LEADER POLITICI E QUALIFICAZIONE AL POTERE NELLA POLIS GRECA Sommario: 1. Il V secolo: a) Pericle; b) Archidamo; c) I successori di Pericle: Cleone e Diodoto; d)Tra autorevolezza e consenso – 2. Il IV secolo: - a) La tradizione democratica: Demostene; b) La tradizione non democratica: Isocrate; c) Una prospettiva originale: Senofonte. La polis greca è una comunità politica di cittadini, inserita in una dimensione territoriale, urbanistica, economico-sociale. Nella sua formazione, l’ideologia comunitaria svolge una funzione fondamentale accanto all’identità religiosa: la città è un koinón, un possesso comune. Di conseguenza, il territorio non è un dominio privato, ma è, per usare una terminologia latina, res publica; la popolazione deve partecipare almeno in parte alla gestione del koinón; il potere deve essere esercitato per periodi definiti e a rotazione; il suo esercizio deve essere conforme alle regole fissate dalla legge (nomos: il termine è etimologicamente legato alla nozione di “condivisione”). Il potere è dunque, nel contesto della polis, un potere essenzialmente condiviso, anche se questa prospettiva ideale si realizza in forme diverse nella prassi. Le forme costituzionali sono infatti catalogate in base al numero dei soggetti cui compete la sovranità ed è riservato l’esercizio del potere: monarchia (il potere è riservato ad uno solo), oligarchia (il potere è riservato a pochi, selezionati in base a criteri diversi, nascita, ricchezza, competenza), democrazia (il potere è aperto a tutti). In questi composti il concetto di potere è espresso con due termini diversi, kratos e arché: kratos indica il potere come esercizio della sovranità, arché il potere come autorità delegata (quello tipico dei magistrati). “Democrazia” esprime dunque la sovranità del demos, la comunità civica nel suo insieme; “oligarchia” la delega dell’esercizio del potere di governo a pochi; “monarchia” la delega al sovrano. Questa concezione del potere politico non esclude affatto che singoli leader possano vedersi riconosciuta, come rappresentanti della comunità, una particolare autorevolezza (in campo militare, come strateghi, e in campo politico, come oratori e dunque interlocutori dell’assemblea); anzi, nella stessa democrazia ateniese il reclutamento per elezione, e non per sorteggio, di magistrature che richiedevano competenza militare o amministrativa rivela che la comunità riteneva opportuno delegare parte del suo potere a persone capaci. Si pone, pertanto, il problema del rapporto dell’uomo politico con i depositari della sovranità e delle qualità che lo candidano ad un ruolo di particolare responsabilità. Il greco non ha un termine univoco, equivalente del latino auctoritas, per identificare quella capacità di cogliere intellettualmente e di realizzare praticamente il bene dello stato che costituisce la qualità principale del leader politico. Le caratteristiche e i valori che nella Grecia classica definiscono il leader politico sono diversi: se nel V secolo è possibile identificare una terminologia in qualche modo corrispondente, a livello di contenuti, a quella dell’auctoritas, nel IV il tema dell’autorevolezza sembra perdere di attualità, sostituito da quello del consenso. Poiché non è possibile, in queste pagine, esaurire la questione né dal punto di vista degli autori né dal punto di vista dei contenuti, dovrò limitarmi a prendere in esame alcuni aspetti: fra gli autori, considererò prevalentemente storici e oratori (l’importante contributo dei filosofi richiederebbe un discorso a parte), mentre, quanto alle doti che qualifi cano l’uomo politico all’esercizio del potere, metterò l’accento sulle qualità richiestegli nel suo rapporto con la comunità politica e con l’opinione pubblica (nella consapevolezza che vi sono aspetti altrettanto importanti, come le capacità militari o le competenze tecnico-amministrative). 1. IL V SECOLO Nel V secolo il contributo fondamentale sul tema del rapporto tra uomini politici e potere è quello di Tucidide: sotto lo stimolo dell’esperienza periclea, lo storico propone in diversi passi della sua opera una definizione del leader politico e delle principali caratteristiche che definiscono il suo rapporto con i depositari della sovranità e lo qualificano all’esercizio del potere che gli viene affidato. 1 A) PERICLE Termini di rilevanza fondamentale per il nostro problema, come axíoma e axíosis, ricorrono frequentemente in Tucidide. Il primo designa la considerazione dovuta per lo più a motivi esterni all’individuo, come il rango sociale, la tradizione familiare, la ricchezza, in una prospettiva di marca aristocratica che D. Musti ha definito “statica”; il secondo designa invece la stima che ognuno si conquista per le proprie capacità personali in termini di capacità teoriche e di prestazioni effettive, in una prospettiva “dinamica” che appare di segno democratico. Particolarmente interessante è il giudizio tucidideo su Pericle in II, 65, 8: egli era “potente per dignità (axíoma) e per senno (gnome), chiaramente incorruttibile al denaro, dominava il popolo senza limitarne la libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse, poiché Pericle non parlava per lusingarlo, come avrebbe fatto se avesse ottenuto il potere con mezzi illeciti, ma lo contraddiceva anche sotto l’influsso dell’ira, avendo ottenuto il potere per suo merito personale (axíosis)”. E’ qui proposto chiaramente il binomio axíoma/axíosis, che merita di essere meglio compreso. Axíoma individua la “considerazione” di cui una persona gode, talora in collegamento con dýnamis, “potenza”, e con timé, “onore” (I, 130, 1; IV, 86, 6; V, 43, 2; VI, 15, 3; VIII, 73, 3); axíosis vale “valutazione”, sia nel senso di “giudizio” e di “aspettativa” (I, 37, 1; 41, 1; II, 88, 2; III, 9, 2), sia in quello di “reputazione” ottenuta sulla base del riconoscimento della capacità di rendersi utili in qualche forma alla comunità (I, 138, 2; II, 34, 6); il termine ricorre di frequente nei discorsi di Pericle (II, 37, 1; 61, 4; VI, 54, 3). Sia axíoma che axíosis individuano una “considerazione” che impegna la persona ad un comportamento conseguente, tale da rispondere alle aspettative dell’opinione pubblica: essa non è collegata tanto con l’ammirazione per le virtù private del cittadino (di cui pure viene apprezzata l’irreprensibilità morale: nel caso del giudizio tucidideo su Pericle, non a caso viene messo l’accento sull’incorruttibilità), quanto con la valutazione della sua capacità di contribuire al bene comune. In questa prospettiva, autorevolezza significa prima di tutto assunzione di responsabilità nell’ambito della vita pubblica, in particolare in contetso democratico, ove ciascuno è sottoposto alla valutazione della pubblica opinione. L’axíosis rivela comunque un’importanza primaria, proprio perché essa è indipendente dal retroterra sociale, economico e culturale e viene conquistata in base alle qualità della persona, a quella capacità di contribuire al bene comune che la qualifica a rivestire un ruolo pubblico e ad esercitare il potere in nome della comunità. Altri aspetti sottolineati nel giudizio di Tucidide sono il disinteresse per il vantaggio personale, economico (l’incorruttibilità) o di potere (l’assenza di ambizioni personali), il rifiuto della demagogia, la presa di distanza dagli aspetti irrazionali del processo decisionale (il leader non deve lusigare il popolo né temerne l’ira). La leadership dell’uomo politico tucidideo si basa su una serie di capacità intellettuali e pratiche – la capacità di parlare (eipeîn, IV, 84, 4; leghein, I, 139, 4), di valutare (gnome, gnonai, II, 65, 8; VIII, 68, 4), di agire (prassein, I, 139, 4) – in grado di suscitare nell’opinione pubblica una valutazione positiva. Fra tali capacità, un ruolo fondamentale ha in Tucidide la xýnesis, la capacità di penetrazione intellettuale, atta a cogliere in modo rapido e chiaro una situazione. Xýnesis è già presente in Erodoto (III, 81) come virtù politica qualificante all’esercizio del potere, il cui possesso viene contestato alla folla ignorante; è frequente in Euripide come virtù tipica del cittadino democratico, in quanto non collegata con la nascita e la ricchezza, ma dono che la divinità elargisce liberamente. Nell’opera tucididea xýnesis assume però un eccezionale rilievo, caratterizzando gli esponenti più significativi della democrazia ateniese, da Temistocle a Pericle (I, 74, 1; 79, 2; 138, 2-3; II, 15, 2; 34, 6; IV, 81, 2; VI, 54, 5; 72, 2; VIII, 27, 5; 68, 4). Pericle presenta la xýnesis come la principale virtù politica, capace assai più della forza concreta di assicurare il potere (I, 140, 1 e II, 62, 5); ritenuta capace di creare reputazione positiva e di generare imitazione (IV, 85, 2), xýnesis è la virtù di chi è chiamato a valutare e a decidere in ambito politico (VI, 36, 1 e 39, 1), e si contrappone, come tipicamente ateniese, alle più tradizionali virtù spartane (cfr. I, 84, 3)1. Cfr. M. Sordi (a cura di), L’immagine dell’uomo politico: vita pubblica e morale nell'antichità (CISA, 17), Milano 1991; D. Musti, Axíosis, axíoma nel linguaggio di Pericle (Thuc. II, 37, 1), in Quaderni dell’istituto di archeologia e storia antica dell’Università degli Studi di Chieti V (1995), pp. 11-16; Id., Demokratia. Origini di un’idea, Roma-Bari 1995. 1 2 B) ARCHIDAMO Il leader ideale ha caratteristiche diverse a seconda del “carattere nazionale” che lo contraddistingue: così, l’uomo politico spartano è diverso dall’uomo politico ateniese, esprime altri valori e la sua configurazione “ideale” è sensibilmente differente. Molto interessante, a questo proposito, è la presentazione che Tucidide fa del re Archidamo nel celebre dibattito svoltosi a Sparta nel 432/1, nell’imminenza dello scoppio della guerra del Peloponneso: Tucidide vi fa intervenire delegati corinzi, ambasciatori ateniesi e, da parte spartana, il re Archidamo e l’eforo Stenelaida. Tucidide (I, 79, 2) giudica Archidamo intelligente (xynetós) e saggio (sophron), accostando il concetto di xýnesis, che esprime la capacità di penetrazione intellettuale, a quello di sophrosyne, che esprime l’idea di moderazione, autocontrollo e prudenza: tuttavia, nel suo discorso (I, 79-85) Archidamo appare il tipico uomo politico spartano, esponente della Sparta della tradizione, prudente, esitante, lenta fino all’immobilismo, in forte contrapposizione con i dinamici rappresentanti dell’Atene contemporanea. Di fronte all’ipotesi della guerra, Archidamo invita a valutare la situazione con prudenza (I, 80, 2); conscio delle difficoltà poste da una guerra “tra continentali e isolani” (I, 83, 2), egli ribadisce la necessità di non lasciarsi condizionare dai discorsi degli alleati e di muoversi con la consueta calma (hesychía: I, 83, 3). Prudenza e attendismo appaiono dunque le cifre della sua condotta politica. Particolarmente interessante è il passo (I, 84-85), in cui Archidamo risponde sistematicamente alle accuse rivolte a Sparta dai suoi alleati Corinzi (I, 68-71). A detta dei Corinzi, gli Spartani eccedono in prudenza (sophrosyne) e mostrano ignoranza (amathía) di ciò che avviene fuori dal loro paese; sono inerti ed esitanti, ottusi a comprendere le situazioni, e dunque inadeguati a contrastare gli Ateniesi, dinamici ed innovatori; in sostanza, la loro politica è antiquata (archaiótropa … tà epitedeúmata). Archidamo reagisce vigorosamente all’attacco portato dai Corinzi contro le tradizioni spartane in ambito di stile di vita e di condotta politica. Contro l’accusa di lentezza e di esitazione, Archidamo ribadisce la tradizione di prudente saggezza che ha sempre caratterizzato Sparta, la quale deve la sua libertà e la sua fama proprio al fatto di aver sempre agito in linea con la sua tradizionale saggezza (sophrosyne). A Sparta, il valore militare non è impedito dalla capacità di riflessione; “ignoranza” e “saggezza”, amathía e sophrosyne, si coniugano in un rigoroso rispetto delle leggi ed evitano il rischio di essere “troppo intelligenti (xynetoí) in cose inutili”. Archidamo rifiuta con ciò le sollecitazioni dei Corinzi ad adeguarsi almeno parzialmente al modello ateniese, ribadendo il valore della politica spartana nella sua configurazione più tradizionale. Il discorso ci fornisce un’interessante esempio di “autorappresentazione” spartana: la Sparta della tradizione vede l’uomo politico ideale in una prospettiva che si distingue radicalmente da quella ateniese. Il suo potere trova giustificazione non nella rapidità di azione che consegue alla xýnesis, ma nella prudenza che consegue alla sophrosyne: egli arriva a farsi vanto della stessa amathía, esprimendo un ideale ben lontano da quello dello stretto rapporto tra percezione della realtà, valutazione ed azione che caratterizza il politico ideale ateniese. All’interno della stessa Sparta non mancano, tuttavia, orientamenti diversi. Nello stesso dibattito del 432/1, l’eforo Stenelaida (I, 86) esprime totale dissenso dalla posizione di Archidamo. Egli respinge duramente l’invito del re a riflettere con calma ed esorta piuttosto a decidere in fretta per la guerra: senza rinnegare il concetto di sophrosyne, ma applicandolo diversamente da Archidamo, egli ritiene espressione di saggezza privilegiare la tutela degli alleati, non tollerando che essi vengano offesi e non esitando a difenderli. Rovesciando l’applicazione della nozione di sophrosyne, Stenelaida incarna dunque un modello di uomo politico spartano “alternativo”, molto vicino a quello proposto dai Corinzi e ispirato ad Atene: pronto nelle reazioni, rapido nel decidere, capace di competere con la capacità di iniziativa ateniese. La tradizione non manca di proporci, oltre a quella tra Archidamo e Stenelaida, altre contrapposizioni tra esponenti della Sparta più tradizionale e Spartani “innovativi”, tali da suscitare nell’opinione pubblica e nell’establishment della loro città perplessità, resistenze o persino reazioni di carattere repressivo: per esempio, nel IV secolo, quelle tra i navarchi Lisandro e Callicratida e tra i re Agesilao e Agesipoli. Callicratida e Agesipoli da una parte, Lisandro e Agesilao dall’altra incarnano diversi temperamenti e diverse visioni del potere: i primi si propongono di rimanere nel solco della tradizione spartana, accettando i limiti che essa imponeva al libero estrinsecarsi delle qualità e delle 3 ambizioni individuali, mentre i secondi propongono un modello di leader politico intollerante di questi limiti e desideroso di più ampi spazi di autoaffermazione2. C) I SUCCESSORI DI PERICLE: CLEONE E DIODOTO Per tornare all’ambito ateniese, offre spunti interessanti il confronto fra due uomini politici della generazione postpericlea, Cleone e Diodoto, nel dibattito che si tenne nell’assemblea ateniese nel 427 sulla questione del comportamento da tenere nei confronti dei Mitilenesi ribelli (Tucidide III, 36, 6 – 49, 1). I loro interventi riguardano da una parte le relazioni tra Atene e i suoi alleati e l’alternativa tra uso della forza e ricorso alla clemenza (epieíkeia) come strumento più efficace per mantenere l’impero, dall’altra il rapporto tra il leader politico e l’assemblea. Su questo secondo punto, che è quello che ci interessa, Tucidide propone attraverso le figure di Cleone e Diodoto due modelli alternativi, uno antipericleo e uno pericleo, con il quale egli si sente in particolare sintonia: il giudizio su Pericle di II, 65 rappresenta, ancora una volta, il termine di confronto. Cleone, nel discorso per Mitilene, sembra “citare” letteralmente Pericle più volte: in III, 37, 2, quando Cleone, dichiarando “Voi non considerate che l’impero che avete è una tirannide” riprende il Pericle di II, 63, 2; in III, 38, 1, laddove egli, affermando “Quanto a me, io resto sempre dello stesso parere”, riprende il Pericle di II, 61, 2; in III, 40, 3, quando, ricordando che l’impero, in quanto tirannide, comporta decisioni ingiuste e che l’atteggiarsi ad uomini onesti?implica la rinuncia all’arché, riprende il Pericle di II, 63, 2. Tucidide, con ciò, vuol certamente attribuire a Cleone l’intenzione di presentarsi come l’erede di Pericle: pure, lo storico non manca di sottolineare, parallelamente, che la visione politica che il sedicente erede propone è esattamente opposta a quella periclea. Tucidide “costruisce” così la sua immagine di Cleone accostando citazioni periclee a posizioni politiche antitetiche rispetto a quelle di Pericle. Lo si può notare già nell’esordio del discorso per Mitilene, dove Cleone, per affermare polemicamente l’incapacità degli Ateniesi di gestire efficacemente l’arché, rovescia in senso negativo quell’assenza di reciproco timore nei rapporti quotidiani che, nell’Epitafio pericleo (II, 37, 2 e 39, 1), è una delle caratteristiche principali della democrazia, ritenendola, se esercitata nei confronti degli alleati, un segno di debolezza (III, 37, 2: “A causa della vostra mancanza di timore e di ostilità nei rapporti giornalieri tra di voi, vi comportate nello stesso modo anche verso gli alleati…”). Nello stesso senso va l’attacco alla xýnesis che Cleone, preoccupato che gli Ateniesi mostrino incertezza e instabilità nelle deliberazioni, conduce nel passo che è oggetto della nostra discussione (III, 37, 3-5): il popolo, egli afferma, deve seguire la propria opinione (doxa), senza lasciarsi fuorviare dalla tecnica retorica (deinotes) e dall’intelligenza (xýnesis) degli oratori. Ora, la xýnesis è, come si è detto, una delle doti principali dell’uomo politico democratico ed esprime, fra l’altro, la capacità di discernimento razionale, che si contrappone all’irrazionalità della massa in preda alle proprie emozioni. Nel giudizio tucidideo su Pericle (II, 65, 5-9), lo statista è presentato come capace di stimolare il popolo alla libertà di giudizio, evitando di lusingarlo e frenandone l’irrazionalità (orghé). Cleone, che invita il popolo a non accogliere l’invito a ritornare criticamente sulle decisioni prese, a non esercitare la xýnesis, a restare legato alla propria doxa, è dunque l’esatto contrario di Pericle. Affermando che chi impedisce al popolo di seguire la propria opinione mette in pericolo la città perché fiducioso nella sua eloquenza o perché convinto dal denaro e che, quindi, l’assemblea deve fidarsi solo di se stessa e non lasciarsi indurre alla riflessione dagli oratori, Cleone si presenta apparentemente come il vero democratico, che rifiuta l’idea di oratoria come gara sofistica di belle parole ma aliena dagli interessi della città e si mostra preoccupato, prima di tutto, di assicurare al demos la piena capacità decisionale (III, 38). Ma in realtà la sua prospettiva, che vuole il popolo disinteressato alla discussione e alla retta valutazione e restio a lasciarsi guidare nel dibattito assembleare, è fortemente demagogica e nettamente antipericlea: il rapporto dialettico stabilito da Pericle con il demos (“dominava il popolo senza limitarne la libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso lo conducesse”), infatti, appare ribaltato nella prospettiva di Cfr. C. Bearzot, Spartani “ideali” e “Spartani anomali”, in Contro le “leggi immutabili”. Gli Spartani fra tradizione e innovazione (Contributi di storia antica, 2), Milano 2004, pp. 3-32. 2 4 Cleone, che vede la propria leadership come una opportunità di utilizzare demagogicamente il popolo, sottraendolo all’influenza riequilibratrice di altri leader. Tucidide dunque, mentre sottolinea, attraverso le riprese terminologiche e le citazioni, la pretesa di Cleone di presentarsi come l’erede di Pericle, fa emergere anche forti elementi di discontinuità e si sforza con ciò di mettere in evidenza la distanza etica e politica fra i due: nell’opera tucididea Cleone, che si pretende nuovo Pericle, è in realtà un Pericle distorto, o addirittura un anti-Pericle. Una conferma ulteriore viene dal discorso di Diodoto, avversario di Cleone nel dibattito mitilenese. Diodoto, esponente di una linea politica più moderate, nella parte del suo discorso in cui si parla del rapporto tra il popolo e i suoi leader (III, 42) prende le distanze da quanto Cleone ha precedentemente affermato in proposito; se Cleone aveva sottolineato la necessità di evitare eccessive discussioni, Diodoto afferma invece che fretta e ira (orghé) sono elementi negativi nel processo decisiona le. Già questo basta a presentarci un Diodoto vicino a posizioni “periclee”: l’assemblea deve discernere con calma e non lasciarsi trasportare dall’emotività. Chi, come Cleone, nega il valore della discussione assembleare, o è axýnetos o trova in ciò qualche vantaggio personale: in entrambi i casi, egli appare indegno del ruolo di leader politico, perché privo tanto della dote fondamentale della xýnesis quanto delle qualità di incorruttibilità e di disinteresse proprie dell’uomo politico ideale, esemplato sull’immagine del Pericle in II, 65. Per contro, profondamente periclea è l’immagine del buon cittadino che parla al popolo tratteggiata da Diodoto: egli deve convincere il demos giocando ad armi pari, non parlare per compiacerlo (pròs charin) al fine di ottenere onori. Tucidide coglie così in Cleone, ancora una volta, l’anti-Pericle, colui che parla al popolo per compiacerlo e ottenere vantaggi personali, non per il bene della città, senza esercitare la responsabilità propria dell’oratore e senza favorire la buona deliberazione dell’assemblea. Per contro Diodoto, che raccomanda di decidere con saggezza (il concetto di sophrosyne è fortemente presente nel discorso di Diodoto, ed egli è, anzi, l’unico oratore ateniese che usa questo termine) e con calma, rifiutando “le cose più dannose a una buona decisione, la fretta e l’ira”, ha tratti fortemente periclei. Tucidide ha voluto probabilmente, con ciò, sottolineare il rapporto ideale tra Pericle e Diodoto, per contribuire a mettere ulteriormente in luce la distanza fra Cleone, che si atteggia senza vero fondamento a nuovo Pericle, e il suo modello. Cleone ci appare così come un modell7o negativo, di cattivo politico indegno di esercitare il potere come rappresentante della comunità, che contribuisce a delineare e contrario l’immagine del politico ideale3. D) TRA AUTOREVOLEZZA E CONSENSO Tornando al problema da cui siamo partiti, e cioè alla definizione del leader politico e delle caratteristiche che lo qualificano all’esercizio del potere affidatogli da chi detiene la sovranità, nella visione tucididea egli è colui che, avendo alle spalle una tradizione solida sul piano familiare e sociale che lo affranca dall’oscurità (axíoma), è in grado di guadagnarsi una personale considerazione (axíosis) a motivo delle qualità che lo candidano ad assumere un ruolo dirigente, prima fra tutte la xýnesis, fondamento della capacità di valutare e di agire tempestivamente ed efficacemente, di perseguire il bene comune, di mantenere con la comunità politica di cui è rappresentante un rapporto dialettico, rispettoso della libertà ed immune da ogni forma di demagogia. L’autorevolezza del leader appare dunque fondata su solide basi di contenuto, sull’“essere” più che sull’“apparire”. Di qui lo scarso interesse di Tucidide per termini come doxa o eudokimía, che identificano la “popolarità”, il consenso non necessariamente legato ad effettivi contenuti di valore: in Tucidide il verbo eudokiméo è presente una sola volta e in diretto collegamento con l’axíosis, nel passo dell’Epitafio (II, 37, 1) in cui Pericle afferma che “per quanto riguarda la considerazione pubblica (axíosis) nell’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere (eudokimeîn) in un determinato campo”. Per lo stesso motivo Tucidide individua il discrimine fra democrazia e demagogia nel momento in cui, nell’identificazione del leader, la ricerca del consenso viene a prevalere sull’effettiva superiorità di valore. 3 Cfr. C. Bearzot, Il Cleone di Tucidide tra Archidamo e Pericle, in Ad fontes! Festschrift Dobesch, Wien 2004, pp. 125-135. 5 La superiorità identificata dal concetto di xýnesis è di carattere intellettuale ed è collocata nella sfera del politico. I termini che identificano l’espressione dell’autorità in senso concreto, quindi la “potenza” vera e propria, non indicano quasi mai in Tucidide l’autorevolezza politica: mi riferisco a termini come exousía, arché, kratos, nonché ad espressioni come mega dýnamai, polý ischyo (“sono forte, potente”), che indicano la forza anche fisica e dunque identificano il valore di un uomo ha in base alle proprie forze oggettive e di natura concreta (come pure la potenza di una città, o di una entità politica, in senso generale o su base geografica, demografica, politico-militare, economico-sociale). L’autorevolezza politica appare interamente collegata con la sfera della reputazione: tanto axíoma, axíosis quanto eudokimía, doxa indicano il valore che un uomo assume in ambito sociale a seguito della valutazione espressa dalla comunità. 2. IL IV SECOLO Il IV secolo offre un quadro più complesso, caratterizzato in senso duplice a seconda del retroterra ideologico delle fonti che ci offrono gli elementi per una identificazione delle caratteristiche principali del leader politico ideale. La tradizione democratica mostra una significativa continuità con Tucidide; del tutto diversa appare invece l’impostazione della tradizione “moderata”, cioè degli autori antidemocratici di orientamento riformista, come Isocrate. A) LA TRADIZIONE DEMOCRATICA: DEMOSTENE In Demostene ricorre con frequenza axíoma, con il valore di “prestigio, dignità”. Tale prestigio è collegato con il riconoscimento di valori effettivi, siano essi fattori concreti di potenza (Phil. III, 43) o portati della tradizione (XVIII, 210), ed impegna ad un comportamento coerente nell’assunzione del ruolo a cui esso qualifica (Phil. III, 73). Axíosis, che si riferisce specificamente all’individuo e ai suoi valori personali, è assente, anche perché a Demostene interessa non tanto l’autorevolezza del singolo leader democratico, quanto quella di Atene a livello panellenico: anche al di là del lessico demostenico, del resto, il termine tende a scomparire nel IV secolo. Frequente è l’occorrenza dell’espressione tes poleos axíoma, “il prestigio, la dignità della città”, la cui perdita comporta anche la perdita di egemonia e libertà (XVIII, 65); tale axíoma è così strettamente collegato con Atene che la caduta di Atene a Cheronea dissolve l’axíoma della Grecia intera (Epit. 24). Al tema dell’uomo politico democratico rispetto alla città, che appariva centrale nella riflessione tucididea, si sostituisce quello di Atene (la polis democratica per eccellenza) rispetto alla Grecia, con un ampliamento di orizzonti che ben corrisponde alle problematiche politiche contemporanee. La qualificazione all’esercizio del potere continua comunque ad essere collegata con elementi di valutazione oggettiva, con valori che suscitano uno spontaneo riconoscimento: fra essi, la terminologia della xýnesis (piuttosto rara nel IV) e delle diverse capacità che qualificano all’attività politica continua a rivestire un ruolo significativo (Epit. 17; 30; Erot. 1; 45; 50; Ep. III, 11, dove viene sottolineata la superiorità di Atene sulla base di sýnesis e di paideia). Analogamente, la capacità di parlare e di agire continua a caratterizzare il cittadino capace di servire il bene comune (XXI, 141; XXII, 25; XXVI, 8), a conferma della continuità di Demostene con la tradizione democratica del V secolo. B) LA TRADIZIONE NON DEMOCRATICA: ISOCRATE Nell’opera del retore la definizione del leader o dello stato egemone è interamente basata sull’idea di “popolarità” (axíoma è rarissimo in Isocrate; axíosis manca; sýnesis compare una sola volta); si evidenzia così una decisa rottura con la tradizione del V secolo, sviluppatasi all’interno dell’orizzonte democratico. In Isocrate appare centrale il concetto di eudokimía, che identifica la “fama”, la “popolarità”, su fondamenti di natura ora etica, ora politica e militare, e ritorna per privati cittadini, con accentuazione dell’aspetto morale, per governanti (In Call. 63; De big. 23; 36; Busir. 28; Nic. 37; Antid. 220; 278; Phil. 6 123; Panath. 78) e per comunità (In Call. 31; Paneg. 59; 108; Plat. 53; Arch. 42; De pac. 19; 77; 135; Areop. 17; Panath. 61). Un ruolo importante riveste il dato di tradizione, per cui buona fama e popolarità trovano spesso il loro fondamento nelle benemerenze degli antenati (Nic. 30; Paneg. 76; 83; 99; De pac. 47; Panath. 152; 167; 188). Tale eudokimía genera eúnoia (cfr. Ad Dem. 36), “benevolenza, buona disposizione d’animo”, ed è appunto l’eúnoia ad offrire al singolo quella leadership politica che in Tucidide gli era garantita dalla oggettiva superiorità delle sue qualità, e alla città quell’impero che nel secolo precedente le era garantito dall’esercizio pragmatico della potenza. In Thuc. III, 37, 2 Cleone afferma che la supremazia ateniese sugli alleati è fondata “sulla forza piuttosto che sull’eúnoia”; diversamente, per Isocrate è la fama, comunque ottenuta, e non il valore oggettivo a generare, per consenso della pubblica opinione (o di una parte più o meno qualificata di essa), il riconoscimento all’egemonia. In questa tradizione, che fa capo al relativismo sofistico (una significativa teorizzazione del valore dell’eudokimía si trova in Prodico di Ceo, cfr. T 13 Untersteiner), l’autorevolezza basata sulla valutazione oggettiva di capacità intellettuali ed etico-politiche viene sostituita da un’autorevolezza legata primariamente alla doxa (spesso sovrapposta ad eudokimía e collegata con dýnamis: cfr. Evag. 64, Panath. 256), cioè alla capacità di coagulare un consenso sulle basi più diverse: per esempio, per il singolo individuo, l’apprezzamento per l’elevato stile di vita (Ad Nic. 19; 22) o per le qualità morali private (Ad Dem. 12; 17; 21; Hel. 21; 54; Ad Nic. 36; Panath. 87), che non entrava in gioco in ambito tucidideo per la prevalenza dell’aspetto pubblico, strettamente politico. Con ciò, nel concetto di autorevolezza viene introdotto un elemento di ambiguità, giacché lo strumento per coagulare il consenso è in prima istanza quello della propaganda, sostanzialmente indifferente sul piano dei valori oggettivi (e infatti in qualche caso l’eudokimía è fondata su basi ambigue come la menzogna, Antid. 18, e l’adulazione, Panath. 237). Un’autorevolezza che non si impone da sé sulla base del merito, che non suscita un riconoscimento spontaneo di effettivi valori va infatti costruita a livello propagandistico: non casualmente, il problema di come ottenere e mantenere il consenso occupa nel pensiero politico del IV secolo un ruolo centrale. Significativamente, Demostene sembra assumere una posizione apertamente polemica nei confronti di questo atteggiamento. Eudokimía, eudokimeîn hanno in Demostene, come già in Lisia (XXV, 24), un valore ambiguo, non necessariamente positivo, giacché identificano sì la “popolarità”, il “successo”, ma sovente il successo in quanto fine a se stesso, ed ottenuto talvolta in forme eticamente inaccettabili: attraverso l’ipercriticismo non costruttivo (V, 2), l’adulazione (XIII, 1), la menzogna (XIX, 23), la corruzione (Phil. IV, 54). Tale eudokimía finisce per costituire un danno per la comunità (XIX, 340, a proposito di Eschine) e per separare il successo del singolo dalla ricerca del bene comune: addirittura Demostene prospetta la possibilità (XVIII, 198, sempre a proposito di Eschine) che sia possibile eudokimeîn attraverso lo sfruttamento delle sventure della Grecia (tà tôn Hellénôn atychémata). Ad una aperta ripresa della tradizione democratica del V corrisponde dunque, in Demostene, una netta presa di distanza dai parametri contemporanei, che privilegiavano la ricerca del consenso attraverso la propaganda rispetto alla valutazione positiva, fondata su criteri oggettivi, dell’opinione pubblica democratica. L’attualità della questione è confermata dall’atteggiamento di Eschine, che su questo punto appare in costante polemica con Demostene e gli rinfaccia a sua volta di perseguire, con mezzi spregiudicati e incompatibili con un sincero orientamento democratico, una popolarità effimera, priva di reale fondamento oggettivo, per assicurarsi una immeritata leadership (II, 72; 105; III, 237 per axíoma; III, 220 per axíosis; II, 130; III, 81 per eudokimeîn). C) UNA PROSPETTIVA ORIGINALE : SENOFONTE In Senofonte la terminologia tucididea è rara: axíoma si trova di rado e indica la preminenza politica riconosciuta o la considerazione in forma generica, mentre axíosis manca; xýnesis, xynetós indicano l’intelligenza in senso generico. Ma anche i termini chiave di Isocrate, come eudokimía, ritornano con valore generico e senza la rilevanza loro accordata dal polemista moderato. Nei Memorabili ci troviamo invece di fronte ad una impostazione originale, che trae ispirazione dall’insegnamento di Socrate. Eudokimía, eudokimeîn e le loro conseguenze in termini di autorevolezza 7 politica presuppongono un valore oggettivo, identificato non tanto nelle personali qualità, come era stato nel secolo precedente, quanto nella corretta conoscenza. In Mem. III, 6, 17-18 e IV, 1, 5 meritano di aver buona fama (eudokimeîn) e di essere ammirati (thaumázesthai) coloro la cui autorevolezza riposa sulla conoscenza vera (episteme); d’altra parte la capacità di agire politicamente (prattein) non può essere indifferente sul piano dei valori ma deve coincidere con l’“agire correttamente” (prattein tà díkaia oppure tà béltista) e quindi deve necessariamente procedere dal possesso dell’episteme (Mem. I, 2, 3; III, 9, 5; IV, 5, 3). In Senofonte è dunque presente, nella prospettiva contemporanea, l’apprezzamento per i temi della popolarità e del consenso: tuttavia egli, non volendo rinunciare a punti di riferimento oggettivi, propone la retta conoscenza dell’insegnamento socratico in alternativa alle abilità e alle virtù che definivano il leader nel secolo precedente. Tucidide aveva proposto l’eudokimeîn come risultato della specifica competenza di ciascuno in un determinato ambito (II, 37, 1), Senofonte ne fa la conseguenza di una più generale capacità di intervento in campo politico, fondata sulla conoscenza del bene e del vero. A di là della diversa impostazione, entrambi gli autori mostrano un’insistenza sui contenuti che non si ritrova in Isocrate, attento soprattutto al livello più superficiale del successo di facciata. Senofonte rivela dunque, sul tema dell’autorevolezza, una posizione originale, che coniuga le esigenze di oggettività che la prospettiva tucididea aveva contribuito a mantenere vive con la nuova sensibilità del IV secolo alle esigenze della propaganda4. Accomuna tutti gli autori ora considerati, Da Demostene a Isocrate a Senofonte, l’interesse per le espressioni che indicano il potere (mega dýnamai, polý ischyo): tali espressioni identificano talora fattori di fama e di rinomanza (soprattutto per le collettività), talaltra la capacità, per il singolo, di esercitare una fattiva influenza, si tratti di un individuo o dell’opinione pubblica nel suo complesso. Anche in questo caso però, come per Tucidide, tali espressioni non sembrano avere attinenza con il tema dell’autorevolezza politica, che pare basarsi preferibilmente su elementi di tipo intellettuale od eticopolitico. Per concludere, il passaggio dal V al IV secolo, e quindi dall’ambito ristretto della polis democratica a prospettive diverse sul piano istituzionale e, soprattutto, assai più ampie dal punto di vista dell’orizzonte geopolitico, evidenzia nella caratterizzazione della leadership un netto cambiamento di prospettiva per quanto riguarda la valutazione delle qualità di natura etico-politica necessarie al raggiungimento dell’autorevolezza politica. Tale cambiamento si identifica in un passaggio dal livello dell’“essere” a quello dell’“apparire”, cioè dalla prevalenza di una oggettività di valori che genera un unanime riconoscimento alla ricerca di una popolarità basata sul consenso a non necessariamente corrispondente a valori effettivi. Contemporaneamente l’opinione pubblica, da soggetto di valutazione (quale risulta nel rapporto che Tucidide propone tra essa e il leader, soprattutto nell’ambito della democrazia periclea), si trasforma in oggetto di propaganda, esposto a manipolazioni e condizionamenti di diversa natura. Il demos, da depositario della sovranità, diventa così strumento di potere: un potere che, da condiviso, si avvia a diventare progressivamente potere personale e, in prospettiva, assoluto, ancorché giustificato dalle qualità straordinarie del leader e dal consenso che lo circonda. Cinzia Bearzot Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Cfr. M. Isnardi Parente, Techne ed episteme della classe dirigente nel pensiero politico del IV secolo, in Rivista Storica Italiana LXXIII (1961), pp. 5-35; A. Squilloni, Il profilo del capo politico nel pensiero politico del IV secolo: lo speculum principis, in Il Pensiero politico XXIII (1990), pp. 201-218; C. Bearzot, Il vocabolario dell’autorevolezza politica nella Grecia del IV secolo, in Acta Classica Debreceniensia XXII (1996), pp. 23-38. 4 8