Il concetto di «popolo» e lo studio dell`identità

Materiali tratti dal manuale E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola, G.P. Terravecchia, Il pensiero plurale. Filosofia:
storia, testi, questioni, Torino, Loescher, 2008, Vol. III, Modulo 1.
Il concetto di «popolo» e lo studio dell’identità nazionale
Il concetto di «popolo» è uno di quelli centrali nel Romanticismo e nell’Idealismo,
costituendo un importante punto di riferimento della concezione politica e della
rivendicazione di un territorio ad esso corrispondente, cioè di una «nazione». Questo
concetto è importante anche dal punto di vista scientifico, perché inaugura una serie di
ricerche sulle tradizioni popolari, sul linguaggio e sull’identità collettiva da cui nascono
nuove scienze dell’uomo, dal folklore all’etnografia all’antropologia culturale.
Il termine «folklore» viene coniato in Inghilterra nel 1846, ma già dal 1800 esisteva
l’equivalente tedesco Volkskunde, dal quale è derivato. Il significato letterale, «conoscenze
del popolo» indica lo studio delle sopravvivenze del passato: tradizioni, proverbi, racconti,
canti popolari, ecc. Al folklore si affiancano l’etnografia, che sottolinea l’interesse verso lo
studio di etnie, di popoli, e l’antropologia culturale, che evidenzia un altro aspetto, la
«cultura» come insieme di atteggiamenti che compongono la visione del mondo propria di
un popolo. Il temine «Kultur», in questo senso antropologico, è nato proprio in area
tedesca ed è stato usato per la prima volta in un testo scritto nel 1843 da Gustav Klemm
(1802-1867), ma già Herder aveva approfondito tale prospettiva.
All’inizio dell’Ottocento, la ricerca sulle tradizioni popolari conosce una grande diffusione in
Germania, con lo scopo esplicito di ricostruire l’identità del popolo tedesco, politicamente
diviso. Tra il 1806 e il 1808 Ludwig Achim von Arnim (1781-1831) e Clemens Brentano
(1778-1842) pubblicano una raccolta di canti popolari, Il corno magico per i bambini, dove
viene usato per la prima volta il termine Volkskunde e che conosce una buona diffusione
nell’ambiente romantico. Un contributo di primo piano al folklore e all’etnografia di inizio
secolo viene dai fratelli Grimm: Jacob L. K. Grimm (1785-1863), professore di lettere e
filologia all’università di Gottiga, e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859), scrittore. Tra il 1812 e
il 1822 pubblicano la monumentale raccolta di fiabe che non è rivolta ai bambini, ma
intendono documentare la cultura e le tradizioni popolari. Molte delle fiabe hanno un forte
contenuto sessuale e cruento, com’era tipico della tradizione popolare, e verranno
successivamente rimaneggiate, diventando parte importante della letteratura per l’infanzia.
Anche la poesia popolare è oggetto di ricerca da parte dei romantici, che trovano in essa,
oltre alle radici della identità nazionale, anche quell’atteggiamento «ingenuo» che lega
l’uomo al mondo naturale. Si diffonde la raccolta dei Liedes, i canti popolari in cui Friedrich
Schlegel e Novalis trovavano l’aspirazione romantica verso l’infinito.
Anche in Italia la poesia popolare viene valorizzata. Nella Lettera semiseria di Grisostomo
al suo figliuolo, considerata il manifesto del Romanticismo italiano, Giovanni Berchet
(1783-1851) ne fa uno dei punti centrali della sensibilità romantica e l’espressione più
elevata di quell’identità culturale che, da patriota, esalta. Il folklore e la ricerca etnografica
si congiungono con le spinte risorgimentali all’indipendenza e all’unità nazionale. In questa
prospettiva, Nicolò Tommaseo (1802-1874) pubblica nel 1841 la raccolta di Canti popolari
toscani, corsi, il lirici e greci, legando strettamente la ricerca e la documentazione di una
identità culturale con le istanze risorgimentali.
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SCHEDA DI LETTURA
Il concetto ottocentesco di popolo ha la sua radice nella distinzione, proposta da
Rousseau nel Contratto sociale, tra la “volontà di tutti” e la “volontà generale”. La seconda
è il fondamento dell’identità comune.
Rousseau, Volontà di tutti e volontà generale
La volontà generale ha carattere unitario e non corrisponde alla somma delle volontà particolari degli individui.
Perché essa possa esprimersi è necessario che all’interno dello Stato non vi siano associazioni parziali di cittadini, le
quali rappresenterebbero interessi particolari e si porrebbero in conflitto le une contro le altre.
Da quanto precede consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità
pubblica: ma non ne consegue che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la stessa rettitudine.
Si vuol sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso
lo si inganna, ed allora soltanto egli sembra volere ciò che è male.
#Qual è la differenza della volontà generale e la volontà di tutti?# V’è spesso gran differenza fra
la volontà di tutti e la volontà generale: questa non guarda che all’interesse comune, l’altra guarda
all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il
più e il meno, che si distruggono a vicenda, e resta per somma delle differenze la volontà generale.
Se allorquando il popolo, sufficientemente informato, delibera, i cittadini non avessero alcuna
comunicazione fra di loro, dal gran numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà
generale, e la deliberazione sarebbe buona. #Quale pericolo vede Rousseau per la democrazia e
per la volontà generale? Da che cosa possono essere minacciate?# Ma quando si crean fazioni,
associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna di queste associazioni diventa
generale rispetto ai suoi membri, e particolare rispetto allo Stato: si può dire allora che non ci sono
più tanti votanti quanti uomini; ma solo quante associazioni. Le differenze diventano meno
numerose, danno un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è così
grande, da prevalere su tutte le altre, non avete più per risultato una somma di piccole differenze,
ma una differenza unica; allora non c’è più volontà generale, il parere che prevale non è che un
parere particolare.
#Proponi qualche esempio attuale di «società parziale» e discutilo# Importa dunque, per aver
veramente l’espressione della volontà generale, che non vi siano società parziali nello Stato, e che
ogni cittadino non pensi che colla sua testa. Tale fu l’unica e sublime istituzione del gran Licurgo.
Che se vi sono società parziali, bisogna moltiplicarne il numero e prevenirne la disuguaglianza,
come fecero Solone, Numa, Servio. Queste precauzioni son le sole valide perché la volontà generale
sia sempre illuminata e il popolo non s’inganni.
Del contratto sociale, libro II, 3, in Opere, pp. 290-91.
Guida all’analisi
La volontà di tutti è la somma delle volontà particolari. In ogni Stato ci sono ceti o classi sociali che
hanno interessi divergenti (come gli imprenditori e gli operai). Lo Stato deve armonizzare questi
diversi interessi in modo che non producano conflitto. Questa è l’ottica o la dimensione, potremmo
dire, liberale della politica. Secondo Locke, lo Stato ha esclusivamente questo compito.
La volontà di tutti è invece un sentire comune, al di là degli interessi particolari, ed esprime la
dimensione democratica, per cui lo Stato è espressione di un’unità profonda tra i cittadini, è
espressione di un popolo.
Se i cittadini potessero esprimersi singolarmente, ognuno con la propria testa, la volontà generale
emergerebbe necessariamente, perché le volontà legate agli interessi contrapposti si eliminerebbero
reciprocamente e resterebbe solo la volontà comune. Il problema sorge quando ci sono delle
organizzazioni che rappresentano settori più o meno ampi della popolazione, che allora diventano
quasi un unico individuo, che può imporre la propria volontà parziale. Possiamo pensare ai partiti,
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ai sindacati, alle associazioni degli imprenditori, ecc. Rousseau è contrario alla democrazia
rappresentativa e anche alle diverse organizzazioni politiche che prevedono la rappresentanza
(come i partiti, dove ci sono organi dirigenti che decidono per tutti gli iscritti). Il suo modello,
come abbiamo visto (§ 4.3.4), è la democrazia diretta, che prevede comunità di piccole dimensioni
in cui ogni cittadino può partecipare in prima persona alla vita pubblica.
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FILOSOFIA E CITTADINANZA
Il popolo e l’eternità.
Il concetto di «popolo» è centrale nel romanticismo e nell’idealismo, saldandosi con l’esigenza di unificazione
nazionale particolarmente sentita in Germania. Il popolo dà al singolo la dimensione dell’eternità. Da un lato, infatti,
le sue caratteristiche socio-culturali (valori, modo di pensare, ecc.), derivatigli dal popolo, hanno durata storica;
dall’altro lato, le sue azioni, iscrivendosi in questa realtà collettiva, produrranno effetti ben al di là dello spazio
temporale della sua esistenza, perpetuandone la vita come parte della realtà spirituale del proprio popolo.
Ma dove mai si può trovare una garanzia per queste aspirazioni e questa fede dell’uomo bennato nell’eternità e
perpetuità dell’opera sua? Evidentemente solo in un ordine di cose che egli possa riconoscere eterno in sé e capace di
accogliere in sé l’eterno. Tale ordine è quella speciale forma spirituale dell’ambiente umano, che non si può chiudere in
un concetto e tuttavia esiste realmente, da cui egli è uscito fuori con la sua attività e la sua mentalità e colla sua stessa
fede nell’eterno: il popolo da cui è nato, in cui fu educato e crebbe qual è ora.
Infatti, poiché è vero che la sua opera — se egli ha ragione di contare sulla sua eternità — non è il prodotto puro della
legge naturale della spiritualità della sua nazione, senza residui di sorta, ma è invece un «di più» e come tale sgorgato
direttamente dalla vita originale e divina —, è altrettanto vero che questo «di più» dal suo primo incarnarsi in forma
visibile si è piegato alla suddetta legge spirituale e, secondo essa, ha preso forma sensibile. E tutte le ulteriori
manifestazioni della divinità, fintanto che durerà quel popolo, penetreranno in esso e vi si foggeranno unicamente
attraverso quella legge di natura.
Pel fatto però che il nostro uomo esistette e agì in quel modo potenziato, anche quella legge resta arricchita e quindi
l’attività dell’uomo bennato è divenuta parte costitutiva e permanente di essa. Tutto quanto verrà dopo dovrà piegarvisi
e adattarvisi. Resta così accertato che il perfezionamento da lui raggiunto resta acquisito al suo popolo finché questo
durerà, e condizionerà in modo permanente l’ulteriore sviluppo.
Ecco dunque il significato della parola «popolo», dal punto di vista di un mondo spirituale: quel complesso di uomini
conviventi permanentemente e permanentemente riproducentesi sia naturalmente che spiritualmente, stando esso sotto
una speciale legge di sviluppo dell’elemento divino che esso ha in sé. La comunanza di questa «speciale legge» è
appunto ciò che cementa questo complesso di uomini nel mondo eterno e quindi anche nel mondo temporaneo,
facendone un tutto organico e tutto pervaso di sé.
Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, VIII, pp. 147-48.
L’idealismo in generale, e in particolare Fichte e Hegel, vedono nel popolo la dimensione storica
dell’individuo. Grazie all’appartenenza al popolo, il singolo si lega a una tradizione secolare o
millenaria, che lo forma (si pensi al linguaggio) e nello stesso tempo la sua azione modifica la storia
del suo popolo, garantendogli un’eternità spirituale.
- Considera separatamente questi due aspetti, spogliandoli dall’ottica idealistica di Fichte. Il primo
(l’interiorità del singolo formata dai valori e dal modo di pensare della comunità cui appartiene) è
oggi riferito alla «cultura», intesa come oggetto dell’antropologia culturale. Il secondo aspetto
garantisce la sopravivenza dell’azione del singolo alla sua morte.
Che cosa pensi di questi aspetti? Li ritieni importanti? La partecipazione a una comunità è
determinante per la formazione di un individuo? Può essere una garanzia di immortalità, nel senso
sottolineato da Fichte?
- Il concetto di «cultura» è considerato oggi importante per comprendere e spiegare molti aspetti
della personalità, ma può diventare una pericolosa fonte di discriminazione quando l’identità
culturale viene usata per escludere gli «stranieri», che possono essere gli extracomunitari, o quelli
che professano una religione diversa, o gli appartenenti ad altre culture storicamente ben
caratterizzate (si pensi ai popoli islamici). Che cosa pensi di questo argomento? Può essere positivo
sottolineare la propria identità culturale senza che ciò si traduca in un atteggiamento di chiusura
verso gli altri? O sarebbe preferibile diffondere un atteggiamento cosmopolitico (come quello
presente, ad esempio, nell’illuminismo), mettendo in secondo piano le specificità e le differenze
culturali?
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