2-22 gennaio-Evoluzionismo_il razzismo non ha basi scientifiche

Comunità dell’Isolotto – Firenze, domenica 22 gennaio 2012
Bibbia e scienza: l’origine dell’umanità
(riflessioni di Maria, Giulia, Elena, Gian Paolo, Roberto, Sergio)
Letture bibliche:
Deuteronomio 24, 10-22; Marco 9, 33-41; Luca 9, 46-50
Intervista a Telmo Pievani, filosofo della scienza (Università di Milano Bicocca)
nell’arena del Festival della scienza organizzato dal Museo Civico di Rovereto (11/07/2011)
per la presentazione del suo libro “ La vita inaspettata” Editore: Cortina Raffaello,
Collana: Scienza e idee, 2011.
(trascrizione non rivista dall’autore)
Secondo un articolo scientifico dell’inizio del 2011 sul nostro pianeta dovrebbero esistere
10-12 milioni di esseri viventi e ne abbiamo classificati poco più di 2 milioni, nonostante le
tecniche di indagine di cui disponiamo. Ma la cosa più sconvolgente è il calcolo di quante specie
noi abbiamo estinto da quando abbiamo inventato l’agricoltura (13 mila anni fa), quasi la metà degli
esseri viventi sul pianeta, mai conosciuti e mai classificati. L’insieme delle diverse specie che
abitano gli ecosistemi fu definita “biodiversità” dall’entomologo Edward Wilson circa 20 anni fa.
La biodiversità è sia “il combustibile” che il “prodotto” dell’evoluzione, è la materia prima
indispensabile senza la quale non ci sarebbe alcun cambiamento negli esseri viventi. L’evoluzione
funziona soltanto se avviene a tutti i livelli, per gli organismi, per le popolazioni, per le specie e per
gli ecosistemi: viene prodotta incessantemente la diversità. Quando questo combustibile viene meno
il cambiamento si affievolisce ed i sistemi divengono più vulnerabili. Ma la biodiversità è anche il
risultato dell’evoluzione, l’evoluzione produce biodiversità.
. La biodiversità è come i ramoscelli di un cespuglio o di una formazione corallina: noi
vediamo i ramoscelli esterni e dobbiamo percepire le ramificazioni sottostanti che collegano i vari
ramoscelli. Nella biodiversità l’ Homo Sapiens (noi oggi) è come un piccolissimo ramoscello del
grandissimo albero che rappresenta tutti gli esseri viventi.
Oggi possiamo fare le datazioni dei reperti fossili animali con maggiore precisione rispetto a
10 – 15 anni fa, quando utilizzavamo datazioni paleontologiche e geologiche. Oggi si utilizza lo
studio del Dna. Con la comparazione dei genomi (orologio molecolare) delle specie attuali e di
quelle estinte si può datare in modo molto preciso quando è vissuto l’antenato comune fra due
specie attuali. Ad esempio, con questo metodo, calcolando quante mutazioni genetiche si sono
accumulate nell’Homo Sapiens e nello scimpanzé si calcola che queste due specie hanno avuto un
antenato comune vissuto 6 - 6,5 milioni di anni fa. Quindi siamo cugini di 1° grado degli
scimpanzé, di 2° grado dei gorilla e di 3° grado degli orangutan. Siamo geneticamente vicini: la
differenza genetica fra noi e gli scimpanzé è poco superiore all’1%, un po’ di più rispetto ai gorilla
e ancora un po’ di più rispetto agli orangutan. Oggi si ritiene che gli esseri umani, gli scimpanzé, i
gorilla e gli orangutan siano tutti ominidi. Noi non siamo discendenti degli scimpanzé ma ne siamo
cugini, cioè abbiamo un lontanissimo nonno in comune. Più sono lontani i nonni più siamo cugini
alla lontana. E noi stiamo rischiando oggi di mandare all’estinzione alcuni di questi cugini, in
particolare gli orangutan di Sumatra (ne sono rimasti solo 120 individui).
Restando all’analogia con l’albero l’evoluzione è più simile ad un albero con più tronchi.
Nel nostro sottocespuglio degli ominini sono state catalogate 26 specie diverse (non razze), 26
ramoscelli diversi e l’Homo Sapiens è l’ultimo ramoscello.
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Se un extraterreste fosse venuto sulla terra 40 mila anni fa (che geologicamente è un solo
strato di misurazione, un tempo breve anche per un biologo, anche se a noi sembra un tempo molto
lungo), avrebbe trovato almeno 5 specie umane contemporaneamente:
Noi, già presenti da 100 mila anni essendo partiti dall’Africa centro orientale da
350 – 180 mila anni fa (dalla zona Eritrea – Etiopia – Kenia – Tanzania),
originariamente circa 25 mila individui (oggi 7 miliardi).
I Neandertal in Europa – Asia.
Una piccola specie di ominini nell'isola di Flores, in Indonesia – i Florensiensis.
(Scoperta del 2003: i resti di uomini molto diversi da noi, più bassi di statura e con
un volume cerebrale pari a un quarto del nostro).
Gli ultimi Erectus a Giava.
L’uomo di Denisova: nel 2008 nella grotta di Denisova, sui Monti Altai, in Siberia,
è stato rinvenuto un dito con un Dna relativamente integro, ma ancora da studiare a
fondo.
Oggi noi siamo rimasti soli. Ma perché all’ultimo miglio di questa corsa siamo rimasti solo
noi? Non è ancora chiaro. Non li abbiamo estinti noi. Quando Homo Sapiens ha incontrato le altre
specie di ominini ha convissuto molto tempo con loro. Non comprendiamo perché noi siamo
cresciuti demograficamente e loro si sono estinti. I Florensiensis si sono estinti “solo” 13 mila anni
fa, quando ebbe inizio l’agricoltura. Se fossero rimasti fino ad oggi ci sarebbe da chiedersi come li
tratteremmo visto che sarebbero nostri cugini con lo stesso nostro aspetto umano.
Darwin scelse come modello dell’evoluzione l’albero perché l’evoluzione è un gioco di rami
che si biforcano più volte fino a formare la chioma. Invece lo schema di una successione lineare, in
cui ogni specie si evolve sostituendo la precedente - come era descritto nei libri fino agli anni ‘60,
non era quello di Darwin. Per l’evoluzione dell’uomo si faceva un’eccezione. Gli scienziati avevano
considerato l’uomo diverso dagli altri esseri viventi. Oggi abbiamo accettato lo schema dell’albero
cespuglioso disturbato, però, da eventi contingenti (il vento che rompe dei rami). Non siamo unici e
non era destino che diventassimo come siamo. In moltissime occasioni la storia dell’umanità
avrebbe potuto prendere un’altra direzione.
L’evoluzione si spiega attraverso due catene di cause indipendenti che la condizionano:
1. Col passare delle generazioni si introducono nelle specie delle novità. La prole porta
delle diversità rispetto ai genitori, sempre frutto delle ricombinazioni e delle mutazioni
genetiche (scoperte nel ‘900 e che Darwin nella sua opera del 1859 non poteva sapere).
2. L’ambiente pone dei problemi agli organismi e fa sì che alcune di quelle variazioni diano
un vantaggio di sopravvivenza agli individui che le portano. Facilita la loro riproduzione
rispetto ad altre.
Quindi la sopravvivenza dipende dalle variazioni genetiche casuali e dai capricci dell’ambiente: è
un gioco imperfetto, non è la realizzazione di un progetto ben fatto da un ingegnere ma è l’opera
realizzata da un artigiano che utilizza il materiale che ha a disposizione. Siamo imperfetti e Darwin
diceva che dove c’è perfezione non c’è storia.
Oltre a queste due cause ci sono degli eventi straordinari che fanno cambiare rapidamente le
regole del gioco e che producono estinzioni di massa. Questo è successo varie volte nell’evoluzione.
In seguito ad eventi catastrofici non c’è tempo per gli individui di adattarsi all’ambiente attraverso
la selezione naturale e scompaiono. Alcuni di questi eventi sono dovuti a cause interne alla terra
(eruzioni vulcaniche, terremoti, ecc.) altri dovuti a impatto sulla terra di asteroidi di grandi e medie
dimensioni. L’impatto di un asteroide di 65 milioni di anni fa distrusse circa la metà degli esseri
viventi, quasi tutti i dinosauri. Gli uccelli che vediamo oggi sono una discendenza di una
sottofamiglia di dinosauri che sopravvissero. Estinguendosi hanno lasciato spazio libero ad altre
forme viventi. I dinosauri occupavano l’acqua, la terra e il cielo: erano erbivori e carnivori ed
occupavano tutti gli spazi ecologici. I mammiferi non avevano spazio per svilupparsi ed
occupavano solo delle nicchie ecologiche, come era il toporagno. Estinti i dinosauri, in 15 milioni di
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anni questi si sono evoluti dando origine ai pipistrelli, ai cetacei, agli erbivori, ai carnivori, ai
primati, ecc. Senza l’asteroide non ci sarebbe stata questa meravigliosa diversificazione delle
specie. Noi siamo figli di quell’asteroide. Ma anche i dinosauri erano figli di una estinzione
avvenuta prima di loro, l’estinzione dei rincosauri, i grandi rettili, dei quali oggi abbiamo una
discendenza nei coccodrilli e nelle tartarughe.
Si capisce perché Telmo Pievani ha intitolato il suo libro La vita inaspettata. Il fascino di
un’evoluzione che non ci aveva previsto.
Le migrazioni degli ominini alla conquista della terra e il Dna “arlecchino”.
Nel libro Pievani descrive che a uscire dall'Africa e a disseminarsi per il globo in diverse
ondate successive sono state almeno tre specie diverse del genero umano (vedi Fig. 1). Per primo è
partito Homo ergaster (o Homo erectus) circa 1,9 milioni di anni fa e in pochi millenni si è insediato
in tutta l'Eurasia. Secondo, mezzo milione di anni fa, è partita l'onda degli Homo rhodesienssis (o
Homo heidelbergensis). È questa la specie cui appartengono i Neanderthal. Terzo, dall'Africa è
partito in almeno due ondate l’Homo sapiens (v. Fig. 2). Una prima volta, tra 120 e 100.000 anni fa,
ha raggiunto le coste dell'Arabia e si è disseminato per la penisola. Non sappiamo se è riuscito ad
andare oltre. La seconda volta, tra 80 e 70.000 anni fa, ha attraversato il Sinai ed è giunto in Medio
Oriente, da cui è partito seguendo almeno due strade diverse per diffondersi in Asia e in Australia.
Figura 1. Distribuzione geografica del genere Homo (o ominini) evolutasi nel tempo.
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Dal Medio Oriente i sapiens sono partiti anche, intorno a 40.000 anni fa, per diffondersi in
Europa. La nostra specie non ha incontrato solo i Neanderthal, antichi eredi dei migranti
rhodesiensis e non li ha incontrati solo in Europa e in Medio Oriente. L’Homo floresiensis sono
discendenti della prima ondata migratoria, quella degli ergaster (o erectus). E che, per adattarsi
all'ambiente dell'isola di Flores in cui sono giunti probabilmente 900.000 anni fa, hanno diminuito
la massa corporea e cerebrale. Sono vissuti fino a 13.000 anni fa, quando a Flores erano giunti
anche i Sapiens. Infine anche l’Homo di Denisova, giunto in quest’isola 1,5 milioni di anni fa, è
discendente degli Ergaster. E il bello è che lì vicino, nelle valli dei Monti Altai, in Siberia, sono stati
trovati anche resti sia di Neanderthal, sia di sapiens risalenti più o meno allo stesso periodo. Dunque
nella Siberia meridionale sono vissuti contemporaneamente membri di tre specie umane diverse,
partite dall'Africa in tre epoche diverse: 1,9 milioni di anni fa; 500.000 anni fa e 80.000 anni fa.
Figura 2. Migrazioni dell’Homo sapiens dall’Africa verso tutti i continenti; distribuzione dei
Neanderthal e degli ominidi.
Ma proprio nel 2010 Svante Pääbo, il maestro dell’antropologia molecolare, ha presentato i
risultati dell'analisi comparata del Dna di uomini di Neanderthal e di uomini moderni. Scoprendo
che nel Dna degli africani, discendenti di sapiens mai usciti dall'Africa, il Dna non presenta tracce
di ibridazioni con quello dei Neanderthal. È, per così dire, «puro». Mentre nel Dna degli europei e
degli asiatici ci sono tracce (intorno al 4% del materiale genetico) ereditato da uomini di
Neanderthal. La nostra specie si è incrociata, più o meno saltuariamente, con quegli uomini più
antichi e noi europei e asiatici ne conserviamo la traccia. Le stessa cosa è avvenuta tra i sapiens
asiatici e membri della specie Homo di Denisova, perché nel Dna di uomini moderni che vivono in
Nuova Guinea e in Melanesia sono state trovate tracce (intorno al 5-8%) di quegli antichi
discendenti degli ergaster. Altro che Dna puro. Il nostro è, come scrive Telmo Pievani, un «Dna
arlecchino». Frutto di una piccola promiscuità genetica che ha accompagnato una elevata
promiscuità fisica con tante altre specie di uomini. Il nostro successo - la nostra fortuna - è anche il
frutto di questa capacità di saper accettare e abbracciare «l'altro».
Da un articolo di Pietro Greco, edizione Nazionale (pagina 18) de L’Unità nella sezione
"Culture", 24 luglio 2011.
N.B. Le figure sono state scaricate da internet, non essendo riportate negli articoli citati.
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La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto
Telmo Pievani
Raffaello Cortina Editore 2011, 253 pp., 21,00 euro.
Commento di Raffaele Carcano
Segretario Nazionale dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR)
Giugno 2011
La vita inaspettata è un libro che parte da Darwin, definito come l’uomo che per primo ebbe il
coraggio di «oltrepassare il segno»; riparte da dove si era fermato Gould concludendo La vita
meravigliosa, e giunge infine ad aggiornare in maniera precisa lo stato dell’arte delle discussioni
sull’evoluzione. Ha come trait d’union «il concetto centrale dell’evoluzione, la contingenza storica,
che non è stato ancora accolto nei nostri sistemi di pensiero»: e rappresenta, dunque, anche un
grande sforzo per cercare di colmare questa lacuna.
Nonostante i tentativi di Letizia Moratti, a scuola la teoria dell’evoluzione è insegnata:
quantomeno nelle scuole pubbliche e perlomeno per sommi capi. Scarsa è invece l’attenzione
prestata a molti suoi aspetti che vengono erroneamente considerati minori. Uno di questi, di
un’evidenza quasi palmare, è che «la vita ha sperimentato strategie indipendenti e “ci ha provato”
più volte». Il tempo profondo, ricorda Pievani, è invece «pieno di ipotesi di vite alternative che
hanno fallito per ragioni forse non sempre connesse a una loro inadeguatezza». I perdenti, tutto
sommato, «spesso non erano così malaccio»: i vincenti, come pikaia, uno dei più antichi cordati,
erano invece sparuti e molto gracili, rispetto alle altre specie coeve.
…………….
I meccanismi del cambiamento evolutivo sono ormai noti: la mutazione, la selezione, la
deriva genetica, la migrazione e gli schemi evolutivi su larga scala. Alla base vi sono tre fattori:
«vincoli interni (strutture); pressioni selettive esterne (funzioni di sopravvivenza in un ambiente);
eventi storici peculiari». C’è ovviamente ancora molto da studiare, ma c’è relativamente poco da
discutere. All’interno del mondo scientifico il confronto continua, e il testo vi dedica una certa
attenzione (per esempio analizzando i teorici della complessità). Il problema è che continua anche la
messa in discussione della teoria evolutiva. Per quanto i sostenitori dell’intelligent design non siano
riusciti a far avanzare granché le proprie tesi nel corso degli ultimi anni, l’attenzione che raccolgono
in molti ambienti è tuttora massiccia.
Pievani sottolinea come, forse, sia «proprio la nostra solitudine a farci veder l’evoluzione in
modo lineare e progressivo. In mondi alternativi dove non fossimo soli, faticheremmo a concepirci
come i predestinati e forse capiremmo ancora meglio che cosa significhi davvero essere umani».
Siamo abituati a pensare in questo modo, ed occorrerà molto tempo prima che queste implicazioni
siano colte anche all’esterno del mondo scientifico. Non è un caso che le critiche alla teoria
evolutiva abbondino sulla scrivania di chi scienziato non è - anche se magari è costretto a far ricorso
ad argomentazioni pseudo-scientifiche per tentare di rendere plausibile un ragionamento fallato in
partenza. Ambienti in cui si continua a cianciare dell’impossibilità di un’evoluzione «per puro
caso», quando ben pochi ricercatori sostengono ormai una posizione così estrema. L’autore deve
così ribadire, ancora una volta, che «l’assenza di una direzione e di una necessità intrinseca non
consegna l’evoluzione al “cieco caso” e alla fredda democraticità del puro calcolo delle probabilità,
bensì a un’interrelazione fra elementi casuali e storici, funzionali e strutturali, che produce una
molteplicità di storie possibili. Non infinite, possibili».
Si continua a mettere in dubbio la validità dell’impianto darwiniano anche insistendo sugli
anelli mancanti, come se dall’Ottocento a oggi non fosse cambiato nulla, e nonostante molti vuoti
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stiano pian piano cominciando a essere occupati grazie alla continua scoperta di nuovi fossili.
Secondo Pievani, insistendo sugli anelli mancanti gli antievoluzionisti commettono un doppio
errore, di pensare che il quesito non abbia una risposta «e di inferire da ciò che sia necessario
arrendersi chissà perché al subitaneo miracolo interventista di un disegnatore intelligente». A suo
dire «è uno schema di ragionamento, tipicamente umano, che fa sì che ciò che appare molto
improbabile ci sembri anche impossibile, e che come tale debba allora essere spiegato attraverso un
disegno, un piano, l’intenzione di qualcuno». …..Toccherebbe a chi sostiene la tesi dell’intelligent
design trovare «elementi che mostrino come il suo esito attuale fosse non soltanto l’unico possibile,
ma addirittura il fine ultimo del processo stesso», dimostrando che «il presente realizzato ha causato
il processo stesso, attirandolo a sé fin dall’inizio». L’onere della prova grava su chi afferma. Non la
pensano così le gerarchie ecclesiastiche, le cui posizioni Pievani sintetizza efficacemente così: «è
creazionismo, ma non si può dire». I loro testi contengono infatti «premesse imposte d’autorità,
postulati assoluti, fonti parziali, definizioni arbitrarie dei termini, dichiarazioni apodittiche e
conclusioni che in molti casi non discendono comunque dalle premesse». Una «ragione ideologica»,
la loro, «che strumentalizza fonti e argomenti per avvalorare una tesi preconcetta». Più o meno la
stessa «Ragione creatrice» che Benedetto XVI ha posto all’origine dell’universo, senza ovviamente
portare evidenze a supporto: ma lamentandosi, nello stesso tempo, che «la teoria dell’evoluzione
non è dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in
laboratorio 10.000 generazioni». Peccato che esperimenti sul batteri del tipo escherichia coli (così
tanto di moda) abbiano oltrepassato da tempo le 40.000 generazioni.
Ma il papa non si smentisce mai. In tutti i sensi. In troppi ambiti si continua a ritenere
legittimo che, a ogni domanda senza risposta, la risposta giusta sia quella religiosa. La Chiesa
sembra ormai far esplicitamente proprio il concetto di Dio tappabuchi: e non lo fa solo il papa, ma
anche teologi eterodossi come Mancuso e Küng. ….
E peccato, anche, che ogni tanto le domande inevase trovino qualche risposta,
invariabilmente diverse da quelle data fino a quel momento. Man mano che «franano le evidenze di
finalità, e si fa sempre più fatica a difendere la somma saggezza dell’autore del mondo con gli
argomenti tradizionali», allora, scrive Pievani, «si sposta l’attenzione sul piano psicologico e si
paventa il fatto che la contingenza spalancherebbe su di noi una visione infelice e malinconica
dell’umanità e del suo posto nella natura». Quell’umanità «disperata» di cui parla spesso il papa.
Non è affatto così, spiega Pievani nel finale del libro, in cui si toccano temi più decisamente
etici. Certo, la contingenza è più impegnativa delle due alternative estreme, «il puro caso» e «la
dura necessità», entrambe «deresponsabilizzanti»: la prima perché conduce al fatalismo, l’altra
invece al finalismo fideista che sostiene che, poiché la nostra esistenza «non può essere frutto del
caso, dunque non resta che abbandonarci fiduciosi al disegno». La contingenza storica non fornisce
scorciatoie. Al contrario, «ci prende gentilmente per le spalle e ci chiede di guardare dritte negli
occhi le evidenze raccolte, per il momento, dalla scienza»: «se il passato era aperto, e a maggior
ragione lo è il futuro, le scelte contano, la storia si può cambiare».
Non c’è quindi alcun motivo per abbandonarci al disorientamento: anche se la chiamata alla
responsabilità personale a molti non piace, la contingenza possiede «un senso liberatorio» e ci offre
«un’occasione di consapevolezza e di maturità». Perché «la rivoluzione darwiniana, riletta
attraverso le evidenze di oggi, arricchisce, aggiorna e riempie di nuovi significati la grande
tradizione della saggezza naturalistica di Spinoza e di Leopardi».
Ci si duole spesso di quanto la prevalenza delle scienze umanistiche noccia, in Italia, alla
ricerca scientifica. È quasi un dato di fatto, e costituisce sicuramente un problema. Ma ci si
dimentica che porta anche alla pubblicazione di libri di impianto divulgativo (ma non solo) scritti
decisamente meglio che altrove.
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Luca Cavalli Sforza: «Il razzismo non ha fondamento scientifico»
Il famoso genetista il 27 e 28 Maggio è intervenuto a Trieste per il convegno interdisciplinare su
”La diversità umana”. Da Il Piccolo di Trieste, 28 maggio 2009, intervistato da Simona Regina
Ha iniziato la sua attività di ricerca in Italia, a Pavia. Poi Milano, Cambridge, Parma, per
abbandonare definitivamente il nostro Paese nel 1971, quando si è trasferito in America.
«È sempre molto piacevole fare ritorno a Trieste». Così il genetista Luigi
Luca Cavalli Sforza, 87 anni, considerato un’autorità di spicco internazionale nel campo della
genetica delle popolazioni, ha aperto la due giorni del convegno “La diversità umana”, organizzato
dal Dipartimento di storia e storia dell’arte e dalla Scuola dottorale in scienze umanistiche
dell’Università di Trieste.
…… Intrecciando discipline diverse - genetica, paleontologia, antropologia e linguistica - lo
scienziato italiano, che per circa quarant’ anni ha lavorato alla Stanford University in California, è
stato tra i primi a chiedersi se i geni dell’uomo moderno contengano ancora una traccia della storia
dell’umanità e ha dimostrato che l’uomo appartiene a una sola e unica razza, la specie “Homo
sapiens”, e che due gruppi etnici che presentano un aspetto esteriore diverso, come il colore della
pelle, possono essere invece molto simili dal punto di vista genetico. Come, al contrario, gruppi con
caratteristiche somatiche simili possono presentare grandi differenze genetiche al loro interno.
Professor Cavalli Sforza, la scienza ha ormai escluso la possibilità di dividere l’umanità in
razze, lei stesso ha contribuito a togliere ogni fondamento al pregiudizio razziale. Cos’è dunque
il razzismo? O meglio, perché non può esistere per ragioni scientifiche?
«Il razzismo è
l’intolleranza per le persone che sono un po’ diverse da noi. Certo, ci sono differenze visibili, poche
e non importanti, come per esempio il colore della pelle, che aiutano a stabilire la diversità.
Soprattutto, però, vi sono differenze di costumi, largamente superficiali, che sono il risultato
dell’apprendimento, dipendono dalla società in cui viviamo. Il nostro aspetto del resto coinvolge
una frazione relativamente piccola del codice genetico della razza umana. Ecco perché individui che
discordano su pochi geni, relativi al colore della pelle per esempio, possono invece avere in comune
caratteristiche genetiche molto più complesse, anche se non visibili».
Più di dieci anni fa, nel libro ”Geni, popoli e lingue” ha dichiarato che l’educazione avrebbe
relegato il razzismo agli errori e orrori del passato. A cosa dobbiamo allora gli episodi
di microrazzismo quotidiano che abita alle fermate dell’autobus, nei pianerottoli dei condomini, ai
tavolini del bar?
«La realtà è che l’educazione è rimasta molto indietro. Bisogna quindi far
circolare più cultura. Che tra l’altro determina la diversità umana, più largamente della genetica ed è
stata il motore trainante dell’evoluzione».
Perché secondo lei la componente davvero importante dell’evoluzione dell’uomo moderno è la sua
evoluzione culturale?
«Be’ l’evoluzione culturale è ciò che realmente differenzia i gruppi
umani. Le differenze genetiche tra le popolazioni infatti sono molto modeste. Non c’è stato tempo
né motivo per creare grosse differenze genetiche nei 60 mila anni in cui una singola, piccola
popolazione africana si è diffusa in tutto il mondo. Le grandi differenze sono tra individui mentre
quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale. Cose superficiali come la forma del corpo, il
colore della pelle, che rispondono a necessità ambientali. Ciò che conta quindi non sono le novità
biologiche, cioè le mutazioni genetiche, ma le novità culturali, cioè le invenzioni che hanno
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cambiato profondamente la nostra vita. Ecco perché l’evoluzione culturale determina l’evoluzione
genetica».
Ma se il patrimonio genetico si trasmette per via ereditaria, come si trasmette la cultura?
«La forza trainante è la comunicazione stabilita dal linguaggio, che permette di
comunicare a tutto il mondo, oggi molto rapidamente, una nuova idea. Quel che rende l’evoluzione
culturale molto più rapida di quella biologica, è che ogni novità biologica è costituita da mutazioni
che avvengono di rado, in un individuo solo, e si diffondono poi solo ai figli, e da questi ai nipoti
ecc. Per cui occorrono molte generazioni perché una novità biologica si diffonda a tutto il mondo:
in un caso concreto, come il colore della pelle bianca o nera, diecimila o più anni. Invece oggi una
novità culturale, come un’invenzione per esempio, può diffondersi in minuti, addirittura secondi, in
tutto il mondo. La cultura, comunque, proprio come la mutazione genetica, è un meccanismo di
adattamento».
Ma cos’è per lei la cultura?
«La cultura è costituita da tutto ciò che può essere appreso: la
fabbricazione di utensili, la scrittura, l’arte, le conoscenze scientifiche, il modo di vestire. Cultura è
l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali
trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia
continuamente la nostra vita. È l’elemento differenziante l’uomo da tutti gli altri animali, è la
straordinaria quantità di conoscenze accumulate nel corso dei millenni, il cui apprendimento ha
contribuito in modo determinante a forgiare il nostro comportamento. Ogni generazione aggiunge
qualcosa all’eredità ricevuta. E il presente si comprende solo cogliendo nel profondo ogni tappa di
questo cammino».
Si è inaugurata l’11 novembre 2011, e durerà fino al 9 Aprile 2012, al Palazzo delle
Esposizioni di Roma, Via Nazionale 194, la mostra: Homo sapiens: la grande storia
della diversità umana. Per la prima volta un gruppo internazionale di scienziati, afferenti a
differenti discipline e coordinati da Luigi Luca Cavalli-Sforza, ha ricostruito, tenendo conto
dei dati disponibili fino ad oggi, le radici e i percorsi del popolamento umano del nostro
pianeta.
Bibliografia essenziale
- J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi 1998.
- L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi 1997.
- L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, Mondadori 1993.
- N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d’Ombra, 1994.
- P. R. Sabbadini (a cura), La cultura ebraica, Einaudi, 2000.
- J. P. Sartre, L’antisemitismo, Mondadori, 1990.
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Chiara Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza,
Laterza, Bari-Roma 2011, pp. 180.
Coordinatore della Laurea magistrale in Psicologia dei processi Sociali, Decisionali e dei
Comportamenti Economici Università degli Studi di Milano- Bicocca
Deumanizzare significa negare l’umanità dell’altro. È un fenomeno poliedrico, multiforme,
flessibile. Si adatta ai luoghi, alle relazioni, alle persone singole come a intere popolazioni e
assume di volta in volta i contenuti richiesti dal clima culturale del momento. Un primo gradino,
ad esempio, di questo processo sono i pregiudizi, i luoghi comuni o le espressioni razziste con cui
si pongono in contrapposizione dei gruppi di persone, creando un “noi” e un “loro”: “noi” che
siamo i settentrionali, i bianchi, i cattolici, gli europei e “loro” che sono i meridionali, i negri, gli
zingari. Già nel porre questa divisione si crea il germe di una presunta umanità un po’ diversa, che
può essere stigmatizzata ed emarginata al di fuori di quella che viene ritenuta la reale dimensione
umana. Andando indietro nella storia occidentale, lo sterminio delle popolazioni americane nel
’600 è sorretto da un’ideologia che appiattisce l’immagine dei nativi su quella delle bestie. Gli
esempi di deumanizzazione dei nativi pervade le cronache della conquista e la saggistica
successiva: i conquistatori li definiscono creature barbare, prive di intelligenza, cannibali e i
filosofi spagnoli discussero a lungo se gli indiani fossero uomini o scimmie, semplici bruti o
creature capaci di pensieri razionali e se Dio li avesse creati allo scopo di fornire schiavi agli
europei. Chiara Volpato propone in questo volume una rassegna degli studi sui fenomeni di
deumanizzazione con una prospettiva psicosociale. Analizza le diverse espressioni che può
assumere questo processo – l’animalizzazione, la demonizzazione, la biologizzazione,
l’oggettivazione, la meccanizzazione – attraverso una ricognizione delle loro manifestazioni
storiche. Uno sguardo particolare è riservato al ruolo che hanno oggi i media nella diffusione e nel
mantenimento di immagini e concetti de umanizzanti.
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Erri De Luca
Conversazione a “Che tempo che fa” dell’8 Ottobre 2011: “siamo meticci”.
Matteo inizia la pagina uno del Nuovo Testamento con un elenco di nomi maschili, da
Abramo a Gesù, e dentro ci mette cinque nomi di donne, madri (Tamar, Rahab, Ruth, Miriam e
Betsabea). Tre di queste donne non sono della tribù di Israele, sono di popoli vicini e diversi.
Queste donne,hanno commesso peccati sessuali, ma guidate da un piano divino. Rasentano la pena
di morte, ma sono giustificate, hanno commesso scandalo ma sono sante.
Dunque nella più preziosa genealogia, quella del Messia che passa per David, non c’è
purezza di sangue. E’ una buona notizia perché dice che anche il Messia è di sangue “meticcio”.
Noi mediterranei siamo come il Messia, di sangue meticcio. ……
Hanno descritto l’Italia come uno stivale ma io la vedo diversa, la vedo come un braccio
che si stacca dalla spalla muscolosa delle Alpi e se ne va verso sud est nel Mediterraneo, a mano
aperta con Puglia e Calabria, che sono le estremità della mano, e la Sicilia è un fazzoletto al vento
che saluta. Io vedo così la geografia. Da questa geografia è venuta la storia, perché la storia è nipote
della geografia. Da noi la storia è stata caratterizzata da popoli che ci hanno attraversato e hanno
mischiato il loro sangue con il nostro. Attraverso invasioni, epidemie, guerre, esili, espulsioni,
stupri di massa e anche qualche matrimonio. Apparteniamo all’intruglio nobile di sangui del
Mediterraneo. Nessun popolo escluso, dal fenicio al greco, al cartaginese, al saraceno, ecc. … E
siccome siamo abbondanti di geografia, abbiamo mischiato il sangue anche con popoli del remoto
nord: Vandali, Goti, Unni, Normanni. L’Italia è stata ponte e passerella per la storia di molti popoli.
Oggi siamo attraversati e visitati da nuovi viaggiatori dell’emigrazione. Viaggiatori di
azzardo che accettano il rischio di essere decimati dai deserti, prigioni, naufragi. ….. Chiamiamo
questi viaggi dal sud “ondate migratorie”, scegliendo questa immagine distorta delle ondate alle
quali bisogna opporre dighe. Noi per la geografia non siamo dighe. ..… Allora non resta che
obbedire alla geografia di questo paese che è un braccio teso, ponte e passerella; lasciamo il paese
aperto a questi nuovi viaggiatori dell’immigrazione. Facilitiamo il passaggio verso le altre frontiere,
l’Europa. …Non siamo i “buttafuori” dell’Europa. Non siamo i guardiani di un continente, siamo
gli eredi delle repubbliche marinare che vissero e prosperarono sul libero passaggio di merci e
mercanti. Sono mercanti questi nuovi viaggiatori dell’emigrazione? Si, hanno una sola merce da
vendere che è la loro forza lavoro. Sono mercanti di questa e noi la acquistiamo a prezzi fin troppo
convenienti. Lampedusa: lampada e medusa. Striscia di terra più vicina all’Africa, madre terra della
specie umana, geograficamente doppia. Da una parte ha scogliere inaccessibili, dall’altra ha
spiagge, calette di facile approdo. E queste sono rivolte a sud. Le scogliere a corazza sono rivolte a
nord. La geografia già parla, dice, consiglia. Lampedusa è la piccola porta dalla quale sta passando
la grande corrente della storia del mondo a venire che sempre si affaccia, è una piccola breccia. ….
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