dall`economia civile francescana all`economia capitalistica moderna

annuncio pubblicitario
Oreste Bazzichi
Dall’economia civile
francescana
all’economia
capitalistica moderna
Una via all’umano e
al civile dell’economia
Prefazione di Stefano Zamagni
Armando
editore
Sommario
Prefazione di Stefano Zamagni
9
Introduzione
15
Capitolo 1: I secoli XIII-XV: un’epoca di cambiamento
socio-economico e culturale
1.1. La vita quotidiana
1.2. L’organizzazione sociale e religiosa della città
1.3. Civitas et negotia
1.4. Teorie e dottrine monetarie
1.5. La schiavitù
1.6. Idea d’Europa
1.7. Aristotelismo e pensiero socio-economico tomista
25
28
31
34
42
47
51
54
Capitolo 2: Verso la storicizzazione sociale dello
Spirito: tra Francesco d’Assisi e
Gioacchino da Fiore
2.1. Bonaventura interprete del pensiero di Gioacchino
2.2. Principio della speranza come forza storica
2.3. Recezione e attualizzazione del pensiero gioachimita
61
62
64
70
Capitolo 3: La creatività, fonte ispiratrice dell’etica
sociale ed economica francescana
76
3.1. Il paradigma francescano della libertà creativa
78
3.2. La povertà
83
Capitolo 4: Fecondità del pensiero socio-economico
e politico francescano
4.1. Lessici sociali ed economici e pensiero francescano
4.2. La politica al servizio della comunità
88
91
124
Capitolo 5: I Semina humanitatis dei pensatori
francescani
132
5.1. La tradizione socio-economica francescana:
Bernardino da Siena e Antonino da Firenze
133
5.2. Dalla teoria alla prassi: i Monti di Pietà
145
5.3. Lo spirito dell’economia di mercato nella Seconda Scolastica 151
5.4. Giusnaturalismo e contrattualismo
155
5.5. Clima della Controriforma e superamento del mercantilismo 161
5.6. Dal pensiero socio-economico francescano all’economia civile165
5.7. Jean Charles Léonard Sismonde de Sismondi:
pioniere della dottrina neo-volontaristica
195
5.8. La Scuola austriaca: l’individualismo metodologico
197
Capitolo 6: Modello socio-economico francescano:
il teorema del Samaritano
201
Considerazioni conclusive
208
Bibliografia
215
Indice dei nomi
220
“Dio ha ordinato l’uomo alla società civile. Nel piano del
Creatore la società è un mezzo naturale, di cui l’uomo può e
deve servirsi per il raggiungimento del suo fine, essendo la società umana per l’uomo, e non viceversa”.
(Pio XI, Divini Redemptoris, 19 marzo 1937)
Prefazione
Stefano Zamagni
Il saggio di Oreste Bazzichi che ora viene presentato al lettore italiano
è alquanto singolare nel panorama scientifico contemporaneo. Si tratta di
un lavoro di frontiera – mephòrios si sarebbe detto nella Grecia antica – tra
economia, storia, filosofia, teologia. È questo un esempio di esibizionismo
culturale? Tutt’altro. Ciò corrisponde ad una precisa scelta metodologica:
Bazzichi sa bene che il discorso economico è una struttura aperta in un
duplice senso. Per un verso, il suo fondamento non le appartiene, e dunque
i suoi presupposti non sono scientificamente giustificabili, mentre lo sono
ovviamente le sue conclusioni. È per questo che nessuna teoria economica potrà mai avanzare la pretesa di essere incondizionata e auto-garantita.
Per l’altro verso, l’economia è una scienza aperta nel senso che non offre
una conoscenza esaustiva della realtà di cui si occupa e pertanto non può
non intrattenere stretti e buoni rapporti di vicinato con le altre discipline
ad essa contigue. Purtroppo, la via del riduzionismo imboccata dal mainstream economico, a partire dal secolo scorso, ha finito con il disarmare il
pensiero critico, con i risultati che questo libro non manca di porre in luce.
Il grande tema attorno al quale è costruito il lavoro di Bazzichi è bene
reso dal sottotitolo del volume: Una via all’umano e al civile dell’economia. Il punto di attacco dell’analisi dell’A. è l’irrompere, al tempo nell’Umanesimo civile, di quell’evento di portata epocale che è stato la nascita
dell’economia di mercato, intesa propriamente come specifico modello di
ordine sociale e non già semplicemente come marketplace (piazza del mercato), cioè come luogo fisico in cui avvengono gli scambi – un luogo che
esisteva già nell’antichità. Dalla fine del XII secolo prese avvio – come
sappiamo – un processo di profonda trasformazione della società e dell’economia europea che durò fino alla metà del XVI secolo. Iniziò in Italia,
in Umbria e Toscana, ma già sul finire del XIII secolo quel processo si era
esteso anche ad altre regioni, nelle Fiandre, nella Germania settentrionale,
nella Francia meridionale. È questo il periodo in cui il grande risveglio
9
mercantile dei secoli precedenti, a sua volta collegato all’invenzione di
nuovi modelli di macchine capaci di aumentare grandemente la produttività, giunge a piena maturità. Il nuovo modello di ordine sociale che andò
a formarsi è noto come “civiltà cittadina”, un modello che deve molto
all’elaborazione teorica di quelli che Garin e Pocock hanno chiamato gli
umanisti civili. Si tratta di personaggi tra loro diversi, per estrazione e per
formazione, ma tutti accumunati dal desiderio di interpretare le res novae
del loro tempo alla luce del pensiero del passato. Fu la cultura monastica
la matrice dalla quale scaturì il primo lessico economico che si sarebbe
dissufo in tutta l’Europa del Basso Medioevo. Le abbazie furono le prime
strutture economiche complesse, dalle quali emerse la necessità di elaborare forme adeguate di contabilità e di gestione. Il movimento cistercense,
in particolare, sotto l’impulso di Bernardo di Clairvaux, ebbe un enorme
successo nella competizione con l’abbazia “rivale” di Cluny in Borgogna
fino a sopravanzarla.
Abbandonata l’abbazia di Molesne per fondare a Citeaux nel 1098 un
nuovo monastero, nel quale realizzare forme di vita maggiormente in linea con il carisma benedettino, i cistercensi si trovarono sin da subito a
dover affrontare due questioni di natura economica. La prima di queste
riguardava l’atteggiamento da tenere nei confronti del lavoro. Mentre per
i clunyacensi la sussistenza doveva essere assicurata dal lavoro delle persone ad essi sottoposte, i cistercensi sostenevano che era illecito vivere
del frutto del lavoro altrui. Donde il rifiuto sia di ogni forma di rendita sia
delle decime – le due principali fonti di entrata dei benedettini di Cluny.
La seconda questione concerneva il regime di proprietà. Mentre la regola
di Benedetto affidava all’abate il possesso di tutti i beni (individuali e collettivi) con i quali questi doveva provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutavano ogni possesso, anche quello di chiese e altari. La Carta
Caritatis, uno dei testi più antichi dell’Ordine e considerata la costituzione
cistercense fondamentale – il testo finale risale al 1147 – è su tale punto di
una fermezza irremovibile. Quale la conseguenza, certamente non voluta,
né prevista, di tale duplice atteggiamento? Che lo stile di vita dei cistercensi, ben lontano dal lusso dei clunyacensi e improntato a rigore e povertà
estrema, finì con l’attirare l’attenzione della gente che, persuasa del buon
uso che delle proprie liberalità si sarebbe fatto, inondò di donazioni i loro
monasteri. Come documenta L. Milis1, nel giro di pochi decenni, i seguaci
di Bernardo si trovarono prigionieri della contraddizione che caratterizzava la loro stessa spiritualità: vita sobria (e quindi bassi consumi) e lavoro
altamente produttivo – il sovrappiù agricolo che riuscivano ad ottenere era
1
10
Cfr. L. MILIS, Monaci e popolo nell’Europa medievale, Einaudi, Torino 2003.
superiore a quello realizzato nelle imprese tradizionali – avevano creato
“l’imbarazzo della ricchezza”.
Toccherà ai francescani trovare la via d’uscita dall’imbarazzo della ricchezza, con l’invenzione appunto dell’economia di mercato. Francesco,
fondatore di un movimento eremitico, trasformatosi, con uno sviluppo folgorante, in Ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono diventare anche laborantes, sia la regola
per la quale i frati dovevano rinunciare anche alla proprietà comune. Se ne
distacca però su un punto fondamentale: se si vuole trovare uno sbocco al
sovrappiù generato in agricoltura e nella mercatura, e così ovviare all’imbarazzo della ricchezza, occorre dilatare lo spazio dell’attività economica
facendo in modo che tutti possano parteciparvi. Occorre cioè arrivare alle
città, dove vive la più parte della popolazione da evangelizzare, creando
mercati, con tutto ciò che questo comporta a livello istituzionale. (Si rammenti l’insistente domanda di Jacques Le Goff sul perché i nuovi ordini
mendicanti – domenicani e francescani – fossero così attratti dalle città sviluppatesi in Europa a partire dal secolo XI). Ebbene, è all’interno di questo
nuovo modo di pensare che il capitale inizia ad essere visto non più come
fine, ma come mezzo. Capitale e comportamento capitalista sono termini
che vengono usati per riferirsi a quella particolare attività umana che impiega ricchezza (reale o monetaria) per generare altra ricchezza mediante
lo svolgimento di un’attività produttiva. Quest’ultima qualificazione è essenziale: non è capitalista chi riesce ad appropriarsi di un sovrappiù grazie
al potere de jure (quale quello del sovrano oppure del rentier) o al potere de
facto (tale è il potere del bandito o dell’usuraio), ma solo chi, rischiando, è
in grado di generare nuova ricchezza.
Un’ultima considerazione, pure di un certo rilievo. L’ambiguità tra
mezzi e fini dell’azione economica sulla quale, a più riprese e a buona ragione, insiste Bazzichi non è qualcosa di casuale, ma è conseguenza di una
precisa strategia di ricerca. Si tratta di questo. Il modo comune – quanto
meno del mainstream – di formalizzare il discorso economico è quello di
tradurre ogni problema nei termini di una funzione obiettivo (più o meno
complessa) sottoposta ad un certo insieme di vincoli. Questi ultimi sono
di due tipi: tecnico-naturali gli uni (ad esempio, per produrre qualcosa è
necessario disporre degli input richiesti, conoscere la tecnologia rilevante,
ecc.); morali gli altri (rientrano in tale tipo le norme sociali di comportamento; i valori o principi ideali; ecc.). Ora, mentre è alla competenza del
“tecnico” che l’economista affida la determinazione del primo tipo di vincoli, all’eticista egli affida il compito di definire i vincoli di natura morale
su materie quali la giustizia, le condizioni di lavoro, la distribuzione del
reddito e così via. D’altro canto, dato che le teorie etiche sono tante – ci
11
sono quella utilitaristica e quella contrattualista; ci sono quella convenzionalista e quella dell’etica delle virtù – l’economista può scegliersi la teoria
che più gli aggrada, ottenendo, di ritorno, una specificazione piuttosto che
un’altra del sistema vincolare.
Quale il vantaggio che è derivato alla scienza economica da questo
modo di formalizzare il problema economico? Il più importante è quello
di considerare il fine che il soggetto economico persegue come l’elemento
soggettivo e il sistema di vincoli come l’elemento oggettivo, dato che esso
è introdotto nel discorso dall’esterno. Dove sta il vantaggio? Nella possibilità che tale distinzione consente di impiegare il modello della scelta razionale per spiegare il comportamento umano. In quanto espressione della
razionalità strumentale, questo modello postula che quello economico sia
un comportamento tendente ad uno scopo (goal-seeking) e non un comportamento orientato da un valore (value-oriented). Con il che la teoria della
scelta razionale deve solo occuparsi delle intenzioni, dei fini dell’agente.
Le sue motivazioni e le sue disposizioni sono del tutto irrilevanti; o meglio,
esse si rifletteranno sulla forma specifica della funzione obiettivo, e basta.
Ecco perché il fine dell’azione ha da essere soggettivo. D’altro canto, i vincoli devono avere natura oggettiva se la teoria economica vuole essere una
teoria scientifica. Ben venga dunque l’etica – oltre alla tecnica – a fissare i
confini entro i quali può svolgersi il calcolo economico.
Dove sta il tallone d’Achille di tale argomento? Nella circostanza –
come Bazzichi evidenzia – che molto spesso i vincoli di natura morale non
sono oggettivamente determinabili, il che accade tutte le volte in cui la fissazione di ciò che è consentito fare o non fare dipende dalle credenze morali del soggetto. In casi del genere, l’agente può utilizzare i gradi di libertà di
cui dispone per comportarsi non secondo il canone dell’ottimizzazione, ma
secondo quello idiosincratico. In buona sostanza, che un certo mutamento
dell’ambiente nel quale si svolge l’agire economico costituisca o meno
un vincolo oggettivo dipende dalla costituzione morale delle persone. Ne
deriva che la struttura dicotomica del problema di scelta – da un lato, i fini;
dall’altro lato i vincoli – perde la sua apparente robustezza e, soprattutto,
la sua capacità esplicativa. Il decisore, in economia, ha necessità di internalizzare le domande etiche, le quali non possono più essere considerate
condizioni di sfondo da assumere come qualcosa di esogenamente dato.
Quanto precede è conseguenza ultima dell’accettazione, troppo spesso
acritica da parte degli economisti, della tesi del NOMA (Non overlapping
magisteria) per la prima volta formulata da Richard Whately, cattedratico
di economia all’Università di Oxford, nel 1829. Secondo l’influente economista inglese, l’economia, se vuole aspirare ad acquisire lo status di scienza, deve rompere ogni legame sia con l’etica sia con la politica. È da tale
12
separazione – da non confondersi con una opportuna autonomia – che il
discorso economico avrebbe potuto ottenere un suo statuto di scientificità,
evitando fumisterie metafisiche. Dopo una iniziale resistenza da parte di
uno sparuto gruppo di economisti e di uomini di grande cultura – fra questi
ultimi mi piace ricordare John H. Newman – il principio del NOMA ha finito col vincere ogni residua resistenza in economia. Tanto che ancor’oggi
non pochi sono gli economisti che ritengono che il discorso economico
nulla o ben poco abbia a che vedere con il giudizio etico e/o con la deliberazione democratica. Business is business – come afferma il neoliberismo
– e il comportamento razionale è unicamente quello di agenti che seguono
i dettami del modello della rational choice: massimizzare una funzione
obiettivo – qualunque essa sia – sotto un vincolo di costo o di risorse date.
Il saggio di Bazzichi pone in chiara evidenza le aporie che discendono da
una concettualizzazione del genere. Perché non tutto ciò che è economicamente conveniente è eticamente lecito, a meno che si intenda accogliere la
tesi nietzescheiana del nihilismo morale – ma allora occorre avere l’onestà
di dichiararlo apertamente nello spazio pubblico.
Ha scritto Montesquieu che “non bisogna mai esaurire un argomento
al punto di non lasciar nulla da fare al lettore. Non si tratta di far leggere,
ma di far pensare”2. Certamente, Bazzichi non ha esaurito l’argomento al
quale si è dedicato con vigore – anche perché da alcuni anni a questa parte
si assiste ad una promettente ripresa di interesse alla prospettiva di studio
della scuola francescana e, in particolare, dell’economia civile. Il lettore
avrà dunque molto “da fare” e ancor più “da pensare”. Ma la pista di indagine che qui gli viene offerta costituisce un sentiero pervio e sicuro per
andare oltre.
2 C.L.
De Montesquieu, Breviario del cittadino e dell’uomo di Stato, Edizioni
ETS, Pisa 2011, p. 98.
13
Introduzione
Questo saggio vuole mostrare uno scenario dove risulti chiaro che la società medievale, a partire dal monachesimo di S. Benedetto e proseguendo
con l’analisi della Scuola francescana, racchiude in sé il cuore del rapporto
tra etica, mercato ed economia – come sostiene una parte consistente, ancorché minoritaria, della storiografia economica moderna1 –, nonostante
il grande sociologo tedesco Max Weber attribuisca all’influsso dell’etica
calvinista l’origine dello “spirito” del capitalismo2.
È prassi ancora diffusa nella storia del pensiero economico – anche
nella manualistica – far risalire la nascita della scienza economica moderna
ad Adam Smith, tra l’altro ritenuto anche il padre del capitalismo. Ma il
pensiero del filosofo morale scozzese, pur essendo fiorito nel Settecento, è
frutto dell’evoluzione culturale e socio-economica, nata dall’Umanesimo
italiano molti secoli prima della rivoluzione industriale inglese. Quindi,
dalle opere dei pensatori della Scuola francescana scaturisce l’assunto che
la teoria e la pratica dell’economia di mercato sono germogliate ben prima
di Calvino e del fondatore della scienza economica.
Il nostro viaggio, se così vogliamo chiamarlo, inizia dall’entrata nel
mondo del movimento francescano e, in particolare, della sua Scuola di
pensiero.
1
Valga per tutti citare, per una sintesi, cinque opere, corredate di ampia bibliografia: O. BAZZICHI, Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica, Effatà
Editrice, Cantalupa (TO) 2003 (ristampa 2010); G. TODESCHINI, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, il Mulino, Bologna 2004; L.
BRUNI-A. SMERILLI, Benedetta economia. Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economica europea, Città Nuova, Roma 2008; D. ANTISERI, L’attualità
del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2008; S. ZAMAGNI, Bene comune e fraternità, in “Il contributo
italiano alla storia del pensiero”, Appendice VIII: Economia, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Roma 2012, pp. 17-26.
2 Cfr. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano
2009.
15
Oggi viviamo nella “modernità liquida”3, nella quale ad una libertà senza
precedenti fanno da contraltare una gioia falsata e un desiderio insaziabile.
La nostra vita sociale e individuale si svolge nello stress, nella fragilità, nella
precarietà, nella continua incertezza, nelle relazioni instabili4. Abbiamo lasciato dietro le spalle un’economia fondata sulla reciprocità, sulla cooperazione, sulla fiducia, sul rispetto e la condivisione, nella speranza che l’avidità
e l’arricchimento di pochi fosse la via maestra per il benessere di tutti5, quando, invece, abbiamo ricevuto, nell’epoca della globalizzazione, le maggiori
ineguaglianze sociali della storia6, da cui scaturisce una società impaurita
(malattie, povertà, morte) e impotente, incapace di immaginare alternative7.
E così siamo arrivati alla paralisi e all’impotenza collettiva, da cui derivano
la tormentosa sfiducia esistenziale, il senso di insoddisfazione e di solitudine
che caratterizzano l’uomo dell’Occidente8.
Quando si accosta l’etica all’economia o al mercato normalmente ci
riferiamo all’etica di derivazione utilitaristica, la quale, nonostante il dibattito contemporaneo, viene ancora data per scontata non solo in ambito
economico, ma anche nell’indagine etica umana. Ciò presuppone che se il
fine dell’economia capitalista è il massimo profitto, si accetta anche che il
fine dell’agire umano sia fondamentalmente la massimizzazione del profitto individuale. E questo è l’eterno paradosso del “metodo economico”,
che, da un lato, consente l’interesse personale, “tenendosi alla larga dalle
istanze deontologiche poste dalla morale e dai valori”9, e, dall’altro, il benessere collettivo.
3 Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002. La metafora della liquidità è entrata nel linguaggio comune per descrivere la modernità in cui viviamo nelle
sue varie espressioni. Del grande sociologo non citiamo Società liquida, perché molte
società – in particolare l’Italia – vivono in contesti dominati da molte rigidità.
4 ID., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Amore liquido.
Sulla fragilità degli affetti, Laterza, Roma-Bari 2004; G. STANDING, Precari. La nuova classe esplosiva, il Mulino, Bologna 2012.
5 Cfr. M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005.
6 Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, Laterza,
Roma-Bari 1999; La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2003; Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008; Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri,
Torino 2010; J.E. STIGLITZ, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di
oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2012; M.J. SANDEL, Quello che i soldi
non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013.
7 Cfr. R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, il Mulino, Bologna 1997; L.
GALLINO, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2007; Z. BAUMAN,
Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008.
8 Cfr. Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2011.
9 A. SEN, La ricchezza della ragione, il Mulino, Bologna 2000, p. 91.
16
Parlare di etica del mercato è un problema difficile e complesso, che
non trova soluzione, perché, al di là delle norme legali e dei diritti fondamentali, ognuno ha la possibilità di definire la sua personale etica che
può o non può coincidere con quella degli altri e viceversa. Come sostiene
Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, la necessità di avvicinare maggiormente l’economia all’etica non si basa sul fatto che questa
sia una cosa facile da fare10. Per amor del vero occorre precisare che nella
storia del pensiero economico ci sono stati alcuni autori chiave che hanno
tentato la conciliazione tra etica ed economia. Basti ricordare che nell’epoca dell’apparizione del capitalismo – la rivoluzione industriale – gli economisti, allacciandosi alla tradizione precedente, non rinunciarono all’etica,
e che solo interpretazioni e fraintendimenti successivi hanno portato alla
visione odierna del disancoramento dell’etica dall’economia. L’autore più
frainteso della storia del pensiero economico europeo – come vedremo – è
sicuramente Adam Smith.
Il più importante concetto frainteso è stato quello dell’interesse personale, che nella sua concezione non coincide con l’egoismo. Interesse
personale, infatti, significa diritto naturale, morale e giuridico a soddisfare
i propri bisogni senza per questo nuocere alla società. L’interesse personale
esiste in un contesto di ulteriori “sentimenti morali”, in cui – come scrive
Sen – “vi è una evidente stranezza nel considerare Adam Smith il supremo
sostenitore dell’egoismo” e “un accanito denigratore dell’importanza dei
codici morali”11. Egli, come esponente dell’Illuminismo scozzese, aveva
come fine non la semplificazione etica del profitto, ma la rappresentazione
complessiva della realtà. Fu a partire dai marginalisti, il cui scopo fu quello
di ricondurre l’economia politica e le sue categorie a concetti matematici,
che lentamente l’economia perse il suo legame originario con la complessità etica, ossia con la varietà dei sentimenti umani. Più o meno quando il
concetto di “utilità” comincia ad essere delimitato all’interno di quello, più
restrittivo, di massimizzazione del profitto.
Amartya Sen osserva che “c’è qualcosa di totalmente straordinario nel
fatto che l’economia si sia evoluta in questo modo, caratterizzando la motivazione umana in termini così incredibilmente ristretti”, e prosegue commentando come “il vero impiego dell’ipotesi estremamente restrittiva di
un comportamento mosso dall’interesse personale ha seriamente limitato
la portata dell’economia predittiva, e ha reso difficile l’indagine di un certo
10
11
ID., Etica ed economia, Laterza, Bari-Roma 2006, p. 10.
ID., La ricchezza della ragione, cit., p. 92.
17
numero di importanti relazioni economiche che operano attraverso la versatilità comportamentale”12.
A conferma della tesi del fraintendimento si pronunciò anche Karl Polanyi: “Retrospettivamente possiamo dire che nessun fraintendimento del
passato si è mai dimostrato maggiormente profetico rispetto al futuro; infatti, mentre fino al tempo di Adam Smith quella propensione si era appena
mostrata su scala apprezzabile nella vita di qualunque comunità…, ed era
rimasta al massimo un aspetto subordinato della vita economica, un centinaio di anni più tardi… era in piena azione un sistema industriale che
praticamente e teoricamente implicava che la razza umana era spinta in
tutte le sue intraprese politiche, intellettuali e spirituali da quella particolare propensione”13.
È evidente, dunque, che il fraintendimento del rapporto tra etica ed economia è partito dalla progressiva tematizzazione dell’economia politica,
dove il fine primario del profitto subordina a sé tutti gli altri, quelli che
rappresentavano la tradizione occidentale. Il mercato di per sé non è privo
di regole morali, ma genera una sua propria etica incentrata sul fine ultimo
dell’economia capitalista: il perseguimento del profitto.
A questo punto, se il mercato autogenera una propria etica, lo spazio
umano che rimane per introdurre un’etica diversa che riporti l’economia
all’interno della società con un sistema di valori forti (nel senso filosofico
del termine) connessi con l’idea di relazioni crescenti tra cultura e risultati
economici resta un’operazione complessa, ma non impossibile. Esiste una
continuità, per esempio, tra il dibattito sull’interesse medievale e la critica
odierna alla speculazione finanziaria.
Siamo convinti che le potenzialità delle tematiche di un dibattito lontano nel tempo possano ancora oggi suggerire nuove forme etiche per l’economia di mercato: più attenzione ai beni relazionali, tra cui libertà creativa,
reciprocità, sussidiarietà, gratuità-dono, fraternità, bene comune14.
Prima ancora che il crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989) rendesse plastica la sconfitta del “socialismo reale”, la rivoluzione liberista
della Thatcher e di Reagan aveva fatto essenzialmente del “mercato” il solo
orizzonte cognitivo del mondo occidentale. Dopo tale metaforico avvenimento, il capitalismo si è sentito vincitore e nell’Occidente si è verificata
12
ID., Etica ed economia, cit., pp. 7–8.
Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino 1980, p. 6.
14 Cfr. BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano, 2009, soprattutto cap. III; P.L. SACCO–S. ZAMAGNI (a cura di), Teoria
economica e relazioni interpersonali, il Mulino, Bologna 2006. Sulle caratteristiche dei
beni relazionali, cfr. L. BRUNI, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni,
Città Nuova, Roma 2007.
13
18
una vera e propria metamorfosi politico-sociale e antropologica. Non si è
trattato tanto di vicissitudini politiche che hanno introdotto diverse strategie per “smantellare” il Welfare State, ma si è attenuato – se non addirittura
cancellato – quel patto che aveva consentito, pur nell’ambito di un sistema liberista e di competizione, lo sviluppo socio-economico, garantendo
sicurezza e dialogo sociali. Paradossalmente la rete di protezione sociale
costruita faticosamente nel secolo XX è sta messa in discussione – e fin qui
la critica costruttiva per evitare gli eccessi ci può stare, come la necessità di
una regolazione – ma certamente non poteva ritenersi moralmente illegittima. Pertanto, la post-modernità (per usare un termine abusato), caratterizzata dalla globalizzazione dei mercati, delle merci materiali e immateriali,
delle tecnologie dell’informazione, l’espansione dei consumi, la nuova
dimensione delle migrazioni di popoli, porta con sé destabilizzazione, indifferenza, incertezza e insicurezza15. Quindi, comunismo e capitalismo
sono entrambi falliti. L’eccessiva deregolamentazione degli anni Novanta
– avvenuta a seguito anche del fallimento del comunismo – e la mobilità
dei capitali che si è venuta a realizzare con la globalizzazione hanno reso
complesso e ingovernabile il mondo. Il mercato, quello descritto da Giovanni Paolo II nell’enciclica Centesimus annus (1991), c’entra poco con le
cause prime della crisi economico-finanziaria attuale; al contrario, è proprio il mercato che è stato messo a repentaglio, nelle sue caratteristiche più
fondamentali ed etiche, con esiti disastrosi per tutti.
Alla luce di tale sconfitta etica dell’età contemporanea, si impone la
ricerca di un nuovo pensiero che, per un verso, rinverdisca l’origine di
concetti – da noi da molti anni ed a più riprese sviluppati16 –, che trovano
spazio di riflessione nel pensiero della Scuola francescana medievale e
tardo-medievale e nella tradizione dell’Umanesimo civile del Quattrocento e Cinquecento; per l’altro verso, prenda in “carico” i semina della
futura scienza economica, seguendoli, snodo dopo snodo, nei vari passaggi, fino ad arrivare alla prospettiva culturale odierna, che, rigettando
gli statuti neopositivistici, neoliberali o neostatalisti, interpreta l’intera
economia alla luce delle relazioni umane.
A questo duplice registro di analisi delle tappe più significative si pone
15
Cfr. R. SENNETH, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2000.
16 Cfr. O. BAZZICHI, Alle origini del capitalismo, Edizioni Dehoniane, Roma 1991;
ID., Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica, cit.; ID., Dall’usura al
giusto profitto. L’etica economica della Scuola francescana, Effatà Editrice, Cantalupa
(TO) 2008; ID., Il paradosso francescano tra povertà e società di mercato. Dai Monti
di Pietà alle nuove frontiere del credito, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2011; ID.,
Economia e Scuola francescana. Attualità del pensiero socio-economico e politico
francescano, Libreriauniversitaria, Limena (PD) 2013.
19
l’urgenza di una nuova prospettiva che getti le basi per una diversa teoria
socio-economica. Ma dove sta l’elemento chiave che tenga insieme i molti
versanti del pensare e, quindi, del vivere e, quindi, del produrre e del ridistribuire? Non è sufficiente un ritocco. È necessario agire sulla forza coesiva, sul motivo ispiratore dello stare bene insieme, perché il cambiamento
abbia a ripercuotersi sui singoli membri della società. Ebbene, il primo
intervento riguarda una nuova concezione del Welfare, strutturato nella logica dei due tempi (prima le imprese producono, poi lo Stato distribuisce),
che oggi non funziona più, perché sono venuti meno il nesso e la coincidenza di obiettivi tra i due elementi. Mentre prima delle globalizzazione
gli interessi delle imprese, dello Stato e dei cittadini coincidevano perché
esisteva uno stretto legame tra ricchezza prodotta e territorio, oggi questo
meccanismo si è incrinato, perché l’interesse delle imprese ha travalicato i
confini nazionali, muovendosi liberamente nei mercati internazionali alla
ricerca di migliori opportunità di profitto. Questo fatto mette in crisi la
logica della distinzione dei due soggetti, quello della produzione (imprese)
e quello della distribuzione (Stato), perché i due ruoli, per non aggravare le disuguaglianze, devono operare contemporaneamente. All’impresa è
dunque chiesto nell’attività economica di affiancare all’efficienza ed alla
competizione anche la dinamica sociale (responsabilità sociale, bilancio
sociale, bene comune, solidarietà, ecc.); allo Stato di assicurare un uso efficiente delle risorse, evitando inefficienze e sprechi17.
Il secondo intervento riguarda il superamento della visione – ancora
oggi prevalente – che considera il mercato, da un lato, come mezzo indispensabile per produrre e allocare risorse, dall’altro, come un male necessario, a cui non poter rinunciare, ma tenere sotto controllo con l’intervento
dello Stato, senza tener conto che l’ideologia del consumismo obbliga ad
una crescita indefinita dei beni di consumo, negando la necessità di rivedere lo stile di vita e di ricorrere all’ecologia della sobrietà. In questo
contesto acquisisce forza la prospettiva della Scuola francescana che, come
vedremo nel corso del nostro studio, prospetta la necessità di unire efficienza e solidarietà, beni materiali e beni relazionali18, capitale economico e
capitale sociale19.
Pertanto, l’idea centrale che svilupperemo ma che qui vogliamo accen17 Cfr. L. BRUNI–S. ZAMAGNI, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, il Mulino, Bologna 2004, pp. 18–24.
18 Sulle caratteristiche dei beni relazionali, cfr. L. BRUNI, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Città Nuova, Roma 2012, pp. 215–218.
19 Per capitale sociale si intende “quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile” (Caritas in
veritate n. 32).
20
nare, riguarda un ordine sociale, fondato sostanzialmente sull’attivazione
di tre principi distinti ma non indipendenti.
Anzitutto, il valore della libertà creativa dell’uomo, che si esprime
nell’impresa, che produce idee, cultura, innovazione, beni e servizi per il
bene vivere della collettività; dove si produce in modo competitivo e si assicura un uso efficiente delle risorse; dove si inseguono i bisogni; dove gli
scambi si basano sulla fiducia e avvengono sul piano della parità di valore
del dare-ricevere-ricambiare.
In secondo luogo, non basta che un sistema economico-produttivo sia
efficiente nel creare reddito e ricchezza, ma deve trovare il modo di ridistribuirlo equamente tra coloro che hanno contribuito a generarlo, non solo
per ragioni etiche e di giustizia sociale, ma anche per ragioni propriamente
economiche del sistema di mercato che non può funzionare a lungo se tralascia parte dei suoi membri senza potere d’acquisto.
Infine, non basta ad una società coniugare insieme efficienza ed equità
– che già sarebbe un bel traguardo –; per realizzare il bene comune, occorre
aggiungere la reciprocità, che è il principio che traduce in atto lo spirito
della gratuità, del dono20 e della fraternità. Quest’ultima non si identifica –
come molti ritengono – con la solidarietà che è impersonale, paternalistica,
filantropica e si rivolge ad una comunità astratta, ma è qualitativamente
superiore, perché non tende a rendere uguali, ma differenti nell’uguaglianza, e nella convivenza si attua in una speciale relazione, che è appunto di
reciprocità.
La sfida del modello socio-economico che, attingendo al pensiero francescano, intendiamo proporre, è quella di rendere possibile – ed anche credibile – un sistema sociale al cui interno coesistano tutti e tre questi principi. Infatti, abbiamo bisogno certamente di efficienza, ma anche di equità e
di reciprocità. Una società che vede nel mercato e nella logica dell’efficien20
Nel corso dell’esposizione vengono utilizzati con una certa frequenza i concetti di dono e di gratuità. Conviene indicare fin dall’inizio che il significato di dono
non coincide con quello di gratuità. Tralasciando di presentare le complesse dinamiche del dono derivanti dalle principali concezioni fenomenologiche e ontologiche (cfr.
O. BAZZICHI, Ontologia ed economia del dono, in «Oikonomia», giugno 2007, pp.
53–67), lo spirito del dono si basa su una triplice obbligazione: dare, ricevere, ricambiare. La gratuità è l’espressione più genuina dell’essere, la spia della correttezza morale
dell’agire; è la sorgente creativa di vita, che trasforma il volto della terra; è la fonte
ispiratrice dell’etica francescana, che esprime l’etica dell’alterità e della libertà, “via
privilegiata per coniugare gratuità e apertura dialogale” (O. TODISCO, Lo stupore della ragione. Il pensare francescano e la filosofia moderna, Messaggero, Padova 2003,
p. 268). La gratuità quindi non è un contenuto, ma un atteggiamento con il quale si
accoglie l’altro come fratello. Non a caso lo stesso vocabolo greco kharis è all’origine
anche della parola “carisma”.
21
za la soluzione a tutti i mali sociali, o viceversa, vede nel mercato il luogo
dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole (tra i teorici
più celebri Karl Marx e Karl Polanyi), è destinata alla crisi.
Il mercato stesso per poter funzionare ha bisogno non solo degli scambi, ma anche di gratuità e di forme variamente articolate di redistribuzione
del reddito. Così a fianco dell’impresa multinazionale di tipo capitalistico
deve trovare posto la bottega artigiana, la cooperativa, l’impresa sociale, le
imprese di economia di comunione, le imprese civili: tutte realtà che inseriscono dentro il mercato valori come reciprocità, cooperazione e dono. Con
il loro operare esse prospettano un mercato plurale in cui convivono efficienza e competizione, ma anche pratiche di socialità e di relazionalità.
È davvero paradossale21 che un contributo così fondamentale all’umanizzazione dell’economia sia venuto proprio da coloro che avevano scelto
volontariamente di vivere in povertà e “senza nulla di proprio”22. La chiave di lettura si trova contenuta nella loro vicinanza alla gente, nello stare
in mezzo ad essa tanto da avere “odore di pecora”23, nell’ascoltare, nel
viverne disagi e sofferenze, nel constatare le carenze dei mezzi necessari
per vivere dignitosamente, per cercare e studiare soluzioni innovative per
stimolare le iniziative individuali e collettive nell’ambito del bene comune.
I frati non cercarono interessi personali e gloria, ma stimolarono le capacità
creative di ogni essere umano. Non si accontentarono dell’assistenzialismo
e del fare l’elemosina, ma affrontarono strutturalmente i problemi e invitarono tutti, ricchi e poveri, a contribuire alla loro soluzione. Da qui il lungo
stuolo di pensatori francescani – a cominciare da Bonaventura da Bagnoregio, Pietro di Giovanni Olivi, Giovanni Duns Scoto, Alessandro Bonini di
Alessandria – che mette le basi della nuova economia e che non ha mancato di proporre anche oggi, sollecitando più attenzione ai beni relazionali24.
Questo studio si sviluppa in sei capitoli, che affrontano da angoli culturali diversi un tema unitario: quello di una continuità del lessico socioeconomico della Scuola francescana, fondata sulla tradizione volontaristica (e non dell’oggettivismo tomista), la cui lettura può costituire un
antecedente di riferimento non soltanto per l’aspirazione di cambiamento
21 Cfr. L. BRUNI, Il prezzo della gratuità, Città Nuova, Roma 2006, p. 14; O.
BAZZICHI, Il paradosso francescano tra povertà e società di mercato. Dai Monti di
Pietà alle nuove frontiere stico-sociali del credito, cit.
22 Cfr. Regola Bollata (1223), in Le Fonti Francescane, Movimento Francescano,
Assisi 1977, p. 123.
23 Affermazione di Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica “Evangelium
Gaudium” (24 novembre 2013), n. 24.
24 Cfr. P.L. SACCO–S. ZAMAGNI (a cura di), op. cit.; L. BRUNI, Le nuove virtù
del mercato nell’era dei beni comuni, Città Nuova, Roma 2007.
22
in senso etico della politica e delle istituzioni, ma anche dei fenomeni
sociali ed economici.
Oggi, di fronte ad una realtà socio-culturale caratterizzata da asimmetrie conoscitive, da vincoli formali e da principi comuni superficiali e deboli, manca il coraggio di ammettere che i valori concettuali ereditati dal passato possano costituire una trasposizione teorico-pratica di nuove speranze
e aspirazioni. Sono sotto gli occhi di tutti le debolezze etiche della politica
e delle istituzioni democratiche, che non sono in grado – per mancanza di
strumenti adeguati – di seguire la velocità e la diffusione del cambiamento
teologico e sociale. La storia – magistra vitae – insegna che della politica
e delle istituzioni non si può fare a meno, e quando falliscono portano solo
disastri e tirannie.
Pertanto, il primo capitolo focalizza gli aspetti che riguardano il contesto politico, socio-economico, culturale e religioso, che ha dato vita alla
genesi della proposta francescana.
Il secondo capitolo muove dalle origini del pensiero francescano: la
storicizzazione dello Spirito Santo nei processi temporali, ideata da Gioacchino da Fiore e inaugurata da Francesco d’Assisi.
Nel terzo capitolo viene preso in esame il contributo che la Scuola francescana, partendo dalle intuizioni “profetiche” di Francesco d’Assisi e di
Bonaventura da Bagnoregio, diede, sul piano teorico, all’elaborazione dei
primi indicatori economici, e sul piano pratico, dando vita ad istituzioni,
capaci di supportare l’efficienza sociale e l’attuazione dei mezzi per favorire l’interazione tra capitale monetario e capitale umano e i beni economici
con i beni relazionali.
Sulla base dell’analisi realizzata precedentemente, il quarto capitolo
presenta una lettura sistematica dei principi fondamentali che, scaturendo
dalla libertà creativa, costituiscono il nucleo del modello socio-economico francescano: reciprocità, lavoro, gratuità, relazione, fraternità, bene
comune.
Il quinto capitolo mostra come i semina humanitatis dei pensatori francescani abbiano attraversato, accompagnato e influenzato – lungo l’arco
dei secoli – la cultura, il paradigma socio-economico, i valori etico-relazionali, il bene comune, la felicità pubblica.
Il sesto capitolo getta un ponte tra passato e presente, mostrando come
le risposte dal passato siano motivi di riflessione alle domande del presente, e come, in fondo, i suggerimenti di intellettuali francescani vissuti
secoli fa possano dare una mano per il superamento della crisi strutturale,
che sembra non vedere la fine.
In concreto, cercheremo di porgere qualche impressione di carattere
generale nella specifica produzione della Scuola francescana in chiave
23
di storia del pensiero socio-economico, cioè sia come proposta culturale
d’insieme e sia come spaccato dei secoli XIII–XV, in cui maggiormente si
registra la più florida e effervescente produzione scientifica, che a tutt’oggi
richiama l’attenzione di studiosi laici, più ancora di quelli francescani, che
forse, per una certa generalizzata disistima verso le tematiche economiche,
rischiano di perdere contatto con l’insieme delle “origini” culturali del proprio ideale.
La vita francescana tanto è più vitale e incisiva quanto più riesce a conservare e vivere l’unità tra carisma e ideale, propria della sua autentica
Scuola. Difatti, per la concretezza interpretativa della realtà, il pensiero
francescano si distingue specificatamente per l’affermazione sia intorno
alla libertà sia intorno all’unità dell’uomo, proprio perché considerato nelle
sue origini antropologiche di imago Christi, sia nei suoi aspetti comunitari,
relazionali e sociali.
La concretezza del pensiero francescano è tale per aver avuto l’ardire di
orientare la propria bussola verso l’ago Cristocentrico e antropocentrico:
da un lato, verso l’uomo, vero cuore del mondo, perché specchio del vero e
autentico uomo che è Cristo, dall’altro, verso il suo bene vivere nel mondo.
Per questo il pensiero francescano ha una visione unitaria non solo del sapere, ma anche dei problemi esistenziali; in altre parole, è la speculazione
che sa ascoltare le voci della vita, che risponde alle esigenze e alle domande che la singola persona si pone nel suo cammino “nella città terrestre”.
24
Scarica