei prodotti, usciti dall’ondata di innovazioni che aveva lanciato la crescita all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso, porta lentamente alla saturazione del mercato, in tutti i paesi dell’Europa occidentale. Per cercare di lottare contro la concorrenza, le aziende sono costrette a limare sui costi. Una delle possibilità di ridurre i costi di una produzione oramai molto standardizzata è quella di delocalizzare, in parte o totalmente, le unità produttive verso paesi nei quali il costo del lavoro è meno Parte seconda: il purgatorio 69 caro. Della deindustrializzazione e del suo impatto sulla struttura dell’impiego ticinese abbiamo parlato nel capitolo che precede. In questo capitolo vorremmo approfondire il discorso sui rapporti tra capacità concorrenziale, produttività e crescita. La crescita del prodotto interno lordo del periodo del “paradiso della crescita” era determinata da due fattori: – il rapido estendersi dell’impiego, da una parte (con tassi di crescita annuale superiori all’1%) – e il forte aumento della produttività (con tassi di crescita che si avvicinavano al 4%) La combinazione di questi due fattori assicurava all’economia svizzera e a quella ticinese tassi di crescita annuali del prodotto lordo prossimi al 5% e un incremento proporzionale dei salari e del livello di vita della popolazione. Con le misure di limitazione all’immigrazione di manodopera estera, che diventano effettive a partire dal 1964, la crescita dell’offerta di manodopera in Svizzera subì un drastico colpo di freno. Ma, circa alla medesima data, anche i tassi di crescita della produttività cominciarono a diminuire. La stagnazione economica dell’ultimo quarto di secolo è così data dalla combinazione di tassi di crescita dell’impiego inferiori all’1% negli anni ottanta e praticamente nulli negli anni novanta, e da un tasso medio annuale di aumento della produttività che fatica a raggiungere l’1%. Il risultato di questo indebolimento nella crescita di impiego e produttività è un tasso di aumento del prodotto interno lordo che, nel corso degli anni ottanta, ancora oscilla tra il 2 e il 3%, mentre nel corso dell’ultimo decennio del secolo scende all’1%. Nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso, l’economia svizzera entra così in una nuova fase di sviluppo, caratterizzata, come si è detto, da tassi bassi di crescita della produttività e dell’occupazione. Crescita economica e produttività Nel presente studio utilizziamo il reddito cantonale come indicatore della crescita perché, purtroppo, a livello cantonale le stime relative al prodotto interno lordo (PIL) sono disponibili solo a partire dal 1985 e sono meno affidabili di quelle del reddito. A livello nazionale, però, l’indicatore delle prestazioni dell’economia è il PIL. Riprendendo la definizione di produttività del cap. 11 e sostituendo P con PIL possiamo scrivere il rapporto tra produttività per addetto e PIL nel modo che segue: PIL = (PIL/L) x L = p.L Il tasso di crescita di un’economia è misurato dal tasso di crescita annuale reale del PIL. Il tasso di crescita della produttività dall’aumen- 70 Dal paradiso al purgatorio to del rapporto PIL/L e il tasso di crescita di L, l’occupazione, dall’aumento relativo del numero degli occupati. Tenendo presente la definizione di cui sopra, possiamo scrivere: Tasso di crescita = Tasso di variazione della produttività + Tasso di variazione dell’occupazione Come sono evoluti occupazione e produttività nel caso del Ticino? Per rispondere a questa domanda, abbiamo calcolato i tassi di aumento annuale medio dell’occupazione e della produttività per i due periodi 1950-70 e 1970-2000, utilizzando – in mancanza di alternative migliori – per misurare l’evoluzione dell’occupazione, la popolazione attiva (escludendo quindi i frontalieri), e per misurare l’evoluzione della produttività, il rapporto reddito reale/popolazione attiva. Siccome la popolazione attiva è rilevata solo nel censimento federale della popolazione (che, come si sa, si svolge all’inizio di ogni decennio), la divisione tra paradiso e purgatorio si situa attorno al 1970 invece di situarsi – come abbiamo argomentato sin qui – attorno al 1975. Tabella 3: Evoluzione della produttività e dell’occupazione in Ticino Sotto-periodi 1950-1970 1970-2000 Tasso di variazione annuo della produttività 4.3% 0.8% Tasso di variazione annuo dell’occupazione 1.4% 0.9% Fonte: stime dell’autore Possiamo osservare che la riduzione del tasso di crescita annuale, che si è realizzata tra questi due sotto-periodi, è da attribuire più alla diminuzione della produttività che alla diminuzione dell’occupazione. Questa conclusione è comune al Ticino e alla Svizzera e ha fatto sorgere molte discussioni, nel corso degli ultimi quindici anni, sul modo con il quale si potrebbe rilanciare la crescita della produttività. A livello aggregato della produzione, la risposta che viene data a questo quesito è quella di puntare sull’innovazione tecnologica, sia essa di processo, di prodotto, o organizzativa. L’innovazione, in questo caso, viene considerata, accanto al lavoro e al capitale, come un terzo fattore di produzione che può contribuire a tener alto il tasso di aumento delle produttività degli altri due Parte seconda: il purgatorio 71 e, nel contempo, la crescita della produttività dell’insieme dell’economia. Esistono numerosi studi empirici, a livello di altre nazioni e regioni, che dimostrano che l’innovazione tecnologica (misurata per esempio dal numero delle nuove patenti che vengono registrate ogni anno, o da inputs nel processo di innovazione tecnologica come gli investimenti in ricerca e sviluppo) ha un effetto positivo sulla produttività dell’economia. Più difficile è invece mettere a punto una politica di promozione dell’innovazione che sia in grado di specificare come, a partire da un certo montante di investimenti in ricerca e sviluppo, una determinata economia sarà in grado di ottenere risultati probanti in materia di innovazione e migliorare così la sua produttività aggregata. L’innovazione tecnologica rappresenta sicuramente una buona opportunità di sviluppo, ma non è, in nessun caso, una ricetta che fa crescere la produttività a colpo sicuro. Non è poi detto, come invece sembra pensare una larga schiera dei nostri commentatori economici, che produttività e impiego evolvano in modo indipendente. Krugmann ci avverte per esempio che se un’economia si terziarizza, la stessa avrà tendenza a conoscere tassi di aumenti della produttività sempre più bassi perché nel settore dei servizi il prodotto per addetto cresce più lentamente che nel settore manifatturiero. Questa osservazione potrebbe indurre i responsabili delle politiche economiche a non promuovere le attività di servizio e a cercare di trasferire posti di lavoro dal terziario al secondario come tentò di fare, negli anni sessanta dello scorso secolo, senza successo, il governo laburista inglese, imponendo una tassa sui posti di lavoro nel terziario. Si tratterebbe di una politica sbagliata. Siccome la proporzione del terziario nell’occupazione si avvicina oggi all’80% le misure da promuovere sarebbero invece quelle che possono migliorare la produttività del terziario perché avrebbero un impatto molto più ampio sul livello di produttività aggregato che non un miglioramento della produttività del secondario. Osserviamo che nel caso ticinese non si può affermare, in modo generico, che il terziario abbia una produttività minore del secondario, poiché i rami del settore finanziario possiedono di fatto la produttività più alta di tutti i rami dell’economia. È tuttavia utile considerare le differenze di produttività per ramo per cercare, dove si può, di evitare che la quota di un ramo a bassa produttività nel totale dell’occupazione aumenti troppo rapidamente. È il caso per il Ticino dell’ampio sottosettore dei servizi pubblici che, nel corso degli ultimi 25 anni ha visto la sua quota nell’occupazione passare dal 14 al 25%. Miglioramenti importanti della produttività aggregata potrebbero quindi essere realizzati da un processo di ristrutturazione che fosse in grado di far aumentare la produttività nei servizi pubblici, nei settori 72 Dal paradiso al purgatorio sociale e sanitario in particolare. Quali siano le difficoltà di una simile politica l’abbiamo potuto toccare con mano, nel corso degli ultimi venti anni, seguendo gli sforzi da Sisifo che autorità federali e cantonali hanno fatto per tentare, inutilmente, di contenere l’esplosione dei costi della salute. Meno promettente è l’applicazione della strategia che consiglia di promuovere l’attività di innovazione tecnologica a singoli rami, le cosiddette industrie ad alta tecnologia. E questo per due ragioni. In primo luogo perché la quota di questi rami nell’occupazione è inferiore al 15% e in secondo luogo perché questa ricetta è diventata oramai la carta che viene giocata da ogni paese e da ogni regione. Tutti, oggi, vogliono promuovere le industrie ad alta tecnologia, dal sud del Portogallo al nord della Svezia, dall’Ucraina all’Irlanda, seguendo un consiglio avanzato per la prima volta da Lester Thurow nel suo bestseller “La società a somma nulla”, pubblicato nel 1980, nel quale l’autore suddivideva i rami di produzione di un’economia in “Sunset industries” e in “Sunrise industries”, vale a dire in “industrie al tramonto e industrie all’alba”. Il consiglio di Thurow era di trasferire risorse dal gruppo dei rami al tramonto al gruppo dei rami che erano ancora all’alba del loro ciclo del prodotto (si veda Krugmann P., 1994). Ma il trasferimento di risorse non è così facile: si tratta molte volte di chiudere vecchie aziende o di procedere, misura ugualmente problematica, a delle fusioni. Per quel che concerne il nostro paese, si ha l’impressione che questi esperimenti in materia di trasferimento di risorse in rami strategicamente più interessanti si siano conclusi con la chiusura di stabilimenti di produzione in Svizzera e il trasferimento di attività di produzione e know-how tecnologico all’estero. Per rilanciare la crescita e tenere alto il livello di benessere occorre quindi rilanciare produttività e occupazione. Ma per quel che riguarda l’occupazione le possibilità di rilancio sono scarse in quanto i costi del lavoro in Svizzera, e quindi anche in Ticino, sono diventati, specie dopo la rivalutazione del franco nel corso degli anni settanta, tra i più alti del mondo. Tutte le lavorazioni che fanno ricorso in modo intenso al fattore lavoro hanno di fatto già lasciato il nostro paese per altri lidi, dove il costo del lavoro è pari solo a 1/10 o ancora meno del nostro. Per queste ragioni l’unico vero fattore di rilancio sul quale possiamo puntare è la produttività. La produttività dell’economia svizzera e quella dell’economia ticinese crescono troppo lentamente. 13. Il purgatorio della stagnazione: fine della piena occupazione Come abbiamo visto, nei capitoli della prima parte, ci fu un tempo, non Parte seconda: il purgatorio 73 così lontano, nel quale la manodopera era scarsa e sia il Ticino, sia la Svizzera, pensavano che non si poteva fare a meno dell’immigrazione di manodopera estera. Poi vennero gli anni settanta e, anche per effetto della rivalutazione del franco svizzero, l’economia svizzera si ritrovò in testa, a livello mondiale, per i costi del lavoro. Siccome, parallelamente, il suo livello di produttività cominciò a stagnare, la posizione concorrenziale di molte delle nostre industrie di esportazione si trovò indebolita. La parola d’ordine degli imprenditori non fu più, forziamo gli investimenti per incrementare il nostro potenziale di produzione, ma, cerchiamo di contenere l’evoluzione dei nostri costi di produzione e, in particolare, quella del costo del lavoro. L’imprenditore si trasformò in controllore. La Svizzera affidabile, la Svizzera del lavoro preciso e del rispetto dei tempi, la Svizzera applicata e con l’occhio sempre fissato sulla qualità, non bastò più per esportare. Essere la repubblica più vecchia e avere la settimana di lavoro più lunga d’Europa, i servizi pubblici meglio funzionanti, il tasso di criminalità forse più basso del mondo, il segreto bancario e la neutralità di fronte ai conflitti internazionali, non bastò più per attirare i capitali e stimolare le nostre esportazioni. Da un mese all’altro e quasi senza accorgersene – almeno in un primo tempo – la Svizzera era diventata un paese caro, un’isola di prezzi alti in un’Europa che si integrava. La capacità competitiva della Svizzera era minacciata. Occorreva ristabilire la competitività della produzione svizzera a livello internazionale o, altrimenti, le nostre industrie di esportazione si sarebbero, a poco, a poco, trasferite all’estero. E poiché il costo dei materiali e dei prodotti semi-finiti importati continuava, in seguito al rincarare del franco, a diminuire, lo sforzo per rilanciare la competitività dell’economia portò, quasi immediatamente, sul contenimento dei costi del lavoro. Il costo unitario del lavoro Il costo unitario del lavoro è dato dal rapporto tra i salari e gli altri oneri del personale, da un lato e la produttività, dall’altro, diviso per il numero delle unità prodotte. È bene precisare che il costo del lavoro aumenta quando aumentano i salari e gli oneri sociali a carico dell’imprenditore e diminuisce quando aumenta la produttività del lavoro. Se si vuole contenere l’evoluzione del costo del lavoro si può quindi operare in due modi: – da una parte, frenando l’aumento dei salari e degli oneri sociali 74 Dal paradiso al purgatorio – dall’altra, aumentando la produttività del lavoro o la durata del lavoro (senza aumentare i salari) Facciamo un esempio. Se i salari aumentano del 2% e la produttività aumenta dell’1%, il costo del lavoro aumenterà pure dell’1% (21=1). Se i salari aumentano dell’1% e la produttività anche, il costo del lavoro non aumenta (1-1 =0) e così via. Il modo nel quale, a livello nazionale, si guardava al mercato del lavoro cominciò lentamente a mutare. Mentre fino alla metà degli anni settanta, l’obiettivo dichiarato della politica economica nazionale era la piena occupazione e il problema centrale era quello di disporre della manodopera necessaria in una situazione nella quale non si poteva più ricorrere liberamente all’immigrazione di manodopera dall’estero, alla fine degli anni settanta questa visione si modificò. Si iniziò a parlare, in modo negativo, di “crescita in larghezza” (il termine è una traduzione poco italiana dell’espressione tedesca “Wachstum in der Breite”) per definire il processo di crescita che si era manifestato dopo la seconda guerra mondiale. La crescita in larghezza era una crescita alimentata in modo sostenuto da un aumento dell’occupazione, basato sull’immigrazione di manodopera poco qualificata. La disoccupazione Gli sforzi per migliorare il livello di produttività dell’economia portarono alle prime ristrutturazioni e queste all’apparizione della disoccupazione, come fenomeno normale sia nella fase di recessione, sia in quelle di espansione dell’economia. Si cominciò a parlare di uno “zoccolo” della disoccupazione, ossia di un livello di disoccupazione al disotto del quale l’economia svizzera non poteva più andare se non voleva correre il rischio di un aumento troppo forte dei salari che poteva compromettere ancora di più la sua posizione competitiva a livello internazionale. Se il “paradiso della crescita” era un mondo di piena occupazione, il “purgatorio della stagnazione” è un mondo nel quale la disoccupazione possiede uno zoccolo insopprimibile. Allo Stato toccò un nuovo ruolo: quello di mettere in piedi una politica della reintegrazione dei disoccupati, rafforzando le misure di collocamento, finanziando i programmi di riqualificazione e quelli di sostegno, e generalizzando, nel 1977, l’applicazione dell’assicurazione contro la disoccupazione. Parte seconda: il purgatorio 75 Figura 11: Evoluzione della disoccupazione in Ticino Fonte: Annuario cantonale di statistica L’evoluzione del tasso di disoccupazione nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso e nei primi anni del nuovo secolo mette in evidenza una tendenza di fondo all’aumento che non può non preoccupare. Prima del 1984 il tasso medio di disoccupazione, come indicano sia i dati della serie dei tassi di disoccupazione, sia quelli della media mobile, era pari all’1%. Nella seconda metà degli anni ottanta, il tasso medio si raddoppia e sale al 2%. In parte questo aumento è dovuto al fatto che la statistica sulla disoccupazione incorpora, a partire dal 1984, anche i dati riguardanti la disoccupazione parziale. Ma la presenza dei disoccupati parziali non basta per spiegare l’intero aumento del tasso medio. Bisogna ammettere che, anche nel corso degli anni ottanta, in un periodo tutto sommato di crescita economica media, la media del tasso annuale di disoccupazione è aumentata di un 1%. È come se allo zoccolo della disoccupazione si fosse aggiunto uno scalino. Dal 1990 al 1998 la disoccupazione conosce un periodo di forte aumento, seguito da una diminuzione che però non riesce a riportare lo zoccolo al livello del 2%. Nel 2002, all’inizio del nuovo periodo di recessione, la disoccupazione si assesta infatti sul 3%, valore che sembra dar inizio a un nuovo livello dello zoccolo della disoccupazione incomprimibile, superiore di un 1% a quello precedente. Il fenomeno dello spostamento verso l’alto del livello di disoccupazione ineliminabile non è un problema particolare al solo Ticino. Nel suo volu- 76 Dal paradiso al purgatorio me sui problemi di sviluppo dell’economia germanica dal titolo “Der Kobra Effekt”, Horst Siebert descrive un’evoluzione dello zoccolo di disoccupazione in quel Paese che è praticamente parallela a quella della disoccupazione in Ticino (Siebert H., 2001). Quello che deve soprattutto preoccupare è che la disoccupazione aumenti anche in periodo di espansione. Questa situazione può essere spiegata solo in due modi: – o dall’esistenza di una forte disarmonia tra offerta e domanda di lavoro. Per fare un esempio, le operaie delle camicerie che perdono il loro posto di lavoro non possono facilmente essere riassunte come infermiere negli ospedali o nelle case per anziani; – o dal fatto che in certe professioni, in generale le meno qualificate, il salario minimo offerto per essere riassunti è inferiore alla rendita pagata dall’assicurazione di disoccupazione, aumentata dai costi che il disoccupato deve affrontare per ritrovare un posto di lavoro. Precarietà dell’impiego e flessibilità del lavoratore Accanto alla disoccupazione è aumentata, nel corso degli ultimi ventanni, anche la precarietà dell’occupazione. Un indicatore dell’emergere di questa nuova realtà è rappresentato dall’aumento della quota di occupati a tempo parziale. Il censimento delle aziende registra questa nuova categoria di lavoratori solo dal 1985. In quell’anno, gli occupati a tempo parziale, in Ticino, rappresentavano appena il 6% del totale (frontalieri compresi). Nel 1991, la quota era già raddoppiata e dieci anni dopo, nel 2001, raggiungeva il 20% dell’occupazione complessiva. La tendenza all’aumento della quota dei lavoratori a tempo parziale si accompagna alla tendenza all’aumento del tasso di attività femminile e all’aumento di importanza dei rami del sociale, della sanità e dell’educazione nel totale dell’occupazione e al diffondersi delle agenzie che mettono a disposizione lavoratori per periodi di tempo limitati. La precarietà, quindi, non ha solo aspetti negativi. Spesso il lavoro a tempo parziale è l’unica possibilità per la donna, che deve addossarsi anche gli impegni famigliari, di poter esercitare un’attività lucrativa. È importante tener conto di questa trasformazione della struttura delle forze di lavoro, in particolare quando si misura la produttività. Poiché i dati circa la durata del lavoro (con o senza le ore straordinarie) sono particolarmente frammentari, in Svizzera si usa stimare la produttività per addetto e non la produttività oraria. Supponiamo che il valore aggiunto, assicurato dalla manodopera impiegata in un certo anno sia lo stesso di quello realizzato dalla manodopera impiegata l’anno successivo. Supponiamo che il numero degli addetti non cambi da un anno all’altro, ma che la quota di lavoratori a tempo parzia- Parte seconda: il purgatorio 77 le aumenti da 0 a 10%. In questo caso il valore aggiunto del secondo anno sarebbe stato conseguito con un impegno di ore di lavoro minori. La produttività oraria dovrebbe aumentare anche se la produttività per addetto dovesse restare costante. Ovviamente il modo corretto di procedere in questo caso sarebbe di calcolare il numero degli addetti, aggiustandolo per tener conto dei lavoratori a tempo parziale, il che darebbe una diminuzione degli effettivi, inferiore però al 10%. Dopo l’aggiustamento anche la produttività per addetto dovrebbe aumentare. Da ultimo ricordiamo che la precarietà dell’impiego non si esprime naturalmente solo attraverso la durata parziale della settimana lavorativa. Precaria è l’occupazione quando il rapporto di lavoro non è stabile e quando la protezione giuridica del lavoratore si riduce. La precarietà si caratterizza inoltre per il fatto che spesso la qualità delle mansioni affidate è inferiore alle qualifiche che il dipendente possiede o per il fatto che il dipendente non gode delle prestazioni sociali che gli possono essere assicurate con un posto a tempo pieno (si veda in particolare il caso della cassa pensione). Al concetto di precarietà del mercato o dell’offerta di posti di lavoro si oppone il concetto di flessibilità. I paladini della flessibilità sostengono che una parte della disoccupazione, se non tutta, è dovuta alla mancanza di flessibilità dell’offerta di lavoro. Le critiche maggiori, da questo punto di vista, riguardano il livello dei salari e la mobilità. Poiché la disoccupazione in Svizzera è di natura strutturale, vale a dire legata alla chiusura e alla ristrutturazione di aziende che operavano in mercati nei quali l’offerta è eccedente, capita spesso che i disoccupati non trovino più occupazione nella professione che esercitavano prima del licenziamento, oppure che la possano trovare, solo però se accettano di spostarsi diverse decine di chilometri per trovare un nuovo posto. Se il disoccupato ha difficoltà a ritrovare un’occupazione nella sua professione dovrà accettare di essere riqualificato. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, anche dopo la riqualifica il disoccupato non troverà un posto di lavoro che lo retribuisca con il livello di salario che conseguiva prima. Per questa ragione la riqualifica o il cambiamento di professione non vengono accettati da molti disoccupati. Lo stesso si può dire della mobilità. Trasferirsi da una località a un’altra (anche se il trasferimento non comporta il trasloco) genera costi che vanno dedotti dal salario o dallo stipendio che la persona che ritrova il lavoro riceverà al nuovo posto. Questi costi – inclusi quelli non quantificabili legati al deterioramento dei rapporti sociali nella località di residenza – possono essere importanti e quin- 78 Dal paradiso al purgatorio di influenzare in modo negativo la volontà del disoccupato di ritrovare un impiego. Gli economisti sostengono d’altra parte che il salario non può essere determinato dalla formazione avuta o dall’esperienza professionale dei lavoratori, ma solamente dalla loro produttività al posto di lavoro che viene loro assegnato. Di conseguenza, se il posto di lavoro disponibile ha una produttività inferiore a quella del posto che il lavoratore ha perso, il lavoratore dovrà accettare una riduzione del suo salario. Generalizzando a partire da questa argomentazione vi sono degli economisti che sostengono che gli alti tassi di disoccupazione che si registrano in certe economie (nazionali o regionali) sono da attribuire al fatto che, nel passato, i salari in queste economie sono aumentati più rapidamente della produttività. Che ne è del Ticino? Per quel che riguarda una verifica empirica di questo assunto ci scontriamo purtroppo con le insufficienze della statistica. L’annuario di statistica cantonale ha pubblicato una serie concernente l’evoluzione dei salari orari e degli stipendi mensili fino al 1993. Dal 1994 la statistica dei salari cambia completamente di impostazione cosicché diventa impossibile stabilire, nemmeno in lontananza, un indicatore dell’evoluzione salariale per gli ultimi anni. Ma il discorso del rapporto tra evoluzione dei salari e evoluzione della produttività non può essere accantonato quando si discute di disoccupazione e dei rimedi che si possono adottare per combatterla. Il lavoro nero Consideriamo da ultimo il problema del lavoro nero. Il mercato nero è, di solito, la conseguenza di una regolamentazione statale alla quale l’imprenditore o il consumatore vogliono sottrarsi. Per quel che riguarda i rapporti di lavoro, si può dire che la prima fonte di lavoro nero in Svizzera sono state certamente le misure di restrizione all’immigrazione di manodopera estera, introdotte nel 1964. Quando una disposizione di questo tipo non è rispettata, altre, che pure regolano il rapporto di lavoro, come quelle che concernono i contributi alle assicurazioni sociali, o l’assicurazione contro la disoccupazione, oppure le norme dei contratti collettivi di lavoro, o misure fiscali concernenti il certificato di salario, ecc., non lo saranno. E di fatto i settori nei quali il lavoro nero è più diffuso sono i servizi domestici e l’agricoltura che occupano molti lavoratori stranieri. Nell’edilizia e nei servizi del turismo (industria alberghiera, ristoranti) si può invece affermare che il lavoro nero si è sviluppato parallelamente al diminuire del numero degli stagionali. Osserviamo Parte seconda: il purgatorio 79 ancora che il lavoro nero può andare dall’esecuzione di un’attività che domanda solo poche ore di applicazione (per esempio il disoccupato che cura il giardino di un professionista, il sabato mattina, senza essere stato assunto con un regolare contratto di lavoro per questa mansione) a un’occupazione costante con un tasso di attività del 100%, se non addirittura superiore (è il caso di certi “turisti” stranieri che fanno la stagione in agricoltura o in altre attività produttive). È difficile dire quale sia attualmente la quota dei lavoratori al nero nel totale dell’occupazione, oppure la quota del valore aggiunto da questi lavoratori nel totale del valore aggiunto dell’economia ticinese. Studi fatti a livello nazionale, parlavano, per il 2001, di una quota di economia sommersa pari al 9.3% del valore aggiunto complessivo, ossia di un importo pari a 37 miliardi di franchi (Consiglio federale, 2002). È probabile che in Ticino, per il maggior grado di apertura del nostro mercato del lavoro e per la maggior importanza di rami come l’edilizia e l’industria alberghiera, come pure per la possibilità che il lavoro nero sia svolto da aziende di oltre frontiera (possibilità questa che non è contemplata negli studi a livello nazionale), la quota dell’economia sommersa possa essere maggiore. Il lavoro nero, quando concerne una percentuale così alta del prodotto di una regione, crea problemi non irrilevanti. Il primo e più importante è un problema di carattere sociale rappresentato dal fatto che i lavoratori al nero non godono della necessaria protezione contro malattie e incidenti o delle provvidenze per la vecchiaia. Ma il lavoro nero ha anche risvolti negativi di tipo economico. Esso provoca infatti importanti perdite di risorse fiscali. Se si suppone che i salari al nero non vengono praticamente dichiarati, il calcolo per il Ticino è presto fatto. Con un tasso di lavoro al nero del 10%, i salari di questi lavoratori si aggirano sugli 800 milioni di franchi all’anno e corrispondono a 560 milioni di reddito imponibile sui quali i lavoratori al nero pagherebbero quasi 100 milioni di imposte al Cantone e ai Comuni. Un’altra conseguenza negativa del lavoro nero è di impedire un corretto funzionamento del mercato del lavoro, penalizzando in modo particolare i datori di lavoro onesti che si vedono concorrenziati in modo sleale da ditte che fanno ricorso al lavoro nero. I lati negativi del “purgatorio della stagnazione” nel quale si trova coinvolta, da circa trent’anni, l’economia ticinese si manifestano soprattutto nei confronti dell’occupazione. Nel corso di questo periodo si è infatti avviato, anche in Ticino, un processo di fragilizzazione del mercato del lavoro. 80 Dal paradiso al purgatorio Figura 12: La fragilizzazione del mercato del lavoro ticinese Fonte: per il tasso di disoccupazione l’Annuario statistico cantonale, per la quota di lavoro a tempo parziale i censimenti federali delle aziende. La quota di lavoro nero è una stima dell’autore basata sui dati nazionali 14. Il purgatorio della stagnazione: due rami particolarmente colpiti I processi di ristrutturazione, manifestatisi nel corso degli ultimi trent’anni, hanno colpito in modo particolarmente forte due delle locomotive del processo di sviluppo della fase precedente, ossia l’industria delle costruzioni e il turismo. L’industria delle costruzioni Si può affermare che questo ramo ha fatto il Ticino moderno. Se c’è un momento simbolico che segna il passaggio del Ticino dalla civiltà rurale di prima della seconda guerra mondiale a quella del terziario avanzato di oggi, pensiamo che possa essere il periodo durante il quale furono realizzati i grandi investimenti idroelettrici del Brenno e della Maggia. La diga, il lago artificiale, gli elettrodotti dell’alta tensione vengono evocati in romanzi come “L’anno della valanga” di Giovanni Orelli o “L’albero genealogico” di Piero Bianconi come interventi dell’uomo che non solo cambiano il paesaggio, ma di fatto cambiano anche la struttura sociale e l’evoluzione delle nostre valli. L’industria delle costruzioni non solo ha fatto il Ticino moderno, costruendone strutture e infrastrutture, ma, per tre decenni, dopo la seconda guerra mondiale, ha guidato il suo sviluppo economico, incremen- Parte seconda: il purgatorio 81 tando la quota degli investimenti nel reddito cantonale e accelerando così il processo di accumulazione del capitale. Lo sviluppo della sua attività fu spesso accompagnato da fenomeni speculativi. Lo sviluppo e la decadenza di questa industria può quindi essere descritto dalla curva che riproduce l’evoluzione degli investimenti nelle costruzioni, riportata nella figura 13. Figura 13: Evoluzione degli investimenti nell’industria delle costruzioni Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate L’andamento dell’attività nell’industria delle costruzioni è ciclico. La prima forte ondata di espansione si conclude nel 1965, in seguito ai provvedimenti presi dalla Confederazione per combattere il surriscaldamento dell’economia. La ripresa, nel 1970, è dovuta all’avvio dei lavori per la realizzazione dell’asse autostradale del S.Gottardo e all’inizio del grosso programma di costruzioni nel settore della depurazione delle acque. Ma anche l’edilizia privata, in particolare quella a fini commerciali (si veda, per fare un solo esempio, il caso dei supermercati e delle sedi bancarie) conosce un forte rilancio. Lo sviluppo dell’attività nell’industria delle costruzioni viene di nuovo bloccato da provvedimenti di freno alla congiuntura nel 1972/73. Questi provvedimenti segnano l’inizio di una profonda crisi di questo ramo che permane praticamente fino alla fine degli anni settanta con un’eccedenza di vani costruiti da occupare sul mercato. La ripresa si manifesta solo 82 Dal paradiso al purgatorio all’inizio degli anni ottanta e si rafforza notevolmente negli ultimi 4 anni del decennio in seguito allo sviluppo di una bolla speculativa nella costruzione di uffici e alloggi che determina un forte rialzo dei prezzi dei terreni e delle costruzioni (raddoppio annuale dei prezzi). La bolla speculativa è alimentata dal credito bancario, concesso in modo generoso. Essa scoppia però all’inizio degli anni novanta per l’operare congiunto, da un lato, dei tre provvedimenti urgenti di lotta contro la speculazione nel mercato delle costruzioni, adottati dalla Confederazione, e, dall’altro, per l’impennata dei tassi ipotecari che salgono, cosa mai vista in precedenza in Svizzera, fino a sfiorare l’8%. La diminuzione degli investimenti, dalla vetta del ciclo, nel 1990, al punto di maggiore depressione, nel 1999, è dell’ordine del 30%. La ripresa comincia lentamente a manifestarsi a partire dalla fine del secolo. Ma i tempi sono cambiati. I fattori che alimentavano la crescita ossia gli investimenti del settore pubblico, la crescita della popolazione e l’espansione dei flussi turistici o non influenzano più la domanda di costruzioni nella misura in cui la influenzavano in precedenza, o sono spariti. A questa evoluzione ciclica della domanda, interrotta dagli interventi di freno alla congiuntura e alla speculazione fondiaria del governo federale, come ha reagito l’offerta? Nella figura 14 abbiamo riprodotto l’evoluzione degli indici del numero delle aziende e del numero degli occupati. Figura 14: Evoluzione del numero delle imprese di costruzione e del numero degli occupati (indice = 100 nel 1962) Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate Parte seconda: il purgatorio 83 Se compariamo l’evoluzione di questi due indici dell’offerta con quella della domanda (rappresentata dagli investimenti) ci scontriamo con messaggi contradditori difficili da interpretare. Dapprima osserviamo che, ad eccezione del periodo successivo al 1990, il numero delle imprese di costruzione in Ticino evolve nello stesso modo in cui evolvono gli investimenti nell’edilizia. Ricordiamo al lettore che quando si parla, per il Ticino, di mercato delle costruzioni, ci si riferisce a un concetto astratto che non esiste nella realtà. Nella realtà esistono invece un certo numero di mercati regionali, almeno uno per ogni distretto, se non di più. Il mercato delle costruzioni è un mercato regolato non solo per il fatto che la sua attività, quando tende ad espandersi troppo rapidamente, viene sempre frenata da interventi del governo federale, ma anche perché le aree costruibili sono fissate dai piani regolatori e per costruire occorre ottenere un permesso di costruzione. La forte densità della regolamentazione e la difficoltà quindi di ottenere facilmente le informazioni necessarie allo svolgimento dell’attività edile in una determinata localizzazione, fanno emergere mercati locali, dominati da singole imprese o da un numero limitato di imprese. L’importanza della componente pubblica degli investimenti non fa che rafforzare questo stato di cose. In certe valli del Ticino vi sono imprese di costruzione che vivono, da decenni degli appalti legati alla manutenzione di poche strade di montagna. Questo fa si che esistano ostacoli alla razionalizzazione dell’offerta di questo ramo di produzione. Il numero delle imprese quindi, fino al 1990 è cresciuto, o diminuito, a seconda della congiuntura senza che nel settore si sia manifestata una ristrutturazione. Nel corso degli ultimi quindici anni, invece, il numero delle imprese tende a diminuire lentamente. Ma è ancora troppo presto per affermare che una ristrutturazione sia effettivamente in corso, perché oggi contiamo praticamente lo stesso numero di aziende di 40 anni fa. Nel prossimo futuro, però, nella misura in cui la libera circolazione potrà esercitare i suoi effetti anche nei mercati delle costruzioni, una drastica ristrutturazione dell’offerta indigena sarà inevitabile. Anche l’evoluzione del numero degli occupati pone qualche problema interpretativo. A prima vista, si potrebbe affermare che questa evoluzione, tenendo presente la costanza dell’effettivo di imprese, nasconda un fenomeno positivo, ossia l’aumento della produttività. La dimensione media delle imprese si è più che dimezzata, nel corso degli ultimi quarant’anni. Se i dati dell’occupazione rispecchiassero veramente l’evoluzione, manifestatasi in questo periodo, questo significherebbe che la produttività nel ramo delle costruzioni sarebbe aumentata a un tasso del 3.5% annuo, risultato da considerare come molto positivo. Tenendo però presente la piccola dimensio- 84 Dal paradiso al purgatorio ne delle aziende è difficile accettare questo risultato come plausibile, ragione per cui reputiamo che solo una parte della diminuzione degli effettivi sia da attribuire a un aumento della produttività. Il resto deve essere fatto risalire a una delle due seguenti cause, o a tutte e due: – errori nella statistica che rileva l’occupazione nelle imprese di costruzione – emergere di una forte tendenza al lavoro nero in questo ramo. Anche accettando per buona l’ipotesi del lavoro nero, resta acquisito che l’industria delle costruzioni, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, ha perso molto della sua importanza come ramo di produzione dell’economia ticinese. I dati del censimento federale delle aziende ci dicono infatti che, nel 1965, cioè quasi all’apice della sua prima ondata di espansione, questa industria dava occupazione al 22.2% dei lavoratori occupati nell’economia ticinese. Nel 2001 questa percentuale era scesa al 9.3%. Mentre oggi la quota degli occupati nel ramo delle costruzioni è quella normale di ogni economia sviluppata, nel 1965, nel Canton Ticino, essa era sovradimensionata. Per il futuro occorre attendersi a una liberalizzazione del mercato interno e quindi all’insediarsi, anche in Ticino (nel resto della Confederazione la tendenza è in atto da almeno un decennio) di un processo di concentrazione a livello delle imprese di costruzione. Il turismo In Ticino, l’attività turistica ha una lunga tradizione che risale alla fine del XIX° secolo, ossia al momento in cui fu aperta la galleria ferroviaria del S. Gottardo. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, però, l’attività turistica si limitò a qualche centinaia di migliaia di pernottamenti di ospiti, concentrati negli alberghi dei capoluoghi del Ceresio e del Lago Maggiore. Con l’espandersi della motorizzazione privata in Europa occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, il turismo lacuale divenne un turismo di massa. Così, mentre prima della seconda guerra mondiale il numero dei pernottamenti in albergo si aggirava sul milione, dal 1950 al 1971, i pernottamenti in albergo salirono da 1,4 a 3,7 milioni. Dopo il 1970 però, inizia un periodo di stagnazione della domanda, interrotto solamente da un’impennata nel 1975 e negli anni 1980 e 1981. Quest’ultimo aumento fu provocato dall’apertura della galleria autostradale del S. Gottardo. Nel 2003, i pernottamenti erano scesi a 2,5 milioni. La composizione dei pernottamenti è mutata di molto nel corso di questo lungo periodo. Mentre all’inizio degli anni cinquanta, la maggioranza dei pernottamenti erano assicurati da persone provenienti dal resto della Svizzera (62.9%), a partire dalla metà degli anni cinquanta e fino al 1970, la Parte seconda: il purgatorio 85 maggioranza dei pernottamenti era assicurata da turisti provenienti dall’estero. Nel 1965, la quota degli stranieri aveva raggiunto il 60.9%. Figura 15: Evoluzione del numero dei pernottamenti in albergo Fonte: Annuario di statistica cantonale In seguito, invece, la percentuale dei pernottamenti di turisti stranieri è diminuita e si sta attualmente avvicinando, come mostra la figura 16, ai valori che aveva all’inizio degli anni cinquanta (circa 40%). Figura 16: Evoluzione della quota degli stranieri nel totale dei pernottamenti in albergo Fonte: Annuario di statistica cantonale 86 Dal paradiso al purgatorio Come si deduce dal grafico, la diminuzione più forte di questa quota si è verificata nel corso degli anni settanta. Si può calcolare che, in seguito alla rivalutazione del franco svizzero, gli alberghi ticinesi abbiano perso, tra il 1973 e il 1978, almeno 300'000 pernottamenti di turisti stranieri. Notiamo ancora che la ripresa nella quota dei pernottamenti di turisti stranieri, che si verifica all’inizio degli anni novanta, è dovuta semplicemente al fatto che in quel periodo la diminuzione dei pernottamenti degli stranieri è meno rapida della diminuzione dei pernottamenti degli svizzeri. Non è dunque da considerare come un fenomeno positivo o una correzione di tendenza importante. L’offerta turistica nel settore alberghiero si è sviluppata di conseguenza. La diminuzione dei pernottamenti ha portato a una diminuzione del tasso di occupazione dei letti e quindi della redditività degli esercizi alberghieri. A poco, a poco si è istallata una tendenza alla chiusura di esercizi. Quando, per continuare l’attività, sarebbero stati necessari degli investimenti, i proprietari o chiudevano, o cambiavano la destinazione del loro edificio (appartamenti in condominio, apartment-hotel, residenze per anziani, ecc.). Per gli alberghi più piccoli, a gestione famigliare, la decisione di chiudere arrivava al momento del ricambio generazionale. In certi casi, la tendenza alla riduzione dei letti in albergo ebbe un influsso negativo sull’evoluzione dei pernottamenti perché anticipò addirittura la diminuzione degli stessi. Figura 17: Evoluzione del numero degli alberghi, dal 1960 Fonte: Annuario di statistica cantonale Parte seconda: il purgatorio 87 Come dimostra la curva della figura 17, mentre nel corso degli anni sessanta l’effettivo degli alberghi era aumentato, dalla fine di quel decennio in poi, la tendenza è alla diminuzione. In trent’anni, il numero degli alberghi è passato in Ticino da quasi 900 a meno di 600. Dal 1970 al 2002, quindi, un albergo su tre ha chiuso le sue porte. Il numero dei letti in albergo è pure diminuito, ma a un ritmo più lento. Questo significa che la dimensione media dell’esercizio alberghiero, misurata con il numero di letti è aumentata. Dai 27 letti del 1960, la dimensione media dell’albergo ticinese è aumentata a 42 letti nel 2002, nel tentativo di contenere i costi e il rincaro dovuto alla rivalutazione del franco attraverso le economie di scala. Gli esperti del settore affermano tuttavia che oggi continua ad esistere un eccesso di offerta nel settore alberghiero e che, nel corso dei prossimi anni, la tendenza alla diminuzione del numero degli esercizi continuerà a manifestarsi. In relazione al turismo di massa si parla molto del ruolo giocato dalle strutture di ricezione para-alberghiero (appartamenti e case di vacanza, campeggi, ostelli per la gioventù). La statistica che riguarda i pernottamenti in queste strutture non è molto precisa. Osserviamo che dal 1977 in avanti il numero dei pernottamenti in strutture para-alberghiero è uguale, per dimensione, a quello dei pernottamenti in albergo. La recessione di cui soffre oggi il turismo ticinese si applica quindi sia al turismo alberghiero, sia ai flussi ospitati da strutture non alberghiere. La perdita di attrattiva è quindi generalizzata a tutti i tipi di strutture ricettive. Neanche l’apertura della galleria autostradale del Gottardo e la realizzazione dell’autostrada da Chiasso ad Airolo sono riuscite a frenare, in modo definitivo, il declino dei pernottamenti. Il turismo è oggi uno dei grandi malati dell’economia ticinese. Al suo capezzale sono accorsi molti esperti. Molto più che nel caso del declino dell’edilizia o della ristrutturazione dei rami ad alta intensità di lavoro, la decadenza del turismo ha dato la stura a studi, visioni, concetti e strategie. Non da ultimo questa situazione di particolare attenzione è data dal fatto che nel turismo lo Stato ha versato e versa notevoli risorse finanziarie. Tante diagnosi, tanti suggerimenti sul da farsi, che però non hanno avuto successo. Chi scrive pensa che la decadenza del turismo ticinese sia da attribuire a perdita di quote di mercato dovuta alla insufficiente competitività dell’offerta ticinese, in un mercato nel quale, nel corso degli ultimi decenni, la domanda è stata in buona parte appropriata dai grandi operatori internazionali. Per dirla in modo più chiaro: la settimana di soggiorno in Ticino costa troppo rispetto alla settimana di soggiorno al mare che un turista tedesco, 88 Dal paradiso al purgatorio olandese o scandinavo può comperare in qualsiasi località turistica marittima, affacciata sul Mediterraneo e che, per soprammercato, può raggiungere in aereo, con il biglietto dell’aereo incluso nel prezzo del soggiorno. Il grande operatore trascura quindi l’offerta ticinese. Figura 18: Il circolo vizioso della decadenza del turismo alberghiero Fonte: Elaborazione dell’autore Come si può rilevare dal grafico, la decadenza è determinata da due processi che si sviluppano contemporaneamente e le cui conseguenze negative si cumulano. Il primo è quello determinato dai prezzi troppo elevati che porta a una perdita di competitività, a una diminuzione dei pernottamenti, alla redditività insufficiente degli alberghi e, quindi, alla necessità di aumentare i prezzi per poter mantenere l’albergo in attività. Se questo non è più possibile, si avvia il secondo processo che porta o alla riduzione del numero dei letti o alla chiusura dell’albergo, il che ovviamente determina una perdita di attrattiva e competitività complementare a quella determinata dai prezzi troppo elevati. La decadenza, insomma, rafforza la decadenza in un circolo vizioso di cui, per il momento, non si vede la fine. Per il futuro non si tratta tanto di rilanciare i flussi turistici, quanto di ottimizzarli, rispetto soprattutto alle esigenze di gestione delle strutture alberghiere. 15. Il purgatorio della stagnazione: i rami che si sono sviluppati Dal 1975 al 2000, durante la fase del ciclo di lungo termine, che abbiamo chiamato il purgatorio della stagnazione a causa del declino del tasso di cre- Parte seconda: il purgatorio 89 scita e di quello del tasso di aumento della produttività, la struttura di produzione dell’economia ticinese si è profondamente modificata. Se i tassi di variazione di produzione, occupazione e produttività sono stati molto più contenuti che nel periodo de “les trentes glorieuses”, la struttura di produzione ha conosciuto cambiamenti sostanziali che hanno permesso, almeno nei primi due decenni, di mantenere l’aumento dell’occupazione. Il merito di questi risultati è da attribuire a pochi rami che hanno conosciuto un’espansione dell’occupazione, durante questo periodo. Tabella 4: Variazione dell’occupazione per ramo dal 1975 al 2001 Ramo Altri rami manifatturieri Tessili, abbigliamento Metallurgia Alimentari, bevande, tabacco Energia, protezione ambiente Altri servizi Produzione carta Edilizia, genio civile Cave e miniere Trasporti, depositi, spedizioni, posta e telecom. Prodotti minerari non metalliferi Legno e mobili Arti grafiche Commercio al minuto Industria alberghiera, ristoranti Amministrazione pubblica, assicurazioni sociali Cuoio e calzature Macchine, apparecchi, veicoli, elettronica Gomma e materie plastiche Banche, assicurazioni e istituti finanziari Chimica e petrolio Commercio all’ingrosso Istruzione, scuole, istituti Cultura, divertimenti, sport Attività organizzazioni associative Sanità, servizi sociali Immobili, noleggio, informatica Totale Fonte: Censimenti federali delle aziende Variazione percentuale – 82.3% – 69.6% – 51.1% – 50.9% – 20.2% – 17.4% – 11.4% – 3.2% – 1.1% – 0.4% 11.1% 20.0% 24.4% 25.2% 26.5% 33.5% 35.4% 51.5% 65.4% 71.8% 76.5% 90.8% 111.0% 180.2% 191.9% 216.7% 3332.0% 30.3% 90 Dal paradiso al purgatorio L’evoluzione dell’occupazione nell’economia ticinese, durante l’ultimo quarto del secolo scorso, è caratterizzata da fenomeni di aumento e da fenomeni di diminuzione. Considerando le cifre ramo per ramo ci accorgiamo che, complessivamente, le aziende ticinesi hanno creato 53'150 e soppresso 15'718 posti di lavoro. Il saldo di questi due dati dà un aumento pari a 37'432 posti di lavoro. I rami nei quali l’occupazione si è sviluppata in misura superiore alla media, nel corso del periodo 1975-2001, si trovano, in generale, nel settore dei servizi. L’aumento proporzionalmente più forte l’ha registrato il gruppo “immobili, noleggio e informatica”, grazie all’aumento degli addetti del ramo “informatica”. Il ruolo dell’innovazione tecnologica Dei 12 rami con un tasso di aumento dell’occupazione superiore alla media in questo periodo, solo 4 si trovano nel settore manifatturiero. Si tratta del ramo cuoio e calzature, del ramo macchine, apparecchi, veicoli e elettronica, del ramo gomma e materie plastiche e del ramo della chimica e del petrolio. I dati riguardanti il ramo del cuoio e delle calzature possono però essere influenzati dalla nuova definizione dei rami, adottata nel 2001. Se lasciamo cadere questo ramo ci accorgiamo che la crescita dell’occupazione nel settore manifatturiero è legata all’attività di innovazione. Chimica, elettronica, elettrotecnica, meccanica, veicoli sono infatti rami dominati dall’attività di innovazione tecnologica che aiuta di certo a tener alto il ritmo di aumento della produttività. Non esistono molti dati sull’innovazione tecnologica per ramo in Svizzera. Nel rapporto del Consiglio svizzero della scienza del 1999, erano contenute informazioni sul numero delle patenti per ramo di produzione industriale, nel periodo 1991/93 e 1994/96 (Consiglio svizzero della scienza, 1999). In particolare il rapporto riportava la quota di aziende per ramo che avevano registrato, nel corso del triennio analizzato, almeno 1 patente, da 2 a 5 patenti, o più di 5 patenti. Se ci limitiamo all’ultima categoria e consideriamo la media delle due quote (ossia la media della quota 91/93 e della quota 94/96) ci accorgiamo che il ramo con maggiore innovazione tecnologica è la chimica, seguita dal gruppo macchine, elettrotecnica, elettronica, veicoli, e dal gruppo lavorazione dei metalli e prodotti in metallo. Tutti gli altri rami possiedono quote molto meno importanti. Tuttavia questi rami del settore manifatturiero, più il ramo della gomma e delle materie plastiche, assieme, non rappresentano, in Ticino, che il 9.1% dell’aumento dell’occupazione, manifestatosi tra il 1975 e il 2001 (aumento che è stato di 53150 unità). L’innovazione tecnologica è quindi importante nel settore industriale come determinante di nuovi posti di lavoro. Il suo impatto sulla domanda addizionale di lavoro dell’economia ticinese non Parte seconda: il purgatorio 91 è però stato molto importante. Vedremo invece che un ramo come l’informatica, dove l’innovazione è pure importante, ha generato un volume importante di nuovi posti di lavoro, ma nel settore dei servizi. L’innovazione tecnologica è importante perché permette di rafforzare la competitività della nostra produzione. Ma non è un’attività che porta alla creazione di molti posti di lavoro. Anzi, nella forma dell’innovazione di processo, essa può portare piuttosto alla riduzione che all’aumento dei posti di lavoro (Rifkin J., 2000). È un dato di fatto che sfugge spesso a chi raccomanda una politica di promozione dell’innovazione e pensa che la stessa possa risolvere i problemi dell’occupazione nel Cantone (si veda anche la discussione sul rapporto Evoluzione/produttività/occupazione nel cap. 12). La creazione di posti di lavoro nel settore dei servizi Bisogna dunque riconoscere che il periodo della stagnazione economica, in Ticino, è caratterizzato dall’espansione dell’occupazione nel settore terziario. Ma non si tratta di tutto il terziario. L’espansione dell’occupazione nel terziario è concentrata praticamente in quattro rami: – il ramo dell’immobiliare, noleggio e informatica – il ramo della sanità e del sociale – il ramo dell’istruzione delle scuole e degli istituti – e il ramo del commercio all’ingrosso Questi quattro rami hanno creato 32'701 posti di lavoro, pari al 61.5% di tutti i posti di lavoro creati nell’economia ticinese nel corso del periodo analizzato. Se nel caso del settore manifatturiero, la creazione di posti di lavoro è legata, in modo abbastanza evidente, a un solo fattore, l’innovazione tecnologica, nel terziario l’espansione dell’occupazione ha più determinanti. L’innovazione tecnologica è di sicuro responsabile dell’aumento dell’occupazione nel ramo dell’immobiliare, del noleggio e dell’informatica. Reputiamo infatti che l’occupazione di questo ramo si sia sviluppata soprattutto per l’importanza che hanno assunto le attività dell’informatica. L’occupazione del ramo della sanità e quella del ramo dell’istruzione crescono invece per l’operare congiunto di fattori demografici, politici ed economici. Tra i fattori demografici bisogna citare l’invecchiamento della popolazione che fa crescere la domanda di servizi sanitari e sociali. Tra i fattori politici, invece, ricordiamo, a livello federale, l’introduzione dell’assicurazione invalidità e, a livello cantonale, la pianificazione ospedaliera e la creazione dell’Ente ospedaliero cantonale, la pianificazione delle case per anziani, la democratizzazione degli studi e la creazione, da parte delle autorità cantonali dei nuovi licei e, nell’ultimo decennio del secolo scorso, di 92 Dal paradiso al purgatorio due istituzioni universitarie (l’USI e la SUPSI). Il fattore economico che ha influenzato, in modo determinante, l’aumento della domanda per i servizi offerti da questi due rami è stato infine l’aumento del reddito pro-capite. Un discorso a parte merita l’evoluzione dell’occupazione nel ramo del commercio all’ingrosso e dell’intermediazione. Non vi sono a prima vista ragioni evidenti per spiegare il forte sviluppo di questo ramo, nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso. Nel grafico che segue abbiamo riportato gli indici di evoluzione del numero delle aziende e dell’effettivo degli occupati di questo ramo dal 1975 al 2001, per calcolare gli indici (base 100 nel 1975) abbiamo utilizzato i risultati dei censimenti federali delle aziende. Figura 19: Evoluzione del ramo del commercio all’ingrosso e della mediazione commerciale Fonte: Censimenti federali delle aziende Ci si accorge subito che lo sviluppo di questo ramo si è manifestato nel corso degli anni ottanta. Dopo il 1991, invece, il ramo ristagna, sia in termini di aziende, sia in termini di occupati. Delle due attività integrate in questo ramo è quella del commercio all’ingrosso a nutrire lo sviluppo, mentre l’attività di mediazione non ha conosciuto praticamente nessuna crescita, dal 1975 in poi. Le aziende del ramo sono piccole (l’occupazione media varia, durante tutto il periodo analizzato, tra le 5 e le 6 persone). Le aziende individuali formano una quota consistente del totale (almeno 30%). Questi dati suggeriscono come possibile interpretazione che lo sviluppo del ramo debba Parte seconda: il purgatorio 93 essere fatto risalire ai processi di liberalizzazione del commercio internazionale di merci che si sono manifestati nel corso degli anni settanta e ottanta. La liberalizzazione nel traffico di merci sembra aver tolto ostacoli all’entrata di nuove aziende nel ramo del commercio all’ingrosso. Più che di una spiegazione si tratta però di un’ipotesi che andrebbe verificata. Un’altra ipotesi che andrebbe verificata attribuirebbe la crescita del settore alla forte espansione dell’informatica nel corso degli anni ottanta. Mentre tra il 1965 e il 1975 l’effettivo delle aziende di questo ramo era restato stabile, tra il 1975 e il 1985 sono state create quasi 400 nuove aziende nel ramo del commercio all’ingrosso. Tra il 1985 e il 1991 altre 300. In quindici anni, quindi, il numero delle aziende si è più che raddoppiato. Può darsi che con la deindustrializzazione talune aziende abbiano rinunciato alla produzione e si siano trasformate in aziende importatrici di componenti o prodotti finiti che vendono all’ingrosso. Anche il numero dei posti di lavoro è aumentato in misura notevole. Si tratta di un fenomeno rilevante per la struttura di produzione dell’economia ticinese. Ma non sembra che abbia attirato l’interesse dei commentatori economici. Anche noi non siamo in grado di dire molto e dobbiamo accontentarci delle ipotesi riportate qui sopra. Il mistero dell’espansione del ramo del commercio all’ingrosso permane quindi. È come se avessimo ricevuto un regalo e non sapessimo il nome del mittente. 16. Il purgatorio della stagnazione: effetti collaterali Vi sono diversi effetti collaterali al fenomeno della stagnazione economica e della trasformazione della struttura di produzione nell’economia ticinese. Due degli stessi riguardano l’organizzazione territoriale e, più precisamente, la struttura dell’abitato. Si tratta, da un lato, dell’urbanizzazione, ossia del processo di concentrazione della popolazione residente in pochi centri urbani, e, dall’altro, del rafforzamento della gerarchia dei centri con l’emergenza di Lugano come centro più importante del Cantone. Questo secondo effetto ha messo un po’ in crisi il concetto di “città-regione” sul quale era stato costruito il primo Piano Direttore del Cantone. Approvato verso la fine degli anni ottanta dello scorso secolo, ma concepito di fatto all’inizio di quel decennio, il Piano Direttore cantonale aveva infatti coniato questa formula, politicamente geniale, anche se generatrice di qualche confusione dal profilo tecnico, per definire il principio dell’organizzazione territoriale del Cantone. Si trattava di una formula geniale perché se da un lato riconosceva l’evidenza, ossia il rapido progredire dell’urbanizzazione del nostro territorio, dall’altro preservava un discorso di equilibri spaziali tra le regioni, o per lo meno tra Sopraceneri e Sottoceneri, attribuendo ad ambedue le regioni un ruolo consistente nella costruzione della città-regione. 94 Dal paradiso al purgatorio Di fatto questa città si snodava da Chiasso a Biasca e da Bellinzona a Locarno, riempiendo tutti i fondovalle e le poche pianure del Cantone. La città-regione – qualcuno parla anche di città-Ticino – mostrava di avere una vitalità economica interessante, sostenuta, si pensava allora, da una specializzazione che, se all’inizio degli anni ottanta era ancora in nuce, avrebbe dovuto svilupparsi con il passare del tempo. Bellinzona sarebbe così divenuta la capitale amministrativa, Lugano quella finanziaria, con un’appendice importante nel Mendrisiotto che restava però anche regione industriale e di attività logistiche. Infine Locarno si sarebbe orientata verso il turismo e le altre attività del tempo libero e della cultura, conservando però nel centro e in periferia di agglomerato importanti aziende industriali. Poiché il fenomeno di urbanizzazione era generale, il concetto di città-regione era, come si usava dire allora, un concetto “win-win”, che faceva vincere tutti. Il fatto che taluni disponevano di migliori carte degli altri e, di conseguenza, erano probabilmente destinati a guadagnare di più, non suscitava allora né critiche, né gelosie particolari. Semmai il problema dell’equilibrio spaziale era quello di trovare opportunità di sviluppo per tutte le zone – che rappresentano anche oggi più del 90% del territorio cantonale – che non rientravano nella città-regione. Si puntava allora per queste zone sul rilancio delle attività agricole e sulla promozione di forme di turismo particolare, molto più in sintonia con l’ambiente naturale di quanto non fosse il turismo dei laghi. Di fatto queste attese sono andate deluse. Nel corso degli ultimi venti anni, per effetto dell’autostrada e della rivoluzione telematica, con il suo impatto significativo sulla concentrazione spaziale dei servizi, l’organizzazione del territorio ticinese è mutata sostanzialmente. Non solo i 3 agglomerati urbani maggiori si sono affermati in modo quasi schiacciante rispetto allo sviluppo del resto del Paese, ma anche la gerarchia urbana si è verticalizzata, favorendo l’emergere dell’agglomerato di Lugano come zona urbana più importante e della “nuova Lugano” come località centrale leader nel Cantone. Questo fenomeno può essere misurato anche in termini quantitativi. Nella tabella che segue abbiamo riportato l’evoluzione delle quote nell’occupazione totale e nella popolazione residente nel Cantone dei 3 agglomerati principali e di quello di Lugano in particolare. Si osserva che sia le quote dei 3 agglomerati principali (Lugano, Bellinzona e Locarno) sia quella dell’agglomerato di Lugano sono aumentate in modo molto rilevante. È vero che parte di questo aumento di importanza delle Parte seconda: il purgatorio 95 quote degli agglomerati deve essere attribuito all’aumentato numero di comuni che li compongono. Ma il fatto che la superficie degli agglomerati aumenta non viene che a confermare l’importanza del processo di concentrazione di attività economiche e popolazione a livello cantonale. Gli agglomerati si sviluppano infatti in modo centrifugo. Tabella 5: Evoluzione delle quote degli agglomerati nel totale dell’occupazione e della popolazione residente Variabili osservate e agglomerati Occupazione 3 agglomerati principali Lugano 1975 2001 55.3% 29.1% 74.1% 44.5% Popolazione residente 3 agglomerati principali Lugano 52.6% 25.2% 71.6% 39.3% Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate Notiamo intanto che la concentrazione è maggiore per i posti di lavoro che per la popolazione. Da un po’più della metà, nel 1975, la quota dei tre agglomerati nel totale è passata a quasi 3/4 nel 2001. Osserviamo che la superficie dei tre agglomerati insieme non rappresenta nemmeno il 10% della superficie del Cantone. La quota dei tre agglomerati nel totale della popolazione residente è però solo leggermente inferiore, mentre l’evoluzione nel corso dell’ultimo quarto di secolo è analoga. La differenza tra la quota nell’occupazione e la quota nella popolazione residente rappresenta il saldo positivo dei movimenti pendolari dal resto del Cantone verso gli agglomerati. Agglomerato e pendolari Si tratta di una nozione tipica della statistica svizzera. Per agglomerato la statistica intende un gruppo di comuni, formato, di regola, da una città-centro con più di 10'000 abitanti e da una corona di comuni che sono uniti da una continuità di costruzione con la città e che con la stessa intrattengono importanti relazioni economiche. L’intensità delle relazioni economiche viene misurata con la quota di lavoratori pendolari che dai comuni della corona si recano, quotidianamente, in città per esercitare la loro attività. In Svizzera si contano una quarantina di agglomerati di cui 4 in Ticino: Bellinzona, Locarno, Lugano e Mendrisio/Chiasso. L’agglomerato di Mendrisio/Chiasso presenta tre 96 Dal paradiso al purgatorio caratteristiche particolari. In primo luogo perché conta due centri. In secondo luogo, perché questi centri non raggiungono i 10'000 abitanti. In terzo luogo perché si estende oltre frontiera. Il guadagno maggiore di quota lo realizza però l’agglomerato di Lugano. Di conseguenza, nel corso del periodo della stagnazione economica, non solo si è realizzato una forte concentrazione di attività economiche e popolazione sugli agglomerati principali, ma, all’interno degli agglomerati, è l’agglomerato di Lugano che, di gran lunga, si è sviluppato nel modo più rapido. Questa tendenza si spiega con la modificazione della struttura dell’occupazione che ha visto l’affermarsi sempre maggiore del settore dei servizi. Aggiungiamo che se all’inizio del periodo esaminato i servizi erano concentrati, in misura molto forte, nei centri dei tre agglomerati urbani principali (per fare un solo esempio, nell’agglomerato di Lugano nel 1975 più dei 3/4 della superficie di vendita dei commerci al dettaglio si trovava ancora in città), nel corso dell’ultimo decennio, una parte dei servizi ha cominciato a spostarsi verso località periferiche dell’agglomerato. All’interno degli agglomerati si manifesta così una tendenza alla suburbanizzazione. In altre parole, la città-centro perde di importanza in favore dei comuni della zona suburbana. Tabella 6: La deconcentrazione dell’occupazione nei tre agglomerati urbani Città Lugano Bellinzona Locarno Quota nell’occupazione dell’agglomerato nel 1975 67.6% 71.5% 43.5% Quota nell’occupazione dell’agglomerato nel 2001 43.3% 58.3% 37.9% Fonte: Annuario statistico cantonale e Statistica delle città svizzere Nel caso di Bellinzona e di Lugano, il deconcentramento dei posti di lavoro è stato favorito dalla realizzazione dell’autostrada che, di fatto, viene utilizzata in questi agglomerati, come strada di circonvallazione da una parte dei consumatori dei comuni suburbani e del centro per evitare le code e la mancanza di parcheggi in centro e raggiungere direttamente i supermercati, sviluppatisi in prossimità delle uscite autostradali. È probabile che la realizzazione della circonvallazione in galleria di Locarno abbia provocato lo stesso fenomeno anche se nel Locarnese i centri del Parte seconda: il purgatorio 97 commercio al dettaglio non sono ancora così deconcentrati come negli altri due agglomerati. Prima di terminare questo capitolo sull’evoluzione dell’organizzazione territoriale nel periodo della stagnazione, pensiamo sia necessario fare un accenno alle cattedrali del consumo sorte in prossimità delle uscite autostradali di Chiasso, Mendrisio, Lugano-sud, Bellinzona-sud e -nord. Si potrebbe quasi affermare che in contrapposizione ai vecchi nuclei cittadini, costruiti per una popolazione che si spostava a piedi, nel corso degli ultimi venticinque anni si sia sviluppato un nuovo Ticino urbano, una città per chi vive con l’automobile, attorno ai centri di acquisto e ai parcheggi gratuiti del Serfontana (Morbio Inferiore), di Grancia e di S. Antonino, per non parlare della Fox Town di Mendrisio e dei centri di Castione. Non è difficile mettere in contrapposizione questi nuovi centri e i vecchi nuclei cittadini in quanto una specializzazione delle funzioni è andata sviluppandosi nel corso di questo periodo. I vecchi nuclei sono i luoghi del lavoro mentre i centri shopping alle uscite dell’autostrada stanno diventando i luoghi di incontro del tempo libero. Non solo per le offerte sempre più ampie e più variate di merci e di servizi che vi si trovano, ma anche perché i promotori di questi centri hanno, come visione a lungo termine, l’ambizione di diventare il gestore del tempo libero 24 ore su 24 attraverso un’integrazione sul posto di tutte le attività di consumo, di comunicazione e di svago. Ai negozi specializzati e alle grandi superfici si aggiungeranno – se già non ci sono – le banche, i ristoranti, le diagnosi mediche rapide, le consulenze legali in stile telegrafico, i centri internet, i casinò e i disco, i centri wellness, le sale di ginnastica e di body building e i cinema multisala. Non è escluso che gli stadi per il gioco del calcio, i campi da tennis e, di sicuro, anche i campi per il golf, o per lo meno i terreni di esercizio per i golfisti, vengano a completare l’offerta di svago di queste nuove città di periferia, concepite e gestite in funzione dell’accesso in automobile e di un tempo libero a ritmo frenetico. L’ultima osservazione sul fenomeno dell’urbanizzazione concerne l’emergere di una vera e propria gerarchia urbana. L’agglomerato di Lugano rappresenta oggi il 60% dei posti di lavoro nel secondario e nel terziario e il 55% della popolazione residente nei tre agglomerati urbani principali. La “nuova Lugano” con quasi 50'000 abitanti e 36'000 posti di lavoro è dominante anche dal profilo della gerarchia dei centri cittadini. L’emergere di questa nuova gerarchia urbana, molto più verticalizzata di quella che prevaleva ancora venti anni fa, corrisponde al fenomeno di gerarchizzazione che si riscontra nell’economia. Si tratta di un fenomeno che non genera più solo vincitori, come era il caso nell’approccio soli- 98 Dal paradiso al purgatorio dale della città-regione. Occorre infatti riconoscere che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’equilibrio spaziale tra Sopra- e Sottoceneri, ma anche quello all’interno della rete di agglomerati urbani, si è rotto in favore di Lugano. Se la città-regione del Ticino resiste, come rete di centri urbani, bisogna ammettere che, all’interno di questa rete, un nodo si è ingrossato molto più degli altri e tende ad assumere una posizione dominante. Il discorso sull’organizzazione del territorio avrà così difficoltà a continuare a svilupparsi attorno a un concetto di equilibrio spaziale, come poteva essere quello della città-regione; l’evoluzione in atto sembra indirizzarlo sempre di più verso una contrapposizione tra vincenti e perdenti, tra Sottoceneri e Sopraceneri, se non addirittura tra Lugano e il resto del Cantone. 17. Il ruolo dello Stato nel purgatorio della stagnazione Le cause della diminuzione dei tassi di crescita del prodotto interno lordo e della produttività sono diverse. È giusto però includere tra le stesse la perdita di importanza dell’attività dello Stato come agente che investe nell’economia. Nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso, gli investimenti dello Stato non giocarono più, in Ticino, il ruolo di motore trainante dello sviluppo che avevano avuto nel corso degli anni cinquanta. Lo Stato continuò tuttavia a esercitare una forte influenza sullo sviluppo dell’occupazione. Come abbiamo visto nel capitolo che precede, due dei rami nei quali lo sviluppo dell’occupazione fu più forte, ossia il ramo dell’educazione e quello del sanitario e del sociale sono largamente finanziati dall’ente pubblico. Economicamente parlando non sono però più gli investimenti che determinano l’impatto economico dello Stato, ma il consumo. Cercheremo in questo capitolo di passare in rassegna l’azione economica del Cantone, riprendendo la tripartizione in: – impatto sulla domanda globale – politica fiscale – e misura di promozione del potenziale di produzione che avevamo già utilizzato nel capitolo 8 della prima parte. La gestione della componente pubblica della domanda globale Anche nella seconda fase del ciclo secolare, la spesa pubblica si sviluppa in modo rapido ma i tassi annuali di espansione rimangono al disotto dei livelli raggiunti nel corso della prima parte. La figura 20 riproduce l’evoluzione della spesa pubblica e del debito pubblico nel corso di questo periodo. Parte seconda: il purgatorio 99 m Figura 20: Evoluzione della spesa e del debito pubblico del Cantone dal 1975 al 1973 Fonte: Fino al 1985 Pellanda G. (1988), dal 1985 Annuario statistico cantonale L’evoluzione della spesa e del debito pubblico del Cantone nel corso degli ultimi decenni è abbastanza simile all’evoluzione che queste due variabili avevano avuto nel periodo 1950-1975. Infatti, per una prima parte del periodo (1975-1986), l’andamento delle due variabili è stato abbastanza parallelo, mentre nella seconda parte dello stesso, la spesa è cresciuta, più o meno allo stesso ritmo, mentre il debito pubblico dapprima diminuiva in modo marcato (fino al 1990-91), poi riprendeva a salire, più o meno al ritmo della spesa, fino al 1998. Nel corso degli ultimi 5 anni del periodo analizzato, il debito pubblico è di nuovo diminuito. Ma probabilmente questa è una tendenza non destinata a durare nel tempo. L’andamento di queste due serie è influenzato dalle modifiche che, nel 1990, sono intervenute a livello di piano contabile del Cantone. Non pensiamo tuttavia che le stesse abbiano modificato in maniera drastica le tendenze di fondo. L’evoluzione descritta nel grafico suggerirebbe che nel corso della seconda metà degli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta, le finanze del Cantone si siano trovate di fronte a problemi di equilibrio abbastanza forti (si veda anche la valutazione che ne dà il Pellanda nella sua tesi di laurea), mentre in seguito il Cantone è riuscito a finanziare il suo preventivo senza dover ricorrere, in maniera eccessiva all’indebitamento. La curva che dà l’evoluzione della spesa mette però in evidenza che, tra il 1984 e il 1986 il ritmo di crescita della spesa del Cantone è stato interrotto. Sono gli effetti dei pacchetti di risparmio che parlamento 100 Dal paradiso al purgatorio e governo avevano introdotto per ritrovare l’equilibrio finanziario che era stato perso a partire dalla fine degli anni settanta. Per mancanza di informazioni statistiche non sono inclusi nell’analisi gli ultimi due anni, ossia il 2003 e il 2004, che sembrano essere stati anni di gravi difficoltà finanziarie. Interessante è anche verificare come sia evoluta, nel corso di questo periodo, la quota della spesa cantonale nel reddito cantonale. Figura 21: Evoluzione del rapporto tra spesa del Cantone e reddito cantonale dal 1975 al 2002 Fonte: Annuario statistico cantonale, diverse annate L’effetto delle misure di risparmio, adottate nei primi anni ottanta è ancora maggiormente visibile nella curva che riporta l’evoluzione del rapporto tra spesa del Cantone e reddito cantonale (vedi figura 21). Dopo aver toccato un apice nel 1980, questo rapporto è diminuito durante tutto il decennio dal 1980 al 1990, per ricominciare a risalire, a partire dal 1995. Ricordiamo al lettore che se la spesa pubblica aumenta in parallelo al reddito cantonale, il valore del rapporto spesa pubblica/reddito cantonale resta costante. Il rapporto diminuisce quando la spesa aumenta meno rapidamente del reddito e, viceversa, aumenta quando la spesa aumenta più rapidamente del reddito. Sono state le gestioni Generali e Marti che hanno determinato un contenimento della spesa pubblica. Ma è difficile dire se questo contenimento seguiva principi neo-liberisti di finanza pubblica oppure era semplicemente in accordo con il principio keynesiano di una finanza pubblica anticon- Parte seconda: il purgatorio 101 giunturale. Che la seconda spiegazione sia la più probabile lo dimostra l’andamento del rapporto spesa pubblica/crescita dopo il 1995 e cioè al tempo della gestione della consigliera di stato Masoni. Anche questa gestione è ispirata al principio keynesiano, se non nelle parole, nei fatti. La storia delle finanze pubbliche del Cantone, nel corso degli ultimi trent’anni dimostra insomma che risparmiare è possibile, ma solo quando l’economia tira. Quando l’economia invece ristagna, come nel periodo 1995-2000, la spesa statale cresce molto più rapidamente del reddito cantonale, come mostrano anche i dati sull’evoluzione dell’elasticità della spesa del Cantone, rispetto al reddito. Si tratta del rapporto tra i tassi di variazione della spesa del Cantone e del reddito cantonale. Se la spesa del Cantone fosse finanziata solo dalle imposte sul reddito e non vi fossero fenomeni di progressione a freddo, il valore del rapporto tra il tasso di variazione della spesa del Cantone e il tasso di variazione del reddito cantonale dovrebbe aggirarsi attorno a 1. Se l’inflazione è sostenuta, l’imposizione del reddito progressiva e il fenomeno della progressione a freddo non viene eliminato, il rapporto in questione assume valori superiori a 1. La stessa cosa capita se l’aumento della spesa viene in parte finanziato con l’aumento del debito pubblico o da quote crescenti di imposte indirette. Tabella 5: Variazione della spesa del Cantone, del reddito cantonale e elasticità della spesa rispetto al reddito per periodi di 5 anni (dati di base in termini nominali) Periodi 1950-1955 1955-1960 1960-1965 1965-1970 1970-1975 1975-1980 1980-1985 1985-1990 1990-1995 1995-2000 Variazione della spesa del Cantone 31.9 28.3 190.5 39.6 91.5 35.4 14.2 18.2 27.1 12.3 Variazione del reddito cantonale 32.2 34.2 77.8 53.7 63.4 22.5 44.7 34.4 19.3 1.1 Elasticità della spesa rispetto al reddito 0.99 0.82 2.45 0.74 1.44 1.57 0.32 0.53 1.40 11.20 Elasticità = variazione della spesa/variazione del reddito Fonte: elaborazione dell’autore I dati della tabella danno un’altra illustrazione dell’evoluzione del rapporto tra la variazione percentuale della spesa del Cantone e la variazione percentuale del reddito cantonale (elasticità della spesa pubblica). Prima dell’introduzione di provvedimenti per eliminare la progressione a freddo, l’e- 102 Dal paradiso al purgatorio lasticità della spesa rispetto al reddito poteva superare, in periodo di inflazione elevata, l’unità (si vedano i valori per i quinquenni 1960-65, 1970-75 e 1975-80). In situazioni di inflazione moderata, il valore dell’elasticità si aggirava attorno all’unità (si vedano i quinquenni 1950-55, 1955-60 e 196570). Dopo l’introduzione dei provvedimenti intesi a eliminare la progressione a freddo, l’inflazione non ha praticamente più nessun influsso sull’evoluzione dell’elasticità. L’evoluzione dei valori del rapporto resta influenzata dalle decisioni in materia di politica della spesa e da quelle che concernono il suo finanziamento. In periodi di crisi economica, il rapporto tra variazione della spesa e variazione del reddito può aumentare (anche in modo marcato come nel periodo 1995-2000). Questo perché la crisi economica fa aumentare rapidamente il fabbisogno per certi tipi di spesa pubblica (in particolare la spesa di natura sociale). La politica fiscale Il periodo della stagnazione economica è anche il periodo delle revisioni fiscali. Dal 1975 al 1995 si contano infatti due nuove leggi fiscali 1976 e 1994 e una serie di importanti revisioni delle leggi esistenti negli anni 1978, 1980, 1982, 1984, 1990, 1994 (Franchini, 1996). La tendenza a una sempre più frequente revisione di singole disposizioni fiscali non ha cessato di manifestarsi dopo il 1995. Nel periodo dal 1975 al 1994, le modifiche più importanti della legislazione fiscale hanno riguardato la progressività (modifiche delle aliquote, ma anche eliminazione a tappe della progressione a freddo) e le deduzioni sul reddito. Nel periodo più recente, le modifiche più importanti sono state la riduzione dell’imposizione per le persone fisiche e per le persone giuridiche, la soppressione delle tasse di successione e l’introduzione dell’imposizione annuale del reddito e della sostanza. Nonostante le molte modifiche apportate sia al regime delle deduzioni sia alle aliquote di imposizione, la struttura fiscale nel Cantone Ticino rimane, stando al Franchini, che ha studiato l’evoluzione della legislazione fiscale fino al 1995, molto stabile. Non abbiamo purtroppo a disposizione indicazioni sull’evoluzione più recente e, in particolare, sull’impatto delle riduzioni di imposte sulla struttura stessa. Tenuto conto di quanto affermato dal Franchini si può tuttavia affermare che, almeno fino al 1995, la stagnazione dell’economia non aveva determinato nessuna reazione importante a livello fiscale. L’aumento nella frequenza delle modifiche della legislazione in atto non era quindi legata all’evoluzione economica, ma piuttosto a necessità di tecnica fiscale. Questo almeno fino alla decisione di ridurre le imposte. Sull’impatto di quest’ultima misura non siamo in grado di dire nulla perché non disponiamo, lo ripetiamo, dei dati necessari per fare una verifica. Parte seconda: il purgatorio 103 Figura 22: Evoluzione delle entrate da imposte e tasse cantonali dal 1978 al 2002 Fonte: Finances publiques en Suisse e Annuario statistico cantonale L’evoluzione delle entrate da imposte e tasse nel corso del periodo della stagnazione è sensibilmente diversa da quella manifestatasi nel corso del periodo di crescita. Il ritmo di variazione del gettito non è più esponenziale, come nel periodo 1950-1975, ma solamente lineare, probabilmente a causa dell’eliminazione della progressione a freddo. Non solo, ma dal 1994 al 1997 il gettito conosce, per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, una diminuzione. La forte recessione economica degli anni novanta dello scorso secolo si è quindi ripercossa in modo negativo sull’evoluzione delle entrate fiscali del Cantone. Al più tardi verso la metà degli anni novanta, il paradiso è finito anche per gli amministratori pubblici. Le finanze dello Stato conoscono problemi sempre più difficili da risolvere perché la spesa pubblica si evolve più rapidamente del gettito fiscale. Lentamente la visione dell’attività dello Stato cambia, nel corso di questo periodo. Si passa dal più Stato al meno Stato. Rafforzamento del potenziale di produzione La politica di sostegno all’economia del Cantone ha conosciuto una modifica importante, nel corso del periodo in esame. Negli anni settanta dello scorso secolo, la politica di promozione economica del Cantone che, fino allora si era limitata al settore industriale (questa legge verrà riformata due volte nel corso del periodo di stagnazione, soprattutto per permettere di 104 Dal paradiso al purgatorio sostenere progetti che promuovano l’innovazione tecnologica nelle aziende del secondario e del terziario), viene completata da due serie di provvedimenti. In primo luogo da una legge di promozione settoriale: la legge sul turismo che prevede misure organizzative e finanziarie a sostegno delle attività turistiche. In secondo luogo dai provvedimenti di economia regionale adottati dalla Confederazione. Si trattava in particolare della legge di aiuto agli investimenti nelle regioni di montagna, del 1974, e alle misure introdotte dal cosiddetto “decreto Bonny” del 1978 (rinnovato in seguito fino alla fine del periodo considerato in questa parte). I quattro strumenti a disposizione del Cantone per promuovere la propria economia non erano stati concepiti con obiettivi coordinati e con misure complementari. Cominciamo dal campo di applicazione. Mentre le leggi settoriali cantonali di promozione dell’industria e dell’economia valevano per tutto il territorio cantonale, le due leggi federali (che il Cantone metteva in esecuzione in ossequio al principio della ripartizione delle competenze) si applicavano solo su una parte del territorio. Più precisamente, la legge di aiuto agli investimenti solo nelle regioni di montagna e il decreto Bonny solo nelle regioni industriali colpite da fenomeni di forte disoccupazione e ristrutturazione, ossia a delle vere e proprie microregioni formate da pochi comuni. Per quel che riguarda le misure, gli interventi federali si distinguono da quelli cantonali perché non contemplano la possibilità del sussidio, possibilità che invece continua a restare importante nella politica di sostegno cantonale. Anche l’esenzione fiscale (sussidio indiretto) non viene contemplata a livello federale se non come misura eccezionale. Un terzo ambito di differenziazione è quello organizzativo. Il decreto Bonny e la legge sulla promozione industriale sostengono singole aziende o progetti di creazione di aziende. La legge sul turismo contempla misure che possono essere applicate a singole aziende, ma anche misure che sostengono l’azione di organizzazioni locali e regionali che promuovono il turismo. Infine la LIM, legge sull’aiuto agli investimenti nelle regioni di montagna, sostiene soprattutto progetti di infrastruttura promossi dai comuni o da associazioni di comuni, a patto che gli stessi facciano parte di un programma di sviluppo coordinato della regione che cerchi di rispondere a problemi di sviluppo ben identificati e che contenga un elenco delle priorità. Questo aumento degli strumenti di intervento, con obiettivi, beneficiari, aree di applicazione, misure e livelli amministrativi diversi, obbliga il Cantone a una notevole attività di coordinamento nella loro applicazione. Il periodo della stagnazione è anche il periodo nel quale fanno la loro apparizione questi strumenti. In primo luogo il piano finanziario quadriennale che, dai primi tentativi all’inizio degli anni ottanta, si sviluppa in modo continuo fino a diventare Parte seconda: il purgatorio 105 uno strumento di riferimento importante nella definizione dei preventivi annuali e della politica finanziaria a medio termine dello Stato. Parallelamente al piano finanziario, il Cantone introduce il piano degli indirizzi, che ha un orizzonte temporale molto più lungo e che dovrebbe contenere la visione strategica di lungo termine (15-20 anni) del governo cantonale. Ricordiamo ancora che a partire dal 1980 entra in vigore la legge federale sulla pianificazione del territorio che pure prevede uno strumento di coordinamento dello sviluppo di lungo termine: il piano direttore cantonale. Non mancano quindi gli strumenti per disegnare una strategia di sviluppo di lungo termine. Tuttavia questa strategia, a tutt’oggi, non esiste o, se esiste, non viene sempre osservata. Più le difficoltà finanziarie crescono e più crescono i bisogni dello Stato e più difficile sembra divenire la formulazione di una strategia di lungo termine che sia condivisa da tutti i membri del governo. D’altra parte occorre riconoscere che non esistono oggi metodi affidabili che permettano di mettere in piedi una visione dello sviluppo di lungo termine, che vada al di là dei desideri o delle paure dei singoli gruppi di attori nell’economia o nella società. Più si va avanti nel tempo e più sembra che le logiche delle politiche dipartimentali si impongano sui tentativi di creare un disegno strategico comune di lungo termine. Non solo, ma con sempre maggior frequenza il governo, o qualche suo dipartimento, propone all’opinione pubblica una nuova visione strategica senza spiegare come la stessa si inserisca in quelle esistenti. Oggi non esiste infatti né un calendario delle strategie, né una loro gerarchia. In questa situazione i contrasti e le contraddizioni a livello di obiettivi e di priorità possono essere molti. Le strategie che non dispongono di un sostegno politico consolidato perdono rapidamente di credibilità. 18. Il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, nel purgatorio della stagnazione Come abbiamo potuto costatare nella prima parte del nostro lavoro, nel periodo di forte crescita dell’economia svizzera e ticinese, allo Stato era stato riconosciuto un ruolo se non di guida, almeno di orientatore, nella impostazione di una politica di sviluppo di lungo termine. Contemporaneamente si attribuiva allo Stato il compito di dotare l’economia delle condizioni-quadro migliori e delle infrastrutture necessarie allo sviluppo della stessa. Pur tenendo conto delle restrizioni al ruolo dello Stato nell’economia che le cerchie della destra economica non si stancavano di precisare, bisogna riconoscere che, fintanto che l’economia restò nel paradiso della crescita, le opinioni sul ruolo dello Stato nell’economia erano 106 Dal paradiso al purgatorio positive. Anzi, in taluni casi, entusiastiche. La situazione in materia di opinioni sul ruolo dello Stato cambiò in modo sostanziale durante il periodo della stagnazione. Anche se il dibattito fu più nutrito nel resto della Svizzera che in Ticino, in questo capitolo ci occuperemo soprattutto del risvolto ticinese, concentrandoci sull’apporto di due contributi critici che ci sembrano riassumano molto bene la discussione sviluppatasi qui da noi. Contro lo Stato da destra e da sinistra Dalla fine degli anni settanta l’intervento dello Stato nell’economia viene sottoposto a verifica critica sia da rappresentanti della sinistra marxista, sia da rappresentanti della destra neo-liberale. La critica da sinistra si ispira, in generale, al lavoro di James O’Connor sulla crisi fiscale dello Stato (O’Connor J, 1979). Con il termine di “crisi fiscale” O’Connor intende designare le difficoltà che gli Stati nella fase del capitalismo maturo (la fase del cosiddetto “warfare-welfare State”) incontrano nel finanziamento di una spesa pubblica sempre più in espansione. Per gli autori di sinistra il capitalismo è responsabile di questa evoluzione. Per poter invertire la rotta, e ricondurre lo Stato a una dimensione accettabile, occorrerà mutare il sistema. La critica da destra, o neo-liberista, non è molto diversa nell’analisi. Essa dimostra come la quota dello Stato nel prodotto interno lordo tenda a crescere negli Stati più avanzati. Sostiene, in secondo luogo, che questa crescita del settore pubblico limiti le possibilità di crescita del privato e, per finire, tenda a frenare il processo di crescita economica aggregato. Suggerisce quindi come soluzione di ridurre la quota dello Stato, aumentando l’efficienza dell’amministrazione e privatizzando una parte delle prestazioni pubbliche. Dal più al meno Stato Mentre a livello nazionale il dibattito critico sul ruolo dello Stato è stato condotto, in preponderanza, da economisti di matrice liberista, nel Canton Ticino lo stesso è stato avviato dalla sinistra e più precisamente dalla pubblicazione di Martino Rossi “Dal più al meno Stato” (Rossi M., 1984) che riprende, in parte, uno slogan elettorale, coniato dal partito liberale radicale nel 1979: meno Stato, più libertà. Rossi parte dall’analisi generale della crisi fiscale dello Stato, fatta da James O’Connor, un classico per la sinistra in relazione al problema della riconversione dello Stato nella fase di stagnazione economica. Ma il suo discorso concerne il caso ticinese che viene considerato come il caso di una regione che stava conoscendo le conseguenze Parte seconda: il purgatorio 107 negative di un periodo di forte crescita, che Rossi definisce come “il periodo dell’economia del più”. Dopo aver presentato l’evoluzione delle finanze dello Stato e delle misure di politica economica del Cantone ( occupandosi in particolare dell’insuccesso di queste misure), nel periodo di forte crescita, Rossi concentra il suo esame sul cambiamento che si era manifestato, durante gli anni settanta, nella concezione del ruolo che lo Stato doveva avere nei confronti dello sviluppo economico. Lo fa soprattutto nell’ultimo capitolo del suo libro “il perché del meno Stato” sul quale vogliamo ora soffermarci. Per il nostro autore, all’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo era percepibile, anche in Ticino, una “reticenza del contribuente e una certa disillusione verso le virtù dello Stato e della spesa pubblica”. Per Rossi si tratta di una crisi di “legittimità” che trae la sua origine da tre cause: – la crisi economica e i risultati deludenti della politica economica – la cosiddetta “crisi fiscale”dello Stato – l’onere crescente dello “Stato sociale” Mentre nel periodo del paradiso della crescita o dell’economia del più, gli investimenti pubblici – se non l’intera spesa dello Stato – erano considerati come elementi portanti dello sviluppo economico, con il rallentamento della crescita, manifestatosi a partire dalla metà degli anni settanta, per utilizzare un’espressione di Rossi, “gli investimenti pubblici manifestano rendimenti decrescenti”. Questa spiegazione è interessante. In effetti Martino Rossi è l’unico tra i commentatori dell’azione dello Stato che cerca di spiegare perché lo Stato, nel periodo della stagnazione economica, investa di meno. Di conseguenza, mentre dieci anni prima si pensava che lo Stato potesse farsi carico dello sviluppo dell’economia, ora si chiede il ridimensionamento dello Stato. La crisi fiscale è la seconda causa della crisi di legittimità. Rossi attribuisce la crisi fiscale (in italiano dovremmo piuttosto scrivere finanziaria invece dell’aggettivo anglosassone fiscale) – citando O’Connor – alla “socializzazione dei costi e all’appropriazione privata dei profitti” una definizione che non valeva certo per le difficoltà finanziarie dell’inizio degli anni ottanta, ma era sorprendentemente anticipatrice di quanto succederà invece nel corso degli anni novanta dello scorso secolo, con le privatizzazioni e l’enorme aumento della disoccupazione. Tornando all’analisi del caso ticinese, Martino Rossi mostra come quella che lui chiama “l’aliquota fiscale” – ossia la quota di reddito sociale prelevata fiscalmente dal Cantone e dai comuni – che era aumentata molto lentamente dal 1950 al 1970, cresca invece molto rapidamente dal 1970 al 1978, passando dal 12 al 20%, costituendo così la causa prima della “resistenza del contribuente”. 108 Dal paradiso al purgatorio L’aliquota fiscale sale in Ticino, secondo il nostro autore per due ragioni: – in primo luogo perché questa è una tendenza comune a tutti i paesi sviluppati durante il periodo 1950-1970, tendenza che, secondo noi, deve essere fatta risalire all’ampliamento delle prestazioni dello Stato, in particolare nei settori dell’educazione (effetto del baby boom degli anni cinquanta e sessanta e della democratizzazione degli studi) e del sociale (il fenomeno che noi, scherzosamente, abbiamo chiamato democrazia degli acciacchi), nonché al fenomeno della progressione a freddo; – in secondo luogo perché, a partire dalla metà degli anni settanta, i contributi della Confederazione a Cantone e comuni cominciano a diminuire, aggravando così le tensioni finanziarie già esistenti. La conseguenza di questo stato di cose, vale a dire di una tendenza dei conti dello Stato ad essere deficitari e della pratica impossibilità di aumentare ancora l’incidenza fiscale, è un forte aumento del debito pubblico del Cantone (al momento in cui Martino Rossi pubblicava il suo saggio, il debito pubblico del Cantone toccava il suo apice). Queste modifiche delle tendenze evolutive delle finanze cantonali si manifestano in parallelo con cambiamenti profondi della struttura della spesa stessa. Dopo aver esaminato l’evoluzione dal 1970 al 1980, Rossi osserva che le principali modifiche in questa struttura sono rappresentate dalla caduta della quota degli investimenti e dall’aumento della quota delle remunerazioni. Nei 20 anni successivi queste tendenze hanno continuato a manifestarsi, completate però da una terza: l’espansione della quota dei trasferimenti a terzi (sussidi). Il grafico 23 mette bene in evidenza queste modifiche. Figura 23: Evoluzione della struttura della spesa del Cantone secondo la classificazione economica dal 1970 al 2002 1970 0.5 Remunerazioni 27 36 Consumo di beni e servizi Interessi passivi Trasferimenti a terzi 12 Investimenti Prestiti e partecipazioni 16 8 Parte seconda: il purgatorio 109 1980 Fonte: I dati sono tratti dal saggio di M. Rossi 2002 Fonte: I dati sono pubblicati nell’Annuario statistico cantonale 2004 La crisi dello Stato sociale si manifesta quindi soprattutto negli ultimi venti anni e modifica profondamente non solo la struttura della spesa, ma anche il ruolo dello Stato nell’economia. Mentre nel periodo di forte crescita il Cantone aveva sostenuto lo sviluppo degli investimenti attraverso, in particolare, la sua politica di estensione e miglioramento delle infrastrutture, nel periodo della stagnazione il Cantone deve intervenire non più a monte, ma a valle del processo di sviluppo facendosi carico di una parte dei suoi costi, in particolare attraverso le assicurazioni sociali (assicurazione contro la disoccupazione inclusa) e la spesa ospedaliera. Mentre nel periodo del paradiso della crescita il ruolo del Cantone poteva essere rappresentato con la figura di un operaio delle acciaierie, nel periodo del purgatorio della stagna- 110 Dal paradiso al purgatorio zione, il ruolo economico del Cantone può essere rappresentato con la figura di un’infermiera. Tenuto conto di queste tendenze il titolo del saggio di Martino Rossi non sembra più giustificato. Dal 1950 al 1980 si è passati “Dal più Stato al meno Stato” per quel che riguarda la politica di sostegno dello sviluppo economico regionale, ma non per quel che riguarda la politica di sostegno dei redditi della popolazione ticinese. Considerato da questo punto di vista, il periodo della stagnazione è anche il periodo nel quale lo Stato di benessere, come testimonia l’evoluzione della quota dei trasferimenti a terzi, raggiunge il suo punto di espansione massima, sostituendosi agli investimenti come funzione di spesa principale del Cantone. Meno investimenti e più consumi pubblici. Non più uno Stato investitore, ma uno Stato benefattore. Arriva il neo-liberismo Qualche anno dopo la pubblicazione dello studio di Martino Rossi, usciva la tesi sulle finanze del Cantone di Giorgio Pellanda (Pellanda G., 1988). Lo studio è particolarmente interessante perché non si limita solamente alla descrizione dell’evoluzione delle finanze cantonali, come è il caso di molte tesi del genere, ma cerca anche di valutare l’utilizzazione delle finanze dello Stato come strumento di politica economica, in una prospettiva neo-liberista. Per questo autore, le finanze del Cantone rappresentano uno strumento importante per la realizzazione della sua politica economica. La critica del Pellanda non va quindi, di principio, contro l’intervento dello Stato nell’economia, ma contro l’inefficacia di questo intervento in relazione agli obiettivi della politica economica da esso perseguita. Guardando all’esperienza del periodo 1950-1985 l’autore di questo studio afferma che “il giudizio sulle finanze del Cantone non può essere (a prima vista) positivo”, perché pur spendendo molto, il Cantone non è riuscito né a conservare l’obiettivo del pieno impiego, né a ridurre la distanza che lo separava dalla media svizzera in termini di reddito pro-capite (di fatto lo scarto in termini di reddito pro-capite era restato costante. Alla luce dell’evoluzione degli anni seguenti, si può oggi affermare che aver saputo mantenere uno scarto costante deve essere considerato come un merito dell’azione dello Stato, anche se le ambizioni erano ben altre). Ma, aggiunge Pellanda, questo giudizio sarebbe poco generoso perché il Cantone, durante il periodo citato, ha comunque investito e speso molto per recuperare il ritardo infrastrutturale e per sostenere il reddito delle classi più deboli. Domanda, tuttavia, che si faccia attenzione perché la politica della mano bucata può portare a crisi finanziarie importanti, come quella dell’inizio degli anni ottanta. A questo Parte seconda: il purgatorio 111 punto Pellanda si chiede quali siano stati i fattori che hanno permesso, verso la metà degli anni ottanta, di riportare alla “normalità” le finanze del Cantone. Trova fra l’altro che vi sono stati importanti fattori interni come: – il controllo della spesa corrente e l’adozione di una mentalità e di un comportamento severi (blocco del personale, ricerca di soluzioni meno costose, coordinamento all’interno dell’amministrazione) – l’abbandono di determinate illusioni e una maggior consapevolezza delle reali possibilità di intervento dello Stato. L’autore osserva che quando le cause della crisi sono più strutturali che congiunturali “si assiste al decadimento del mito dell’intervento statale alla Keynes” (un’osservazione che non collima però per niente con l’esperienza di spesa del Cantone degli ultimi cinquant’anni!). Nel peggiore dei casi, aggiunge, l’intervento dello Stato può addirittura avere un effetto destabilizzante. Invece di una politica di sostegno della domanda, il Pellanda raccomanda quindi una politica “neutrale” del bilancio statale, “orientata più verso un rafforzamento delle strutture produttive, nel rispetto dello spostamento strutturale dell’economia”. Politica di bilancio neutrale Senza perderci nei meandri della teoria delle finanze, definiamo, con Pellanda, una politica di bilancio dello Stato come neutrale quando le seguenti condizioni sono rispettate: a) le uscite non devono crescere più del potenziale produttivo – a condizione però che sia assicurata la piena occupazione a medio termine (se questo non è Keynes!) b) le entrate da imposte non devono aumentare più di quanto aumenti il reddito dell’economia (eliminazione della progressione a freddo, dunque) c) a lungo termine l’indebitamento netto non può crescere più rapidamente del prodotto dell’economia d) la quota dello Stato nel prodotto dell’economia fondamentalmente non deve cambiare. Si tratta di un principio che il Cantone ha potuto rispettare solo nei periodi di crescita economica. Gli altri fattori che Pellanda cita in questo elenco non hanno niente a che fare con il risanamento delle finanze cantonali e riguardano piuttosto l’avvenire che il passato delle stesse. Pellanda si occupa in seguito dell’integrazione della politica finanziaria con la politica di sviluppo economico 112 Dal paradiso al purgatorio del Cantone, un’integrazione che, secondo lui, fino all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, non era per niente riuscita. Nelle sue conclusioni, l’autore di questo studio trova però che: – grazie alla “legge sulla pianificazione cantonale”, che prevede la stesura di un “rapporto sugli indirizzi” con gli obiettivi di sviluppo a lungo termine e di linee direttive e piani finanziari quadriennali, – grazie anche all’introduzione, sempre all’inizio degli anni ottanta, del Piano direttore urbanistico cantonale, finalmente lo Stato poteva disporre degli strumenti atti a facilitare l’integrazione. “Si assiste quindi alla nascita di un nuovo modo di agire dello Stato – dichiara festosamente in chiusura il nostro autore – incentrato sui principi della politica economica di stampo neo-liberale, e al definitivo abbandono della concezione ‘keynesiana’. L’intervento statale ruota attorno all’offerta e tende pertanto a rafforzare la base produttiva del Cantone, piuttosto che sostenere la ‘Domanda’e il livello di occupazione attraverso un intervento diretto”. Ora a sostegno di questa conclusione nel testo del Pellanda non si trova gran che. Forse la sola indicazione valida è l’accenno alla “neutralità” del bilancio statale rispetto alla congiuntura, principio che giunse in Svizzera dalla Germania verso la metà degli anni settanta. Della neutralità dei conti dello Stato oggi non parla più nessuno. Tuttavia è da ritenere che la sua realizzazione presupponeva che, in tempi di buona congiuntura, lo Stato spendesse meno di quanto incassava, mentre in tempi di cattiva congiuntura poteva spendere al massimo quello che incassava. Era una politica del contenimento del debito pubblico che, nonostante la definizione, non lasciava molto spazio a una politica anticongiunturale a sostegno dell’occupazione. Nonostante questo contributo alla definizione dei criteri di un bilancio statale austero, il neo-liberismo di Pellanda deve essere considerato, rispetto a quanto dovevamo aver modo di conoscere negli anni novanta e in questo secolo, come all’acqua di rose. Per quel che riguarda poi il suo postulato dei conti dello Stato neutrali, il bilancio dal 1975 al 1995 non è dei migliori (si veda anche la tabella 5 nel cap. 17). Mentre la spesa del Cantone segue più o meno l’andamento del reddito cantonale e, almeno per il periodo 1977-1987, rispetta appieno il postulato della neutralità, per le entrate fiscali il periodo di neutralità è durato solo 5 anni, dal 1977 al 1982. È tuttavia comprensibile che Pellanda, che scriveva verso la metà degli anni ottanta, abbia creduto data l’evoluzione in atto, che, con Parte seconda: il purgatorio 113 un’adeguata politica di austerità finanziaria, fosse veramente realizzabile. L’evoluzione delle finanze del Cantone, a partire dalla fine degli anni ottanta dimostra invece il contrario. Ovviamente la forte recessione degli anni novanta, con la crescita della spesa nel settore sociale, ma anche l’ampliamento dei compiti dello Stato, in particolare nel settore dell’educazione, doveva mandare a catafascio tutti i piani di mantenimento dell’austerità finanziaria. Figura 24: Evoluzione del reddito cantonale, della spesa del Cantone e delle entrate fiscali dal 1977 al 2002 Fonte: elaborazione dell’autore Note bibliografiche alla seconda parte Agustoni S. (1994): Produzione snella, scenari della delocalizzazione e limiti della deindustrializzazione in Svizzera, in “La Svizzera verso un deserto industriale?”, p. 13-88, “Quaderni della Fondazione Guido Pedroli”, NadaLibri, Casablanca Edizioni Consiglio federale (2002): Messaggio concernente la legge contenente misure di lotta contro il lavoro al nero del 16 gennaio 2002, Berna Consiglio svizzero della scienza (1999): La compétitivité technologique de la Suisse, F&B 2/99, Berna Franchini G. (1996): La fiscalità in Ticino dal 1800 al 1995, Bellinzona Hollenstein H., Lörtscher R., Stalder P. (1979): Regionale und branchenstrukturelle Differenzierung der wirtschaftliche Entwicklung und der Wirtschaftspolitik, Schweizerische Zeitschrift für Volkswirtschaft und Statistik, Hft. 3, p. 407-432 Knorr K., Baumol W.J. (1961): What price Economic Growth? Prentice Hall Inc., Englewood Cliffs, N.J. 114 Dal paradiso al purgatorio Korten D. (2004): Das Scheitern von Bretton Woods, in J. Mander e E. 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Sul futuro non si può che scommettere Nelle due prime parti di questo saggio, abbiamo descritto l’evoluzione dell’economia ticinese durante le due fasi di quello che, per il momento, è stato l’ultimo ciclo di lungo termine, il ciclo economico che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale. Nel corso della fase di ascensione, che abbiamo definito il “paradiso della crescita”, l’economia ticinese, come quella svizzera ha conosciuto tassi elevati di aumento del reddito regionale, della produttività per addetto e del reddito pro-capite in un regime di piena occupazione. Nel corso della fase successiva, che abbiamo definito il “purgatorio della stagnazione” i tassi di crescita del reddito, della produttività e del reddito pro-capite si sono ridotti a poca cosa, mentre la disoccupazione si è istallata, da noi e nel resto della Svizzera, come una componente costante, anche se indesiderata, del panorama congiunturale. Da circa venti anni questa situazione ha dato il via, in Svizzera e in Ticino, a un dibattito sul futuro e a diversi tentativi di rilanciare l’economia. Ma i risultati concreti, in termini di una netta ripresa dei tassi di crescita di prodotto nazionale e regionale, di produttività e di occupazione ancora si fanno attendere. La situazione non è quindi molto incoraggiante. Da un lato vi è una richiesta pressante da parte della popolazione, ma anche da parte di partiti e sindacati, alle autorità politiche perché facciano il necessario per riportare il treno della nostra economia sul binario della crescita. Dall’altro, vi è, come si è già ricordato, l’elenco sempre più lungo di tentativi di rilancio abortiti e di misure che non hanno avuto, o non hanno ancora avuto, l’effetto desiderato anche perché chi chiede misure non è sempre pronto ad approvarle. In questa situazione i buoni consigli valgono oro. Poterne offrire anche solo uno, che sia applicabile e il cui esito pratico sia sicuro, basterebbe forse per rialzare le sorti di una professione, quella dell’economista, che, se continua così, arrischia di essere abbandonata per mancanza di risultati. 116 Dal paradiso al purgatorio Intendiamoci, non è che ci si chieda di assicurare un rilancio dell’economia duraturo e solido per domani o dopodomani. Imprenditori, sindacalisti, datori di lavoro e lavoratori, autorità politiche, provati dal lungo periodo di stagnazione, sono anche disposti ad aspettare. Ma tutti vogliono sapere quando e come si manifesterà il rilancio. Tutti chiedono quali sono i rami sui quali potremo in futuro basarci per ritrovare la strada della crescita permanente, con la stessa partecipazione come se chiedessero i 6 numeri che facciano vincere al lotto svizzero. E nessuno tra gli esperti è in grado di dare alle loro domande, risposte attendibili. Perché? Perché i modelli di cui disponiamo non sono in grado di simulare l’andamento dell’economia, che su un periodo di due anni al massimo e basandosi su ipotesi molto conservative sulla natura delle relazioni che corrono tra gli aggregati della nostra contabilità nazionale come consumi (pubblici e privati), investimenti, esportazioni e importazioni e altre grandezze importanti dell’economia, come il livello dei prezzi, quello dei salari, l’aggregato della produzione, l’occupazione e chi ne ha più ne metta. Si tratta di un deficit di conoscenze teoriche sull’evoluzione del sistema economico nel lungo termine che non è, attualmente, eliminabile. Chi volesse rendersi conto delle difficoltà insite in una previsione economica a ventitrenta anni può dare un’occhiata all’esempio che segue. Lo stesso si basa su un’ipotesi molto semplice e cioè che l’evoluzione della struttura dell’occupazione tra il 1985 e il 2001 si sarebbe modificata nel medesimo modo in cui cambiò nel periodo 1975-1985. Si tratta dunque di un’estrapolazione su un periodo di 16 anni dell’evoluzione manifestatasi nei dieci anni precedenti. I risultati dell’estrapolazione figurano nel grafico a sinistra della figura 25. Il grafico a destra, invece, mostra la distribuzione effettiva, ossia quella che si può dedurre dai risultati del censimento delle aziende del 2001. Figura 25: Struttura dell’occupazione nei settori secondario e terziario nel 2001 2001 simulato 2001 effettivo Fonte: Censimenti federali delle aziende, elaborazione dell’autore Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 117 Per non complicare la presentazione abbiamo raggruppato i rami del secondario e del terziario in otto gruppi, di cui tre nel secondario e cinque nel terziario. Le differenze tra la previsione e la realtà sono visibili anche in questi grafici. L’errore di previsione varia tra il -35.3% e il 65.5%. L’errore maggiore concerne il gruppo degli altri servizi pubblici e privati che è stato per l’appunto sottostimato del 65.5%. È il gruppo nel quale si trovano riuniti i rami dell’educazione, della sanità e del sociale che, come abbiamo già osservato, hanno conosciuto l’aumento più forte di occupazione nel corso degli ultimi decenni. All’altro estremo, il ramo che è stato maggiormente sovrastimato è stato quello dell’edilizia e del genio civile che registra una diminuzione del 35.3% rispetto alla quota simulata. Se cerchiamo una spiegazione di questa evoluzione la troviamo unicamente a livello di demografia. L’invecchiamento della popolazione spiega infatti sia il rapido aumento dell’occupazione nei settori sanitario e sociale, sia la diminuzione dell’occupazione nel ramo dell’edilizia e del genio civile. Ora che la popolazione sarebbe invecchiata lo si sapeva già nel 1985. Ma nessuno sarebbe stato in grado di simulare, scegliendo i parametri adeguati, l’effetto dell’invecchiamento della popolazione sulla domanda di servizi sanitari e sociali, rispettivamente di costruzioni e sull’occupazione in questi rami. Notiamo poi che nessuno sarebbe stato in grado di anticipare la differenza nel totale dei posti di lavoro che risulta dalla nostra simulazione. Mentre la simulazione dà un totale di 172'500 posti di lavoro, i dati del censimento federale delle aziende ci dicono che nel 2001, probabilmente per effetto delle ristrutturazioni, nei settori secondario e terziario, i posti di lavoro erano solo 157'100 (un errore di previsione pari al 9.8%). A dire il vero, una spiegazione dell’evoluzione economica a lungo termine ci sarebbe. Si chiama, come abbiamo già ricordato, iniziando il nostro volume, ciclo di Kondratieff, nella versione schumpeteriana, ossia nella versione che collega l’andamento del ciclo all’apparizione di grappoli di innovazioni tecnologiche. Tuttavia, il ciclo di Kondratieff è più una spiegazione ex-post dell’evoluzione economica, manifestatasi dall’epoca della rivoluzione industriale ad oggi, che un modello che permetta di anticipare lo sviluppo secolare futuro. Lo storico dell’economia Nathan Rosenberg, che si è occupato a fondo del possibile carattere previsionale di questa teoria, ha negato, concludendo il suo esame, che il ciclo di Kondratieff possa essere riconosciuto come una specie di legge dell’evoluzione a lungo termine dell’economia che permetterebbe di prevedere, con una frequenza tra i 45 e i 60 anni, il riproporsi di fasi di rapido sviluppo. Ci pare interessante seguire il suo ragionamento (Rosenberg, 1982). Per essere in grado di dimostrare che esiste effettivamente un ciclo economico di lungo termine, legato 118 Dal paradiso al purgatorio all’innovazione tecnologica, bisogna essere in grado di spiegare quale sia il meccanismo teorico che ne permette una più o meno regolare riproduzione nel tempo, con intervalli, come si è detto, che vanno da 45 a 60 anni. Schumpeter, ci dice Rosenberg, credeva all’esistenza di un nesso causale tra le fluttuazioni nell’innovazione tecnologica, le fluttuazioni negli investimenti e le fluttuazioni nella crescita dei sistemi economici. Inoltre Schumpeter pensava che le innovazioni si raggruppassero in particolari momenti del tempo, generando così dei processi di accelerazione della crescita, le ondate di crescita di lungo termine. Queste ipotesi però non sono mai state verificate empiricamente. Né si è verificato che cambiamenti nel tasso di innovazione generino cambiamenti nel tasso di crescita degli investimenti, né tanto meno quale sia effettivamente l’impatto dei grappoli di innovazioni sull’evoluzione del prodotto nazionale e dell’occupazione. Ma c’è di più: Rosenberg dimostra che le condizioni che devono essere rispettate per procedere a una verifica empirica di questi nessi causali sono tali da rendere praticamente impossibile – nello stato attuale dell’elaborazione teorica e partendo dalle informazioni statistiche attualmente esistenti – una tale verifica. Senza addentrarci nell’esame dei numerosi problemi legati alla verifica del fondamento del ciclo di Kondratieff, ci accontentiamo di riportare la conclusione di Rosenberg: “Deve ancora essere dimostrato perché mai ci si debba attendere che i fattori responsabili di un ciclo di Kondratieff e dei suoi punti di svolta presentino un carattere ricorrente”. Rosenberg dunque non respinge la teoria del ciclo di lungo termine anche se dichiara di possedere un forte scetticismo nei suoi confronti. Che l’innovazione incida positivamente sugli investimenti e che questi incidano, pure positivamente, sulla crescita del prodotto nazionale, come pensava Schumpeter, è una catena di nessi causali che non può non essere accettata. Quello che Rosenberg non accetta è il resto: ossia la pretesa che le innovazioni appaiano a grappoli con grande regolarità per far ripartire una nuova ondata di crescita economica, tutti i 50 anni circa. Non lo accetta perché secondo lui le conoscenze disponibili in relazione al modo in cui le innovazioni appaiono nel tempo, al modo nel quale esse si diffondono nello spazio, alle loro relazioni di sostituibilità e di complementarità con prodotti esistenti, ai loro effetti netti sulla crescita del prodotto e dell’occupazione, sono ancora insufficienti per permetterci di verificare empiricamente l’esistenza di una simile regolarità. Nonostante i progressi fatti dalla ricerca empirica ancora non disponiamo di una relazione stimata che ci permetta di misurare quale potrebbe essere, nel lungo periodo, l’impatto degli investimenti in ricerca e sviluppo sul tasso di crescita di un’economia di piccole dimensioni come quella ticinese. Le critiche all’utilizzazione della teoria dei cicli di lungo termine per svilup- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 119 pare un modello di previsione della crescita basato sull’investimento nella ricerca restano valide, anche se oggi una frazione molto larga degli economisti sostiene che la crescita dell’economia, nei paesi più sviluppati, non può venire, in ultima analisi, che dall’innovazione tecnologica. Esse ci inducono a essere più attenti nell’esame dei meccanismi che trasmettono gli influssi positivi dell’innovazione a livello economico aggregato. In conclusione sulla natura dell’evoluzione a lungo termine, ossia quella dei prossimi venti anni, dell’economia ticinese non si può fare molto di più che scommettere. Da un lato sappiamo che i fenomeni che modificano la struttura di produzione si manifestano solo lentamente. Dall’altro sappiamo pure che gli effetti dell’innovazione tecnologica di prodotto possono essere sconvolgenti, decretando la morte in pochi anni di rami di produzione importanti o facendone nascere dei nuovi. Lo stesso effetto lo possono avere modificazioni importanti delle condizioni che regolano il commercio internazionale, come ulteriori processi di liberalizzazione degli scambi o misure che possono influire, in modo positivo o negativo, sul valore del franco. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, la struttura dell’economia svizzera – inclusa quella dell’economia ticinese – ha dovuto avviare un processo di adattamento molto costoso in termini di posti di lavoro, alle nuove condizioni economiche dettate dal procedere dei processi di liberalizzazione e dalla globalizzazione. Il processo di ristrutturazione proseguirà anche nel futuro e colpirà rami che fino ad oggi sono stati protetti, come quelli che producono per il mercato interno o quelli che godono di un sostegno finanziario da parte dell’ente pubblico. 20. Perché la crescita sostenuta è necessaria? Dall’inizio degli anni novanta dello scorso secolo, l’economia ticinese, come quella svizzera, conosce tassi di crescita molto contenuti che raramente superano il 2% annuo, in termini reali. Questi tassi vengono considerati dalla maggioranza dei commentatori come insufficienti. Ma non sempre risulta chiaro all’opinione pubblica il perché di tale insufficienza. Perché, nelle condizioni di un’economia capitalistica, è vero il motto che afferma: Chi si ferma è perduto? Perché la crescita del prodotto nazionale lordo a un tasso superiore a quello medio, realizzato nel corso degli ultimi dieci o quindici anni, è una necessità? Quando si leggono e si sentono i commenti dei media, l’argomento principe per giustificare la crescita sostenuta è un argomento di carattere sportivo. Il tasso di crescita deve aumentare per permettere alla Svizzera di conservare la sua posizione di testa nella classifica mon- 120 Dal paradiso al purgatorio diale dei paesi secondo il prodotto nazionale lordo pro capite. Dobbiamo quindi crescere a un tasso sostenuto per restare tra i primi paesi per ricchezza della popolazione? Personalmente non vedo quale possa essere l’utilità per la Svizzera di essere nella prima, nella decima o nella ventesima posizione in questa classifica. Non considero insomma il prestigio nazionale come un criterio valido per giustificare la richiesta di un tasso di crescita più elevato. Questo almeno fino a quando il nostro livello di benessere materiale (misurato dal prodotto nazionale lordo pro capite) resterà superiore alla media. Maggiormente valido mi sembra invece un altro argomento, ossia quello che sostiene che la crescita dell’economia è necessaria per mantenere il potere di acquisto della popolazione e, se possibile, accrescerlo. Siccome il livello di benessere è misurato dal rapporto PIL/POP dove PIL sta per prodotto nazionale lordo e POP per popolazione, ciò significa che la crescita del PIL, misurato in termini reali, deve essere per lo meno uguale alla crescita della popolazione, se si vuole che la stessa possa mantenere il suo potere di acquisto. Nel corso degli ultimi dieci anni (1992-2002), la popolazione del Cantone Ticino è aumentata a un tasso annuale dello 0.71%. Nello stesso periodo, il reddito dell’economia cantonale è pure cresciuto a un tasso annuale pari allo 0.71%, ragione per cui la situazione in materia di reddito pro-capite, in termini nominali, è uno stallo. In termini reali, ossia tenendo conto del deprezzamento del potere di acquisto dovuto all’aumento dei prezzi, il reddito pro-capite del 2002 era inferiore a quello del 1992. Nel prossimo futuro il tasso di crescita della popolazione residente – a meno di cambiamenti attualmente imprevedibili – dovrebbe diminuire a qualcosa come lo 0.4-0.5%. Se vogliamo che il potere di acquisto della nostra popolazione sia mantenuto, l’economia dovrebbe quindi crescere a un tasso reale almeno pari allo 0.5% annuo. Si tratta di una prestazione che, anche di questi tempi, l’economia ticinese sarebbe, tutto sommato, in grado di assicurare. Tenendo anche conto del continuo progredire dell’invecchiamento della popolazione, meno sicura è invece la possibilità di conseguire un traguardo più elevato di crescita, il traguardo necessario per assicurare il finanziamento della spesa sociale, in particolare delle assicurazioni sociali, senza modificazioni né rispetto al modo di finanziamento dell’istituzione, né alle rendite che la stessa distribuisce, né rispetto all’età del pensionamento. Esistono diversi studi sul futuro del finanziamento della spesa sociale e le conclusioni dei loro autori non sempre convergono. Diciamo che c’è chi è preoccupato dalla quota sempre ascendente della spesa sociale nel totale del pro- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 121 dotto nazionale lordo e chi invece si affida alle virtù taumaturgiche di una crescita sostenuta per contenere questo incremento. Martino Rossi e Elena Sartoris, in un volume dal titolo “Ripensare la solidarietà”, pubblicato nel 1995 (Rossi, Sartoris, 1995) si allineano tra i rappresentanti del secondo gruppo, citando i risultati di una ricerca svolta da Wechsler e Savioz all’inizio degli anni novanta del secolo scorso (Wechsler, Savioz, 1993). Questi due autori avevano previsto che entro il 2040 la quota della spesa sociale nel prodotto nazionale lordo sarebbe aumentata al 32.8% contro il 28.3% del 1994. Questo risultato avrebbe potuto essere assicurato con un tasso di crescita annuo pari all’1.5% in una situazione nella quale la popolazione attiva sarebbe stata in leggera diminuzione (almeno a partire dal 2010) e il tasso di disoccupazione si sarebbe assestato sul 3%. Nel lungo termine, secondo questi autori, la crescita del PIL non si discosterebbe molto da quella della produttività. È ovvio che se si volesse stabilizzare la quota della spesa sociale nel PIL sarebbe necessario un tasso di crescita superiore. Non disponiamo dei dati per simulare una simile variante, né sappiamo se, tenuto conto del basso tasso di crescita degli ultimi dieci anni, l’ipotesi di Wechsler e Savioz possa oggi essere considerata ancora come valida. Per i bisogni della nostra argomentazione le previsioni di questi due autori bastano per permetterci di affermare che, considerando l’invecchiamento della popolazione e partendo dall’ipotesi di uno zoccolo non riducibile di disoccupazione situato attorno al 3%, il prodotto nazionale lordo dovrebbe crescere almeno dell’1.5% annuo per contenere l’ascesa della quota della spesa sociale entro limiti ancora accettabili. Se si volesse, come predicano i rappresentanti del neo-liberismo, bloccare l’ascesa della quota stessa (o addirittura ridurla) è evidente che il tasso di crescita necessario non potrebbe essere inferiore al 2%. E questo tasso sembra trovarsi attualmente al di sopra delle possibilità reali di prestazione dell’economia svizzera e di quella ticinese. Ma c’è ancora un livello di crescita da considerare, ossia quello necessario ad assicurare il pieno impiego. Se l’economia funzionasse in regime di piena occupazione (come funzionava negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo) il tasso di crescita necessario per assicurare il pieno impiego sarebbe pari al tasso di crescita della popolazione attiva, ossia, più o meno, al tasso di crescita della popolazione totale. Nelle condizioni demografiche attuali, il tasso di crescita demografico sarebbe inferiore di sicuro all’1%. Ma nel nostro mercato del lavoro non vige attualmente una situazione di pieno impiego. Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 3 e il 4%. Supponendo che attraverso la crescita della produzione fosse possibile riassorbire que- 122 Dal paradiso al purgatorio sta manodopera, quale sarebbe il tasso di crescita necessario? Se il riassorbimento dovesse essere realizzato nel corso di un solo anno, il tasso di aumento della produttività si mantenesse sull’1.5% circa e la popolazione attiva aumentasse dello 0.5%, il tasso di crescita del PIL necessario per riassorbire l’attuale 4% di disoccupazione sarebbe del 6% (1.5 + 0.5 + 4 = 6). Ipotizzando invece che la disoccupazione possa essere riassorbita solo in misura dello 0.5% all’anno, ci vorrebbero 8 anni per ritrovare un livello di piena occupazione e il tasso di crescita annuale – mantenendo gli aumenti di produttività e di popolazione attiva di cui sopra – sarebbe del 2.5%. Se invece ipotizziamo che la popolazione attiva non cresca più, allora il tasso necessario per eliminare su 8 anni la disoccupazione sarebbe del 2%. Quello che abbiamo cercato di fare è un esercizio di stima basato sull’ipotesi che esista per l’economia ticinese una “legge di Okun” per la quale a un 1% di crescita supplementare corrisponderebbe una diminuzione del tasso di disoccupazione dell’1%. Si tratta, come si può constatare leggendo la definizione della legge nello specchietto che segue, di un’ipotesi molto ottimista. Senza approfondire l’analisi possiamo quindi concludere che il tasso di crescita necessario per riassorbire la disoccupazione si situa con grande probabilità sopra il 2% annuale. Se l’economia ticinese e quella svizzera fossero in grado di realizzare una crescita reale pari al 2.5% annuale su un periodo di 10 anni è probabile che la disoccupazione scenderebbe a zero. In mancanza di una simile prestazione sembra difficile contenere la disoccupazione al disotto di livelli pari al 3 o al 4%. La legge di Okun Si tratta di una relazione tra il tasso di crescita del prodotto interno lordo e la variazione del tasso di disoccupazione, che prende il nome da Arthur Okun, l’economista americano che fu consulente del presidente Kennedy e che per primo la stimò. Per l’economia americana le stime di Okun hanno dato che con un tasso di crescita inferiore al 3%, la disoccupazione aumenta, mentre con un tasso di crescita superiore al 3%, il tasso di disoccupazione diminuisce di un mezzo per cento per ogni aumento di un 1% del tasso di crescita. In conclusione, in una regione nella quale la popolazione tende ad aumentare a tassi sempre più moderati e a invecchiare, in una regione nella quale la disoccupazione ha raggiunto livelli significativi, vi sono almeno tre ragioni per promuovere la crescita in termini reali del prodotto interno lordo, vale a dire: Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! – – – 123 la volontà di mantenere il potere di acquisto dei consumatori l’intenzione di frenare l’aumento della quota della spesa sociale nel PIL, senza dover ricorre a riforme importanti della legislazione sociale lo sforzo per ritrovare il livello della piena occupazione. Come abbiamo cercato di mostrare in questo capitolo, ognuno di questi obiettivi presuppone il raggiungimento di tassi di crescita del PIL reale diversi. L’obiettivo più difficile da raggiungere è quello relativo al riassorbimento della disoccupazione perché richiede la realizzazione di tassi di crescita reale superiori al 2% su più anni. Ma anche il finanziamento della spesa sociale, senza un aumento troppo forte della sua quota nel PIL, richiede un tasso di aumento del PIL che, attualmente, né l’economia svizzera, né l’economia ticinese sono in grado di assicurare. Uscire dal purgatorio della stagnazione diventa quindi urgente. Ritrovare tassi di crescita superiori al 2% reale rappresenta infatti una premessa necessaria per risolvere almeno tre problemi economici importanti. 21. Due approcci alla previsione del tasso di crescita Iniziando la terza parte di questo saggio, abbiamo affermato che gli economisti non sono in grado di procedere a previsioni di lungo termine, intendendo per lungo termine il periodo di una generazione, ossia 20-25 anni. Restiamo di questa opinione anche se, nel corso di questo capitolo, cercheremo di presentare delle previsioni economiche per un periodo lungo. I dati sull’evoluzione del potenziale di produzione dell’economia ticinese che presenteremo, non devono però essere considerati come delle informazioni su cosa potrebbe veramente avvenire in campo economico da qui al 2020, ma come delle indicazioni sulla capacità di sviluppo della nostra economia nell’ipotesi che si possa realizzare, durante tutto il periodo di previsione, il pieno impiego. Oltre al pieno impiego, per procedere a questa stima sono necessarie altre ipotesi: – la prima riguarda il tasso di aumento dell’offerta di manodopera (popolazione attiva, ma anche frontalieri) – la seconda riguarda l’evoluzione del numero di ore lavorative settimanali – la terza riguarda invece l’evoluzione della produttività Per procedere alla definizione dell’evoluzione della capacità di produzione partiamo dall’identità che avevamo già presentato nella seconda parte: P = (L.O) . P/(L.O) 124 Dal paradiso al purgatorio nella quale P rappresenta la produzione dell’economia ticinese, L i lavoratori occupati nella stessa, O il numero di ore lavorate da un lavoratore nel corso di un anno nell’economia ticinese, (L.O) il totale delle ore di lavoro necessarie per produrre P e P/(L.O) la produzione per ora lavorata, ossia la produttività per ora di lavoro nel contesto di questa economia. Se accettiamo questa definizione della capacità di produzione, il tasso di crescita della capacità stessa sarà dato dalla somma dei tassi di crescita di L, di O e di P/(L.O). Sull’evoluzione della produttività non abbiamo molte informazioni. La tendenza di lungo termine, come è già stato ricordato nel capitolo 12, è alla diminuzione ( si veda la tabella 3). Oggigiorno, la produttività aumenta a un tasso annuo inferiore all’1%. Per rilanciare la produttività o, espressa in altri termini, l’efficienza con la quale i fattori di produzione operano, sono previste misure di politica economica importanti sia a livello nazionale, sia a livello del Cantone. Per una volta vogliamo essere ottimisti e supporre che il successo di queste misure, con quello delle misure di ristrutturazione prese nelle aziende, sia tale da riportare il tasso di crescita della produttività all’1.5% annuo. La popolazione attiva potrebbe a sua volta crescere, nei prossimi 15 anni, a un tasso pari allo 0.5%. Se, per il momento, ipotizziamo che il numero delle ore lavorative settimanali non vari (tasso di aumento 0%), il tasso di aumento del potenziale di produzione, nel corso dei prossimi anni, potrebbe essere pari al 2%. Per verificare quale potrebbe essere l’impatto di un aumento della durata del lavoro annuale – una misura che, nel corso degli ultimi tempi è stata discussa da più parti – supponiamo che, da domani, la durata settimanale del lavoro sia portata da 41 a 44 ore e che il numero di settimane lavorative non muti, durante il periodo analizzato. In questo caso la capacità di produzione aumenterebbe ancora dello 0.47%, realizzando quindi – almeno sulla carta – un tasso di aumento annuale pari circa al 2.5%. Diciamo sulla carta perché l’aumento delle ore di lavoro potrebbe avere un impatto negativo sulla produttività per ora di lavoro, oppure sull’occupazione, tale da, nell’ipotesi estrema, addirittura annullare l’impatto positivo sulla capacità di produrre dovuto all’estensione della settimana lavorativa. La funzione di produzione Se consideriamo l’insieme delle aziende produttive di un’economia come fosse un’azienda sola, possiamo definire il rapporto che corre tra l’utilizzazione di fattori di produzione come il lavoro o il capitale e la produzione complessiva come la funzione di produzione di quell’azienda, ovverosia dell’economia esaminata. Disponendo dei dati sull’impiego di fattori di produzione e sulla produzione di economie come Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 125 quella della Svizzera o del Ticino, sarebbe dunque possibile stimare la funzione di produzione corrispondente. Nella teoria economica vi sono intere famiglie di funzioni di produzione. Quella che utilizziamo nel presente capitolo è forse la più semplice. In effetti, più che di una funzione si tratta di un’identità perché la produttività del lavoro moltiplicata per il lavoro (misurato in lavoratori o ore lavorate) dà sempre la produzione. È quindi più corretto parlare, come facciamo nel testo, di identità di produzione che di funzione di produzione. In relazione funzionale con la produzione potrebbe invece stare l’efficienza con la quale il fattore lavoro viene impiegato nel processo produttivo. È il discorso che viene fatto più avanti in questo capitolo e, soprattutto nel prossimo. Se abbiamo considerato la variante di un aumento della durata del lavoro settimanale è per dare al lettore un’idea dell’ordine di grandezza dell’effetto che questo fenomeno potrebbe avere sulla crescita, a patto che il pieno impiego continui ad essere assicurato e che la produttività per ora di lavoro continui ad aumentare al tasso previsto. Ma si tenga però anche presente che un effetto di questo tipo potrebbe essere raggiunto anche da un aumento del tasso di crescita della produttività, dall’1.5 al 2%, per effetto dell’innovazione di prodotto o di processo, oppure da un aumento dell’effettivo di occupati pari allo 0.5% annuo. Queste sono dunque le previsioni che oggi si possono fare sull’evoluzione del potenziale di produzione (potenziale perché si lavora con l’ipotesi della piena occupazione) dell’economia ticinese. I tassi di crescita raggiungibili con le nostre forze sono dell’ordine del 2-2.5% annuale. Basterebbero di sicuro per portarci fuori dal purgatorio della stagnazione, ma non per farci ritrovare il paradiso della crescita. Dal purgatorio passeremmo a una specie di limbo economico. Non avremmo di certo ritrovato il ritmo di espansione degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, ma disporremmo di una crescita che ci permetterebbe di riempire gli obiettivi enunciati nel capitolo che precede. Non si tratta di una crescita eccezionale. Varrà la pena notare che tassi di crescita reali tra il 2 e il 3% vengono oggi realizzati regolarmente dai paesi membri dell’Unione Europea dei 15, con le sole eccezioni della Germania e dell’Italia, i nostri due possenti vicini. Per ottenerla però dovremo essere in grado di: – eliminare la disoccupazione – assicurare una crescita della produttività pari all’1.5-2% annuale 126 Dal paradiso al purgatorio Le misure e i programmi che oggi ci vengono proposti per – come dicono i nostri confederati – “rinnovare” l’economia devono essere valutati in base a questi due criteri, ossia in base all’impatto che esse possono avere (almeno nel lungo termine) sulla disoccupazione e al loro effetto sul tasso di crescita della produttività. Per quel che riguarda infine la durata della settimana di lavoro pensiamo che non valga la pena di perdere troppo tempo. La Svizzera, già oggi, possiede una delle più lunghe settimane lavorative d’Europa. Quello che ieri poteva sembrare un’assurdità sta oggi rivelandosi come un alleato prezioso nel mantenimento della nostra capacità concorrenziale. Personalmente non crediamo che la riduzione della durata settimanale del lavoro possa rilanciare l’impiego. Ma non crediamo neppure che l’aumento della durata settimanale del lavoro possa contribuire a rialzare il tasso di crescita del PIL nazionale o di quello regionale. Siamo comunque favorevoli a quelle misure che, in modo ragionevole e eticamente accettabile, si sforzano di flessibilizzare la durata del lavoro, in particolare per far fronte alle esigenze di aziende che devono fornire just in time, o che devono soddisfare le richieste di consumatori che hanno modificato le loro abitudini di consumo. Ci riferiamo qui, per fare solo un esempio, agli orari di apertura dei negozi. Nei paragrafi che precedono abbiamo cercato di analizzare quale potrebbe essere il futuro della crescita economica in Ticino, proiettando l’evoluzione delle componenti di una semplice funzione di produzione composta dal numero delle ore lavorate e dalla produttività per ora di lavoro. Un altro modo di guardare al problema della crescita economica è quello adottato da S. Borner e F. Bodmer nel loro saggio sul rapporto tra benessere e crescita economica, pubblicato nel 2004 (Borner, Bodmer, 2004). La funzione da loro stimata fa dipendere la variazione annuale del prodotto nazionale lordo di una nazione da una serie di fattori che servirebbero a descrivere l’influenza di macro-variabili come il sistema economico, il sistema politico e la società, piuttosto che, come nel caso delle nostre proiezioni, l’evoluzione del potenziale di produzione. È interessante occuparsi di questo approccio perché aiuta a comprendere quali potrebbero essere i fattori che spiegano la differenza tra il tasso di crescita dell’economia svizzera e quelli delle altre economie europee. Gli autori citati qui sopra hanno stimato, in forza del loro modello, basato sulla crescita delle economie europee, quale avrebbe dovuto essere il tasso medio di crescita dell’economia svizzera negli anni sessanta, negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta dello scorso secolo. Hanno poi comparato il risultato della loro previsione ex-post con il tasso effettivo, stimando così la quota di crescita non spiegata dal modello. Quali sono i fatto- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 127 ri determinanti della crescita nel modello stimato da questi due autori? Il primo fattore è di natura storica e si riferisce a forze che in diversi periodi di tempo operano in modo positivo sulla crescita economica in tutti i paesi europei. Borner e Bodmer chiamano queste forze effetti temporali o di periodo e trovano che esse sono state diverse negli anni sessanta, negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta dello scorso secolo. Previsione ex-ante e previsione ex-post Nel linguaggio comune la previsione corrisponde a una valutazione di cosa potrà succedere nel futuro. Prevedere significa esprimersi sul futuro, prima che lo stesso si manifesti. La previsione non può quindi essere che ex-ante. In econometria, la scienza che aiuta a stimare i modelli economici, la previsione invece può essere anche ex-post. Utilizzando i dati di un periodo nel passato (per esempio il periodo 1970-1980) io posso infatti, sulla base del modello che ho scelto, stimare che cosa sarebbe successo nel periodo successivo (1980-1990) che però è già trascorso. Questo tipo di esercizio serve per verificare quanto sia efficace il modello scelto se applicato alle previsioni. Si veda, per un esempio di previsione ex-post, la figura 25. Gli altri fattori ritenuti per il confronto tra tasso stimato dal modello e tasso di crescita effettivo sono: – la quota degli investimenti nel prodotto nazionale lordo – la quota delle persone con formazione secondaria nel totale della popolazione – il grado di apertura dell’economia (somma delle esportazioni e delle importazioni divisa per il prodotto nazionale lordo, ponderata con la popolazione) – la quota dello Stato (spesa dello Stato, inclusiva degli investimenti e dei sussidi divisa per il prodotto nazionale lordo) – il tasso di inflazione, misurato dall’indice con il quale si calcola il prodotto nazionale lordo in termini reali. Mentre l’effetto temporale, la quota degli investimenti e la quota delle persone con formazione secondaria hanno un’influenza positiva sul tasso di crescita, la quota della spesa statale e il tasso di inflazione hanno un effetto negativo. Il grado di apertura, come illustra la tabella che segue, ha avuto un’influenza negativa negli anni sessanta e settanta, positiva nell’ultimo ventennio del secolo scorso. 128 Dal paradiso al purgatorio Tabella 6: Le determinanti del tasso di crescita dell’economia svizzera in diversi decenni Variabili indipendenti Effetto temporale Quota investimenti Quota persone formate Grado di apertura Quota dello Stato Tasso di inflazione Tasso di crescita previsto dal modello Tasso di crescita effettivo 1960-70 2.88% 0.58% 0.71% - 0.42% - 0.90% - 0.43% 2.41% 3.23% 1970-80 2.13% 0.53% 0.80% - 0.20% - 1.18% - 0.53% 1.55% 1.19% 1980-90 2.08% 0.55% 0.85% 0.05% - 1.40% - 0.36% 1.77% 1.54% 1990-2000 1.36% 0.58% 0.90% 0.24% - 1.51% - 0.19% 1.38% 0.37% Fonte: S. Borner, F. Bodmer, opera citata Che cosa ci dicono queste cifre? Sostanzialmente esse ci dicono che se l’economia svizzera fosse cresciuta nelle stesse condizioni e per effetto dei medesimi fattori che influenzano la crescita delle altre economie europee, essa avrebbe realizzato un tasso di crescita inferiore a quello effettivo, nel corso degli anni sessanta del secolo scorso, superiore a quello effettivo, nei tre decenni successivi. La capacità del modello di spiegare il tasso di crescita raggiunto dall’economia svizzera è abbastanza buona per gli anni settanta e per gli anni ottanta, molto meno buona per il periodo degli anni sessanta e per quello più recente, ossia l’ultima decade dello scorso secolo. In secondo luogo, questi tassi ci dicono che lo zoccolo di crescita, determinato dall’effetto temporale (e quindi da fattori che operano per tutte le economie europee ma che non si conoscono in modo più trasparente) è forte. Questa costatazione viene a ridurre ulteriormente la capacità del modello di spiegare effettivamente il tasso di crescita dell’economia svizzera. I dati della tabella 6 ci dicono infine che l’unico fattore che incide in modo negativo e in misura significativa sulla crescita dell’economia svizzera è la quota dello Stato. Di più, come si può dedurre dal valore del coefficiente di questa variabile, il suo peso negativo sulla crescita dell’economia aumenta di decennio in decennio. Ma che valore ha questa costatazione se, come abbiamo già notato, il modello non è in grado di spiegare in modo consistente l’evoluzione del tasso di variazione del prodotto nazionale lordo su un periodo di quarant’anni? Dobbiamo concludere che, sebbene la struttura del modello sia alquanto lacunosa, esso è comunque in grado di indicare che la quota crescente della spesa dello Stato ha un effetto negativo sul tasso di crescita dell’economia, perché il coefficiente stimato è significativo e in continua crescita? Oppure non dobbiamo, con maggiore onestà, concludere che il modello di Bodmer e Borner è interessante ma che, da un lato, non poggia su nessuna base teorica consistente, e, dall’altro, nella sua verifica empi- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 129 rica, non approda a nessuna conclusione? Gli autori appena citati propendono per la prima interpretazione e, nonostante le lacune teoriche e empiriche del modello, sembrano credere che le stime dei parametri siano fondate e spieghino almeno in parte perché il tasso di crescita in Svizzera si sia indebolito in modo così forte. Personalmente propendiamo per la seconda spiegazione e suggeriamo di considerare il modello dei due autori citati come un approccio per il momento fallito a una spiegazione del tasso di crescita della nostra economia in un quadro di riferimento internazionale. 22. La medicina che non piace: le riforme viste da destra Il capitolo che precede ci ha permesso di fissare qualche idea rispetto alla crescita futura del potenziale dell’economia ticinese. In primo luogo abbiamo potuto stabilire che la produzione potenziale, in forza della debolezza demografica non dovrebbe aumentare che in misura prossima all’1% nel corso del prossimo ventennio. Questo tasso non sarà di molto superiore a livello nazionale. L’economia svizzera e quella ticinese cresceranno quindi molto lentamente, se la crescita dovesse limitarsi alle possibilità offerte dall’espansione prevedibile del fattore lavoro. Certamente più lentamente che la maggioranza delle economie europee. Se, per fare un’ipotesi diversa, introduciamo la possibilità che l’efficienza con la quale il fattore lavoro viene utilizzato possa migliorare, sarebbe possibile conseguire un tasso di crescita superiore. Questo miglioramento non può venire in pratica che da un aumento della produttività. Sottolineamo questa conclusione che vorremmo restasse acquisita: il ritorno a tassi sostenuti di crescita – superiori a quelli che si possono raggiungere attraverso l’espansione dell’offerta di lavoro e attraverso l’aumento del numero delle ore lavorative – non potrà realizzarsi che se l’economia svizzera e quella ticinese saranno capaci di realizzare un tasso di aumento della produttività più elevato. Il rapporto tra produttività e crescita diventa così, in Svizzera, il tema centrale verso il quale si orientano, da qualche tempo, le ricerche sulla nostra economia. Variazione dei fattori e tipo di sviluppo Se, nella funzione economica del capitolo precedente, teniamo fisso il numero delle ore lavorate, il tasso di crescita del prodotto nazionale lordo corrisponde alla somma tra il tasso di variazione della produttività e il tasso di variazione dell’occupazione. Vi sono autori che, combinando i tassi di variazione della produttività e dell’occupazione hanno messo a punto una classificazione dei tipi più 130 Dal paradiso al purgatorio recenti di sviluppo delle economie avanzate (Camagni, 1991). A seconda della combinazione dei segni delle variazioni (+, se la variazione è positiva, - se è negativa) possiamo per esempio distinguere le quattro modalità di sviluppo seguenti: + produttività Ristrutturazione e Delocalizzazione Competitività - occupazione Stagnazione Take-off economico - + L’economia svizzera, che tra il 1945 e il 1975 si era trovata nel quadrante della competitività, si trova oggi, almeno per quel che riguarda un certo numero di rami industriali e dei servizi, in quello della ristrutturazione/delocalizzazione. Difficile dire quale sarà l’evoluzione futura. Se essa seguirà il movimento delle lancette dell’orologio andremo verso un rafforzamento della competitività. Se invece dovesse muoversi in direzione opposta, andremo definitivamente verso la stagnazione A livello macroeconomico, cioè a livello di una funzione di produzione per l’economia nazionale, il problema è, come si è detto, un problema di efficienza: come far aumentare il valore aggiunto per ora di lavoro in misura superiore a quella che si è in grado di realizzare attualmente. Facciamo notare che, sempre a livello macroeconomico, il problema di una utilizzazione maggiormente efficiente dei fattori di produzione (nel caso della nostra funzione di produzione del fattore lavoro) coincide con il problema della competitività (Kappel, Landmann, 1997). Quando si parla di migliorare l’efficienza del processo produttivo o si fa accenno alla necessità di incrementare la capacità concorrenziale dell’economia svizzera, o di quella ticinese, si intende quindi parlare di misure che possono incrementare il tasso di aumento della produttività, rafforzando i fattori che agiscono in modo positivo sull’evoluzione della stessa e togliendo forza o eliminando i fattori che invece sono capaci di frenare la sua evoluzione. Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 131 Ma quali sono questi fattori? Scorrendo gli articoli della stampa economica l’elenco dei fattori che frenano o possono incrementare la crescita della produttività della nostra economia e la sua capacità competitiva è abbastanza facile da fare. In positivo vengono citate le attività di ricerca e sviluppo e in negativo il protezionismo, interno e internazionale, la poca flessibilità del mercato del lavoro e la quota sempre crescente della fiscalità e della spesa statale unita alla sclerosi istituzionale di cui sarebbe afflitto il nostro federalismo. Questa lista di colpevoli è venuta costituendosi nel tempo, grazie in particolare ai lavori del prof. Silvio Borner dell’università di Basilea e dei suoi collaboratori. Citiamo qui in particolare “Schweiz AG: Vom Sonderfall zum Sanierungsfall?”, “Die Schweiz im Alleingang”, “Wieviel direkte Demokratie verträgt die Schweiz?” e “Wohlstand ohne Wachstum. Eine Schweizer Illusion” (S. Borner e altri, 1990, 1994, 1997, 2004). Sulla stessa lunghezza d’onda, ma concentrandosi sulla necessità di riforme istituzionali, si trova anche Hansjörg Blöchliger con il suo recente libro “Baustelle Foederalismus” (H. Blöchliger, 2005). Qual è la ricetta che questi rappresentanti del neo-liberismo elvetico raccomandano per far ritrovare all’economia svizzera un tasso di aumento della produttività superiore all’1% attuale? Tabella 7: Le riforme del settore pubblico necessarie per rilanciare l’economia elvetica, secondo la scuola neo-liberista In materia di politica economica - Rilanciare la concorrenza - Ridurre la regolamentazione - Incrementare l’apertura internazionale - Risanare le finanze degli enti pubblici - Riformare il sistema di sicurezza sociale e pensionistico - Riformare la politica sanitaria - Riformare la politica scolastica e il finanziamento della ricerca - Ridurre i sussidi all’agricoltura e al traffico nelle regioni rurali e di montagna In materia istituzionale - Estendere i processi di privatizzazione (Scuola, Sanità, Socialità) - Rafforzare l’espressione della volontà popolare con elezioni piuttosto che con votazioni su oggetti concreti. Esempi: far eleggere il Consiglio Federale dal popolo. Introdurre una proporzione minima di voti a livello nazionale perché un partito possa ottenere seggi in consiglio nazionale, ecc. - Rafforzare i diritti individuali - Contenere e ridurre i diritti popolari in particolare il diritto di iniziativa e il diritto di referendum Fonte: S. Borner, F. Bodmer (2004) e elaborazione dell’autore Si tratta di un programma di liberalizzazione economica e di trasformazione istituzionale che propugna da una parte una serie di riforme che concernono la politica economica del nostro Paese e, dall’altro, una serie di modifiche del nostro sistema istituzionale. Rimandando i lettori che volessero saperne di più alla consultazione delle opere originali, ci limitiamo qui a 132 Dal paradiso al purgatorio commentare in modo succinto le due serie di riforme proposte dagli esponenti della scuola neo-liberista, che chiameremo i riformatori per l’insistenza con la quale chiedono appunto delle riforme. Come si potrà costatare l’attuazione di queste riforme incombe alla Confederazione e ai Cantoni. Questo programma si basa sulla fede nelle qualità taumaturgiche delle scelte economiche individuali che, esprimendosi su mercati, nei quali, si suppone, il postulato della concorrenza sia stato realizzato, non possono che contribuire a massimizzare l’efficienza. Di fatto, però, né i mercati sono concorrenziali, perché forme di protezionismo e di controllo da parte di coalizioni di produttori e di consumatori continuano ad esistere, né purtroppo le decisioni individuali portano all’efficienza, perché esistono effetti esterni che raramente possono venir compensati con transazioni di natura mercantile. Il lettore non deve quindi sorprendersi di apprendere che le verifiche empiriche dell’efficacia di queste riforme non sono approdate, almeno in Svizzera, a risultati incontestabili. Prendiamo, per fare un solo esempio, il grosso lavoro di ricerca che il professor Blattner e i suoi collaboratori realizzarono alla fine degli anni ottanta del secolo scorso sui fattori che influenzavano la capacità competitiva dell’economia svizzera (de Saussure, Blattner, 1988). In questo lavoro si cercava di misurare l’impatto sulla competitività dell’economia nazionale di una serie di fattori e fenomeni come il protezionismo commerciale, la promozione delle attività di ricerca e sviluppo, la sclerosi delle istituzioni politiche, la tendenza alla concentrazione delle aziende, l’intervento dello Stato ( sussidi, regolamentazione dei prezzi e della produzione, barriere commerciali), la disponibilità di capitale-rischio, la capitalizzazione in borsa, l’attività sul mercato del capitale e l’importanza del capitale detenuto dal cosiddetto “top-management”. I risultati della verifica empirica non permettono di costruire uno scenario in bianco e nero con certi fattori chiaramente identificati come nocivi e altri, altrettanto chiaramente, riconosciuti come benefici per l’incremento della capacità competitiva dell’economia svizzera. Né bianchi, né neri sono anche i risultati dei numerosi studi che, nel corso degli ultimi anni sono stati fatti, di qua e di là dall’Atlantico, per verificare se l’aumento della quota dello Stato nel prodotto nazionale lordo avesse o meno un impatto negativo sul tasso di crescita di questo aggregato. Le difficoltà della verifica empirica indeboliscono naturalmente l’appello che il programma neo-liberista può avere a livello sia dei politici, sia dell’opinione pubblica. È come se una parte del corpo medico si mettesse a raccomandare un medicamento che ancora non ha passato tutti i test che si rendono Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 133 necessari, prima che possa venir introdotto su larga scala. Sulla sua efficacia continueranno a pesare, per un periodo più o meno lungo di tempo, grossi dubbi. Ricordiamo poi che, al di là del fatto che la sua verifica empirica non dà risultati indiscutibili, il programma dei riformatori non piace al pubblico o, per essere più precisi, non piace ai pubblici che rischierebbero di perdere una parte del loro benessere, del loro potere economico o del loro potere politico, se queste riforme dovessero venir realizzate. L’elenco delle votazioni popolari che hanno rifiutato tagli e risparmi potrebbe qui essere molto lungo. Meno numerose, ma altrettanto negative sono state le decisioni popolari sulle proposte di privatizzazione sia nel campo dell’energia elettrica, sia nel campo della scuola. Sulla questione di aprire maggiormente il Paese alla concorrenza internazionale, la Svizzera è divisa in due. Si ha inoltre l’impressione che, nel corso degli ultimi 15 anni, gli oppositori a un’apertura siano aumentati. Questo almeno per quel che riguarda il problema di una possibile adesione della Svizzera all’Unione Europea. Qualsiasi riforma, anche minima, del sistema di sicurezza sociale e pensionistico che dovesse essere sottoposta a votazione popolare sarebbe travolta da una valanga di no. Delle riforme elencate nella tabella 7 le uniche che hanno una probabilità di essere accettate in votazione popolare sono quelle per le quali la coalizione degli interessi toccati è minoritaria, come potrebbe essere il caso per misure che intendono ridurre la regolamentazione o i sussidi a clientele poco numerose come gli agricoltori o la popolazione che abita nelle regioni rurali e di montagna. Come dimostrano anche gli esempi di altri Stati, bisogna attendersi che, fino a quando la prova del 9 dell’efficacia del programma riformistico non sarà stata fatta, l’opposizione popolare a molte delle riforme promosse dallo stesso continuerà a manifestarsi, almeno a livello di votazioni popolari. Anzi, c’è da temere che la stessa continuerà anche dopo che la prova dell’efficacia sarà stata data, perché è difficilmente pensabile che chi viene direttamente colpito nei propri interessi da queste riforme sia disposto ad accettarle. 23. Vogliamoci bene: le riforme viste da sinistra Il programma neo-liberista, esposto nel capitolo precedente, riempie oggi in Svizzera i giornali, come pure le trasmissioni specialistiche delle radio e delle televisioni pubbliche e private. Grazie alle iniziative di “Avenir Suisse”, un gruppo di riflessione le cui pubblicazioni sono finanziate da “Economie suisse” l’associazione-cartello dei datori di lavoro, l’insieme del 134 Dal paradiso al purgatorio programma, ma anche singoli temi vengono regolarmente analizzati e approfonditi in pubblicazioni firmate da professori di economia delle nostre università che sono in generale fautori di un approccio liberista all’economia. Fatte queste precisazioni, occorre aggiungere che sarebbe sbagliato definire il discorso sulla riforma dello Stato come un discorso unicamente di destra. Per due ragioni: in primo luogo perché non tutta la destra politica sarebbe pronta a sottoscrivere il pacchetto di riforme che figura nella tabella 7 del capitolo precedente. L’Unione Democratica di Centro, ma anche gli esponenti delle varie correnti nazionaliste, pur approvando il proposito di snellire lo Stato, non approverebbero di certo tutte le misure intese a favorire la liberalizzazione interna dei mercati e, soprattutto la loro liberalizzazione verso l’esterno. Attenzione quindi alle semplificazioni di coloro che scrivono l’identità Borner = Blocher. Se il programma di riforme di Borner è chiaro, quello di Blocher, sul piano dei principi economici, è molto più contraddittorio. Ma l’etichetta di programma di destra, affibbiata alle riforme proposte da Borner e compagni, è riduttiva anche perché, da qualche anno, le stesse stanno incontrando approvazione e sostegno da parte di esponenti della sinistra, nei partiti verdi come nella socialdemocrazia. È interessante quindi, prima di ritornare a discutere del Ticino, occuparci per un momento delle proposte di questo secondo gruppo di riformatori. Lo faremo riferendoci a una pubblicazione recente di Simonetta Sommargua e Rudolf H. Strahm, la prima, consigliera agli Stati socialdemocratica, e il secondo, consigliere nazionale socialdemocratico, per molti anni e, oggi, delegato al controllo dei prezzi (Sommaruga, Strahm, 2005). Prima di entrare nel vivo della discussione, ricordiamo che i due autori fanno parte, con altri intellettuali socialdemocratici che gravitano sulla capitale nazionale, del gruppo che, qualche anno fa, aveva promosso il “manifesto del Gurten”, che deve essere considerato come una tra le prime prese di posizione pubblicate dai “riformatori” di sinistra. Un piano di riforme pratico: con questo sottotitolo i due autori citati riassumono il contenuto del loro libro. Nella seconda parte, che è anche la parte più consistente, essi non si contentano di analizzare i problemi più scottanti della politica federale, ma avanzano anche, in modo molto concreto e con conoscenze da insiders, proposte di riforma. Abbiamo cercato di riassumere la sostanza di queste proposte nella tabella 8 che segue. Se si confronta il decalogo di temi di questa tabella con le riforme in materia di politica economica proposte dal prof. Borner, riassunte nella tabella 7, ci si accorge che, almeno per quel che riguarda la scelta dei temi, neo-liberisti e socialdemocratici riformisti sono molto vicini. Nel decalogo di Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 135 Sommaruga e Strahm mancano è vero proposte in materia di riduzione della regolamentazione statale e di riforma del sistema sanitario; vi figurano però problemi come l’integrazione degli stranieri, la povertà, la riduzione dei prezzi e la protezione dell’ambiente, che i neo-liberisti di solito non citano perché pensano che l’apertura verso l’estero e la realizzazione del postulato della concorrenza anche all’interno della Svizzera dovrebbero bastare per risolverli. Ma la prossimità dei due programmi di riforma non si ferma ai temi. Anche nelle misure socialdemocratici e neo-liberisti sembrano darsi la mano, almeno laddove scelgono di trattare i medesimi problemi. Se dovessimo ricercare i punti di non-convergenza li troveremmo nell’accento che i neo-liberisti mettono sulla necessità di ridurre l’intervento statale e nell’accento che i riformisti socialdemocratici mettono, con altrettanta decisione, sulla necessità di mantenere il potere di acquisto dei lavoratori. È probabile che un secondo gruppo di differenze potrebbe manifestarsi a proposito delle proposte di riforma istituzionale dei neo-liberisti. Quello che però rimane acquisito è che tra i riformatori socialdemocratici e riformatori neo-liberisti esiste un terreno di intesa e di azione comune che sembrerebbe esteso. Ma allora perché non promuovere una coalizione di interessi a sostegno di un programma di riforme comune? Sommaruga e Strahm sono convinti che questo programma possa essere formulato e possa trovare in parlamento una maggioranza politica per sostenerlo. Ma non sottostimano le difficoltà che si potrebbero incontrare sul cammino delle riforme, in particolare a causa del nostro sistema di governo. La terza e ultima parte del loro libro è dedicata ai problemi della realizzazione politica delle riforme. A differenza dei neo-liberisti che argomentano soprattutto per una riforma istituzionale e una limitazione dei diritti di iniziativa e di referendum, i riformatori socialdemocratici insistono per dare ai parlamentari maggiori risorse, per contenere gli eventuali abusi di potere dei gruppi di interesse e il lobbysmo, per rafforzare il ruolo dei partiti. Essi propongono inoltre che si ritorni a concepire una politica basata su una visione strategica e non quotidiana del divenire del nostro Paese. L’appello con il quale chiudono il libro, infine, è un appello perché si cerchi di rivitalizzare il regime di concordanza tra i partiti. Sul terreno delle riforme da realizzare i punti di vista dei riformatori non sono dunque così diversi. Per il momento, però, almeno a livello nazionale, le possibilità concrete di riforma sono bloccate dalla paura che i partiti di centro hanno del populismo di destra e di quello di sinistra. Di conseguenza è difficile giudicare quanta fortuna potrà avere il “Vogliamoci bene!” che i riformisti socialdemocratici che sostengono le proposte di Sommaruga e di Strahm lanciano a PPD e a PLR. 136 Dal paradiso al purgatorio Tabella 8: I problemi della politica svizzera e le proposte di riforma della sinistra Elenco dei problemi Proposte di riforma 1) Quota dello Stato Non è un problema rilevante. Occorre tuttavia limitare il nuovo indebitamento, introducendo i limiti di Maastricht e accordandosi su un elenco di priorità di spesa 2) Educazione e formazione La spesa per l’educazione deve poter crescere. A livello dell’obbligo, occorre incrementare il coordinamento. La formazione degli apprendisti deve essere maggiormente sostenuta dallo Stato. Le università devono passare in mano alla Confederazione. Le SUP devono profilarsi come un modello alternativo alle università. Incrementare gli sforzi per la formazione permanente 3) Povertà Accordare maggiori incentivi al povero che lavora 4) Integrazione degli stranieri Imparare la lingua.Apprendere una professione. Naturalizzazione facilitata per chi è nato in Svizzera. Contingentare l’immigrazione dai paesi extra-europei 5) Finanziamento delle pensioni 1% di IVA in più entro il 2015 per l’AVS. L’età del pensionamento può essere aumentata solo con flessibilizzazione del momento di entrata in pensione. Bloccare il reddito assicurabile del secondo pilastro a un massimo di fr. 150’000 6) Riduzione dei prezzi al consumo Ridurre il prezzo dei beni importati autorizzando importazioni parallele. Liberalizzare il mercato interno. Per i medicamenti adottare la prassi di introduzione europea. Più concorrenza sul mercato interno però non per la produzione culturale, non per i libri, la musica, la radio e la televisione. Le associazioni dei consumatori e la sorveglianza sui prezzi sono da mantenere 7) Protezione dell’ambiente Sviluppo sostenibile come principio guida. Tre settori importanti: il consumo di energia, l’agricoltura e la protezione del paesaggio. Dove possibile, ricorrere al mercato. Impegnarsi per una regolamentazione a livello mondiale 8) Posizione della Svizzera nel mondo Creare le condizioni per un’adesione a tappe all’Unione Europea. Rafforzare l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Allentare il segreto bancario. Operare per l’introduzione di standard sociali e standard ecologici nelle trattative dell’OMC e della Banca Mondiale 9) E il fisco? Semplificare il sistema delle imposte dirette e renderlo più giusto. Al posto dell’imposta sulla sostanza un’imposta nazionale sulle eredità e le donazioni. Realizzare, almeno in parte, l’armonizzazione fiscale. Evitare misure che riducono il gettito fiscale. Utilizzare maggiormente lo strumento delle tasse e dei contributi, specie nel campo ecologico e a livello comunale 10) Crescita e occupazione Misure quadro: politica monetaria intelligente, misure di lotta contro il dumping salariale, mantenimento degli investimenti pubblici, aumento del tasso di attività femminile Misure strategiche in favore della crescita: rafforzare la concorrenza interna e ridurre i prezzi, aumentare le risorse in favore di educazione, formazione e ricerca di almeno il 30%, facilitare il finanziamento delle PMI, ridurre l’obbligatorietà del secondo pilastro per redditi elevati (> fr. 150'000) Fonte: S. Sommaruga, R.H. Strahm (2005) Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 137 24. Il Ticino contro il resto del mondo! La fiaba del turbocapitalismo Se il programma neo-liberista è una medicina che non piace a larghi strati della popolazione, almeno in Europa, non per questo fa fatica, come abbiamo visto nel caso della Svizzera, a trovare sostenitori tra coloro che consigliano i politici di nazioni e regioni alla ricerca di una via per rilanciare la crescita economica. Quel che vale a livello nazionale, vale a livello di un piccolo Cantone come il Ticino che questa ricetta se l’è vista presentare, avvolta come una caramella, nell’attrattivo involucro di un libro bianco. L’autore del libro, il professor Pelanda, si fa paladino del “turbocapitalismo”, un modello economico che, grazie alla “globalizzazione, si sta diffondendo dagli Stati Uniti in tutto il mondo, a grande velocità. Chi non si adatta velocemente al modello paga la sua titubanza in termini di crescita economica mancata. È questo, secondo Pelanda, il caso di molti paesi europei tra i quali la Svizzera e anche il Ticino. Da questo profilo Pelanda riprende, senza citarle, le conclusioni che l’economista americano Porter aveva fatto sulla Svizzera nel libro da lui dedicato al vantaggio competitivo delle nazioni (vedi Porter M., 1990) e che erano state riprese da Borner nelle pubblicazioni che abbiamo citato nel capitolo che precede. Per uscire dalla stasi nella quale si trovano attualmente queste economie è necessario adottare le riforme del programma liberista che sole potranno permettere loro di rilanciare la loro competitività. L’economia ticinese si trova su una parabola discendente, non solo nei confronti di regioni europee che vanno per la maggiore, ma anche nei confronti del resto della Svizzera (si veda a questo proposito la fig. 26). Per far ripartire il processo di sviluppo occorre rilanciare la competitività. La competitività dell’economia ticinese non esiste in sé e per sé. Come abbiamo visto, a livello macroeconomico, parlare di competitività non può avere altro significato che parlare dell’efficienza con la quale i fattori di produzione vengono utilizzati. L’autore del libro bianco adotta però un approccio diverso per parlare di competitività. Per lui il tasso di crescita dell’economia ticinese non è determinato da una funzione di produzione aggregata, ma dalla somma algebrica e ponderata dei tassi di variazione del valore aggiunto dei diversi settori e rami di produzione. Non solo, ma Pelanda, uguale in questo ai riformisti basilesi di cui abbiamo parlato nel capitolo che precede, estende l’applicazione del suo concetto di competitività anche a istituzioni, processi di decisione e fattori quadro come il sistema politico, il sistema amministrativo, l’autonomia e la cultura, che si situano al di fuori del mondo economico. 138 Dal paradiso al purgatorio Per quel che riguarda l’economia, la sua analisi della competitività abbraccia i settori e i rami che esportano i loro prodotti e servizi e che assicurano, di fatto, il contributo più importante al valore aggiunto dell’economia cantonale. Si tratta, in particolare: – dei servizi finanziari – dei servizi turistici e commerciali – dell’industria – e del settore delle costruzioni. Come mostra la tabella che segue, per l’autore del libro bianco, i rami che formano la base economica dell’economia ticinese, con l’eccezione dei servizi finanziari, non sono competitivi e quindi non crescono. Secondo noi, però, l’argomento di Pelanda a proposito del rapporto crescita-competitività non è che uno pseudo-argomento. Nella sua analisi dei rami, infatti, non è purtroppo possibile separare la crescita dalla competitività. Gli economisti direbbero che la relazione tra crescita e competitività di cui si serve Pelanda è un’identità: crescita è uguale a competitività. Nel suo ragionamento crescita e competitività sono due termini identici, non i poli di una relazione di causa ad effetto. Nel libro bianco, crescita e produttività sono dunque la stessa cosa. Di conseguenza è evidente che se rilanciamo la competitività, rilanceremmo anche la crescita. Ma questo è argomento del tipo “zuppa è pan bagnato” e, purtroppo, arrischia di lasciare il tempo che trova. Non è la competitività in sé che va analizzata, ma i fattori che determinano la competitività. Se si sapesse qualcosa di più su questi fattori, allora potremmo anche disegnare un programma di rilancio della crescita. Tabella 9: La competitività dei rami che formano la base dell’economia ticinese secondo il libro bianco Ramo Apprezzamento della competitività intrinsicamente elevata Altre osservazioni Vantaggio competitivo minore autonomia non sufficiente servizi turistici e commerciali buona qualità dei servizi rovinati dal cambio manca attrattore speciale industria non è competitiva mancano nuove industrie costruzioni non è competitivo concentrazione necessaria servizi finanziari Pelanda non sembra tuttavia rendersi conto della circolarità del suo ragio- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 139 namento ed estende la sua analisi della competitività a quello che lui chiama il “sistema comunitario”. In un mondo globalizzato come l’attuale, i capitali sono liberi di circolare e di approdare dove meglio loro conviene. Una regione come il Ticino si trova quindi potenzialmente in concorrenza con tutte le altre regioni del mondo per attrarre capitali e per non lasciar partire quelli che già vi si sono insediati. Un governo in grado di decidere rapidamente e con maggioranze stabili, un’amministrazione snella e che costa poco sono, per Pelanda, fattori che rafforzano l’attrattiva di una regione. Quando parla di competitività del sistema comunitario, l’autore del libro bianco ragiona quindi in termini di marketing territoriale e esamina in che modo politica, amministrazione e cultura possono, come si è già detto, rafforzare il complesso dei fattori di localizzazione regionali. In ognuno dei quattro domini esaminati, Pelanda trova, basandosi sui risultati di interviste con leader di opinione, delle lacune e delle insufficienze. Il suo ragionamento, in questa parte del libro, si basa quindi sul “sentito dire” , e giunge a conclusioni che fanno sorridere, per non dire di più. Molto più interessante della diagnosi è invece la terapia che viene descritta negli ultimi tre capitoli del libro. Dapprima, nel capitolo III, si presenta uno scenario-quadro che definisce la cornice entro la quale il Ticino alla ricerca di una nuova competitività sarà costretto a muoversi. In un mondo nel quale la mobilità del capitale diventa assoluta, un’azienda può sopravvivere e restare indipendente, secondo Pelanda, solo se il suo vantaggio competitivo è mondiale. Pelanda echeggia anche qui i lavori di Porter, parlando di vantaggio competitivo assoluto e mandando così al macero duecento anni di teoria del commercio internazionale, basata sui vantaggi comparativi, ossia sulla convinzione che per esportare non sia necessario possedere un vantaggio competitivo mondiale, ma sia però necessario specializzarsi in quelle attività che, date le condizioni in cui opera l’economia esaminata, sono quelle che le riescono meglio. In un secondo tempo, però, il nostro autore diventa un po’ più conciliante e suggerisce che qualche specie economica potrebbe sopravvivere in Ticino qualora non possedesse un vantaggio competitivo assoluto, e questo in forza del fenomeno di “diffusione della varietà”. Non è molto chiaro cosa l’autore del libro bianco intenda per “diffusione della varietà”. Nell’esempio che presenta sembrerebbe che il mercato mondiale continui ad essere ripartito in grandi regioni e che il Ticino potrebbe competere per ottenere la sede dei terminali per la commercializzazione dei prodotti e dei servizi di aziende globalizzate in mercati che possono essere convenientemente serviti dal Ticino. Indipendentemente dal senso preciso che l’autore del libro bianco intendeva dare al concetto di “diffusione della varietà” l’esempio da lui proposto contiene, in parole povere, un invito alla specializzazione. 140 Dal paradiso al purgatorio Vantaggi comparativi, vantaggi assoluti e vantaggi competitivi La teoria del commercio internazionale dimostra che lo scambio di beni e servizi tra nazioni è conveniente perché un dato bene, o un dato servizio, può essere prodotto con produttività diverse da una nazione all’altra. Può darsi che le nazioni del sud dell’Europa producano vino e legumi con una produttività maggiore che le nazioni del nord. Queste però sono probabilmente in grado di produrre beni di investimento come macchine o prodotti chimici con una produttività maggiore. In questo caso vi sarebbe convenienza per il sud ad esportare prodotti agricoli verso il nord e per il nord a esportare prodotti industriali verso il sud. Può darsi però che una nazione o un gruppo di nazioni del nord possiedano un vantaggio di produttività sia per i prodotti agricoli, sia per i prodotti industriali. Ma è probabile che le stesse guadagneranno maggiormente se si concentrano nella produzione di quei prodotti per i quali il vantaggio, rispetto alle altre nazioni è maggiore. Nel nostro caso probabilmente nella produzione dei prodotti industriali. Le nazioni che non hanno nessun vantaggio nella produzione si specializzeranno nella produzione di quei prodotti o servizi per i quali il loro svantaggio in termini di produttività è minore. La teoria del commercio internazionale dimostra che il vantaggio dello scambio è massimo quando ogni nazione specializza la sua produzione non in funzione dei vantaggi assoluti, ma di quelli comparativi. Le teorie recenti sull’internazionalizzazione dello sviluppo mettono l’accento su una terza categoria di vantaggi: i vantaggi competitivi. Il vantaggio competitivo è quello che un dato imprenditore trae dal fatto che, durante un certo periodo, può sfruttare in condizioni di monopolista una data innovazione. Chi scopre un nuovo prodotto e lo fa brevettare acquisisce, per un certo periodo, questo vantaggio. Con qualche difficoltà, questo concetto può essere esteso dalla singola azienda al ramo di produzione, al settore o, addirittura, all’intera economia. La medicina del “turbocapitalismo” per l’economia ticinese che esporta non è quindi diversa dalla medicina tradizionale: per sopravvivere occorre specializzarsi. Le prospettive per l’economia ticinese del futuro sono quindi limitate. Nel capitolo IV si parla del Ticino del 2015, uno scenario che, secondo il suo autore, riproduce non quello che potrebbe avvenire, nel corso dei prossimi anni, ma quello che sarebbe desiderabile che avvenga. Si tratta insomma dell’“happy end” della fiaba competitiva che Pelanda ci Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 141 sciorina nel resto del testo del suo libro bianco. Il colpo di bacchetta magica che permetterà ai ticinesi di vivere contenti e felici nel 2015 è un modello che comprende requisiti e scelte e che presentiamo nel grafico che segue. In quindici anni o poco più il Cantone realizzerebbe due requisiti importanti: – un centro universitario di importanza internazionale e, contemporaneamente, legato direttamente al suo tessuto economico al quale potrebbe dare sostanziali inputs di creatività e di competenze; – la diversificazione competitiva del terziario avanzato, cioè, specifica Pelanda, riorientato sui servizi di nuova generazione (non più crediti, ma servizi di consulenza e di gestione dell’informazione) Figura 26: Gli elementi del modello a tendere del libro bianco Soddisfatti i requisiti, resterebbe ancora tempo per effettuare tre tipi di scelte per il rilancio dell’economia cantonale; scelte di funzione, di prodotto e di servizio. Il numero di progetti elencato in queste pagine è tale che proprio solo dotandosi di una bacchetta magica appropriata il Ticino potrebbe realizzarli, in poco più di 15 anni. Ma all’autore del libro bianco non si può addebitare di non avere visto il problema. Alla fattibilità del suo scenario dedica infatti un ultimo capitolo, il capitolo V intitolato “La strategia precompetitiva del Ticino”. Si tratta di una specie di fervorino finale. La strategia pre-competitiva si basa sulla ridefinizione dello Stato sociale e su una delimitazione chiara di quello che può fare lo Stato e di quello che deve fare il mercato. A queste due, Pelanda aggiunge una terza esortazione: anche in 142 Dal paradiso al purgatorio Ticino deve nascere l’“homo competitivus” il supereroe che accetta le sfide del turbocapitalismo, anzi che le fa sue. Il segreto del successo economico, pare quasi voler suggerire Pelanda, non è tanto nel possedere la bacchetta magica per dar dimensione concreta, facendoli nascere dal niente, a requisiti e scelte, quanto di capire che il potere della bacchetta magica sta in tutti noi. Bisogna essere capaci di capire questo arcano. Nelle parole dell’autore del libro bianco: “In ogni cambiamento c’è la perdita di qualcosa di noto e abitudinario per qualcos’altro che, pur migliore sulla carta, non presenta immediatamente i vantaggi promessi”. Il suo è dunque un invito ad avere il coraggio di firmare una cambiale in bianco. Forse è perché contiene solo una promessa che il libro di Pelanda è un libro bianco! Anche l’autore si rende conto della debolezza del suo appello e conclude “E ciò crea un enorme ostacolo politico”. Alla fine del libro bianco sul Ticino del 2015 riemergono quindi le insufficienze del programma neo-liberista. Sul futuro si può solo scommettere. E chi sta bene non ha nessuna voglia di mettere in gioco l’acquisito. Sono pochi i corvi che, in materia di discussioni sul benessere di oggi e su quello di domani, sono disposti a cantare e a lasciar cadere il pezzo di formaggio che tengono nel becco. 25. ll purgatorio è meglio dell’inferno, ma può diventare scomodo Questa è la storia fin qui! L’economia ticinese che, negli anni cinquanta, sessanta e, in parte, settanta, dello scorso secolo, si trovava nel paradiso della crescita sostenuta e della piena occupazione è discesa, a partire dalla metà degli anni settanta nel purgatorio della stagnazione e della disoccupazione. Il paradiso della crescita che, grazie alle politiche di sostegno della domanda globale di tipo keynesiano, sembrava uno stato di grazia che sarebbe durato per sempre, non ha saputo, in Svizzera, reggere il colpo della rapida internazionalizzazione dell’economia, contrassegnata, negli anni settanta, dal passaggio dal sistema dei cambi fissi a quello dei cambi variabili e dalle crisi nel mercato del petrolio e, negli anni ottanta e novanta dello scorso secolo, dall’accelerazione del processo di liberalizzazione dei mercati internazionali e dell’integrazione europea. Per effetto di queste trasformazioni del quadro economico internazionale, in poco meno di trent’anni, si è realizzata, per quel che riguarda l’economia e la politica economica della Svizzera, la transizione da un modello di sviluppo, ancorato sull’esportazione di prodotti “made in Switzerland”, sull’espansione dei consumi privati e pubblici e sul largo consenso per una politica di ridistribuzione del reddito, realizzata dallo Stato, a quello della “Svizzera Società Anonima” – per utilizzare l’azzeccata definizione del prof. Borner e dei suoi collabora- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 143 tori – dominata dagli interessi delle multinazionali, con tensioni forti tra produttori di beni manifatturati e produttori di servizi, con una tendenza al contenimento se non addirittura alla riduzione degli investimenti pubblici, nonché divisa nettamente in due per quel che riguarda l’importanza della politica di ridistribuzione del reddito realizzata dallo Stato e la necessità o meno di integrarsi nell’Unione Europea. Il Ticino, cantone periferico e frontaliero, ha seguito questa transizione senza grandi eccezioni. Figura 26: Evoluzione del rapporto tra il reddito pro-capite del Ticino e il reddito pro capite svizzero (1978-2002) Fonte: Annuario statistico cantonale, varie annate Se si volessero cercare le differenze si potrebbe affermare che, soprattutto per effetto della sua posizione alla frontiera e dell’importanza relativamente minore del settore secondario nel suo valore aggiunto, l’economia ticinese ha saputo adattarsi più facilmente alle trasformazioni imposte dall’internazionalizzazione dell’economia nazionale. A conferma di questo giudizio riportiamo, nella figura 26, l’evoluzione del rapporto tra il reddito pro-capite del Ticino e quello nazionale. Ricordiamo che la riduzione dello scarto in questo rapporto era tra gli obiettivi principali dell’esercizio di pianificazione economica abortito del periodo del paradiso della crescita. Dall’inizio degli anni cinquanta, fino alla metà degli anni ottanta il valore del rapporto 144 Dal paradiso al purgatorio resta costante. Lo scarto del reddito pro-capite del Ticino rispetto alla media nazionale resta del 18-20%. Poi, con il 1985, il Ticino avvia una fase di ricupero che dura fino al 1993, interrotta brevemente nel 1987, nel 1988 e nel 1989. Nel 1993 lo scarto di reddito pro capite con il resto della Svizzera è al suo minimo storico (-10%). Da allora, proprio per effetto dell’adattamento più rapido del Ticino alle condizioni internazionali, lo scarto non ha fatto che aumentare. Nel 2003, ultime stime a nostra disposizione, il rapporto era disceso a 0.76. Se l’economia ticinese si adatta più rapidamente alle condizioni internazionali di quella svizzera, questo dato deve essere considerato come positivo, nonostante l’aumento continuo dello scarto del nostro reddito pro capite rispetto alla media nazionale. Il giudizio d’assieme positivo deve essere relativizzato quando dalla considerazione del prodotto interno lordo scendiamo all’esame del contributo dei settori e dei rami al valore aggiunto dell’economia, perché allora dobbiamo riconoscere che l’internazionalizzazione ha messo in forte crisi due regioni importanti del Cantone, e cioè il Basso Mendrisiotto e la Leventina, e oltre all’industria ad alta intensità di lavoro, altri due rami che, nel periodo del paradiso della crescita, fungevano da pilastri portanti della nostra economia e cioè il turismo e l’edilizia. Il Ticino economico della stagnazione non è più il Ticino della formula “win-win”, ma piuttosto quello della “Economia a somma nulla”, un’economia fatta di vincenti e perdenti, sia per quel che riguarda i rami di produzione, sia per quel che riguarda le regioni. Da circa 15 anni, sia l’economia svizzera, sia la ticinese si trovano nel purgatorio della stagnazione, caratterizzato da bassi tassi di crescita del PIL e da un tasso di disoccupazione superiore al 2%. Non si vede come ne potranno uscire, almeno a medio termine. Le prospettive economiche non sono infatti buone. Come negli stati confinanti anche in Svizzera e soprattutto anche in Ticino, il potenziale di produzione non aumenterà che molto lentamente nel prossimo futuro. Facciamo questa affermazione partendo dall’ipotesi che le previsioni attuali di sviluppo demografico (tassi di crescita che rallentano e incremento dell’invecchiamento) si realizzeranno. Per effetto dell’invecchiamento, il fattore lavoro non crescerà più di quel tanto, nel corso dei prossimi due decenni. Certo si potrà aumentare la settimana lavorativa per cercare di incrementare il suo contributo alla produzione. Ma se si aumentano le ore di lavoro è probabile che l’equilibrio tra offerta e domanda sul mercato del lavoro sarà ancora più difficile da trovare di quanto non lo sia già attualmente. Lo stesso effetto potrebbe manifestarsi purtroppo se si decidesse di aumentare la durata della vita lavorativa spostando la data del pensionamento da 65 a 67 o più anni o si riuscisse a compri- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 145 mere la quota del lavoro a tempo parziale. Senza parlare dei possibili effetti negativi sull’evoluzione della produttività. In parole povere: tutti i tentativi di aumentare il contributo del lavoro attraverso un aumento del numero delle ore di lavoro e non del numero degli occupati porteranno probabilmente a un aumento della disoccupazione. Con ore di lavoro stabili, età del pensionamento e quota del lavoro a tempo parziale immutate il contributo del fattore lavoro alla crescita della produzione potrebbe essere dell’ordine dello 0.5%. La produttività in Svizzera, e anche in Ticino, cresce attualmente a un tasso prossimo allo 0.8%. Sommando i due tassi otteniamo il tasso di crescita reale potenziale dell’economia svizzera e ticinese di lungo termine: 1.3%. Con un tasso di crescita reale appena superiore all’1%, la Svizzera e il Ticino non saranno in grado di: – mantenere il loro posto nella graduatoria internazionale dei paesi secondo il livello del reddito pro-capite – continuare a finanziare il loro sistema sanitario e il loro sistema pensionistico, mantenendo le attuali condizioni di finanziamento e le attuali prestazioni – ritornare al pieno impiego della popolazione attiva, permettendo, in più, al tasso di attività femminile di aumentare Ripetiamolo ancora una volta e in modo chiaro: per poter soddisfare questi obiettivi, il tasso di crescita reale necessario per i prossimi venti anni dovrebbe oscillare tra il 2.5 e il 3%. Ogni provvedimento o proposta che promette di essere in grado di rilanciare la crescita non può quindi che essere benvenuto e meritare di essere esaminato seriamente, anche se è vero che la stagnazione dovrebbe permetterci di contenere il degrado ambientale e l’inquinamento. Esaminare seriamente le proposte per il rilancio della crescita significa dapprima cercare di verificare l’attendibilità degli effetti sperati. È proprio vero che se tagliamo in due la spesa sociale o quella sanitaria, l’economia elvetica ritroverà la strada dei tassi di crescita elevati? E se lo è, quanto tempo ci vorrà tra il momento in cui la quota dello Stato nel prodotto interno lordo sarà ridotta, diciamo al 25%, e il momento in cui l’economia sarà in grado di dare il colpo di acceleratore atteso? Per il momento le risposte a questi interrogativi da parte dei riformatori neo-liberisti sono solamente del tipo: guardate cosa è successo in Gran Bretagna, Irlanda o Stati Uniti, nel corso degli ultimi decenni. Un po’ poco per persuadere l’elettorato svizzero che dovrà per forza di cose sempre pronunciarsi sulle riforme più importanti. Esaminare seriamente le proposte di riforma significa poi prenderne in considerazione i costi sia per i privati (tutti i pubblici che oggi vivono, almeno per una parte 146 Dal paradiso al purgatorio del loro reddito, sui contributi, le rendite e i sussidi finanziati, in parte o in tutto, dallo Stato, ossia, per quel che riguarda il Ticino circa un terzo della popolazione), sia per la collettività (se la riduzione della quota dello Stato dovesse toccare investimenti e contributi che servono a contenere i costi sociali provocati, per esempio, dall’inquinamento dell’ambiente, dalla minor sicurezza sulle strade, o dall’aumento della criminalità). Diciamolo in termini ancora più chiari: se le riforme neo-liberiste dovessero avere per effetto di far aumentare la quota di poveri che vivono dei contributi statali e ulteriormente diminuire il tasso di attività della popolazione residente, il costo politico di tali riforme non sarà mai approvato né da una maggioranza dell’elettorato elvetico, né da una maggioranza degli elettori ticinesi. Nella situazione politica, che prevale attualmente nel nostro Paese, esiste una chiara maggioranza, che si forma ad hoc con coalizioni di elettori di destra e di sinistra, per bloccare ogni tipo di riforma i cui costi privati o sociali dovessero essere troppo elevati. Per queste ragioni pensiamo che l’economia ticinese, come quella svizzera, conserverà, ancora per anni, il suo posto nel purgatorio della stagnazione. Ma attenzione: crescere a un tasso dell’1-1.5% non significa essere sul lastrico! È un punto che deve essere sottolineato. Anche se la nostra economia dovesse continuare a crescere a un tasso così basso, il reddito pro-capite continuerebbe a crescere e, se i prelevamenti fiscali e per gli oneri assicurativi obbligatori crescessero a un ritmo più contenuto del tasso di crescita reale, anche il potere di acquisto della popolazione crescerebbe. Il purgatorio nel quale la nostra economia rischierebbe di continuare a soggiornare, se queste dovessero essere le condizioni della nostra crescita, non sarebbe la fine del mondo! O, almeno, non sarebbe la fine del mondo per la maggioranza della popolazione. Sempre meglio dell’inferno di una crisi prolungata con riduzione del potere di acquisto a livello di quello della popolazione di un’economia emergente e tasso di disoccupazione superiore al 10%. Pensiamo che sia necessario mettere in evidenza questo punto perché oggi, da molte parti, la crescita a tassi bassi viene considerata come l’avvio di una crisi che, di sicuro, farà ripetere alla Svizzera, in pochi anni, l’esperienza dell’Argentina o del Paraguay nei primi trent’anni dello scorso secolo: dall’opulenza alla miseria senza soluzione di continuità. Se il tasso di crescita dovesse restar basso vi sarebbero tuttavia dei perdenti, perché la crescita a un tasso reale inferiore all’1.5% annuo non permetterebbe di recuperare il pieno impiego della popolazione attiva e di continuare a finanziare senza riforme la politica sociale, in particolare le rendi- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 147 te per i disoccupati, la spesa per la salute e la spesa per le pensioni. A meno di aggravare il carico fiscale dei contribuenti: una soluzione questa difficilmente accettabile dal punto di vista politico. Di conseguenza le finanze degli enti pubblici – dal comune, al Cantone e alla Confederazione – rischierebbero di continuare a dover sopportare un aumento della spesa superiore a quello che potrebbe essere lo sviluppo delle risorse fiscali. L’aumento del debito pubblico non si arresterebbe e queste tendenze comprometterebbero di sicuro la competitività dell’economia svizzera e di quella ticinese a livello internazionale. Riassumendo: con un tasso di crescita reale inferiore all’1.5% annuo, il potere di acquisto di buona parte della popolazione continuerebbe a crescere. Questo tasso di crescita non è però in grado di assicurare il pieno impiego. È probabile che la disoccupazione aumenterebbe. D’altra parte, con un simile tasso di crescita, l’economia non potrebbe mettere a disposizione dello Stato le risorse necessarie per finanziare la spesa sanitaria e sociale. Di conseguenza, a lungo andare, non si potrebbero evitare le drastiche riforme in materia di politica sociale che una parte dei nostri politici già oggi invoca ad alta voce. Chi si oppone a queste riforme, per paura di perdere una parte dei suoi attuali diritti, rischia così, a lungo termine, di cadere dalla padella nella brace. Mi spiego: rifiutando le riforme che si vorrebbero introdurre oggi, si accetta di correre il rischio di vedere la situazione finanziaria delle nostre assicurazioni sociali peggiorare così marcatamente che, quando, più tardi, si dovrà intervenire le misure saranno di sicuro molto più dolorose sia in termini di crescita economica, sia in termini di potere di acquisto. Oggi queste misure vengono proposte più per migliorare la competitività dell’economia che per risanare la situazione finanziaria. Domani, probabilmente, l’effetto sulla competitività non avrà più nessuna importanza. Le misure diventeranno inevitabili per sanare una situazione che sarà diventata quasi ingovernabile. Come è sempre il caso in economia, l’una e l’altra delle varianti, ossia riforma del sociale oggi o riforma del sociale quando sarà venuto l’ultimo momento possibile per intervenire, hanno vantaggi e svantaggi, favoriscono o colpiscono gruppi di popolazione e agenti economici diversi. Molto importante sarà perciò anche il disegno che assumeranno queste riforme. Se le stesse dovessero essere attuate con un programma di drastica riduzione della quota dello Stato potrebbero avere, come si è già ricordato, un costo politico insopportabile. Diverso forse potrebbe essere il caso se queste riforme venissero realizzate grazie a un compromesso politico, del tipo di quello proposto dai riformatori socialdemocratici, che accetta una modifica delle prestazioni, ma prevede anche la possibilità di assicu- 148 Dal paradiso al purgatorio rare il finanziamento da parte dello Stato con un aumento della tassazione indiretta. La sostanza dell’argomento, che vale la pena ripetere è questa: in un’economia che cresce solo all’1-1.5% annuo e che non può evitare un ulteriore invecchiamento della sua popolazione, le riforme nel settore sociale sono inevitabili. Noi possiamo solo decidere la data e le condizioni nelle quali queste riforme dovranno essere fatte. È probabile però che ritardare queste riforme non faciliti la crescita dell’economia. Le cose da fare nel purgatorio della stagnazione non si fermano qui, vale a dire alla necessaria riforma della politica sociale. Dobbiamo anche cercare i mezzi per fare aumentare la produttività che, come si ricorda, a livello aggregato è anche l’indicatore più appropriato per la competitività della nostra economia. Si tratterebbe, da un lato, di far aumentare gli investimenti nell’innovazione tecnologica e, dall’altro, di arricchire qualifiche e conoscenze del capitale umano. C’è poi chi aggiunge a questi due tipi di misure, altri due tipi e cioè: la realizzazione di nuove infrastrutture internazionali per facilitare i trasporti e le comunicazioni e la riduzione della tassazione delle aziende (qualcuno ha addirittura suggerito di sopprimere la tassazione delle aziende, perché sarebbe più importante mantenerle in vita che cercare di trarre da esse un contributo fiscale). Per il Ticino tutti e quattro questi tipi di misura sono stati proposti nel “libro bianco” che abbiamo presentato nel capitolo 24. Esiste un volume cospicuo di letteratura economica empirica che cerca di valutare gli effetti positivi di misure di questo tipo, introdotte a livello nazionale o regionale, sulla crescita dell’economia. I risultati non sono unanimi, ma, soprattutto, non è sicuro che un certo tipo di misura che va bene per un’economia A nel tempo t0, possa rivelarsi altrettanto positiva per l’economia B nel tempo t1. Occorre quindi considerare con molta prudenza generalizzazioni e volgarizzazioni del tipo “libro bianco” ed essere pronti a sottoporre qualsiasi misura proposta a una verifica regolare degli effetti. Insomma l’influsso di queste misure sulla produttività del lavoro non può essere solo attesa come gli ebrei attendevano la manna nel deserto, ma deve essere attentamente e regolarmente misurata per essere sicuri che l’effetto sperato si manifesti veramente. La verifica è relativamente facile per gli effetti di settore o per quelli aggregati di investimenti nell’infrastruttura, o nelle attività di ricerca e di innovazione. Essa diventa molto più difficile, invece, quando si tratta di appurare se l’arricchimento delle conoscenze e delle competenze del capitale umano, o la riduzione delle imposte, abbiano davvero esercitato un impatto positivo e significativo sull’aumento del tasso di crescita aggregato dell’economia. Dire che la verifica in questi casi non è facile non significa consigliare di rinunciarvi. Infine la verifica degli effetti diventa indispensabile in un periodo nel quale le risor- Parte terza: in purgatorio, non si sa per quanto ci si deve stare! 149 se dello Stato non aumenteranno che molto lentamente e governo e parlamento saranno obbligati a introdurre, soprattutto per effetto dei limiti posti all’indebitamento, delle priorità, rinunciando a realizzare progetti e programmi anche in settori che oggi vengono ritenuti di grande importanza. Per tutte queste ragioni, chi crede di persuadere l’elettorato della validità dei suoi programmi di rilancio con gran colpi di grancassa e senza attuare una verifica regolare dei risultati, sarà rapidamente considerato come un imbonitore, un tipico rappresentante della politica del quotidiano che promette molto, ma non mantiene niente. Ma anche chi pensa di far passare i propri messaggi, operando con dati e stime che non hanno un fondamento attendibile avrà fatto male i suoi conti. Chi scrive sa quanto gli è costato in termini di paziente ricerca delle fonti, lo sforzo di mettere assieme le basi statistiche, molto fragili e quasi sempre troppo aggregate, per questo lavoro. Egli non può perciò chiudere la sua perorazione senza indirizzare un appello ai responsabili della statistica economica cantonale perché vogliano cercare di migliorare la loro offerta di dati e di indicatori. Si tratta in primo luogo di riempire le lacune che ancora esistono, in particolare in materia di prezzi e di salari. In secondo luogo si tratta di mettere in piedi una piccola contabilità regionale affidabile con aggregati come il PIL, i consumi privati, quelli pubblici e gli investimenti privati e pubblici. Infine è importante che sulla produttività dei rami che formano la nostra base economica si sappia qualcosa di più degli apprezzamenti basati su inchieste in campioni più o meno rappresentativi di aziende che caratterizzano la situazione attuale. Dal profilo della conoscenza statistica, la mia visione, per quasi quarant’anni, è stata quella di poter un giorno prendere conoscenza delle previsioni di corto e medio termine fatte sulla base di un modello regionale per il Ticino, che fosse costruito in modo da poter conoscere anche l’evoluzione dei settori che maggiormente contano per l’economia cantonale e come pure quella dell’occupazione, rispettivamente della disoccupazione. So che ci sono ricercatori che vi stanno lavorando. Spero sempre di poter essere ancora vivo e vegeto per poter discutere i risultati concreti delle loro ricerche. Note bibliografiche alla seconda parte Borner S., Brunetti A., Straubhaar Th. (1990): Schweiz AG: Vom Sonderfall zum Sanierungsfall?, Verlag Neue Zürcher Zeitung, Zurigo Borner S., Brunetti A., Straubhaar Th. (1994): Die Schweiz im Alleingang, Verlag Neue Zürcher Zeitung, Zurigo Borner S., Rentsch H., editori (1997): Wieviel direkte Demokratie verträgt die Schweiz?, Verlag Rüegger, Coira/Zurigo 150 Dal paradiso al purgatorio Borner S., Bodmer F. (2004): Wohlstand ohne Wachstum. Eine Schweizer Illusion, Avenir Suisse, Orell Füssli Verlag, Zurigo Camagni R.(1991): Regional deindustrialization and revitalization processes in Italy, in L. Rodwin, H. Sazanami “Industrial Change and Regional Economic Transformation”, p. 137-167, HarperCollinsAcademic Londra De Saussure C., Blattner N. (1988): Die Schweizerische Wettberwerbsfähigkeit in der Diskussion, Schweiz. Bankiervereinigung, Basilea Kappel R., Landmann O. (1997): Die Schweiz im globalen Wandel, Verlag Neue Zürcher Zeitung, Zurigo Pelanda C. (1998): Ticino 2015, libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario della globalizzazione, Dipartimento delle finanze e dell’economia, Bellinzona Porter M. (1990): The Competitive Advantage of Nations, London, New York Rosenberg N. (1991): Dentro la scatola nera. Tecnologia e economia, il Mulino, Bologna Rossi M., Sartoris E. (1995): Ripensare la solidarietà. Istituto Ricerche Economiche, Armando Dadò editore, Bellinzona/Locarno Sommaruga S., Strahm R. H. (2005): Für eine moderne Schweiz, ein praktischer Reformplan, Nagel und Kimche im Karl Hanser Verlag, Monaco, Vienna Wechsler M., Savioz M. (1993): Soziale Sicherheit nach 2000. Finanzielle Perspektiven und Szenarien für die Schweiz, Verlag Rüegger, Coira/Zurigo Finito di stampare nel mese di ottobre 2005