Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli L’ISLAM SCIITA E LA PENA CAPITALE (*) Pejman Abdolmohammadi Il codice penale della giurisprudenza islamica sciita è suddiviso in due parti principali che comprendono: 1. le pene relative alla violazione del diritto di Dio (haggh- ollah); 2. le pene inerenti alle violazioni del diritto degli uomini (haggh-o-nnas) (1). Come lo indica il termine stesso, l'Haggh-ollah, che letteralmente significa "il diritto di Dio", riguarda i reati che si ritiene ledano direttamente la dimensione divina. Peccati quali l'apostasia, il rapporto omosessuale e il banditismo vengono considerati violazioni del diritto di Dio. Per questa tipologia di crimine, il peccatore può essere perdonato soltanto da Dio e di conseguenza deve pentirsi e ammettere il proprio errore di fronte al Creatore, promettendo di ritornare sulla retta via: soltanto un tale sincero pentimento potrà salvare la sua anima. Per il reo confesso che ha violato "il diritto di Dio" sono previste specifiche punizioni che si suddividono in due gruppi: gli hodud e le tahzirat. (2) Hodud, che è il plurale della parola araba had, significa "impedimento" e comprende una serie di sanzioni previste per i reati che violano l'hagghollah. Queste sanzioni sono precisamente definite e quindi non modificabili. Si parte dalla reclusione o da un numero prestabilito di fustigazioni fino ad arrivare alla pena di morte. Tali misure punitive hanno principalmente una funzione preventiva del reato e dovrebbero di conseguenza garantire una maggiore sicurezza sociale. (3) Tahzirat, parola araba che proviene dalla radice a-z-r, significa "educare". Questo tipo di sanzione, a differenza dell'hodud, non è prestabilita. Sarà il giudice islamico (il qadi) a definire l'entità della pena, secondo le sue personali valutazioni. L'unica regola che si deve rispettare consiste nel non superare la gravità delle pene stabilite dall'hodud. In altri termini il tahzir (singolare di tahzirat) è applicato per i crimini più modesti che non richiedono necessariamente l'applicazione di una pena, essendo sufficiente il pubblico pentimento del peccatore nei confronti di Dio. L'had (singolare di hodud) è invece applicato ai reati più gravi per i quali le norme sharaitiche prevedono precise sanzioni. Nel caso di sanzioni had, il qadi deve applicare la normativa alla lettera, mentre nel caso di sanzioni tahzir, egli gode di una discrezionalità maggiore e quindi può scegliere la tipologia della pena, mantenendosi però sempre sotto il livello stabilito dall'had. (4) Alcuni religiosi sciiti prendono in considerazone, oltre alle sanzioni had e tahzir, un'altra forma conosciuta come ta'dibat. Quest'ultima, che significa "ammaestrare", viene applicata soltanto ai minori e ai malati di mente. 1 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli Dal momento che queste due categorie di persone non sono considerate capaci di intendere e di volere, nel caso in cui violino il diritto di Dio devono essere trattate in maniera diversa rispetto agli altri membri della comunità islamica. Esse sono meno esposte alle pene sharaitiche, poiché le ta'dibat si limitano a semplici rimproveri o leggere punizioni fisiche (5). Poiché l'obiettivo specifico del presente saggio è la questione della pena di morte nell'islam sciita, mi concentrerò ora sui reati che violano il diritto di Dio e per i quali è prevista la pena di morte. Lo zena La giurisprudenza islamica dedica una speciale attenzione ai rapporti matrimoniali e al rispetto della famiglia. Essendo l'islam nato in un contesto tribale, le sue leggi si preoccupano di preservare i legami familiari e soprattutto l'integrità del matrimonio. Ogni possibile deviazione sessuale, che possa in qualche modo ledere i legami tribali e il divieto dell'incesto, è rigorosamente sanzionata. (6) Lo zena, che significa "illecita relazione sessuale", è infatti sottoposto a diverse sanzioni che rientrano nella categoria dell'had e che prevedono quindi anche la pena di morte. La sanzione capitale è anzitutto prevista quando un musulmano ha una relazione sessuale con un parente consanguineo di primo, secondo o terzo grado. In tale situazione il qadi, rispettate tutte le condizioni sharaitiche previste, emette la sentenza di morte. Il secondo caso di zena per il quale è prevista la pena di morte riguarda la relazione tra un kafir (infedele) e una donna musulmana. Secondo la shari'a coloro che non accettano Mohammad in quanto "ultimo messaggero" di Dio sono dei kafir. (7) Esiste però una differenza tra gli adepti di religioni monoteistiche (cristiani, ebrei, zoroastriani), conosciuti come gli ahl-e Ketab (le gente del libro), e coloro che non professano queste religioni. I primi possono godere di uno statuto di protezione (dhimmi), pagando un tributo allo stato islamico (jizya), (8) mentre i secondi, considerati assolutamente infedeli, addirittura non potrebbero vivere nei territori dell'islam. (9) Una delle condizioni richieste dallo stato islamico in cambio della protezione offerta alle minoranze religiose, è quella di evitare ogni relazione di tipo sessuale con le donne musulmane. Tale comportamento verrebbe considerato come una definitiva rottura del patto di convivenza tra il kafir protetto e la comunità islamica ospitante e di conseguenza penalmente sanzionato. Se un uomo appartenente a una minoranza religiosa consumasse un rapporto sessuale con una donna musulmana, indipendentemente dal fatto che quest'ultima fosse o meno consenziente, sarebbe condannato alla pena capitale. Questo anche perché, dal momento che secondo la shari'a il matrimonio tra l'uomo 2 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli kafir e la donna musulmana è proibito, il rapporto sessuale non potrebbe trovare alcuna soluzione giuridica di tipo matrimoniale. (10) Secondo l'islam sciita la sola condizione che potrebbe evitare l'applicazione della pena di morte è la conversione dell'uomo alla religione islamica. Nel caso in cui il kafir si convertisse prima della sentenza del giudice, secondo il quinto imam (Mohammad Baqer) e il sesto imam (Ja'far Sadeq), la sanzione potrebbe essere ridotta e quindi si eviterebbe la pena di morte. (11) Il terzo caso in cui lo zena è punito con la pena di morte è lo stupro. Al riguardo, quasi tutti gli esperti religiosi, tanto sciiti quanto sunniti, sono concordi. Gli sciiti si basano su uno dei detti del quinto imam, Mohammad Baqer, che, in risposta a una domanda di un giudice su come dovesse comportarsi con uno stupratore, avrebbe affermato che secondo il diritto islamico avrebbe dovuto togliergli la vita. La violazione del corpo femminile avrebbe dovuto essere considerata uno dei più gravi peccati di cui un uomo, musulmano o no, avrebbe potuto macchiarsi. (12) Perché i tre reati sopra citati possano essere accertati e sanzionati dal qadi è necessario che il peccatore si confessi per almeno quattro volte dinanzi al giudice. In caso contrario la shari'a richiede la testimonianza di quattro uomini. Solo in alcuni casi sono ritenute sufficienti le testimonianze di tre uomini accompagnate da due testimonianze femminili. (13) Se il peccatore non confessasse per quattro volte il suo reato o se non ci fossero quattro uomini (oppure tre uomini e due donne) pronti a testimoniare l'illecito commesso, il qadi non sarebbe legittimato a emettere la sentenza di morte, salvo i casi in cui egli stesso avesse assistito personalmente al compimento del crimine. (14) Se il reo confesso già condannato a morte si pentisse pubblicamente, secondo il diritto sciita egli potrebbe essere graziato o dall'imam vivente oppure, in sua assenza, dal suo rappresentante sulla terra, il vali-ye faqih. Il diritto penale della Repubblica islamica dell'Iran stabilisce che la guida spirituale (vali-ye faqih) può concedere la grazia a questa categoria di condannati a morte. Ovviamente sarà il vali-ye faqih stesso, in quanto legittimo rappresentante dell'imam sulla terra, a valutare, caso per caso, l'opportunità di graziare il peccatore pentito. (15) Va infine sottolineato che sotto l'aspetto della modalità dell'esecuzione della pena di morte i riferimenti coranici non sono molto chiari: per tale motivo spesso si ricorre alla Sunna e, in ambito sciita, anche ai detti e ai comportamenti degli imam. Secondo la Sunna, le modalità dell'esecuzione della pena capitale nei confronti del peccatore che ha commesso lo zena sono diverse: se quest'ultimo non è coniugato, vale la legge del taglione e pertanto l'esecuzione, seguendo una prassi tribale dell'Arabia, verrà effettuata con un colpo di spada. Se il peccatore al contrario fosse coniugato, allora il suo reato è ancora più grave e di 3 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli conseguenza verrà applicata la lapidazione. (16) Sebbene il Corano non menzioni la lapidazione, le autorità religiose sciite e sunnite, (17) basandosi su alcune fonti della Sunna, ritengono concordemente che il Profeta abbia adottato anche questo tipo di punizione. Inoltre gli sciiti trovano diverse fonti, anche nei detti degli imam, che confermano la pratica della lapidazione come modalità di punizione islamica. Il lawât L'islam considera l'omosessualità come uno dei peccati più gravi che l'essere umano possa compiere nei confronti del suo creatore. La relazione fra due uomini è assolutamente contraria alla legge di Dio, che in natura ha creato il sesso maschile e quello femminile affinché si uniscano, dando vita a nuove generazioni. Per questa ragione l'atto omosessuale è contro natura e provoca l'ira di Dio (18); a tale riguardo, secondo la Sunna, il Profeta avrebbe espresso le seguenti parole: Se qualcuno consumasse un atto sessuale con un uomo si presenterà nell'aldilà, dinanzi a Dio, macchiato di un peccato così grande che anche tutte le acque del mondo non saranno in grado di purificarlo. Egli sarà colpito dall'ira di Dio che lo maledirà, allontanandolo dalla sua benedizione. Quando due maschi si uniscono sessualmente provocano un tale disequilibrio, come se le colonne di tutta la creazione divina iniziassero a tremare dallo scandalo. (19) Sempre su questa tematica, una delle più autorevoli fonti islamiche sciite, il Vasahel- al- Sci'a, riporta un episodio in cui un non musulmano aveva chiesto all'imam Sadeq: "Perché Dio ha proibito l'omosessualità?". L'imam avrebbe risposto che "la ragione essenziale di questa proibizione consiste nel fatto che tale libertà sessuale avrebbe allontanato gli uomini dalle donne e ciò avrebbe danneggiato seriamente la continuazione del genere umano. L'omosessualità maschile è veramente una rilevante fonte di corruzione". (20) Lo zena è anch'esso considerato un atto deplorevole per la comunità islamica, ma essendo fondato su un rapporto naturale tra uomo e donna, è meno grave rispetto al lawât che viola l'ordine divino della creazione. Per questa ragione, se nel caso dello zena esistono diversi gradi di pene, oltre a quella capitale, nel caso dell'omosessualità maschile la pena di morte è una punizione affermata sia dal Corano sia dalla Sunna. Il termine di lawât ha origine in una delle sure del Corano in cui si racconta la vicenda del popolo di Lut (un profeta nipote di Abramo) nel quale gli uomini praticavano normalmente l'omosessualità. (21) È proprio questo racconto coranico a mostrare quanto questo atto sia deplorevole e susciti l'ira del creatore (che avrebbe annientato l'intero popolo di Lut). Il termine lawât si riferisce appunto alla pratica omosessuale del popolo di Lut. Dato che in questo episodio del Corano 4 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli le persone che praticavano l'omosessualità erano uomini, il termine lawât indica l'omosessualità maschile e non quella femminile. La punizione sharaitica prevista per questo tipo di reato rientra nella categoria dell'had e consiste inderogabilmente nella pena di morte. (22) Anche nel caso del lawât, come in quello dello zena, perché il giudice possa emettere la sentenza deve sussistere una delle seguenti condizioni: il peccatore deve confessare almeno quattro volte di aver commesso tale reato oppure quattro uomini autonomi e maturi devono testimoniare di avere assistito alla relazione omosessuale. Se tali condizioni non si verificano la pena di morte non può essere comminata. Il mosaheqeh Anche se in forme meno drastiche, il rapporto omosessuale tra donne è soggetto a punizioni sharaitiche. Secondo l'islam due donne che consumino un atto sessuale si allontanano dalla grazia divina e compiono una rilevante impurità. Dal punto di vista della punizione, però, trattandosi di un reato non ben definito come quello del lawât, esistono divergenze tanto all'interno del mondo sunnita quanto in quello sciita. Alcuni studiosi della sci'a, tra i quali troviamo Sheikh-e Mofid (23) e Ibn Edris-e Helly (24) ritengono che, anche qualora l'atto di omosessualità femminile venga appurato dal giudice, non si debba procedere alla pena di morte, ma occorra punire le peccatrici con cento fustigazioni. Al contrario, Sheikh-e Tusi, (25) altro autorevole religioso sciita, sostiene che nel caso in cui le peccatrici fossero già sposate, il giudice dovrebbe applicare la pena di morte mediante lapidazione. Ovviamente, anche in questo caso, secondo la shari'a, il giudice può emettere tale sentenza soltanto qualora le protagoniste confessino la propria colpa per almeno quattro volte o quattro uomini (in questo caso non valgono le testimonianze femminili) testimonino di aver assistito alla relazione omosessuale. Offesa o oltraggio al Profeta Mohammad Il Corano considera l'offesa e l'insulto come nocivi per la convivenza pacifica della comunità islamica. Nel versetto 108 della sura di An'a, Dio consiglia ai fedeli di non insultarsi e di non rompere l'equilibrio e la tranquillità della umma. (26) Anche nella Sunna esistono indicazioni chiare che pongono limiti precisi all'uso della violenza verbale. Mohammad Ibn Bokhari (810-870), studioso di rilievo dell'islam, narra che "un giorno un non musulmano si è avvicinato al Profeta insultandolo e augurandogli la morte". (27) In 5 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli seguito A'isha, la moglie del Profeta, avrebbe replicato restituendo gli insulti. "Il Profeta è intervenuto e ha chiesto alla consorte di calmarsi e di non replicare con odio, in modo tale da preservare la calma nella comunità." (28) Nonostante questi esempi, una parte delle autorità religiose sciite e sunnite considera che l'insulto al Profeta significhi in realtà l'umiliazione della religione islamica e dei suoi fedeli, per cui esso è sanzionabile con la pena capitale. Secondo la maggior parte dei religiosi sciiti tale reato va punito con la pena capitale. La ragione di questa sanzione è che il musulmano che offendesse il Profeta non è più un credente e di conseguenza, avendo abbandonato la sua religione, diventa un mortad (apostata), e come tale punibile con la pena capitale. Se invece colui che oltraggia è un kafir protetto, egli rompe il patto con lo stato islamico e quindi anche la sua condanna a morte è legittima. (29) Seguendo tale ragionamento gran parte dello sciismo considera sharaiticamente corretta l'applicazione della pena di morte per questo tipo di reato. Nell'era contemporanea il caso politico più eclatante che ha reso questa posizione giuridica della sci'a di rilevanza internazionale, si è verificato nel maggio del 1988 quando l'ayatollah Khomeini affrontò il caso del libro Versetti satanici scritto da Salman Rushdie. La guida spirituale dello sciismo islamico pronunciò la famosa fatwa (dichiarazione giuridica) che affermava essere dovere di ogni singolo musulmano l'eliminazione dello scrittore e di tutti coloro che lo avevano aiutato nella pubblicazione del libro; tale sentenza si fondava sull'accusa di "oltraggio al Profeta Mohammad". In realtà, secondo la normativa islamica sciita, a differenza di ogni altro reato che comporti la pena capitale, l'esecuzione di questo tipo di sentenze non richiede l'intervento istituzionale di una corte o di un giudice e tutti i musulmani sono perciò liberi di eseguirle. (30) Il mohareb La questione della sicurezza della comunità è un tema molto importante nell'ottica islamica. Tutti i cittadini dovrebbero godere della possibilità di vivere in pace senza essere preoccupati per la propria vita e per i propri beni. Dato che nell'Arabia preislamica le vie non erano sicure e il banditismo del deserto era un pericolo rilevante sia per i viaggiatori sia per il commercio, il bandito veniva punito molto severamente. Ne consegue che chi oggi organizza un assalto ai cittadini di uno stato islamico e, minacciandoli con le armi, li deruba, è accusato di essere un mohareb. Etimologicamente la parola deriva dalla radice h-r-b, che significa guerra e con ciò s'intende che il bandito, saccheggiando i fedeli di Dio, dichiara guerra alla sovranità divina violandone i diritti. (31) 6 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli Perché il mohareb venga riconosciuto tale dal giudice, occorre che lui stesso confessi di esserlo (per questo reato è sufficiente una sola confessione). In caso contrario si richiede la presenza di due testimoni maschi che abbiano assistito all'atto di banditismo. A questo punto, secondo la maggior parte dei religiosi sciiti, nel caso in cui il mohareb abbia realizzato soltanto un saccheggio senza provocare la morte di nessuno, egli deve essere punito con l'esilio; nel caso in cui, al contrario, nel corso della rapina abbia provocato la morte di qualcuno, deve essere condannato all'impiccagione. (32) L’ertedad La parola ertedad significa "regressione" e nell'ambito della giurisprudenza islamica viene riferita alla particolare situazione in cui una persona, dopo aver aderito alla religione islamica, decida di abbandonarla. In gergo islamico l'apostata è chiamato mortad. Se quest'ultimo fosse nato da genitori musulmani, fino alla sua maturità (per gli uomini quindici anni e per le donne nove anni), sarebbe comunque considerato un minore islamico. Il problema si pone nel caso in cui la persona maggiorenne, di genitori islamici, decida di abbandonare la religione dei genitori. A questo punto egli diventa un mortad-e fetri (insito apostata) ed è quindi passibile di pena capitale. In questi casi nemmeno il pentimento può evitargli la condanna. (33) Alla persona nata da genitori non musulmani che in seguito abbia abbracciato l'islam, nel caso in cui successivamente decidesse di rinnegarlo, è offerta l'opportunità di pentirsi e di ripensarci. Se ciò non accadesse, anch'esso, definito mortad-e melli (apostata nazionale) (34), sarà condannato alla pena capitale. (35) È importante sottolineare che queste sanzioni riguardano esclusivamente gli uomini, mentre le donne apostate, secondo la shari'a, non devono essere condannate a morte; esse devono essere imprigionate in condizioni dure nella speranza che ritornino alla religione di Dio per poter essere così rimesse in libertà. (36) Lo Haggh-o-nnas Dopo aver esaminato i reati che, violando il diritto di Dio, sono sanzionati con la pena di morte, passiamo ora a considerare quelli che, prima di ledere la dimensione divina, oltraggiano il diritto della persona. Anche in questo caso mi limiterò a mettere in luce soltanto i casi per i quali è prevista la pena capitale. Il valore attribuito dalla religione islamica alla vita dei fedeli è riscontrabile sia nel Corano sia nella Sunna. La vita dell'uomo è sacra e in 7 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli quanto tale deve essere preservata e difesa dal diritto islamico. Il diritto alla vita è proprio di ogni uomo e la sua violazione deve essere rigorosamente punita; di conseguenza la shari'a prevede la pena di morte per i casi di omicidio volontario: Per questo prescrivemmo ai figli d'Israele che chiunque ucciderà una persona senza che questa abbia ucciso un'altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l'umanità intera. E chiunque avrà vivificato una persona sarà come se avesse dato vita all'umanità intera [...] E, nella Torah, prescrivemmo a voi anima per anima, occhio per occhio, naso per naso, orecchio per orecchio, dente per dente, e per le ferite la legge del taglione. Ma chi dà in elemosina il prezzo del sangue, ciò sarà per lui di purificazione. E coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio, sono gli iniqui. (37) L'omicidio deve essere punito con il massimo della pena. Prima di arrivare alla condanna il giudice deve assicurarsi che l'assassinio sia stato intenzionale e non colposo, perché in questo caso sono ovviamente previste sanzioni meno gravi. (38) La volontarietà dell'omicidio viene stabilita sulla base della testimonianza di due uomini capaci di intendere e di volere, oppure della confessione dell'accusato stesso (secondo gli sciiti ripetuta almeno due volte). Esistono inoltre precondizioni che il giudice, prima di emettere la sentenza di morte, deve accertare: 1. l'omicida e la vittima devono godere dello stesso status giuridico e sociale: per esempio, entrambi devono essere liberi. Se invece un uomo libero uccide uno schiavo, l'omicida dovrà versare un indennizzo in denaro alla famiglia della vittima, ed eviterà la condanna a morte; 2. vittima e assassino dovranno appartenere alla stessa religione. Se un musulmano togliesse la vita a un kafir protetto, l'omicida dovrà scontare una pena pagando il prezzo del sangue della vittima ai suoi familiari, ma non sarà condannato a morte. La condanna a morte sarà invece applicata al non musulmano omicida; 3. il padre che uccide volontariamente il figlio, data l'importanza e il grande rispetto che l'islam riserva alla figura paterna, non viene condannato a morte; 4. l'omicida va incontro alla pena di morte soltanto se capace di intendere e di volere. (39) La ratio islamica che determina la pena di morte per l'omicida si fonda sul fatto che all'uomo ucciso è stato violato il diritto alla vita e che quindi i suoi familiari più vicini hanno il diritto di rivendicare il diritto negato al loro caro, infliggendo la pena sharaitica stabilita. Saranno perciò i parenti della vittima a decidere le sorti dell'omicida. Essi possono legittimamente chiedere tanto la condanna a morte quanto il perdono dell'assassino. In questo caso, a differenza delle situazioni citate in precedenza, il diritto dell'uomo precede quello di Dio, per cui se prima era Dio stesso (con la mediazione del giudice e della shari'a) a punire o a perdonare i peccatori, in questo caso sarà l'uomo a decidere la sorte del peccatore. Secondo la dottrina islamica, se l'omicida si pente prima di essere perdonato dai 8 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli familiari della vittima, non potrà avere il perdono di Dio. Oltre al perdono o alla condanna a morte, la shari'a offre una terza via: i familiari e/o gli eredi della vittima possono perdonare l'omicida, evitandogli così la morte, ma in cambio chiedono il di'e (il prezzo del sangue), ovvero una quantità di denaro che, seppur simbolicamente, ricompensi la vita perduta della vittima. Fra i peccati che violano il diritto dell'uomo, l'unico caso che porta alla pena di morte è l'omicidio volontario, mentre per i reati che violano il diritto di Dio, come abbiamo visto, i casi in cui è prevista la pena di morte sono più numerosi. È comunque evidente che buona parte delle normative del diritto penale sciita è condizionata da una logica tribale, propria dell'Arabia islamica e, peraltro, rinvenibile anche in altri contesti tribali, come quelli babilonesi o di alcune regioni africane. La shari'a, a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, è divenuto il fondamento del diritto della Repubblica islamica, e, di conseguenza, della sua legislazione civile e penale. Pertanto nel panorama giudiziario iraniano degli ultimi trent'anni, si è assistito all'applicazione di un diritto penale più rigoroso e in grado di disciplinare molti aspetti della vita del cittadino. Ciò ha avuto un notevole impatto sulla società, tale da suscitare un crescente dibattito sulle opportune modalità interpretative e applicative di tale diritto. I conservatori tendono a custodire inalterata la tradizione giurisprudenziale dell'islam sciita nell'applicazione concreta della legge sharaitica, mentre i progressisti puntano, attraverso un ricorso più efficace all'ijtihad, a una revisione del diritto penale, specie per i casi di particolare rilevanza, come l'illecita relazione sessuale (zena) o l'apostasia (ertedad). Un dibattito di questa natura fra conservatori e progressisti è in atto all'interno delle grandi religioni monoteiste, non solo nel mondo sciita: partendo dall'idea di un ordine di giustizia immutabile le religioni hanno dovuto via via misurarsi con l'avanzare della modernità, portatrice di nuovi valori e di istanze di mutamento etico-giuridico. Sarà perciò interessante seguire l'evoluzione di questo confronto all'interno dell'islam sciita, un confronto che, grazie al ricorso all'ijtihad, potrà dar luogo a inediti sviluppi, utili per la civiltà intera. 9 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli Note *. Da P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 162-73. 1. A.A. Mo'meni, Hoghugh-e Jazay-e Ekhtesasi-ye Eslam Sci'e, cit., p. 56. 2. Ivi, pp. 63-4. 3. Masalek-ol Afham fi Sharh-e Sahrayeh-ol Eslam (Il commentario delle leggi islamiche sciite), vol. 2., p. 36. 4. Cfr. S. Tusi, Al-mabsut fi feqh-el Imamya (Il commentario sul diritto islamico imamita), vol. 8, p. 66. 5. Cfr. S. Avval, Al- qhava'ed-ol fava'eh (Le norme e le loro funzioni), vol. 2, pp. 142-4. 6. (Cor VI, 151). 7. Cfr. A. Hosseini-Ye Sistani (Ayatollah), Resale-ye Tosihol Masa'el, Casa Editrice Iran, Teheran 1998, p. 17. 8. Il termine Jizya significa "compenso" e si riferisce all'imposta personale, che viene applicata ai membri delle religioni "del libro" (cristiani, ebrei, zoroastriani) che risiedono nei territori di dominio islamico. 9. Sulla posizione giuridica dei non musulmani si veda J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995, pp. 40-2. 10. Cfr. A.A. Hosseini-Ye Sistani (Ayatollah), Resale-ye Tosihol Masa'el, cit., p. 380. 11. Vasahel- al- Sci'a, vol. 28, cap. 36, p. 141. 12. Ivi, vol. 20, cap. 17, p. 315. 13. Ciò significa che la testimonianza femminile se non accompagnata da quella maschile non ha alcun valore giuridico. Tale norma trova la sua giustificazione sharaitica nell'argomento che l'islam non attribuisce alla donna il dovere di testimoniare lo zena. Essa può soltanto rafforzare la testimonianza di un uomo e non ha l'obbligo religioso di rendere pubblica una relazione illecita di cui sia stata testimone. 14. Vasahel- al- Sci'a, vol. 27, cap. 24, p. 358. 15. Cfr. G. Davani, Ghanun-e Asasi-ye Jomhuri-ye Eslami-ye Iran (Costituzione della Repubblica islamica dell'Iran), Kiumars, Teheran 1997, pp. 52-3; si veda anche S. M. Hashemi, Hoghugh-e Asasi-ye Jomhuri-ye Eslami-ye Iran (Diritto Costituzionale della Repubblica islamica dell'Iran), Dadgostar, Teheran 2002, pp. 70-5. 16. Vasahel- al- Sci'a, vol. 28, cap. 19, p. 114. 17. I kharijiti, che sono una ramificazione dell'islam, non considerano sharaiticamente legittima la lapidazione. 18. Cfr. A. Mo'meni, Hoghugh-e Jazay-e Ekhtesasi-ye Eslam Sci'e, cit., pp. 158-9. 19. Vasahel- al- Sci'a, vol. 20, cap. 17, p. 329. 10 Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli 20. Ivi, p. 333. 21. (Cor XXIX, 28-30). 22. Vasahel- al- Sci'a, vol. 28, cap. 3, pp. 157-8. 23. Cfr. S. Mofid (948-1022), Al- Maqna'a (Il velo), pp. 787-8. 24. Cfr. I. E. Helly (1155-1229), Ketab-ol Sara'er (Il libro dei misteri), vol. 3, p. 463. 25. Cfr. S. Tusi (995-1067), Al-Nihayah fi Mojarrad-el Fiqh va al-Fatawa (Un'introduzione al diritto islamico e alle motivazioni delle opinioni giuridiche), p. 706. 26. "Non insultate quelli che essi invocano accanto a Dio, perché, alla loro volta, per insipienza, non insultino malamente Iddio. È così. Ad ogni gente facciamo apparire bello il suo modo d'agire; poi un giorno torneranno davanti al loro Signore, che ridirà loro quello che avranno fatto" (Cor VI, 108). 27. Cfr. M. Bokhari, al-Sahih (Il genuino), vol. 4, p. 54. 28. Ibid. 29. A. Mo'meni, Hoghugh-e Jazay-e Ekhtesasi-ye Eslam Sci'e, cit., pp. 207-8. 30. Ivi, p. 210. 31. Cfr. S. Tusi, Al-Nihayah fi Mojarrad-el Fiqh va al-Fatawa, p. 720. 32. Cfr. A. Mo'meni, Hoghugh-e Jazay-e Ekhtesasi-ye Eslam Sci'e, cit., p. 274. 33. Cfr. S. Tusi, Al-mabsut fi feqh-el Imamya (Il commentario del diritto islamico imamita) cit., vol. 7, p. 282. 34. Va sottolineato che questa suddivisione del mortad è esclusiva dello sciismo, mentre per i sunniti esiste una sola tipologia di apostasia. 35. Vasahel- al- Sci'a, vol. 28, cap. 3, p. 328. 36. Ivi, vol. 28, cap. 4, p. 330. 37. Cor V, 32, 45. 38. Cfr. A. Mo'meni, op. cit., p. 320. 39. Ivi, pp. 331-5. 11