Dipartimento di Scienze giuridich CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impre L’etica del diritto è la tolleranza Gustavo Visentini con la collaborazione di Amelia Bernardo dicembre 2008 © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione L’etica del diritto è la tolleranza Poniamo i problemi; 1.- Con l’affermarsi del principio di tolleranza il diritto si fa laico. Ma davvero l’etica esula dal discorso giuridico? I.- Come intendiamo l’etica; 2.- Dal sentimento etico all’etica normativa; 3.- Ma cosa è l’etica?; 4.- Il pluralismo etico è un dato dell’esperienza; 5.- Il principio di tolleranza; 5.1.- Il principio è l’espressione del valore etico del consenso nelle relazioni sociali; 5.2.- (segue)Il principio di tolleranza fonda la razionalità come tecnica di convivenza; 6.- La tolleranza non conduce all’irrazionalità del nichilismo; 7.- L’intolleranza fonda l’etica dell’autorità; II.- L’autorità del diritto è fondata sulla tolleranza; 8.- L’etica si fa diritto; 9.- Il fenomeno giuridico; 9.1- Il diritto è fatto istituzionale; 9.2.- (segue) Il processo giurisdizionale crea il diritto; 10.- Le fonti del diritto: della norma per regolare i casi della vita; 10.1.- Il diritto giurisprudenziale dello Stato premoderno; 10.2.- Il monopolio della legge nello Stato moderno; 11.- Società senza l’ordine giuridico; III.- L’etica del diritto è nella qualità delle sue tecniche; 12.- Nei fatti istituzionali l’idea non è separabile dalla sua tecnica realizzazione; così è per il diritto: l’etica è nelle sue tecniche; 13.- Quale grado di eticità rileviamo nel diritto italiano? Spunti di riflessione; 14.- E’ fatale l’annullamento del diritto nel nichilismo giuridico? Poniamo i problemi 1.- Con l’affermarsi del principio di tolleranza il diritto si fa laico. Ma davvero l’etica esula dal discorso giuridico?- L’esperienza storica liberale, che ha introdotto nelle costituzioni americana e francese il principio della tolleranza, è da prima il logoramento e poi l’obsolescenza del vecchio ordine. Secondo il vecchio ordine di centenaria tradizione la comune religione conformava la morale e i costumi nel dare legittimità alle istituzioni: il fondamento morale del diritto era nella natura delle cose voluta dalla divinità; lo scostamento del diritto positivo dal diritto naturale poneva il problema dell’eventuale autorità religiosa chiamata a dirimere il conflitto, nel caso non si riconoscesse direttamente al suddito il potere di ribellarsi alla regola positiva contraria alla sua coscienza di cristiano. Con le Guerre di religione, con la colonizzazione dell’America, con il progredire delle scienze, con lo sviluppo della ricchezza industriale e finanziaria, con l’affermarsi degli Stati nazionali; in definitiva con il discredito dell’Antico Regime non più adeguato al grado di cultura, la libertà di coscienza - di religione e di pensiero - s’impone come il principio della convivenza nelle società liberali, che divengono pluralistiche. Nel pluralismo delle convinzioni, dei valori e degli interessi, lo Stato ed il diritto si fanno laici: il diritto si separa dal sentimento morale; la morale cessa di essere la fonte privilegiata del giuridico, per rivelarsi sentimento personale, nel rispetto del pluralismo. Non soltanto diritto e morale si separano, ma si emancipano dal conformismo delle tradizioni, e ciascuna istituzione si radica sulla volontà cosciente: il diritto sulla volontà del sovrano, che decide la sua legge; la morale sulla volontà dell’individuo, che aderisce alla sua etica personale. È nell’esperienza, prima che nella filosofia, che il diritto si impone con la sua forza indipendentemente dal giudizio morale. Il diritto è creazione dell’uomo in società, in grado di regolare la sua vita; il diritto non ci viene da Dio, dalla tradizione morale e dalla conformità ai costumi tradizionali, ormai obsoleti. Il diritto è nelle leggi che la società si dà: non è l’etica che fonda il diritto, ma l’etica è quella imposta dalla legge che crea il diritto. Il diritto si rivela quella tecnica che impiega la forza dello Stato per ordinare la società; la validità delle sue regole è nella forma della legge, che ne permette il riconoscimento come diritto positivo, immedesimandolo; la legge è atto di volontà, con cui la società crea le sue regole; il criterio morale è un giudizio politico sul contenuto della legge, formulato da ciascun individuo, con la sua volontà, secondo criteri che variano nell’intimo della coscienza, perciò inidonei ad infrangere la validità della legge. Anche nelle moderne esperienze illiberali, assai diffuse nella storia e nel mondo contemporaneo, l’intolleranza del dittatore non può più fare affidamento sul conformismo per legittimare la conservazione dell’ordine antico; anzi, è la stessa intolleranza per l’ordine liberale che si prospetta rivoluzionaria. Lo Stato totalitario, l’autocrazia, ha bisogno della forza della legge per imporre la sua ideologia: deve vietare il dissenso al suo progetto con la forza della sua legge, a società che nel pensiero sono ormai divenute definitivamente plurime. Ma davvero l’etica esula dal discorso giuridico, che si vorrebbe circoscrivere al diritto come tecnica di ordinamento della società, del tutto indipendente dalla giustizia dell’ordine imposto? Davvero la legge arbitraria dello Stato totalitario è diritto, che così si esaurirebbe nella forza del comando? Penso che il fenomeno giuridico sia più complesso del concetto accolto nel teorema che lo separa dalla morale. II Come intendiamo l’etica 2.- Dal sentimento etico all’etica normativa.- E’ nell’esperienza la presenza del sentimento etico come criterio del giusto che ciascuno formula in coscienza per regolare il proprio comportamento e per valutare il comportamento degli altri e della società. Possiamo dunque riguardare l’etica come quel sentimento che ci indirizza al giusto; che, sviluppato in ragionamento, ci consente di affrontare le questioni che riguardano i valori, la scelta dei valori o i discorsi sui valori: la tecnica riproduttiva del clone applicata all’uomo quali valori coinvolge? È tecnica immorale? Il giudizio etico può rimanere nell’intimo della coscienza di chi lo formula, fenomeno psicologico imperscrutabile. Il giudizio può invece essere, nel dialogo sociale, la prospettiva personale per stabilire ciò che si deve fare o non si deve fare nelle relazioni con gli altri. L’imperativo morale che rimane nella coscienza dell’individuo si riduce alla sincerità verso se stesso; nel non essere ipocrita o fraudolento quando, convinto di una verità morale, lo stesso individuo si manifesta diversamente nel comportamento; a non cadere nell’opportunismo nel gestire la propria libertà morale: la libertà di mutare convinzioni. Invece nella prospettiva sociale l’esperto non ha difficoltà a riconoscere nell’etica un sistema normativo che opera, per lo più inconsciamente, per risolvere i casi della vita, con adesione spontanea o suscitando nell’immorale senso di colpa non soltanto verso se stesso, quanto verso la collettività alla quale moralmente appartiene, di cui teme la reazione. L’etica normativa assume il ruolo di ordinare la società, sì da consentire di stabilire il suo diffuso grado di moralità. Perciò l’imperativo etico racchiuso nel principio morale si deve tradurre in soluzioni operative, in analitiche regole in grado di ordinare i comportamenti, la cui trasgressione possa essere rilevata oggettivamente per la formulazione del giudizio. Come giudica la morale cattolica la mia decisione di divorzio, che la legge dello Stato mi consente? La risposta è nella regola della morale religiosa, che sì deriva dai principi, ma che spesso sono di per sé insufficienti a rivestire il concreto caso della vita. 3.- Ma cosa è l’etica?- Il giudizio morale è un’operazione cognitiva di verità etiche, per stabilire il vero o il falso; oppure è la sintesi ponderata di valori e di interessi soggettivi per decidere il comportamento personale da tenere nel dato contesto? La morale è fede o ragione? È ragione del bene o è ragione dell’utile? Sentiamo l’etica con l’intuizione oppure la capiamo con il ragionamento? È nella Ragione, che postuliamo innata nella mente come sistema di verità assolute, che scopriamo il giusto (razionalismo); oppure è con il ragionamento, come procedimento mentale di formazione dei concetti per assumere decisioni, che cogliamo il nostro giusto (pragmatismo)? È con l’argomentazione che gli interlocutori pervengono all’accordo su ciò che è giusto fare in comune? Ovvero è un’autorità, che riconosciamo legittima (autorità morale), oppure che si legittima con la forza (autorità militare), a indicarci il giusto? Come perviene l’autorità a stabilire il giusto? Con la fede o con il ragionamento? La decisione dell’autorità è unilaterale oppure è ragionata con il concorso determinante dei destinatari della decisione? La questione del giusto è lo svolgimento articolato di soluzioni da principi assoluti (non rubare; non uccidere: i dieci comandamenti) ovvero è la selezione e mediazione di valori e di interessi contradditori che la complessità della vita ci propone come dilemma? Non uccidere, ma la legittima difesa lo giustifica; così la giusta guerra giustifica morte e stragi; la tecnica del clone, che uccide l’embrione, può essere impiegata a finalità terapeutica. Prendiamo un esempio, facile da cogliere perché di esperienza comune, ma assai complesso nelle vicende della civiltà; pertinente per considerare i rapporti tra pluralismo e autorità; tra etica e diritto. L’istinto sessuale va soddisfatto soltanto se accompagnato dall’affetto nel desiderio di creare una famiglia? Se la coppia si promette per la vita è morale l’accordo di separazione che dovesse sopravvenire? Se lo scioglimento del patto dovesse essere unilaterale, contro la volontà ed in spregio all’interesse dell’altra parte, il giudizio è di immoralità? È diversa la situazione in presenza di figli? Nel valutare la moralità del mio comportamento hanno importanza gli effetti penosi che può subire l’altra parte? Sono questioni che si esauriscono nella coscienza privata, quindi irrilevanti per l’ordinamento sociale, oppure sono regole delle relazioni sociali in grado di dare al mio comportamento il giudizio sociale di immorale? Sono regole dettate dalla mia religione? La regola religiosa si esaurisce nella coscienza nel rapporto con il divino, quindi socialmente irrilevante, oppure, come normalmente si verifica, ordina il giudizio della comunità dei fedeli ed eventualmente delle autorità religiose? A quali condizioni è morale la restrizione delle libertà individuali che opera il diritto? È morale l’imposizione che ne può conseguire dalla formulazione come diritto di un dato ordine morale: es. indissolubilità del matrimonio? Come istituto morale il matrimonio è un esempio emblematico. Il codice civile italiano del 1865 disponeva l’indissolubilità del matrimonio e la protezione della famiglia legittima, con la conseguenza di dichiarare illegittimi i figli nati fuori matrimonio; non riconoscibili i figli adulterini; prescrivendo la sanzione penale per l’adulterio. Oggi il legislatore ha ricondotto questa morale alle scelte personali; alla competenza di sistemi normativi etici laici o religiosi; ha istituito il matrimonio come libera scelta alternativa alla famiglia di fatto, eliminando ogni distinzione di figli in legittimi, illegittimi, adulterini; il matrimonio cessa con il divorzio; comunque anche in costanza di matrimonio i figli nati da una diversa relazione sono riconoscibili e la nuova relazione può durare come famiglia di fatto. Anche nel sentire comune queste vicende, ormai diffuse, non sono riprovevoli, sono lasciate alla morale intima della persona; anzi, il vecchio regime matrimoniale viene ricordato come immorale costrizione alla libertà individuale ed alla personalità della donna. 4.- Il pluralismo etico è un dato dell’esperienza.- Si dice che è della natura umana la coscienza di un giusto che per la libertà di comportamento può essere tradito. L’uomo può mentire, ciò presuppone che nella coscienza sappia il vero. Così l’ipocrisia, la frode, l’errore, presuppongono nell’intento la rappresentazione del giusto. L’uomo giudica distinguendo il giusto dall’ingiusto. Ma il giusto, come d’altro canto la verità, sono concepiti nell’individualità delle coscienze e del pensiero, condizionate dal grado di conoscenza (di cultura) delle cose che si forma, diversamente, nella mente degli agenti; condizionate dal contesto in cui ciascuno si trova a vivere la propria storia; condizionate dai valori e dagli interessi che si intendono perseguire; dunque condizionate dalla personalità di ciascuno, che l’esperienza ci conferma essere irriducibilmente diversa. Nel racconto di Erodoto i greci, ospiti del re Cambise, rispondono nauseati alla domanda se ritengano etico cibarsi delle carni del parente defunto, come praticato in talune regioni; al che Cambise si rivolge a personaggi provenienti dall’India, lì presenti, chiedendo loro se ritengano etico il rito dell’incinerazione dei defunti praticato dai greci, ricevendo una risposta altrettanto indignata sull’empietà della pratica, con sorpresa dei greci. Il relativismo dell’etica secondo i tempi ed i luoghi è nell’esperienza storica. D’altro canto l’identità della persona è nell’esperienza delle cose più banali: v’è chi non sopporta il gusto del formaggio, chi ama il gelato al pistacchio; se siamo differenti nei gusti perché dovremmo identificarci nei valori? Se non è data verità del gusto perché dovrebbe esserci la verità del valore? Perfino la verità oggetto di cognizione scientifica è ormai intesa come relativa, condizionata dagli interessi di ricerca, dagli obiettivi pratici che la storia ci propone: la scienza è un sistema concettuale strumentale agli obiettivi operativi che di volta in volta si dà l’uomo; sistema per definizione fallibile. Quando la scienza pretende la conoscenza assoluta delle cose scivola nella metafisica: soltanto un dio, posto fuori dal mondo, conosce il Tutto. Non tanto sono relativi al tempo, al luogo, alla personalità, i valori; il problema non è tanto nei principi, sui quali è più facile convenire: greci e barbari conoscevano riti differenti, ma per soddisfare lo stesso desiderio di onorare i loro defunti. Il problema etico è nel dilemma che solleva la combinazione dei principi nell’esperienza, per l’individuo e per la società. Antigone è la personificazione del valore dell’affetto famigliare; ma Creonte è la personificazione del valore della convivenza nella città, che Polinice ha tradito: sul dilemma si svolge il dramma. L’assolutezza del valore etico affermato nel principio (es. ama tuo fratello; ama la patria tua) è costantemente messa in discussione dinanzi al dilemma che pone l’esperienza. Non uccidere è un principio, ma il problema è la giusta guerra; la clonazione può essere tecnica per curare malattie; come contemperare lo sviluppo economico con la protezione dell’ambiente? Come contemperare lo sviluppo dell’economia di breve e di lungo periodo? Raggiunto il livello del benessere diffuso, dobbiamo proseguire politiche economiche di massima produzione, a costo di accrescere le disuguaglianze, oppure di equa distribuzione del prodotto, a costo di produrre di meno? La disuguaglianza crea sofferenze morali? Sono i problemi della politica, nonostante la saldezza dei principi: diritto alla vita; diritto all’identità naturale della persona; diritto alla salute; libertà economica. Il valore della vita si scontra con la violenza della giusta guerra; il valore della sincerità con la bugia opportuna a coprire una terribile verità che potrebbe recare danno al destinatario; la massima che il fine giustifica i mezzi ha legittimato i più diversi comportamenti, sino a dare illimitato spazio alla ragione di Stato. Il mercante in stato d’insolvenza si determina alle frodi contabili nella speranza che il superamento della congiuntura avversa consentirà di riprendere felicemente il negozio, e così di salvare dall’indigenza non soltanto la sua famiglia, ma anche i dipendenti e le loro famiglie: questa speranza nella difficoltà congiunturale talvolta è premiata; talvolta invece il fallimento diffonde la crisi ai creditori e al mercato, con gravi danni, che le leggi sulla repressione delle frodi intendono prevenire. In tempi recenti il comunismo poneva il valore dell’uguaglianza nella distribuzione del reddito come superiore all’obiettivo dell’incremento della ricchezza disponibile, sia pure a costo di notevole sperequazione nella distribuzione del reddito. Nel regime democratico dell’Inghilterra del secondo dopoguerra il valore dell’uguaglianza ha informato la politica dei laburisti, per poi essere sconfitto dalla politica dei conservatori. Sono questi gli effettivi problemi dell’etica, quelli che si riconducono all’etica applicata, sui quali è difficile avere la medesima convinzione; problemi che vanno affrontati attraverso il loro approfondimento tecnico, per poi impostare sulle tecniche le scelte che, in definitiva, sono politiche: la soluzione del dilemma che solleva l’applicazione dell’etica differisce nelle coscienze individuali e nelle scelte sociali; davvero il pluralismo si manifesta nella concretezza delle scelte; davvero la filosofia è nella tecnica. Il riconoscimento del pluralismo come valore morale è nelle libertà che la nostra civiltà è venuta proteggendo come istanza naturale dell’uomo in società: la storia ci insegna che il pluralismo della cultura etica è istanza propria della natura dell’uomo non appena, soddisfatti i bisogni elementari, è in grado di prendere coscienza della propria personalità. La libertà etica si è imposta proprio contro il conformismo della tradizione, che nell’apparente serenità di una morale formalmente riconosciuta legittima, nascondeva inaccettabili privilegi e diffuse ingiustizie, nei fatti imposte come morale dalla forza autocratica di una aristocrazia che sempre più si trasformava in oligarchia. Ma, per altro verso, il pluralismo etico non è estenuato individualismo, come talvolta si critica. Anche nelle moderne società pluralistiche è nell’esperienza la presenza di un consistente e robusto sistema di valori etici comuni che si è storicamente consolidato; e la presenza di valori sì diversi, che peraltro l’interesse alla solidarietà riduce a comuni per l’azione collettiva. L’adesione è così intensa che la comunità vi si identifica, rendendolo sistema resistente alle modificazioni ed alle evoluzioni: ciascuno identifica la morale della comunità con la propria personalità. Peraltro di fronte al caso nuovo l’assetto tradizionale della convivenza morale può entrare in crisi, incapace di dare risposte; il concorso dei sistemi etici propone risposte contraddittorie, ed altera l’assetto raggiunto nella convivenza nel pluralismo. Le innovazioni tecniche hanno diffuso la crisi: sempre più spesso ci si chiede cosa si deve fare per essere morali; come risolvere i nuovi conflitti tra sistemi etici. Sono i campi che riconduciamo alle etiche applicate, dove si infittiscono le discussioni per trovare soluzioni. Il fenomeno è oggi in rapida evoluzione, e trova le sue punte avanzate appunto nelle etiche applicate, laboratorio di evoluzione dell’etica e di creazione di nuove norme morali. Le innovazioni tecniche ci ripropongono la morale come problema dinamico, a conferma che tra l’etica fondamentale e l’etica applicata vi è continuità. 5.- Il principio di tolleranza.- 5.1.- Il principio è l’espressione del valore etico del consenso nelle relazioni sociali.- Il fondamento delle società libere è nel principio di tolleranza. La libertà etica che genera il principio non si risolve nel disordine dell’anarchia e della lotta fratricida, poiché l’individuo è sì egoista, ma l‘egoismo comprende il desiderio di convivere: la solidarietà. L’imperativo fisiologico alla convivenza trova soddisfazione nel consenso, dove convivere non significa soltanto accettare passivamente la presenza di altri; non è soltanto accettare le diversità nelle idee e nelle concezioni morali, che troviamo nei fatti, ma richiederne l’attiva collaborazione; la collaborazione può esaurirsi in rapporti elementari o costituirsi nelle complesse istituzioni sociali (famiglia, Stato). Ciascuno, per fede o per convinzione nella propria soluzione etica, sostiene che la verità sta dalla sua parte; ma accetta, per conseguire la convivenza pacifica, la relatività della propria personalità morale; cioè accetta, di fronte alle argomentazioni dell’altra parte, o di non avere capito il problema oppure di dover compromettere sul proprio valore o interesse. L’esperienza insegna che nell’onesto dialogo ciascuna delle parti meglio capisce i propri valori ed interessi; che nel dialogo la natura sociale dell’uomo consente di individuare valori ed interessi comuni; o di decantare soluzioni comuni adeguate al loro perseguimento: è nel dialogo sociale che le diverse concezioni etiche convengono sul concetto di giusto. Nella democrazia devo accettare di convincere con ragioni per divenire maggioranza. In queste condizioni da un canto si sviluppano concezioni etiche concorrenti e alternative, fisiologicamente conflittuali; ma d’altro canto, sotto l’imperativo della convivenza consensuale, la complessità e la ricchezza delle motivazioni individuali si combinano nel dialogo sociale per determinare le scelte comuni. 5.2.- (segue) Il principio di tolleranza fonda la razionalità come tecnica di convivenza.- Perciò dalla tolleranza discende la razionalità come tecnica di attuazione del principio nel dialogo sociale. Per razionalità intendiamo le operazioni mentali (le ragioni) che innanzitutto ci consentono di prendere cognizione dei nostri interessi e valori; quindi di ordinare le idee in modo che il tessuto dei concetti formuli nel pensiero un progetto in grado di operare per i fini che ci proponiamo. L’irrazionalità è il decidere senza darsi ragione del perché mi pongo quel dato obiettivo e del perché accetto quel mezzo per soddisfare l’obiettivo assegnato: è decidere per seduzione. La razionalità è un orientamento; la tendenza del nostro pensare a darsi la ragione delle intuizioni, provengano esse dall’interno della nostra mente o ci siano comunicate da altri; è appunto una tendenza perché non riusciremo mai ad eliminare il rischio della decisione, per una qualche imperizia o per l’alea; è la tendenza a relegare ai margini le seduzioni come strumenti di convinzione. L’etica della tolleranza è il valore dell’accordo razionale nelle scelte dei comportamenti in società: se sono tollerante devo accettare il discorso non soltanto per convincere, ma anche disposto ad essere convinto; dove la convinzione è generata da argomenti di ragione, non dalla forza fisica, ma nemmeno dalla seduzione. Sul valore della tolleranza sono fondate le procedure razionali per convivere consensualmente nelle diversità: il desiderio di ciascuno di vivere nel consenso con gli altri stimola al discorso razionale, che produce il tessuto di regole e di istituzioni che configuriamo la data società. Per il rispetto reciproco che genera la tolleranza vi è il dovere di promuovere e di educare l’identità della persona, perché ciascuno sia in grado di capire i propri interessi e valori e di argomentare nel dialogo il proprio discorso, di collaborare nell’impresa comune. Invero lo svolgimento del discorso pratico richiede che gli interlocutori siano in condizione di capire i propri interessi e di rendersi conto se le azioni proposte sono congrue all’obiettivo di perseguire gli interessi ed i valori programmati. Se devo convincere l’interlocutore devo ben conoscere i fatti della questione e le analisi sulle quali poggia la proposta; e così inversamente se mi si vuole convincere devo essere in grado di verificare gli argomenti della proposta. Queste condizioni della razionalità possono rivelarsi di immediata soddisfazione; ma è ben possibile che invece richiedano approfondimenti tecnici. Quando poi consideriamo la presenza di queste condizioni dell’argomentazione razionale in società complesse, soltanto sofisticate tecniche di organizzazione sono in grado di rendere attendibile la loro soddisfazione: l’insufficienza delle tecniche inquina i risultati. Prendiamo la recente crisi dell’economia globale scatenata dalla vicenda dei subprime: è circoscritta alla finanza o è generata dall’economia reale? Per contenerla sono sufficienti strumenti monetari oppure servono strumenti fiscali? Nell’economia globale è accettabile il riequilibrio che offrono i paesi in pieno sviluppo oppure nel tempo i loro fondi sovrani possono alterare le condizioni di sovranità dei paesi esposti? Le dislocazioni dell’industria possono essere penose e forse rischiose in assenza di autorità globali. Le risposte per orientare i comportamenti richiedono l’organizzazione di profonde e sofisticate analisi tecniche, per decantare le ineliminabili incertezze e per proporre le scelte, che in definitiva sono etiche. Nel discorso sociale la seduzione e la demagogia inquinano di irrazionalità la decisione, spesso a vantaggio di chi razionalmente si serve di questi strumenti di persuasione. Sulla parola razionalità dobbiamo evitare l’equivoco. La razionalità di cui discutiamo non è la razionalità dogmatica; la credenza nella intrinseca razionalità della mente, da cui dedurre la conoscenza di verità assolute, fisiche ed etiche; oggi criticata anche come scientismo. Discutiamo della razionalità come tecnica del discorso che vuole convincere con ragioni; l’etica di chi accetta di essere convinto da ragioni. 6.- La tolleranza non conduce all’irrazionalità del nichilismo.- La tolleranza, come etica della convivenza consensuale, è valore assoluto ed universale. Ne fraintende il principio chi dice che la tolleranza genera relativismo nei valori. Essere tolleranti presuppone la fede nei propri valori ed interessi; ma anche il riconoscere che altri hanno fede nei loro valori; essere tolleranti è accettare come valore il relativismo della propria personalità, non essere relativi nei propri valori. L’accettazione dell’intelligenza dell’interlocutore è un valore, valore assoluto: la posizione che l’interlocutore può avere ragione è intelligente umiltà; la posizione che l’interlocutore può avere le sue ragioni è rispetto della sua personalità, diversa dalla mia. La tolleranza non conduce al nichilismo, che è la posizione di chi nega i valori, innanzitutto i propri: il nichilista non crede in valori, né suoi né altrui; il tollerante crede che i propri valori debbano convivere con i valori degli altri. Prendiamo il significato corrente, recepito dal dizionario: “atteggiamento personale o, anche, carattere incline a una critica aspra e distruttiva della società, al rifiuto delle sue convenzioni e a una generica sfiducia negli uomini, nel progresso e nel futuro, che sfocia in un desiderio di distruzione (o anche di autodistruzione), in un disperato malessere esistenziale, nel pessimismo e nel fatalismo”. Il nichilismo è la patologia di chi rifiuta la compagnia, la quale costringe a riconoscere i valori e gli interessi del compagno, siano pure essi contingenti, ma perciò reali; è l’atteggiamento di rifiuto delle istituzioni sociali, che sono il frutto dell’accordo razionale dei consociati. Quando in famiglia si manifestano differenze nelle scelte pratiche, che non si intende vincere con la forza per la rottura che ne deriverebbe, la determinata ricerca di accordo è l’atteggiamento del tollerante, non del nichilista. Oppure il nichilismo è l’atteggiamento intellettuale di scetticismo riguardo a verità assolute, che ha portato all’indifferenza, al rifiuto della società, all’anarchia; o piuttosto ha portato all’opportunismo, nei confronti del radicarsi di istituzioni intolleranti e totalitarie: l’opportunista che si dichiara intellettualmente scettico è talvolta assai interessato al contingente. 7.- L’intolleranza fonda l’etica dell’autorità.- L’intolleranza conduce all’autoritarismo. Nell’esperienza storica non esiste la verità etica; ma esiste o l’accordo ragionato su regole etiche che consentono la convivenza nel consenso; oppure un vero etico imposto alla convivenza con l’imbroglio (demagogia) o con la forza fisica. È l’intolleranza che genera nel dogma l’oppressione dell’una parte sull’altra: oppressione intellettuale, che facilmente degenera in oppressione fisica. L’intolleranza si fonda sul principio dell’oppressione delle differenze; sul pregiudizio della superiorità dell’autorità del despota, perciò stesso che è autorità. Rifiutare la diversità ragionata nei valori e negli interessi è rifiutare l’accordo per imporre il proprio valore od interesse come verità da accettare irrazionalmente, impiegando la propria forza fisica o morale unilateralmente. Imporre il proprio valore è come imporre il proprio gusto: imporre di mangiare il formaggio a chi non piace. Ma anche l’imposizione del despota può avere una sua etica, si dovrebbe dire se ispirato da buona fede. L’esperienza ci dice che il valore della tolleranza non è universalmente condiviso. Sono vitali concezioni insofferenti delle diversità; insofferenti dei vincoli che impone la fiducia sulla razionalità dei consociati; sulla razionalità dell’uomo; concezioni che non si affidano alla razionalità degli uomini. È l’etica di chi è convinto che il destinatario del potere non ha la sufficiente maturità per gestire i propri interessi. Non abbiamo sentito dire da elaborate teorie filosofiche che non si sono ancora create le condizioni per realizzare la vera democrazia secondo l’ideale, sì da giustificare il passaggio storicamente necessario della dittatura del partito proletario? Non sentiamo spesso dire che il regime politico autoritario ha la sua legittimità nell’immaturità della società a reggere la democrazia? Non ne sentiamo l’eco nelle impostazioni della politica della Cina? Le recenti vicende della Russia, caduta nell’anarchia di una confusa democrazia, sono richiamate per legittimare la forma di dittatura che va assumendo il regime. Il riaffacciarsi delle teorie sulla crisi delle democrazie o sulle dittature delle classi dirigenti ripropongono le soluzioni autocratiche come le realistiche legittimazioni del potere. L’intollerante segue un’etica opposta ed incompatibile con l’etica della tolleranza. Sul piano delle istituzioni sociali è l’etica della missione, che legittima al comando per posizione religiosa, per tradizione, per capacità di comando, per posizione tecnica: il partito guida, il personaggio o la classe o lo stato di Antico regime. Le nostre istituzioni democratiche hanno scelto l’etica della tolleranza, ed in questo contesto ci muoviamo, senza tuttavia dimenticare l’interlocutore che sostiene l’opposto orientamento, in propositi palesi o con strisciante comportamento volto a rivoluzionare le istituzioni. La tolleranza nella democrazia è un’esperienza in costante formazione. III L’autorità del diritto è fondata sulla tolleranza 8.- L’etica si fa diritto.- Quando l’etica è tradotta in regole ed istituzioni che s’impongono agli associati assistite dal processo giurisdizionale si manifesta il fenomeno giuridico. Vorrei da prima individuare la nozione di diritto che quotidianamente impiega la pratica nel dialogo sociale: la nozione tecnica. Credo che su questa non sia difficile concordare, poiché cerchiamo di descrivere il diritto per la forma che lo rende positivo, non per la sua essenza di idea religiosa o filosofica. Peraltro la tecnica del diritto, che conosciamo nell’esperienza di pratici, è la traduzione operativa di un’idea filosofica del giusto: la giusta pace è imposta ai contendenti attraverso il processo giurisdizionale; ciascuna delle parti nel contraddittorio è costretta a tollerare le ragioni dell’altra nello sviluppare le argomentazioni per convincere il giudice; la giustizia della sentenza è nella razionalità del procedimento della sua formazione; a sua volta la giustizia della legge è nella razionalità del procedimento democratico della sua formazione. Il fondamento del diritto è nel principio di tolleranza. Ma, abbiamo visto, nell’esperienza sono diffuse concezioni intolleranti. In queste concezioni il principio fondatore dell’ordinamento sociale è la Ragione di Stato, che ha la prevalenza sulla tolleranza. Sono concezioni che talvolta manifestano apertamente il rifiuto per la tolleranza; ma che più spesso operano all’interno delle procedure democratiche, per svuotarne o ridurne la sostanza; per svilirne la qualità. Sono concezioni che respingono il diritto come regola di ordinamento sociale, perché respingono del diritto le tecniche del processo e delle procedure legislative, che retrocedono di fronte alla Ragione di Stato, quando ritenuto opportuno dal potere. 9.- Il fenomeno giuridico.- Il diritto è un fatto istituzionale dell’uomo, che ordina la società mediante la regola del processo giurisdizionale; quindi del procedimento legislativo democratico; dove la decisione (sentenza, legge) è la conclusione argomentata delle contrapposte ragioni, secondo quell’analogo principio che è a fondamento della tolleranza. 9.1.- Il diritto è fatto istituzionale.- Il diritto esiste come prodotto della mente dell’uomo; le norme che lo compongono sono idee che si esauriscono nella loro rappresentazione mentale; non sono la rappresentazione mentale di un oggetto. Il codice civile non si rappresenta al mio pensiero, per orientarmi nella vendita dell’immobile, come si rappresenta la montagna che mi propongo di scalare. A differenza della montagna, il diritto sta, e si esaurisce, nella mente degli individui che, pensando vera quella determinata norma che il codice documenta, si comportano di conseguenza. Mediante la comunicazione il pensiero individuale si forma collettivo: nel dialogo il pensiero individuale si conforma all’attendibile pensiero degli altri consociati, sì da determinare l’uniformità delle azioni individuali. La mia rappresentazione della convergenza dei pensieri degli altri verso un comune concetto ipotizza la norma di comportamento: la norma è appunto la prescrizione che mi attendo rappresentata anche nel pensiero degli altri. Nel processo di attuazione del diritto la norma si forma secondo la rappresentazione che prospetto al giudice, e che mi attendo che la corte faccia propria. In questo senso, inserita nel tessuto sociale, la norma si prospetta per ciascun individuo come dato oggettivo; ma è oggettività apparente. La norma, come uniformità di pensiero, è soltanto un’ipotesi, che dipende dall’attendibile adesione di ciascun individuo all’interpretazione comune; che si dissolve quando questa attendibilità dovesse cadere; oppure si dovesse modificare nella evoluzione delle convinzioni, come accade nella fisiologica esperienza sociale; ipotesi che perfino può essere smentita dal rifiuto di riconoscerne la legittimità, come nella congiuntura rivoluzionaria. Infatti in quanto pensiero la norma è un’idea che subisce l’evoluzione dell’esperienza: mutevole con il variare degli uomini, nello sviluppo del dialogo sociale; con il mutare del contesto. Quando vedo il rosso del semaforo mi fermo nella presunzione che il segnale sarà inteso come divieto dall’autorità di polizia; ma posso non fermarmi ed in caso di incidente il danneggiato potrà avvalersene nella presunzione che il giudice gli darà ragione nel qualificare il fatto come vietato dalla norma ricavata dal codice della strada. Se, per difetto di funzionamento, il semaforo segna costantemente rosso per chi proviene da destra, il danneggiante potrà sostenere l’equiparazione di semaforo rotto a semaforo inesistente, e quindi la regola di generale applicazione della precedenza per chi viene da destra; ma il danneggiato potrà argomentare che comunque il verde crea un affidamento che costringe anche chi proviene da destra alle dovute cautele, che nel caso in contestazione sono mancate, come il danneggiato riesce a provare. Nel conflitto le parti ed i loro avvocati dovranno ipotizzare la norma; la norma di diritto che risolverà nella sentenza il conflitto sarà creata nel processo: ad es. si dirà che effettivamente il semaforo disfunzionante elimina il divieto, ma comunque costringe alle dovute cautele chi proviene dal rosso fisso. Nel corso del processo la verità della norma è soltanto ipotesi; nel processo giurisdizionale, sino alla sentenza, la norma è soltanto ipotizzata vera nel corso del contraddittorio: secondo due verità incompatibili; quando la decisione della corte dichiara la vera norma nella sentenza, quest’ultima si prospetta come documento che racchiude un precedente utile a pensare nuovamente la norma. La componente tempo spiega l’accadimento. Il pensiero che si è consolidato come diritto nell’esperienza passata deve affrontare i casi della vita. La norma, postulata preesistente dall’agente come se il futuro fosse eguale al passato, nei fatti è creata nel corso dell’esperienza, perché il futuro non è riconducibile alle esperienze passate se non mediante l’operazione mentale dell’interpretazione; perché in ogni contesto gli uomini sono differenti e differente può essere il loro atteggiamento. Il conflitto prospetta un caso come nuovo, talvolta perfino non pensabile nella passata esperienza; anzi dovrebbe essere fisiologica la novità del caso quando le parti prospettano al giudice il conflitto di diritto, altrimenti lo avrebbero risolto direttamente. 9.2.- (segue) Il processo giurisdizionale crea il diritto.- Perciò è la vicenda processuale che concreta il diritto. La norma è giuridica proprio in quanto ne posso far valere il contenuto nel processo giurisdizionale per ottenere, con il provvedimento favorevole, la forza delle istituzioni per la soddisfazione del mio interesse. L’ordine giuridico si impone alla società mediante la costrizione esercitata sui comportamenti degli associati dall’eventualità dell’impiego della forza in seguito al processo di attuazione del dato sistema di ipotesi normative. Nel caso dell’incidente è presso la corte che faccio valere il mio diritto al risarcimento dei danni perché, pur venendo da sinistra, il segno verde del semaforo rotto mi aveva dato l’affidamento di via libera; se il giudice accoglierà la mia tesi, mi servirò della sentenza per disporre a mio favore dell’autorità della legge. La creazione della norma non è nell’arbitrio della corte, proprio perché la sentenza è la conclusione di un discorso logico. Nel diritto contemporaneo la logica della sentenza segue il procedimento mentale deduttivo, della logica formale, che si dispiega nel sillogismo giudiziario. Nella premessa maggiore è definita la norma, come fattispecie astratta dedotta dalla legge, impiegata per risolvere nella conclusione il caso rappresentato dalle parti nella premessa minore come fattispecie concreta. Di qui la definizione tradizionale: “Il diritto è il sistema normativo che la sovranità dello Stato sanziona per ordinare la società”. La definizione assume il paradigma generato dalla contrapposizione del diritto positivo al diritto naturale, ovvero all’etica ed alle istanze morali. Il diritto positivo si distingue per la forma, indipendentemente dal contenuto delle sue norme: l’atto dell’autorità è fornito della forza della legge perciò solo che è adottato secondo le forme costituzionali del dato ordinamento, anche se ingiusto (ius quia iussum). Sul diverso piano dei contenuti e dei valori troviamo l’etica, il diritto naturale; le sue norme sono giuste (ius quia iustum), sebbene sfornite della forza che ne assicura il rispetto. Ma l’esperienza ha rivelato l’inadeguatezza della definizione nel cogliere il fenomeno giuridico. La definizione presuppone che il sistema normativo sia un oggetto rispetto alla mente che lo pensa, dal quale dedurre (ovvero trarre come sua componente) la norma (fattispecie astratta) per risolvere il caso (la fattispecie concreta). Invece il diritto è fatto istituzionale creato nell’esperienza sociale, nello svolgimento del discorso giuridico. Il ragionamento non è tecnicamente deduttivo (non risponde alla logica formale) poiché le due fattispecie (premessa maggiore e premessa minore) non sono date; l’applicazione del diritto non può essere deduzione, poiché il sistema normativo è nel pensiero degli uomini che lo vivono; pensato da uomini del passato, va ripensato nel presente per risolvere casi della vita, talvolta nemmeno concepibili in precedenza (es. maternità surrogata): il diritto è fenomeno dinamico. Il processo giurisdizionale è la tecnica istituzionale per ripensare la regola in modo da risolvere pacificamente la controversia; il processo crea il fenomeno giuridico. È l’istituzione del processo che costringe le parti ad argomentare, a partire dall’esperienza passata (la norma), la soluzione del nuovo caso, che il giudice definisce nella sentenza, così disponendo dell’impiego della forza. La forza che risolve il conflitto è comandata dal ragionamento (contraddittorio, argomentazione), anziché dall’arbitrio; il ripensamento della norma segue la logica dell’argomentazione, non soltanto della deduzione. La forza che risolve il conflitto è comandata dal ragionamento a condizione che la corte che decide sia indipendente nel valutare le ragioni delle parti. Perciò è più appropriato definire il diritto: Il sistema normativo sviluppato dal processo giurisdizionale; analiticamente: “Il diritto è quel sistema concettuale argomentativo che si sviluppa con finalità normativa quando le istituzioni della società, per la soluzione dei conflitti tra consociati, predispongono un’autorità indipendente, presso la quale l’interesse della parte è fornito di azione sulla base di una norma che è sì postulata preesistente, ma che soltanto mediante processo contraddittorio si potrà stabilire applicabile al caso della vita”. Peraltro la finzione della deduzione nel dispiegamento del ragionamento non è inutile. La finzione dà al dispositivo logico il postulato che costringe ad argomentare la formulazione della fattispecie astratta come se fosse effettivamente diritto preesistente. Il postulato che vuole preesistente il diritto costringe i consociati, nell’argomentare la norma del caso concreto, ad orientare il pensiero verso una decisione comune, che possa essere giustificata nell’esperienza passata, secondo i canoni dell’interpretazione, così ordinando i loro comportamenti nella continuità del discorso giuridico. Ma la corte, nell’argomentare come preesistente la norma trovata per risolvere il conflitto, nei fatti crea nuovo diritto; lo crea secondo un procedimento mentale che seleziona i fatti facilmente riconducibili all’esperienza già vissuta, dai fatti che, per essere decisi, impegnano all’evoluzione del diritto. A sua volta l’argomentazione sviluppata sul postulato della preesistenza della norma dà alla decisione la forza del diritto posto, nel quale viene mentalmente inserita; precedente per l’elaborazione del diritto giurisprudenziale: la sentenza sviluppa il sistema concettuale con finalità normativa. L’argomentazione giuridica non è indirizzata a convincere l’altra parte, quanto a convincere l’autorità che dispone della forza fisica della società. Questa funzione dell’argomentare giuridico lo rende peculiare rispetto ad altre funzioni dell’argomentazione. L’argomentazione che si risolve nel decidere un comportamento meramente etico, ad es. la discussione in famiglia sulla scelta della scuola per il piccolo ormai in età da elementare, tende ad ottenere l’adesione dell’altra parte, comunque a raggiungere l’accordo, ed in questa funzione si esaurisce: il comportamento sarà conseguente alla decisione assunta. La qualità dell’argomentazione si rivelerà nella capacità di ottenere l’adesione; la mia argomentazione trova resistenza nella forza intellettuale dell’altra parte ad argomentare; l’eventuale inadempimento si risolve in un giudizio di immoralità, senza potere costrittivo. Invece l’effetto della sentenza è l’impiego dell’autorità nei riguardi della controparte; mi interessa convincere il giudice delle mie ragioni per ottenere il provvedimento a me favorevole. La differenza è importante. La parte nel processo giurisdizionale tende comunque ad ottenere la sentenza favorevole; impiegherà la forza degli argomenti soltanto se vi sarà costretta dalle istituzioni: ecco l’importanza dei vincoli istituzionali per la qualità dell’argomentazione giuridica. Le istituzioni sono organizzate in modo da costringere le parti ad argomentare le difese secondo le ragioni più idonee a perseguire la convinta adesione del giudice, tenuto a seguire nella formazione del suo pensiero la logica della sentenza. L’indipendenza della corte, la qualità professionale del giudice, i gradi del processo, le regole del contraddittorio, l’iniziativa di parte, il limite del giudicato al caso in questione, la pubblicità, il vincolo di motivazione ecc., sono i principi istituzionali che costringono alla razionalità giuridica: dalla loro qualità tecnica dipende la qualità del processo, quindi la qualità dell’ordine giuridico. Con la tecnica del processo giurisdizionale l’impiego della forza è reso razionale; è reso dipendente dall’autorità della sentenza, che ha deciso sulla base della norma, che nel corso del processo è stata argomentata oggettiva. Pur nella ricchezza e varietà dell’esperienza, è possibile prevedere il possibile esito dell’argomentazione, sì da selezionare i gradi di incertezza, sino ad isolare i casi il cui esito è davvero lasciato alla buona sorte delle stelle. Ciascuno è in grado di dire quale è la regola da seguire; può prevedere l’esito dell’eventuale processo secondo ragioni che lo rendono razionalmente prevedibile. Con la tecnica del processo il diritto: impedisce l’arbitrio dell’autorità; rende razionale l’impiego della forza; relega ai margini gli strumenti di seduzione nella assunzione della decisione dell’autorità, stimolandone la decisione mediante argomenti di ragione, riducendo per quanto possibile la forza della seduzione. Per questo si dice che il diritto è un ordine razionale. L’autorità della sentenza, che gestisce la forza fisica che le istituzioni si sono riservate, è razionale; la creazione del diritto giurisprudenziale è razionale. L’eventualità del processo è il riferimento per ogni operazione giuridica; determina l’interpretazione del diritto nella definizione della norma che ciascun pensa per regolare il proprio comportamento. Quando vedo il rosso del semaforo mi regolo di conseguenza, cosciente del rischio del processo. L’imprenditore chiede al consulente entro quali limiti e a quali condizioni lo scarico in acque pubbliche non viola le discipline a protezione dell’ambiente, ed il consulente nello stendere il parere verifica il caso con il diritto che presumibilmente applicherà il giudice nel caso di conflitto. Quando il cliente chiede all’avvocato di quali protezioni dispone contro la costruzione del vicino che gli impedisce la vista sul mare di cui godeva, il consiglio dell’avvocato è orientato sul presumibile esito del processo. Quando la dottrina ricostruisce il diritto pensa alla verifica processuale; l’insegnante abitua gli studenti al confronto processuale degli istituti mediante le esercitazioni pratiche di confronto con la giurisprudenza. Soltanto la norma di diritto è assistita dell’autorità dello Stato: la norma priva di azione giurisdizionale è giuridicamente inerte, affidata alla morale, non è diritto. Se per villania non vengo alla cena dopo avere accettato l’invito non potrò essere citato per inadempimento, e costretto a risarcire il costo della mancata cerimonia, a meno che non avessi concluso un contratto, ad es. con un ristorante per ospitare gli autorevoli relatori del convegno. L’esperienza storica ci dice che l’istituzione della corte per determinata materia crea il fenomeno giuridico anche in assenza di codici, leggi o fonti formali di produzione di norme; mentre non si verifica il fenomeno inverso: le norme dello Statuto albertino, le norme internazionali sfornite della protezione della corte, hanno debole portata giuridica. 10.- Le fonti del diritto: della norma per regolare il caso della vita.- Il giudice decide applicando al fatto dedotto dalle parti (fattispecie concreta) la norma dedotta dal diritto (fattispecie astratta); è il postulato: la sentenza deve argomentare la norma delineata nella fattispecie astratta in modo da convincere che il suo contenuto è proprio quello che troviamo nel diritto posto. Perciò le parti nel processo argomentano la formulazione della norma come dedotta dal diritto. La norma può essere di immediata evidenza; ma può essere difficile da argomentare, per le novità del caso o per il disordine delle fonti. La situazione è profondamente diversa secondo che la fonte della fattispecie astratta sia nella tradizione, come prevalentemente accadeva nell’Antico Regime, oppure sia nella legge, come prevalentemente accade oggi. 10.1.- Il diritto giurisprudenziale della tradizione dello Stato premoderno.- In passato la morale alimentava il diritto: secondo la tradizione cristiana la religione impregnava la morale, indirizzando il diritto; vi era continuità di esperienza tra la morale ed il diritto; il concetto di diritto comprendeva la valutazione di giusto; la distinzione concettuale che oggi conosciamo era offuscata. Come la morale, il diritto è un dato che l’interprete ritrovava nello spirito della società secondo criteri di giustizia provenienti da Dio e dalla natura, creatura della divinità; criteri di giustizia che si potevano ritrovare nella retta volontà del popolo, consolidata nelle consuetudini. La società non creava il suo diritto per atto cosciente di volontà, ma lo ritrovava attraverso l’opera degli interpreti. Le autorità stesse erano assoggettate al diritto divino, di natura e alle consuetudini; la sovranità del re non stava nel fare il diritto, ma era nel dire il diritto, come sommo interprete: i simboli sovrani erano la bilancia (giustizia) e la spada (forza). L’atto dell’autorità, il c.d. diritto posto, doveva rispondere al giusto morale e religioso, come atto che interpreta il diritto divino e di natura: il diritto posto s’immedesimava al diritto giusto. Ci si chiedeva sino a che punto i soggetti restavano vincolati da decisioni ingiuste del sovrano. Le evoluzioni che storicamente cogliamo nelle concezioni religiose e morali del giusto erano lente, non coscienti, adattamenti dei precedenti, espressione di valori perenni. Perciò tra gli strumenti di interpretazione per ricavare dal diritto la norma del caso aveva fondamentale importanza la ricerca della fonte: la consuetudine, i precedenti, la ragione delle cose, il diritto naturale; il diritto romano; le tradizioni, l’etica, la religione, lo spirito di giustizia. Anche la ricerca delle fonti di produzione scritte, comunque di minore consistenza rispetto al diritto di fonte informale, poteva richiedere attenta cura per la difficoltà di documentazione nel sovrapporsi disordinato degli atti normativi, spesso occasionali e contingenti. In questo modo la costruzione della fattispecie astratta, sottratta all’arbitrio dell’autorità contingente, veniva argomentata su quei valori morali sui quali si riteneva poggiasse la forza dello stesso diritto romano. La vicenda del diritto inglese ci racconta questa esperienza, nella sua continuità storica e per la qualità della funzione giurisdizionale. Non è da pensare che il disordine, specie nella tradizione dell’Europa continentale, non fosse nei fatti fonte di abusi; la ricostruzione sopra ripresa era utopia a fronte di una ben diversa realtà, specie sul finire dell’Antico Regime: è proprio il diffondersi della corruzione processuale che aveva esasperato, stimolando le codificazioni. 10.2.- Il monopolio della legge nello Stato moderno.- Oggi le fonti di produzione del diritto sono formalmente elencate, secondo procedure definite, pubblicate come atti tipici dello Stato, che ha assunto la sovranità del legislatore, esercitata, nella costituzione democratica, prioritariamente dal parlamento. Per l’interprete è un dogma che il diritto si esaurisce nella legge, dalla quale dedurre la norma del caso concreto. È conseguenza dell’evoluzione delle società che hanno perduto la convinzione che il diritto sia nella coscienza degli uomini come prodotto divino o della natura. L’uomo è capace di decidere il suo destino, e così di decidere il diritto che ne ordina la convivenza. Nei paesi di civil law la trasformazione del diritto in atto di volontà del legislatore è formalmente rilevata con le codificazioni. Ma la trasformazione si è imposta anche nelle tradizioni di common law, dove lo stesso Parlamento era inteso come interprete del diritto. Nella common law il diritto era inteso come proveniente dal popolo nella tradizione, di cui le corti sono depositarie e interpreti, tale da imporsi anche alle autorità contingenti, anche al Parlamento, almeno sino a quando la legittimazione popolare della sua autorità non ha prevalso sulla common law. Per vero il diritto dipende dalla legge, ma non ne resta assorbito: non si immedesima con il testo, sul quale si sviluppa l’interpretazione; l’arte di combinare la lettera con l’intenzione, per ricavarne la norma, cioè il pensiero del legislatore, che è appunto quel volere che la scrittura comunica. Innanzitutto la legge è formulata nell’esperienza passata per regolare il futuro, sicché la novità del caso è ineliminabile esperienza del fenomeno giuridico: per il codice la testimonianza del parto dà per certa la madre; sopravvenute le tecniche della fecondazione assistita, è accaduto che la madre portante non era la madre genetica, sì che le corti hanno dovuto risolvere i casi creando il diritto, sino a quando le legislazioni non sono state aggiornate. Comunque il diritto non si può immedesimare nella legge, poiché questa è il documento che trasmette il pensiero del legislatore, mentre il diritto è pensiero concepito nella mente di ciascuno, per la formulazione del quale non è affatto sufficiente leggere il testo della legge. Sappiamo quanto è operazione complessa sia la formulazione del testo, per trasmettere il pensiero del legislatore, sia la sua interpretazione, per riprodurre nelle menti dei destinatari del comando il pensiero del legislatore. La legge documenta il pensiero del legislatore attraverso la formulazione di proposizioni scritte; le idee sono formulate non soltanto con l’astrazione che caratterizza il linguaggio; ma con l’astrazione richiesta dalla natura normativa del proposito: generalità e astrattezza. Perciò anche immaginando la perfezione nella traduzione linguistica del pensiero del legislatore, resta necessaria l’interpretazione per cogliere dal testo le condizioni per la sua applicazione al caso concreto della vita. Ma non solo è raramente raggiunta la perfezione nella redazione del testo; la legge si combina con la legislazione vigente in un corpo che difficilmente è coerente, per le contraddizioni che conseguono se non altro per i diversi tempi di entrata in vigore dei testi, sì da costringere a quella ricostruzione sistematica, che necessariamente conduce alla creazione della norma. A sua volta il legislatore è un’astrazione, dal momento che non possiamo ricondurre ad una realtà fisica il pensiero del parlamento, che decide secondo un procedimento che rende necessariamente impersonale la decisione: la ratio legis è un’astrazione. Non è poi corretto dire che il legislatore può fare tutto. Il legislatore deve conoscere la realtà sulla quale opera, che è ribelle ad interventi incoerenti o che ne ignorano la configurazione; è condizionato dalla società, dalla sua storia, dalla storia del diritto e delle istituzioni, dalla distribuzione dei poteri e dalla loro organizzazione; è condizionato dai costi che si devono sopportare per mettere in atto gli interventi, evenienze che se non ben sistemate in sede di redazione dei testi, ricadono come condizioni della loro interpretazione. Anche nel regime dello Stato moderno di monopolio della legge la presenza della corte resta il criterio del diritto. Ciò nondimeno la sovranità della legge si è imposta sulla pluralità e sul conservatorismo delle fonti dell’Antico Regime, trasformando l’esperienza giuridica: l’argomentazione giuridica ha nella legge il dogma sul quale articolare la deduzione della norma per risolvere il caso della vita; la sovranità ha lo strumento per indirizzare e modificare il diritto. La trasformazione è stata fondamentale: il diritto ha perso la caratteristica di un pensiero incorporato nella coscienza collettiva per divenire un dato disposto dalla volontà del legislatore. La trasformazione nella ricognizione delle fonti è il riflesso della trasformazione nel concepire il diritto. Con il tempo l’uomo, le società, prendono coscienza che il destino è anche dipendente dalla loro volontà di gestire ed organizzare l’attività e le istituzioni. La coscienza del popolo ha ora nel legislatore la sua espressione; nelle democrazie liberali la volontà del parlamento è la volontà del popolo che si esprime nel ripetersi del procedimento elettorale, nelle garanzie del suo corretto svolgimento nella imparzialità delle istituzioni nel dibattito politico, nel diritto della minoranza di divenire maggioranza; e poi in parlamento nelle procedure di discussione ed approvazione delle leggi. I nuovi tempi rivelano che le diversità nei comportamenti non sono soltanto diversità d’interpretazione del giusto posto come verità, bensì diversità di concezione del giusto, che sottintendono diversità di interessi e di valori. Secondo le concezioni liberali, l’uomo ha il diritto di avere propri interessi e di esprimere nella decisione la volontà individuale; ha il diritto alla diversità e al rispetto delle differenze. Nel pluralismo le regole morali ed etiche rispecchiano valori individuali che vanno protetti nelle loro diversità. Ma la convivenza può esigere regole comuni alla collettività, imponendo comuni valori ed interessi: il diritto assume la forma di un corpo che impone alla comunità la propria etica, distinto dalle religioni, dalle morale e dalle etiche che interessano materie che il diritto non ha assunto o non ha inteso assumere per rispettare la libertà di coscienza individuale. L’imposizione con la forza della società delle soluzioni comuni può essere la conseguenza del metodo democratico e dell’autocrazia: solo il metodo democratico dà con il diritto la convivenza giusta. Il diritto può conservare il valore dell’impiego razionale della forza per ordinare la società se la razionalità come tecnica di consensuale convivenza si estende al procedimento di formazione della legge: l’argomentazione della norma, che nel processo giurisdizionale dà la razionalità nell’impiego della forza per soddisfare il valore della tolleranza nella convivenza, si estende alla procedura legislativa: sono libero se sono soggetto a quelle decisioni alla cui formulazione ho partecipato. La definizione che voglia tenere conto dell’espansione del diritto nelle società liberali a regolare, nel fondamento e nell’esercizio, la stessa sovranità, deve essere in grado di comprendere le procedure democratiche. La separazione dei poteri fondamentali dello Stato è la tecnica del diritto: l’esecutivo, il potere titolare della forza militare, è assoggettato al diritto, elaborato in via generale ed astratta dal potere legislativo del Parlamento ed applicato ai casi della vita dal potere giudiziario delle corti. Come sappiamo la tecnica della separazione dei poteri si sviluppa nell’organizzazione delle autorità pubbliche nel bilanciamento delle competenze: ogni potere risponde ad altro potere in condizioni dialettiche che consentano al pubblico di disporre dei dati per esprimere il giudizio sulla funzionalità democratica delle istituzioni. Abbiamo dunque la seguente definizione: “Il diritto è la tecnica che assoggetta l’impiego della forza dello Stato alla razionalità dell’argomentazione nella legge e nella sentenza”. 11.- Le società senza l’ordine giuridico.- Se per diritto intendiamo l’ordinamento che, attraverso le tecniche del processo giurisdizionale, ha nella tolleranza il principio di governo, non tutte le società conoscono il diritto, o comunque lo conoscono nell’espansione che ha nelle società liberali delle moderne democrazie. Ci racconta l’antico poeta che nel loro paese i ciclopi sono athémistes; da loro non vi sono né assemblee né deliberazioni, né thémistes; ciascuno detta la sua legge (thémisteuei) alle sue donne e ai suoi figli e nessuno si interessa degli altri (Odissea, IX 106-115). Una società può ricevere ordine anche dall’impiego arbitrario della forza, cioè dall’esercizio dell’autorità senza le garanzie del giusto processo: l’esperienza ci dice essere accadimento assai frequente, da rendere eccezione le società rette dal diritto. Per tradizione, per precisione linguistica, è opportuno riservare la parola diritto alle relazioni sociali regolate dal processo. L’ordine che pur si crea nei fatti senza l’autorità del processo è così diverso da richiedere una differente denominazione, per evitare confusioni. È evidente che l’impiego arbitrario della forza di ciascuno contro l’altro non consente di ordinare la vita sociale; come difficilmente ordina i consociati la regola della ragione del più forte. Ma anche l’impiego della forza da parte di un’istituzione sociale senza le garanzie del processo, se è in grado di ordinare la vita, e di ordinarla anche razionalmente, non la ordina secondo diritto. Il dittatore può rispettare le consuetudini nella vita sociale e così dare una parvenza di ordine giuridico, che può sempre ritrattare secondo convenienza o capriccio. Ogni società è ordinata con la forza; ma non ogni società è ordinata dal diritto; se manca la tecnica del processo non c’è il diritto a regolare la forza che ordina la società. Renzo, Lucia, don Rodrigo, il conte zio è una storia di comunità senza diritto. Il diritto, come tecnica di ordinamento della società, si è storicamente imposto nella nostra civiltà, da prima limitatamente ai rapporti che oggi indichiamo nei privati, estendendosi man mano per coprire non soltanto i rapporti con l’autorità; ma, nello Stato di diritto, sino a comprendere la stessa formulazione della legge nella procedura democratica dello Stato liberale, quando la legge diviene criterio primario dell’argomentazione processuale. Nella esperienza che risale all’antica Roma il fenomeno giuridico è andato estendendosi dai rapporti che oggi indichiamo come privati sino a coinvolgere il complesso ordinamento sociale. Per lungo tempo l’amministrazione criminale era sottratta alla regola del processo secondo diritto. Soltanto in tempi moderni l’esercizio amministrativo dello Stato è stato sottoposto a controllo giudiziario su iniziativa del suddito leso, sì da divenire quello che oggi indichiamo come diritto amministrativo: la seria crisi dei processi, civile e criminale, nell’Antico Regime dell’Europa continentale aveva reso evanescente il diritto. È assai recente la sottoposizione al processo costituzionale del potere politico del legislatore, sì da trasformare il c.d. diritto politico (ancora così denominato alla fine del XIX sec.) in diritto costituzionale. Anche il potere dello Stato viene assoggettato alla regola del diritto, cioè al processo. Ma l’evoluzione non è lineare e continua. Tutt’oggi la lotta per il diritto arranca, e trova ostacoli e ricadute. Le relazioni tra Stati sono soltanto parzialmente, per lo più quelle di natura economica, soggette al processo giurisdizionale: oggi lo vediamo nell’Organizzazione per il commercio internazionale. La Comunità europea è divenuta uno spazio man mano assoggettato al diritto. Comunque la tendenza è per l’espansione del diritto nell’ordinamento della società. Questi rilievi aiutano anche a meglio cogliere l’equivoco in cui cade la discussione quando ci si domanda, senza distinguere, se il nazista è diritto: probabilmente i rapporti privati erano regolati dal diritto; peraltro la ragione di Stato conosceva una tale espansione da ridurre assai la regola del diritto, dando l’impressione che per ogni aspetto la società fosse sottratta al diritto. Non è dunque corretta la constatazione secondo la quale dove vi è società vi è il diritto. Il fenomeno giuridico si manifesta soltanto in quelle società che istituiscono il processo giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, e relativamente a quelle relazioni sociali per le quali è ammessa l’azione giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, di solito i rapporti privati. Il regime della Spagna franchista conosceva un efficiente sistema processuale per i rapporti privati, mentre le relazioni con lo Stato erano frequentemente atti politici. Peraltro la piena espansione del diritto richiede che anche la legge sia il risultato del procedimento democratico fondato sulla tolleranza. Dove vige la legge del dittatore anche la sentenza si può rivelare precaria; dove nella legge penetra la ragione di stato, nel momento opportuno questa stessa si può imporre nel processo, impedendone il corso fisiologico di procedimento di determinazione del diritto: la sentenza può degradare in farsa. L’avvocato che in regime nazista, o fascista, ha dato un parere positivo sulla base del codice civile al cliente in relazione ad una possibile lite tra condomini, resta senza parole, e sconsiglia la causa, appena viene a conosce il nome dell’altra parte, importante esponente della gerarchia del partito dominante. Vicende della Russia recente ci indicano quanto frequente sia la ragione politica ad inquinare il processo. Soltanto la tecnica del processo giurisdizionale e poi delle procedure democratiche consente di controllare la Ragione di Stato. Il fondamento della tecnica è nella fiducia sulla razionalità degli uomini a ricercare nel dialogo lo strumento per convincere sulle soluzioni da imporre come comuni. È questa idea di giusto che la nostra tradizione ha incorporato nel diritto: la troviamo innanzitutto nel processo; e poi la ritroviamo nella procedura della legge democratica, secondo la configurazione dello Stato di diritto che si è consolidata nel moderno Stato democratico. Perciò il diritto si rivela la tecnica che ordina l’autorità della società sulla base del principio di tolleranza. Avviato il discorso sulle tecniche si è condotti alla filosofia del giusto. Il processo giurisdizionale risponde alla filosofia della tolleranza, la quale poi ha impostato la procedura legislativa: il giusto va trovato nel dialogo, del processo e delle procedure democratiche. Nelle tecniche stanno le filosofie, ed è solo metodo distinguere l’analisi. III L’etica del diritto è nella qualità delle sue tecniche 12.- Nei fatti istituzionali l’idea non è separabile dalla sua tecnica realizzazione; così è per il diritto: l’etica è nelle sue tecniche.- Nei fatti istituzionali, cioè nelle istituzioni create dall’uomo, l’idea non è separabile dalla tecnica per la sua realizzazione. L’idea del Grande Dizionario della lingua italiana, del Battaglia, non è separabile dalla tecnica sua realizzazione; come separare l’idea di Rabelais dal suo Pantagruel? Quando nell’esperienza il pensiero teorico ed il procedere dei fenomeni si separano: la pratica sfugge al controllo della teoria, sicché sviluppa inconsciamente la sua esperienza; la teoria si orienta all’astratto ideologismo, incapace di imporsi razionalmente nell’esperienza. Chi ragiona soltanto sulle idee può costruire affascinanti teorie, ma destinate a restare costruzioni mentali artificiose; ovvero capaci anche di influenzare l’esperienza, ma per la suggestione che diffonde la loro seduzione, non per la ragionata ricezione nel pensiero dei destinatari, che possono ritrovarsi a soffrire l’imposizione di organizzazioni contrarie ai loro interessi. Chi ragiona sulle idee deve costantemente cogliere il senso della loro tecnica; chi opera da tecnico deve sapere perché esiste quella tecnica, a quali idee è informata, di quali idee è funzione. Scienza e tecnica, teoria e pratica, sono articolazioni di uno stesso fenomeno, che distinguiamo come metodo dell’intelletto per pensare, per capire e orientare i comportamenti: per prendere coscienza delle istituzioni che si sono create nell’esperienza; per concepire, creare o modificare l’istituzione. Sono articolazioni che distinguiamo anche come metodo per organizzare l’efficienza dell’istituzione nella suddivisione dei compiti: è difficile che la stessa persona sia in grado di padroneggiare teoria e tecnica, sicché si impone la distinzione e il coordinamento di diverse professionalità nello sviluppo della cultura collettiva. Così, per il diritto, l’idea etica è nelle sue tecniche. L’idea è l’impiego della forza per ordinare la società secondo il consenso razionale dei suoi componenti; le tecniche devono consentire di ragionare le decisioni, nelle materie comuni e nelle relazioni sociali, per la formazione del pensiero collettivo ed individuale. È evidente che il pensiero non riuscirà mai a rappresentarsi il progetto secondo la tecnica richiesta per la sua traduzione in esperienza: il modello è una semplificazione rispetto agli accadimenti. Ma, trattandosi di fenomeni creati dall’uomo e dall’uomo regolati, il modello è come la grammatica per la lingua; ci dà i principi logici dello svolgimento, ci indica le regole per individuare gli errori, è criterio per verificare la sua rispondenza all’esperienza in corso; per stabilire se l’esperienza si sta allontanando dal modello o per delineare un nuovo modello. 13.- Quale grado di eticità rileviamo nel diritto italiano? Spunti di riflessione.- La Costituzione italiana aderisce al modello democratico: separazione e bilanciamento dei poteri nell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dunque la qualità del diritto, nei rapporti privati e con l’amministrazione, dipende dalla qualità della legge e del processo giurisdizionale: la sentenza è giusta, la legge è giusta, se sono giuste le procedure. Ecco il punto da sottolineare, il procedimento legislativo e così il procedimento giurisdizionale devono essere efficaci affinché il diritto esista secondo la qualità richiesta per regolare la società, appunto secondo diritto. L’insufficienza delle tecniche può tradire la proclamata democraticità delle istituzioni; può tradire lo Stato in principio proclamato di diritto. Negli ultimi decenni è aggravato il distacco dell’esperienza dalla Costituzione, riducendo il consenso popolare nelle principali istituzioni: legislazione giurisdizione e governo. Il contenuto etico del diritto va svaporando nella formulazione di decisioni sempre meno assunte razionalmente. a) La funzione legislativa.- La legge stabilisce e indirizza, con generalità ed astrattezza, l’evoluzione del diritto come sistema organico adeguato alla pratica. La sua qualità dipende dalla idoneità del procedimento legislativo a consentire all’opinione pubblica, attraverso le discussioni parlamentari, di maturarne il contenuto politico. Perciò la redazione dei testi richiede precisa e chiara evidenza delle scelte politiche, adeguatezza nella composizione del pensiero e nella espressione linguistica. Anche le leggi meno complesse devono essere storicamente spiegate, e motivate nel contesto cui sono destinate ad operare; figuriamoci la legislazione di vasti sistemi da racchiudere in codici, quali famiglia, società, fallimento. L’improvvisazione fa perdere il controllo del diritto, rende difficile la comprensione dell’intervento agli stessi parlamentari, ed impedisce all’opinione pubblica la maturazione politica dei contenuti, accrescendo i rischi di deviazioni verso soluzioni contingenti di privilegio. Intesa nei paesi di common law come intervento sul corpo del diritto tradizionale, ci spieghiamo la maggiore cura nella funzione legislativa: gli studi più importanti sulla formazione delle leggi ci vengono proprio dai paesi di common law, ad iniziare da Bentham. Nei paesi di diritto codificato la legge è stata intesa piuttosto come atto di volontà libera dalle tradizioni e dal sistema del diritto, la cui espressione non richiede spiegazioni; ma non per questo nei paesi a noi vicini è trascurato il procedimento legislativo. Noi invece soffriamo di un procedimento degradato per vizi inerenti alla sua organizzazione e al suo svolgimento. L’eccessivo numero di parlamentari ne diluisce l’impegno e la responsabilità politica; il recente sistema elettorale fa del parlamentare un anonimo per il suo elettore. Mancano istituti che garantiscano quella qualità tecnica del disegno di legge che permette lo sviluppo della discussione pubblica sul senso politico delle scelte. Nel fraintendimento che la redazione del disegno di legge è politica anche nell’impiego delle parole, della grammatica e nella formulazione del discorso, il Governo ed il Parlamento non hanno uffici indipendenti deputati istituzionalmente a dare parere pubblico sulla comprensibilità dei testi, sul loro coordinamento e sistemazione con il diritto vigente, sul senso delle scelte politiche nel confronto con le istituzioni tradizionali: sulla stessa idoneità dei testi a divenire diritto. Accade talvolta che l’approvazione del disegno in Consiglio dei ministri non sia ancora nella versione definitiva. Ormai le relazioni ai disegni di legge sono praticamente inutili: limitiamoci a confrontare la relazione al codice civile del 1942 o la relazione al disegno di riforma delle società del 1968, con le relazioni che hanno accompagnato di recente le riforme delle società e del fallimento. Le leggi di delega sono piuttosto un elenco di propositi, che la precisa formulazione dell’intervento: confrontiamo la delega per la riforma tributaria del 1971, con le recenti deleghe tributarie. La formulazione di emendamenti in sede di approvazione delle leggi non costringe al deposito del testo con congruo anticipo, accompagnato da relazione esplicativa, soggetta al parere di organo tecnico che possa spiegarne il contenuto, la portata e la congruità nella sede. È divenuta quasi prassi attendere le ultime letture della finanziaria annuale per inserirvi emendamenti della più diversa natura, in modo da agevolarne l’approvazione, stante il rischio che con l’emendamento cada l’intera legge finanziaria: in questo modo agli stessi parlamentari riesce incomprensibile il senso delle proposte, che soltanto il ristretto numero degli interessati possono valutare. La regolamentazione secondaria è ormai sovrabbondante, di competenza non soltanto governativa e ministeriale, ma anche delle sempre più numerose autorità indipendenti; ed è regolamentazione non meramente esecutiva della legge; le autorità sono abilitate per materia, praticamente senza vincoli di legge, per l’assenza di principi direttivi. È una regolamentazione della massima importanza, che trasforma in fonte amministrativa la disciplina dell’autonomia privata, nonostante la riserva relativa di legge: per il codice civile le parti sono liberi di concludere il contratto, nei limiti delle leggi, sicché è la legge che dovrebbe predeterminare specificamente il limite concretamente introdotto dal regolamento amministrativo; per di più è un potere che le autorità esercitano senza divisione delle competenze: normativa, giudiziale, esecutiva. Anche la forma delle circolari può non raramente assumere effettiva forza di legge. La coscienza di questa problematica è così diffusa che mi affido all’esperienza e all’intelligenza dei miei interlocutori per cogliere immediatamente come invece in altri Paesi si cerchi di dare regola per controllare il sistema delle fonti ed arginare il fenomeno a difesa del potere legislativo, cioè della sovranità popolare; anche per il principio di imparzialità del diritto. Inutile dire che questo disordine genera privilegi, distorsioni, ipocrisie: quante norme transitorie sono servite a sistemare casi specifici, non dichiarati? Quante leggi abbiamo che predicano una cosa che nel contempo contraddicono nel dispositivo? b) La giurisdizione.- Per l’esistenza del diritto non è sufficiente la formale istituzione del processo. Nel processo civile le parti, assistite dagli avvocati, si attendono che la sentenza risolvi il conflitto secondo la convinzione che il giudice si è fatto in seguito alla piena cognizione dei fatti e del diritto, nel contraddittorio. Come dobbiamo intendere la qualità della sentenza? Ricostruiamo la situazione nelle condizioni di funzionalità. Se il caso viene portato al giudizio della corte è perché le questioni di fatto e di diritto del conflitto non sono risolubili secondo la prassi, la giurisprudenza e la dottrina consolidata: sono in definitiva questioni nuove; se così non fosse sarà la stessa corte che rapidamente darà la sentenza con motivazione tale da rendere inutile, ed ingiustificato (ad es. ai fini delle spese) l’appello. La particolarità dei fatti e le novità delle questioni in diritto devono trovare una corte in grado di approfondire, con il contraddittorio scritto ed orale, la cognizione della causa, al punto da rendere possibile al giudice di cogliere le sottigliezze della lite: nel conflitto su questioni nuove le apparenze possono ingannare e sfociare in conclusioni superficiali. È evidente che questa cognizione da parte del giudice richiede quella dedizione al caso che può occupare, per i conflitti più elementari, almeno una giornata; ma indubbiamente serve spesso qualche giorno, discutendo ed approfondendo con collaboratori, che appunto aiutino a cogliere, al di là delle apparenze, le particolarità e le sottigliezze. L’avvocato coscienzioso per studiare la causa del cliente ha bisogno di giornate di lavoro con i collaboratori; il bisogno non è diverso per il giudice. Salvo incidenti, l’approfondimento richiede la concentrazione in poche udienze ravvicinate. Quando l’avvocato deve riprendere dopo anni la causa, ad es. in Cassazione, è costretto ad iniziare nuovamente il lavoro, disperdendo le fatiche già affrontate. Soltanto a queste condizioni lo svolgimento della causa permette al giudicante quella profondità di cognizione da consentire di motivare la sentenza con la qualità che rende inutile l’appello, o che comunque concentra l’impugnazione su questioni non pretestuose, facilitando il compito del secondo giudice: la qualità del primo giudizio ridurrà i casi di impugnazione a quelli davvero utili, facilitando alla corte l’individuazione dei casi inutili o pretestuosi, per i quali è sufficiente una rapida cognizione ed una stringata motivazione. Compito primario della Cassazione è assicurare l’uniformità nella interpretazione del diritto, per raggiungere l’attendibile certezza delle norme; se il compito è ben assolto il numero dei ricorsi si riduce. Non è necessario richiamarsi ad esperienze straniere; anche da noi in passato riscontriamo un analogo andamento del processo, che oggi ritroviamo nella Corte costituzionale, e talvolta nel processo ordinario, quando il caso è sotto l’attenzione dell’opinione pubblica o quando il giudice si appropria della causa, dominando gli stessi avvocati. In definitiva la qualità del processo e della sentenza riduce il contenzioso importante, e relega ai giudici inferiori (di pace) le questioni minori che sviluppa la società nella quotidianità. Non è l’italiano che per razza è litigioso; sono le condizioni del processo che generano inutile conflittualità. Ahimè! Il nostro giudice è solitario, assimila il caso senza l’ausilio di collaboratori; la distanza delle udienze, il numero delle cause della mattinata, l’affollamento degli avvocati, la massa delle carte, trascina la causa nel formalismo del rito, convogliando la vicenda alle conclusioni discusse oralmente su brevi note di sintesi: la lunga traversia del corso passato è sostanzialmente perdita di tempo. In queste condizioni la bravura della difesa è nell’efficacia degli argomenti d’effetto; argomenti sottili e ricercati non trovano il tempo e le condizioni per essere dovutamente compresi, e possono passare per elucubrazioni. Nella dialettica processuale vince la seduzione sull’argomentazione; si apre lo spazio per le furbizie processuali. Seguiamo il corso del processo; per darsi ragione della delineata configurazione è sufficiente rilevare l’uso delle difese di stendere personalmente il verbale delle udienze che si ripetono nel rinvio, senza la partecipazione della corte, la cui presenza è formale; non raramente le perizie divengono un modo per servirsi di ausiliari nell’approfondire la causa; la causa può durare in primo grado qualche anno, con il ripetersi di udienze distanziate di mesi, il cui susseguirsi dipende più che dalle necessità della cognizione, dal ritmo delle formali scadenze del rito; quando giungiamo alla conclusione troviamo una persona che forse si è fatta una generica idea della vicenda, che difficilmente ha avuto modo e tempo di scendere alla piena cognizione, che ha comunque acquisito dagli scritti accompagnati talvolta da scambi di parole nelle udienze più significative; è evidente che la discussione dell’ultima udienza, quando si svolge, può essere la determinante, ma in questo contesto emergono gli argomenti ad effetto; argomenti troppo sofisticati richiederebbero di nuovo tempo e quello studio che è mancato. Nel processo domina la casualità; la giustizia si rivela piuttosto in soluzioni di equità legate al caso che in decisioni in diritto, inquinato dall’incertezza. Sono le condizioni che generano il numeroso contenzioso e le ripetute impugnazioni, nel tentare la fortuna; il conflitto si risolve per successive approssimazioni, che coinvolgono i diversi gradi, con spreco di costi; con grave danno per il Diritto. Soltanto una procedura concentrata ed orale risponde alla qualità del diritto, che non dipende dal codice di procedura ma dalla organizzazione degli uffici, avvocati ecc. c) La funzione politica.- Politica è ogni scelta di principio; chiunque quotidianamente decide la sua politica, assumendosi la responsabilità delle scelte: la famiglia, l’imprenditore, le associazioni, ogni istituzione sviluppa scelte politiche. In una società democratica i vincoli sociali si costituiscono per volontà degli individui, nel consenso: per contratto nelle relazioni private; per l’imposizione unilaterale dello Stato, legittimata dal consenso del cittadino attraverso i meccanismi democratici del contratto sociale. Perciò la netta separazione del privato dal pubblico. Il privato è libero nei limiti della legge, che configura il suo potere come diritto soggettivo; il pubblico è vincolato ai fini sociali stabiliti dalla legge, che configura il potere amministrativo come discrezionale: la legge fissa nel diritto la politica generale che il Presidente del consiglio dirige, per mantenere l’unità d’indirizzo politico e amministrativo. Il Governo è fondamentale per ottenere che la sintesi delle espressioni politiche della comunità sia ubicata in un potere d’iniziativa responsabile nei riguardi della sovranità popolare, nella nostra Costituzione attraverso la fiducia del Parlamento, la cui maggioranza è così coinvolta nella funzione governativa. Perciò la dipendenza del pubblico dalle istituzioni politiche, fondate sulla sovranità popolare; perciò la concentrazione sulle istituzioni politiche della funzione di governo. È il modello che ispira la Costituzione, compromesso dalla crisi della funzione di governo, decisamente aggravata quando, dissolto il c.d. fattore K, che nel contesto della guerra fredda praticamente congelava l’elettorato comunista, non si è saputo introdurre rapidamente un sistema elettorale in grado di costringere le ideologie politiche e le correnti d’interessi in istituzioni che si propongono all’elettorato alternative nella scelta della maggioranza, avviando un processo di legittimazione elettorale del primo ministro. Se forse questo processo si era avviato con la precedente legge elettorale, è stato compromesso dalla attuale legge. Attraverso l’iniziativa legislativa il governo è responsabile della qualità dell’ordine giuridico, del valore etico del diritto. La debolezza del Governo nella sintesi politica, affaticato a decantare nell’indipendenza decisioni di politica istituzionale, apre un vuoto che facilmente occupano interessi corporativi, tra i quali si disperdono le sedi di decisioni politiche, nella moltiplicazione incoerente. Con la debolezza della funzione di governo si dissolve la responsabilità politica nei confronti di un elettore che può solo imputare genericamente e demagogicamente alla classe politica l’insoddisfazione per l’esperienza politica che non riesce a capire e controllare. Il diritto degrada. 14.- E’ fatale l’annullamento del diritto rappresentato nel nichilismo giuridico?La realtà che viviamo nell’esperienza è ribelle al riordinamento? Al riordinamento secondo le fondamentali caratteristiche tradizionali dello Stato di diritto democratico, inserito nel mondo globale, secondo l’idea liberale. È una realtà di cui dobbiamo soltanto prendere atto, ma che ci vede passivi spettatori? Realtà che possiamo intellettualmente recepire in una teoria, ad es. nella decodificazione, dinanzi alla quale tuttavia rinunciamo all’azione, abbandonandoci nel nichilismo giuridico, come se quanto accade dipenda dalla natura casuale delle cose; simili ai fatalisti di moda negli anni ’20, spettatori delle crisi del ‘900, strumenti della demagogia nell’obiettivo di distruggere razionalmente le istituzioni liberali. Non credo al destino ineluttabile delle cose umane. Il degrado del diritto che viviamo nell’esperienza è realtà istituzionale, creata dall’uomo, politicamente orientabile e modificabile secondo la composizione delle forze politiche che indirizzano lo Stato. Accade altrove di verificare le difficoltà di gestire un mondo più complesso del passato, ma nella nostra esperienza è grave la scarsa capacità di reazione all’ipertrofia della degenerazione. Non sono sbagliate le istituzioni liberali; il loro degrado, che significa il degrado dei valori da esse impersonate, è tut’altro che irreparabile, purché si sappia lavorare su quelli che possono apparire dettagli tecnici. Invece di affidarci all’etica come alternativa ai sistemi giuridici dichiarati obsoleti, dedichiamoci con impegno alla politica per ricostruire il diritto secondo l’etica della solidarietà.