Seminario Estivo
26 luglio – 2 agosto
2015
Reg. Num. 6188 – A
FISICA E SPIRITUALITÀ
Dalla conoscenza alla coscienza
Villa Nazareth – Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS
Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754
Siti web: www.villanazareth.org, collegio.villanazareth.org, www.vnservizi.it
E-mail: [email protected], info@vnservizi.
FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
PROGRAMMA
“FISICA E SPIRITUALITÀ”
Domenica 26 Luglio
Pomeriggio: Arrivo e sistemazione presso il Centro Vacanze e Cultura
Grand Hotel Dobbiaco
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 20:00 Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio
Maria Celli, della prof.ssa Angela Groppelli, del prof. Carlo Felice Casula,
del dott. Marco Catarci, del dott. Stefano Pepe, del dott. Massimo Gargiulo,
della dott.ssa Anna Berloco.
A seguire Presentazione del seminario a cura degli studenti della
Commissione Cultura
Lunedì 27 Luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Martedì 28 luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Conferenza:
“Il paradigma rivoluzionario dei quanti”
Relatore: Sigfrido Boffi, Professore Emerito di Fisica Teorica presso l’Università di Pavia
Moderatore: Davide Sabeddu
Ore 13:00 Pranzo
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
Ore 16:30 Incontro Gruppi Regionali (studenti residenti e non residenti)
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Ore 20.30 Commissione Cultura
Mercoledì 29 Luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Giovedì 30 Luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9.15 Conferenza:
“La ricerca spirituale con la fisica quantistica”
Relatori:
Padre Gabriele Gionti S.I., fisico teorico della Specola Vaticana a Tucson, AZ, USA
Moderatore: Giacomo Della Posta
Ore 16:00 Laboratorio degli studenti
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica presieduta dal card. Achille Silvestrini
nell'anniversario della morte del Cardinale Domenico Tardini
Ore 19:30 Cena
Dopo cena proseguimento del laboratorio
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
Venerdì 31 Luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Sabato 1 agosto
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Conferenza:
“Pensiero contemporaneo e meccanica quantistica”
Relatore:
Mons. Gianfranco Basti, Professore Ordinario di Filosofia della Natura e
della Scienza presso l’Università Pontificia Lateranense
Moderatore: Matteo Piu
Ore 13:00 Pranzo
Pomeriggio libero
Ore 18:30 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena Tipica
Domenica 2 agosto
Ore 8:00 Colazione
A seguire saluti e partenze
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
INDICE
 Introduzione, p. 6
 Biografie dei relatori, p. 7
 Articolo n. 1: Introduzione alla meccanica quantistica, Brendan Sweetman, p. 9
 Articolo n. 2: Probabilità in meccanica quantistica, Nicolas Delerue, p. 11
 Articolo n. 3: Introduzione agli effetti della meccanica quantistica, Frytiof Capra, p. 14
 Articolo n. 4: Esempio di esperimento paradossale della fisica quantistica, il gatto di Schrödinger, Redazione di
lescienze.it, p. 15
 Articolo n. 5: Una breve “storia” dell’Universo, P. Gabriele Gionti S.J., p. 16
SECONDA PARTE – I FISICI INCONTRANO DIO E IL MONDO
 Articolo n. 6: Esiste il caso?, Sigfrido Boffi, p. 19
 Articolo n. 7: La responsabilità sociale dello scienziato, Nicola Cabibbo, p. 23
 Articolo n.8: La lettera di Albert Einstein su Dio, quello Spirito che si rivela nel cosmo, Redazione di
ww.uccronline.it, p. 27
 Articolo n. 9: Il fisico Ugo Amaldi, amore per la scienza e amore per la fede, p. 29
 Articolo n. 10: Il premio Nobel Charles Townes: «credo in Dio anche grazie alla scienza», redazione di
www.uccronline.it, p. 30
 Articolo n. 11: Perché torna la domanda su Dio. Così la fisica spiega l’inspiegabile origine dell’universo, Umberto
Minopoli, p. 31
 Articolo n. 12: A Conversation between Tagore and Einstein on July 14, 1930, p. 40
 Articolo n. 13: Carl G. Jung’s Synchronicity and Quantum Entanglement: Schrödinger’s Cat ‘Wanders’ Between
Chromosomes, Igor V. Limar, p. 43
 Articolo n. 14: La coscienza è un effetto quantistico: Roger Penrose rilancia la sua teoria, Marco Passarello, p. 50
 Articolo n. 15: Conscious Events as Orchestrated Space-Time Selections, Stuart Hameroff, Roger Penrose, p. 51
TERZA PARTE - L'ABBRACCIO TRA TEOLOGIA, FISICA E FILOSOFIA
 Articolo n. 16: Indeterminismo quantistico, Giuseppe Tanzella-Nitti, p. 53
 Articolo n. 17: I fondamenti filosofici dell’attività scientifica, Giuseppe Tanzella-Nitti, p. 53
 Articolo n. 18: Razionalità scientifica e domanda su Dio, G.Tanzella–Nitti, p. 68
 Bibliografia e filmografia parziale, p. 80
 Ringraziamenti, p. 81
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FISICA E SPIRITUALITÀ
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INTRODUZIONE
La scienza è solo un passo del cammino che ci attende alla scoperta di Colui che ci
ha creato, non siamo semplici pedine mosse dal caso e dalla passione. Cerchiamo la vita,
l'amore. Perché?
Cosa ci spinge ad unire insieme tante forze per svelare e superare i confini della
conoscenza? La semplice curiosità? O è quella parte di Dio che è in ognuno di noi a farci
andare così avanti, ad incamminarci lì, nel vero segreto della scienza moderna, ad
immergerci nel succo prelibato del sapere. Si può essere ben sicuri che dopo aver assaporato
i meandri della meccanica quantistica ci saranno tante altre sfide. È un bellissimo gioco
infinito di unità e diversità allo stesso tempo, di leggi che vivono, che si formano e si
riformulano! Dove i confini della fisica si sciolgono in un composto di biologia, teologia,
psicologia, medicina, filosofia, sociologia! L'intuito, i sogni, la coscienza umana e
artificiale, le apparenti coincidenze della vita, la cura “umanizzata” delle malattie e la
meditazione sono solo alcuni elementi della ricerca che da qualche decennio la scienza sta
mettendo in atto, la stessa scienza che fino a poco tempo fa era primitivamente ancorata a
saldi principi esclusivamente omocentrici, fiduciosa nelle sole nostre capacità “materiali”.
Insieme ai nostri relatori cercheremo di cogliere il vero messaggio che la scienza moderna
vuole donarci. Auguro di cuore a tutta la comunità che sappia davvero comprendere e
“affezionarsi” a questa tematica che di sicuro avrà profondi sviluppi nei prossimi anni e
grandi influenze in molti campi del sapere. Grazie del vostro tempo.
Davide Sabeddu
M74 (nota anche come NGC 628): costellazione a spirale nella costellazione dei Pesci.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
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BIOGRAFIE DEI RELATORI
Sigfrido Boffi
Nato a Milano il 5 luglio 1939, dal 1958 al 1962 è alunno del Collegio Universitario Ghislieri di
Pavia e nel 1962 completa gli studi in Fisica presso l’Università di Pavia. Nei due anni successivi è
alunno della Scuola di Perfezionamento in Fisica dell'Università di Roma. Nel 1965 è Professore
incaricato di Fisica Generale I dell'Università di Pavia. Dal 1973 al 1980 è Professore stabilizzato di
Fisica Generale I dell'Università di Pavia. È professore straordinario di Istituzioni di Fisica Teorica
tra Bologna e Pavia 1980 al 2010. Nel 2011 è Professore emerito di Fisica Teorica dell'Università di
Pavia. Ha ricoperto vari incarichi istituzionali: tra gli altri, è stato Membro del Consiglio Direttivo
dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) come Direttore della Sezione INFN di Pavia,
Membro del Comitato Fisica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Direttore del
Dipartimento di Fisica Nucleare e Teorica dell'Università di Pavia. E’ stato Coordinatore Scientifico
di diversi progetti scientifici, tra cui i programmi di ricerca di interesse nazionale dal titolo: "Fisica
teorica del nucleo e dei sistemi a molti corpi", e "Fisica teorica del nucleo e dei sistemi a molti
corpi" entrambi cofinanziati dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca. È autore
di oltre 250 pubblicazioni su temi di fisica della materia, dei nuclei, del nucleone. È stato tra gli
organizzatori di numerose conferenze internazionali in Europa e negli USA soprattutto nel campo
della fisica adronica.
P. Gabriele Gionti S.I.
P. Gabriele Gionti S.I. si è laureato in Fisica presso l’Università degli Studi «Federico II» di Napoli
nel 1993, focalizzando i suoi studi sulla fisica delle alte energie, la fisica gravitazionale e la fisica
matematica. Nello stesso anno è stato ammesso alla Scuola Internazionale di Studi Avanzati di
Trieste nel settore della fisica matematica, conseguendo il dottorato in Fisica-Matematica, nel 1998.
Nel 1999 ha continuato la sua attività di ricerca postdottorale al Dipartimento di Fisica e
Astronomia dell’Università di California, per poi iniziare nel 2000 il suo noviziato a Genova. Dopo
aver conseguito il Baccalaureato in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana, nel 2004,
trasferito per due anni al Vatican Observatory di Tucson, ha proseguito per un biennio le proprie
ricerche sulla Discrete Quantum Gravity come ricercatore postdottorale allo Steward
Observatory dell’Università dell’Arizona. Nel 2006, a Berkeley, ha iniziato gli studi di teologia
alla Jesuit School of Theology dell’Università di Santa Clara conseguendo nel 2010 il titolo base e
la licenza in Teologia Sistematica. Il 26 giugno dello stesso anno, è stato ordinato Sacerdote. Dal
2010 si occupa, all’interno della Specola Vaticana, di Quantum Gravity e String Theory, oltre che
della possibilità di applicare il Local Regge Calculus allo Spin Foam Formalism. È componente
del Comitato Scientifico del Centro Internazionale di Astrofisica Relativistica (ICRA) della Specola
Vaticana ed è responsabile di una collaborazione scientifica fra la stessa e la Divisione Teorica del
CERN.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
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Mons. Gianfranco Basti
Nato nel 1954 a Roma, ordinato sacerdote nel 1978, nel 1984 ottiene il dottorato il Filosofia alla
Sapienza di Roma. È Professore Ordinario in “Filosofia della natura e della scienza” all’Università
Pontificia Gregoriana. Dal 2008 è Decano della Facoltà di Filosofia alla Università Lateranense. La
sua attività di ricerca si rivolge ai fondamenti logici delle scienze. È membro della AAS (American
Society for the Advancement of Science) e, dal 1997, direttore e co-fondatore dell’IRAFS
(International Research Area on Foundations of the Sciences) all’Università Lateranense. Dal 2001
è membro dell’accademia pontificia San Tommaso D’Aquino. È autore di più di novanta articoli
scientifici e filosofici e di quattro libri.
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La Nebulosa Guerra e Pace (nota anche come NGC 6357 o Sh2-11):
nebulosa ad emissione nella costellazione dello Scorpione.
FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
Articolo n. 1: Introduzione alla meccanica quantistica, Brendan Sweetman
Da B. Sweetman, Religione e Scienza – una introduzione, Queriniana, Brescia 2014
La meccanica quantistica ha a che fare con le interazioni e la struttura delle particelle
atomiche e subatomiche, come quanti, neutroni, elettroni, quark, fotoni, ecc. I fisici delle
particelle studiano, fra l’altro, l’energia e il movimento di queste particelle. Si è trattato di
un’area di ricerca molto fruttuosa, essendo alla base della costruzione di transistor e di laser
e, in genere, dell’elettronica moderna e dell’energia nucleare. Tuttavia, vi sono dei problemi
associati con lo studio delle particelle subatomiche che rendono questa teoria tutt’altro che
chiara per il mondo macroscopico della nostra esperienza. Il problema principale è che,
quando studiamo una particella subatomica, essendo così piccola, essa è influenzata dai
metodi con cui lo facciamo, in particolare dall’energia della sorgente di luce (una cosa che
non avviene quando studiamo oggetti di maggiori dimensioni, come i tavoli e le sedie).
Questo significa che quando studiamo una particella in quanto osservatori, noi stessi
interferiamo con essa, modificando il suo comportamento. L’energia dell’onda della luce
che usiamo per studiare un elettrone, per esempio, influenzerà il movimento dell’elettrone in
un modo che non possiamo predire; se usiamo un’onda di luce più lunga per evitare questo
problema, allora sarà la posizione dell’elettrone ad essere modificata. In breve, non
possiamo conoscere né la posizione né la velocità di movimento dell’elettrone nello stesso
tempo, una conclusione che è stata chiamata “principio di indeterminazione” dal fisico
tedesco Werner Heisenberg. Una conseguenza di esso è che non siamo in grado di accertare
con precisione le leggi che stabiliscono il comportamento delle particelle operanti a livello
subatomico; esse sono piuttosto espresse nei termini di probabilità statistiche.
Una delle ragioni per le quali il rapporto tra religione e scienza è così importante ai
giorni nostri è perché entrambe offrono un contributo decisivo in molti ambiti della nostra
esistenza. Inoltre, molti lavori recenti in varie discipline scientifiche hanno sollevato una
molteplicità di problemi filosofici, religiosi e morali che la scienza, di solito, non è
preparata ad affrontare. Lavori recenti in aree come la biologia evoluzionistica, la genetica,
l’astronomia, l’astrofisica (lo studio della composizione fisica dei corpi celesti), la ricerca
sulle cellule staminali e la neurologia, molti dei quali resi possibili da impressionanti
progressi tecnologici, hanno richiamato l’attenzione in modo drammatico su ciò che spesso i
filosofi chiamano “questioni ultime”, cioè su questioni che riguardano la vita e perfino la
moralità. La teoria dell’evoluzione, per esempio, solleva questioni sull’origine e la natura
della nostra specie, l’Homo sapiens (la specie “sapiente”), del tipo: l’apparire della vita
umana sulla terra è dovuta al caso oppure ad un progetto? gli uomini hanno un’anima? gli
esseri umani differiscono in modo qualitativo da altre specie o soltanto per grado? possono
darsi spiegazioni evoluzionistiche per fenomeni come la coscienza, la ragione e la moralità?
L’astronomia e l’astrofisica ci informano ogni giorno di più su quanto sia immensamente
complesso l’universo in cui viviamo. Nel sollevare il problema della causa dell’universo, la
ricerca in questi ambiti non può mancare di suscitare problemi affascinanti e complessi sul
fine ultimo, o sul progetto dell’universo, e se ci sia una mente intelligente dietro alla realtà.
La grandezza dell’universo è tale da sorprenderci se non ci fossero altre civiltà là da qualche
parte e suscita la domanda su come potrebbero essere. Quest’ultimo è un tema intrigante,
specialmente se combinato con alcune interpretazioni della teoria dell’evoluzione, le quali
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
suggeriscono che l’evoluzione è un processo che potrebbe darsi ogni pianeta dove fossero
presenti gli ingredienti di base necessari all’emergere della vita.
Vi sono altri ambiti della scienza che sollevano in ugual misura problemi interessanti,
che rappresentano delle sfide e in qualche caso sono perfino angosciosi. Il progetto del
genoma umano che comporta la mappatura di 20.000-25.000 geni nel DNA umano, così
come la determinazione della sequenza delle coppie di basi che compongono in DNA,
hanno condotto la genetica in territori finora impensati. Questo tipo di ricerca solleva ogni
sorta di difficili problemi morali sulla legittimità della manipolazione genetica della
struttura biologica degli esseri umani, lo stesso tipo di problemi che sono suscitati dalla
ricerca sulle cellule staminali e dalla clonazione. La scienza può scoprire come clonare un
essere umano e come estrarre da un embrione umano cellule staminali per le finalità della
ricerca medica, ma non può dirci se queste pratiche sono morali. Dobbiamo andare al di là
della scienza - verso la filosofia e la religione – per continuare a pensare su questi temi
cruciali. Inoltre, quegli scienziati che lavorano nell’ambito della neurologia, studiando la
struttura e il funzionamento del cervello umano, sollevano questioni che non toccano
soltanto le modalità di cura delle varie malattie del cervello, ma la reale natura della
coscienza stessa. La coscienza è qualcosa di fisico o no? quale ruolo causale gioca
l’inconscio nella nostra vita cosciente? Questo tipo di ricerca è rilevante per quello che
pensiamo sull’esistenza dell’anima (che per molti filosofi deve includere almeno la mente
cosciente), e quindi sulla libertà del volere umano. Gli esseri umani sono effettivamente
liberi o sono soltanto sofisticate macchine casualmente determinate, parti di un universo che
deve essere compreso interamente in termini di rapporto tra cause ed effetti? Tutti questi
affascinanti temi sono sollevati inevitabilmente e precipuamente dall’interazione tra
religione e scienza, e ciascuno che voglia riflettere in modo informato sulle questioni più
profonde della vita non può ignorarli, né può ignorare il contributo che essi danno alla
comprensione dell’universo e di noi stessi nel ventunesimo secolo. […]
La Galassia Sombrero (nota anche come M 104 o NGC 4594): galassia nella costellazione della Vergine.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
Articolo n. 2: Probabilità in meccanica quantistica, Nicolas Delerue
Da Probabilità e caso (2011), 2
Contrariamente a ciò che pensavano i fisici del XIX secolo, non tutto è prevedibile
esattamente nell'Universo. Il comportamento delle particelle elementari, ad esempio, è
governato dalle leggi probabilistiche della meccanica quantistica.
Il XIX secolo fu caratterizzato da grandi progressi nella comprensione dei fenomeni
naturali. Ad esempio, per la maggior parte dei fisici di questo secolo sembrava che,
conoscendo con precisione la posizione di tutti i corpi celesti ad un istante dato, sarebbe
stato possibile predire tutte le loro posizioni future. Tuttavia, agli inizi del XX secolo,
l'avvento della meccanica quantistica rimise in discussione queste speranze.
Onde o particelle?
I lavori di Maxwell avevano mostrato in modo inconfutabile che la luce è un'onda
elettromagnetica. Per contro, il quadro teorico proposto da Planck e da Einstein per spiegare
l'effetto fotoelettrico richiedeva l'ipotesi che la luce fosse "corpuscolare". Alcuni anni dopo
un'altra esperienza, cosiddetta della doppia fenditura, mostrò che l'elettrone, che tutti
consideravano una particella, aveva talvolta un comportamento ondulatorio.
Ripensare 1a fisica
Dinanzi a questi risultati contraddittori, fu necessario ripensare le leggi della fisica
per permettere di descrivere gli oggetti microscopici sia come onde sia come corpuscoli. È
proprio ciò di cui si occupa la fisica quantistica secondo la quale ogni oggetto ha un duplice
comportamento: ondulatorio e corpuscolare. Uno dei principali esponenti di questa nuova
visione fu Werner Heisenberg che propose una relazione oggi conosciuta sotto il nome di
principio di indeterminazione di Heisenberg
Δ(x) rappresenta l'incertezza sulla misura della posizione, Δ(p) l'incertezza sulla misura
della quantità di moto e h la costante di Planck, il cui valore è 6 ,626 x l0-34 Js. Ciò significa
che ci sono dei limiti alla precisione di una misura: minore è l'incertezza sulla misura della
posizione, maggiore sarà l'incertezza sulla misura della quantità di moto e viceversa.
Questo risultato, rispetto al quale Einstein manifestò un certo scetticismo, esprime
l'impossibilità di conoscere fino in fondo la configurazione dell'Universo, togliendo così
ogni speranza alle aspirazioni deterministiche dei fisici del secolo precedente. Il principio di
indeterminazione è espresso anche dalla relazione
,
equivalente alla precedente. Qui E rappresenta l'energia e t il tempo. Queste relazioni certo
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
non sono intuitive, ma supportate da verifiche sperimentali.
Una descrizione probabilistica del mondo
Visto che non è possibile conoscere con precisione le grandezze caratterizzanti ciascuna
delle parti del mondo in cui viviamo, come è possibile descriverlo? Ecco la probabilità!
Ogni costituente di un sistema, ogni particella, non può più essere descritta come un oggetto
che si trova nella posizione (x, y, z, t) ma ad esso deve essere associata una funzione,
chiamata funzione d'onda, che dipende sia dalla posizione (x, y, z) sia dal tempo t. Questa
funzione, o piuttosto il quadrato del suo modulo, fornisce la probabilità che l'oggetto si trovi
nella posizione (x, y, z) all'istante t. Quando l'oggetto ha dimensioni maggiori di molti ordini
di grandezza della lunghezza d'onda associata alla costante di Planck (relazione di De
Broglie: λ = h/p), allora l'imprecisione sulla posizione dell'oggetto diviene trascurabile
(pochi millimetri, così come pochi secondi sono già molto grandi!). Questo giustifica il fatto
che, per descrivere il mondo con cui ci confrontiamo quotidianamente, non è necessario
ricorrere alla meccanica quantistica. Per contro, per descrivere il comportamento di un
singolo fotone o elettrone, il ricorso alla probabilità diventa indispensabile.
Le fenditure di Young spiegate dalla meccanica quantistica
L'esperienza del passaggio degli elettroni attraverso fenditure rivela un comportamento
ondulatorio degli elettroni. Al momento dell'emissione essi possono dirigersi seguendo
direzioni equiprobabili. Poi gli elettroni incontrano lo schermo con le due fenditure. La
probabilità che gli elettroni passino per l'una o per l'altra delle due fenditure è la stessa.
Oltre le due fenditure, gli elettroni proseguono il loro cammino fino ad interferire. Questa
interferenza può essere sia costruttiva sia distruttiva, così da far apparire una figura di
interferenza simile a quella che si osserva per la luce. Il fatto che in certi casi l'interferenza
possa essere distruttiva appare certo sorprendente.
Ma da quale fenditura passa l’elettrone?
Per meglio comprendere i fenomeni che reggono questa esperienza, è possibile cercare di
sapere da quale foro è passato l'elettrone. Per questo basta mettere un piccolo rivelatore a
fianco di ogni foro e contare. Il risultato non è sorprendente: l'elettrone è passato una volta
su due a sinistra e una volta su due a destra. Ma... sorpresa! La figura di interferenza è
scomparsa! Ecco un'altra grande particolarità della meccanica quantistica: una osservazione
può perturbare il risultato. Infatti alla scala microscopica della meccanica quantistica, per
misurare una proprietà di un oggetto bisogna “toccarlo” direttamente o indirettamente. La
densità di probabilità dell'elettrone viene modificata dalla misura poiché è ora possibile dire
da quale foro esso è passato. Una delle due funzioni d'onda che contribuiscono alle
interferenze avrà ora un'ampiezza nulla dato che il foro dal quale l'elettrone è passato risulta
conosciuto. Ecco perché non vi saranno più interferenze... Queste osservazioni, confermate
da numerose esperienze, sono certo non intuitive e in passato molti fisici, tra cui Einstein,
hanno mostrato molto scetticismo al riguardo.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
27 LUGLIO - 2 AGOSTO
Il principio di esclusione di Pauli
Un altro fatto che può essere spiegato dalla descrizione probabilistica della
meccanica quantistica è il principio di esclusione di Pauli. La funzione d'onda V (a,b) che
descrive un sistema di due particelle a e b della stessa natura può essere sia simmetrico, sia
antisimmetrico.
Cioè, se a e b sono permutate, allora la funzione d'onda delle particelle permutate può
sia avere lo stesso valore:
Ψ (a,b) = Ψ (b,a) (caso simmetrico),
sia avere il valore opposto:
Ψ (a, b) = - Ψ (b, a) (caso antisimmetrico).
È la natura delle particelle che determina l'esito simmetrico o antisimmetrico. Per
esempio, una coppia di fotoni avrà una funzione d'onda simmetrica mentre una coppia di
elettroni avrà una funzione d'onda antisimmetrica. Questo risultato ha delle implicazioni
molto importanti. Infatti, immaginiamo due elettroni identici. Questi due elettroni A e B
possono trovarsi nello stesso punto allo stesso istante?
Se così fosse, essi diventerebbero completamente indiscernibili, e non sarebbe
possibile scoprire se sono stati o meno permutati, dunque la funzione d'onda Ψ (a, b)
sarebbe uguale a Ψ (b,a); però per gli elettroni le funzioni d'onda sono antisimmetriche, cioè
Ψ (a,b) = - Ψ (b,a).
La sola soluzione è dunque Ψ (a, b) =0, che rappresenta il cosiddetto principio di esclusione
di Pauli: due elettroni non possono trovarsi nello stesso punto allo stesso istante se hanno le
stesse proprietà.
La statistica di Bose-Einstein
Il caso di due fotoni che si trovano nello stesso punto allo stesso istante si tratta in
modo analogo. Tuttavia, le funzioni d'onda dei fotoni hanno un comportamento simmetrico
in caso di permutazione, cioè: Ψ (a,b) = Ψ (b,a). Contrariamente agli elettroni, i fotoni
obbediscono a quella che viene chiamata statistica di Bose-Einstein: essi tentano di trovarsi
tutti nello stesso stato! Il principio di esclusione di Pauli e la statistica di Bose-Einstein sono
sostenuti da osservazioni sperimentali. Se non valesse il principio di esclusione di Pauli,
tutti gli elettroni di un atomo avrebbero la stessa energia e nessuna reazione chimica sarebbe
possibile mentre la statistica di Bose-Einstein permette di spiegare fenomeni come la
superconduttività. Oggi pochi ricercatori rimettono in discussione la descrizione
probabilistica del mondo così come viene formulata dalla fisica quantistica. Mentre i fisici
del XIX secolo pensavano di vivere in un mondo dove tutto era perfettamente definito, cosa
che permetteva loro di affermare che “Dio non gioca a dadi”, i loro colleghi del XX secolo,
che hanno dimostrato che il nostro mondo è descrivibile attraverso la probabilità, possono
loro rispondere che, se Dio esiste, Egli gioca certamente a dadi.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
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Articolo n. 3: Introduzione agli effetti della meccanica quantistica, Fritjof Capra
Da F. Capra, Il tao della fisica, Adelphi, Milano 1982
Le interazioni tra gli atomi danno luogo ai vari processi chimici, cosicché in linea di
principio è oggi possibile comprendere tutta la chimica sulla base delle leggi della fisica
atomica.
Queste leggi tuttavia non furono facili da riconoscere: esse vennero scoperte negli
anni Venti da un gruppo internazionale di fisici che comprendeva il danese Niels Bohr, il
francese Louis de Broglie, gli austriaci Erwin Schrödinger e Wolfgang Pauli, il tedesco
Werner Heisenberg e l’inglese Paul Dirac. Questi uomini unirono le loro forze al di là di
tutte le frontiere nazionali e diedero vita a uno dei periodi più eccitanti della scienza
moderna, che portò l’uomo, per la prima volta, a contatto con la strana e inaspettata realtà
del mondo subatomico.
Ogni volta che i fisici interrogavano la natura mediante un esperimento atomico, la
natura rispondeva con un paradosso, e quanto più essi cercavano di chiarire la situazione,
tanto più acuto diventava un paradosso. Occorse molto tempo prima che i fisici accettassero
l’idea che questi paradossi appartengono alla struttura stessa della fisica atomica e si
rendessero conto che tali paradossi ricompaiono ogni volta che si tenta di descrivere un
evento atomico nei termini tradizionali della fisica. Non appena compreso questo, essi
cominciarono a imparare a porre le domande giuste e a evitare le contraddizioni. Secondo le
parole di Heisenberg, “essi entrarono in qualche modo nello spirito della teoria quantistica”,
e infine trovarono la formulazione matematica precisa e coerente di questa teoria.
I concetti della meccanica quantistica non erano facili da accettare, anche dopo che
ne fu completata la formulazione matematica. Il loro effetto sull’immaginazione dei fisici
era veramente sconvolgente. Gli esperimenti di Rutherford avevano mostrato che gli atomi,
invece di essere duri e indistruttibili, consistevano di vaste regioni di spazio nelle quali si
muovevano particelle estremamente piccole, e ora la meccanica quantistica chiariva che
anche queste particelle non erano affatto simili agli oggetti solidi della fisica classica. Le
unità subatomiche della materia sono entità molto astratte che presentano un carattere duale.
A seconda di come le osserviamo, ora esse sembrano particelle, ora onde; e questa natura
duale è presente anche nella luce, che può assumere l’aspetto di onde elettromagnetiche o di
particelle. […]
L’apparente contraddizione tra la rappresentazione corpuscolare e quella ondulatoria
fu risolta in un modo del tutto inaspettato che mise in discussione il fondamento stesso della
concezione meccanicistica del mondo: il concetto di realtà della materia. A livello
subatomico, la materia non si trova con certezza in luoghi ben precisi, ma mostra piuttosto
una “tendenza a trovarsi” in un determinato luogo, e gli eventi atomici non avvengono con
certezza in determinati istanti e in determinati istanti e in determinati modi, ma mostrano
una “tendenza ad avvenire”. […]
La meccanica quantistica ha quindi indebolito i concetti classici di oggetti solidi e di leggi
rigorosamente deterministiche della natura. A livello subatomico, gli oggetti materiali solidi
della fisica classica si dissolvono in configurazioni di onde di probabilità e queste
configurazioni in definitiva non rappresentano probabilità di cose, ma piuttosto probabilità
di interconnessioni.
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FISICA E SPIRITUALITÀ
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Articolo 4: Esempio di esperimento paradossale, il gatto di Schrödinger
Dal sito www.lescienze.it - 25 novembre 2011
[…] Erwin Schrödinger, uno dei padri della meccanica quantistica, formulò il suo
paradosso nel 1935 per mettere in luce l’apparente assurdità del principio di
sovrapposizione, secondo cui un oggetto quantistico non osservato può trovarsi in più stati
differenti (più precisamente in una sovrapposizione di stati differenti). Egli propose una
situazione immaginaria in cui una scatola contiene un nucleo radioattivo, un contatore
Geiger, una fiala di gas e un gatto. Il contatore Geiger è predisposto per rilasciare il gas
velenoso, in grado di uccidere il gatto, se rivela una qualunque radiazione derivante da
decadimento nucleare. Il sistema segue in definitiva le regole della meccanica quantistica,
perché il decadimento nucleare è un processo quantistico.
Se l’apparato viene osservato dopo qualche tempo, il nucleo potrebbe essere
decaduto o meno, e in definitiva il gatto può essere o meno morto. La meccanica quantistica
ci dice però che, prima che l’osservazione venga fatta, il sistema è in una sovrapposizione di
entrambi gli stati: il nucleo è decaduto e non decaduto, il veleno rilasciato e non rilasciato e
il gatto è sia vivo sia morto.
Il paradosso di Schrödinger serve a esemplificare il fenomeno di "micro-macro
entanglement", in cui la meccanica quantistica permette in linea di principio che un oggetto
microscopico e uno macroscopico possano avere una relazione molto più stretta di quanto
permesso dalla fisica classica.
La via più comune per evitare questo problema è fare appello al concetto di decoerenza quantistica, per cui le interazioni multiple tra un oggetto e l’ambiente circostante
distruggono la coerenza della sovrapposizione di stati e dell’entanglement. Il risultato è che
l’oggetto appare obbedire alla fisica classica, anche se è in realtà soggetto alle regole
quantistiche. […]
La Nebulosa della Carena (nota anche come Nebulosa di Eta Carinae o NGC 3372 o C 92)
nebulosa posta nel cuore della Via Lattea australe, nella costellazione della Carena.
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Articolo n. 5: Una breve “storia” dell’Universo, P. Gabriele Gionti S.I.
L’Universo ha una vita all’incirca di 13,8 miliardi di anni (fino a poco tempo fa si
credeva 13.7 miliardi, ma con gli ultimi risultati del satellite Planck 13.8 miliardi). La teoria
che descrive il nostro universo su larga scala è la teoria della Relatività Generale. Questa
teoria presuppone che lo Spazio-Tempo sia, in realtà, come un’entità fisica (una geometria
quadridimensionale) che è modificata dalla materia-energia (E=mc2 per cui c’è equivalenza
fra materia ed energia). La prima grande conseguenza della cosmologia basata sulla teoria
della Relatività Generale (cosmologia relativistica) è che il nostro universo non è statico,
come si pensava originariamente, ma si espande.
Questo risultato, del tutto teorico, non convinceva lo stesso Einstein, che affermò che
la soluzione era matematicamente corretta ma fisicamente sbagliata. Einstein aveva in
mente un modello di universo che proveniva dalla teoria di Kant-Laplace, in cui l’universo
era come una grande scatola nella quale vi erano tutti gli oggetti celesti. Localmente
potevano avvenire dei fenomeni di allontanamento e avvicinamento fra gli oggetti celesti
ma, globalmente, lo spazio ambiente, in cui tutti gli oggetti erano immersi, rimaneva fisso.
Einstein, per evitare l’espansione, introdusse una costante nelle sue equazioni, quelle
della Relatività Generale, che fu chiamata, successivamente, costante cosmologica. Essa
riusciva ad avere, come soluzione, un Universo statico. Tuttavia la scoperta del “red-shift”,
cioè che le righe spettrali della luce proveniente da corpi celesti erano spostate verso il
rosso, provava che effettivamente gli oggetti celesti si allontanano fra loro.
Altro punto cruciale nel dibattito della cosmologia relativistica moderna è stato il
confronto fra il modello stazionario (Steady State Universe) dell’Universo (che ha avuto
come principale sostenitore l’astrofisico Inglese Fred Hoyle) e il modello dell’atomo
originario, poi chiamato “Big-Bang”. Il problema era: se l’universo si espande la densità di
materia-energia diminuisce, quindi se si osserva il processo all’indietro la densità aumenta
sempre più man mano che si torna nel passato fino al punto di un collasso gravitazionale che
potrebbe essere un inizio? Un punto zero? Questa era l’idea del cosmologo e sacerdote
belga George Lemaître che formulò l’ipotesi dell’atomo originario, cioè che l’universo fosse
iniziato da un istante iniziale in cui tutta l’energia-materia era in uno stato di densità
altissima come concentrata in un atomo “originario”. Successivamente quest’atomo subì un
decadimento, come di solito accade negli atomi instabili, e da qui cominciò il nostro
universo.
La proposta di Lemaître fu alquanto osteggiata dal mondo scientifico perché
sembrava in accordo con il concetto di creazione descritto nella Genesi. Fred Hoyle, con il
modello stazionario, sosteneva che la densità dell’universo rimaneva costante, durante
l’espansione, e non vi era né un inizio né una fine. Nel 1965 Penzias e Wilson, dei Bell
Laboratories, costruirono una grande antenna per le microonde e trovarono che esisteva un
radiazione di microonde di 2.7 K (gradi Kelvin) omogenea e isotropa. Questo provava che
l’universo era omogeneo e isotropo, e che c’era stata una fase in cui l’universo era stato
tanto denso da trattenere la luce. Questa radiazione di fondo cosmica è chiamata C.M.B.
(Cosmic Microwave Background) e si trova a circa a 380.000 anni dopo il Big-Bang. Perciò
il Big-Bang è il solo modello a spiegare la C.M.B.
Una volta stabilita la veridicità della teoria del Big Bang, resta da capire cosa sia il
Big-Bang. La fisica che indaga questa fase è chiamata Gravità Quantistica (Quantum
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Gravity). Non avendo, per adesso, una teoria universalmente accettata e consolidata di
Gravità Quantistica, ci sono diverse proposte (Teoria delle Stringhe, Loop Quantum Gravity,
Geometria non-commutativa) ma nessuna sembra convincente (anche perché non abbiamo
nessun segnale dall’Universo primordiale prima della barriera della C.M.B.). Ciononostante
il Big Bang continua a creare inquietudini nella “coscienza” di molti scienziati perché
sembra un argomento simile alla “creatio ex nihilo”, e, inoltre, sembra invocare la necessità
di un creatore che dia origine all’universo. Il famoso cosmologo Stephen Hawking ha
affermato, in diverse occasioni, che con James Hartle sia riuscito a trovare una soluzione di
Quantum Gravity che eviti il problema dell’inizio e della creazione. La soluzione di
Quantum Gravity è nota come soluzione di Hartle-Hawking. Essa afferma che l’Universo si
trova in una fase originaria, detta “euclidea”, in cui il tempo è immaginario e trattabile come
tutte le altre coordinate spaziali. In questa fase, di fatto, è come se non ci fosse il “tempo”.
Successivamente si ha una “transizione” ad una fase in cui il tempo inizia ed è quello
(Lorentziano) che conosciamo noi (tempo reale). Tuttavia la prima fase si comporta come il
“vuoto” di una teoria fisica (un vuoto instabile, comunque), che Hawking accosta al niente
(filosofico) “originario” (si noti tuttavia che il vuoto fisico, come egli lo intende, non è il
nulla filosofico della “creatio ex nihilo”). Hawking crede che il tempo immaginario della
fase di vuoto dell’universo, rappresenti l’atemporalità della teologia in cui c’era il “nulla”.
Inoltre in questa fase non vi è nessuna singolarità iniziale (questa fase, per analogia, è come
una superficie semisferica bidimensionale che non ha nessuna singolarità, nessun punto
privilegiato per intendersi, a differenza di una superficie conica) e quindi non vi è un inizio
(nessun Big-Bang). Il sistema passa dal nulla atemporale all’Universo, che conosciamo noi,
per effetto-tunnel quantistico (cioè una transizione possibile solo a livello quantistico).
Tuttavia questa non è “La soluzione” della Quantum Gravity, come molti autori ribadiscono.
E’ un modello semi-classico ottenuto tramite molte assunzioni e approssimazioni, che non
spiega nemmeno, in maniera dettagliata, come lo Spazio-Tempo si comporti nelle vicinanze
della singolarità.
Lo studio della CMB ha fatto emergere un altro problema da risolvere: il problema
dell’orizzonte. Se l’universo si è espanso come fa adesso, allora non si spiega che tutta la
radiazione cosmica sia ad una temperatura costante di 2.7 K. Ci sarebbero dovute essere
delle zone, sulla superficie della CMB, non in “connessione causale”. Questo problema fu
risolto, negli anni ottanta, con il meccanismo dell’inflazione, che risolve il problema
dell’orizzonte con una super-espansione originaria esponenziale che a un certo punto
terminò. La super-espansione è causata dalla costante cosmologica introdotta da Einstein,
che origina una sorta di gravità repulsiva. Questo è lo stesso meccanismo che oggi spiega la
recente osservazione che il nostro universo accelera nella sua espansione.
L’inflazione spiega accuratamente l’uniformità della temperatura della CMB. Inoltre
l’inflazione spiega molto bene i dati cosmologici attuali che mostrano un universo
praticamente piatto e infinito. Ma dato che la velocità di propagazione della luce è finita, un
universo infinito significa che in esso ci sono già regioni che non possono comunicare fra di
loro. Quindi queste zone (dette non in connessione causale) si comportano come Universi
indipendenti e l’unione di tutti questi Universi è chiamato il “Multiverso”. Il concetto
esotico di Multiverso emerge anche in teorie più complicate come l’Inflazione Caotica e la
Teoria delle Stringhe.
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Questo panorama sulla comprensione attuale dell’Universo su larga e piccola scala è
lungi dall’essere completo. Rimane sempre aperta la partita su una comprensione più
profonda dei meccanismi attuali della cosmologia (cosa è effettivamente l’inflazione per
esempio) e della Gravità Quantistica (che cosa è il Big-Bang?). Come si evince, questi
argomenti di frontiera o di “periferia” di cosmologia classica e quantistica tendono sempre a
intersecarsi con questioni filosofiche e teologiche che sempre, anche se latentemente,
evidenziano l’eterno anelito dell’uomo a dare rispose sull’esistenza del mondo e sul destino
dell’uomo che lo abita.
LH 95: formazione stellare nella Grande Nube di Magellano, nella costellazione del Dorado.
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Articolo n. 6: Esiste il caso?, Sigfrido Boffi
Si possono distinguere due nozioni di caso, quella matematica e quella fisica.
Secondo Kolmogorov una sequenza di numeri è casuale quando non esiste un processo
computabile che la può riprodurre e che sia meno complesso di essa.
Il concetto di caso in fisica sembra essere complementare del concetto di
determinismo. Possiamo dire che una storia è casuale quando non può essere modello di
nessuna teoria deterministica. Siccome può restare il sospetto che sia nostra l’incapacità di
trovare la teoria deterministica di una data storia, forse è più corretto dire che una storia è
casuale quando non solo non esiste una teoria deterministica che la comprenda, ma abbiamo
anche buone ragioni per ritenere che non ne esisteranno mai.
Mutationem motus proportionalem esse vi motrici impressae et fieri secundum
lineam rectam qua vis illa imprimitur. L’enunciato della seconda legge della meccanica di
Newton, nel dichiarare che la variazione di velocità di un corpo risulta proporzionale alla
forza impressa e avviene nella sua stessa direzione, è all’origine del rapporto di causa ed
effetto tipico del determinismo, uno dei pilastri dello statuto della fisica classica affermatosi
da Galilei fino agli inizi del XX secolo. Il principio che ogni effetto abbia una causa ha
animato tutta la ricerca scientifica moderna nel tentativo di raggiungere una comprensione
oggettiva dei fenomeni naturali dandone una spiegazione in termini di proprietà della realtà
che si manifesta nei fenomeni stessi. In questo spirito rientra la famosa frase di Laplace
tratta dal suo Essai philosophique sur les probabilités del 1814: “Un’Intelligenza che
conoscesse, a un dato istante, tutte le forze da cui è animata la natura e la disposizione di
tutti gli enti che la compongono e che inoltre fosse sufficientemente profonda da
sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe in una stessa formula i movimenti dei più
grandi corpi dell’universo e degli atomi più leggeri; per essa nulla sarebbe incerto e ai suoi
occhi sarebbero presenti sia il futuro che il passato.” Spesso però si omette di citare quello
che lo stesso Laplace sottolinea poche pagine dopo: “Ma l’ignoranza delle diverse cause che
concorrono alla formazione degli eventi come pure la loro complessità, insieme con
l’imperfezione dell’analisi, ci impediscono di conseguire la stessa certezza rispetto alla
grande maggioranza dei fenomeni. Vi sono quindi cose che per noi sono incerte, cose più o
meno probabili, e noi cerchiamo di rimediare all’impossibilità di conoscerle determinando i
loro diversi gradi di verosimiglianza. Accade così che alla debolezza della mente umana si
debba una delle più fini e ingegnose fra le teorie matematiche, la scienza del caso o della
probabilità.” E in realtà, come riprende Poincaré in Science et méthode nel 1908, in talune
circostanze “una causa piccolissima che sfugge alla nostra attenzione determina un effetto
considerevole che non possiamo non vedere; allora diciamo che quell’effetto è dovuto al
caso. Se conoscessimo esattamente le leggi della natura e la situazione dell’universo
all’istante iniziale, potremmo predire esattamente la situazione dell’universo a un istante
successivo. Ma quand’anche le leggi naturali non avessero nessun segreto per noi,
potremmo conoscere la situazione iniziale pur sempre solo approssimativamente. Se ciò ci
permettesse di predire la situazione successiva con la stessa approssimazione, ciò è tutto
quello che richiediamo, e diremmo che il fenomeno è stato predetto, che è governato da
leggi. Ma non sempre è così; può succedere che piccole differenze nelle condizioni iniziali
ne producano di grandissime nei fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produrrà un
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errore enorme nei secondi. La predizione diventa impossibile e noi abbiamo il fenomeno
casuale.”
L’impossibilità pratica di definire con precisione le condizioni iniziali, unita alle
difficoltà di risolvere analiticamente le equazioni del moto di un sistema costituito da molte
particelle, rende imprevedibile l’evoluzione su tempi lunghi: diciamo allora che il fenomeno
diventa caotico e il risultato delle nostre osservazioni appare casuale. Dunque il caso si
accompagna all’impredicibilità e l’impredicibilità può scaturire anche quando la storia, cioè
l’evoluzione temporale del fenomeno, è governata dalle leggi deterministiche della
meccanica newtoniana.
Il moto dei pianeti appare molto regolare nella sua periodicità: nessun moto appare
più stabile di quello delle stelle del cielo. Spesso le eventuali irregolarità osservate possono
essere per lo più imputate a perturbazioni dovute a effetti trascurati nella trattazione teorica
che di regola hanno effetto su una scala temporale secolare. Tuttavia, come già Poincaré ha
dimostrato nel 1892 nella sua Méchanique céleste, il problema di prevedere esattamente la
posizione di un satellite, che si muove in presenza del suo pianeta e del Sole sulla base delle
equazioni della meccanica newtoniana, non è risolubile per via analitica e quindi può
portare a situazioni impredicibili. In realtà, esistono aree di moto caotico nel sistema solare,
come per esempio la regione percorsa dagli asteroidi tra Marte e Giove, responsabile della
caduta imprevedibile di meteoriti verso la Terra. […] Un caso esemplare di impredicibilità è
quello di Iperione, un satellite di Saturno dalla forma molto irregolare, quasi una palla da
rugby […]. Iperione ruota intorno a Saturno in poco più di 21 giorni con un’eccentricità
dell’orbita molto accentuata e con un’orientazione del proprio asse di rotazione molto
irregolare: al passaggio della sonda spaziale Voyager 1 nel novembre 1980 la precisione di
dieci cifre significative nella misura dell’orientazione del suo asse di rotazione non sarebbe
stata sufficiente per prevedere l’orientazione al tempo del passaggio della sonda Voyager 2
nell’agosto 1981 nove mesi più tardi.
Fin qui il caso emerge come risultato di difficoltà di natura conoscitiva dovuta alla
nostra incapacità tecnica o alla nostra ignoranza dei dati necessari per recuperare una
descrizione deterministica quale viene ipotizzata immaginando che nel microscopico
l’interazione tra le particelle di ogni corpo sia in ultima analisi conoscibile e riconducibile a
forze (conservative) da includere nella trattazione teorica della fisica classica. La meccanica
statistica, fondata sul concetto di probabilità e sull’idea di un comportamento medio delle
particelle di un insieme composito, è solo un elegante e geniale modo di affrontare il
problema che non si saprebbe risolvere esattamente da un punto di vista microscopico. Il
caso dunque è sinonimo di impredicibilità, un’impredicibilità dovuta a limitazioni pratiche
della nostra indagine, ma sopravvive la convinzione che in ultima analisi nel microscopico
debbano valere leggi deterministiche.
Accanto alle difficoltà epistemiche esistono però anche difficoltà di principio che
solo nel XX secolo sono state messe in luce con la fisica quantistica. Questa ha prodotto un
drammatico riorientamento di prospettiva di fronte ai fenomeni naturali. Il compito dello
scienziato consiste nello scoprire le connessioni tra le singole osservazioni e stabilire un
quadro concettuale coerente che permetta di dare una soddisfacente descrizione dei
fenomeni stessi: “la fisica deve descrivere solo il complesso delle osservazioni”, dice
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Heisenberg nel suo fondamentale lavoro in cui scopre il principio di indeterminazione1. Il
fenomeno che interessa ora il fisico non è più quello oggettivo della fisica classica, è
strettamente legato al processo di osservazione. Se si vuole conoscere la posizione di una
particella, la si deve osservare con uno specifico strumento (p.es. un microscopio) e nel
momento in cui la si osserva occorre eseguire una serie di operazioni che coinvolgono vari
processi fisici. Ciò comporta che, all’interno della sensibilità dello strumento di misura della
posizione, questa possa essere determinata solo con una contemporanea impredicibile
variazione della quantità di moto che non permette più di sapere in quale direzione si possa
muovere la particella in un istante successivo. Viceversa, una misurazione di quantità di
moto fa perdere conoscenza della sua localizzazione. Il fenomeno non è il dispiegarsi nel
tempo di una realtà oggettiva, indipendente da chi l’osserva; diventa piuttosto l’incontro tra
l’osservatore e la realtà osservata. Alla realtà oggettiva si sostituisce la realtà percepita e le
leggi della meccanica newtoniana diventano inapplicabili. “Nella formulazione del principio
di causalità: ‘se conoscessimo in modo preciso il presente, possiamo prevedere il futuro’,
non è falsa la conclusione, bensì la premessa. In linea di principio – ribadisce Heisenberg –
noi non possiamo conoscere il presente in tutti i suoi dettagli… Siccome tutti gli esperimenti
sono soggetti alle leggi della meccanica quantistica, … mediante la meccanica quantistica
viene stabilita definitivamente la non validità del principio di causalità.”
Se cade il principio di causalità, si afferma la casualità. Prima dell’osservazione non è
dato conoscere la posizione della particella se non per inferenza sulla base di precedenti
conoscenze. Ma non è affatto garantito che una predizione in questo caso venga corroborata
dalla successiva misurazione. Anzi la misurazione, determinando un preciso risultato tra
tutti quelli a priori possibili, ha l’effetto di una scelta irreversibile, improvvisa e del tutto
imprevedibile. Questo è il caso per esempio di elettroni che attraversano uno schermo in cui
sono praticate due piccole fenditure e che poi vengono raccolti su uno schermo finale. Lo
schema, che ricalca quello di Young proposto per le onde nel 1802, ha avuto una prima
realizzazione pratica nell’esperimento svolto dal gruppo giapponese di A. Tonomura […]
con un fascio di elettroni di così bassa intensità da permettere in pratica di osservare l’arrivo
del singolo elettrone sullo schermo finale. Ogni elettrone percorre la stessa storia dalla
sorgente allo schermo con le fenditure, ma poi raggiunge una posizione assolutamente
imprevedibile. Solo l’osservazione permette di conoscere questa posizione. “Ogni
osservazione è una scelta all’interno di una completezza di possibilità, con restrizione di
possibilità future,” diceva ancora Heisenberg nel suo lavoro. L’evento singolo non è
prevedibile a causa del principio di indeterminazione: se si pensa di localizzare l’elettrone
immaginando che sia passato da una delle due fenditure, si perde cognizione della sua
quantità di moto e non si può più prevedere in quale punto raggiungerà lo schermo finale.
Ma quando si raccoglie un numero via via crescente di elettroni si vanno formando
sempre più nitidamente delle regioni in cui questi più si addensano e altre che quasi non
vengono mai raggiunte: sono le tipiche frange di interferenza di un comportamento
ondulatorio degli elettroni che attraversano le due fenditure. Il fenomeno dunque non è
l’evento del singolo elettrone che arriva sullo schermo finale, ma è il comportamento
ondulatorio degli elettroni messo in evidenza dal dispositivo sperimentale di osservazione.
Dal caso emerge la regolarità statistica che la meccanica quantistica spiega perfettamente
1
W. K. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik,
Zeitschrift für Physik 43 (1927) 172-198)
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ricorrendo all’interpretazione statistica della funzione d’onda che descrive il moto degli
elettroni.
“Dato che ora il carattere statistico della teoria quantistica è così strettamente
collegato con l’imprecisione di tutte le osservazioni, si potrebbe essere indotti a supporre
che dietro al mondo statistico percepito si nasconda un mondo ‘reale’ in cui valga il
principio di causalità.” Questo dubbio, sollevato da Heisenberg, ma anche da de Broglie e
ripreso nel 1935 da Einstein con i suoi collaboratori Podolski e Rosen, suggerisce
un’incompletezza della descrizione quantistica che, basata sul principio di indeterminazione,
non avrebbe accesso a variabili che agiscono a un livello più profondo restandole nascoste e
permettendo di recuperare il determinismo della fisica classica. Il dubbio è stato fugato da
John Bell nel 1964 con le sue famose disuguaglianze che, se violate, dimostrerebbero
l’inesistenza di tali variabili nascoste. E la verifica di tale violazione ottenuta agli inizi degli
anni ’80 dal gruppo di Alain Aspect indica che la meccanica quantistica deve per il
momento ritenersi completa nella descrizione dei fenomeni, limitandosi a rendere conto di
una realtà percepita e rinunciando ad affermazioni sulla natura ‘vera’ della realtà che
soggiace ai fenomeni stessi. Se questa realtà sia casuale o deterministica non rientra nel tipo
di risposte che la fisica moderna può dare.
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NGC 5584: galassia a spirale nella costellazione della Vergine.
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Articolo n. 7: Scienza e società - La responsabilità sociale dello scienziato,
Nicola Cabibbo
Da Les enjeux de la connaissance scientifique, Pontifical Academy of Sciences, Extra series
11, Città del Vaticano 2001
Il secolo appena trascorso ha visto una enorme espansione delle conoscenze
scientifiche e delle capacità tecnologiche dell’umanità. Questi progressi hanno modificato in
modo sostanziale la nostra visione del mondo e della natura:
- In fisica le nostre conoscenze sono state rivoluzionate dall’avvento della relatività,
della meccanica quantistica, dalle scoperte sul funzionamento dell’atomo e del nucleo
atomico, dalle teorie unificate delle forze elementari.
– Le nostre concezioni cosmologiche sono state rivoluzionate dalla teoria di Einstein
della gravità, dalla scoperta della sorgente energetica del Sole e delle stelle, dalla scoperta
dell’espansione dell’universo e del Big-Bang.
– Le conoscenze sulla natura della materia vivente sono state rivoluzionate dalla
scoperta delle basi molecolari della eredità genetica, con meccanismi sostanzialmente
uniformi in tutti gli esseri viventi, e questo ha permesso di porre su solide basi le teorie
darwiniane dell’evoluzione.
Le nuove conoscenze hanno portato nuove capacità tecnologiche ed hanno profondamente
modificato il nostro modo di vivere, di lavorare, di curarci, di comunicare e di muoverci. Le
nuove capacità tecnologiche hanno cambiato, e stanno cambiando, la struttura dei rapporti
sociali, della società stessa. Nel giudicare l’entità delle modificazioni teniamo presente
l’inerzia della struttura sociale, che deriva dalla resistenza dell’adulto ad accettare il nuovo.
Dato però che questa resistenza trova un orizzonte ineluttabile nell’alternarsi delle
generazioni, possiamo attenderci che la vera dimensione dell’impatto di tecnologie quali
quella di Internet o quella delle manipolazioni genetiche, che già oggi appare imponente, si
manifesterà pienamente solo nei prossimi decenni. Per convincersi di questo fatto, basta
pensare ai cambiamenti sociali derivati dalla diffusione dell’automobile privata, una
innovazione che data dalla fine del secolo diciannovesimo, ma che solo nella seconda metà
del secolo scorso ha dispiegato pienamente i suoi effetti sulla struttura sociale. Le
modificazioni della struttura sociale prodotte dal progresso tecnologico hanno molti aspetti
positivi, ma pongono non poche preoccupazioni, ed è sul difficile bilancio tra aspetti positivi
e negativi delle nuove tecnologie che si gioca il problema della responsabilità sociale dello
scienziato e, come vedremo, non solo dello scienziato. In molti casi le innovazioni
tecnologiche si traducono in un ampliamento delle possibilità offerte al pieno dispiegarsi
della vita umana in tutti i suoi aspetti: innovazioni in medicina – siamo appena agli inizi
dello sfruttamento delle possibilità offerte dalle nuove conoscenze sulla genetica
molecolare, innovazioni nei trasporti – che sembrano già avere raggiunto una certa maturità,
innovazioni nei mezzi di comunicazione, che sono in rigoglioso sviluppo. Non sembra
necessario dilungarsi oltre sugli aspetti positivi delle nuove tecnologie e su quelli ancora
maggiori che possiamo intravedere: essi sono dinanzi ai nostri occhi. Esistono però aspetti
negativi, o che destano preoccupazione. Li possiamo rozzamente dividere in quattro
categorie:
– Problemi etici.
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– Problemi ambientali e di sostenibilità.
– I problemi posti dall’applicazione militare delle nuove tecnologie.
– Problemi di giustizia.
Al di là dei problemi etici interni alla professione del ricercatore, legati ad esempio
alla verità ed onestà delle comunicazioni scientifiche o al rispetto dei collaboratori e del loro
contributo, ce ne sono alcuni di portata più generale, ed a questi dobbiamo rivolgere la
nostra attenzione. Le tecnologie emergenti comportano gravi questioni etiche nella sfera
della integrità e del rispetto della persona umana. Diamo due esempi: le nuove tecnologie
della comunicazione rappresentano una grave minaccia al diritto dell’individuo alla
riservatezza. La telefonia cellulare ci permette di comunicare da qualsiasi luogo, ma allo
stesso tempo lascia una traccia dei nostri spostamenti nel corso della giornata. Analoghi
problemi si pongono agli utenti della posta elettronica o delle carte di credito. Nel loro
insieme queste possibili violazioni della privacy toccano o sono destinate a toccare la quasi
totalità della popolazione. Anche le nuove tecnologie di analisi e manipolazione della
materia vivente aprono grandi questioni etiche. Basti pensare alle possibilità, offerte dalla
decrittazione del genoma umano, di identificare una predisposizione a particolari malattie, e
questo sia sull’adulto, che potrà vedersi negare una assunzione o una assicurazione, sia sul
nascituro, con le conseguenze immaginabili. Alcuni di questi problemi sono stati discussi in
un incontro sugli aspetti legali del Progetto Genoma, organizzato dalla Pontificia Accademia
delle Scienze nel 1993.1 Lo sviluppo delle attività umane è tale che l’intero pianeta, con
limitate eccezioni quali la Groenlandia e l’Antartide, è stato modificato nei suoi equilibri.
Questo impone gravi responsabilità all’umanità nel suo complesso. La sopravvivenza della
terra dipende ormai dalle nostre scelte, e con essa la sopravvivenza della specie umana. Si fa
sempre più evidente la necessità di assicurare la sostenibilità nel tempo dell’utilizzo delle
risorse che la terra fornisce. Non è questo il luogo per analizzare la lunga lista dei problemi
ambientali, che toccano tutti gli aspetti dei meccanismi di equilibrio del pianeta, dalla
atmosfera (buco dell’ozono, effetto serra e possibili modificazioni climatiche), agli oceani
(inquinamento, minaccia di una crescita del livello del mare), alla biosfera (grave decrescita
della biodiversità). Alcune delle nuove tecnologie potrebbero avere una influenza positiva;
ad esempio la facilità di comunicazione potrebbe ridurre la necessità di spostamenti fisici.
Al contrario le tecnologie di manipolazione della materia vivente possono aggravare la crisi
della biodiversità, tramite l’introduzione di specie vegetali od animali standardizzate a
detrimento della varietà di specie oggi utilizzate. Alcuni di questi problemi sono stati toccati
nella settimana di studio sul problema del cibo nei paesi in via di sviluppo, tenuta nella
Pontificia Accademia della Scienze nel 1998. È chiaro tuttavia che le maggiori minacce
all’ambiente derivano dalle tecnologie ‘pesanti’, quali energia, trasporti e produzione di
cibo, il cui impatto, a parità di scelte tecnologiche, è direttamente proporzionale alla
dimensione della popolazione umana e del suo livello di benessere materiale. È quindi
importante che tutti gli sforzi vengano fatti per diminuire l’impatto ambientale di queste
attività mediante lo sviluppo di tecnologie più sostenibili di quelle odierne. Il problema delle
applicazioni militari della tecnologia è gravissimo: gran parte degli investimenti in
tecnologia dei paesi in via di sviluppo è destinato a tecnologie militari, e le nuove tecnologie
creano nuove preoccupazioni sul piano umanitario, ad esempio la possibilità di perdita della
vista che deriva dall’uso di armi laser. Ricordiamo infine l’esistenza di gravi problemi di
giustizia distributiva. Molti paesi sono oggi tagliati fuori dallo sviluppo della scienza e della
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tecnologia, una situazione recentemente denunciata da Giovanni Paolo II in occasione del
Giubileo dei lavoratori. Il quadro non è interamente negativo: lo sviluppo delle
comunicazioni ha di molto diminuito il costo della partecipazione allo scambio di
informazioni scientifiche. Questo ha permesso a paesi come l’India, dotati di un buon livello
di istruzione tecnica, di sviluppare una fiorente industria del software. I costi, benché ridotti,
rimangono tuttavia troppo alti per i paesi più poveri, come quelli africani, che avrebbero
molto bisogno di sviluppare il proprio livello di istruzione e di partecipazione alla ricerca.
In questo quadro con molte luci e molte ombre, gli scienziati assumono particolari
responsabilità, in quanto collettivamente depositari delle conoscenze scientifiche che
permettono di valutare tempestivamente i problemi emergenti sia a livello etico che a livello
ambientale, e di contribuire alla loro soluzione. Ma a questi problemi devono essere attenti.
Nella enciclica Fides et Ratio, Papa Woytila rivolge un pressante invito agli scienziati: «a
continuare i propri sforzi senza mai abbandonare l’orizzonte sapienziale in cui i progressi
della scienza e della tecnologia siano uniti a quei valori etici e filosofici che sono il marchio
distintivo ed indelebile della persona umana». Con queste parole ci potremmo fermare se
non fosse che i problemi cui abbiamo accennato, nella loro dimensione planetaria, non
possono essere affrontati dai soli scienziati. Gli scienziati sono sì depositari delle
conoscenze tecnico-scientifiche necessarie, ma il loro potere è minimo. Gli scienziati non
sono ‘decisori’. Quindi, certamente, lo scienziato deve tenere presenti le conseguenze del
suo operare, ma questo non basta se le sue preoccupazioni non trovano attenzione da parte
di chi, sia egli un uomo di governo, o un leader dell’industria, ha i mezzi per agire. La storia
recente mostra che spesso gli scienziati hanno svolto il loro compito, ad esempio nel mettere
in guardia i governi sui rischi della corsa agli armamenti nucleari, o più recentemente con
l’allarme sulle alterazioni climatiche e sulle minacce alla biodiversità. La loro voce però è
raramente ascoltata. Sorge qui una specifica responsabilità degli uomini di governo, che
devono imparare a recepire, e se necessario a sollecitare la voce della scienza. Tutto questo
richiede la creazione di canali di comunicazione tra il mondo della scienza e quello del
governo, che per le loro caratteristiche possano essere considerati autorevoli ed affidabili.
Questo ruolo non può essere garantito dalle grandi istituzioni di ricerca, quali il CNRS in
Francia, o il CNR in Italia. Queste istituzioni, come altre similari nei due paesi, siano essi il
CEA (Commissariat à l’Energie Atomique), o l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare), non sono attrezzati per operare sull’orizzonte sapienziale, ma su precisi
programmi di ricerca. Il ruolo di interfaccia dovrebbe allora essere demandato ad organismi
che possano raccogliere e mobilitare il meglio della ricerca scientifica, mantenendosi in
grado di fornire agli uomini di governo un supporto per quanto possibile imparziale. Questo
ruolo sembrerebbe naturalmente dover ricadere sulle Accademie. Da questo punto di vista
l’esperienza è molto differente nei vari paesi. Un esempio sicuramente positivo è quello
offerto dalla National Academy of Science degli Stati Uniti, cui il governo spesso
commissiona studi su argomenti rilevanti per gli interessi nazionali. La situazione è meno
brillante in Italia, dove la prestigiosa Accademia dei Lincei è raramente ascoltata ed anche
più raramente interpellata. Non conosco abbastanza la situazione francese per potere
commentare sul ruolo che in quel paese ha la Académie des Sciences, ma forse i nostri
colleghi d’oltralpe ci possono illuminare su questo punto. Desidero ricordare l’esempio
della Pontificia Accademia delle Scienze. L’Accademia Pontificia è veramente
internazionale e i suoi membri sono scelti sulla base della loro eccellenza scientifica senza
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riferimento alla appartenenza alla Chiesa Cattolica. L’Accademia gode di un intenso
colloquio con Il Santo Padre, da cui direttamente dipende, ed è spesso chiamata ad
esprimere l’avviso del mondo della scienza, non solo su problemi di natura epistemologica,
che sono di diretto interesse per il Magistero della Chiesa e per lo sviluppo del suo
insegnamento, ma anche sui grandi problemi dell’umanità, sui quali il Sommo Pontefice fa
spesso udire la sua voce autorevole. Vorrei conchiudere ricordando un episodio
paradigmatico, riportato da Regis Ladous nella sua storia della Pontificia Accademia delle
Scienze (Des Nobel au Vatican, éd. du Cerf, Paris 1994). Nel 1943, due anni prima di
Hiroshima, Pio XII lanciò un autorevole allarme contro lo sviluppo degli armamenti
nucleari. Questa denuncia fu resa possibile da uno dei primi membri della Pontificia
Accademia delle Scienze, il luterano Max Planck, insignito del Premio Nobel per la
scoperta dei quanti. Questo episodio dimostra quale potenziale possa avere una aperta
collaborazione tra il mondo scientifico ed una grande autorità morale come quella del
papato.
Centaurus A (nota anche come NGC 5128): galassia peculiare nella costellazione del Centauro.
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Articolo n. 8: La lettera di Albert Einstein su Dio, quello Spirito che si rivela
nel cosmo
Dal sito www.uccronline.it - 7 ottobre 2012
Con la data del 3 gennaio 1954 venne indirizzata al filosofo Erik Gutkind, a
Princeton. Si tratta di una lettera di Albert Einstein su Dio, che vale oggi 3 milioni di dollari.
Uno dei tanti documenti in cui il Premio Nobel per la Fisica esprime il proprio punto
di vista su Dio e sulla religione. In molte lettere e in molti articoli ha citato Dio come
preoccupazione maggiore emersa non certo da una base religiosa personale - che non aveva
-, ma dallo studio scientifico del cosmo, delle sue leggi, dell’ordine e dell’intelligenza che
dietro a tutto questo inesorabilmente si rivela. «Trovi sorprendente che io pensi alla
comprensibilità del mondo come a un miracolo o a un eterno mistero?», domandava a
Maurice Solovine nella lettera scritta nel 1956. «A priori, tutto sommato, ci si potrebbe
aspettare un mondo caotico del tutto inafferrabile da parte del pensiero. Ci si potrebbe
attendere che il mondo si manifesti come soggetto alle leggi solo a condizione che noi
operiamo un intervento ordinatore. Questo tipo di ordinamento sarebbe simile all’ordine
alfabetico delle parole di una lingua. Al contrario, il tipo d’ordine che, per esempio, è stato
creato dalla teoria della gravitazione di Newton è di carattere completamente diverso: anche
se gli assiomi della teoria sono posti dall’uomo, il successo di una tale impresa presuppone
un alto grado d’ordine nel mondo oggettivo, che non era affatto giustificato prevedere a
priori. È qui che compare il sentimento del “miracoloso”, che cresce sempre più con lo
sviluppo della nostra conoscenza. E qui sta il punto debole dei positivisti e degli atei di
professione, che si sentono paghi per la coscienza di avere con successo non solo liberato il
mondo da Dio, ma persino di averlo privato dei miracoli».
Einstein, nel caso si dovesse per forza etichettarlo, era certamente deista, ovvero
affermava il cosiddetto “Dio degli scienziati”, l’Essere che per forza di cose ha creato e
ordinato ma che poi si è tenuto in disparte. È il Dio a cui la sola ragione dell’uomo (come
diceva Pio IX), può permettersi di approdare senza l’aiuto della fede, leggendo con
intelligenza i segni della realtà. Diceva ancora il prestigioso scienziato: «La mia religiosità
consiste in un’umile ammirazione di quello Spirito immensamente superiore che si rivela in
quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della
realtà. Voglio sapere come Dio creò questo mondo. Voglio conoscere i suoi pensieri; in
quanto al resto, sono solo dettagli. «La scienza», secondo lui, «contrariamente ad
un’opinione diffusa, non elimina Dio. La fisica deve addirittura perseguire finalità
teologiche, poiché deve proporsi non solo di sapere com’è la natura, ma anche di sapere
perché la natura è così e non in un’altra maniera, con l’intento di arrivare a capire se Dio
avesse davanti a sé altre scelte quando creò il mondo». É il riconoscimento evidente di un
Dio che ha operato, che ha fatto determinate scelte, che ha pensato l’universo.
Un Dio immobile però, disinteressato agli uomini. Tanto che Einstein parlava in
modo molto crudo del Dio rivelato: «un’espressione e un prodotto della debolezza umana.
La Bibbia è una collezione di onorevoli ma primitive leggende per lo più infantili. Nessuna
interpretazione, di nessun genere, può cambiare questo per me». Ma, sempre nello stesso
documento, scriveva anche la famosa frase: «la scienza senza religione è zoppa e la
religione senza scienza cieca». La presunta dicotomia tra scienza e fede è nata per lui da
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«errori fatali».
Il teologo Thomas Torrance, come riporta “Il Tempo”, è stato probabilmente il
massimo esponente dello studio del pensiero religioso di Einstein ed è arrivato alla
conclusione che il celebre fisico «coglieva la rivelazione di Dio nell’armonia e nella
bellezza razionale dell’universo che suscitano un’intuitiva risposta non concettuale nella
meraviglia, rispetto e umiltà associati alla scienza e all’arte». Max Jammer, rettore emerito
della Bar Lan University di Gerusalemme ed ex-collega di Albert Einstein a Princeton, ha
affermato invece che la concezione di Einstein della fisica e della religione erano
profondamente legate, dato che, nella sua opinione, la natura esibiva tracce di Dio, un po’
come una “teologia naturale. Lo scrittore Friedrich Duerrenmatt disse invece: «Einstein
parlava così spesso di Dio che quasi lo consideravo un teologo in incognito. Non credo che
questi riferimenti a Dio possano essere considerati semplicemente dei modi di dire, perché
Dio aveva per Einstein un profondo significato, piuttosto elusivo, di non scarsa importanza
per la sua vita e la sua attività scientifica. Ciò era segno di uno stile profondo di vita e di
pensiero: “Dio” non era un modo di pensare teologico ma piuttosto l’espressione di una
“fede vissuta”». […]
Che cosa non c’è stato in Albert Einstein? É mancato l’incontro cristiano, cioè il
momento in cui - grazie ad un avvenimento preciso, per aiuto dello Spirito e per libertà
personale, dice la Chiesa- l’uomo prende in seria considerazione il fatto che quel Dio così
evidente, ma così lontano, si sia voluto rivelare agli uomini. Il più importante esponente
dell’ateismo scientifico degli ultimi anni, Antony Flew, si è convertito nel 2004 arrivando ad
intuire questo: «Certamente la figura carismatica di Gesù è così speciale che è sensato
prendere in seria considerazione l’annuncio che lo riguarda. Se Dio si è davvero rivelato è
plausibile che lo abbia fatto con quel volto». Einstein, per le circostanze della sua vita, non è
invece arrivato fino a qui, ma tuttavia in una intervista del 1929 ha commentato: «Nessuno
può leggere i Vangeli senza sentire la presenza attuale di Gesù. La sua personalità pulsa ad
ogni parola. Nessun mito può mai essere riempito di una tale vita».
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Articolo n. 9: Il fisico Ugo Amaldi, amore per la scienza e amore per la fede
Dal sito www.uccronline.it - 27 novembre 2012
Amaldi lavora presso il Cern di Ginevra dal 1960, e dal 1982 è docente presso
l’Università di Milano, già direttore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, membro
delle maggiori accademie scientifiche, è tra i maggiori studiosi delle particelle elementari. Il
suo ultimo libro, appena pubblicato, si chiama “Sempre più veloci” (Zanichelli 2012).
Intervistato per l’occasione da Avvenire, ha spiegato: «Le scienze studiano i
fenomeni naturali e nei fatti non hanno nulla da dire alla fede. Però gli scienziati credenti e
quelli che si pongono la domanda sulla fede sentono la necessità di integrare in maniera
coerente la fede e la visione fisica del mondo. Così facendo devono affrontare questioni che
si collocano alla frontiera fra alcune affermazioni del cristianesimo e ciò che loro sanno del
mondo naturale. Difficoltà che talvolta possono essere illuminanti anche per coloro che non
sono scienziati […]. D’altra parte non si può non restare meravigliati dalla complessità e
dalla logica sottese alla maggior parte dei fenomeni naturali e questo è per uno scienziato
credente un’apertura al trascendente».
Quest’ultima riflessione ricorda quella di un altro celebre fisico italiano, il premio
Nobel Carlo Rubbia, il quale pochi mesi fa ha affermato: «L’uomo di scienza non può non
sentirsi umile, commosso ed affascinato di fronte a questo immenso atto creativo, così
perfetto e così immenso e generato nella sua integralità a tempi così brevi dall’inizio dello
spazio e del tempo […]. L’universo si è evoluto in maniera unitaria e coerente, come se
fosse un unico tutto. Ricordiamo a questo proposito le parole della Genesi, dove si dice:
‘Dio pose le costellazioni nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare
giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona’».
L’argomento si sposta poi su una questione originale, ovvero l’assenza della figura di
Cristo nel dibattito tra scienza e fede, infatti «si preferisce parlare del Dio Creatore, del Dio
che mantiene l’universo in essere e non si connette mai la figura del Cristo con le
conoscenze degli scienziati, né queste vengono mai connesse con lo Spirito Santo che, in
quanto scienza e sapienza sarebbe perfettamente a tema». Il motivo potrebbe risiedere, ha
continuato Amaldi, «nel fatto che il rapporto personale che il credente ha con Cristo è
completamente diverso dal rapporto impersonale che lo scienziato ha con i fenomeni
naturali che studia. Viaggiano su piani diversi. Invece il Dio Creatore è strettamente
connesso con la natura che è l’oggetto di studio dello scienziato».
In un’altra intervista ha invece affermato: «[…] Penso che si possa integrare la razionalità
scientifica con la fede che è poi quella che io chiamo la ragionevolezza sapienziale e trova
le sue radici nei libri sacri, nell’esperienza di vita dei santi, nella Rivelazione. Sono due
aspetti diversi del nostro stesso intelletto, che si coniugano con la ragione filosofica
portandoci a guardare il mondo in modo unitario. In tal modo si può costruire una visione
della realtà tale che il problema scienza-fede non si pone».
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Articolo n. 10: Il premio Nobel Charles Townes: «credo in Dio anche grazie
alla scienza»
Dal sito www.uccronline.it - 2 febbraio 2015
Il fisico americano Charles Townes, vincitore del premio Nobel nel 1964 per
l’invenzione che portò alla realizzazione del laser, è stato uno dei pionieri nel campo
dell’astronomia a infrarossi, insieme a un team di colleghi fu il primo a scoprire molecole
complesse nello spazio ed è accreditato per aver determinato la massa di un buco nero
supermassivo al centro della Via Lattea. Il prof. Townes, membro della Pontificia
Accademia delle Scienze, è stato sempre molto interessato alla metafisica, tanto da
affermare: «Credo fermamente nell’esistenza di Dio, basandomi sull’intuizione, sulle
osservazioni, sulla logica, e anche sulla conoscenza scientifica».
Nessuna dicotomia dunque: la sua stessa persona impegnata nella fede cristiana e
nella carriera scientifica, coronata dalla vincita del premio Nobel, dimostra che non vi può
essere alcun conflitto. Ricevendo nel 2005 il Premio Templeton rispose al suo amico (ateo)
fisico Steve Weinberg, noto per la frase: “Quanto più l’universo diventa comprensibile più
appare inutile”:«Devo dirvi innanzitutto che Steve Weinberg mi ha fatto i complimenti per
questo premio. Noi dobbiamo prendere le decisioni in base ad un giudizio, certo, ma
abbiamo anche qualche prova per rispondere. Credo, ad esempio, che il riconoscimento che
questo universo è così appositamente progettato sia una di queste. Questo è un universo
molto particolare e dev’esserci stato un fine». […]
In un’altra occasione scrisse: «la scienza, con i suoi esperimenti e la logica, cerca di
capire l’ordine o la struttura dell’universo. La religione, con la sua ispirazione e riflessione
teologica, cerca di capire lo scopo o significato dell’universo. Queste due strade sono
correlate. Io sono un fisico. Anch’io mi considero un cristiano. Mentre cerco di capire la
natura del nostro universo in questi due modi di pensare, vedo molti elementi comuni tra
scienza e religione. Sembra logico che a lungo i due potranno anche convergere.»
Come spesso ha ripetuto uno dei più noti fisici italiani, Antonino Zichichi, la stessa
scienza avanza e si basa su un atto di fede: «La religione, con la sua riflessione teologica, si
basa sulla fede. Ma anche la scienza si basa sulla fede», scrisse ancora C. Townes. «Come?
Per il successo scientifico dobbiamo avere fede che l’universo sia governato da leggi
affidabili e, inoltre, che queste leggi possano essere scoperte dall’indagine umana. La logica
della ricerca umana è affidabile solo se la natura è di per sé logica. La scienza funziona
attraverso la fede nella logica umana, che può nel lungo periodo comprendere le leggi della
natura. Questa è la fede della ragione […]. Noi scienziati lavoriamo sulla base di un assunto
fondamentale per quanto riguarda la ragione nella natura e la ragione nella mente umana, un
presupposto che si svolge come un principio cardine della fede. Tuttavia, questa fede è così
automatica e generalmente accettata che difficilmente la riconosciamo come una base
essenziale per la scienza.»
Quello del celebre fisico non era il Dio lontano e indifferente di Albert Einstein e dei
deisti, ma l’Uomo incarnatosi 2000 anni fa: «Come una persona religiosa, sento fortemente
la presenza e le azioni di un Essere ben al di là di me stesso, eppure sempre personale e
vicino.»
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Articolo 11: Perché torna la domanda su Dio. Così la fisica spiega
l’inspiegabile origine dell’universo, Umberto Minopoli
Dal sito www.ilfoglio.it – 29 giugno 2015
Il paradosso di Pasteur: un po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a lui. Tre
secoli di modelli cosmologici, mai definitivi. L’ultimo, il neoateista, basato su un’ipotesi
che finisce per essere più metafisica di quella creazionista.
“Un po’ di scienza allontana da Dio ma molta scienza riconduce a Lui”. Louis
Pasteur, il padre della microbiologia, è stato il primo a formulare questa paradossale
conclusione. Applicata alla cosmologia, lo studio delle origini e del destino dell’universo, ha
la forza di una profezia verificata: la domanda su Dio è ridiventata una controversia nella
cosmologia contemporanea, dopo esserne stata espulsa per quasi due secoli. Al culmine di
un avanzamento esponenziale delle conoscenze sul cosmo nella seconda metà del
Novecento, la scienza è tentata da due suggestioni. La prima è inquietata dal paradossale
contrasto tra l’immensa progressione delle conoscenze dell’ultima metà del secolo e la
portata delle domande inevase e irrisolte sull’universo: cosa è stato veramente il Big
Bang? Perché riusciamo a spiegarci solo il quattro per cento della materia che vediamo?
Come è iniziata veramente la vita cellulare? Questa parte della scienza non se la sente
ancora, dinanzi a tanta incertezza, di dichiarare inammissibile scientificamente l’ipotesi di
disegno intelligente, l’ipotesi di Dio. “Molta scienza” ci riporta a domande fondamentali e
senza risposta. Dio non è escluso. Ma c’è una seconda suggestione, opposta, che ritiene
invece che l’accumulo di conoscenza cosmologica degli ultimi settant’anni consenta
finalmente all’umanità di dichiarare chiuse le domande su Dio. Ormai sappiamo quanto
basta, ha scritto Stephen Hawking: gli interrogativi fondamentali della vita hanno risposte e
noi siamo vicini alla verità sul Grande disegno: non c’è un disegnatore!
Su questa convinzione è nata una cosmologia che ha avuto un successo straordinario
nella letteratura divulgativa, con i bellissimi libri di Hawking, Lawrence Krauss, Brian
Greene, Richard Dawkins e altri, dichiaratamente neoateisti, come li definisce Amir Aczel,
matematico, fisico e impareggiabile divulgatore, nel suo libro “Why Science Does Not
Disprove God”. Perché “neo”? Perché la negazione di Dio, che questa cosmologia intende
dichiarare, non fa leva sui tradizionali attrezzi dell’agnosticismo: trappole delle prove
ontologiche, dubbi razionali, ingenuità del letteralismo biblico: Insomma tutto
l’armamentario che tanto piace al nostro professor Odifreddi. La cosmologia neoateista
ritiene di disporre, addirittura, delle prove scientifiche dell’inesistenza di Dio e di essere
vicina al Graal di una Teoria del Tutto (Hawking).
È davvero così? Esistono davvero argomenti scientifici che abilitino la pretesa
neoateista? Le sue asserzioni in larghissima parte non sono sottoponibili alla verifica della
prova e dell’osservazione, Anzi. Vedremo come la sua pretesa finisce addirittura, per gli
argomenti che adduce, per apparire più metafisica delle ipotesi teologiche che intende
combattere, per dirla con Alex Vilenkin, fisico russo e uno dei padri della cosmologia
quantistica.
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Le Galassie Antenne (note anche come NGC 4038/4039 e C 60/61):
due galassie spirali interagenti nella costellazione del Corvo.
Gli ultimi tre secoli potrebbero essere descritti, in termini di modelli cosmologici,
come la progressiva liberazione dal dominio della magia e del racconto mitologico, sulla
nascita e il funzionamento del mondo, per approdare a una cosmologia compiutamente
scientifica. Un superficiale sunto della storia moderna della cosmologia, vista dal lato del
rapporto con la religione, ci darebbe tre modelli prevalenti e in successione tra loro.
Con la fine della spiegazione tolemaica e con le scoperte di Keplero, Newton e
Galilei, il primo modello, nel Sei-Settecento, è la meravigliosa architettura barocca
dell’universo meccanismo, del cosmo orologio. Regolato dalla legge universale della
gravitazione fantasmatica di Newton, il cosmo è un ordine complicato e meccanico in cui un
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Grande orologiaio interviene per aggiustarne i movimenti, lubrificarne i meccanismi e
correggerne gli ingranaggi. La magia dei miti dell’origine e il rigido schema tolemaico si
trasfigurano nel cosmo regolato e ordinato in cui la figura del Grande meccanico orologiaio
tiene la giovane cosmologia copernicana saldamente ancorata alla presenza del divino.
Con il secondo modello, la cosmologia dei Lumi, l’Orologiaio esce di scena e dalla
trama del cosmo. Il divino precipita al rango delle spiegazioni antinomiche, metafisiche e
contraddittorie denunciate nelle due “Critiche” di Immanuel Kant. L’interpretazione del
filosofo di Königsberg dominerà fino a tutto l’Ottocento. E fisserà i paradigmi dominanti
della cosmologia scientifica della modernità: oggetti e forze si muovono, sulla tela dello
spazio e del tempo assoluti, governati unicamente da leggi deterministiche e dal causalismo
meccanico di Newton. Il cosmo è decifrabile esclusivamente con prove, esperimenti e
osservazioni tradotte nel linguaggio matematico. Nato da una “nebulosa primordiale”,
intuisce Kant anticipando la scoperta dell’origine del sistema solare (tutto l’universo
conosciuto del suo tempo), il cosmo illuminista si è evoluto nella figura dell’immenso e del
sublime. Perfettamente comprensibile, per Kant, solo con i mezzi della scienza. Il resto è
speculazione. Solo ciò che si può osservare si può descrivere. Solo ciò che è percepibile dai
sensi è oggetto di scienza e pronunciabile nel linguaggio della scienza. Nessuno spazio per
il divino, per ordini nascosti o finalità intenzionali: le domande ammissibili, continua Kant,
sono quelle circoscritte alla descrizione di ciò che c’è nello spazio e nel tempo. E lì Dio non
appare. Non è il suo territorio, afferma Kant. È pura antinomia e contraddizione, per Kant,
cercare Dio nei fenomeni del cosmo. Dio è oltre. Cercarlo negli eventi fisici è nonsense. Dio
non è mens insita omnibus come volevano Bruno e Spinoza. E non è dato dire, con i mezzi
dell’indagine naturalista, se sia mens super omnia. Dal cosmo dei Lumi scompare lo spazio
per ipotesi di atto creativo e di presenza del sacro. É lo scacco della teologia. Dio diventa
oggetto opaco e precluso ai sensi: non si tocca, non si vede, non se ne avvertono profumi. È
pura speculazione. Il suo territorio si restringe a quello della morale o delle scommesse di
Pascal.
L’ottimismo e l’autosufficienza della fisica dei Lumi motivano la straripante utopia
del marchese di Laplace: “Se esistesse un intelletto umano superiore, che riuscisse a
calcolare, con le attuali conoscenze della meccanica e della fisica, i moti e le direzioni di
ogni corpo e di ogni forza che agisce nell’universo, sarebbe possibile spiegare passato,
presente e futuro di ogni cosa”. Ecco una prima versione nella storia di un’agognata Teoria
del Tutto. La cosmologia si laicizza. Diventa agnostica. É la giustapposizione kantiana e il
definitivo divorzio tra scienza e fede, che segnerà una lunga pagina della modernità. La
morale del tempo è plasticamente fissata nel famoso apologo del perplesso Bonaparte, che
sfogliando la prima edizione della “Exposition du système du monde” (1796) di Pierre
Simon marchese di Laplace, l’opera più importante sulla meccanica celeste dopo i
“Principia Mathematica” di Newton, chiede all’autore: “Non capisco, cittadino, come mai
non abbiate fatto cenno all’azione del Creatore”. E poi, per inciso: “Eppure essa spiega
molte cose”. Cui Laplace replica sorpreso: “Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno
di questa ipotesi”. La storia ha immortalato la risposta di Laplace. Il paradosso sarà che il
tempo (e più scienza) ridarà dignità all’inciso del Bonaparte. L’universo meccanicista,
increato, deterministico e agnostico di Kant e Laplace evolverà nel modello del cosmo
illuminista: infinito e statico, senza storia, meccanico, immoto nell’eternità. Bastevole a se
stesso produce da sé, continuamente, la materia di cui ha bisogno. Questo modello di
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universo resisterà fino agli anni Venti del XX secolo. Poi vacillerà.
Il cosmo è veramente infinito, statico ed eterno? Sarebbe bastato prestare più
attenzione a una strana ed enigmatica domanda che aveva turbato, fin dal Seicento, menti
come quella di Keplero, di Halley e di altri. E che aveva la forma del quesito ingenuo di un
bambino o del delirio di un innamorato: “Perché di notte il cielo è buio?”. Heinrich Wilhelm
Olbers, medico tedesco e astronomo amatoriale, riprovò a formularla un anno prima della
morte di Laplace: “Se l’universo fosse davvero infinito, statico ed eterno e visto che la luce
ha velocità finita, quella delle stelle, di tutte le stelle, dovrebbe aver avuto tutto il tempo di
raggiungerci. E allora perché, di notte, c’è il buio?”. Provate a smontare la logica stringente
di un tale assunto. La spiegazione verrà un secolo dopo, negli anni Venti e Trenta del XX
secolo, appunto. Un arruffato, confusionario e scapestrato impiegato di Berna aveva,
letteralmente, spazzato via il cosmo meccanicista di Newton e ciò che di esso era passato
nella cosmologia dei Lumi e nelle idee dell’Ottocento. Mettendo a soqquadro paradigmi e
certezze del racconto cosmologico da Newton a Kant a Laplace. E sfidando il senso comune
e le convinzioni più intuitive, popolari e radicate. Tutto era sottosopra nelle incredibili ma
inoppugnabili affermazioni della relatività: lo spazio come tela e scenario assoluti, il tempo
che scorre uguale per tutti, le cause che precedono gli effetti, la simultaneità degli eventi
ecc. Eppure la prodigiosa mente di Einstein era inciampata in un problema imbarazzante.
Causato da un residuo di conservatorismo culturale. E da un maldestro tentativo di
soluzione. Il mondo fantastico ma più reale e aderente alla realtà della relatività, ristretta e
generale, era stupendamente raccontato da Einstein in un gruppo di equazioni tormentate,
eleganti, ricche di fattori “misteriosi”: spazi curvi, ruolo della luce, nuove versioni del
fattore tempo, una geometria non euclidea, e una matematica non lineare. Una meraviglia,
complessa ma elegante, che spiegava il cosmo assai meglio di quanto non facesse la
scarnificata, povera e lineare matematica di Newton. Eppure le equazioni contenevano un
baco. Avevano un problema: si sbilanciavano, portavano a risultati impossibili. In quelle
equazioni l’universo non stava fermo. Rischiava di implodere o collassare. Non era statico e
stabile come i moderni, Einstein compreso, pensavano che fosse. Prevalse un atto
conservatore, insieme ingenuo e maldestro, di Einstein: la sua “più grande stupidaggine”
come lui stesso la definirà. Nel tentativo di arrestare quelle equazioni e quell’universo che
non stava fermo, che tendeva al collasso o evaporava negli abissi della morte
termica, Einstein ricorse a una trovata, una soluzione ad hoc delle equazioni: la “costante
cosmologica”, la chiamò. Aggiunse un numero alle sue formule. Un semplice numero:
inspiegato, ineffabile, venuto dal nulla ma con le quantità giuste per stabilizzare l’universo.
Inserito nelle equazioni della relatività generale esso consentiva ai risultati matematici di
consegnarci, di nuovo, l’universo statico e senza tempo della credenza illuminista. Il grande
innovatore pensò, così, di riconciliarsi col tempo e con la logica. Ma era solo un trucco. E
neanche elegante. Infatti scomparirà. Grazie a una scoperta, quella forse più importante
degli ultimi trecento anni: l’universo si espande. Edwin Hubble, l’astronomo americano che
lo scoprì, dette il colpo mortale a una convinzione plurisecolare: l’immobilità del cosmo. A
un tasso costante e persino matematico, ogni attimo le galassie si allontanano le une dalle
altre. Tra loro si crea sempre nuovo spazio. Il cosmo non è statico. Inesorabile. Olbers
aveva, finalmente, una spiegazione. Non c’era paradosso: il cielo di notte è buio perché le
galassie si allontanano. E la luce delle stelle non fa in tempo a raggiungerci. Fu un prete
cattolico, astrofisico belga, Georges Lemaître, a intuire la sconvolgente portata della
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scoperta di Hubble. Egli ragionò: “Se l’universo si espande, vuol dire che se riavvolgessimo
mentalmente all’indietro, come una pellicola rivista dalla fine all’inizio, quello che Hubble
ha osservato, l’espansione, dovremmo esperire una contrazione”. Elementare! E dove
finisce, indietro nel tempo, la contrazione? Dov’è che l’espansione comincia? Le equazioni
di Einstein, finalmente liberate dalla mostruosità del numero ad hoc, provavano che il film
riavvolto dell’espansione di Hubble si concludeva con la contrazione del cosmo in un
“punto”: ineffabile, senza dimensioni. Una singolarità. Era l’inizio del tutto. Al sacerdote
cattolico non sembrò vero: “C’è allora scientificamente l’inizio!”, addirittura testato da
equazioni matematiche! L’universo non solo non è statico ma ha un’origine indietro nel
tempo: “Chi ha messo lì quel punto? Da dove salta fuori un punto, una singolarità, da cui
inizia un cammino, al posto del niente?”, chiedeva trionfante Lemaître. E poteva
concludere: lì, nel punto, ci sono le “carte di Dio”! Il punto, l’inizio, sarà sarcasticamente
chiamato da Fred Hoyle, un geniale diffidente, Big Bang. Non era un bang: era un punto
che, all’improvviso, iniziò a dilatarsi, dando vita a un’espansione. Che continua ancora
oggi. E, persino, accelera. Il cosmo di Einstein, Hubble e Lemaître, quello del Big Bang,
raccontava che l’universo ha una storia. Non è sempre esistito. É nato da un punto che
conteneva un’infinita energia che, per qualche ragione ha preso a dilatarsi, a farsi materia e
a dare vita ai costituenti dell’universo. Ovvio che, da allora, una domanda inevitabile
cominciasse a inquietare la cosmologia scientifica: quale ragione fisica spiega il Big Bang?
A che si deve l’enigmatica dinamica dell’inizio e dell’espansione? Perché il punto, la
singolarità, prese improvvisamente a crescere e dilatarsi? Non c’è spiegazione fisica
(almeno fino a Krauss e Hawking). Solo ipotesi. Per la scienza, però, è tornata in campo la
domanda che Kant riteneva un’antinomia, metafisica e contraddittoria: “Com’è nato tutto?”,
perché c’è qualcosa e non il nulla? La cosmologia scientifica del Big Bang ridà dignità a
dilemmi che gli illuministi (e sant’Agostino) avrebbero definito “speculazione”: cos’è,
realmente, il Big Bang? Cosa c’era prima del “punto”? Dove porterà l’espansione di
Hubble? Con il processo a Galileo la teologia si era distaccata dalla modernità. Con Kant e
l’illuminismo aveva, addirittura, divorziato dalla scienza. Con la fisica del Big Bang, il terzo
modello della cosmologia della modernità, domande che si pensavano teologiche, quelle
sull’origine e sulla fine, tornano a far capolino nella discussione cosmologica. E proprio nel
momento, per dirla con Pasteur, in cui “molta scienza” era entrata, in progressione
esponenziale, nella spiegazione dei fenomeni fisici. Relatività e scienza quantistica
realizzeranno nella seconda metà del Novecento due imprese impensabili: ricostruiranno,
con esattezza scientifica stupefacente, la storia dell’universo, la ricostruzione esatta, fisica e
chimica, del film dell’evoluzione cosmica (13,7 miliardi di anni) fino al Big Bang e ai suoi
primi istanti di vita; scenderanno nelle abissali profondità dell’atomo per scoprire i
costituenti ultimi della materia e, persino, con le stupefacenti macchine del Cern,
ricostruendo in laboratorio le impensabili energie del Big Bang. Per guardare dentro e da
vicino l’inizio di tutto.
Sorge insomma un paradosso imprevisto dall’ottimismo illuminista: più scienza e
fisica entrano nelle spiegazioni dell’universo, più domande emergono, più cresce l’opacità,
l’ineffabilità della materia, l’inquietante dissimulazione dell’origine. Quel punto, l’inizio,
quella singolarità non si lascia decifrare. Non solo. Più penetriamo gli abissi della materia e
le profondità del cosmo, più inciampiamo in misteri disarmanti: conosciamo, ancora
approssimativamente, solo il quattro per cento della materia di cui è fatto l’universo;
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misuriamo la presenza certa di un’energia oscura ma nulla sappiamo di essa (e servirebbe
saperlo per declinare ipotesi sul futuro del cosmo); non sappiamo ancora come è emersa
effettivamente la vita, ecc. Molta fisica, insomma, ci è ancora velata. Sulle cose significative
del Tutto possiamo solo fare ipotesi, congetture, illazioni. Su quelle famose “carte di Dio”
sembra si debba dire quello che Churchill pensava della Russia comunista: un mistero che
cela un enigma che nasconde un segreto.
Alcuni anni fa, in un libretto stupefacente, “Dio e la scienza”, duettando con i fratelli
Bogdanov, astrofisici e istrioni televisivi, un po’ geni e un po’ lestofanti, nipoti
dell’omonimo autore otzovista, amico-nemico di Lenin, Jean Guitton, forse il più eminente
filosofo cristiano del nostro tempo, metteva a nudo le due lacune che, a suo dire,
invalidavano l’ottimismo illuminista e la sua pretesa di realizzare, attraverso l’impresa
scientifica, il programma di Nietzsche: far morire Dio. La prima lacuna è, appunto, il
mistero dell’origine, l’inizio del Big Bang. Guitton lo chiama, elegantemente, “vertigine
d’irrealtà”: come si è prodotto? Da quali processi fisici ed energetici? Cosa c’era prima del
primo istante? É il tempo oscuro del Big Bang. Si vaga nel buio. È curioso: grazie alla fisica
relativista sappiamo quasi tutto dell’evoluzione dell’universo in 13,7 miliardi di anni. Ma
dell’inizio vero sappiamo poco, anzi nulla. La scienza si ferma, sorprendentemente, solo ad
un attimo (in senso letterale) dal Bang. Non è veramente riuscita a penetrare l’inizio. É
costretta a fermarsi un po’ di tempo prima. Quanto tempo prima? Un attimo. La cui
lunghezza e durata ci sono note: 10-43 secondi dopo l’inizio. Un muro. Si chiama “tempo di
Planck”. É considerato in fisica la più piccola durata di tempo concepibile: miliardesime di
miliardesime di miliardesime volte più piccola di un secondo (c’è anche una misura di
Planck che riguarda l’estensione: 10-33 centimetri: la più piccola dimensione concepibile).
Quando si giunge, con la ricostruzione della storia fisica dell’universo a questa distanza dal
Bang, tutto si annebbia: la fisica che utilizziamo smette di funzionare, la matematica salta,
le equazioni vacillano, le conoscenze fisiche diventano inservibili. Entra in campo la fisica
quantistica, che riguarda ogni cosa microscopica, più piccola dell’atomo, con le sue
stranezze. Ma in un modo che fa a cazzotti con la fisica relativistica. Che poi sarebbe quella
che ci ha consentito di arrivare così vicini al Bang. A 10-43 secondi dopo il Bang si
manifesta un divieto. Una sorta di “censura cosmica” evita alla scienza di proseguire oltre e
penetrare il momento vero dell’inizio. É il mistero più grande del Big Bang: il tempo di
Planck! Non è incredibile? Della storia cosmica di 13,7 miliardi di anni siamo riusciti a
ricostruire quasi tutto tranne quel microscopico tempo di 10-43 secondi. Cosa succede lì?
Possiamo solo congetturare. La fisica ipotizza che lì funzioni un mondo diverso da quello
che conosciamo: il tempo e lo spazio sono intrecciati tra loro e non sono distinti; le quattro
forze che governano l’universo conosciuto (forte, debole, gravitazionale ed
elettromagnetica) sono tutt’uno; le dimensioni non sono quattro (altezza, lunghezza,
larghezza e tempo) ma infinite. L’universo del tempo di Planck è un vero guazzabuglio.
Definito dai fisici una “schiuma” in cui tutto è confuso e indefinito, avvolge ancora la vera
conoscenza del Big Bang. Direte: ma si tratta di una frazione di tempo così minuscola!
Com’è possibile che contenga eventi significativi? E invece. Non dimenticate che, in quella
frazione di tempo, gli eventi sono quantistici. Il tempo non è quello macroscopico che
conosciamo. Non è ancora distinto dallo spazio, non scorre, non prosegue inesorabile come
una freccia, non è lineare come lo misuriamo coi nostri orologi. Al tempo di Planck, nella
frazione di 10-43 secondi, attimo ed eternità non sono distinti, così come non lo sono
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passato, presente e futuro. Quel tempo minuscolo, insomma, è anche immenso. Può essere
davvero successo di tutto. E avendo a disposizione tutto il tempo per succedere.
Speculazione? Non tanto. Il tempo di Planck è un problema fisico reale. Entra negli
esperimenti quantistici. É una misura effettiva. Che funziona nelle prove quantistiche. E che
inquieta i fisici: non si accorda con la relatività. Lasciando così la fisica monca. E irrita i
cosmologi: eleva un muro di opacità, mistero e ignoranza sulla vera dinamica del Big Bang.
E, soprattutto, lascia spazio a possibili, disturbanti ipotesi creazioniste.
Per Guitton, c’è una seconda lacuna della cosmologia scientifica. Lui la chiama il
“miracolo matematico” o enigma delle coincidenze. L’universo esibisce una strana
particolarità: le sue leggi appaiono perfettamente decifrabili e traducibili per noi. Ma solo
grazie a un particolare: l’esistenza in natura di alcune costanti, numeri inspiegabili,
adimensionali e immotivati che combinati tra loro ci rendono i costituenti della materia e le
forze che li fanno stare insieme. Insomma esistiamo grazie a quei numeri. Se anche uno di
loro fosse solo leggermente diverso dal valore che ha… noi non ci saremmo. Ad esempio: se
la “costante di struttura fine” (la misura dell’intensità delle interazioni elettromagnetiche)
fosse solo leggermente diversa da 1/137 (un numero primo e senza decimali) la luce non
interferirebbe con la materia e il mondo sarebbe opaco e informe; se la massa del protone
non fosse esattamente 1.836,153 quella dell’elettrone o se le cariche dei quark (le particelle
costitutive di protoni e neutroni) non fossero esattamente speculari e opposte a quelle degli
elettroni, gli atomi non si formerebbero; se la costante gravitazionale di Newton non fosse
esattamente pari a 6,67384 moltiplicata per 10-11, ogni corpo fuggirebbe nel cielo da ogni
altro e non ci sarebbero stelle e pianeti. E così per altri parametri e costanti in natura. Da
dove vengono fuori numeri così coincidenti? Come può essersi verificato questo
misterioso tuning? Può essere frutto del caso? Della lotteria di eventi prodotti solo dalla
probabilità? Certo che no. La probabilità che una combinazione plurima vincente di tante
costanti, sintonizzate tra loro, si sia realizzata per caso, nel “breve” tempo dell’evoluzione
cosmica dal Big Bang, equivale a… zero. Solo un numero infinito di lanci, in un tempo
infinito, della pallina della roulette cosmica avrebbe consentito di realizzare combinazioni
così precise di numeri. No. Il caso non spiega! Guitton ha argomenti solidi: o si ipotizza un
“miracolo matematico” o non abbiamo spiegazioni. Dilemmi urticanti per la cosmologia
ateista.
Come ci si può atteggiare dinanzi a essi? In due modi: alla maniera di Einstein. Se il
cosmo presenta ancora zone d’ombra, dilemmi e misteri, è lecito pensare che ciò avviene
perché esistono variabili nascoste, ribatteva Einstein a Bohr e agli ortodossi delle
“stranezze” quantistiche, e la scienza non è ancora arrivata a scoprirle. Un ragionevole
esempio di sobrietà scientifica. Hawking, Krauss, Greene e Dawkins hanno sposato la tesi
opposta: la realtà non presenta variabili nascoste. Il microcosmo è, realmente,
controintuitivo. L’evidenza quantistica non si raggiunge con lo sperimentalismo “classico”.
Se è coerente con la “stranezza” intima degli assunti quantistici, una teoria può essere
dichiarata vera. Opportunamente interpretata, la fisica dei quanti consente ipotesi accettabili
per spiegare, insieme, il mistero dell’origine e quello delle coincidenze. La prova
dell’inesistenza di Dio è, rassicurano i neoateisti, a portata di mano. Un irragionevole
esempio di eccesso intellettuale. Che, forse, prima o poi, porterà a far fioccare premi Nobel
secolarizzati.
Due sono le fascinose e stravaganti ipotesi che la cosmologia neoateista ha ideato per
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produrre la prova. La prima è la fluttuazione quantistica. Che dovrebbe spiegare l’inizio del
Big Bang. Secondo Lawrence Krauss, la fisica quantistica ha svelato il meccanismo per cui
possono darsi fenomeni privi di causa: eventi che sorgono, letteralmente, dal nulla.
Effettivamente c’è in fisica quantistica un fenomeno accertato: si chiama “pair production”.
Afferma che in uno spazio vuoto può manifestarsi, senza causa apparente, una coppia di
particelle, prima “virtuali” e poi “reali”, che sembrano emergere dal niente. Si chiama
fluttuazione quantistica del vuoto. Attenzione: del vuoto, non del nulla. Per la fisica nulla e
vuoto non sono sinonimi. Il nulla è banalmente il niente. Il vuoto è, invece, un oggetto fisico
reale. Non è il niente. É un qualcosa. In fisica quantistica il vuoto è, in realtà, un pieno: di
campi di forze e di energia, potenziale e latente. E dunque invisibile. Attraverso la
fluttuazione quantistica questa energia potenziale si trasforma, per via della formula
E=mc2 e senza una causa osservabile o un evento scatenante, in energia cinetica di
particelle reali. Dal vuoto è nato qualcosa. Dal vuoto, appunto. Non dal nulla. Nella fase del
tempo di Planck questo può essere successo: che dalle fluttuazioni di un vuoto ricchissimo
di energia potenziale si sia prodotto qualcosa. Quella di Krauss, scrive Amir Aczel, è una
“meravigliosa bugia”, un trucco ingenuo per motivare la non necessità scientifica di ipotesi
creazioniste: il mondo può essere emerso dal niente, dal nulla. E invece no. L’energia non si
crea dal nulla. All’attimo del Big Bang non poteva esserci il nulla. Preesisteva qualcosa:
energia potenziale! Dal nulla non nascono fiori. Ma allora siamo al punto di partenza: chi ha
messo lì quell’energia? Come si è prodotto quel potenziale? Krauss non ci fa fare passi
avanti. Il dilemma dell’origine resta.
La seconda prova, immaginata dalla cosmologia neoateista, è la teoria del multiverso.
Essa dovrebbe liquidare, ad avviso dei suoi sostenitori, il dilemma delle coincidenze. Se nel
caso della teoria di Krauss, del qualcosa dal nulla, si trattava di una “meravigliosa bugia”
qui impattiamo una vera bizzarria metafisica. Anche in questo caso i cosmologi neoateisti
distorcono, forzano e strumentalizzano un’effettiva, ma reale e verificata, stranezza
quantistica: la teoria dei “molti cammini”, secondo la definizione di Richard Feynman, uno
dei padri più geniali della fisica quantistica. L’esperimento più enigmatico della fisica
quantistica, e quello più noto e praticato, è l’esperimento della doppia fenditura. Esso prova
il carattere ambivalente della luce: insieme onda e particella. Lanciate un fotone di luce o
una particella subatomica verso uno schermo con su incisa una doppia fenditura. Da dove
passa la particella? Da quale fenditura? Il risultato dell’esperimento non lascia dubbi: il
fotone o la particella mostrano, inequivocabilmente, di essere passati da entrambe le
fenditure. Pazzesco. Come ha fatto la particella a scegliere? Non ha scelto, afferma
Feynman: ha semplicemente percorso istantaneamente tutti i cammini a essa consentiti: è
passata da entrambe le fenditure e, anche, da nessuna di esse. Tutti i cammini possibili si
sono sovrapposti, dice Feynman. Com’è stato possibile? Ipotesi: essendo un’onda, la
particella (pensate a un’onda del mare) non è in un punto preciso, ma si distribuisce su uno
spazio esteso. Esperisce, così, tutti i cammini che le sono consentiti, in quanto onda, dalle
sue misure: lunghezza, frequenza, altezza. É così? Non si sa. Ma è una spiegazione. Che
fanno i neoateisti? Estrapolano questa ipotesi del mondo subatomico e delle sue enigmatiche
stranezze e la applicano al mondo macroscopico. Traendone una conclusione bizzarra e
metafisica: l’universo intero e tutti gli eventi che in esso avvengono si comportano come
una singola particella di luce o di materia: messo davanti alla decisione di una scelta,
l’equivalente macroscopico della doppia fenditura, non sceglie! Semplicemente: percorre
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tutti i cammini a disposizione. Come? Biforcandosi, moltiplicandosi, realizzando ogni
possibilità a disposizione. A ogni istante le versioni dell’universo si moltiplicano. In un
numero infinito. Ci sono, secondo i teorici del multiverso, infinite versioni reali di ognuno
di noi in universi lontani o vicinissimi (compattati in dimensioni sconosciute) che non si
toccano. Infinite versioni di noi, reali e coscienti. Pensateci: fosse vero avremmo realizzato
la vita eterna. Ovviamente non abbiamo indizi o segnali di esistenza di tali universi. Essi
non sono osservabili in alcun modo. C’è solo da credere. Che significa il multiverso per il
dilemma delle coincidenze? Semplice. Non c’è più dilemma. Esse non sono dovute al caso
e, tantomeno, a un miracolo. Noi osserviamo solo le costanti, i numeri, le combinazioni che,
nell’infinita produzione del multiverso, si sono realizzate qui consentendoci di esistere. Ma
ogni altra versione dei numeri si è realizzata da altre parti. Non c’è tuning e non c’è il
caso. Decisamente un’ipotesi “dispendiosa”, la definisce Samir Aczel. E decisamente più
metafisica dell’ipotesi creazionista.
La Galassia Sigaro (nota anche come M 82 o NGC 3034): galassia starbust nella costellazione dell’Orsa Maggiore.
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Articolo n. 12: A Conversation between Tagore and Einstein on July 14, 1930
Da R. Tagore, The religion of man, George, Allen & Unwin, London 1932
TAGORE: I was discussing with Dr. Mendel today the new mathematical discoveries
which tell us that in the realm of infinitesimal atoms chance has its play; the drama of
existence is not absolutely predestined in character.
EINSTEIN: The facts that make science tend toward this view do not say good-bye
to causality.
EINSTEIN: One tries to understand in the higher plane how the order is. The order is
there, where the big elements combine and guide existence, but in the minute elements this
order is not perceptible.
TAGORE: Thus duality is in the depths of existence, the contradiction of free
impulse and the directive will which works upon it and evolves an orderly scheme of things.
EINSTEIN: Modern physics would not say they are contradictory. Clouds look as
one from a distance, but if you see them nearby, they show themselves as disorderly drops
of water.
TAGORE: I find a parallel in human psychology. Our passions and desires are
unruly, but our character subdues these elements into a harmonious whole. Does something
similar to this happen in the physical world? Are the elements rebellious, dynamic with
individual impulse? And is there a principle in the physical world which dominates them
and puts them into an orderly organization?
EINSTEIN: Even the elements are not without statistical order; elements of radium
will always maintain their specific order, now and ever onward, just as they have done all
along. There is, then, a statistical order in the elements.
TAGORE: Otherwise, the drama of existence would be too desultory. It is the
constant harmony of chance and determination which makes it eternally new and living.
EINSTEIN: I believe that whatever we do or live for has its causality; it is good,
however, that we cannot see through to it.
TAGORE: There is in human affairs an element of elasticity also, some freedom
within a small range which is for the expression of our personality. It is like the musical
system in India, which is not so rigidly fixed as western music. Our composers give a
certain definite outline, a system of melody and rhythmic arrangement, and within a certain
limit the player can improvise upon it. He must be one with the law of that particular
melody, and then he can give spontaneous expression to his musical feeling within the
prescribed regulation. We praise the composer for his genius in creating a foundation along
with a superstructure of melodies, but we expect from the player his own skill in the
creation of variations of melodic flourish and ornamentation. In creation we follow the
central law of existence, but if we do not cut ourselves adrift from it, we can have sufficient
freedom within the limits of our personality for the fullest self-expression.
EINSTEIN: That is possible only when there is a strong artistic tradition in music to
guide the people’s mind. In Europe, music has come too far away from popular art and
popular feeling and has become something like a secret art with conventions and traditions
of its own.
TAGORE: You have to be absolutely obedient to this too complicated music. In
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India, the measure of a singer's freedom is in his own creative personality. He can sing the
composer's song as his own, if he has the power creatively to assert himself in his
interpretation of the general law of the melody which he is given to interpret.
EINSTEIN: It requires a very high standard of art to realize fully the great idea in the
original music, so that one can make variations upon it. In our country, the variations are
often prescribed.
TAGORE: If in our conduct we can follow the law of goodness, we can have real
liberty of self-expression. The principle of conduct is there, but the character which makes it
true and individual is our own creation. In our music there is a duality of freedom and
prescribed order.
EINSTEIN: Are the words of a song also free? I mean to say, is the singer at liberty
to add his own words to the song which he is singing?
TAGORE: Yes. In Bengal we have a kind of song-kirtan, we call it-which gives
freedom to the singer to introduce parenthetical comments, phrases not in the original song.
This occasions great enthusiasm, since the audience is constantly thrilled by some beautiful,
spontaneous sentiment added by the singer.
EINSTEIN: Is the metrical form quite severe?
TAGORE: Yes, quite. You cannot exceed the limits of versification; the singer in all
his variations must keep the rhythm and the time, which is fixed. In European music you
have a comparative liberty with time, but not with melody.
EINSTEIN: Can the Indian music be sung without words? Can one understand a
song without words?
TAGORE: Yes, we have songs with unmeaning words, sounds which just help to act
as carriers of the notes. In North India, music is an independent art, not the interpretation of
words and thoughts, as in Bengal. The music is very intricate and subtle and is a complete
world of melody by itself.
EINSTEIN: Is it not polyphonic?
TAGORE: Instruments are used, not for harmony, but for keeping time and adding to
the volume and depth. Has melody suffered in your music by the imposition of harmony?
EINSTEIN: Sometimes it does suffer very much. Sometimes the harmony swallows
up the melody altogether.
TAGORE: Melody and harmony are like lines and colors in pictures. A simple linear
picture may be completely beautiful; the introduction of color may make it vague and
insignificant. Yet color may, by combination with lines, create great pictures, so long as it
does not smother and destroy their value.
EINSTEIN: It is a beautiful comparison; line is also much older than color. It seems
that your melody is much richer in structure than ours. Japanese music also seems to be so.
TAGORE: It is difficult to analyze the effect of eastern and western music on our
minds. I am deeply moved by the western music; I feel that it is great, that it is vast in its
structure and grand in its composition. Our own music touches me more deeply by its
fundamental lyrical appeal. European music is epic in character; it has a broad background
and is Gothic in its structure.
EINSTEIN: This is a question we Europeans cannot properly answer, we are so used
to our own music. We want to know whether our own music is a conventional or a
fundamental human feeling, whether to feel consonance and dissonance is natural, or a
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convention which we accept.
TAGORE: Somehow the piano confounds me. The violin pleases me much more.
EINSTEIN: It would be interesting to study the effects of European music on an
Indian who had never heard it when he was young.
TAGORE: Once I asked an English musician to analyze for me some classical music,
and explain to me what elements make for the beauty of the piece.
EINSTEIN: The difficulty is that the really good music, whether of the East or of the
West, cannot be analyzed.
TAGORE: Yes, and what deeply affects the hearer is beyond himself.
EINSTEIN: The same uncertainty will always be there about everything fundamental
in our experience, in our reaction to art, whether in Europe or in Asia. Even the red flower I
see before me on your table may not be the same to you and me.
TAGORE: And yet there is always going on the process of reconciliation between
them, the individual taste conforming to the universal standard.
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La Nebulosa Testa di Cavallo (nota anche come B33): nebulosa oscura nella costellazione di Orione.
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Articolo n. 13: Carl G. Jung’s Synchronicity and Quantum Entanglement:
Schrödinger’s Cat ‘Wanders’ Between Chromosomes, Igor V. Limar
Da Neuroquantology (2011), 9, 2, 313-321
Problem formulation and related studies
To be sure, the concept of synchronicity represents an integral part of analytical
psychology. Carl Jung believed, that synchronicity is closely related to numerous
manifestations of psychic life of the humans, both normal and affected by pathology.
Determining the nature of the phenomenon of synchronicity may become important for
psychotherapeutic practice, particularly for difficult clinical cases which today cannot be
subjected to psychological correction using methods of classical psychiatry. At the same
time, we know that exotic nature of ‘manifestations of synchronicity’ caused to certain
extent skeptical attitude by a number of researchers. Considering criticism of Jung’s theory
of synchronicity by his opponents, it should be, nevertheless, admitted that in doing his
research the founder of analytical psychology was guided, in particular, by principles of
contemporary theoretical physics. For instance, it is well known that Jung has developed the
concept of synchronicity in close collaboration with Wolfgang Pauli. Thus, the Swiss
psychologist has always made sure that the data gathered from his clinical observations
conforms to the principles of natural science. Still, specific mechanisms which, probably,
lay at the core of synchronicity phenomena became a subject of discussion only in the early
1980s thanks to the progress in experimental studies of certain concepts of quantum physics.
In one of the relatively early papers devoted to this matter (Keutzer, 1982), the
synchronicity phenomenon was juxtaposed with the ‘morphic resonance’ hypothesis
suggested by Rupert Sheldrake. In turn, the Sheldrake’s theory is interpreted in the above
study in the context of quantum non-locality, a consequence of solution of the so-called
Einstein-Podolsky-Rosen paradox. In his later papers (Keutzer, 1984a; b), this author clearly
associates quantum non-locality with Jung’s synchronicity. Afterwards, other researchers
(Mansfield and Spiegelman, 1989) have reviewed non-local quantum correlations, the
Schrodinger’s cat paradox, and experiments verifying Bell’s inequalities in relation to the
synchronicity phenomenon. The same researchers also reviewed the principle of
superposition within the context of attempts to explain the synchronicity phenomenon
(Mansfield and Spiegelman, 1991). Furthermore, Mansfield, reviewing Jung’s theory, has
analyzed, among other aspects, the role of Bell’s inequalities per se in respect to the
problems of analytical psychology (Mansfield, 1991). A similar paper (Germine, 1991) also
dealing with the synchronicity phenomenon, the concept of quantum non-locality, and the
Einstein-Podolsky-Rosen and Schrodinger’s cat paradoxes, is devoted to determination of
the nature of consciousness. Study of relation between quantum non-locality and Jung’s
synchronicity, and the matters concerning Bell’s inequalities continued in later papers
(Mansfield and Spiegelman, 1996). Publications discussing, in one way or another, the
synchronicity phenomenon in relation to the quantum entanglement phenomenon have
appeared during the past decade (Walach, 1999; Walach and Römer, 2000; Duch, 2002;
Milgrom, 2002; Primas, 2003; Stillfried and Walach, 2006; Teodorani, 2006). The latest
papers in this sphere of study contain quite detailed research (Lucadou et al., 2007;
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Carminati and Martin, 2008; Martin et al., 2009; Martin et al., 2010). At the same time, it
should be noted that attempts to explain the synchronicity phenomenon by considering other
physical mechanisms not directly related to quantum non-locality (Zabrizkie, 1995) are
quite scarce. It should also be mentioned that some authors look at the quantum
entanglement phenomenon in regard to other aspects of Jung’s theory without linking this
phenomenon directly to the synchronicity phenomenon (Blutner and Hochnadel, 2010;
Conte et al., 2010). Nevertheless, even though the probable role of quantum non-locality in
realization of synchronicity phenomena is clearly emphasized in the above papers, the
question of what physiological mechanism might be responsible for the existence of
quantum entanglement between different human bodies has not been considered so far. The
only exceptions in this respect are, perhaps, the studies by Michael Hyland, who also
believes that the synchronicity phenomenon is caused by quantum entanglement (Hyland,
2004a). The criterion enabling to consider that the mentioned corresponding physiological
mechanism has been suggested is a description of necessary and sufficient conditions for
occurrence of quantum entanglement between biological molecules of different people.
Broadly speaking, these molecules may not be interconnected by quantum entanglement
prior to mutual interaction. As quantum entanglement between biological molecules of
different people may not exist per se, in the absence of once occurred special physical
interaction, it is only this criterion that can be valid. We cannot generally assume that
available quantum entanglement between molecules of different people is taken for granted.
In one of his papers (Hyland, 2004b), Hyland made an assumption that quantum
entanglement may exist both between cells of the same human body and between different
subjects. Apparently, this author came very close to the solution of this problem in his
another paper (Hyland, 2003a), where he not only assumes existence of quantum
entanglement at DNA level within the same body, but also describes possible role of
quantum entanglement in meiosis processes. It is quite possible that all that needs to be done
is just one little step further – to expand this author’s perception of existence of quantum
entanglement at DNA level within the same body and its role in morphogenesis to the
hypothesis of existence of quantum entanglement between DNAs of different bodies. As far
as meiosis processes are concerned, Hyland regards the role of quantum entanglement
exclusively as regulating the cell division. The fact that meiosis may represent a mechanism
ensuring quantum entanglement between different bodies was left out by this author. In the
meantime, solution of the problem of existence of non-local quantum correlations between
different bodies, in particular, synchronicity phenomena, could be right there. The answer to
this question will be proposed in this paper below.
Study goal and hypothesis
Synchronicity phenomena have been studied for quite a while and not just by Jung
but (a much lesser-known fact) by Sigmund Freud, the founder of psychoanalysis. His
several papers corroborate this fact (Freud, 1922; 1953a; 1953b). Naturally, the famous
Austrian psychiatrist used somewhat different terminology, but in the essence, he studied
phenomena of the same nature. A telling fact: in the same period, scientific community
gained understanding of the nature of quantum phenomena which later were associated with
the synchronicity phenomenon. We are talking about the so-called Einstein-Podolsky-Rosen
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paradox, study of which helped postulate existence of quantum non-locality and quantum
entanglement, closely related to non-local quantum correlations. As we know, the quantum
entanglement means a quantum-mechanical phenomenon in which quantum state of two or
more objects should be described in interrelation with each other, even if individual objects
are spaced apart. As a result, correlations appear between physical properties of these
objects. The quantum entanglement phenomenon is also viewed at in relation to such
notions as quantum coherence and quantum superposition. The principle of superposition in
quantum physics will be discussed further in connection with the Schrodinger’s cat paradox.
Nevertheless, this branch of theoretical physics began experiencing rapid development only
during the past few decades. It can be explained, first of all, by emerging possibilities for
experimental verification of violation of the so-called Bell’s inequalities. It is also
important to note that quantum entanglement, as follows from definition and the nature of
this phenomenon, represents the most ‘functional’ (comparing to other physical
mechanisms) instrument as far as attempts to interpret Jung’s synchronicity are concerned.
Yet, it still remains unclear how exactly the quantum entanglement may exist at the level of
material carrier of consciousness, i.e. brain, and how the quantum entanglement may ensure
nonlocal correlations between different subjects which make synchronicity possible.
Solution of this problem is the goal of the study this paper is devoted for. Let’s assume that
correlation of mental processes in different people not exchanging any information among
themselves, i.e. synchronicity, is caused by non-local quantum correlations (quantum
entanglement) between certain parts of these people’s brain (Persinger et al., 2008). At this
point, it needs to be noted that we can’t talk about existence of quantum entanglement as
such between macroscopic objects. The ‘quantum entanglement’ term is applicable
exclusively to the objects of microworld, particularly at submolecular level: molecular
orbitals (electron shells) of molecules, chromophore parts, etc. Therefore, it is, for example,
correct to say ‘quantum entanglement between neuron structures at submolecular level’
instead of ‘quantum entanglement between nerve cells’, or make the following formulation:
‘quantum entanglement between electron shells of neuron molecules of different people’
instead of saying ‘quantum entanglement between different people’. Also, as of today, direct
observation of effects involving quantum entanglement at the level of macroscopic objects
is highly questionable. Nevertheless, it should be noted in this respect that by this time,
certain attempts were made at experimental observation of these phenomena as part of the
quantum superposition studies (Gevaux, 2010; O’Connell et al., 2010). And finally, it is
important to emphasize that quantum entanglement cannot directly represent a mechanism
of communicating information per se. Quantum entanglement may serve only as an
instrument of ensuring correlation of certain physical quantities. In this case, correlation
may be implemented at indefinitely large distances without limitation on speed imposed by
the special theory of relativity. Currently, existence of quantum coherence and quantum
entanglement in biological molecules is intensively studied and is considered proved at
experimental level (Gilmore and McKenzie, 2005; Plenio and Huelga, 2008; Thorwart et al.,
2009; Hossein-Nejad and Scholes, 2010; Sarovar et al., 2010). Many researchers believe
that quite specific problems in living organisms may be solved using quantum entanglement
(Cai et al., 2010). However, when studying the synchronicity phenomenon it is important to
find out how quantum entanglement between biological structures of different organisms
may occur. In this respect, let’s assume that quantum entanglement between biological
45
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molecules may occur as a result of ‘coherent resonance energy transfer’ (Jang et al., 2008;
Olaya-Castro et al., 2008; Collini and Sholes 2009; Nazir 2009; Kekovic et al., 2010;
Nalbach et al., 2010; Sholes 2010). Some authors describe possibility of quantum
entanglement occurring during electrostatic (Coulomb) interaction (Mishima et al., 2004).
Consequently, one may also assume that quantum entanglement between parts of biological
molecules occurs as a result of the above interaction. Another physical mechanism by virtue
of which quantum entanglement can arise is the Fermi resonance (Peng and Hou, 2009;
Peng and Hou, 2010; Hou et al., 2010). However, it is obvious that mere presence of
different people close to each other hardly offers a sufficient condition for occurrence of
quantum entanglement between any biological structures of their bodies. Also,
synchronicity phenomena (correlation of mental processes in different subjects) may,
generally speaking, be observed even if these people have never communicated with each
other. Therefore, it seems prudent to put forth a hypothesis, whereby quantum entanglement
occurs, and is subsequently maintained, at the level of genetic material. In addition to other
studies of quantum coherence and quantum entanglement in biological molecules,
possibility of these phenomena existing in nucleic acids, particularly in DNA, was also
intensively studied in recent years (Ogryzko 1997; McFaden and Al-Khalili, 1999;
Bieberich 2000; Schemp, 2003; Sirakoulis et al., 2004; Tulub and Stefanov, 2007; Ogryzko,
2008; Cooper, 2009a; b). Analysis of development trends in this area of study allows to
assume that this direction is very promising (Curtus and Hurtak, 2004; Ananthaswamy,
2010). It has been, for example, suggested that quantum effects may be responsible for
morphogenesis processes (Hyland, 2003b), and represent, in a way, a link between genotype
and phenotype (Rosen, 1996). Therefore, it is possible that DNAs of different cells within
the same organism may be connected by quantum entanglement as a result of division of
cell during mitosis. On the other hand, it is also fair to assume that quantum entanglement
between DNAs of different cells may occur during meiosis, when gametes are forming. This
situation may take place, for example, during homologous genetic recombination –
crossing-over. It means that quantum entanglement may exist between cell structures of
different organisms as well. There is, however, one important circumstance worth noting:
theoretically, quantum entanglement between DNAs of brain cells may occur exclusively
during embryogenesis. The explanation is as follows: as we know, nerve cells experience
mitotic division only during prenatal period. During postnatal period, neurons do not divide.
Small percentage of neural stem cells may be disregarded. As of today, several papers have
been already devoted to the matters concerning quantum entanglement at the level of central
nervous system cells (Pereira, 2007; Pereira and Furlan, 2009; 2010). At the same time, it
should be noted that quantum entanglement may exist not only between nuclear DNAs of
different cells. Any cellular structures interacting both before and during mitosis and
meiosis processes, and afterwards, after cells have divided, ending up in different cells, may
potentially represent elements which cause existence of quantum entanglement between
molecules of different cells (Hameroff, 2004; Tulub, 2004). It is hardly possible to describe
existence of quantum entanglement between biological molecules of different organisms
without taking into account mitosis and meiosis processes. It is so because in order that
quantum entanglement does occur between the objects of the microworld, such objects
should have interacted. Generally speaking, in case no interaction took place, the objects of
the microworld will not be related with quantum entanglement. Some particular cases of
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quantum entanglement among fermions make an exception to this rule (Zhou, 2000; Vedral,
2003; Oh and Kim, 2004; Clark et al., 2005; Vertesi, 2007; Jie and Shi-Qun, 2008; Habibian
et al., 2010). However, for these rare instances it is characteristic to adhere to a series of
specific conditions. At this stage of science development it is premature to suggest that such
conditions exist as applied to neurons of several different people. Furthermore, another
important question requires our attention. It concerns not the quantum entanglement
occurrence mechanism, but the problem of its long-term preservation. We are talking about
the so-called decoherence, a process which involves destruction of quantum coherence
under impact of electromagnetic fields and other factors. Decoherence involves
transformation of states characterized by quantum superposition (the so-called ‘pure’ states)
into states where quantum phenomena cannot be observed (‘mixed’ states). Nevertheless,
recently this problem has also been tackled at with increasing success (Shabani and Lidar,
2005; Manfredi and Hervieux, 2006; Grace et al., 2007), particularly in terms of
understanding the processes occurring in DNA (Ogryzko, 2008; Cooper, 2009a; 2009b).
And finally, we still have to find out how quantum entanglement may occur between
cellular structures of quite large number of subjects, because during meiosis, genetic
materials may be transferred to descendants only. A hypothesis may come to rescue,
whereby all humans originated from the same center in Africa approximately 80-200
thousand years ago – ‘recent single-origin hypothesis’ (Batzer et al., 1994; Armour et al.,
1996; Liu et al., 2006; Pritchard et al., 1996). Not extending, surely, the assumption of
existence of quantum entanglement onto the scale of genome of all people, one may,
nevertheless, assume that certain population groups bear in their genetic material DNA parts
inherited from prehistoric men, which are common to these groups (Goldstein et al., 1995;
Jorde et al., 1995; Nei and Takezaki, 1996; Hey, 1997). Therefore, existence of quantum
entanglement between DNA molecules of relatively large groups of people cannot be ruled
out. Considering the aforementioned hypothesis, we can assume that ‘material carriers of
consciousness’ include, in particular, molecular orbitals (electron shells) of molecules,
biologically active during meiosis and mitosis. This conclusion is helped by phenomenology
of analytical psychology, namely the synchronicity phenomenon. An assumption that the
molecules participating in meiosis can play a role of tangible media of consciousness, apart
of the other biological molecules, by no means contradicts our formed presentation that the
human psyche is ‘localized’ in the brain. An absence of such contradiction is conditional on
the circumstance that the molecules displaying biological activity during meiosis are viewed
merely as an ‘intermediate’ link when quantum entanglement is formed between brain cell
molecules of various people. The molecules participating in a cell division during meiosis
may appear as ‘intermediaries’ while the quantum entanglement is formed between certain
brain cell molecules of a person with the same molecules of the brain cells belonging to
another person. In its turn, biological molecules used during mitosis can be similar
‘intermediaries’ in the course of quantum entanglement formation. However, the molecules
used during mitosis can ensure a formation of quantum entanglement not between
molecules of various people but between the cell molecules of one human organism.
Specifically, it can occur between the brain cell molecules and the molecules which are
active when forming gametes of one and the same person. As it has already been noted,
quantum entanglement between the molecules of brain neurons of an organism may,
theoretically, arise during embryogenesis exclusively. Quantum entanglement between the
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brain cell molecules and the molecules of other cells within one and the same organism may
also arise exclusively in the process of prenatal development. Among other things, it also
refers to quantum entanglement arising between the brain cell molecules and the cell
molecules of other organs wherein meiosis takes place within the frame of one organism.
Still, quantum entanglement between the cell molecules of the organs wherein meiosis
within the frame of one organism takes place may occur not only during embryogenesis but
also in the postnatal period. Again, an assumption that genetic material can be a tangible
medium of consciousness has been contemplated so far by a number of researchers (Dennis
2010; Taric et al., 2010) and is not viewed now as something remarkable. Recently there
also appear papers (Vaas, 1999; Molyneux, 2010) which allow of a rather skeptical attitude
to a stereotyped notion that the nature of a human psyche is conditioned by electric transfer
of signal in the brain. In this context it should be pointed out that orientation to quantum
effects when trying to explain the nature of consciousness and, specifically, orientation to
quantum entanglement phenomenon (including at the genetic material level) seems more
than justified. To corroborate this thesis let us consider modern information technologies.
Complexity of contemporary supercomputers and computer networks, a number of
electronic links therein and the volume of transferred information may be currently
comparable with certain similar indices applicable to describe human brain properties.
However, as yet nobody saw (generally, it is hard to imagine that anybody could have
observed such a thing) any technical device possessing consciousness which operating
principle was based upon a transfer of electronic signals. It refers, inter alia, to technical
devices developed within the framework of artificial intelligence studies. Therefore, it
appears highly doubtful that the brain of a newborn, able to transfer electric pulses only, is
an adequate medium of consciousness and can provide for a development of the personality
possessing intelligence. It seems so that the brain molecules of an individual are to be
linked, via a genetic material and by means of quantum entanglement, with genetic material
(and molecules at the level of the central nervous system) of a great number of other people.
Characteristically enough, a famous British biologist Rupert Sheldrake has come up with a
similar hypothesis at his time, assuming that correlation of mental processes in different
people is caused by DNA. At the same time, Sheldrake did not specify what physical
mechanism precisely may be responsible for this correlation. And only some other authors
have reviewed the Sheldrake’s theory in light of quantum nonlocality (Keutzer, 1982;
Resconi and Nikravesh, 2008). Also, key provisions of analytical psychology were viewed
at in connection with David Bohm’s theory of holomovement and Karl Pribram’s
holographic brain theory (Zinkin, 1987). Besides Jung, the assumption that mental processes
somehow correlate with certain processes occurring beyond human brain was put forth at
the time by John Eccles, laureate of the 1963 Nobel Prize in Physiology (Popper and Eccles,
1977) jointly with Wilder Penfield (Penfield, 1978). The hypothesis outlined in this article
may be viewed at a different angle. As we know, phenomena which quantum mechanics
deals with in no way fit the perception of surrounding world which we carry in everyday
life. This is also true about the principle of superposition in quantum theory, a phenomenon
when, for example, an object of microworld may be ‘located’ in several points of Hilbert
space ‘simultaneously’ (Garraway and Knight, 1994; Haroche et al., 1997; Deléglise et al.,
2008). Back in his time, one of the founders of quantum theory Erwin Schrödinger showed
that as a result of this principle, one can model a situation when a living creature, for
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example a cat, may be both ‘alive’ and ‘dead’ at the same time. However strange this
thought experiment might seem to us, at this time practical experiments aimed at realization
of quantum superposition at macroscopic level are already underway (Gevaux, 2010;
O’Connell et al., 2010). One of the consequences of existence of quantum entanglement
between chromosomes of brain neurons in different people may be the fact that
consciousness is not ‘localized’ in brain of an individual but, in the essence,
‘simultaneously’ ‘belongs’ to a group of people. This point of view is rather closer to Arnold
Mindell’s transpersonal interpretation (Mindell, 2000; 2004) than, in fact, to the theory of
collective unconscious.
Conclusions and prospects of this study
Progress in various areas of modern natural science allows hoping that Carl Jung’s
concept of synchronicity will, after all, receive scientific explanation. Surely, one shouldn’t
get carried away on a tide of euphoria, ecstatically accepting ‘trendy’ applications of the
quantum entanglement phenomenon. Scientific practice implies experimental confirmation
of hypotheses, not ruling out their disproof as well. In author’s opinion, the hypothesis
outlined in this article implies verification of currently available data to explain the nature of
synchronicity phenomenon.
49
La Nebulosa Tarantola (nota anche come 30 Doradus o NGC 2070 o C 103):
vastissima regione H II nella Grande Nube di Magellano.
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Articolo n. 14: La coscienza è un effetto quantistico: Roger Penrose rilancia la
sua teoria, Marco Passarello
Dal sito www.ilsole24ore.com – 17 gennaio 2014
Cosa ci rende degli esseri coscienti? Quello della natura della coscienza è uno dei più
grandi enigmi scientifici ancora irrisolti, origine di un vasto e complesso dibattito. Una tra le
principali questioni che dividono scienziati ed epistemologi è se la coscienza sia un
semplice sottoprodotto dei processi di elaborazione dell'informazione, e quindi in linea di
principio riproducibile anche su un computer o su altri supporti non biologici, o se invece
derivi da caratteristiche specifiche del cervello.
Tra i propugnatori della seconda tesi c'è l'insigne matematico Roger Penrose, che nel
suo libro del 1989 La mente nuova dell'imperatore sosteneva la tesi secondo cui la coscienza
sarebbe il prodotto di effetti di tipo quantistico (e quindi di tipo probabilistico e non
interamente determinato). La tesi di Penrose è stata criticata da varie parti, dal punto di vista
filosofico, ma anche da quello scientifico, dato che il cervello era ritenuto inadatto al
verificarsi di effetti quantistici. Quest'ultima critica, tuttavia, è stata superata dalla scoperta
che vari meccanismi, dal senso dell'olfatto alla fotosintesi, sono influenzati dalla meccanica
quantistica. Ora Penrose ha pubblicato un articolo su Physics of Life Reviews, in cui
rilancia la propria teoria sulla base di nuove prove.
Scritto insieme a Stuart Hameroff, l'articolo rilancia l'ipotesi secondo cui la coscienza
sarebbe basata su vibrazioni quantistiche nei microtubuli all'interno dei neuroni cerebrali.
Tali vibrazioni non sono più solo un'ipotesi, ma sono state effettivamente osservate nel
cervello. Penrose procede anche a contrastare i suoi critici, sostenendo che tutte le
previsioni fatte in base alla sua teoria sono state confermate dalle osservazioni. I due
scienziati osservano inoltre che le vibrazioni quantistiche dei microtubuli possono essere
messe in relazione con determinati ritmi elettroencefalografici finora non spiegati, a
dimostrazione della loro influenza sui processi cerebrali.
Penrose sottolinea che la sua teoria può essere in accordo sia con coloro che
ritengono che la conoscenza sia un prodotto dell'evoluzione, sia con chi pensa invece che la
coscienza sia una proprietà dell'Universo e preesista alla coscienza umana.
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Articolo n. 15: Conscious Events as Orchestrated Space-Time Selections, Stuart
Hameroff, Roger Penrose
Da Neuroquantology (2003), 10, 1-35
What is consciousness? Some philosophers have contended that "qualia," or an experiential
medium from which consciousness is derived, exists as a fundamental component of reality.
Whitehead, for example, described the universe as being comprised of "occasions of
experience." To examine this possibility scientifically, the very nature of physical reality
must be re-examined. We must come to terms with the physics of space-time--as is
described by Einstein's general theory of relativity--and its relation to the fundamental
theory of matter--as described by quantum theory. This leads us to employ a new physics of
objective reduction: "OR" which appeals to a form of quantum gravity to provide a useful
description of fundamental processes at the quantum/classical borderline (Penrose, 1994;
1996). Within the OR scheme, we consider that consciousness occurs if an appropriately
organized system is able to develop and maintain quantum coherent superposition until a
specific "objective" criterion (a threshold related to quantum gravity) is reached; the
coherent system then self-reduces (objective reduction: OR). We contend that this type of
objective self-collapse introduces non-computability, an essential feature of consciousness.
OR is taken as an instantaneous event--the climax of a self-organizing process in
fundamental space-time--and a candidate for a conscious Whitehead "occasion" of
experience. How could an OR process occur in the brain, be coupled to neural activities, and
account for other features of consciousness? We nominate an OR process with the requisite
characteristics to be occurring in cytoskeletal microtubules within the brain's neurons
(Penrose and Hameroff, 1995; Hameroff and Penrose, 1995; 1996). In this model, quantumsuperposed states develop in microtubule subunit proteins ("tubulins"), remain coherent and
recruit more superposed tubulins until a mass-time-energy threshold (related to quantum
gravity) is reached. At that point, self-collapse, or objective reduction (OR) abruptly occurs.
We equate the pre-reduction, coherent superposition ("quantum computing") phase with preconscious processes, and each instantaneous (and non-computable) OR, or self-collapse,
with a discrete conscious event. Sequences of OR events give rise to a "stream" of
consciousness. Microtubule-associated-proteins can "tune" the quantum oscillations of the
coherent superposed states; the OR is thus self-organized, or "orchestrated" ("Orch OR").
Each Orch OR event selects (non-computably) microtubule subunit states which regulate
synaptic/neural functions using classical signaling. The quantum gravity threshold for selfcollapse is relevant to consciousness, according to our arguments, because macroscopic
superposed quantum states each have their own space-time geometries (Penrose, 1994;
1996). These geometries are also superposed, and in some way "separated," but when
sufficiently separated, the superposition of space-time geometries becomes significantly
unstable, and reduce to a single universe state. Quantum gravity determines the limits of the
instability; we contend that the actual choice of state made by Nature is non-computable.
Thus each Orch OR event is a self-selection of space-time geometry, coupled to the brain
through microtubules and other biomolecules. If conscious experience is intimately
connected with the very physics underlying space-time structure, then Orch OR in
51
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microtubules indeed provides us with a completely new and uniquely promising perspective
on the hard problem of consciousness.
La Nebulosa Aquila (nota anche come M 16 o NGC 6611):
regione H II nella costellazione della Coda del Serpente.
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Articolo n. 16: Indeterminismo quantistico, Giuseppe Tanzella-Nitti, Alberto
Strumia
Da G. Tanzella-Nitti, A. Strumia, Dizionario interdisciplinare di scienza e fede. Cultura
scientifica, filosofia e teologia, Urbaniana University Press – Città Nuova Editrice, Roma
2002
Nell'ambito della meccanica quantistica, l'indeterminismo non è dovuto
all'impossibilità pratica di accedere a tutte le informazioni necessarie per la conoscenza
deterministica del moto delle particelle, ma è una “legge di natura”, cioè costituisce
un'impossibilità “teorica”, e si colloca al livello microscopico del sistema. Secondo questa
interpretazione, la meccanica quantistica non sarebbe una meccanica statistica - come
riteneva Einstein e oggi i sostenitori delle “variabili nascoste”, necessarie a completare
deterministicamente la meccanica quantistica – e l'indeterminismo non nascerebbe in essa
per ragioni di ignoranza, ma per l'impossibilità di principio.
Articolo n. 17: I fondamenti filosofici dell’attività scientifica, G. Tanzella-Nitti
Da R. Presilla e S. Rondinara, Scienze fisiche e matematiche. Istanze epistemologiche ed
ontologiche, Città Nuova Editrice, Roma 2010
Introduzione
È diffusa l’idea che la visione scientifica del mondo abbia scalzato la visione
filosofica della realtà. Quest’ultima sarebbe non soltanto errata, perché non basata sul
metodo empirico, l’unico valido, ma anche inconcludente, perché le prospettive filosofiche
variano a seconda degli autori, delle correnti e dei periodi storici, a differenza della scienza,
i cui canoni sarebbero invece oggettivi e universalmente comunicabili. Non mancano
tuttavia alcuni argomenti in contrasto con tale visione, tanto diffusa quanto inesatta: proprio
da questi può prendere avvio la presente riflessione sui fondamenti filosofici del sapere
scientifico.
In primo luogo vi è ormai un largo consenso sul fatto che il metodo empirico non sia
l’unico metodo in base al quale conosciamo e che esistano premesse e precomprensioni
filosofiche implicite in ogni conoscenza, e dunque anche in quella scientifica. Inoltre,
contrariamente a quanto si pensi comunemente, anche la buona filosofia, come la scienza,
prende avvio dall’esperienza del reale e basterebbe l’incontro con un filosofo come
Aristotele per mostrarlo in modo inequivocabile. Infine, non va dimenticato che esiste anche
una certa universalità e comunicabilità dei grandi temi di ambito filosofico, i quali, come le
formulazioni scientifiche, sono in grado di legare l’esperienza di popoli, culture ed epoche
diverse.
Pur riconoscendo che debba esistere un rapporto più stretto di quanto si pensi fra
pensiero scientifico e pensiero filosofico, esistono tuttavia incertezze nel proporre come
l’uno debba riferirsi all’altro. Quale immagine converrebbe impiegare per rappresentare
l’articolazione fra il pensiero filosofico e quello scientifico? L’immagine più usata, tanto
nella letteratura interdisciplinare come nel linguaggio della cultura contemporanea, è assai
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probabilmente quella del “limite”: la filosofia, in sostanza, metterebbe dei limiti alla
scienza, la quale dovrebbe riconoscere i propri confini sia nell’aspetto gnoseologico che in
quello etico. Si tratterebbe, in sostanza, di un’articolazione consistente nel reciproco
riconoscimento di campi di analisi del reale. Meno frequentemente, compaiono però le
immagini della “apertura/trascendimento” e quella del “fondamento”. Al sapere filosofico,
in questo caso, si accederebbe come trascendimento di quello scientifico, in quanto
quest’ultimo sarebbe costitutivamente aperto e non autosufficiente; o, anche, il sapere
filosofico starebbe nel fondamento di quello scientifico, sostenendolo implicitamente nelle
sue analisi e nelle sue conclusioni veritative.
Riteniamo che, nonostante la sua diffusione, esistano buoni motivi per
ridimensionare l’applicazione della prima immagine, ovvero quella del limite, privilegiando
invece quelle dell’apertura e del fondamento. È da notare che l’idea che il sapere filosofico
in qualche modo “delimiti” il sapere e le attività delle scienze viene introdotta soprattutto in
ambito etico. Non va però dimenticato che gli aspetti etici non esauriscono il rapporto della
filosofia con le scienze e che la stessa impostazione di una etica del limite, l’indicazione
cioè di non superare determinati confini nella prassi scientifica, mostra la sua incompletezza
rispetto ad una etica delle virtù, della quale può partecipare a pieno titolo anche l’attività
scientifica, come vera attività umana e dunque suscettibile di comportamento virtuoso. Va
inoltre tenuto presente che esistono prospettive etiche capaci di mostrare come i principi del
retto operare (ortoprassi) nascano dall’interno dell’esperienza scientifica dello scienziato e
non vengano imposti in modo estrinseco, dall’esterno. Dal punto di vista gnoseologico
l’idea del limite resta insoddisfacente in quanto l’oggetto materiale delle scienze (le cose
che si possono conoscere) è, di per sé, illimitato, mentre è l’oggetto formale (l’aspetto sotto
il quale le conosciamo mediante il metodo scientifico) ad essere limitato, ma nel senso che
esso risulta determinato.
Vogliamo qui mettere in luce che negli ultimi decenni l’attività scientifica ha, dal suo
interno, tematizzato/manifestato una apertura/trascendimento e una conseguente ricerca dei
fondamenti dello stesso conoscere scientifico. Essa pare averlo fatto principalmente nel
superamento della pretesa di autoreferenzialità dell'impresa logico-matematica voluta dal
neopositivismo logico, che potremmo sinteticamente indicare come “il risveglio del prefisso
meta”. Tale risveglio lo si può riconoscere in diversi aspetti: la segnalazione di nozioni di
infinito che non appartengono alla matematica, dovuta a Cantor; la scoperta di teoremi di
incompletezza dei sistemi assiomatici, dovuta a Gödel; la necessità di impiegare
metalinguaggi e l’impossibilità di definire tutti gli enunciati veri di un sistema, come
osservato da Tarski; la scoperta di limiti finiti di ogni operazione logica automatizzata,
dovuta a Turing; ed infine, in termini più profondi e generali, la necessità di un
trascendimento del linguaggio formale colta dall’interno della filosofia del linguaggio, come
messo in luce da Wittgenstein e dalle nuove correnti di filosofia analitica da lui derivate.
L’attività scientifica si è pertanto adoperata nella ricerca di linguaggi che
completassero quanto il linguaggio formale non poteva esprimere, rivolgendosi così
all’analogia e al linguaggio simbolico o estetico. Da parte sua, l’apertura verso altre forme
di conoscenza non formalizzabile è stata favorita dall’abbandono del meccanicismo
determinista, quale pretesa di comprensione esauriente ed autoreferenziale del reale,
originando come conseguenza una (auspicabile) definitiva rinuncia ad un illecito
riduzionismo ontologico come sbocco di un più che lecito riduzionismo metodologico. A
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determinare tale abbandono hanno contribuito la meccanica quantistica (Werner
Heisenberg), la scoperta dell’impredicibilità matematica di molti fenomeni (a partire da
Henri Poincaré), nonché la stessa emergenza della complessità e la fisica dei sistemi di non
equilibrio (Ilya Prigogine), ma anche il progressivo imporsi di approcci olistici e
teleonomici, la riscoperta del Concetto di forma e di informazione, la evidente quanto
fondamentale osservazione (spesso dimenticata all’epoca del riduzionismo meccanicista)
che il tutto è maggiore della somma delle parti1 Ma esiste una ragione ancora più
fondamentale del perché la conoscenza scientifica —più precisamente lo scienziato— possa
o forse debba aprirsi con naturalezza alla conoscenza filosofica. La scienza, proprio come la
filosofia, prende avvio dalla meraviglia di fronte alle cose (θαυμάζειν: Aristotele,
Metafisica, A, 2, 982b). A mostrarlo basterebbe notare la ricorrenza di termini come wonder
o mystery nelle opere divulgative di non pochi scienziati. Uno studio che cominci con la
meraviglia e sia da essa motivato, è difficile che si fermi proprio quando emergano le
domande più interessanti, quelle filosofiche, semplicemente perché non si ha la certezza di
potervi trovare delle risposte all’interno del metodo empirico. Non è logico che lo
scienziato, mosso dalla curiosità e dal vero desiderio di conoscere, rifiuti una conoscenza
che gli venga offerta, quella filosofica, anch’essa suscettibile di verifica critica, che verta sul
medesimo oggetto del suo studio: la natura, la vita, l’uomo.
In prospettiva storica, va osservato inoltre che la domanda sul perché, ritenuta troppo
filosofica —e per questo spesso estromessa da una scienza di ispirazione pragmatista o
convenzionalista— riemerge con frequenza, in modo inaspettato, nell’attività dello
scienziato, fermamente convinto dell’insufficienza di una scienza tesa soltanto a “salvare le
apparenze”; quando la nozione di causa è stata estromessa per essere sostituita da quella di
legge, non ha tardato a fare la sua successiva ricomparsa (perché le leggi e la loro
intelligibilità?, esiste un disegno nel cosmo?).
Il tema dell’articolazione fra sapere scientifico e sapere filosofico è certamente
complesso e si inquadra nel più generale tema dell’unità del sapere, al quale è possibile
accedere mediante modelli di interdisciplinarità2. Esistono proposte avanzate in proposito da
autori come Tommaso d’Aquino, Jacques Maritain, Michael Polanyi, e, più recentemente,
da Jean Ladrière, Edgar Morin, Basarab Nicolescu.
In prospettiva teologica, una scienza non più autoreferenziale, consapevole della
propria apertura a forme di sapere che coinvolgono oggetti formali più ampi, dialoga più
facilmente anche con la teologia, non qualificando più come fantasiosa o contraddittoria la
lettura del mondo offerta dalla Rivelazione ebraico-cristiana, ovvero la lettura di una natura
intesa come creazione. Di fatto, il progressivo spostamento di interesse verso i fondamenti
del conoscere conduce ad interrogarsi anche sui fondamenti dell’essere, e quindi sul
fondamento ultimo, ovvero sui perché ultimi dell’esistenza della realtà/natura, la cui
risposta non può essere solo filosofica (l’Assoluto, l’Incondizionato), ma necessariamente
anche teologica (perché Dio sfugge alla “presa” della conoscenza filosofica). Si tratta di una
1
Un sintetico riepilogo della vicenda epistemologica del XX secolo può consultarsi in A. Strumia, Le scienze
e la pienezza della razionalità, Cantagalli, Siena 2003.
2 Un riferimento obbligato è all’opera di J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere (1932),
Morcelliana, Brescia 1974.
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risposta che non è soltanto cercata, ma, soprattutto, deve essere ricevuta come donata
(Rivelazione).
In questo saggio ci proponiamo di riepilogare, in modo necessariamente sintetico,
quattro modalità/ambiti in cui il sapere filosofico, qui inteso in senso ampio, può
riconoscersi nel fondamento dell’attività scientifica. Riteniamo che siano riconoscibili
quattro tipi di fondamenti, ai quali dedicheremo per ciascuno una sezione: storici,
ontologici, logico-epistemologici e antropologici.
I. Fondamenti storici
Come è ben noto, l’osservazione scientifica nasce storicamente già nell’epoca presocratica come parte della filosofia della natura. Quest’ultima, partendo dall’osservazione
del moto e del cambiamento cercava di comprenderne le cause. Si trattava di una
conoscenza di carattere generale, che prendeva avvio da principi di per sé evidenti, basata su
esperienze di ambito universale, che includeva il ruolo del soggetto riflettente, conoscenza
che procedeva dai sensi, capace di tematizzare aspetti qualitativi e non solo quantitativi.
Fino all’inizio del XIX secolo le scienze fisiche vengono ancora chiamate filosofia naturale.
La produzione scientifica di Cartesio e di Newton è presentata ancora sotto questo nome.
Nel contemporaneo linguaggio scientifico sono tuttora presenti concetti che hanno origine
dalla filosofia aristotelica (energia, materia, forza, trasformazione, ecc.). È interessante
ricordare la presenza del termine “filosofia” in titoli di opere scientifiche come I. Newton,
Principia Mathematica Philosophiae Naturalis (1687) o J. Dalton, New System of Chemical
Philosophy (1810), ma non ancora assente da opere della seconda metà del Novecento,
come J. Monod, Il caso e la necessità (1971), il cui sottotitolo recitava Saggio sulla filosofia
naturale della biologia contemporanea.
Il distacco metodologico delle scienze della natura dalla filosofia della natura,
avvenuto storicamente con la nascita del metodo galileiano (la riduzione del fenomeno ad
un modello matematico capace di essere controllato da un esperimento riproducibile), ma
già preparato dal crescente uso delle matematiche nell’analisi e nella previsione dei
fenomeni naturali, prima con Ruggero Bacone, poi con Galileo, Keplero e Descartes, era
nella sua origine consapevole di operare una “riduzione”. Si trattava della riduzione
dell’oggetto in studio alle sue dimensioni empiriche (dapprima con le scienze fisiche ma poi
anche con la biologia), prima fra tutte la misurabilità, mediante il ricorso a modelli ideali ed
approssimativi, entro i limiti di tolleranza richiesta a seconda dei casi.
Le scienze naturali non potevano tuttavia prescindere, nel loro studio, da una serie di
nozioni primitive e da un esercizio della razionalità (spontanea o riflessa) che erano ancora
di origine filosofica, le cui giustificazioni ultime non si trovavano, né si trovano, all’interno
del metodo scientifico (l’essere e la natura delle cose come dati di partenza, principio di
legalità, principio di verificazione, principio di non contraddizione, principio di causalità,
operatività dell’astrazione e dell’analogia, ecc.). Tali premesse, sia logiche che ontologiche,
presenti tanto nel metodo quanto nell’oggetto delle scienze, diverranno sempre più implicite
ed inespresse, al punto tale da non avvertire più la necessità di riflettervi sopra. Ad
occuparsene sarà appunto una filosofia, la “filosofia della scienza”, mentre la scienza in
quanto tale cesserà progressivamente di considerarle. Occorrerà attendere gli esiti del
Novecento, quando il sorgere di nuove problematiche scientifiche ed epistemologiche di
56
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frontiera come l’indeterminismo e la complessità, il problema dei fondamenti e dell’intero,
la rivalutazione della forma, della direzionalità e dell’emergenza, ecc., spingeranno la
scienza a volgersi “dal suo interno” verso una nuova riflessione sul proprio metodo.
Nella sua origine il metodo scientifico aveva posto l’accento sulla causalità
efficiente, trascurando, per i fini quantitativi e predittivi della propria analisi, la causalità
formale e quella finale. Le svolte epistemologiche del Novecento segnano un recupero
proprio delle “causalità dimenticate” (formale e finale), oltre ad un attento riesame dei
problemi legati al linguaggio, alle definizioni assiomatiche, al rapporto fra soggetto e
oggetto.
Storicamente, autonomia delle scienze dalla filosofia non voleva dire separazione o
indipendenza, ma distinzione e operatività metodologica. La filosofia, nelle sue varie forme
regolatrici legate alla logica, alla filosofia della natura e alla metafisica, ma anche al senso
comune, continua ad offrire di fatto i presupposti che rendono possibile ogni attività
scientifica anche se, nella maggior parte del suo lavoro ordinario, la scienza non ha
necessità di tematizzare in modo esplicito tale aspetto. Questo stato di cose fa comprendere
meglio perché un modo corretto di indicare lo snodo fra scienze naturali e sapere filosofico
non sia tanto quello di insistere sui “limiti” della scienza, ma piuttosto quello di parlare dei
suoi “fondamenti”: il sapere filosofico si colloca primariamente nel nucleo del sapere
scientifico, solo secondariamente sulla sua frontiera.
L’influenza delle visione filosofica del mondo nello sviluppo del pensiero scientifico
di una determinata epoca viene così riepilogata da Alexandre Koyré nel suo saggio
L’influenza delle concezioni filosofiche sull’evoluzione delle teorie scientifiche
(1954): «La storia del pensiero scientifico ci insegna (come cercherò di sostenere) queste tre
cose: a) che il pensiero scientifico non è mai stato del tutto separato dal pensiero filosofico;
b) che le grandi rivoluzioni scientifiche sono sempre state determinate da grandi
rivolgimenti o cambiamenti delle concezioni filosofiche; c) che il pensiero scientifico — e
parlo delle scienze fisiche — non si sviluppa in vacuo, ma sempre all’interno di un quadro
di idee, di princìpi fondamentali, di evidenze assiomatiche, che abitualmente vengono
considerate come appartenenti propriamente alla filosofia»3. Oltre ai numerosi lavori di
Koyré, la rivalutazione della componente storico-filosofica nello sviluppo delle scienze è
stata discussa in modo particolarmente efficace da Pierre Duhem (1861-1916) e, in tempi
più recenti, da Alistair C. Crombie (1916-1996)4.
In prospettiva teologica, infine, il fatto a) che la Rivelazione cristiana sia stata essa
stessa sorgente, fonte di sapere e di concezioni filosofiche, e b) che esista un’influenza di
concezioni filosofiche sulle teorie scientifiche e sul modo di fare scienza, implica che si
Tr. it. dall’originale francese De l’influence des conceptions philosophiques sue l’évolution des theories
scientifiques, in “Etudes d’histoire de la pensée philosophique”, Gallimard, Paris 1971, in Dizionario
Interdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press Città Nuova 2002, p. 2264.
4
Sui fondamenti storici dell’attività delle scienze, riepiloghiamo alcuni classici riferimenti: P.Duhem, Le
système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, 10 voll., Hermann, Paris
1913-1959; A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), Feltrinelli, Milano 1988; A.Koyré, Dal
mondo del pressapoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 1969; A.C. Crombie, Styles of Scientific
Thinking in the European Tradition, 3 voll., Duckworth, London 1994; S.L. Jaki, The Relevance of Physics,
University of Chicago Press, Chicago 1970.
3
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possa ragionevolmente parlare, in chiave storica, di un ruolo giocato dalla Rivelazione nel
sorgere e nello sviluppo del pensiero scientifico.
II. Fondamenti ontologici
Dicono che Paul Dirac (1902-1984) cominciasse le sue lezioni di Meccanica
quantistica dicendo: “È assunta l’esistenza di un mondo esterno: questa è tutta la metafisica
di cui avremo bisogno”. Questa richiesta di Dirac, apparentemente minimalista, è in realtà la
tacita richiesta di un fondamento ontologico: e non è cosa da poco... Analogamente, il
matematico Julius Dedekind (1831-1916) amava ripetere che “con i numeri naturali, la
matematica può creare ogni cosa. Ha però bisogno che Dio crei i numeri naturali…”
Alla base di ogni filosofia della natura, che fonda a sua volta la possibilità di una
scienza naturale, deve necessariamente esserci una ontologia. Il richiamo esplicito ad
un’ontologia resta (lecitamente) inespresso nell’analisi delle scienze, ma l’ontologia è come
“nascosta” nel loro linguaggio.
In merito al riconoscimento di tali fondamenti può essere riproposta, perché a nostro
avviso insuperata, la distinzione classica, di origine tomista, fra essenza e atto di essere.
L’essenza di un ente, sulla quale in ultima analisi poggia l’indagine empirica delle scienze
naturali, non ha in sé la ragione del proprio atto di essere, ovvero della sua esistenza. Il
materialismo scientista aveva riassorbito il problema dell'esistenza delle cose in quello della
loro essenza; in altri termini, occupandosi di spiegare le “caratteristiche essenziali” delle
cose, il materialismo riteneva di poter spiegare, come conseguenza necessaria, anche il
perché della loro esistenza. Conoscere ciò che le cose sono, per il materialismo,
equivarrebbe a sapere anche perché esse esistono: tutto ciò che esiste, esiste
necessariamente e non potrebbe essere altrimenti. Tale visione si ritrova, ad esempio, in chi
ritiene che, una volta spiegato in cosa consistano le leggi fisiche che hanno dato origine
all'intero universo, si sia allora in grado di capire che cosa l’universo sia, e perché l'universo
sia; oppure, che spiegando come sia fatto un embrione umano o il suo genoma, si possa per
questo spiegare in modo esaustivo cosa l'uomo sia e perché l'uomo sia. Si tratta di visioni
che riducono il problema della verità alla sola prospettiva eziologica, finendo col mitizzare
la ricerca dell’origine. L’esistenzialismo, invece, assorbe l'essenza nell'esistenza: a questo
mondo non c'è nulla da spiegare, ma si prende solo atto dell'esistenza delle cose. Cercare la
ragione di un'essenza, la persistenza di una natura, o il fondamento di una legge, sono
questioni che non avrebbero senso, perché ciò che possiamo conoscere delle cose è soltanto
la loro situazione contingente, la loro apparenza, la loro emergenza casuale dal flusso
dell'esistenza.
Perché la scienza possa studiarli, occorre che gli oggetti esistano (appunto come
enti). La scienza non può dare ragione della loro esistenza, né del perché ultimo dell’essere
in quanto tale, avendo a che fare con trasformazioni di un ente in un altro. La natura di
alcune trasformazioni, è vero, può far pensare, a volte, che la scienza dia ragione dell’essere
delle cose. Porre in essere vuol dire “creare” e la scienza non ha a che fare con la creazione.
La materializzazione, da un campo di radiazione, di una coppia particella-antiparticella
(trasformazione di energia in materia) non equivale a creare alcunché, né la possibilità di
estrarre energia dalla geometria della spaziotempo (energia del vuoto) costituisce alcun
creare, ma implica semplicemente dedurre quantità (fisiche) da altre quantità (geometriche,
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La Nebulosa Farfalla (nota anche come NGC 6302 o C 69): nebulosa planetaria bipolare nella costellazione dello Scorpione.
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quantistiche, ecc.) date o comunque poste. Dare origine a materia o energia mediante una
fluttuazione quantistica del vuoto fisico, ad esempio, è dedurre una esistenza (energia o
materia) dalla esistenza di altre cose: un sistema di leggi, di proprietà, ecc., le quali
rappresentano un supporto ontologico, per virtuale che sia.
Anche se sposassimo il sogno neopositivista di ridurre la chimica, la biologia, ecc.,
alla fisica e infine alla logica-matematica (cosa che oggi sappiamo essere impraticabile),
quando si parla della vita occorre riferirsi ad un nuovo fondamento ontologico, ad un nuovo
modo di essere. È l’emergenza di un nuovo soggetto-ente che prima non c’era e che rende
uno (cioè unifica) l’insieme dei processi fisici, chimici e biologici che concorrono alla
formazione e alla conservazione del vivente. Anche l’emergenza dell’essere umano implica
un nuovo fondamento ontologico, quello di un “io” che non soltanto unifica i processi della
vita umana, ma è capace di “riflettere su se stesso”, come un nuovo modo di essere (essere
cosciente) irriducibile ai precedenti.
Riconoscere un fondamento ontologico all’attività scientifica vuol dire anche
riconoscere che quest’ultima si fonda sulla “essenza” (ovvero sulla natura) delle cose, oltre
che, come abbiamo visto, sulla loro “esistenza”. La scienza si propone di esprimere le
proprietà degli enti fisici (ma anche biologici) in termini di proprietà sempre più fondanti,
basilari. Tuttavia, se gli enti hanno comportamenti “legali” (leggi di natura, conservazione
della massa della carica, ecc., capacità di attrarre o di respingere, di legarsi chimicamente,
interazioni fra materia e radiazione, occupazioni di stati quantistici, ecc.) è perché tali
proprietà rimandano, in ultima analisi, ad un “sostrato metafisico” dell’ente chiamato
classicamente “natura” (principio operativo di una essenza), che fa sì che un determinato
ente, in presenza di identiche condizioni e circostanze, agisca e interagisca sempre nello
stesso modo. Tale “substrato metafisico” non è oggetto diretto della indagine empirica delle
scienze, ma rende la scienza possibile, in quanto la scienza si basa sul comportamento legale
degli enti. Va chiarito in proposito, per quanto concerne il comportamento legale degli enti,
che il principio di legalità non è un principio determinista. Il principio di legalità ci dice che
esiste un comportamento legale, uniforme, scoperto induttivamente, che poggia in ultima
analisi sulla stabilità della natura metafisica di un ente. Il principio determinista, invece,
afferma che una volta conosciuto lo stato di un sistema e le leggi che ne descrivono
l'andamento delle sue grandezze fisicomatematiche nello spazio e nel tempo, è sempre
possibile conoscere in modo deterministico la sua configurazione in ogni momento passato
o futuro. L’insufficienza di un principio determinista, messa in luce dall’epistemologia e
dalla stessa scienza contemporanea, non inficia pertanto la validità di un principio di
legalità, senza il quale la stessa scienza non potrebbe sussistere.
Talvolta, le scienze naturali percepiscono l’esistenza di un “fondamento ontologico”
necessario per la loro attività, attraverso un accesso gnoseologico, ovvero quando esse si
imbattono nei fondamenti stessi del conoscere, incontrando i classici problemi di
incompletezza logica oppure ontologica e mostrando la propria incapacità a ricondurre ad
un monismo deduttivo alcuni rapporti irriducibili. Appartengono a questo tipo di rapporti
quelli esistenti, ad esempio: fra leggi di natura e topologia, (o fra il sistema di equazioni che
descrivono un modello cosmologico e le condizioni al contorno), in cosmologia; fra
materia+energia e informazione nello studio del cosmo fisico; fra sintassi e semantica
nell’Intelligenza Artificiale; fra informazione genetica e struttura cellulare in biologia; fra
mente e corpo nello studio del cervello.
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La necessità di un fondamento ontologico è specialmente evidente nella cosmologia
contemporanea, e proprio perché essa, nel tentativo di considerare tutto l’universo come un
solo oggetto di intelligibilità, incontra con frequenza veri e propri problemi di
incompletezza ontologica, che non sono altro se non percezioni dell’esistenza di un
fondamento ontologico che la scienza riceve e non crea.
«La scienza è incompetente a ragionare sulla creazione della materia dal nulla.
Abbiamo raggiunto i limiti estremi delle nostre capacità di pensiero quando abbiamo
ammesso che in quanto la materia non può essere eterna e esistente di per sé stessa deve
essere stata creata. È solo quando contempliamo non la materia in sé, ma la forma in cui
essa effettivamente esiste, che la nostra mente trova qualcosa su cui far presa. Che la
materia come tale debba avere certe proprietà fondamentali —che debba esistere nello
spazio e debba essere capace di movimento, che il suo movimento debba essere persistente
e così via— sono verità che per quanto ne sappiamo possono essere del genere che i
metafisici chiamano necessarie. Possiamo usare la nostra conoscenza di tali verità per scopi
di deduzione, ma non abbiamo dati per la speculazione riguardo alla loro origine»5
In prospettiva teologica, il fatto che esistano dei fondamenti ontologici dell'attività delle
scienze, rimanda in ultima analisi al fatto che l’indagine scientifica non può dare ragione
dell’Essere, dell’intero, del tutto. L’immagine di un Dio Creatore che chiama in essere dal
nulla le cose e che sia la ragione del perché ultimo delle proprietà ultime della loro essenza,
del perché sono così come sono e non altrimenti, ovvero del loro comportamento legale: a)
non interferisce con l’analisi delle scienze (non è un Dio tappabuchi); b) risponde a livelli di
spiegazione di per sé inaccessibili alle risposte delle scienze naturali (ma non estranei alle
domande di queste ultime).
«Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo,
esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un
fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono
considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse.
Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico.
Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o
un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell'esistenza [...] Attraverso il mio lavoro
scientifico sono giunto a credere sempre più fermamente che l’universo fisico è costruito
con un’ingegnosità così sorprendente che non riesco a considerarlo meramente come un
fatto puro e semplice. Mi pare che ci debba essere un livello più profondo di spiegazione. Se
si desidera chiamare tale livello Dio è una questione di gusto e di definizione»6
Fra gli scienziati che hanno messo in luce il problema dei fondamenti ontologici del
sapere scientifico vanno menzionati matematici Federigo Enriques (1871-1946) ed Ennio
De Giorgi (1928-1996), il fisico James Clerk Maxwell (1831-1879), l’astrofisico Paul
Davies (n. 1946).
5
6
J.C. Maxwell, Scientific Papers, 1890, vol. II, p. 375.
P. Davies, La mente di Dio, 1993, pp. 5-7.
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III. Fondamenti logico-epistemologici
«Tutte le discipline —affermava Clemente di Alessandria— sono un aiuto della
filosofia e la filosofia stessa è un aiuto a comprendere la verità»7. Il primo fondamento
epistemologico dell’attività scientifica giace nell’implicito riconoscimento dell’esistenza di
una verità cui la ricerca tende. La scienza sta o cade con il problema della verità.
Quest’ultima è colta certamente nei suoi aspetti logici (principio di non contraddizione,
principio di identità, verità del giudizio, ecc.), ma anche nei suoi aspetti ontologici
(problema del realismo e dell’esistenza di un progresso significativo delle conoscenze al di
là del cambio dei paradigmi conoscitivi impiegati). Perfino un autore come F. Nietzsche,
giungerà ad affermare: «La nostra fede nella scienza poggia sempre su una fede metafisica;
anche noi, attuali ricercatori della conoscenza, noi senza Dio e antimetafisici, riceviamo
tuttora il nostro fuoco dal braciere che una fede millenaria ha acceso ed alimentato, quella
della fede cristiana condivisa anche da Platone, secondo la quale Dio è verità e la verità è
divina».
Un secondo fondamento logico-epistemologico è rappresentato dal fatto che esistono
principi e proposizioni di controllo, mediante i quali operiamo nelle scienze, che sono nonconfutabili e non-verificabili, e nondimeno vengono giustamente considerati come certezze
ultime. Si tratta di certezze e di principi regolatori che hanno una funzione normativa nello
sviluppo di tutta la scienza. Essi appartengono sostanzialmente alla cosiddetta filosofia
prima e al senso comune. Fra essi possiamo ricordare: il principio di non contraddizione; il
principio di identità; il principio di causa; gli elementi primitivi delle definizioni logiche,
geometriche, matematiche, ecc.; i principi della logica formale elementare; ecc.
Tali principi o proposizioni di controllo sono indimostrabili e inconfutabili per due
ragioni. In primo luogo perché devono essere presupposti in qualsiasi tentativo di prova o di
confutazione razionale; in secondo luogo, perché mettono in gioco una relazione fra il
pensiero e una forma di essere che non si può esprimere con modalità Logiche o
dimostrative, in quanto tale relazione è espressione dell’impegno del soggetto verso la
realtà, realtà che la conoscenza razionale presuppone e su cui la ragione riposa quando cerca
la verità. Affermava Blaise Pascal: «I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il
tutto con certezza, sebbene per differenti vie» (Pensieri, n. 149).
Lungi dall’essere irrazionali, tali certezze ultime hanno a che fare con il riferimento
logico e ontologico della ragione alla natura e alla struttura delle cose, riferimento che tutte
le forme di ragionamento sono destinate a seguire. In sostanza, per ogni conoscenza
formalmente definita dobbiamo poggiarci su una conoscenza non-formale di qualcos’altro;
ovvero, non possiamo usare proposizioni formali da sole, separate dalle ipotesi non formali
che regolano la loro funzione.
Appartengono al genere dei presupposti/fondamenti filosofici del conoscere
scientifico: la fiducia nella razionalità e nell’ordine della natura (ovvero fiducia nel
comportamento legale degli enti, nell’esistenza di criteri di simmetria, ecc.); il fatto che il
cosmo sia intelligibile, ovvero esista una “sintonia” tra la struttura della natura (compreso il
fatto che sia matematizzabile) e la nostra mente; assumere (al di là di quanto si potrebbe
concludere su basi meramente empiriche basandosi sul principio di induzione) l’unità e
l’universalità delle leggi di natura e delle proprietà elementari della materia, ovvero il fatto
7
Stromati, lib. VI, cap. 11, 91,1.
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che esse siano rigorosamente identiche dappertutto — in definitiva, l’idea di applicare su
scala universale delle leggi verificate su scala locale.
Alcuni autori hanno talvolta messo in luce la fiducia nella razionalità e nell’ordine
della natura impiegando l’idea di una “fede scientifica”, volendo indicare con questa
espressione semplicemente il fatto che alcuni principi necessari per fare scienza devono
essere dati per presupposti, quasi accettati per fede.
«Lei trova strano che io consideri la comprensibilità della natura (per quanto siamo
autorizzati a parlare di comprensibilità), come un miracolo (Wunder) o un eterno mistero
(ewiges Geheimnis). Ebbene, ciò che ci dovremmo aspettare, priori, è proprio un mondo
caotico del tutto inaccessibile al pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare
che il mondo sia governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra
intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del dizionario, laddove
il tipo d’ordine creato ad esempio dalla teoria della gravitazione di Newton ha tutt’altro
carattere. Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall'uomo, il successo di una tale
costruzione presuppone un alto grado d’ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che,
a priori, non si è per nulla autorizzati ad attendersi. È questo il “miracolo” che vieppiù si
rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze. È qui che si trova il punto debole dei
positivisti e degli atei di professione, felici solo perché hanno la coscienza di avere, con
pieno successo, spogliato il mondo non solo degli dèi (entgöttert), ma anche dei miracoli
(entwundert)»8.
Si tratta dunque di fondamenti di ambito ontologico (essere) con effetti in ambito
epistemologico (conoscere). Oltre alla distinzione fra principio di legalità e principio
determinista, possiamo adesso precisare che ambedue questi principi si differenziano anche
da uno dei più importanti principi presupposti dalla attività delle scienze, il cui ambito è
assai più generale: il principio di causalità. Se il principio di legalità ci dice che esiste un
comportamento legale, uniforme, scoperto induttivamente, tale da rendere disponibile —
come avvenne di fatto in chiave storica — un riferimento ascendente all’esistenza di un
Legislatore, il principio determinista si riferiva alla possibilità di conoscere modo
deterministico la configurazione dello stato di un sistema, in ogni momento passato o
futuro, a partire dalla sua conoscenza nel momento attuale. Il principio di causalità, invece,
ha una portata prima di tutto metafisica e afferma che ogni ente finito e contingente (ordine
dell'essere) ed ogni cambiamento (ordine del divenire) hanno sempre una causa. La validità
di questo principio non dipende dal giudizio sull'uniformità o sulla stabilità delle leggi di
natura, né dalla possibilità di prevedere con precisione tutti gli effetti a partire dalla
conoscenza delle loro cause.
Max Born (1882-1970) sottolineava la necessità di non identificare “causalità” e
“determinismo” come ha fatto erroneamente il meccanicismo. Nella meccanica quantistica
«non è la causalità propriamente detta ad essere eliminata, ma soltanto una sua
interpretazione tradizionale che la identifica con il determinismo»9. In particolar modo egli
sottolinea il fatto che «l’affermazione frequentemente ripetuta, secondo la quale la fisica
A. Einstein, Lettera a M. Solovine, 30.3.1952, in “Opere scelte”, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri,
Torino 1988, pp. 740-741.
9
M. Born, Filosofia naturale della causalità e del caso, Boringhieri, Torino 1982, p. 129.
8
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moderna ha abbandonato la causalità, è del tutto priva di fondamento. È vero che la fisica
moderna ha abbandonato e modificato molti concetti tradizionali; tuttavia cesserebbe di
essere una scienza se avesse rinunciato a ricercare le cause dei fenomeni»10.
È ugualmente un fondamento logico-epistemologico della conoscenza scientifica
l’innata tendenza del ricercatore a conoscere mediante relazioni, a cogliere la realtà come un
tutto, a voler dare una spiegazione coerente ed unitaria dei motivi degli sviluppi e delle
trasformazioni, a voler “mettere ordine”, fiducioso che ciò corrisponda ad un ordine e una
coerenza già presenti in natura. Un ulteriore presupposto epistemologico è quello della
irreversibilità della freccia del tempo, che rende possibile l’idea di “storia naturale”, o di
“storia del cosmo”: la natura può essere letta coerentemente secondo una storia, uno
sviluppo, una evoluzione.
Anche nel caso dei fondamenti logico-epistemologici, come nei due casi precedenti,
esistono delle risonanze di carattere teologico. Una scienza consapevole della propria
apertura a forme di sapere che coinvolgono oggetti formali più ampi, e maggiormente
interessata ai fondamenti del proprio conoscere, resta costitutivamente aperta alla nozione
filosofico-teologica di Logos (ragione, fondamento, ordine, ma anche parola, dialogo), e
può porsi pertanto più facilmente in rapporto anche con la teologia. Di fronte allo stupore
per l’intelligibilità e l’ordine della natura, il teologo può invitare lo scienziato ad aprirsi a
riconoscere ciò che è dato come donato, e dal dono risalire al donatore.
Fra gli scienziati che hanno messo in luce il problema dei fondamenti logicoepistemologici del sapere scientifico vanno menzionati i fisici Max Planck (1858-1947) e
Albert Einstein (1879-1955), il matematico e termodinamico Henri Poincaré (1854-1912).
IV. Fondamenti antropologici
L’impresa scientifica non si presenta mai come attività impersonale e totalmente
oggettivante. Sebbene nel corso del loro procedere ordinario le scienze debbano sviluppare
un metodo oggettivo che prescinda da, e rimuova, nella misura del possibile, ogni posizione
privilegiata dell’osservatore, la dimensione “soggettivo-personale” del ricercatore interviene
in modo determinante nella genesi e nella dinamica di ogni ricerca11. In merito al
coinvolgimento personale presente in ogni ricerca, nel suo libro La conoscenza personale,
Polanyi riporta questo consiglio di Baker ai ricercatori: «Alzatevi al mattino col vostro
problema davanti agli occhi. Fate colazione con esso. Andate al laboratorio con esso.
Prendete con esso il pasto di mezzogiorno. Tenetevelo con voi dopo il pasto. Andate a letto
con esso nella mente. Sognatevelo»12.
I fattori e il contesto personali del ricercatore sono determinanti perché in base ad
essi il soggetto sceglie cosa valga la pena di studiare e di ricercare, basandosi su criteri
spesso incomunicabili. Saranno queste motivazioni personali il principale fattore che
sosterrà nel tempo la sua ricerca. L’intuizione di un’ipotesi, la formulazione di una teoria e
10
Ibidem, p. 14.
Riflessioni assai utili in proposito sono contenute in M. Polanyi. La conoscenza personale (1958),
Rusconi, Milano 1990; J.C. Polkinghorne, Scienza e fede, Mondadori, Milano 1987; T. Torrance, Senso del
divino e scienza moderna, LEV, Città del Vaticano 1992; E. Cantore, L'uomo scientifico. Il significato
umanistico della scienza (1977), EDB, Bologna 1988.
12
J.R. Baker, Science and the Planned State, cit. in M. Polanyi, La conoscenza personale, Rusconi, Milano
1990.
11
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la stessa dinamica della scoperta rispondono spesso a precomprensioni e convincimenti del
soggetto, di ordine euristico, filosofico e comunque extrascientifico (forma mentis), presenti
nel ricercatore a livello di conoscenza sintetica, tacita, inespressa. Nei loro aspetti
sistematici, le formulazioni scientifiche rispecchiano generalmente criteri di semplicità e di
eleganza, ritenuti normativi, e spesso impiegati quali criteri di verità, in base ai quali
operare un controllo sui risultati: «È più importante che le proprie equazioni siano “belle”
affermava Paul Dirac — piuttosto che esse combacino con gli esperimenti, perché se si
lavora con la prospettiva di rendere belle le equazioni, e si possiede una profonda intuizione,
si è certamente sulla strada del vero progresso nella conoscenza scientifica»13.
Da parte di chi ha condotto una ricerca, la presentazione di dati sperimentali — come
ben sa chi si è occupato di analisi di dati— risente di una carica “esistenziale” che consente
di “vedere” in essi di più di quanto non vedano gli altri, semplicemente perché egli possiede
una maggiore conoscenza contestuale, non formalizzabile, e in parte non comunicabile, che
rappresenta un reale coefficiente di conoscenza del soggetto.
Parte del fondamento antropologico dell’impresa scientifica è rappresentato dalla
presenza, non sempre esplicitamente riconosciuta, di una dimensione etica interna
all’attività scientifica. Lo scienziato può percepirla in modo non-eteronomo, ovvero come
esigenza intrinseca che scaturisce dal suo stesso fare scienza, una volta riconosciuta alla
scienza la capacità di legare alla verità e di non fermarsi alle sole apparenze. Come “attività
della persona”, la scienza non è mai “neutra”. Poiché la libertà può predicarsi solo di un
soggetto “personale”, risulta più logico parlare di “libertà del ricercatore” piuttosto che di
“libertà di ricerca”. La dimensione antropologica delle scienze viene oggi spesso indicata
come “dimensione umanistica delle scienze” e rappresenta una delle basi di riflessione
dell’umanesimo scientifico (la scienza come valore umano, come fattore di umanizzazione,
ecc.).
«[Parlare di umanesimo nella scienza] non vuol dire temere che si prospetti una sorta
di “controllo umanistico sulla scienza”, quasi che, sul presupposto di una tensione dialettica
tra questi due ambiti del sapere, fosse compito delle discipline umanistiche dirigere ed
orientare in modo estrinseco i risultati e le aspirazioni delle scienze naturali, protese verso la
realizzazione di sempre nuove ricerche e l’allargamento dei loro orizzonti applicativi […].
Le responsabilità etiche e morali collegate alla ricerca scientifica possono essere colte come
un’esigenza interna alla scienza in quanto attività pienamente umana, non come un
controllo, o peggio un’imposizione, che giunga dal di fuori. L’uomo di scienza sa
perfettamente, dal punto di vista delle sue conoscenze, che la verità non può essere
negoziata, oscurata, o abbandonata alle libere convenzioni o agli accordi fra i gruppi di
potere, le società o gli Stati. Egli, dunque, a motivo del suo ideale di servizio alla verità,
avverte una speciale responsabilità nella promozione dell’umanità, non genericamente o
idealmente intesa, ma come promozione di tutto l’uomo e di tutto ciò che è autenticamente
umano»14.
In prospettiva teologico-religiosa, va considerato che alcune delle precomprensioni di
natura filosofica presenti nel soggetto che fa scienza possono avere un’origine anche
religioso-esistenziale. Lo sono a livello di motivazioni che sostengono l’attività scientifica,
13
14
P. Dirac, The Evolution of Physicist’s Picture of Nature, “Scientific American” 208 (1963), n. 5, p.47.
Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13 novembre 2000, nn. 2 e 3.
65
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27 LUGLIO - 2 AGOSTO
come ben messo in luce da questa riflessione di Poincaré: «Lo scienziato non studia la
natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere; e ne ricava piacere perché è
bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena di sapere e la vita non sarebbe
degna di essere vissuta»15. La personale visione religiosa può inoltre influire a livello di
visioni unificanti di ambito generale: fiducia nella razionalità del cosmo, valore universale
delle leggi di natura perché si considera l’universo come unico effetto di un’unica causa,
giudizio di insufficienza verso metodologie riduzioniste e scelta di approcci di natura
olistica, operatività di concezioni capaci di comporre poli opposti, non contraddittori, in
modo non dialettico, ecc. È dunque la fede teologica nel fatto che un Logos esiste davvero
nella natura, perché la natura è creata, l’origine della fiducia nella comprensibilità della
natura:
«Tanto il credente come il non credente si impegnano a decifrare il complicato
palinsesto della natura, dove le tracce delle diverse tappe della lunga evoluzione del mondo
si sono sovrapposte e confuse. Il credente può avere però un vantaggio, quello di sapere che
l'enigma ha una soluzione, che la scrittura che vuole decifrare è, in fin dei conti, opera di
una intelligenza, poiché il problema posto dalla natura è stato posto per essere risolto e la
difficoltà di risolverlo è proporzionata senza dubbio alle capacità della ragione, dell'umanità
presente o di quella che verrà»16.
L’“esperienza dei fondamenti” dell’essere e del conoscere, come percepita dal
ricercatore di fronte alle incompletezze di ordine logico e ontologico, può confluire in una
percezione dell’Assoluto, e dunque in un’esperienza di natura religiosa. La percezione di
una dimensione etica interna all’attività scientifica può far cogliere la corrispondenza, nel
mondo reale, fra essere e significato: le cose significano qualcosa, ovvero la loro “natura” e
non possono essere trattate, manipolate o impiegate, prescindendo da essa. Dio creatore è, in
definitiva, l’autore e il garante della natura e del significato di ogni cosa e, dunque, del loro
valore etico. Fra gli autori che hanno messo in luce il problema dei fondamenti
antropologici del sapere scientifico vanno menzionati il chimico-fisico Michael Polanyi
(1891-1976), il fisico John C. Polkinghorne (n. 1930), il filosofo Thomas F. Torrance (n.
1913), il filosofo e fisico Enrico Cantore (n. 1926)
V. Osservazione conclusiva
Il filosofo e lo scienziato devono entrambi ascoltare la natura, ma lo fanno in modo
diverso. Il filosofo ascolta la natura come lo studente ascolta un maestro; lo scienziato la
ascolta come un avvocato il testimone che interroga. Lo scienziato deve formulare delle
domande precise — attraverso esperimenti — ed otterrà risposta, eventualmente, solo a ciò
che chiede; il filosofo, il metafisico in particolare, ascolta cercando di ridurre al minimo le
sue precomprensioni e accontentandosi di informazioni del tutto generali. Lo studente non
chiede al maestro la ragione dell’ordine con cui gli vengono trasmesse le conoscenze, ma in
un certo senso la “scopre” come dato e ne cerca il motivo a posteriori. L’avvocato può
15
H. Poincaré, in S. Chandrasekhar, Verità e bellezza, Garzanti, Milano 1990, p. 99.
G. Lemaître, citato da O. Godart, M. Heller, Les relations entre la science et la foi chez Georges Lemaître,
in “Pontificia Academia Scientiarum”, Commentarii, vol. III, n. 21, p. 7.
16
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imporre il suo ordine al ragionamento da ricostruire, ma deve essere disposto a rivederlo
continuamente17. Non è probabilmente per caso che Fisica di Aristotele avesse
significativamente, come titolo, Φυσική Aκρόασις, ovvero, letteralmente l’Ascolto della
Natura.
M 106 (nota anche come NGC 4258): galassia a spirale nella costellazione dei Cani da Caccia.
L’immagine viene suggestivamente proposta da M. Augros, Reconciling Science with Natural Philosophy,
“The Thomist” 68 (2004), pp. 105-141.
17
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Articolo n. 18: Theologia physica? Razionalità scientifica e domanda su Dio, G.
Tanzella-Nitti
Da Hermeneutica (2012), 37-54
1. Introduzione: Theologia physica e discorso su Dio
Commentando un brano delle Antiquitates di Marco Terenzio Varrone, sant’Agostino
riprende nel libro VI del De civitate Dei la tripartizione classica fra tre diverse forme della
religione, conseguenza di tre diversi “discorsi su Dio” – tre “teologie” appunto – indicate
come theologia civilis, theologia physica e theologia mythica, ciascuna delle quali si
esprime in un luogo contestuale specifico, rispettivamente la polis, il kosmos e il theatrum.
Come è noto, il Vescovo di Ippona prende spunto dal suggerimento implicito di Varrone di
accordare una maggiore istanza veritativa alla seconda, la theologia physica, per affermare
che i cristiani, al momento di parlare di Dio, dovevano realizzare una scelta analoga18. Il
motivo addotto è il legame di questa theologia con la realtà, dunque con l’essere: mentre i
poeti parlano degli dei del teatro come favole (mythoi) e gli imperatori si fanno dei pur
restando uomini, i physici, cioè i filosofi naturali, parlano di un logos e di uno theion a
partire dall’essere del cosmo, quel medesimo cosmo che i cristiani sanno creato dall’unico
Dio. In sintonia con Agostino si erano già pronunciati Ireneo, Atanasio, Clemente di
Alessandria, diversi apologeti greci, Basilio e perfino lo stesso Tertulliano. Dovendo parlare
di Dio, e dovendo annunciare il Dio di Gesù Cristo, i cristiani non potevano fare altro che
poggiarsi su quell’accesso all’Assoluto disponibile attraverso l’osservazione della natura e
la riflessione sul cosmo
2. Una simile scelta è già precocemente formulata da san Paolo nel corso del suo
viaggio apostolico con Barnaba a Listra. Come si ricorderà, successivamente ad un miracolo
di guarigione realizzato dall’apostolo, il popolo inneggia a Paolo e a Barnaba come a Zeus e
a Mercurio, e i sacerdoti di Zeus scendono in piazza per offrire un sacrificio idolatrico (cfr.
At 14,8-18). Non è certo questo, per Paolo, il contesto adatto ad un discorso sul vero Dio.
Per fermare la folla e distoglierla dal suo intento, egli non ha altra scelta che proporre un
riferimento cosmologico al Dio che ha creato il cielo e la terra, che ha donato con la sua
Provvidenza piogge e stagioni. Questo Dio, i cui effetti sono per così dire sotto gli occhi di
tutti, è il Dio che Paolo predica: questo Dio è il Dio di Gesù Cristo, la cui morte e
risurrezione gli apostoli annunciano. Uno sguardo al dibattito contemporaneo come raccolto
dai mass media non sembra tuttavia mostrare che lo studio del cosmo fisico, e delle scienze
naturali in genere, quando presentato dai physici del XXI secolo, favorisca ancora un
1
«La prima teologia, egli dice, è soprattutto adatta al teatro, la seconda al mondo, la terza alla città. Chi non
vede a quale [Varrone] ha accordato la preferenza? Certo alla seconda che, come precedentemente ha detto, è
dei filosofi. Egli dichiara infatti che essa appartiene al mondo che, secondo il pensiero dei pagani, è l’aspetto
più nobile della realtà», Agostino di Ippona, Confessiones, VI, 5, 3. Nel quadro di un confronto con la
situazione contemporanea, il commento agostiniano a Varrone viene ripreso e sviluppato in una conferenza
tenuta dall’allora card. Joseph Ratzinger alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999 intitolata Verità del
cristianesimo? e pubblicata in J.Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, pp. 170-192. 04
Tanzella-Nitti.
68
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accesso a Dio, ma suggerirebbe piuttosto di collocare tale studio a sostegno dei “nuovi
ateismi e delle vecchie idolatrie”, cui fa riferimento il titolo di questo fascicolo di
«Hermeneutica». Nell’analisi del kosmos e delle sue leggi molti vedono un terreno fertile
per una nuova e più convincente negazione di Dio, la proposta di una conoscenza della
realtà alternativa a quella offerta da una filosofia metafisica o dalla Rivelazione ebraicocristiana, proprio quella Rivelazione il cui annuncio Paolo ed Agostino intendevano di fatto
avvalorare rivolgendo lo sguardo alla natura. Non vi è dubbio che la divulgazione scientifica
di alcuni pochi autori, ed una concertata risonanza mediatica in Italia e all’Estero, possano
aver svolto un ruolo determinante nella diffusione di queste tesi; resta tuttavia il fatto che sia
la riflessione filosofica, sia quella teologica, sono chiamate a prendere in esame quanto si
dibatte sulla piazza per inquadrarlo in termini corretti.
In questo intervento mi propongo di esaminare i seguenti punti. Dapprima cercherò
di mostrare, limitandomi necessariamente ad alcuni temi oggi più dibattuti, se lo studio delle
scienze naturali sia in grado di sostenere un ateismo cosiddetto scientifico.
Successivamente, sarà mio intento principale sviluppare l’idea che la conoscenza
scientifica19 resta aperta al riconoscimento di fondamenti ontologici e logici del reale,
nonché alla percezione di un logos colto come fonte della razionalità, dell’intelligibilità e
dell’informazione presenti nella natura. Inoltre, l’innata predisposizione del discorso
scientifico a proporre visioni unitarie e totalizzanti del reale, concepite per abbracciare con
un unico sguardo la storia evolutiva del cosmo e della vita, può essere lecitamente
interpretata come riflesso della ricerca di un senso globale, come desiderio di conoscenza
dell’intero quale unico luogo dove può abitare la verità. Infine, seguendo una prospettiva a
me più congeniale, quella della teologia fondamentale, mi propongo di esaminare se vi sia
spazio per un possibile raccordo fra un logos percepito nell’attività delle scienze ed un
discorso su Dio fruibile in sede di annuncio della fede cristiana.
Affinché un simile itinerario sia percorribile, si rendono tuttavia necessarie alcune
importanti precisazioni. In primo luogo il riferimento alla conoscenza scientifica non può
essere confinato al piano epistemologico, ma deve accedere anche al piano antropologico;
ovvero la ricerca scientifica va restituita alla sua dimensione personalista, una dimensione
che nutre il ricercatore con specifiche passioni ed aspirazioni, senza le quali la stessa scienza
non sarebbe possibile. In secondo luogo, e a scanso di malintesi, ogni discorso su Dio deve
necessariamente sottostare ad un chiarimento terminologico circa le diverse modalità con
cui viene declinato. Una cosa è infatti parlare di un logos colto come Fondamento e come
razionalità da chi fa ricerca e riflette filosoficamente sui risultati delle scienze; un’altra cosa
sono le immagini dell’Assoluto e dell’Incondizionato come disponibili ad un’analisi
metafisica che operi in continuità con una filosofia della natura; ed infine ancora un’altra
cosa è un’immagine di Dio colta dal senso religioso o associata ad una rivelazione storica. È
contro quest’ultima immagine – che si intende ultimamente negare – che si dirigono in
fondo le critiche dell’ateismo. Trascurare queste differenze e non collocare ogni analisi nel
suo preciso contesto filosofico e lessicale è fonte, nel passato come nel presente, di
numerose incomprensioni e ambiguità, rendendo spesso sterile il dibattito perché ingaggiato
da attori (teologi compresi) che attribuiscono contenuti diversi ad uno stesso termine.
19
Così lo ricorda anche Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 14.9.1998, n. 36.
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Tuttavia, pur trattandosi di modalità cui corrispondono immagini diverse, queste sono
sempre suscettibili di una paziente articolazione – almeno questo è il mio punto di vista –
che le riconduca tutte ad un medesimo Soggetto trascendente20.
2. Physis, kosmos, logos: il riferimento a Dio nel contesto della riflessione filosofica
sulle scienze
Se esistono senza dubbio delle grandi differenze fra i physici dell’età classica e coloro che
oggi studiano la natura con i metodi e i mezzi della ricerca scientifica contemporanea, è pur
sempre vero che entrambi partivano e partono da una physis e da un kosmos e da quali fonte
e contesto della loro indagine. Un kosmos che nonostante la frammentarietà e la
specializzazione dell’impresa scientifica, la scienza non rinuncia a voler tematizzare come
un oggetto unico di intelligibilità, dalla sua origine radicale fino al suo futuro prevedibile;
una physis che la scienza indaga in profondità, per comprendere la natura e le trasformazioni
della materia e della vita. Nel presente, come nel passato, la nozione di Dio riaffiora quando
si dibatte sulle ragioni ultime dell’essere e del divenire, della razionalità e del senso,
dell’origine e del fine di tutto.
È frequente includere oggi nel fenomeno dei “nuovi atei” o dei “nuovi ateismi”
quelle negazioni di Dio che paiono sorgere in un contesto scientifico21. Occorre però notare
che la letteratura che ospita tale negazione è rappresentata esclusivamente da opere di tipo
divulgativo, saggistico o polemico; non esistono, a mia conoscenza, articoli di riviste
scientifiche in senso stretto – quelle riviste, cioè, che la comunità dei ricercatori impiega
come riferimento obbligato per la pubblicazione e la comunicazione di teorie,
interpretazioni e risultati – che abbiano ospitato questo tipo di negazione. Se ci dirigiamo ad
opere di carattere biografico o testimoniale, quest’ultimo genere di scritti ospita invece, in
larga maggioranza, proprio la tesi opposta, ovvero riflessioni sulla plausibilità della nozione
di Dio. In ogni caso, vediamo brevemente quali sono i contesti, di ambito sia fisico che
biologico, nei quali il tema è stato riaperto.
Una negazione di Dio viene in ambito fisico-cosmologico sostenuta in genere nei
seguenti contesti: a) l’indagine empirica circa l’origine dell’universo, specie in merito a quei
modelli cosmologici che prescindono da una singolarità spazio-temporale o trattano
l’universo come un singolo oggetto quantistico, sostenendone pertanto la natura eterna e
incausata o l’apparizione del tutto accidentale; b) il rimando all’esistenza di infiniti universi
indipendenti, quale “soluzione” alle inaspettate caratteristiche del nostro universo finemente
sintonizzato per ospitarvi la vita, come suggeriscono i dati scientifici organizzati attorno al
Principio Antropico nella sua formulazione cosiddetta debole: si intende così opporre
l’indeterminazione e la casualità radicali a ogni parvenza di finalismo: in sostanza, forse non
20
La tematica è in fondo quella abitualmente tematizzata come interrogativo circa la continuità/identità fra il
Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ed il Dio dei filosofi e degli scienziati. Sul tema, J. Ratzinger, Il Dio della
fede e il Dio dei filosofi (1959), Marcianum Press, Venezia 2007. Ho offerto un personale sviluppo del tema
in G. Tanzella-Nitti, L’unità dell’accesso alla verità nella Fides et ratio: quale ruolo per il pensiero scientifico?, in
«Annales theologici» 23 (2009), pp. 377-388.
21
Cfr. J. Haught, Dio e il nuovo ateismo, Queriniana, Brescia 2009; A. Aguti, La critica naturalistica alla
religione in R. Dawkins e D. Dennett, in La differenza umana. Riduzionismo e antiumanesimo
(«Anthropologica» Annuario di Studi filosofici), a cura di L. Grion, la Scuola, Brescia 2009, pp. 55-99. Del
fenomeno si è anche occupato un numero monografico della rivista «Concilium» 4 (2010), nel quale
segnaliamo l’articolo di A. McGrath, Gli ateismi di successo. Il nuovo scientismo (pp. 17-29).
70
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siamo comparsi per caso nel nostro universo, ma il nostro universo è casualmente uno dei
tanti; c) l’interpretazione in senso materialista ed immanente del Principio Antropico nella
sua formulazione forte: l’origine e la storia del cosmo, e in esso la vita intelligente,
sarebbero conseguenza di un necessario determinismo legato all’essere stesso del cosmo,
inteso come realtà ultima incapace di rimandare al di là di se stessa; d) la sufficienza delle
leggi di natura quale spiegazione esaustiva dell’essere e del divenire del cosmo, anch’essa
proposta come forma di monismo materialista. In ambito biologico, come è noto, la presunta
negazione di Dio, prende le mosse dal tentativo di rimuovere ogni possibile riferimento alla
presenza di un finalismo in natura, tentativo anch’esso declinato in vari contesti: a)
l’interpretazione della comparsa della vita come puro epifenomeno aleatorio; b) la
radicalizzazione di una prospettiva darwinista tesa a spiegare sia la diversificazione
morfologica e funzionale dei viventi, sia la loro progressiva complessificazione fino alla
comparsa dell’essere umano, come unicamente dovute alla selezione naturale di individui
con mutazioni genetiche casuali; c) la lettura della comparsa dell’uomo sul pianeta come un
evento totalmente accidentale, rimuovendo così ogni legame con la presenza di un piano
creativo trascendente; d) infine, la comprensione in chiave materialista e fisicalista delle
manifestazioni tradizionalmente attribuite alla vita spirituale dell’essere umano e ritenute
segno di un suo rimando alla trascendenza, quali l’auto-riflessione, la capacità di
conoscenza e di progresso, la libertà, il senso religioso.
L’inadeguatezza epistemologica e spesso anche l’insufficiente fondazione logicoteoretica di tali negazioni di Dio è stata messa in luce lungo le ultime decadi da diversi
autori, e non intendo qui riprenderne le critiche puntuali, perché facilmente disponibili in
letteratura22. Può essere però interessante chiedersi quale immagine di Dio tali critiche
intendano negare. Praticamente in tutti i casi non si ha a che fare con una tematizzazione
dell’Assoluto in ambito logico-analitico, metafisico, o filosofico in genere, ambiti nei quali
la maggioranza dei “nuovi ateismi” si muove con impaccio; né si offre un previo, necessario
quadro filosofico del modo con cui si intendono impostare i rapporti fra Dio e natura,
Cfr. R. Timossi, L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo
2009; T. Crean, Non di sola materia. In risposta a “L´illusione di Dio” di Richard Dawkins, ESD, Bologna
2009; A. McGrath, A fine-tuned Universe. The Quest for God in Science and Theology, Westminster John
Knox Press, Louisville 2009; K. Giberson - M. Artigas, Oracles of Science: Celebrity Scientists versus God
and Religion, Oxford University Press, Oxford 2007; A. McGrath - J. Collicutt McGrath, The Dawkins
delusion?, SPCK, London 2007; J.J. Sanguineti, Filosofia della mente, Edusc, Roma 2007; R. Swinburne,
The Revival of Natural Theology, in «Archivio di Filosofia» 75 (2007), pp. 303-322; A. McGrath, Dio e
l’evoluzione. La discussione attuale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; R. Swinburne, The Existence of
God, Clarendon Press, Oxford 2004; R.J. Russell, T=0: Is It Theologically Significant?, in Religion and
Science: History, Method, Dialogue, a cura di W.M. Richardson - W.J. Wildman, Routledge, New York
1996, pp. 201-224; J. Zycinski, Metaphysics and Epistemology in Stephen Hawking’s Theory of the
Creation of the Universe, in «Zygon» 31 (1996), pp. 269-284; R.J. Russell, Finite Creation Without a
Beginning: The Doctrine of Creation in Relation to Big Bang and Quantum Cosmologies, in Quantum
Cosmology and the Laws of Nature, a cura di R. Russell - N. Murphy - C. Isham, Vatican Observatory and
The Center for Theology and the Natural Sciences, Città del Vaticano-Berkeley (CA) 1993, pp. 293-329; C.
Isham, Creation of the Universe as a Quantum Process, in Physics, Philosophy and Theology. A Common
Quest for Understanding a cura di R. Russell - W. Stoeger - G. Coyne, LEV and University of Notre Dame
Press, Città del Vaticano 1988, pp. 375-408. Sul tema, anche le voci da me firmate sul Dizionario
Interdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di G. Tanzella-Nitti - A. Strumia, Urbaniana University PressCittà Nuova, Roma 2002: “Antropico, principio” (pp. 102-120); “Creazione” (pp. 300-321); “Dio” (pp. 404424).
22
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mancando il quale ogni dibattito fra materialismo, naturalismo e teismo si tramuta in una
pura elucubrazione. In queste opere ci si riferisce piuttosto ad un’immagine di Dio quale
Agente fisico generico, la cui azione causale è in competizione con quella delle leggi fisiche
o dei processi biologici, un Agente ritenuto responsabile di una certa fenomenologia che si
intende, appunto, ascrivere ad altri agenti, materiali o naturali23. Sullo sfondo di tali
negazioni giace sempre il desiderio dei “nuovi ateismi” di rimuovere l’idea di finalità
ovunque essa possa comparire, proprio perché facilmente associata da tutti al ruolo di un
Creatore intelligente ed alla sua intenzionalità. Frequente il taglio idealistico di molte delle
argomentazioni adottate, teso a chiudere in modo aprioristico delle incompletezze logiche,
oppure ontologiche, presenti nella descrizione fisica del mondo, che un sano realismo
suggerirebbe invece di lasciare aperte. Non viene fornita alcuna soluzione al problema della
contingenza, che viene ignorato o creduto risolto entro un monismo materialista di cui non
si coglie l’intima contraddizione.
Eppure, a ben vedere, la voce della scienza non si esaurisce tutta qui. Non mancano
ricercatori – anzi paiono ben più numerosi – i quali, partendo anch’essi da riflessioni che
puntano, dall’interno dell’attività delle scienze, verso le domande ultime sull’origine, sul
fondamento, sulla razionalità, e sul posto dell’uomo nel cosmo, maturano riflessioni di
carattere assai diverso. Essi colgono l’insufficienza del formalismo scientifico per risolvere
questioni radicali che pure si intravedono nel lavoro dello scienziato, segnalano la naturale
apertura del linguaggio scientifico verso metalinguaggi collocati a un maggior grado di
astrazione, riscoprono nozioni di sapore metafisico. A differenza del primo gruppo di autori,
le cui riflessioni circa una negazione di Dio non trovavano spazio nella letteratura scientifica
propriamente detta, questi ultimi hanno invece saputo tradurre i loro suggerimenti in termini
formali più rigorosi. Si pensi a uomini di scienza come G. Cantor per la Matematica, K.
Gödel per la Logica, A. Tarski e A. Turing per l’Informatica e Computabilità, J.C. Maxwell,
M. Planck, W. Heisenberg ed A. Einstein per la Fisica, G. McVittie, G. Ellis, P. Davies o J.
Barrow per la Cosmologia, S. Kauffman, F. Collins o S. Conway Morris per la Biologia, o
perfino a quanto maturato da L. Wittgenstein nell’ambito della Filosofia del linguaggio.
Tutti questi autori, in epoche e in contesti diversi, hanno messo in luce l’esistenza di un vero
e proprio “problema dei fondamenti”, hanno indicato la sensatezza filosofica di domande
circa l’intelligibilità e la razionalità del reale, hanno precisato l’inaspettata sintonia fra le
leggi della fisica e le condizioni necessarie alla vita, hanno indicato l’esistenza di rapporti
irriducibili a un monismo deduttivo24. In opere di tipo testimoniale hanno invece parlato
dello stupore di fronte al reale quale atteggiamento essenziale del ricercatore, dell’apertura
Non sarebbe del tutto superfluo chiedersi come mai alcuni esponenti dell’ambiente scientifico, specie
quello anglosassone, siano così facilmente inclini a rappresentarsi una simile immagine di Dio, quale agente
e soggetto di interventi in natura, la cui esistenza si giocherebbe proprio sulla verifica di una tale azione
causale. Ritengo, come ho avuto personalmente modo più volte di notare, che ciò sia dovuto ad una scarsa
familiarità con categorie metafisiche, necessarie per la comprensione di cosa vogliano dire causalità
trascendente, analogia e partecipazione nell’essere. La consuetudine con una filosofia di taglio quasi
esclusivamente logico-analitico e una storia della filosofia che parte quasi sempre da autori quali Kant e
Hume, ignorando spesso quanto dibattuto (e risolto) nelle epoche precedenti, sono probabilmente fra le
maggiori cause di questa difficoltà.
24
Anche qui, la puntuale citazione di opere ed autori oltrepassa le finalità della presente relazione. Rimando
il lettore agli indici del già citato Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede per quanto riguarda i percorsi
storici e filosofici degli autori menzionati nel testo.
23
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della conoscenza scientifica al mistero dell’essere, delle motivazioni esistenziali e talvolta
persino religiose che hanno sostenuto la loro ricerca25. Da un punto di vista aneddotico, non
è superfluo ricordare che un filosofo come Anthony Flew aveva in tempi recenti rivelato il
suo passaggio dall’ateismo al teismo (o al deismo, se si preferisce) come dovuto proprio
all’incontro con questa letteratura scientifica, contrariamente a quanto i “nuovi ateismi”
avrebbero pronosticato.26
Il riconoscimento in ambito scientifico del problema dei fondamenti può essere
posto in relazione con alcuni quadri filosofici classici, come la teoria delle scienze
subalterne, l’ordinamento gerarchico dei diversi gradi di astrazione, l’analogia dell’essere e
la stessa nozione di trascendenza27. Lo scienziato li ritrova inaspettatamente sul suo
percorso concettuale, ed è proprio accettarne l’operatività che lo protegge dal riduzionismo
e dalle ideologie. Per poter fare scienza, egli si rende conto che deve restare aperto al reale,
in certo modo assentire ad esso, senza cercare scappatoie o chiusure ideologiche. Così
facendo, egli comprende che deve ricevere come dati, cioè non posti dal soggetto, una certa
dose di elementi di meta-fisica: l’essere e la natura delle cose, la stabilità e l’universalità
delle proprietà degli enti materiali, la presenza di informazione nella natura intima della
materia e della vita, la razionalità e l’intelligibilità del reale fisico28. Si tratta di nozioni, in
25
Fra le tante opere che offrono una simile testimonianza, valga citarne solo alcune: T. Dobzhanski, Le
domande supreme della biologia, de Donato, Bari 1969; M. Planck, Scienza filosofia e religione, Fabbri,
Milano 1973; J. Eccles, Il mistero uomo, Il Saggiatore, Milano 1981; A. Salam, Ideali e realtà, Lint, Trieste
1986; A. Einstein, Come io vedo il mondo, Newton Compton, Roma 1993; H. Poincaré, Il valore della
scienza, La Nuova Italia, Firenze 1994; W. Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965,
Bollati Boringhieri, Torino 1999; F. Collins, Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia fra scienza e
fede, Sperling & Kupfer, Milano 2007. Per una documentazione generale, cfr. ad esempio H. Muschalek,
Dio e gli scienziati, Paoline, Alba 1972; E. Cantore, L’uomo scientifico. Il significato umanistico della
scienza, Dehoniane, Bologna 1987; M. Bersanelli - M. Gargantini, Solo lo stupore conosce. L’avventura
della ricerca scientifica, Rizzoli, Milano 2003.
26
Cfr. A. Flew - R.A. Varghese, Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa &
Omega, Caltanisetta 2010.
27
Esiste un consenso significativo circa il fatto che lo scienziato percepisce il “problema dei fondamenti” a
diversi livelli: come incapacità di auto-fondazione del metodo scientifico o dei suoi oggetti, come interna
contraddizione di sistemi assiomatici auto-referenziali, come riconoscimento della irriducibilità a un
monismo riduzionista di realtà diverse che concorrono a un medesimo fenomeno, quali ad esempio
l’irriducibilità fra semantica e sintassi nella teoria dell’informazione, fra topologia e leggi di natura in
cosmologia; fra processi biologici e codifica genetica del loro sviluppo; fra la fisiologia del cervello (brain) e
la mente (self, piuttosto che mind) che emerge sul piano fisiologico. Sul tema, A. Strumia (ed.), I fondamenti
logici e ontologici della scienza. Analogia e causalità, Cantagalli, Siena 2006; Id. (ed.), Il problema dei
fondamenti. Da Aristotele a Tommaso d’Aquino all’ontologia formale, Cantagalli, Siena 2007; Id., Il
problema dei fondamenti. Un’avventurosa navigazione dagli insiemi agli enti passando per Gödel e
Tommaso d’Aquino, Cantagalli, Siena 2009. Cfr. anche G. Tanzella-Nitti, I fondamenti filosofici dell’attività
scientifica, in Scienze fisiche e matematiche: istanze epistemologiche ed ontologiche, a cura di R. Presilla S. Rondinara, Città Nuova, Roma 2010, pp. 161-181.
28
«Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano
sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la
validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove
hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni
ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la
logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell’esistenza», P. Davies, La mente di Dio. Il
senso della nostra vita nell’universo, Mondadori, Milano 1993, p. 5. Analoghe riflessioni sono rintracciabili
in vari altri autori: cfr. J.C. Maxwell, Scientific Papers, 1890, vol. II, p. 375; L. De Broglie, Fisica e
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ambito sia fisico che biologico, che sembrano tutte puntare verso l’indicazione della
presenza di informazione, quando non della trascendenza sulla materia di vere e proprie
cause formali. Ma c’è qualcosa di più. A motivo dello stretto, intimo legame fra causalità
formale e causalità finale, anche se sorte in un contesto scientifico simili riflessioni restano
implicitamente collegate alle nozioni di Assoluto, di Causa prima e di Causa finale, e
dunque restano, in linea di principio, disponibili a un riferimento indiretto alla nozione di
Dio. Ne offre una controprova il fatto che non pochi scienziati, in opere di carattere
divulgativo o biografico-testimoniale, ragionando filosoficamente sui risultati della scienza
e sulle visioni filosofiche che ne derivano, fanno esplicito riferimento alla nozione di Dio,
non per negarla, ma per affermarne invece la ragionevole possibilità29.
É necessario qui osservare che tanto il problema dei fondamenti, quanto le aperture
della conoscenza scientifica verso una filosofia della natura ed una metafisica, emergono
con maggiore chiarezza quando si ragiona in termini di conoscenza personale, spostandosi
pertanto dal piano epistemologico a quello antropologico30. È infatti lo scienziato, come
soggetto personale, a percepire fondamenti, intelligibilità e trascendenza, laddove il metodo
scientifico può segnalare soltanto la presenza di incompletezze e di aporie, o la necessità di
principi e di nozioni primitive. La stessa nozione di informazione, il cui ruolo pare piuttosto
strategico, a ben vedere può essere colta in modo compiuto solo da un’intelligenza
personale, laddove il metodo scientifico rileva solo irriducibilità alla materia o presenza di
codifica. Non va dimenticato che proprio la natura non-materiale della forma rimanda alla
dimensione spirituale come luogo ove abita compiutamente il riconoscimento
dell’intelligibilità e dell’intenzionalità. Se l’interlocutore è lo scienziato come persona,
allora è a mio avviso del tutto adeguato riunire insieme la percezione dei fondamenti, il
riconoscimento della razionalità, dell’intelligibilità e dell’informazione, sotto una comune
nozione di logos. La natura e il reale fisico, infatti, si presentano come un’alterità di fronte
al soggetto, un’alterità che norma le categorie conoscitive di quest’ultimo e impone la sua
datità. Non si tratta però di una semplice alterità, bensì di un’alterità dia-logica, che il
soggetto personale può riconoscere come fonte di informazione e perfino di senso. Eppure,
microfisica, Einaudi, Torino 1950, p. 216; A. Einstein, Lettera a M. Solovine, 30.3.1952, in Opere scelte, a
cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 740; W. Heisenberg, Fisica e oltre, Bollati
Boringhieri, Torino 1984, p. 225; J. Barrow, Teorie del tutto, Adelphi, Milano 1992, pp. 354-355.
29
Fra i molti esempi possibili, si vedano ancora P. Davies, La mente di Dio. Il senso della nostra vita
nell’universo, Mondadori, Milano 1993; F. Collins, Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia fra
scienza e fede, Sperling & Kupfer, Milano 2007; O. Gingerich, Cercando Dio nell’universo. Un grande
astronomo tra scienza e fede, Lindau, Torino 2007; A. Ambrosetti, La matematica e l’esistenza di Dio,
Lindau, Torino 2009.
30
Una precoce intuizione circa l’opportunità di comprendere la conoscenza scientifica come conoscenza
personale e non meramente oggettiva o impersonale, può rintracciarsi già nell’opera di M. Blondel,
L’Azione, specie nei capitoli III e IV, quando il filosofo francese illustra il ruolo della sfera dei fini nel
lavoro del ricercatore e la necessità di un suo impegno verso il reale. In tempi recenti, il riferimento
obbligato è ad autori come Michael Polanyi e, in certa misura, anche Charles Taylor. Cfr. M. Polanyi, La
conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica (1958), Rusconi, Milano 1990; Id., La conoscenza
inespressa (1966), Armando, Roma 1979; C. Taylor, Overcoming Epistemology, in Philosophical
Arguments, Harvard University Press, Cambridge London 1995; Id., Philosophy and the Human Sciences,
Cambridge University Press, Cambridge (MA) 1985. Sul tema, anche E. Cantore, L’uomo scientifico. Il
significato umanistico della scienza, cit., e G. Tanzella-Nitti, La persona, soggetto dell’impresa tecnicoscientifica, in «Paradoxa» 3 (2009), pp. 96-109.
74
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proprio sul livello personale-antropologico, non più epistemologico, può sorgere nell’uomo
di scienza la tentazione di “chiudere” le istanze metafisiche, le incompletezze, le
irriducibilità, o l’accesso ai fondamenti – cose che dovrebbero restare tutte ragionevolmente
aperte sul reale – facendo invece ricorso a filosofie a priori, di taglio idealistico. Nascono
qui l’invocazione di una casualità radicale e di un’assenza di senso postulate come ragione
ultima del mondo e della vita, l’impiego contraddittorio di un monismo materialista o
panteista con gli stessi caratteri dell’Assoluto, o perfino il ricorso a infiniti universi per
spiegare la specificità del nostro31. Quando ciò accade, ed accade in forma radicale, il taglio
idealista è ormai divenuto taglio ideologico32.
Un ulteriore aspetto dell’impresa scientifica che andrebbe valutato sulla scorta della
dimensione antropologico-personalista è la predisposizione della scienza a generare delle
“cosmovisioni”, ovvero la sua naturale inclinazione verso la conoscenza della totalità del
reale, generando anche in questo caso un terreno di dibattito sulla nozione di Dio. A prima
vista, l’aspirazione a un sapere di totalità nell’ambito delle scienze sembrerebbe
estromettere ogni riferimento all’Assoluto, al trascendente, a Dio. Tanto la cosmologia come
la biologia, infatti, intendono offrire una “storia completa” del cosmo e della vita, ricercano
con passione il tema delle origini e si dichiarano competenti ad affrontare il problema
dell’intero. L’istanza di totalità già abituale nelle narrazioni del mito e nelle affermazioni di
senso della religione, e certamente presente nell’indagine filosofica circa l’universalità
dell’essere, è ormai di casa anche nella scienza. Di fronte a questa pretesa è frequente che il
filosofo, e più spesso il teologo, insorgano, ricordando che ogni indagine empirica non è
competente a dichiarare l’intero e che l’inizio e il fine della storia giacciono fuori della
storia stessa. Eppure, non varrebbe forse la pena di valutare – ed è questa la mia prospettiva
– se, e sotto quale aspetto, l’istanza di totalità possa appartenere anche al pensiero
scientifico? Proviamo ad esaminarla più da vicino.
Di fatto, un’istanza di totalità rispetto al metodo o alle rappresentazioni empiriche,
misurabili e formalizzabili, delle scienze, non è praticabile; ciò è dovuto ai ben noti
problemi di autoreferenzialità e di incompletezza, messi in luce da una critica interna alla
scienza stessa. L’istanza di totalità può invece lecitamente appartenere al soggetto che fa
scienza, in quanto soggetto umano che desidera conoscere l’intero orizzonte del reale, e
avverte che solo la totalità può fornire una risposta compiuta di senso. Se davvero si cerca la
verità, non ci si può fermare a metà strada. Tommaso d’Aquino ha parlato di una
inclinazione “naturale” dell’essere umano a conoscere l’intero ordine dell’universo, con tutti
31
Gli aforismi con cui autori quali Carl Sagan, Jacques Monod, Steven Weinberg o Richard Dawkins
chiudono o introducono le loro opere sono troppo noti per darne qui ancora una volta puntuale riscontro. Essi
esprimono, a mio avviso, come è la personale visione esistenziale dell’autore, e non i risultati della scienza, a
“chiudere” o a “non riconoscere” le aperture metafisiche con cui il reale fisico interpellerebbe il soggetto che
fa scienza, sposando invece le tesi del nichilismo o di un monismo materialista.
32
Su queste tentazioni, le loro cause ed il modo di smascherarle, sempre utile la rilettura de Le réalisme
méthodique (1935), tr. it. É. Gilson, Il realismo, metodo della filosofia, Leonardo da Vinci, Roma 2008. Per
la presenza di derive ideologiche in alcune ricostruzioni del pensiero biologico contemporaneo, cfr. A.
McGrath, The Ideological Use of Evolutionary Biology in Recent Atheist Apologetics, in Biology and
Ideology. From Descartes to Darwin, a cura di D. Alexander - R. Numbers, The University of Chicago Press,
Chicago-London 2010, pp. 329-351
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i suoi generi, le sue specie e le sue energie33. È questo il desiderio di conoscere le cause
fondanti di ogni cosa, una inclinazione che manifesta un desiderium naturale cognoscendae
veritatis, tipico delle scienze speculative, alle quali gli ideali della ricerca scientifica di base
possono certamente assimilarsi. Orbene, chi studia la realtà naturale cercando di farne un
unico oggetto di intelligibilità, come il cosmologo che indaga sull’origine dell’universo e i
suoi scenari finali, come il fisico che esplora le forze e le proprietà fondamentali che
regolano il comportamento della materia nello spazio e nel tempo, come il biologo che si
interroga sull’origine della vita e del linguaggio che la codifica, sulla ragione unificante dei
suoi processi evolutivi e della sua ricchezza morfologica e funzionale, con il loro modo di
procedere tutti costoro manifestano in fondo la consapevolezza che solo puntando verso le
cause ultime e fondanti lo spirito umano può restare appagato, perché la verità abita nella
totalità del senso. In tal modo, un desiderio naturale di conoscere la verità e di conoscere
l’intero può divenire, in un soggetto personale, un’implicita e forse inconsapevole
manifestazione della ricerca più importante, quella di Dio, il cui, sempre secondo la lezione
di Tommaso, ogni essere umano possiede nel più intimo del proprio spirito, e di cui anche lo
scienziato partecipa con la sua ricerca intellettuale34.
3. Il raccordo fra desiderium desiderium naturale naturale veritatis e Verbo rivelato
come esercizio di inculturazione della fede in un contesto scientifico
Un programma teologico-fondamentale che desideri recuperare le istanze veritative
della scienza e valorizzare le aperture del ricercatore verso questioni di senso non incontra
oggi un terreno propizio. Le ragioni sono molteplici. L’eredità di autori come Thomas Kuhn,
e in certa misura anche Karl Popper, e quella dell’epistemologia del Novecento in genere,
hanno consegnato una immagine della scienza alquanto convenzionalista, maggiormente
attenta alla falsificabilità delle sue proposizioni che al riconoscimento di verità acquisite ed
irreformabili, scettica nei confronti di un realismo conoscitivo. Una tale impostazione ha
lasciato insoddisfatti molti uomini di scienza ma ha purtroppo allettato numerosi teologi35.
«L’intelletto possiede un appetito naturale (appetitus naturalis) di conoscere i generi, le specie e le virtù di
tutte le cose (omnium rerum genera et species et virtutes), e tutto l’ordine dell’universo: come lo dimostra la
ricerca dell’uomo circa codeste cose», Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles, III, cap. 59
34
«Ora, “fine e bene dell’intelletto è la verità” [Etica, II, 2, 3]: di conseguenza l’ultimo fine è la prima
verità. Perciò conoscere la prima verità, che è Dio, è il fine ultimo di tutto l’uomo, di tutte le sue azioni e di
tutti i suoi desideri. Gli uomini hanno il desiderio naturale di conoscere le cause di ciò che vedono: ecco
perché essi diedero inizio alla ricerca filosofica, per la meraviglia dei fenomeni che vedevano e di cui
ignoravano la causa; e una volta trovata la causa si fermavano. Ma la ricerca non ha tregua fino a che non si
giunge alla prima causa: e “allora noi pensiamo di conoscere perfettamente quando conosciamo la causa
prima” [Metafisica, I, 3, 1]. Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di conoscere la causa
prima. Ma la causa prima di tutte le cose è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo. Conosciuto
un effetto, l’uomo desidera per natura di conoscerne la causa. Ma l’intelletto umano conosce l’ente nella sua
universalità. Dunque desidera per natura di conoscerne la causa, che è Dio soltanto, come abbiamo
dimostrato nel Secondo Libro. Ma nessuno consegue il suo ultimo fine, fino a che non si acquieta il suo
desiderio naturale. Quindi alla felicità dell’uomo, che è appunto l’ultimo fine, non basta qualsiasi altra
conoscenza intellettiva, se manca la conoscenza di Dio, la quale ne appaga il desiderio naturale come
l’ultimo suo fine. Dunque la conoscenza di Dio è l’ultimo fine dell’uomo», Tommaso d’Aquino, Contra
Gentiles, III, cap. 25
35
Basti notare la grande frequenza dei riferimenti a Kuhn e a Popper in molti saggi e manuali di metodologia
teologica. Riserve all’impiego di un’epistemologia rinunciataria circa la ricerca della verità, talvolta in
33
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Privare la scienza del suo valore veritativo, riferendosi poco alla ricerca di base e
presentando solo le ambigue applicazioni della tecnologia, facili bersagli di ammonimenti e
di richiami etici, ha spesso consentito di ridimensionare in modo apparentemente efficace le
provocazioni recate dai risultati delle scienze alla teologia dogmatica o all’esegesi biblica.
Inoltre, nel confronto fra scienze, filosofia e teologia, il terreno antropologico è stato spesso
trascurato, pur essendo l’unico ove termini come verità, intelligibilità, finalismo o senso
acquistano in realtà significato, sviluppando invece quasi sempre solo il terreno
epistemologico o esegetico. Nella teologia odierna, un certo squilibrio fra le categorie di
alleanza/salvezza e creazione ha condotto quest’ultima ad essere quasi assorbita entro le
prime due, anche a motivo del grande influsso esercitato da autori delle Chiese della
Riforma, privando la teologia della creazione dei suoi naturali agganci con il pensiero
metafisico e con quello scientifico; agganci in fondo attesi, visto che l’universo creato non è
solo sotto gli occhi del teologo, ma sotto gli occhi di tutti. Sempre in ambito teologico,
esiste poi un ragionevole timore a ingaggiare un dibattito pro o contro l’esistenza di Dio sul
terreno della comprensione fisica del cosmo, volendo così evitare una visione “riduttiva”
della religione (spersonalizzata, interessata ad un‘immagine di Dio poco significativa) per
non ripetere errori attribuiti in passato a un’apologetica filosofica. Infine, la scarsa
familiarità con la cultura scientifica da parte dei candidati al sacerdozio (dai quali proviene
la totalità dei pastori e la quasi totalità dei teologi) non ha certo favorito un raccordo fra la
verità cercata a partire dal contesto scientifico e la Verità rivelatasi in Gesù Cristo36.
Chi volesse oggi valorizzare, con prudenza, ma anche con coraggio, il desiderio della
scienza di interrogarsi sulle questioni ultime e di tematizzare l’intero, riconoscendovi una
manifestazione della ricerca di verità e di senso dello scienziato, e dunque della sua (più o
meno consapevole) ricerca di Dio, potrebbe sempre contare su alcuni itinerari già percorsi
dalla migliore tradizione teologica. Ci si potrebbe ad esempio ricollegare al grande pensiero
patristico e medievale, scegliendo poi alcuni autori della modernità, come furono Rosmini o
Newman, sebbene vada preventivato il lavoro di una non sempre facile traduzione in termini
contemporanei di quanto suggerito in epoche passate. Il teologo non dovrebbe temere di
affermare che coloro che studiano un universo che egli sa creato nel Verbo e per mezzo del
Verbo, possono intravedere, anche dall’interno del contesto scientifico, la necessità di un
fondamento ontologico, la presenza di un logos quale fonte di razionalità, di intelligibilità e
di informazione, e ciò semplicemente perché il cosmo proviene da Dio e di Dio può parlare.
È certamente il soggetto umano, non il metodo scientifico, il solo abilitato al discernimento
di un simile logos, ed è altrettanto vero che le personali visioni filosofiche ed esistenziali
possono favorire od ostacolare tale riconoscimento.
Partendo dai quesiti suscitati dalla loro stessa attività scientifica, le riflessioni
filosofiche offerte da molti uomini di scienza indicano non solo la percezione di un logos ut
ratio, cioè come rimando ad un Assoluto colto come fondamento e razionalità, ma anche di
un logos ut verbum, ovvero come apertura ad un Assoluto colto come alterità dialogica,
polemica verso noti filosofi della scienza, sono state avanzate in più occasioni dall’ambiente scientifico: cfr.
T. Theocharis - M. Psimopoulos, Where Science Has Gone Wrong, in «Nature» 239 (1987), pp. 595-598.
36
Vale la pena ricordare che tale situazione è venuta a crearsi nella teologia cattolica soprattutto dalla fine
dell’Ottocento, assumendo oggi livelli preoccupanti per la stessa credibilità dell’evangelizzazione. Nelle
epoche precedenti non solo i ministri ordinati avevano una buona familiarità con la ricerca scientifica
essendo in molti casi loro stessi uomini di scienza, ma anche i curriculum di studio dei seminari teologici
prevedevano una congrua presenza di materie scientifiche.
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capace di interpellare e di motivare la fatica della ricerca. La ricerca scientifica è spesso
paragonata ad un dialogo fra il ricercatore e la natura, un dialogo nel quale occorre saper
porre le domande giuste ed avere l’umiltà di saperne ascoltare le risposte37. La sorpresa
della scoperta e l’intima emozione di fronte allo svelamento della razionalità del reale sono
spesso paragonati a eventi di rivelazione, che suscitano stupore e riverenza. Al ricercatore è
richiesta l’umiltà del realismo conoscitivo, l’apertura all’ascolto delle cose. Egli può, e forse
deve, tendere verso un’istanza di totalità, ma senza porre mai se stesso come misura
dell’intero, pena la chiusura ideologica a quanto il reale sarebbe in grado di rivelare. Spetta
al teologo mostrare l’itinerario che da un logos colto nel contesto delle scienze può condurre
fino al Logos che la Rivelazione cristiana annuncia in Gesù Cristo, sapienza incarnata.38 E
spetta al teologo, in buona compagnia del filosofo, mostrare l’itinerario che dalla riverenza e
dallo stupore conduce all’apertura al mistero dell’essere, fino a un genuino senso religioso,
che non si arresta alla seduzione della bellezza delle cose ma, secondo l’esortazione del
Libro della Sapienza, sa interrogarsi anche sull’Autore della bellezza.
Potrebbe la teologia poggiarsi su questa percezione del logos e su questo senso
religioso al momento di annunciare il Dio di Gesù Cristo? Ritengo di sì, ma occorre
certamente purificare dalle false immagini di Dio, educare, ove necessario, al senso
metafisico, smascherare le fughe dal reale verso prospettive idealiste e talvolta ideologiche,
sostenere un’idea di verità che non sia solo coerenza logica e consistenza matematica, come
purtroppo accade ormai in molti ambiti della ricerca scientifica, ma anche e soprattutto
adaequatio rei et intellectus. Si tratta in fondo, di operare con una competenza e
un’intelligenza adeguate a un contesto intellettuale, quello scientifico, cui ci si dirige,
vedendo in esso un linguaggio e un ambiente da inculturare, cioè in primo luogo da
conoscere e da rispettare, cercando con pazienza le “traduzioni” necessarie per comprendere
e farsi comprendere. Chi fa ricerca scientifica è anche, a suo modo, un cercatore di senso,
seppure secondo itinerari propri; questi il teologo dovrebbe conoscere e saper percorrere
proponendosi come compagno di viaggio. Infine, un accesso al Problema dei fondamenti e
all’Assoluto dal versante dell’attività scientifica potrebbe essere intelligentemente
recuperato dal teologo fondamentale all’interno dei praeambula fidei, fra i quali la
tradizione filosofica e teologica ha sempre collocato quella domanda di senso e quella
ricerca di Dio che partono dalle cose create39. Si tratta di piste che oggi possono sembrare
difficili o in parte inedite. Eppure, a ben vedere, tutte esse poggiano su un solido
fondamento biblico e si innestano in una tradizione di evangelizzazione che il cristianesimo
37
Non vi è dubbio che la nozione di logos vada qui considerata qui in modo ampio e in certo modo
analogico, quale pista per una successiva integrazione metafisica dei vari livelli in cui essa compare o può
essere percepita. Sulla fertilità di tale nozione nell’ambito della razionalità scientifica, si veda il bel volume
di P. Zellini, Numero e Lógos, Adelphi, Milano 2010, sebbene l’analisi dell’autore riguardi in tale opera
soprattutto l’ambito della matematica.
38
Avevamo offerto qualche spunto su tale fenomenologia dell’attività del ricercatore in G. Tanzella-Nitti, La
dimensione personalista della verità e il sapere scientifico, in V. Possenti (ed.), Ragione e Verità, Armando,
Roma 2005, pp. 101-121. Una certa insistenza sulla riconoscibilità di un Logos creatore anche nel contesto
dello studio scientifico della natura è presente in alcuni discorsi di Benedetto XVI: cfr. Discorso alla Curia
Romana in occasione degli auguri natalizi, Roma, 22 dicembre 2005; Discorso all’Università di Regensburg,
Ratisbona, 12 settembre 2006; Discorso al Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona, 19 ottobre
2006; Discorso al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008.
39
Cfr. G. Tanzella-Nitti, La dimensione apologetica della Teologia fondamentale. Una riflessione sul ruolo
dei praeambula fidei, in «Annales theologici» 21 (2007), pp. 11-60, in part. 34-51
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ha saputo già coltivare in passato. Il dibattito oggi suscitato dalla visibilità di nuovi ateismi e
nuovi scientismi potrebbe stimolare pensatori cristiani a riscoprire un’immagine più
completa dell’impresa scientifica, accettando la sfida di saper mostrare che essa appartiene
alla ricerca della verità e, pertanto, appartiene anch’essa al mistero del Logos venutoci
incontro in Gesù Cristo.
Per gli sviluppi di tale prospettiva in un dialogo con il pensiero scientifico, rimandiamo alla già
citata voce Gesù Cristo, Incarnazione e Rivelazione del Logos, in Dizionario Interdisciplinare di
Scienza e Fede, op. cit., pp. 693-710.
La Nebulosa di Orione (nota anche come M42 o NGC 1976): nebulosa diffusa situata nella Via Lattea,
a sud della Cintura di Orione nella costellazione di Orione.
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BIBLIOGRAFIA PARZIALE
B. Sigfrido, “Da Laplace a Heisenberg. Un'introduzione alla meccanica quantistica e alle
sue applicazioni”, Biblioteca delle Scienze 2010
B. Sweetman, “Religione e scienza. Una introduzione”, Queriniana 2014
C. Cellucci, “Le ragioni della logica”, Laterza 2000
David L. Gosling, “Science and the Indian Tradition: When Einstein Met Tagore”,
Routledge 2008
F. Capra, “Il tao della fisica”, Adelphi 1989
G. Basti, “Filosofia della natura e della scienza, Vol.I: I Fondamenti”, Lateran UP 2002
M. Livio, "La bellezza imperfetta del cosmo", Utet Università 2004
P. Davies, “Il cosmo intelligente”, Mondadori 1999
R. Feyman, “La strana teoria della luce e della materia”, Adelphi 1989
S. Drake, “Galileo Galilei, pioniere della scienza”, Muzzio 1992
S. Hawking & R. Penrose, “La natura dello spazio e del tempo”, Rizzoli 2002
S. Hawking, “La teoria del tutto. Origine e destino dell’universo”, Rizzoli 2003
S. Weinberg, “I primi tre minuti”, Mondadori 1986
FILMOGRAFIA PARZIALE
“Blade Runner”, regia di Ridley Scott, 1982
“Interstellar”, regia di Christopher Nolan, 2014
“La teoria del tutto”, regia di James March, 2014
“Il mio amico Einstein”, regia di Philip Martin, 2008
“L’Universo elegante”, documentario televisivo dalla PBS, 2005
Nota
Le immagini presenti in cartellina sono state scattate dall’Hubble Space Telescope (HST) (NASA ed
ESA).
Immagine di copertina: Pilastri della Creazione, fotografia ripresa dall’HTS di colonne di gas
interstellare e polveri visibili nella Nebulosa Aquila e scattata nel 1° aprile 1995.
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RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento particolare a tutti gli studenti e le studentesse che hanno offerto la loro
collaborazione e il loro supporto nella realizzazione del seminario:
Davide Sabeddu, Padre Salvatore Maurizio Sessa, Angelo Tumminelli, Cosmin Cozma,
Leonardo Arca, Ludovico Ferranti, Adolfo Marco Perrotta, Matteo Piu, Giacomo Della Posta.
Gaia Coltorti
Martina Murabito
Giuseppe Melcore
Gennaro Cataldo
Vittorio Ruggieri
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