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Giulio Cesare, la tragedia delle contraddizioni
William Shakespeare scrisse Giulio Cesare nel 1599, ispirandosi in parte a fatti storici e in parte alla traduzione
di Sir Thomas North delle “Vite dei nobili greci e romani” di Plutarco. L’opera comprime i tre anni che vanno
dalla vittoria di Munda nel 45 a.C. al suicidio di Bruto nel 42 d.C. per farli durare meno di sei giorni. Questa
compressione degli eventi fa sì che l’intera narrazione sia un unico, ininterrotto conflitto, sia a livello personale
che politico. Un conflitto che attraversa anche la nuova versione del più celebre dramma storico
shakespeariano, affidata dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale allo spagnolo Àlex Rigola, e che
trova in Michele Riondino, apprezzato attore di cinema, teatro e televisione, l’interprete ideale per il ruolo del
nobile Marco Antonio.
Direttore della Biennale Teatro di Venezia, Rigola realizza la sua prima regia italiana tornando all’opera che
lo fece scoprire a livello internazionale. Un testo epico, intenso ed appassionante, che ruota intorno
all’esercizio del potere, in questa versione impersonato da una donna, Maria Grazia Mandruzzato, nel ruolo di
Cesare. In lei si raccolgono le tante espressioni di “donne al comando” che al giorno d’oggi, nella politica
come nell’economia, gestiscono le leve del potere con la stessa inflessibile determinazione dei loro omologhi
uomini, se non di più. È la dimostrazione che, al di là delle questioni di genere, tutta l’umanità è per sua natura
soggiogata dalla fascinazione che esercita il predominio dell’uno sull’altro. Del resto chi incarna il potere ha
gioco facile nel condizionare un’umanità alienata, immobile, ferma sulle proprie posizioni, quasi rassegnata,
riluttante a mettersi in gioco per cambiare lo stato delle cose.
Vivere appesi ad un filo, in uno stato di precarietà, di contraddizione continua, di violenza pervasiva e latente:
da questa condizione umana prende avvio la strada che Rigola ha scelto di percorrere per guidare il lavoro dei
12 attori in scena. Come si può gestire la violenza che divide gli uomini? Come si fa a chiedere a qualcuno,
anche se solo per finzione, di uccidere un proprio simile? Quali sono i presupposti da cui partire per organizzare
una rivoluzione?
GIULIO CESARE - regia Alex Rigola
di William Shakespeare
traduzione di Sergio Perosa
adattamento e regia di Alex Rigola
con Michele Riondino, Maria Grazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia
Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtero,
Beatrice Fedi e Andrea Fagarazzi
Giulio Cesare è un testo che mancava da dieci anni, dalla messinscena di Antonio Calenda con Giorgio
Albertazzi. Questa volta ne vedremo una versione che regista e attori, unanimemente, hanno definito
«contemporanea». E non solo nei costumi e nella regia, ma nel suo significato, nella universalità dei temi e
delle domande che pone. «Usiamo la violenza per scrivere la Storia, ma senza chiederci dove stiamo andando»
spiega Rigola, «qualcuno ci dovrà spiegare perché poi i bambini muoiono sulla spiaggia di Lesbo».
Sarà uno spettacolo, continua il regista, che
pone delle domande e lascia che lo spettatore
dia le sue risposte. Cosa siamo disposti a fare
per fare una rivoluzione? Anche uccidere
qualcuno?
«Questo testo è uno dei più contemporanei di
Shakespeare» spiega il protagonista, Michele
Riondino, nel ruolo di Marco Antonio, «perché
parla del rapporto con il potere. In ogni
campagna elettorale, lo vediamo, viene tirato in
ballo il popolo cui sono dirette tante promesse,
che spesso sono solo retorica populista. Anche
nel Giulio Cesare si usano argomentazioni che
servono a blandire il popolo ma in realtà hanno
altri scopi».
«Violenza ed etica sono i due temi del Giulio Cesare» aggiunge Michele Maccagno (Cassio), «ma l’assassinio
di un dittatore è etico?». E Stefano Scandaletti (Bruto): «Shakespeare qui parla del dubbio, tra scegliere le
esigenze del popolo o le esigenze del potere». «È più cattivo chi ammazza un dittatore o una banca che mette
sulla strada un anziano per il mutuo della casa?» si domanda ancora Rigola. «In una posizione di potere, quanto
ciascuno di noi può diventare cattivo?». Rigola ha scelto un gruppo di attori molto eterogeneo, provenienti da
esperienze teatrali diverse, dal teatro di ricerca o quello classico, fino alla danza. Tutti sono entrati dentro
l’opera di Shakespeare, a sentirli parlare della loro esperienza sul Giulio Cesare, accettandone la crudezza e la
ambiguità. Che Rigola promette di evidenziare nettamente.
«Questa è un’opera senza protagonisti» spiega Maria Grazia Mandruzzato, che interpreta Cesare, «perché
protagonista è la morte. Per Bruto e Cassio è giusto uccidere per salvare la democrazia, ma non sanno cosa
succederà poi. Come non lo sanno gli altri, in questa tragedia collettiva».
Il Giulio Cesare è del 1599, è cronologicamente la prima delle grandi tragedie del Bardo, in cui, scrive
Sergio Perosa, la cui traduzione è stata scelta da Rigola, «balzano in primo piano le questioni del
comportamento individuale, che nel caso specifico assumono uno svolgimento tragico perché rispondono al
principio di ambivalenza. Se ci fosse certezza non ci sarebbe tragedia: se Cesare fosse vero usurpatore o
tiranno, la sua uccisione sarebbe legittima, come in Riccardo III».
Il regista Rigola ha curato l’adattamento che riduce a 12 i personaggi per altrettanti attori. Nel cast ci sono
anche Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel
Gualtero, Beatrice Fedi, Andrtea Fagarazzi, che si muovono nello spazio scenico di Max Glaenzel, in quello
sonoro di Nao Albet e nelle luci di Carlos Marquerie; i costumi sono di Silvia Delagneau, aiuto regia
Lorenzo Maragoni. Lo spettacolo replica fino al 9 luglio, ed è prodotto dal Teatro Stabile del Veneto - Teatro
Nazionale in collaborazione con l’Estate Teatrale Veronese.
GIULIO CESARE - regia Alex Rigola
Cosa c'entra l'immagine del piccolo Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia con il lupo Ezechiele
dei tre porcellini? Cosa c'entra lo sguardo basito di Barak Obama con Giulio Cesare? Sono gli interrogativi in
immagini che suggerisce la messinscena di Alex Rigola della tragedia shakespeariana che ha aperto l'Estate
Teatrale Veronese al teatro Romano. La violenza può essere giustificata dall'urgenza di difesa della
democrazia? Come potrebbe nascere una nuova democrazia se questa fosse figlia del sangue? A queste
domande cerca di dare una risposta Giulio Cesare di Rigola, partendo dall'assunto che muove la vicenda stessa
del testo teatrale: è opportuno uccidere Cesare perché in esso c'è in nuce la tirannide e a rischio è la
sopravvivenza stessa della res pubblica. Di questa operazione preventiva sono convinti i senatori, di questo è
certo – cooptato per la sua autorevolezza – l'amato Bruto (Stefano Scandaletti), figlio adottivo di Cesare.
Sembra quasi superfluo sottolineare come nell'omicidio di Stato di Cesare ci siano i prodromi contemporanei
delle guerre intelligenti, delle missioni di pace, della necessità di intervenire sulla destituzione di tiranni a
tutela della democrazia occidentale o di quella che lo statu quo considera democrazia.
È in questo sbilanciato e politico guardare all'oggi che Alex Rigola costruisce uno spettacolo visivamente pop,
pensato come un teorema da dimostrare, suggestivo oratorio laico sulla fragilità della democrazia. Tutti vestiti
da lupo Ezechiele pogano i cospiratori, homo homini lupus, recita l'adagio latino: così si apre Giulio Cesare.
Sulla scena un parallelepipedo bianco su cui vengono proiettate immagini e la parola: words. Sono le parole
che convincono e che seducono, sono le parole che porteranno Bruto a unirsi alla congiura contro Cesare, in
una notte agitata e carica di presagi. Alex Rigola sceglie – con non troppo rigore per la verità – il taglio
dell'oratorio, microfoni in primo piano e una sorta di volontà di schiacciare tutta l'azione sulla bidimensionalità
di quel parallelepipedo che fa da fondale, da muro invalicabile, da stanza della mattanza, destinata ad aprirsi
sull'orrore della carneficina.
Ciò che va in scena è la seduzione della parola/immagine, o ancora meglio la parola che modifica la realtà, che
la crea. E allora i presagi oscuri del sogno di Calpurnia diventano benauguranti se raccontati da Casca a Cesare
presago della sua fine, interpretato da Maria Grazia Mandruzzato. La scelta di Mandruzzato si spiega
nell'immagine proiettata di lei Cesare/morto che interroga con lo sguardo lo spettatore: il volto duro, segnato
e un po' androgino ha una sua algida bellezza che si sposa all'estetica calligrafica dell'allestimento. C'è in questa
scelta forse anche un riferimento all'ambiguità di Cesare, osannato nei trionfi come 'regina'. Le mani e camicie
bianche insanguinate dicono della carneficina raccontata e agita all'interno di quel parallelepipedo su cui
compare la scritta S:P:Q.R. e su cui vengono proiettate immagini di sgozzamenti e sangue a profusione. Tutto
accade ed è detto frontalmente, fino al discorso di Antonio (Michele Riondino) per i funerali di Cesare che
trasforma la platea nel senato, complici gli attori disseminati fra il pubblico. Quel discorso è emblema
dell'ambiguità del dire, della forza poetica e poietica della parola che fa e trasforma e alla fin fine della parola
teatrale. E a questo assoluto verbale si oppone – in fondo – la seconda parte dello spettacolo che si vorrebbe
più mossa e con esplicitata l'idea di un oratorio laico con gli attori/personaggi schiarati, sul modello di Bestia
da Stile, già sperimentato da Latella nella sua maratona pasoliniana. L'uccisione di Cesare ha portato alla
guerra: war proiettato sul parallelepipedo anticipa la seconda parte di questo Giulio Cesare contemporaneo.
Davanti allo spettatore quella scatola mostra una montagna di ossa che nel susseguirsi concitato della guerra e
della carneficina delle fazioni in gioco viene pian piano 'smontata' per fare emergere il pupazzone/sagoma del
piccolo Aylan, monito alla violenza effetto delle democrazie tutelate, degli interventi chirurgici in nome di una
'apparente e più sognata che altro' pax globale e democratica. Il Giulio Cesare di Alex Rigola è uno spettacolo
molto pensato, costruito con intelligenza e voglia di porre interrogativi e al tempo stesso dimostrare una tesi:
la natura contraddittoria dell'essere umano, il precario equilibrio del suo dirsi. Tutto ciò ha una sua coerenza,
ma manca di quella incisività del dire e dell'essere in scena che Michele Riondino, Maria Grazia Mandruzzato,
Stefano scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro
Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtero, Beatrice Fedi e Andrea Fagarazzi faticano a realizzare. Il Giulio
Cesare di Rigola manca del ritmo e della necessaria intensità attoriale e gestuale di cui avrebbe bisogno per
rendere veramente scottati quelle parole sostenute da immagini colorate, nitide, ma un po' troppo da rivista
patinata. E allora suona come monito di cui tener conto la citazione di Jouvet che si rifà all'ambiguità della
parola, al mistero del teatro che non dice a chiare lettere, ma preferisce suggerire, alludere, in cerca
dell'indicibile del nostro vivere. Nicola Arrigoni
GIULIO CESARE AL TEATRO ROMANO. RECENSIONE.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale in collaborazione con l’Estate
Teatrale Veronese, viene dato in prima nazionale ed è stato replicato fino al 9 luglio. Il testo, scritto nel 1599
e ispirato in parte a fatti storici e in parte alla traduzione di Thomas North delle “Vite dei nobili greci e
romani” di Plutarco, concentra nel breve arco di sei giorni le vicende del triennio che va dal 45 al 42 a.C. –
dalla vittoria di Munda al suicidio di Bruto – e verte sul tema del potere, in particolare dell’uso che esso fa
della violenza – assassini politici e guerra, in particolare – e della capacità manipolatrice che la parola può
assumere nei confronti della folla.
Il regista Alex Rigola, avvalendosi della moderna ed essenziale traduzione di Sergio Perosa opportunamente
adattata per sottrazione, rende il dramma – la prima delle grandi tragedie del Bardo — ancor più incalzante e
incisivo. Ottimo supporto per una lettura assolutamente moderna, intrisa di dolente, disincantata attualità; dove
non esistono eroi, ma uomini limitati e dubbiosi, persino fragili; dove la violenza, ben lungi dal risolvere
problemi e dal cambiare le cose, genera altra devastante violenza. E a farne le spese? Sempre e soltanto i più
fragili e innocenti.
Lo spettacolo, che parte alquanto statico per poi risolversi in roboante teatro di provocazione, si presenta
soprattutto come teatro di parola. Una parola resa udibile dal determinante supporto dei microfoni, che ben si
sposa con la proiezione di brani filmati di gusto cronachistico e documentaristico. E’ articolato in varie parti
introdotte da brevi titoli (“words”, “war”…) proiettati su schermo, quasi una memoria riveduta e corretta in
veste tecnologica di modi teatrali elisabettiani; mentre l’uso di movimenti di gruppo danzati e la cifra collegiale
del lavoro sottolineano quanto il potere, con le sue responsabilità, non sia mai un esercizio solitario. Così, in
libera multimedialità, nello spazio scenico “atemporale” di Max Glaenzel – connotato da un parallelepipedo
che si fa schermo, allude a un sito altro, si trasforma in teca per ossa dalle quali affiora il solito (ahimè) bimbo
annegato ributtato sulla spiaggia dalla risacca del mare, metafora di tutti i deboli, innocenti, indifesi,
perseguitati -, nelle luci evocative di Carlos Marquerie e avvolto nel mondo sonoro post-contemporaneo di
Nao Albet, questo “Giulio Cesare” è un infamante omaggio al potere e alle sue regole di autoconservazione,
immutate in ogni tempo. Un potere che alla violenza non rinuncia; un potere che sacrifica l’uomo a una non
ben definita e pretestuosa “umanità”; che persegue la pace con la guerra; un potere di lupi famelici travestiti
da rassicuranti animaletti di pelouche; un potere ormai non più monopolio maschile, ma che ha fagocitato
anche le donne, corree in ruoli fondamentali e addirittura primari.
Così risulta del tutto naturale la scelta di affidare alcune parti maschili a interpreti femminili (Margherita
Mannino, Casca; Eleonora Panizzo, Decio; Raquel Gualtero, Cinna; Beatrice Fedi, Ottaviano) tra cui
quella di Cesare, assegnata alla brava Maria Grazia Mandruzzato. Pure i costumi, ideati da Silvia
Delagneau tra il classico contemporaneo e il pop, sono unificati e omologati per tutti.
Tra i numerosi interpreti, ben dodici in scena e tutti ben calati nei rispettivi ruoli (oltre alle già citate attrici, gli
attori Pietro Quadrino, Metello, Riccardo Gamba, Lepido, Andrea Fagarazzi, servitore) spicca il Marco
Antonio di Michele Riondino nell’asciutto e antiretorico ricordo funebre per il dittatore assassinato.
Interessante, inoltre, il Bruto di Stefano Scandaletti, che privilegia l’aspetto idealistico, quasi filosofico, del
personaggio, anziché accentuarne il peso drammatico.
Incisivo Michele Maccagno nei panni di Cassio, come pure Silvia Costa in quelli di Porzia, unica parte
femminile della tragedia shakespeariana. Accoglienze calorose del pubblico, con qualche dissenso captato
uscendo dal teatro. Franca Barbuggiani
Rigola e il Giulio Cesare innovativo «È la contraddizione
dentro il potere». Savorelli: «A Servillo è piaciuto»
«Perché i costumi da lupi dei Lupercali? Perché c’è un lupo dentro ognuno di noi, un lupo che fa paura e a
volte diventa violento. Ma anche il non fare, il non agire significa diventare lupi». Quel perché lo domanda
una giovane studentessa ch’era seduta al Teatro Romano alla prima di «Giulio Cesare». La risposta è del regista
spagnolo Àlex Rigola, lui che firma l’applaudito spettacolo prodotto dal Teatro Stabile del Veneto (prima
nazionale, in replica fino a domani) con cui due sere fa è iniziato il 68esimo Festival Shakespeariano, cornice
l’Estate Teatrale Veronese 2016. Dice Rigola: «Il “Giulio Cesare” è contraddizione nella cornice del potere e
se il teatro ha ancora la forza di scatenarvi domande, beh, allora tutto lo sforzo fatto insieme agli attori ha un
valore». Le domande sono fioccate ieri, Biblioteca civica di via Cappello, il cast in fila con in testa Michele
Riondino (Marco Antonio), la sala piena di pubblico e Rigola, in piedi, appoggiato a uno scaffale di libri. Il
direttore artistico dell’Estate Teatrale, Gianpaolo Savorelli, spiega che la presenza di Rigola nel cartellone
dell’Estate Teatrale è un incrocio voluto e desiderato: «Il festival, nei 400 anni dalla morte del Bardo, vuole
presentare Shakespeare attraverso visioni registiche personali e innovative. Quello di Rigola è un “Giulio
Cesare” molto interessante, che colpisce emotivamente e può creare dibattito. Anche Toni Servillo, cui
abbiamo appena consegnato il 59esimo Premio Renato Simoni, vi ha espresso un giudizio molto positivo».
Shakespeare scrisse “Giulio Cesare” nel 1599, storia di un conflitto personale e politico, la versione di Rigola
v’immette elementi contemporanei come microfoni, video, ambienti sonori e luci d’impatto. Vedi l’inizio, il
volto del presidente Usa Barack Obama di fronte all’assassinio di Bin Laden. «È la contraddizione umana spiega Rigola - cioè l’uomo ch’è Nobel per la Pace e non avrebbe mai pensato di dover ammazzare qualcuno.
Questo è il potere, che può portarti a dover prendere una decisione del genere». Rigola pensa al potere di ieri
e al potere di oggi. «Oggi non vediamo il “capo”, il potere è distribuito sotto altra forma, ma sappiamo
perfettamente dove sta. E non possiamo chiamarci fuori, delegando responsabilità: perché siamo noi, ad
esempio, a votare. La voglia di mettere in scena “Giulio Cesare” nasce anche da lì».
Lì, in scena, c’è Riondino, attore pugliese di cinema, teatro e televisione. «Fra le tragedie di Shakespeare,
questa si presta più di altre a una chiave di lettura contemporanea perché il tema della gestione del potere non
è mai fuori moda riflette lui -. È la storia di Giulio Cesare che si dichiara un semidio, si pone al vertice di una
piramide, poi quando la piramide cade gli altri personaggi si muovono per riformarla, ma a vertici invertiti.
Ma Giulio Cesare è stato anche precursore e non si sa bene se l’azione dei congiurati sia fatta davvero per il
bene pubblico. È tutto un testo molto ambiguo, il suo fascino sta lì e nella sua contemporaneità».
Contemporaneità ch’è anche Maria Grazia Mandruzzato nei panni di Giulio Cesare. «Guardiamo al simbolo -
suggerisce Mandruzzato - Oggi storicamente abbiamo molte donne al potere: Merkel, Clinton, prima la
Thatcher. È tutto contemporaneo. Quindi perché no a una donna nella figura del massimo potere politico?».
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