Utilizzo di animali invertebrati per lo studio delle

ARGOMENTO
Utilizzo di animali invertebrati
per lo studio delle malattie umane
Gianfranco Bazzoni
Unità di Adesione Cellulare
Dipartimento di Immunologia
e Biologia Cellulare, IRFMN Milano
[email protected]
ABSTRACT.
Use of invertebrates to study human diseases
In recent decades, our knowledge on some simple organisms (such as the
yeast Saccharomyces cerevisiae, the fruitfly Drosophila melanogaster,
and the nematode worm Caenorhabditis elegans), used as models for
studying fundamental biological mechanisms conserved throughout
evolution, has broadened. The surprising conservation of these mechanisms
allows for the use of these organisms to obtain important information on
signaling pathways that are altered in some human diseases. This review
describes the advantages of model organisms in biomedical research,
especially those of the nematode. As an example of the usefulness of these
studies, the results obtained in the study of the ageing process are
summarised.
R&P 2004; 20-30
Key words. Caenorhabditis elegans | Drosophila | post-genomics |
mutagenesis | ageing.
RIASSUNTO.
Negli ultimi decenni, si sono estese ed approfondite le conoscenze su alcuni
semplici organismi (come il lievito Saccharomyces cerevisiae, il moscerino
della frutta Drosophila melanogaster ed il verme nematode Caenorhabditis
elegans) che si utilizzano come modelli per lo studio dei meccanismi
biologici di base conservati nel corso dell’evoluzione. La sorprendente
conservazione di questi meccanismi consente anche di utilizzare questi
organismi per ottenere importanti informazioni per lo studio di vie di
segnalazione che sono alterate in alcune patologie umane. In questo
articolo, si descrivono i vantaggi derivanti dall’uso degli organismi modello
per la ricerca biomedica, con particolare enfasi sulle caratteristiche del
nematode. Come esempio dell’utilità di questi studi, si espongono i risultati
ottenuti nello studio dei processi di invecchiamento.
Parole chiave. Caenorhabditis elegans | Drosophila | post-genomica |
mutagenesi | ontogenesi.
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G. Bazzoni: Utilizzo di animali invertebrati per lo studio delle malattie umane
INTRODUZIONE
Le patologie umane nell’era post-genomica
Da poco più di due anni, lo studio delle malattie umane è entrato nell’era post-genomica. Come riportato dai mezzi di comunicazione, nel 2001
è stato completato il sequenziamento del genoma umano1,2. Si sta così avviando a conclusione la fase genomica (che studia i singoli componenti del
patrimonio genico) ed è iniziata la fase post-genomica (che studia la funzione e le interazioni reciproche di questi stessi componenti). Una delle
opportunità più importanti di questi anni consiste nella possibilità di comprendere le basi genetiche delle malattie e di identificare i geni (e i corrispondenti prodotti genici, cioè le proteine) che possono essere causa o
concausa di malattia. Ad oggi, la banca dati OMIM (Online Mendelian
Inheritance in Man, www.ncbi.nlm.nih.gov/OMIM/) elenca più di un migliaio di geni associati a malattie monogeniche. Inoltre, è prevedibile che
altri studi avranno come oggetto i geni associati a malattie poligeniche, le
più comuni patologie umane.
Nell’attuale fase
post-genomica,
vi è la possibilità
di comprendere le basi
genetiche delle malattie.
Era post-genomica e organismi modello per lo studio delle patologie
Quando si scopre l’associazione fra un gene e una malattia, non è sempre possibile comprendere fin dall’inizio come mutazioni del gene possano causare le manifestazioni cliniche della malattia. Talvolta, la funzione
di nuovi geni associati ad una data malattia è addirittura ignota. In questi
casi, la biologia cellulare dispone di metodi sperimentali per definire la
funzione dei nuovi geni e delle nuove proteine. Uno dei primi approcci
consiste nello studio della distribuzione della proteina nei tessuti e all’interno delle cellule. In un secondo momento, si passa ad analizzare la conseguenza dell’espressione della proteina (in cellule in coltura) e dell’inattivazione del gene (nell’animale da laboratorio). Per quanto validi come
punto di partenza, questi approcci sperimentali presentano alcune limitazioni. In particolare, essi non permettono di definire la funzione di una
proteina nel contesto delle sue interazioni con altre proteine e nell’ambito delle diverse vie di segnalazione. È proprio l’utilizzo di semplici organismi modello che, avvalendosi delle versatili tecniche della genetica, può
complementare l’analisi iniziata dalla biologia cellulare. Inoltre, come descritto in seguito, l’utilizzo di questi organismi permette screening su ampia scala di centinaia (se non migliaia) di organismi mutanti e di composti chimici.
Quali organismi modello si utilizzano?
Gli organismi modello comunemente utilizzati nella ricerca biomedica
sono eucarioti molto diversi fra loro, sia unicellulari (il lievito Saccharomyces cerevisiae) sia multicellulari. Tra questi ultimi, vi sono sia invertebrati (il moscerino della frutta Drosophila melanogaster e il verme nematode Caenorhabditis elegans) sia vertebrati (il pesce Danio rerio e il topo Mus
musculus). In anni recenti, tre premi Nobel per la fisiologia e la medicina
sono stati conferiti per ricerche su Drosophila (nel 1995), S. cerevisiae (nel
2001), e C. elegans (nel 2002), a conferma dell’importanza di questi studi
per la medicina moderna. In questo articolo, mi limiterò agli organismi
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Le ricerche
di ben tre premi
Nobel su Drosophila
e S. cerevisiae
confermano
l’importanza di questi
studi per la medicina
moderna.
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pluricellulari ed invertebrati, enfatizzando il ruolo di C. elegans. Questo nematode è stato il primo organismo pluricellulare il cui genoma è stato sequenziato completamente nel 19983, seguito, due anni più tardi, dalla
Drosophila4. L’analisi del genoma di questi due organismi ha un grande significato culturale, perché ha messo in luce alcuni dati del tutto inattesi. In
primo luogo, l’apparente semplicità di questi organismi potrebbe far supporre che il numero di proteine che li costituiscono sia limitato. Tuttavia,
il numero di geni presenti nel loro genoma è assai elevato. Ad esempio, ci
sono ben 6241 geni in S. cerevisiae, 13.601 in Drosophila, e 18.424 in C. elegans. Per avere un’idea della grandezza relativa di queste cifre, si pensi che
il genoma di un essere molto più complesso come Homo sapiens potrebbe
comprendere circa 40.000 geni (anche se si tratta solo di una stima provvisoria). Questi numeri rappresentano il cosiddetto nucleo proteomico, cioè
tutte le proteine che si possono predire sulla base delle sequenze codificanti di DNA (senza contare tutte le altre proteine che si possono formare
per modificazioni post-translazionali e per alternative splicing del nucleo
proteomico). In secondo luogo, l’enorme distanza evoluzionistica fra questi invertebrati e l’uomo (misurabile in centinaia di milioni di anni) e le
evidenti diversità anatomiche sembrerebbero precludere l’utilizzo di questi
invertebrati per lo studio delle patologie umane. Tuttavia, proprio l’analisi
del genoma di C. elegans e di Drosophila ha messo in luce che un’alta percentuale (più del 65%) di geni associati a patologie umane (come risulta
dalla banca dati OMIM) ha un ortologo, cioè un gene omologo in C. elegans5 o in Drosophila6.
L’analisi del genoma
di C. elegans
e di Drosophila ha
rivelato che un alto
numero di geni associati
a patologie umane
ha un ortologo
(cioè un gene omologo).
Quale organismo modello è preferibile?
Quando si desidera utilizzare un organismo modello, si pone il problema della scelta dell’organismo stesso. Il criterio principale per affrontare
questa scelta (oltre all’esperienza di ogni laboratorio di genetica per lo studio di un particolare organismo) dipende dal problema biologico in esame. Se si vuole definire la funzione di un nuovo gene, il criterio principale
è la presenza di un ortologo per il gene in esame nel genoma di un dato organismo. Se si vuole invece caratterizzare quali geni sono coinvolti in una
data funzione, il criterio principale è l’utilità di un particolare organismo
per lo studio della funzione in esame. Come esempi storici, si può ricordare che S. cereviasiae si è dimostrato particolarmente adatto per lo studio del
ciclo cellulare e dei meccanismi di riparazione del DNA. L’embrione di
Drosophila ha dato contributi fondamentali per la comprensione dei meccanismi di segmentazione del piano corporeo. Il C. elegans ha consentito la
definizione dei meccanismi di apoptosi, o morte cellulare programmata,
nel corso dello sviluppo. Infine, D. rerio è stato molto utile per lo studio
dell’organogenesi, ed in particolare del sistema cardio-circolatorio.
Ogni organismo può
consentire la definizione
e la comprensione
di specifici meccanismi
anche nell’uomo.
Perché si studiano gli invertebrati come organismi modello?
Esistono due maggiori premesse per l’utilizzo degli invertebrati come
modello genetico. In primo luogo, la maggior parte dei meccanismi biologici di base è conservata nel corso dell’evoluzione e tali meccanismi sono dunque simili anche fra specie animali molto distanti nella scala evoR&P 2 0 0 4 ; 2 0 : 2 0 - 3 0
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luzionistica. In secondo luogo, gli organismi modello sono particolarmente adatti all’analisi genetica per una serie di vantaggi sperimentali.
Innanzitutto, la vita media e il tempo di generazione sono brevi. Inoltre, è
relativamente semplice introdurre mutazioni nei geni e analizzarne le conseguenze sul fenotipo dell’animale e della sua progenie. È anche agevole
analizzare le conseguenze dell’espressione di geni (in animali transgenici)
e delle interazioni fra geni (mediante analisi epistatica). Infine, come accennato, sono oggi disponibili sia banche dati contenenti le sequenze dell’intero genoma sia strumenti bioinformatici, che permettono il confronto
fra i milioni di sequenze depositate in queste banche dati.
Come si studiano gli organismi modello?
In linea generale, negli organismi modello, si possono condurre due tipi di analisi genetica, che sono definiti reverse e forward genetics. Come descritto prima a proposito della scelta del tipo di organismo, anche la scelta
del tipo di analisi dipende dalla domanda biologica iniziale. L’approccio
della reverse genetics si utilizza quando si vuole conoscere la funzione di un
gene. L’approccio consiste nell’eliminare il gene in esame e quindi nell’osservare le conseguenze funzionali dell’assenza del gene sul fenotipo dell’animale. È possibile eliminare sia il gene stesso a livello di DNA (facendone
un “knock out” mediante ricombinazione omologa) sia il suo RNA messaggero (mediante short interference RNA).
L’approccio della forward genetics si utilizza invece quando si vuole identificare quali geni sono coinvolti in una data funzione. L’approccio consiste nell’introdurre mutazioni a caso nel genoma dell’animale (spesso utilizzando mutageni chimici). In seguito, si selezionano i rari mutanti (fra la
progenie dell’animale mutagenizzato) che presentano difetti nella funzione in esame. Infine, si identificano quali geni sono stati mutati (mediante
positional cloning). In altri termini, la reverse genetics consente di attribuire
una nuova funzione ad un gene conosciuto, mentre la forward genetics permette di identificare nuovi geni che mediano una funzione conosciuta.
Un ulteriore vantaggio degli studi genetici negli invertebrati consiste nella possibilità di condurre screening su larga scala, che danno importanti informazioni complementari. Gli screening di modificazione del fenotipo
(suppressor o enhancer screens) rivestono un ruolo centrale nell’identificazione di interazioni funzionali fra diversi geni (o tra le proteine codificate
da questi geni). In questi studi, gli animali mutati (che sono stati prodotti
in studi di tipo sia reverse sia forward) sono sottoposti ad un’ulteriore fase
di mutagenesi. Lo scopo di questo ulteriore screening consiste nell’identificare mutazioni secondarie che sopprimono (nei suppressor screens) o aumentano (negli enhancer screens) il fenotipo che è stato indotto dalla prima mutazione. Di norma, le mutazioni secondarie modificano proteine
che interagiscono funzionalmente con la proteina modificata dalla prima
mutazione. Spesso, tutte queste proteine sono infatti componenti della
stessa via di segnalazione. Infine, una volta identificate (con lo screening di
modificazione) le diverse proteine della stessa via di segnalazione, è possibile stabilire l’ordine delle stesse nella via di segnalazione facendo ricorso
alle regole dell’analisi epistatica. Quest’ultima consiste nello studio delle
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Un ulteriore vantaggio
degli studi genetici
negli invertebrati
consiste nella possibilità
di condurre screening
su larga scala.
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interazioni fra geni diversi. Si ha epistasi quando un allele in un gene maschera l’espressione degli alleli di un altro gene.
Oltre agli screening di modificazione del fenotipo, si fa sempre più frequente uso di altri tipi di screening. Ad esempio, si può incubare un animale mutante (ottenuto mediante forward o reverse genetics) in presenza di
una libreria di composti chimici. In questo modo, si possono identificare
molecole in grado di abolire il fenotipo indotto dalla mutazione. Talvolta,
questi composti possono rappresentare molecole a potenziale attività farmacologica per patologie umane riconducibili ad alterazioni della stessa
via di segnalazione.
Per esplicitare l’approccio sperimentale e il ruolo degli organismi modello verrà descritto l’utilizzo del C. elegans (organismo pluricellulare e invertebrato) nello studio dell’invecchiamento. La scelta di focalizzarsi sul
nematode (rispetto ad altri organismi) nello studio dell’invecchiamento
(rispetto ad altri campi di studio) è arbitraria, poiché gli organismi modello possono essere utilizzati in numerosi studi di fisiologia e patologia.
Tuttavia, questi studi esemplificano non solo l’importanza del nematode
come modello sperimentale, ma anche il grado di conservazione di molte
funzioni biologiche nel corso dell’evoluzione. Inoltre, l’identificazione di
mutanti molto longevi di C. elegans illustra l’utilità degli screening di forward genetics nella ricerca biomedica.
IL NEMATODE CAENORHABDITIS ELEGANS
Introduzione
C. elegans è un verme non parassita del gruppo dei nematelminti che vive nel suolo. Ad occhio nudo è a malapena visibile, essendo trasparente; è
lungo circa un millimetro e largo poco meno di un decimo di millimetro.
Una popolazione di C. elegans comprende ermafroditi che, producendo sia
spermatozoi che uova, si riproducono per autofecondazione.
Occasionalmente, sono presenti anche maschi (che producono solo spermatozoi). L’anatomia del nematode è molto semplice, ma comprende, nella sua architettura generale, strutture comuni alle specie animali superiori.
Il corpo infatti è allungato e ha simmetria bilaterale. Inoltre, il nematode possiede tessuti simili a quelli dei vertebrati (cute, muscoli, nervi e intestino) che a loro volta presentano simili regole organizzative (con sistema
nervoso centrale e apertura orale all’estremità anteriore, e orifizio anale all’estremità posteriore). All’esterno, il corpo è ricoperto da ipoderma (un
tessuto simile alla cute) e da una parete muscolare. All’interno, si trova un
tubo di cellule endodermiche (la faringe e l’intestino) e un altro condotto
(la gonade per la produzione e maturazione dei gameti).
Un altro aspetto degno di nota è l’invarianza cellulare. Nell’ermafrodita
adulto di C. elegans, si possono contare sempre 959 cellule somatiche. Di
queste, 302 cellule sono neuroni. Non solo il numero delle cellule è fisso,
ma anche la loro derivazione embrionale è invariabile. Questa proprietà ha
permesso di delineare in modo completo sia le linee di derivazione di tutte le cellule somatiche sia le connessioni dei neuroni nel sistema nervoso
centrale. La mappa delle connessioni nervose è stata designata, in modo assai suggestivo, come mind of the worm.
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L’anatomia
del nematode è molto
semplice, ma comprende
in sé strutture comuni
alle specie animali
superiori.
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Vantaggi sperimentali dell’uso del Caenorhabditis elegans
L’utilizzo del C. elegans risale a più di quaranta anni fa, quando Sydney
Brenner propose il nematode come modello sperimentale per analizzare i
principi dello sviluppo animale e della funzione del sistema nervoso centrale. La scelta di Brenner fu dettata da una serie di indubbi vantaggi sperimentali. Innanzitutto, è abbastanza semplice utilizzare in laboratorio il C.
elegans, poiché esso cresce su piastre di agar e si nutre di un ceppo non patogeno di batteri (Escherichia coli). Inoltre, il ciclo riproduttivo è rapido. In
condizioni di laboratorio, trascorrono solo poco più di tre giorni dalla
schiusa delle uova alla maturazione dell’adulto che, a sua volta, comincia a
deporre uova, chiudendo così il ciclo riproduttivo. Inoltre, come accennato, la popolazione è composta quasi esclusivamente da ermafroditi che, riproducendosi per autofecondazione, non devono essere incrociati con i
maschi. Infine, ogni ermafrodita può generare un ampio numero di individui (circa trecento) nella sua vita riproduttiva.
Accanto a questi vantaggi, nel corso degli anni si sono evidenziate altre
caratteristiche che rendono conveniente l’uso del C. elegans. Primo, dopo
anni di intensi studi, si ha oggi a disposizione una dettagliata mappa genica (che riporta la disposizione dei geni lungo i sei cromosomi) e una completa mappa fisica (che riporta la sequenza dei cromosomi). Queste mappe
sono indispensabili per identificare i nuovi geni che emergono nel corso
degli screening. Secondo, come accennato, sono disponibili anche la mappa della derivazione delle cellule somatiche ed il diagramma delle connessioni neuronali. Terzo, il nematode si presta agevolemente a screening di
forward genetics (per scoprire nuovi geni e nuove vie di segnalazione) e a
studi su ampia scala di reverse genetics (per inibire molti geni in parallelo).
Fu Sydney Brenner
a proporre, più di 40
anni fa, il nematode
come modello
sperimentale
per analizzare i principi
dello sviluppo animale
e della funzione
del SNC.
LA GENETICA DELL’INVECCHIAMENTO NEL CAENORHABDITIS ELEGANS
Introduzione
Con il termine invecchiamento si fa riferimento a modificazioni delle
cellule somatiche, le quali, con il progredire dell’età, si riducono nel numero e degenerano nella funzione. È evidente che (oltre al desiderio della
fonte di eterna giovinezza che l’immaginazione umana rincorre da secoli)
vi sia grande interesse nel comprendere i meccanismi di base dell’invecchiamento, a livello di geni e di molecole. In questo settore della ricerca, gli
organismo modello (in particolare, C. elegans e S. cerevisiae) hanno dato
contributi fondamentali. L’idea generale alla base di queste ricerche consiste nell’identificare geni e vie di segnalazione che possono regolare la velocità dell’invecchiamento. L’approccio genetico consiste nell’isolare rare mutazioni che prolungano la sopravvivenza degli animali mutanti e quindi
nell’identificare i geni che, in condizioni normali (in assenza cioè di mutazioni), regolano la velocità dell’invecchiamento. L’uso di invertebrati come
C. elegans si basa sull’evidenza che, pur estrinsecandosi con modalità diverse nelle singole specie, l’invecchiamento è un processo comune a tutti i
viventi. È quindi verosimile che alla base di questo processo vi siano meccanismi molecolari conservati nel corso dell’evoluzione. In effetti, gli studi
condotti in invertebrati hanno convalidato questa assunzione di base.
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Gli studi condotti
in invertebrati hanno
confermato che alla
base del processo
dell’invecchiamento
vi sono meccanismi
molecolari conservati
nel corso dell’evoluzione.
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L’invecchiamento è un processo regolabile e trasmissibile?
Lo studio dei fattori genetici dell’invecchiamento pone però problemi
concettuali che sono peculiari di questo processo biologico. Primo, fino a
tempi recenti, non si aveva alcuna indicazione oggettiva che l’invecchiamento fosse un processo regolabile. Secondo, è noto che la selezione naturale favorisce le mutazioni genetiche che possono essere trasmesse alla progenie. Per essere trasmissibili, le mutazioni devono estrinsecare il loro effetto positivo prima del termine della fase riproduttiva della vita. Poiché
eventuali mutazioni in grado di prevenire l’invecchiamento si estrinsecherebbero nella fase post-riproduttiva della vita, esse non potrebbero essere
scelte dalla selezione naturale. Terzo, l’invecchiamento si associa ad aumentata prevalenza di malattie (quali cancro, aterosclerosi e malattie neurodegenerative) fra loro diverse per meccanismi patogenetici. Dovrebbero
dunque esistere tanti meccanismi di invecchiamento quante sono le malattie associate all’invecchiamento.
In altri termini, l’invecchiamento sembra essere un processo non regolabile, non trasmissibile e multifattoriale. La motivazione per studiare i fattori genetici dell’invecchiamento risulterebbe quindi compromessa.
Eppure, gli studi condotti negli organismi modello hanno indicato che l’invecchiamento è un processo regolabile da un limitato numero di fattori genetici che, a loro volta, controllano un limitato numero di funzioni. In particolare, questi studi hanno identificato geni che, regolando il processo dell’invecchiamento, determinano la sopravvivenza media di una specie.
Inoltre, l’osservazione che mutazioni nello stesso gene hanno effetti simili
in specie fra loro diverse (come lieviti e nematodi) suggerisce che gli stessi
meccanismi possono controllare l’invecchiamento di organismi superiori
(compreso l’uomo). Per una trattazione più approfondita dell’argomento,
si rimanda ad articoli specifici7,8.
L’osservazione
che mutazioni
nello stesso gene hanno
effetti simili in specie
fra loro diverse
suggerisce che gli stessi
meccanismi possono
controllare
l’invecchiamento
di organismi superiori.
Restrizione calorica e invecchiamento
Una delle prime indicazioni che l’invecchiamento è un processo regolabile venne da studi sulla restrizione calorica. Per restrizione calorica, si fa
riferimento ad una dieta nella quale (pur essendo presenti tutti i componenti essenziali) le calorie sono ridotte del 30-40% rispetto ad un’alimentazione ad libitum. La restrizione calorica aumenta l’aspettativa di vita di lieviti, nematodi e roditori. Tuttavia, il meccanismo d’azione non è stato ancora delucidato. È stato proposto che la restrizione calorica rallenta il metabolismo e quindi la produzione di radicali tossici dell’ossigeno. Come è
noto, vi è una correlazione fra danno ossidativo e invecchiamento.
Bisognerebbe però anche notare che le mutazioni geniche che allungano
l’aspettativa di vita non rallentano il metabolismo. Pertanto, per quanto
importante, il fattore metabolico non è l’unico elemento dell’invecchiamento. Inoltre, il suo effetto può essere facilmente superato da fattori genici. Quali sono dunque i geni che controllano l’aspettativa di vita?
Silencing genico e aspettativa di vita
Per quanto possa sembrare sorprendente, è sufficiente aumentare l’espressione di un solo gene per prolungare la durata media di vita. È questo
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G. Bazzoni: Utilizzo di animali invertebrati per lo studio delle malattie umane
il caso dei geni SIR (Silent Information Regulator). Essi inibiscono l’espressione di altri geni mediante il processo di silencing, che consiste nella deacetilazione di proteine basiche associate ai cromosomi, gli istoni. Mediante
silencing, intere regioni dei cromosomi sono rese inattive e non trascrivibili (e non è quindi possibile convertire l’informazione contenuta nel DNA
in molecole di RNA messaggero). Studi in lieviti e nematodi indicano che
dosi elevate di SIR2 (nel lievito) o di sir-2.1 (l’omologo di SIR2 nel nematode) prolungano l’aspettativa di vita, suggerendo che SIR2 sono tra i geni
che regolano l’invecchiamento di una specie.
Oltre a questo dato inatteso, un altro aspetto sorprendente è che l’espressione del gene SIR2 ha un effetto simile in due specie così diverse.
Infatti, anche se le proteine SIR2 svolgono la stessa attività enzimatica (la
deacetilazione degli istoni) sia nel lievito che nel nematode, vi sono comunque importanti differenze. In primo luogo, l’invecchiamento di un lievito e di un nematode sono due processi concettualmente diversi. Infatti,
l’età di un lievito (che è un organismo unicellulare) è il numero di cellule
figlie prodotte per gemmazione da una cellula madre. Al contrario, l’età di
un nematode (che è un organismo pluricellulare) è il numero di giorni durante i quali l’animale è vivo. In secondo luogo, i geni silenziati dalle proteine SIR2 sono diversi nei diversi organismi. Nel lievito, SIR2 reprime (tra
gli altri) geni coinvolti nell’accoppiamento. Nel nematode, sir-2.1 reprime
geni coinvolti in una via metabolica regolata dall’insulina.
Tuttavia, al di là di queste differenze, è possibile individuare un paradigma comune? Nel lievito, l’espressione di SIR2 (regolando geni dell’accoppiamento) induce produzione di spore. Nel nematode, l’espressione di
sir-2.1 (regolando la risposta all’insulina) induce la comparsa di un tipo di
larva particolarmente resistente, la dauer larva. In entrambe le specie, dunque, l’espressione di SIR2 induce la comparsa di forme specializzate (spore e duaer larve) che sono adatte alla sopravvivenza in condizioni di scarsità di nutrienti. L’evoluzione ha dunque associato un meccanismo comune
di regolazione (silencing genico) a risposte diverse (spore e larve dauer) nelle due diverse specie animali, dimostrando una notevole capacità di coniugare conservazione e flessibilità.
Inoltre, queste osservazioni suggeriscono che le proteine SIR2 possono
fungere da sensori di condizioni metaboliche. Quale può essere la base molecolare di questa funzione sensoria? Una risposta a quest’ultima domanda
proviene dall’osservazione che le proteine SIR2 richiedono il cofattore
NAD per deacetilare gli istoni. Poiché la scarsità di nutrienti, rallentando il
metabolismo, libera le riserve di NAD, le proteine SIR2 possono recepire
alterate condizioni metaboliche e tradurre, mediante silencing genico,
un’informazione ambientale (ridotta disponibilità di nutrienti) in una risposta comportamentale (comparsa di forme resistenti). Questo stesso
meccanismo potrebbe spiegare anche l’effetto della restrizione calorica sull’aspettativa di vita. In termini evoluzionistici, il meccanismo, che consente di aumentare la durata di vita in risposta alla scarsità di nutrienti, è un
meccanismo adattativo, perché consente agli animali di dilazionare la riproduzione fino a quando le condizioni ambientali divengono favorevoli.
Da ultimo, come accennato, l’effetto della restrizione calorica è stato osR&P 2 0 0 4 ; 2 0 : 2 0 - 3 0
È sufficiente aumentare
l’espressione di un solo
gene per prolungare
la durata media
di vita.
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servato anche nei mammiferi (nei roditori). Ad oggi, è noto che SIRT1 (l’omologo di SIR2 nei mammiferi) inibisce p53, che induce apoptosi in seguito a danno del DNA. Non è però escluso che la relazione fra SIRT1, metabolismo e longevità possa verificarsi anche nei mammiferi.
Danno ossidativo e invecchiamento
Una teoria molto diffusa postula che i radicali liberi dell’ossigeno sono
tra le più importanti cause di invecchiamento. I radicali sono molecole labili (anione superossido, perossido di idrogeno, radicale idrossile, e diversi composti azotati) e sono prodotti per lo più nella catena respiratoria mitocondriale. Essi sono tossici perché reagiscono con macromolecole (proteine, lipidi e acidi nucleici) inibendone la funzione. La teoria dei radicali
si basa sul legame fra danno da radicali e patogenesi di malattie associate
all’invecchiamento, quali aterosclerosi, diabete, e cancro (anche se la questione è controversa). In questo schema concettuale, parecchi studi genetici sono stati condotti in nematodi, moscerini e topi utilizzando come end
point la longevità (invece della patologia). Questi studi hanno dimostrato
che i radicali influenzano in modo diretto la longevità (indipendentemente cioè da un possibile ruolo in patologie associate all’invecchiamento).
In generale, il danno ossidativo accelera l’invecchiamento. In C. elegans,
mutazioni che aumentano la suscettibilità a questo tipo di danno (ad
esempio, mutazioni della catalasi citosolica ctl-1) riducono l’aspettativa di
vita. Al contrario, mutazioni che conferiscono aumentata resistenza prolungano la durata di vita. Inoltre, sono resistenti allo stress ossidativo alcuni mutanti di nematodi molto longevi (descritti di seguito), la Drosophila
mutata nel gene methuselah e il topo mutato nel gene p66shc. Quali sono le
principali fonti di radicali che influenzano il processo dell’invecchiamento?
La più importante fonte di radicali dell’ossigeno è rappresentata dai mitocondri. Tra i componenti dei mitocondri, il gene isp-1 nel nematode codifica un componente della catena di trasporto degli elettroni. L’evidenza
più diretta per il ruolo dei radicali di origine mitocondriale nell’invecchiamento proviene proprio dalla mutazione del gene isp-1, il quale aumenta
la vita media riducendo la produzione di radicali (mediante meccanismi
ancora non definiti). Un’ulteriore prova proviene dallo studio di mutazioni del gene daf-2. Quest’ultimo codifica un recettore di membrana di tipo
insulinico, che possiede attività di tirosina chinasi. Rispetto a nematodi
normali, i nematodi che portano una mutazione nel gene daf-2 sono più
longevi e più resistenti a stress ossidativo. Essi sono anche più resistenti ad
altre forme di stress (stress da calore, da raggi ultravioletti e da metalli pesanti), che sono dovuti (almeno in parte) alla produzione di radicali dell’ossigeno. L’aumentata resistenza dei nematodi con mutazione nel gene
daf-2 sembra essere dovuta ad aumentate attività enzimatiche che detossificano la cellula dai radicali. Quindi, la ridotta produzione di radicali (nei
mutanti isp-1) e l’aumentata attività di enzimi detossificanti (nei mutanti
daf-2) è sufficiente per aumentare in modo significativo la durata media di
vita.
Oltre ai mitocondri, i radicali sono prodotti (in minor quantità) anche
nel citoplasma e in alcuni organelli (perossisomi e reticolo endoplasmico).
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Numerosi studi genetici
sono stati condotti
in nematodi, moscerini
e topi utilizzando come
end point la longevità.
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Una riduzione nei livelli di radicali non mitocondriali sembra essere il
meccanismo mediante la mutazione nel gene clk-1 aumenta la longevità
dei nematodi. Da ultimo, l’effetto combinato di queste mutazioni è molto
elevato: animali con doppia mutazione sia nel gene daf-2 che nel gene clk1 vivono fino cinque volte più a lungo dei nematodi normali.
A conclusione di questa breve rassegna di dati sperimentali, occorre dire che è ancora prematuro estrapolare questi risultati al processo dell’invecchiamento nell’uomo. Ciononostante, l’impatto concettuale di questi
studi è di per sé notevole. L’analisi di forward genetics in invertebrati modello indica infatti che una mutazione in un singolo gene è sufficiente per
prolungare in modo significativo la durata media di vita. Inoltre, la combinazione di mutazioni in due di questi geni può avere conseguenze imprevedibili. Pertanto, alla luce di questi dati, appare evidente l’infondatezza dell’assunzione di base secondo la quale l’invecchiamento è un processo non regolabile e non trasmissibile. È quindi ben giustificato utilizzare
l’approccio genetico classico per lo studio di questo complesso fenomeno
biologico.
Nonostante il notevole
impatto concettuale
di questi studi,
è prematuro estrapolare
i risultati ottenuti
nel lievito
e nel nematode
al processo
dell’invecchiamento
umano.
Invertebrati come modello di malattie associate all’invecchiamento
Tra le malattie associate all’invecchiamento, lo studio delle patologie
neurodegenerative ha tratto un considerevole beneficio dalla genetica degli
invertebrati. Molte fra queste malattie sono dovute ad aggregazione di proteine specifiche. Ad oggi, è stato stabilito che l’aggregazione di queste proteine ha effetti tossici e che questa tossicità svolge un ruolo importante nella patogenesi. Tuttavia, bisogna ancora stabilire i meccanismi molecolari
dell’aggregazione proteica e della conseguente tossicità cellulare. Per rispondere a queste domande, l’uso degli invertebrati può complementare
altri importanti approcci sperimentali, quali la generazione di modelli di
malattia nel topo.
Molte proprietà descritte spiegano l’utilità degli invertebrati nello studio
delle basi biologiche della neurodegenerazione. Innanzitutto, è possibile
generare linee transgeniche che esprimono le proteine umane associate a
queste malattie. Inoltre, questi stessi animali transgenici possono essere
analizzati in screening di modificazione del fenotipo per identificare proteine in grado di interagire con le proteine aggreganti e di modificarne gli
effetti tossici.
Un modello transgenico della malattia di Alzheimer è stato ottenuto nel
C. elegans. Il peptide ß-amiloide Aß 1-42 umano (un componente delle
placche amiloidi extracellulari) è stato espresso in C. elegans utilizzando un
promotore muscolo-specifico. Questi nematodi presentano depositi di
amiloide nelle cellule muscolari. Inoltre, essi presentano paralisi progressiva e ridotta longevità.
Un modello transgenico della malattia di Parkinson è stato invece ottenuto in Drosophila mediante espressione pan-neuronale della proteina alfasinucleina. Questi insetti riproducono aspetti fondamentali della malattia
di Parkinson, quali insorgenza in età adulta, danno delle cellule dopaminergiche, ed aggregati citoplasmatici contenenti alfa-sinucleina. Inoltre, all’età di venti giorni, essi dimostrano evidenti difetti di movimento9.
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Un modello transgenico
della malattia
di Alzheimer
è stato ottenuto
nel C. elegans.
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ARGOMENTO
Come nota di cautela, è doveroso sottolineare che l’utilizzo di vermi e
moscerini come modelli di malattie neurodegenerative umane presenta indubbie limitazioni. Ad esempio (oltre alle palesi differenze anatomiche fra
il sistema nervoso centrale degli invertebrati e dell’uomo), un fattore patogenetico critico potrebbe essere presente solo nei mammiferi e non negli
invertebrati. Tuttavia, è evidente, anche dai pochi dati menzionati, che i
modelli transgenici di invertebrati possono riprodurre fondamentali aspetti patogenetici delle malattie degenerative umane, dimostrando che la tossicità delle proteine aggregate coinvolge processi cellulari conservati nella
scala evoluzionistica.
CONCLUSIONI
Le evidenze disponibili documentano alcuni possibili vantaggi derivanti dall’uso degli invertebrati come organismi modello nella ricerca biomedica. Quali importanti sviluppi riserverà il futuro in questo settore della ricerca? Innanzitutto, si può prevedere che saranno utilizzati anche altri organismi. In parallelo, questo tipo di analisi genetica trarrà ulteriore vantaggio da una più approfondita comprensione della fisiologia degli organismi
modello nonché dei meccanismi evoluzionistici di conservazione, convergenza, e divergenza dei geni. A questo proposito, di recente è stato completato il sequenziamento del genoma di Caenorhabditis briggsae (un nematode correlato a C. elegans), un importante contributo agli studi di genomica comparativa. Un altro sviluppo consisterà nella completa annotazione del genoma umano e nell’identificazione di altri geni associati a malattia. Tutti questi sviluppi dovrebbero facilitare ulteriormente l’utilizzo degli invertebrati nella ricerca biomedica, estendendo le conoscenze di base
sulle malattie con l’auspicio che possano contribuire anche alla ricerca di
trattamenti innovativi per le stesse.
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genome sequence of Drosophila melanogaster.
Science 2000; 287: 2185-95.
Ringraziamenti
Si ringrazia il Ministero
dell’Università e la Ricerca
(progetto RBAU01E5F5).
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