Dipartimento di Scienze giuridich
CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impre
L’etica del diritto è la tolleranza
Gustavo Visentini
con la collaborazione di Amelia Bernardo
dicembre 2008
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L’etica del diritto è la tolleranza
Poniamo i problemi; 1.- Con l’affermarsi del principio di tolleranza il diritto
si fa laico. Ma davvero l’etica esula dal discorso giuridico? I.- Come intendiamo
l’etica; 2.- Dal sentimento etico all’etica normativa; 3.- Ma cosa è l’etica?; 4.- Il pluralismo
etico è un dato dell’esperienza; 5.- Il principio di tolleranza; 5.1.- Il principio è l’espressione
del valore etico del consenso nelle relazioni sociali; 5.2.- (segue)Il principio di tolleranza fonda
la razionalità come tecnica di convivenza; 6.- La tolleranza non conduce all’irrazionalità del
nichilismo; 7.- L’intolleranza fonda l’etica dell’autorità; II.- L’autorità del diritto è
fondata sulla tolleranza; 8.- L’etica si fa diritto; 9.- Il fenomeno giuridico; 9.1- Il
diritto è fatto istituzionale; 9.2.- (segue) Il processo giurisdizionale crea il diritto; 10.- Le
fonti del diritto: della norma per regolare i casi della vita; 10.1.- Il diritto giurisprudenziale
dello Stato premoderno; 10.2.- Il monopolio della legge nello Stato moderno; 11.- Società
senza l’ordine giuridico; III.- L’etica del diritto è nella qualità delle sue
tecniche; 12.- Nei fatti istituzionali l’idea non è separabile dalla sua tecnica
realizzazione; così è per il diritto: l’etica è nelle sue tecniche; 13.- Quale grado di eticità
rileviamo nel diritto italiano? Spunti di riflessione; 14.- E’ fatale l’annullamento del diritto
nel nichilismo giuridico?
Poniamo i problemi
1.- Con l’affermarsi del principio di tolleranza il diritto si fa laico. Ma davvero
l’etica esula dal discorso giuridico?- L’esperienza storica liberale, che ha introdotto
nelle costituzioni americana e francese il principio della tolleranza, è da prima il
logoramento e poi l’obsolescenza del vecchio ordine.
Secondo il vecchio ordine di centenaria tradizione la comune religione
conformava la morale e i costumi nel dare legittimità alle istituzioni: il
fondamento morale del diritto era nella natura delle cose voluta dalla divinità;
lo scostamento del diritto positivo dal diritto naturale poneva il problema
dell’eventuale autorità religiosa chiamata a dirimere il conflitto, nel caso non si
riconoscesse direttamente al suddito il potere di ribellarsi alla regola positiva
contraria alla sua coscienza di cristiano. Con le Guerre di religione, con la
colonizzazione dell’America, con il progredire delle scienze, con lo sviluppo
della ricchezza industriale e finanziaria, con l’affermarsi degli Stati nazionali; in
definitiva con il discredito dell’Antico Regime non più adeguato al grado di
cultura, la libertà di coscienza - di religione e di pensiero - s’impone come il
principio della convivenza nelle società liberali, che divengono pluralistiche.
Nel pluralismo delle convinzioni, dei valori e degli interessi, lo Stato ed il diritto
si fanno laici: il diritto si separa dal sentimento morale; la morale cessa di essere
la fonte privilegiata del giuridico, per rivelarsi sentimento personale, nel
rispetto del pluralismo.
Non soltanto diritto e morale si separano, ma si emancipano dal
conformismo delle tradizioni, e ciascuna istituzione si radica sulla volontà
cosciente: il diritto sulla volontà del sovrano, che decide la sua legge; la morale
sulla volontà dell’individuo, che aderisce alla sua etica personale. È
nell’esperienza, prima che nella filosofia, che il diritto si impone con la sua
forza indipendentemente dal giudizio morale. Il diritto è creazione dell’uomo in
società, in grado di regolare la sua vita; il diritto non ci viene da Dio, dalla
tradizione morale e dalla conformità ai costumi tradizionali, ormai obsoleti. Il
diritto è nelle leggi che la società si dà: non è l’etica che fonda il diritto, ma
l’etica è quella imposta dalla legge che crea il diritto. Il diritto si rivela quella
tecnica che impiega la forza dello Stato per ordinare la società; la validità delle
sue regole è nella forma della legge, che ne permette il riconoscimento come
diritto positivo, immedesimandolo; la legge è atto di volontà, con cui la società
crea le sue regole; il criterio morale è un giudizio politico sul contenuto della
legge, formulato da ciascun individuo, con la sua volontà, secondo criteri che
variano nell’intimo della coscienza, perciò inidonei ad infrangere la validità
della legge.
Anche nelle moderne esperienze illiberali, assai diffuse nella storia e nel
mondo contemporaneo, l’intolleranza del dittatore non può più fare
affidamento sul conformismo per legittimare la conservazione dell’ordine
antico; anzi, è la stessa intolleranza per l’ordine liberale che si prospetta
rivoluzionaria. Lo Stato totalitario, l’autocrazia, ha bisogno della forza della
legge per imporre la sua ideologia: deve vietare il dissenso al suo progetto con
la forza della sua legge, a società che nel pensiero sono ormai divenute
definitivamente plurime.
Ma davvero l’etica esula dal discorso giuridico, che si vorrebbe
circoscrivere al diritto come tecnica di ordinamento della società, del tutto
indipendente dalla giustizia dell’ordine imposto? Davvero la legge arbitraria
dello Stato totalitario è diritto, che così si esaurirebbe nella forza del comando?
Penso che il fenomeno giuridico sia più complesso del concetto accolto nel
teorema che lo separa dalla morale.
II
Come intendiamo l’etica
2.- Dal sentimento etico all’etica normativa.- E’ nell’esperienza la presenza del
sentimento etico come criterio del giusto che ciascuno formula in coscienza
per regolare il proprio comportamento e per valutare il comportamento degli
altri e della società. Possiamo dunque riguardare l’etica come quel sentimento
che ci indirizza al giusto; che, sviluppato in ragionamento, ci consente di
affrontare le questioni che riguardano i valori, la scelta dei valori o i discorsi sui
valori: la tecnica riproduttiva del clone applicata all’uomo quali valori
coinvolge? È tecnica immorale?
Il giudizio etico può rimanere nell’intimo della coscienza di chi lo
formula, fenomeno psicologico imperscrutabile. Il giudizio può invece essere,
nel dialogo sociale, la prospettiva personale per stabilire ciò che si deve fare o
non si deve fare nelle relazioni con gli altri. L’imperativo morale che rimane
nella coscienza dell’individuo si riduce alla sincerità verso se stesso; nel non
essere ipocrita o fraudolento quando, convinto di una verità morale, lo stesso
individuo si manifesta diversamente nel comportamento; a non cadere
nell’opportunismo nel gestire la propria libertà morale: la libertà di mutare
convinzioni. Invece nella prospettiva sociale l’esperto non ha difficoltà a
riconoscere nell’etica un sistema normativo che opera, per lo più
inconsciamente, per risolvere i casi della vita, con adesione spontanea o
suscitando nell’immorale senso di colpa non soltanto verso se stesso, quanto
verso la collettività alla quale moralmente appartiene, di cui teme la reazione.
L’etica normativa assume il ruolo di ordinare la società, sì da consentire
di stabilire il suo diffuso grado di moralità. Perciò l’imperativo etico racchiuso
nel principio morale si deve tradurre in soluzioni operative, in analitiche regole
in grado di ordinare i comportamenti, la cui trasgressione possa essere rilevata
oggettivamente per la formulazione del giudizio. Come giudica la morale
cattolica la mia decisione di divorzio, che la legge dello Stato mi consente? La
risposta è nella regola della morale religiosa, che sì deriva dai principi, ma che
spesso sono di per sé insufficienti a rivestire il concreto caso della vita.
3.- Ma cosa è l’etica?- Il giudizio morale è un’operazione cognitiva di
verità etiche, per stabilire il vero o il falso; oppure è la sintesi ponderata di
valori e di interessi soggettivi per decidere il comportamento personale da
tenere nel dato contesto? La morale è fede o ragione? È ragione del bene o è
ragione dell’utile? Sentiamo l’etica con l’intuizione oppure la capiamo con il
ragionamento? È nella Ragione, che postuliamo innata nella mente come
sistema di verità assolute, che scopriamo il giusto (razionalismo); oppure è con
il ragionamento, come procedimento mentale di formazione dei concetti per
assumere decisioni, che cogliamo il nostro giusto (pragmatismo)? È con
l’argomentazione che gli interlocutori pervengono all’accordo su ciò che è
giusto fare in comune? Ovvero è un’autorità, che riconosciamo legittima
(autorità morale), oppure che si legittima con la forza (autorità militare), a
indicarci il giusto? Come perviene l’autorità a stabilire il giusto? Con la fede o
con il ragionamento? La decisione dell’autorità è unilaterale oppure è ragionata
con il concorso determinante dei destinatari della decisione? La questione del
giusto è lo svolgimento articolato di soluzioni da principi assoluti (non rubare;
non uccidere: i dieci comandamenti) ovvero è la selezione e mediazione di
valori e di interessi contradditori che la complessità della vita ci propone come
dilemma? Non uccidere, ma la legittima difesa lo giustifica; così la giusta guerra
giustifica morte e stragi; la tecnica del clone, che uccide l’embrione, può essere
impiegata a finalità terapeutica.
Prendiamo un esempio, facile da cogliere perché di esperienza comune,
ma assai complesso nelle vicende della civiltà; pertinente per considerare i
rapporti tra pluralismo e autorità; tra etica e diritto. L’istinto sessuale va
soddisfatto soltanto se accompagnato dall’affetto nel desiderio di creare una
famiglia? Se la coppia si promette per la vita è morale l’accordo di separazione
che dovesse sopravvenire? Se lo scioglimento del patto dovesse essere
unilaterale, contro la volontà ed in spregio all’interesse dell’altra parte, il
giudizio è di immoralità? È diversa la situazione in presenza di figli? Nel
valutare la moralità del mio comportamento hanno importanza gli effetti
penosi che può subire l’altra parte? Sono questioni che si esauriscono nella
coscienza privata, quindi irrilevanti per l’ordinamento sociale, oppure sono
regole delle relazioni sociali in grado di dare al mio comportamento il giudizio
sociale di immorale? Sono regole dettate dalla mia religione? La regola religiosa
si esaurisce nella coscienza nel rapporto con il divino, quindi socialmente
irrilevante, oppure, come normalmente si verifica, ordina il giudizio della
comunità dei fedeli ed eventualmente delle autorità religiose? A quali
condizioni è morale la restrizione delle libertà individuali che opera il diritto? È
morale l’imposizione che ne può conseguire dalla formulazione come diritto di
un dato ordine morale: es. indissolubilità del matrimonio? Come istituto morale
il matrimonio è un esempio emblematico.
Il codice civile italiano del 1865 disponeva l’indissolubilità del
matrimonio e la protezione della famiglia legittima, con la conseguenza di
dichiarare illegittimi i figli nati fuori matrimonio; non riconoscibili i figli
adulterini; prescrivendo la sanzione penale per l’adulterio. Oggi il legislatore ha
ricondotto questa morale alle scelte personali; alla competenza di sistemi
normativi etici laici o religiosi; ha istituito il matrimonio come libera scelta
alternativa alla famiglia di fatto, eliminando ogni distinzione di figli in legittimi,
illegittimi, adulterini; il matrimonio cessa con il divorzio; comunque anche in
costanza di matrimonio i figli nati da una diversa relazione sono riconoscibili e
la nuova relazione può durare come famiglia di fatto. Anche nel sentire
comune queste vicende, ormai diffuse, non sono riprovevoli, sono lasciate alla
morale intima della persona; anzi, il vecchio regime matrimoniale viene
ricordato come immorale costrizione alla libertà individuale ed alla personalità
della donna.
4.- Il pluralismo etico è un dato dell’esperienza.- Si dice che è della natura
umana la coscienza di un giusto che per la libertà di comportamento può essere
tradito. L’uomo può mentire, ciò presuppone che nella coscienza sappia il vero.
Così l’ipocrisia, la frode, l’errore, presuppongono nell’intento la
rappresentazione del giusto. L’uomo giudica distinguendo il giusto
dall’ingiusto.
Ma il giusto, come d’altro canto la verità, sono concepiti
nell’individualità delle coscienze e del pensiero, condizionate dal grado di
conoscenza (di cultura) delle cose che si forma, diversamente, nella mente degli
agenti; condizionate dal contesto in cui ciascuno si trova a vivere la propria
storia; condizionate dai valori e dagli interessi che si intendono perseguire;
dunque condizionate dalla personalità di ciascuno, che l’esperienza ci conferma
essere irriducibilmente diversa. Nel racconto di Erodoto i greci, ospiti del re
Cambise, rispondono nauseati alla domanda se ritengano etico cibarsi delle
carni del parente defunto, come praticato in talune regioni; al che Cambise si
rivolge a personaggi provenienti dall’India, lì presenti, chiedendo loro se
ritengano etico il rito dell’incinerazione dei defunti praticato dai greci,
ricevendo una risposta altrettanto indignata sull’empietà della pratica, con
sorpresa dei greci.
Il relativismo dell’etica secondo i tempi ed i luoghi è nell’esperienza
storica. D’altro canto l’identità della persona è nell’esperienza delle cose più
banali: v’è chi non sopporta il gusto del formaggio, chi ama il gelato al
pistacchio; se siamo differenti nei gusti perché dovremmo identificarci nei
valori? Se non è data verità del gusto perché dovrebbe esserci la verità del
valore? Perfino la verità oggetto di cognizione scientifica è ormai intesa come
relativa, condizionata dagli interessi di ricerca, dagli obiettivi pratici che la storia
ci propone: la scienza è un sistema concettuale strumentale agli obiettivi
operativi che di volta in volta si dà l’uomo; sistema per definizione fallibile.
Quando la scienza pretende la conoscenza assoluta delle cose scivola nella
metafisica: soltanto un dio, posto fuori dal mondo, conosce il Tutto.
Non tanto sono relativi al tempo, al luogo, alla personalità, i valori; il
problema non è tanto nei principi, sui quali è più facile convenire: greci e
barbari conoscevano riti differenti, ma per soddisfare lo stesso desiderio di
onorare i loro defunti. Il problema etico è nel dilemma che solleva la
combinazione dei principi nell’esperienza, per l’individuo e per la società.
Antigone è la personificazione del valore dell’affetto famigliare; ma Creonte è
la personificazione del valore della convivenza nella città, che Polinice ha
tradito: sul dilemma si svolge il dramma. L’assolutezza del valore etico
affermato nel principio (es. ama tuo fratello; ama la patria tua) è costantemente
messa in discussione dinanzi al dilemma che pone l’esperienza. Non uccidere è
un principio, ma il problema è la giusta guerra; la clonazione può essere tecnica
per curare malattie; come contemperare lo sviluppo economico con la
protezione dell’ambiente? Come contemperare lo sviluppo dell’economia di
breve e di lungo periodo? Raggiunto il livello del benessere diffuso, dobbiamo
proseguire politiche economiche di massima produzione, a costo di accrescere
le disuguaglianze, oppure di equa distribuzione del prodotto, a costo di
produrre di meno? La disuguaglianza crea sofferenze morali? Sono i problemi
della politica, nonostante la saldezza dei principi: diritto alla vita; diritto
all’identità naturale della persona; diritto alla salute; libertà economica. Il valore
della vita si scontra con la violenza della giusta guerra; il valore della sincerità
con la bugia opportuna a coprire una terribile verità che potrebbe recare danno
al destinatario; la massima che il fine giustifica i mezzi ha legittimato i più
diversi comportamenti, sino a dare illimitato spazio alla ragione di Stato. Il
mercante in stato d’insolvenza si determina alle frodi contabili nella speranza
che il superamento della congiuntura avversa consentirà di riprendere
felicemente il negozio, e così di salvare dall’indigenza non soltanto la sua
famiglia, ma anche i dipendenti e le loro famiglie: questa speranza nella
difficoltà congiunturale talvolta è premiata; talvolta invece il fallimento
diffonde la crisi ai creditori e al mercato, con gravi danni, che le leggi sulla
repressione delle frodi intendono prevenire. In tempi recenti il comunismo
poneva il valore dell’uguaglianza nella distribuzione del reddito come superiore
all’obiettivo dell’incremento della ricchezza disponibile, sia pure a costo di
notevole sperequazione nella distribuzione del reddito. Nel regime democratico
dell’Inghilterra del secondo dopoguerra il valore dell’uguaglianza ha informato
la politica dei laburisti, per poi essere sconfitto dalla politica dei conservatori.
Sono questi gli effettivi problemi dell’etica, quelli che si riconducono all’etica
applicata, sui quali è difficile avere la medesima convinzione; problemi che
vanno affrontati attraverso il loro approfondimento tecnico, per poi impostare
sulle tecniche le scelte che, in definitiva, sono politiche: la soluzione del
dilemma che solleva l’applicazione dell’etica differisce nelle coscienze
individuali e nelle scelte sociali; davvero il pluralismo si manifesta nella
concretezza delle scelte; davvero la filosofia è nella tecnica.
Il riconoscimento del pluralismo come valore morale è nelle libertà che
la nostra civiltà è venuta proteggendo come istanza naturale dell’uomo in
società: la storia ci insegna che il pluralismo della cultura etica è istanza propria
della natura dell’uomo non appena, soddisfatti i bisogni elementari, è in grado
di prendere coscienza della propria personalità. La libertà etica si è imposta
proprio contro il conformismo della tradizione, che nell’apparente serenità di
una morale formalmente riconosciuta legittima, nascondeva inaccettabili
privilegi e diffuse ingiustizie, nei fatti imposte come morale dalla forza
autocratica di una aristocrazia che sempre più si trasformava in oligarchia.
Ma, per altro verso, il pluralismo etico non è estenuato individualismo,
come talvolta si critica. Anche nelle moderne società pluralistiche è
nell’esperienza la presenza di un consistente e robusto sistema di valori etici
comuni che si è storicamente consolidato; e la presenza di valori sì diversi, che
peraltro l’interesse alla solidarietà riduce a comuni per l’azione collettiva.
L’adesione è così intensa che la comunità vi si identifica, rendendolo sistema
resistente alle modificazioni ed alle evoluzioni: ciascuno identifica la morale
della comunità con la propria personalità. Peraltro di fronte al caso nuovo
l’assetto tradizionale della convivenza morale può entrare in crisi, incapace di
dare risposte; il concorso dei sistemi etici propone risposte contraddittorie, ed
altera l’assetto raggiunto nella convivenza nel pluralismo.
Le innovazioni tecniche hanno diffuso la crisi: sempre più spesso ci si
chiede cosa si deve fare per essere morali; come risolvere i nuovi conflitti tra
sistemi etici. Sono i campi che riconduciamo alle etiche applicate, dove si
infittiscono le discussioni per trovare soluzioni. Il fenomeno è oggi in rapida
evoluzione, e trova le sue punte avanzate appunto nelle etiche applicate,
laboratorio di evoluzione dell’etica e di creazione di nuove norme morali. Le
innovazioni tecniche ci ripropongono la morale come problema dinamico, a
conferma che tra l’etica fondamentale e l’etica applicata vi è continuità.
5.- Il principio di tolleranza.- 5.1.- Il principio è l’espressione del valore etico del
consenso nelle relazioni sociali.- Il fondamento delle società libere è nel principio di
tolleranza. La libertà etica che genera il principio non si risolve nel disordine
dell’anarchia e della lotta fratricida, poiché l’individuo è sì egoista, ma l‘egoismo
comprende il desiderio di convivere: la solidarietà. L’imperativo fisiologico alla
convivenza trova soddisfazione nel consenso, dove convivere non significa
soltanto accettare passivamente la presenza di altri; non è soltanto accettare le
diversità nelle idee e nelle concezioni morali, che troviamo nei fatti, ma
richiederne l’attiva collaborazione; la collaborazione può esaurirsi in rapporti
elementari o costituirsi nelle complesse istituzioni sociali (famiglia, Stato).
Ciascuno, per fede o per convinzione nella propria soluzione etica,
sostiene che la verità sta dalla sua parte; ma accetta, per conseguire la
convivenza pacifica, la relatività della propria personalità morale; cioè accetta,
di fronte alle argomentazioni dell’altra parte, o di non avere capito il problema
oppure di dover compromettere sul proprio valore o interesse. L’esperienza
insegna che nell’onesto dialogo ciascuna delle parti meglio capisce i propri
valori ed interessi; che nel dialogo la natura sociale dell’uomo consente di
individuare valori ed interessi comuni; o di decantare soluzioni comuni
adeguate al loro perseguimento: è nel dialogo sociale che le diverse concezioni
etiche convengono sul concetto di giusto. Nella democrazia devo accettare di
convincere con ragioni per divenire maggioranza. In queste condizioni da un
canto si sviluppano concezioni etiche concorrenti e alternative,
fisiologicamente conflittuali; ma d’altro canto, sotto l’imperativo della
convivenza consensuale, la complessità e la ricchezza delle motivazioni
individuali si combinano nel dialogo sociale per determinare le scelte comuni.
5.2.- (segue) Il principio di tolleranza fonda la razionalità come tecnica di
convivenza.- Perciò dalla tolleranza discende la razionalità come tecnica di
attuazione del principio nel dialogo sociale.
Per razionalità intendiamo le operazioni mentali (le ragioni) che
innanzitutto ci consentono di prendere cognizione dei nostri interessi e valori;
quindi di ordinare le idee in modo che il tessuto dei concetti formuli nel
pensiero un progetto in grado di operare per i fini che ci proponiamo.
L’irrazionalità è il decidere senza darsi ragione del perché mi pongo quel dato
obiettivo e del perché accetto quel mezzo per soddisfare l’obiettivo assegnato:
è decidere per seduzione. La razionalità è un orientamento; la tendenza del
nostro pensare a darsi la ragione delle intuizioni, provengano esse dall’interno
della nostra mente o ci siano comunicate da altri; è appunto una tendenza
perché non riusciremo mai ad eliminare il rischio della decisione, per una
qualche imperizia o per l’alea; è la tendenza a relegare ai margini le seduzioni
come strumenti di convinzione.
L’etica della tolleranza è il valore dell’accordo razionale nelle scelte dei
comportamenti in società: se sono tollerante devo accettare il discorso non
soltanto per convincere, ma anche disposto ad essere convinto; dove la
convinzione è generata da argomenti di ragione, non dalla forza fisica, ma
nemmeno dalla seduzione. Sul valore della tolleranza sono fondate le
procedure razionali per convivere consensualmente nelle diversità: il desiderio
di ciascuno di vivere nel consenso con gli altri stimola al discorso razionale, che
produce il tessuto di regole e di istituzioni che configuriamo la data società.
Per il rispetto reciproco che genera la tolleranza vi è il dovere di
promuovere e di educare l’identità della persona, perché ciascuno sia in grado
di capire i propri interessi e valori e di argomentare nel dialogo il proprio
discorso, di collaborare nell’impresa comune. Invero lo svolgimento del
discorso pratico richiede che gli interlocutori siano in condizione di capire i
propri interessi e di rendersi conto se le azioni proposte sono congrue
all’obiettivo di perseguire gli interessi ed i valori programmati. Se devo
convincere l’interlocutore devo ben conoscere i fatti della questione e le analisi
sulle quali poggia la proposta; e così inversamente se mi si vuole convincere
devo essere in grado di verificare gli argomenti della proposta.
Queste condizioni della razionalità possono rivelarsi di immediata
soddisfazione; ma è ben possibile che invece richiedano approfondimenti
tecnici. Quando poi consideriamo la presenza di queste condizioni
dell’argomentazione razionale in società complesse, soltanto sofisticate
tecniche di organizzazione sono in grado di rendere attendibile la loro
soddisfazione: l’insufficienza delle tecniche inquina i risultati. Prendiamo la
recente crisi dell’economia globale scatenata dalla vicenda dei subprime: è
circoscritta alla finanza o è generata dall’economia reale? Per contenerla sono
sufficienti strumenti monetari oppure servono strumenti fiscali? Nell’economia
globale è accettabile il riequilibrio che offrono i paesi in pieno sviluppo oppure
nel tempo i loro fondi sovrani possono alterare le condizioni di sovranità dei
paesi esposti? Le dislocazioni dell’industria possono essere penose e forse
rischiose in assenza di autorità globali. Le risposte per orientare i
comportamenti richiedono l’organizzazione di profonde e sofisticate analisi
tecniche, per decantare le ineliminabili incertezze e per proporre le scelte, che
in definitiva sono etiche. Nel discorso sociale la seduzione e la demagogia
inquinano di irrazionalità la decisione, spesso a vantaggio di chi razionalmente
si serve di questi strumenti di persuasione.
Sulla parola razionalità dobbiamo evitare l’equivoco. La razionalità di cui
discutiamo non è la razionalità dogmatica; la credenza nella intrinseca
razionalità della mente, da cui dedurre la conoscenza di verità assolute, fisiche
ed etiche; oggi criticata anche come scientismo. Discutiamo della razionalità
come tecnica del discorso che vuole convincere con ragioni; l’etica di chi
accetta di essere convinto da ragioni.
6.- La tolleranza non conduce all’irrazionalità del nichilismo.- La tolleranza,
come etica della convivenza consensuale, è valore assoluto ed universale. Ne
fraintende il principio chi dice che la tolleranza genera relativismo nei valori.
Essere tolleranti presuppone la fede nei propri valori ed interessi; ma anche il
riconoscere che altri hanno fede nei loro valori; essere tolleranti è accettare
come valore il relativismo della propria personalità, non essere relativi nei
propri valori. L’accettazione dell’intelligenza dell’interlocutore è un valore,
valore assoluto: la posizione che l’interlocutore può avere ragione è intelligente
umiltà; la posizione che l’interlocutore può avere le sue ragioni è rispetto della
sua personalità, diversa dalla mia.
La tolleranza non conduce al nichilismo, che è la posizione di chi nega i
valori, innanzitutto i propri: il nichilista non crede in valori, né suoi né altrui; il
tollerante crede che i propri valori debbano convivere con i valori degli altri.
Prendiamo il significato corrente, recepito dal dizionario: “atteggiamento
personale o, anche, carattere incline a una critica aspra e distruttiva della
società, al rifiuto delle sue convenzioni e a una generica sfiducia negli uomini,
nel progresso e nel futuro, che sfocia in un desiderio di distruzione (o anche di
autodistruzione), in un disperato malessere esistenziale, nel pessimismo e nel
fatalismo”. Il nichilismo è la patologia di chi rifiuta la compagnia, la quale
costringe a riconoscere i valori e gli interessi del compagno, siano pure essi
contingenti, ma perciò reali; è l’atteggiamento di rifiuto delle istituzioni sociali,
che sono il frutto dell’accordo razionale dei consociati. Quando in famiglia si
manifestano differenze nelle scelte pratiche, che non si intende vincere con la
forza per la rottura che ne deriverebbe, la determinata ricerca di accordo è
l’atteggiamento del tollerante, non del nichilista. Oppure il nichilismo è
l’atteggiamento intellettuale di scetticismo riguardo a verità assolute, che ha
portato all’indifferenza, al rifiuto della società, all’anarchia; o piuttosto ha
portato all’opportunismo, nei confronti del radicarsi di istituzioni intolleranti e
totalitarie: l’opportunista che si dichiara intellettualmente scettico è talvolta
assai interessato al contingente.
7.- L’intolleranza fonda l’etica dell’autorità.- L’intolleranza conduce
all’autoritarismo. Nell’esperienza storica non esiste la verità etica; ma esiste o
l’accordo ragionato su regole etiche che consentono la convivenza nel
consenso; oppure un vero etico imposto alla convivenza con l’imbroglio
(demagogia) o con la forza fisica. È l’intolleranza che genera nel dogma
l’oppressione dell’una parte sull’altra: oppressione intellettuale, che facilmente
degenera in oppressione fisica.
L’intolleranza si fonda sul principio dell’oppressione delle differenze;
sul pregiudizio della superiorità dell’autorità del despota, perciò stesso che è
autorità. Rifiutare la diversità ragionata nei valori e negli interessi è rifiutare
l’accordo per imporre il proprio valore od interesse come verità da accettare
irrazionalmente, impiegando la propria forza fisica o morale unilateralmente.
Imporre il proprio valore è come imporre il proprio gusto: imporre di mangiare
il formaggio a chi non piace.
Ma anche l’imposizione del despota può avere una sua etica, si
dovrebbe dire se ispirato da buona fede. L’esperienza ci dice che il valore della
tolleranza non è universalmente condiviso. Sono vitali concezioni insofferenti
delle diversità; insofferenti dei vincoli che impone la fiducia sulla razionalità dei
consociati; sulla razionalità dell’uomo; concezioni che non si affidano alla
razionalità degli uomini. È l’etica di chi è convinto che il destinatario del potere
non ha la sufficiente maturità per gestire i propri interessi. Non abbiamo
sentito dire da elaborate teorie filosofiche che non si sono ancora create le
condizioni per realizzare la vera democrazia secondo l’ideale, sì da giustificare il
passaggio storicamente necessario della dittatura del partito proletario? Non
sentiamo spesso dire che il regime politico autoritario ha la sua legittimità
nell’immaturità della società a reggere la democrazia? Non ne sentiamo l’eco
nelle impostazioni della politica della Cina? Le recenti vicende della Russia,
caduta nell’anarchia di una confusa democrazia, sono richiamate per legittimare
la forma di dittatura che va assumendo il regime. Il riaffacciarsi delle teorie
sulla crisi delle democrazie o sulle dittature delle classi dirigenti ripropongono
le soluzioni autocratiche come le realistiche legittimazioni del potere.
L’intollerante segue un’etica opposta ed incompatibile con l’etica della
tolleranza. Sul piano delle istituzioni sociali è l’etica della missione, che
legittima al comando per posizione religiosa, per tradizione, per capacità di
comando, per posizione tecnica: il partito guida, il personaggio o la classe o lo
stato di Antico regime.
Le nostre istituzioni democratiche hanno scelto l’etica della tolleranza,
ed in questo contesto ci muoviamo, senza tuttavia dimenticare l’interlocutore
che sostiene l’opposto orientamento, in propositi palesi o con strisciante
comportamento volto a rivoluzionare le istituzioni. La tolleranza nella
democrazia è un’esperienza in costante formazione.
III
L’autorità del diritto è fondata sulla tolleranza
8.- L’etica si fa diritto.- Quando l’etica è tradotta in regole ed istituzioni
che s’impongono agli associati assistite dal processo giurisdizionale si manifesta
il fenomeno giuridico.
Vorrei da prima individuare la nozione di diritto che quotidianamente
impiega la pratica nel dialogo sociale: la nozione tecnica. Credo che su questa
non sia difficile concordare, poiché cerchiamo di descrivere il diritto per la
forma che lo rende positivo, non per la sua essenza di idea religiosa o filosofica.
Peraltro la tecnica del diritto, che conosciamo nell’esperienza di pratici, è la
traduzione operativa di un’idea filosofica del giusto: la giusta pace è imposta ai
contendenti attraverso il processo giurisdizionale; ciascuna delle parti nel
contraddittorio è costretta a tollerare le ragioni dell’altra nello sviluppare le
argomentazioni per convincere il giudice; la giustizia della sentenza è nella
razionalità del procedimento della sua formazione; a sua volta la giustizia della
legge è nella razionalità del procedimento democratico della sua formazione. Il
fondamento del diritto è nel principio di tolleranza.
Ma, abbiamo visto, nell’esperienza sono diffuse concezioni intolleranti.
In queste concezioni il principio fondatore dell’ordinamento sociale è la
Ragione di Stato, che ha la prevalenza sulla tolleranza. Sono concezioni che
talvolta manifestano apertamente il rifiuto per la tolleranza; ma che più spesso
operano all’interno delle procedure democratiche, per svuotarne o ridurne la
sostanza; per svilirne la qualità. Sono concezioni che respingono il diritto come
regola di ordinamento sociale, perché respingono del diritto le tecniche del
processo e delle procedure legislative, che retrocedono di fronte alla Ragione di
Stato, quando ritenuto opportuno dal potere.
9.- Il fenomeno giuridico.- Il diritto è un fatto istituzionale dell’uomo, che
ordina la società mediante la regola del processo giurisdizionale; quindi del
procedimento legislativo democratico; dove la decisione (sentenza, legge) è la
conclusione argomentata delle contrapposte ragioni, secondo quell’analogo
principio che è a fondamento della tolleranza.
9.1.- Il diritto è fatto istituzionale.- Il diritto esiste come prodotto della
mente dell’uomo; le norme che lo compongono sono idee che si esauriscono
nella loro rappresentazione mentale; non sono la rappresentazione mentale di
un oggetto. Il codice civile non si rappresenta al mio pensiero, per orientarmi
nella vendita dell’immobile, come si rappresenta la montagna che mi propongo
di scalare. A differenza della montagna, il diritto sta, e si esaurisce, nella mente
degli individui che, pensando vera quella determinata norma che il codice
documenta, si comportano di conseguenza.
Mediante la comunicazione il pensiero individuale si forma collettivo:
nel dialogo il pensiero individuale si conforma all’attendibile pensiero degli altri
consociati, sì da determinare l’uniformità delle azioni individuali. La mia
rappresentazione della convergenza dei pensieri degli altri verso un comune
concetto ipotizza la norma di comportamento: la norma è appunto la
prescrizione che mi attendo rappresentata anche nel pensiero degli altri. Nel
processo di attuazione del diritto la norma si forma secondo la
rappresentazione che prospetto al giudice, e che mi attendo che la corte faccia
propria. In questo senso, inserita nel tessuto sociale, la norma si prospetta per
ciascun individuo come dato oggettivo; ma è oggettività apparente. La norma,
come uniformità di pensiero, è soltanto un’ipotesi, che dipende dall’attendibile
adesione di ciascun individuo all’interpretazione comune; che si dissolve
quando questa attendibilità dovesse cadere; oppure si dovesse modificare nella
evoluzione delle convinzioni, come accade nella fisiologica esperienza sociale;
ipotesi che perfino può essere smentita dal rifiuto di riconoscerne la legittimità,
come nella congiuntura rivoluzionaria. Infatti in quanto pensiero la norma è
un’idea che subisce l’evoluzione dell’esperienza: mutevole con il variare degli
uomini, nello sviluppo del dialogo sociale; con il mutare del contesto.
Quando vedo il rosso del semaforo mi fermo nella presunzione che il
segnale sarà inteso come divieto dall’autorità di polizia; ma posso non
fermarmi ed in caso di incidente il danneggiato potrà avvalersene nella
presunzione che il giudice gli darà ragione nel qualificare il fatto come vietato
dalla norma ricavata dal codice della strada. Se, per difetto di funzionamento, il
semaforo segna costantemente rosso per chi proviene da destra, il
danneggiante potrà sostenere l’equiparazione di semaforo rotto a semaforo
inesistente, e quindi la regola di generale applicazione della precedenza per chi
viene da destra; ma il danneggiato potrà argomentare che comunque il verde
crea un affidamento che costringe anche chi proviene da destra alle dovute
cautele, che nel caso in contestazione sono mancate, come il danneggiato riesce
a provare. Nel conflitto le parti ed i loro avvocati dovranno ipotizzare la
norma; la norma di diritto che risolverà nella sentenza il conflitto sarà creata
nel processo: ad es. si dirà che effettivamente il semaforo disfunzionante
elimina il divieto, ma comunque costringe alle dovute cautele chi proviene dal
rosso fisso. Nel corso del processo la verità della norma è soltanto ipotesi; nel
processo giurisdizionale, sino alla sentenza, la norma è soltanto ipotizzata vera
nel corso del contraddittorio: secondo due verità incompatibili; quando la
decisione della corte dichiara la vera norma nella sentenza, quest’ultima si
prospetta come documento che racchiude un precedente utile a pensare
nuovamente la norma.
La componente tempo spiega l’accadimento. Il pensiero che si è
consolidato come diritto nell’esperienza passata deve affrontare i casi della vita.
La norma, postulata preesistente dall’agente come se il futuro fosse eguale al
passato, nei fatti è creata nel corso dell’esperienza, perché il futuro non è
riconducibile alle esperienze passate se non mediante l’operazione mentale
dell’interpretazione; perché in ogni contesto gli uomini sono differenti e
differente può essere il loro atteggiamento. Il conflitto prospetta un caso come
nuovo, talvolta perfino non pensabile nella passata esperienza; anzi dovrebbe
essere fisiologica la novità del caso quando le parti prospettano al giudice il
conflitto di diritto, altrimenti lo avrebbero risolto direttamente.
9.2.- (segue) Il processo giurisdizionale crea il diritto.- Perciò è la vicenda
processuale che concreta il diritto. La norma è giuridica proprio in quanto ne
posso far valere il contenuto nel processo giurisdizionale per ottenere, con il
provvedimento favorevole, la forza delle istituzioni per la soddisfazione del
mio interesse. L’ordine giuridico si impone alla società mediante la costrizione
esercitata sui comportamenti degli associati dall’eventualità dell’impiego della
forza in seguito al processo di attuazione del dato sistema di ipotesi normative.
Nel caso dell’incidente è presso la corte che faccio valere il mio diritto al
risarcimento dei danni perché, pur venendo da sinistra, il segno verde del
semaforo rotto mi aveva dato l’affidamento di via libera; se il giudice accoglierà
la mia tesi, mi servirò della sentenza per disporre a mio favore dell’autorità
della legge.
La creazione della norma non è nell’arbitrio della corte, proprio perché
la sentenza è la conclusione di un discorso logico.
Nel diritto contemporaneo la logica della sentenza
segue il
procedimento mentale deduttivo, della logica formale, che si dispiega nel
sillogismo giudiziario. Nella premessa maggiore è definita la norma, come
fattispecie astratta dedotta dalla legge, impiegata per risolvere nella conclusione
il caso rappresentato dalle parti nella premessa minore come fattispecie
concreta. Di qui la definizione tradizionale: “Il diritto è il sistema normativo che la
sovranità dello Stato sanziona per ordinare la società”. La definizione assume il
paradigma generato dalla contrapposizione del diritto positivo al diritto
naturale, ovvero all’etica ed alle istanze morali. Il diritto positivo si distingue
per la forma, indipendentemente dal contenuto delle sue norme: l’atto
dell’autorità è fornito della forza della legge perciò solo che è adottato secondo
le forme costituzionali del dato ordinamento, anche se ingiusto (ius quia iussum).
Sul diverso piano dei contenuti e dei valori troviamo l’etica, il diritto naturale;
le sue norme sono giuste (ius quia iustum), sebbene sfornite della forza che ne
assicura il rispetto. Ma l’esperienza ha rivelato l’inadeguatezza della definizione
nel cogliere il fenomeno giuridico. La definizione presuppone che il sistema
normativo sia un oggetto rispetto alla mente che lo pensa, dal quale dedurre
(ovvero trarre come sua componente) la norma (fattispecie astratta) per
risolvere il caso (la fattispecie concreta). Invece il diritto è fatto istituzionale
creato nell’esperienza sociale, nello svolgimento del discorso giuridico. Il
ragionamento non è tecnicamente deduttivo (non risponde alla logica formale)
poiché le due fattispecie (premessa maggiore e premessa minore) non sono
date; l’applicazione del diritto non può essere deduzione, poiché il sistema
normativo è nel pensiero degli uomini che lo vivono; pensato da uomini del
passato, va ripensato nel presente per risolvere casi della vita, talvolta nemmeno
concepibili in precedenza (es. maternità surrogata): il diritto è fenomeno
dinamico. Il processo giurisdizionale è la tecnica istituzionale per ripensare la
regola in modo da risolvere pacificamente la controversia; il processo crea il
fenomeno giuridico. È l’istituzione del processo che costringe le parti ad
argomentare, a partire dall’esperienza passata (la norma), la soluzione del
nuovo caso, che il giudice definisce nella sentenza, così disponendo
dell’impiego della forza. La forza che risolve il conflitto è comandata dal
ragionamento (contraddittorio, argomentazione), anziché dall’arbitrio; il
ripensamento della norma segue la logica dell’argomentazione, non soltanto della
deduzione. La forza che risolve il conflitto è comandata dal ragionamento a
condizione che la corte che decide sia indipendente nel valutare le ragioni delle
parti. Perciò è più appropriato definire il diritto: Il sistema normativo sviluppato dal
processo giurisdizionale; analiticamente: “Il diritto è quel sistema concettuale argomentativo
che si sviluppa con finalità normativa quando le istituzioni della società, per la soluzione dei
conflitti tra consociati, predispongono un’autorità indipendente, presso la quale l’interesse
della parte è fornito di azione sulla base di una norma che è sì postulata preesistente, ma che
soltanto mediante processo contraddittorio si potrà stabilire applicabile al caso della vita”.
Peraltro la finzione della deduzione nel dispiegamento del
ragionamento non è inutile. La finzione dà al dispositivo logico il postulato che
costringe ad argomentare la formulazione della fattispecie astratta come se
fosse effettivamente diritto preesistente. Il postulato che vuole preesistente il
diritto costringe i consociati, nell’argomentare la norma del caso concreto, ad
orientare il pensiero verso una decisione comune, che possa essere giustificata
nell’esperienza passata, secondo i canoni dell’interpretazione, così ordinando i
loro comportamenti nella continuità del discorso giuridico. Ma la corte,
nell’argomentare come preesistente la norma trovata per risolvere il conflitto,
nei fatti crea nuovo diritto; lo crea secondo un procedimento mentale che
seleziona i fatti facilmente riconducibili all’esperienza già vissuta, dai fatti che,
per essere decisi, impegnano all’evoluzione del diritto. A sua volta
l’argomentazione sviluppata sul postulato della preesistenza della norma dà alla
decisione la forza del diritto posto, nel quale viene mentalmente inserita;
precedente per l’elaborazione del diritto giurisprudenziale: la sentenza sviluppa
il sistema concettuale con finalità normativa.
L’argomentazione giuridica non è indirizzata a convincere l’altra parte,
quanto a convincere l’autorità che dispone della forza fisica della società.
Questa funzione dell’argomentare giuridico lo rende peculiare rispetto ad altre
funzioni dell’argomentazione. L’argomentazione che si risolve nel decidere un
comportamento meramente etico, ad es. la discussione in famiglia sulla scelta
della scuola per il piccolo ormai in età da elementare, tende ad ottenere
l’adesione dell’altra parte, comunque a raggiungere l’accordo, ed in questa
funzione si esaurisce: il comportamento sarà conseguente alla decisione
assunta. La qualità dell’argomentazione si rivelerà nella capacità di ottenere
l’adesione; la mia argomentazione trova resistenza nella forza intellettuale
dell’altra parte ad argomentare; l’eventuale inadempimento si risolve in un
giudizio di immoralità, senza potere costrittivo. Invece l’effetto della sentenza è
l’impiego dell’autorità nei riguardi della controparte; mi interessa convincere il
giudice delle mie ragioni per ottenere il provvedimento a me favorevole. La
differenza è importante. La parte nel processo giurisdizionale tende comunque
ad ottenere la sentenza favorevole; impiegherà la forza degli argomenti soltanto
se vi sarà costretta dalle istituzioni: ecco l’importanza dei vincoli istituzionali
per la qualità dell’argomentazione giuridica. Le istituzioni sono organizzate in
modo da costringere le parti ad argomentare le difese secondo le ragioni più
idonee a perseguire la convinta adesione del giudice, tenuto a seguire nella
formazione del suo pensiero la logica della sentenza. L’indipendenza della
corte, la qualità professionale del giudice, i gradi del processo, le regole del
contraddittorio, l’iniziativa di parte, il limite del giudicato al caso in questione,
la pubblicità, il vincolo di motivazione ecc., sono i principi istituzionali che
costringono alla razionalità giuridica: dalla loro qualità tecnica dipende la
qualità del processo, quindi la qualità dell’ordine giuridico.
Con la tecnica del processo giurisdizionale l’impiego della forza è reso
razionale; è reso dipendente dall’autorità della sentenza, che ha deciso sulla
base della norma, che nel corso del processo è stata argomentata oggettiva. Pur
nella ricchezza e varietà dell’esperienza, è possibile prevedere il possibile esito
dell’argomentazione, sì da selezionare i gradi di incertezza, sino ad isolare i casi
il cui esito è davvero lasciato alla buona sorte delle stelle. Ciascuno è in grado
di dire quale è la regola da seguire; può prevedere l’esito dell’eventuale processo
secondo ragioni che lo rendono razionalmente prevedibile. Con la tecnica del
processo il diritto: impedisce l’arbitrio dell’autorità; rende razionale l’impiego
della forza; relega ai margini gli strumenti di seduzione nella assunzione della
decisione dell’autorità, stimolandone la decisione mediante argomenti di
ragione, riducendo per quanto possibile la forza della seduzione. Per questo si
dice che il diritto è un ordine razionale. L’autorità della sentenza, che gestisce la
forza fisica che le istituzioni si sono riservate, è razionale; la creazione del
diritto giurisprudenziale è razionale.
L’eventualità del processo è il riferimento per ogni operazione giuridica;
determina l’interpretazione del diritto nella definizione della norma che ciascun
pensa per regolare il proprio comportamento. Quando vedo il rosso del
semaforo mi regolo di conseguenza, cosciente del rischio del processo.
L’imprenditore chiede al consulente entro quali limiti e a quali condizioni lo
scarico in acque pubbliche non viola le discipline a protezione dell’ambiente, ed
il consulente nello stendere il parere verifica il caso con il diritto che
presumibilmente applicherà il giudice nel caso di conflitto. Quando il cliente
chiede all’avvocato di quali protezioni dispone contro la costruzione del vicino
che gli impedisce la vista sul mare di cui godeva, il consiglio dell’avvocato è
orientato sul presumibile esito del processo. Quando la dottrina ricostruisce il
diritto pensa alla verifica processuale; l’insegnante abitua gli studenti al
confronto processuale degli istituti mediante le esercitazioni pratiche di
confronto con la giurisprudenza.
Soltanto la norma di diritto è assistita dell’autorità dello Stato: la norma
priva di azione giurisdizionale è giuridicamente inerte, affidata alla morale, non
è diritto. Se per villania non vengo alla cena dopo avere accettato l’invito non
potrò essere citato per inadempimento, e costretto a risarcire il costo della
mancata cerimonia, a meno che non avessi concluso un contratto, ad es. con
un ristorante per ospitare gli autorevoli relatori del convegno. L’esperienza
storica ci dice che l’istituzione della corte per determinata materia crea il
fenomeno giuridico anche in assenza di codici, leggi o fonti formali di
produzione di norme; mentre non si verifica il fenomeno inverso: le norme
dello Statuto albertino, le norme internazionali sfornite della protezione della
corte, hanno debole portata giuridica.
10.- Le fonti del diritto: della norma per regolare il caso della vita.- Il giudice
decide applicando al fatto dedotto dalle parti (fattispecie concreta) la norma
dedotta dal diritto (fattispecie astratta); è il postulato: la sentenza deve
argomentare la norma delineata nella fattispecie astratta in modo da convincere
che il suo contenuto è proprio quello che troviamo nel diritto posto. Perciò le
parti nel processo argomentano la formulazione della norma come dedotta dal
diritto. La norma può essere di immediata evidenza; ma può essere difficile da
argomentare, per le novità del caso o per il disordine delle fonti. La situazione è
profondamente diversa secondo che la fonte della fattispecie astratta sia nella
tradizione, come prevalentemente accadeva nell’Antico Regime, oppure sia nella
legge, come prevalentemente accade oggi.
10.1.- Il diritto giurisprudenziale della tradizione dello Stato premoderno.- In
passato la morale alimentava il diritto: secondo la tradizione cristiana la
religione impregnava la morale, indirizzando il diritto; vi era continuità di
esperienza tra la morale ed il diritto; il concetto di diritto comprendeva la
valutazione di giusto; la distinzione concettuale che oggi conosciamo era
offuscata. Come la morale, il diritto è un dato che l’interprete ritrovava nello
spirito della società secondo criteri di giustizia provenienti da Dio e dalla
natura, creatura della divinità; criteri di giustizia che si potevano ritrovare nella
retta volontà del popolo, consolidata nelle consuetudini. La società non creava
il suo diritto per atto cosciente di volontà, ma lo ritrovava attraverso l’opera
degli interpreti. Le autorità stesse erano assoggettate al diritto divino, di natura
e alle consuetudini; la sovranità del re non stava nel fare il diritto, ma era nel dire
il diritto, come sommo interprete: i simboli sovrani erano la bilancia (giustizia)
e la spada (forza). L’atto dell’autorità, il c.d. diritto posto, doveva rispondere al
giusto morale e religioso, come atto che interpreta il diritto divino e di natura: il
diritto posto s’immedesimava al diritto giusto. Ci si chiedeva sino a che punto i
soggetti restavano vincolati da decisioni ingiuste del sovrano. Le evoluzioni che
storicamente cogliamo nelle concezioni religiose e morali del giusto erano
lente, non coscienti, adattamenti dei precedenti, espressione di valori perenni.
Perciò tra gli strumenti di interpretazione per ricavare dal diritto la norma del
caso aveva fondamentale importanza la ricerca della fonte: la consuetudine, i
precedenti, la ragione delle cose, il diritto naturale; il diritto romano; le
tradizioni, l’etica, la religione, lo spirito di giustizia. Anche la ricerca delle fonti
di produzione scritte, comunque di minore consistenza rispetto al diritto di
fonte informale, poteva richiedere attenta cura per la difficoltà di
documentazione nel sovrapporsi disordinato degli atti normativi, spesso
occasionali e contingenti. In questo modo la costruzione della fattispecie
astratta, sottratta all’arbitrio dell’autorità contingente, veniva argomentata su
quei valori morali sui quali si riteneva poggiasse la forza dello stesso diritto
romano. La vicenda del diritto inglese ci racconta questa esperienza, nella sua
continuità storica e per la qualità della funzione giurisdizionale. Non è da
pensare che il disordine, specie nella tradizione dell’Europa continentale, non
fosse nei fatti fonte di abusi; la ricostruzione sopra ripresa era utopia a fronte di
una ben diversa realtà, specie sul finire dell’Antico Regime: è proprio il
diffondersi della corruzione processuale che aveva esasperato, stimolando le
codificazioni.
10.2.- Il monopolio della legge nello Stato moderno.- Oggi le fonti di
produzione del diritto sono formalmente elencate, secondo procedure definite,
pubblicate come atti tipici dello Stato, che ha assunto la sovranità del
legislatore, esercitata, nella costituzione democratica, prioritariamente dal
parlamento. Per l’interprete è un dogma che il diritto si esaurisce nella legge,
dalla quale dedurre la norma del caso concreto. È conseguenza dell’evoluzione
delle società che hanno perduto la convinzione che il diritto sia nella coscienza
degli uomini come prodotto divino o della natura. L’uomo è capace di decidere
il suo destino, e così di decidere il diritto che ne ordina la convivenza. Nei paesi
di civil law la trasformazione del diritto in atto di volontà del legislatore è
formalmente rilevata con le codificazioni. Ma la trasformazione si è imposta
anche nelle tradizioni di common law, dove lo stesso Parlamento era inteso come
interprete del diritto. Nella common law il diritto era inteso come proveniente dal
popolo nella tradizione, di cui le corti sono depositarie e interpreti, tale da
imporsi anche alle autorità contingenti, anche al Parlamento, almeno sino a
quando la legittimazione popolare della sua autorità non ha prevalso sulla
common law.
Per vero il diritto dipende dalla legge, ma non ne resta assorbito: non si
immedesima con il testo, sul quale si sviluppa l’interpretazione; l’arte di
combinare la lettera con l’intenzione, per ricavarne la norma, cioè il pensiero
del legislatore, che è appunto quel volere che la scrittura comunica.
Innanzitutto la legge è formulata nell’esperienza passata per regolare il futuro,
sicché la novità del caso è ineliminabile esperienza del fenomeno giuridico: per
il codice la testimonianza del parto dà per certa la madre; sopravvenute le
tecniche della fecondazione assistita, è accaduto che la madre portante non era
la madre genetica, sì che le corti hanno dovuto risolvere i casi creando il diritto,
sino a quando le legislazioni non sono state aggiornate. Comunque il diritto
non si può immedesimare nella legge, poiché questa è il documento che
trasmette il pensiero del legislatore, mentre il diritto è pensiero concepito nella
mente di ciascuno, per la formulazione del quale non è affatto sufficiente
leggere il testo della legge. Sappiamo quanto è operazione complessa sia la
formulazione del testo, per trasmettere il pensiero del legislatore, sia la sua
interpretazione, per riprodurre nelle menti dei destinatari del comando il
pensiero del legislatore. La legge documenta il pensiero del legislatore
attraverso la formulazione di proposizioni scritte; le idee sono formulate non
soltanto con l’astrazione che caratterizza il linguaggio; ma con l’astrazione
richiesta dalla natura normativa del proposito: generalità e astrattezza. Perciò
anche immaginando la perfezione nella traduzione linguistica del pensiero del
legislatore, resta necessaria l’interpretazione per cogliere dal testo le condizioni
per la sua applicazione al caso concreto della vita. Ma non solo è raramente
raggiunta la perfezione nella redazione del testo; la legge si combina con la
legislazione vigente in un corpo che difficilmente è coerente, per le
contraddizioni che conseguono se non altro per i diversi tempi di entrata in
vigore dei testi, sì da costringere a quella ricostruzione sistematica, che
necessariamente conduce alla creazione della norma. A sua volta il legislatore è
un’astrazione, dal momento che non possiamo ricondurre ad una realtà fisica il
pensiero del parlamento, che decide secondo un procedimento che rende
necessariamente impersonale la decisione: la ratio legis è un’astrazione. Non è
poi corretto dire che il legislatore può fare tutto. Il legislatore deve conoscere la
realtà sulla quale opera, che è ribelle ad interventi incoerenti o che ne ignorano
la configurazione; è condizionato dalla società, dalla sua storia, dalla storia del
diritto e delle istituzioni, dalla distribuzione dei poteri e dalla loro
organizzazione; è condizionato dai costi che si devono sopportare per mettere
in atto gli interventi, evenienze che se non ben sistemate in sede di redazione
dei testi, ricadono come condizioni della loro interpretazione. Anche nel
regime dello Stato moderno di monopolio della legge la presenza della corte
resta il criterio del diritto.
Ciò nondimeno la sovranità della legge si è imposta sulla pluralità e sul
conservatorismo delle fonti dell’Antico Regime, trasformando l’esperienza
giuridica: l’argomentazione giuridica ha nella legge il dogma sul quale articolare
la deduzione della norma per risolvere il caso della vita; la sovranità ha lo
strumento per indirizzare e modificare il diritto. La trasformazione è stata
fondamentale: il diritto ha perso la caratteristica di un pensiero incorporato
nella coscienza collettiva per divenire un dato disposto dalla volontà del
legislatore. La trasformazione nella ricognizione delle fonti è il riflesso della
trasformazione nel concepire il diritto. Con il tempo l’uomo, le società,
prendono coscienza che il destino è anche dipendente dalla loro volontà di
gestire ed organizzare l’attività e le istituzioni. La coscienza del popolo ha ora
nel legislatore la sua espressione; nelle democrazie liberali la volontà del
parlamento è la volontà del popolo che si esprime nel ripetersi del
procedimento elettorale, nelle garanzie del suo corretto svolgimento nella
imparzialità delle istituzioni nel dibattito politico, nel diritto della minoranza di
divenire maggioranza; e poi in parlamento nelle procedure di discussione ed
approvazione delle leggi.
I nuovi tempi rivelano che le diversità nei comportamenti non sono
soltanto diversità d’interpretazione del giusto posto come verità, bensì diversità
di concezione del giusto, che sottintendono diversità di interessi e di valori.
Secondo le concezioni liberali, l’uomo ha il diritto di avere propri interessi e di
esprimere nella decisione la volontà individuale; ha il diritto alla diversità e al
rispetto delle differenze. Nel pluralismo le regole morali ed etiche rispecchiano
valori individuali che vanno protetti nelle loro diversità. Ma la convivenza può
esigere regole comuni alla collettività, imponendo comuni valori ed interessi: il
diritto assume la forma di un corpo che impone alla comunità la propria etica,
distinto dalle religioni, dalle morale e dalle etiche che interessano materie che il
diritto non ha assunto o non ha inteso assumere per rispettare la libertà di
coscienza individuale. L’imposizione con la forza della società delle soluzioni
comuni può essere la conseguenza del metodo democratico e dell’autocrazia:
solo il metodo democratico dà con il diritto la convivenza giusta. Il diritto può
conservare il valore dell’impiego razionale della forza per ordinare la società se
la razionalità come tecnica di consensuale convivenza si estende al
procedimento di formazione della legge: l’argomentazione della norma, che nel
processo giurisdizionale dà la razionalità nell’impiego della forza per soddisfare
il valore della tolleranza nella convivenza, si estende alla procedura legislativa:
sono libero se sono soggetto a quelle decisioni alla cui formulazione ho
partecipato.
La definizione che voglia tenere conto dell’espansione del diritto nelle
società liberali a regolare, nel fondamento e nell’esercizio, la stessa sovranità,
deve essere in grado di comprendere le procedure democratiche. La
separazione dei poteri fondamentali dello Stato è la tecnica del diritto:
l’esecutivo, il potere titolare della forza militare, è assoggettato al diritto,
elaborato in via generale ed astratta dal potere legislativo del Parlamento ed
applicato ai casi della vita dal potere giudiziario delle corti. Come sappiamo la
tecnica della separazione dei poteri si sviluppa nell’organizzazione delle autorità
pubbliche nel bilanciamento delle competenze: ogni potere risponde ad altro
potere in condizioni dialettiche che consentano al pubblico di disporre dei dati
per esprimere il giudizio sulla funzionalità democratica delle istituzioni.
Abbiamo dunque la seguente definizione: “Il diritto è la tecnica che assoggetta
l’impiego della forza dello Stato alla razionalità dell’argomentazione nella legge e nella
sentenza”.
11.- Le società senza l’ordine giuridico.- Se per diritto intendiamo
l’ordinamento che, attraverso le tecniche del processo giurisdizionale, ha nella
tolleranza il principio di governo, non tutte le società conoscono il diritto, o
comunque lo conoscono nell’espansione che ha nelle società liberali delle
moderne democrazie. Ci racconta l’antico poeta che nel loro paese i ciclopi
sono athémistes; da loro non vi sono né assemblee né deliberazioni, né thémistes;
ciascuno detta la sua legge (thémisteuei) alle sue donne e ai suoi figli e nessuno si
interessa degli altri (Odissea, IX 106-115).
Una società può ricevere ordine anche dall’impiego arbitrario della
forza, cioè dall’esercizio dell’autorità senza le garanzie del giusto processo:
l’esperienza ci dice essere accadimento assai frequente, da rendere eccezione le
società rette dal diritto. Per tradizione, per precisione linguistica, è opportuno
riservare la parola diritto alle relazioni sociali regolate dal processo. L’ordine
che pur si crea nei fatti senza l’autorità del processo è così diverso da richiedere
una differente denominazione, per evitare confusioni.
È evidente che l’impiego arbitrario della forza di ciascuno contro l’altro
non consente di ordinare la vita sociale; come difficilmente ordina i consociati
la regola della ragione del più forte. Ma anche l’impiego della forza da parte di
un’istituzione sociale senza le garanzie del processo, se è in grado di ordinare la
vita, e di ordinarla anche razionalmente, non la ordina secondo diritto. Il
dittatore può rispettare le consuetudini nella vita sociale e così dare una
parvenza di ordine giuridico, che può sempre ritrattare secondo convenienza o
capriccio. Ogni società è ordinata con la forza; ma non ogni società è ordinata
dal diritto; se manca la tecnica del processo non c’è il diritto a regolare la forza
che ordina la società. Renzo, Lucia, don Rodrigo, il conte zio è una storia di
comunità senza diritto.
Il diritto, come tecnica di ordinamento della società, si è storicamente
imposto nella nostra civiltà, da prima limitatamente ai rapporti che oggi
indichiamo nei privati, estendendosi man mano per coprire non soltanto i
rapporti con l’autorità; ma, nello Stato di diritto, sino a comprendere la stessa
formulazione della legge nella procedura democratica dello Stato liberale,
quando la legge diviene criterio primario dell’argomentazione processuale.
Nella esperienza che risale all’antica Roma il fenomeno giuridico è andato
estendendosi dai rapporti che oggi indichiamo come privati sino a coinvolgere
il complesso ordinamento sociale. Per lungo tempo l’amministrazione
criminale era sottratta alla regola del processo secondo diritto. Soltanto in
tempi moderni l’esercizio amministrativo dello Stato è stato sottoposto a
controllo giudiziario su iniziativa del suddito leso, sì da divenire quello che oggi
indichiamo come diritto amministrativo: la seria crisi dei processi, civile e
criminale, nell’Antico Regime dell’Europa continentale aveva reso evanescente
il diritto. È assai recente la sottoposizione al processo costituzionale del potere
politico del legislatore, sì da trasformare il c.d. diritto politico (ancora così
denominato alla fine del XIX sec.) in diritto costituzionale. Anche il potere
dello Stato viene assoggettato alla regola del diritto, cioè al processo. Ma
l’evoluzione non è lineare e continua. Tutt’oggi la lotta per il diritto arranca, e
trova ostacoli e ricadute. Le relazioni tra Stati sono soltanto parzialmente, per
lo più quelle di natura economica, soggette al processo giurisdizionale: oggi lo
vediamo nell’Organizzazione per il commercio internazionale. La Comunità
europea è divenuta uno spazio man mano assoggettato al diritto. Comunque la
tendenza è per l’espansione del diritto nell’ordinamento della società. Questi
rilievi aiutano anche a meglio cogliere l’equivoco in cui cade la discussione
quando ci si domanda, senza distinguere, se il nazista è diritto: probabilmente i
rapporti privati erano regolati dal diritto; peraltro la ragione di Stato conosceva
una tale espansione da ridurre assai la regola del diritto, dando l’impressione
che per ogni aspetto la società fosse sottratta al diritto.
Non è dunque corretta la constatazione secondo la quale dove vi è
società vi è il diritto. Il fenomeno giuridico si manifesta soltanto in quelle
società che istituiscono il processo giurisdizionale per la soluzione dei conflitti,
e relativamente a quelle relazioni sociali per le quali è ammessa l’azione
giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, di solito i rapporti privati. Il regime
della Spagna franchista conosceva un efficiente sistema processuale per i
rapporti privati, mentre le relazioni con lo Stato erano frequentemente atti
politici. Peraltro la piena espansione del diritto richiede che anche la legge sia il
risultato del procedimento democratico fondato sulla tolleranza. Dove vige la
legge del dittatore anche la sentenza si può rivelare precaria; dove nella legge
penetra la ragione di stato, nel momento opportuno questa stessa si può imporre
nel processo, impedendone il corso fisiologico di procedimento di
determinazione del diritto: la sentenza può degradare in farsa. L’avvocato che
in regime nazista, o fascista, ha dato un parere positivo sulla base del codice
civile al cliente in relazione ad una possibile lite tra condomini, resta senza
parole, e sconsiglia la causa, appena viene a conosce il nome dell’altra parte,
importante esponente della gerarchia del partito dominante. Vicende della
Russia recente ci indicano quanto frequente sia la ragione politica ad inquinare
il processo. Soltanto la tecnica del processo giurisdizionale e poi delle
procedure democratiche consente di controllare la Ragione di Stato.
Il fondamento della tecnica è nella fiducia sulla razionalità degli uomini
a ricercare nel dialogo lo strumento per convincere sulle soluzioni da imporre
come comuni. È questa idea di giusto che la nostra tradizione ha incorporato
nel diritto: la troviamo innanzitutto nel processo; e poi la ritroviamo nella
procedura della legge democratica, secondo la configurazione dello Stato di
diritto che si è consolidata nel moderno Stato democratico. Perciò il diritto si
rivela la tecnica che ordina l’autorità della società sulla base del principio di
tolleranza. Avviato il discorso sulle tecniche si è condotti alla filosofia del
giusto. Il processo giurisdizionale risponde alla filosofia della tolleranza, la
quale poi ha impostato la procedura legislativa: il giusto va trovato nel dialogo,
del processo e delle procedure democratiche. Nelle tecniche stanno le filosofie,
ed è solo metodo distinguere l’analisi.
III
L’etica del diritto è nella qualità delle sue tecniche
12.- Nei fatti istituzionali l’idea non è separabile dalla sua tecnica realizzazione;
così è per il diritto: l’etica è nelle sue tecniche.- Nei fatti istituzionali, cioè nelle
istituzioni create dall’uomo, l’idea non è separabile dalla tecnica per la sua
realizzazione. L’idea del Grande Dizionario della lingua italiana, del Battaglia, non è
separabile dalla tecnica sua realizzazione; come separare l’idea di Rabelais dal
suo Pantagruel?
Quando nell’esperienza il pensiero teorico ed il procedere dei fenomeni
si separano: la pratica sfugge al controllo della teoria, sicché sviluppa
inconsciamente la sua esperienza; la teoria si orienta all’astratto ideologismo,
incapace di imporsi razionalmente nell’esperienza. Chi ragiona soltanto sulle
idee può costruire affascinanti teorie, ma destinate a restare costruzioni mentali
artificiose; ovvero capaci anche di influenzare l’esperienza, ma per la
suggestione che diffonde la loro seduzione, non per la ragionata ricezione nel
pensiero dei destinatari, che possono ritrovarsi a soffrire l’imposizione di
organizzazioni contrarie ai loro interessi. Chi ragiona sulle idee deve
costantemente cogliere il senso della loro tecnica; chi opera da tecnico deve
sapere perché esiste quella tecnica, a quali idee è informata, di quali idee è
funzione. Scienza e tecnica, teoria e pratica, sono articolazioni di uno stesso
fenomeno, che distinguiamo come metodo dell’intelletto per pensare, per
capire e orientare i comportamenti: per prendere coscienza delle istituzioni che
si sono create nell’esperienza; per concepire, creare o modificare l’istituzione.
Sono articolazioni che distinguiamo anche come metodo per organizzare
l’efficienza dell’istituzione nella suddivisione dei compiti: è difficile che la stessa
persona sia in grado di padroneggiare teoria e tecnica, sicché si impone la
distinzione e il coordinamento di diverse professionalità nello sviluppo della
cultura collettiva.
Così, per il diritto, l’idea etica è nelle sue tecniche. L’idea è l’impiego
della forza per ordinare la società secondo il consenso razionale dei suoi
componenti; le tecniche devono consentire di ragionare le decisioni, nelle
materie comuni e nelle relazioni sociali, per la formazione del pensiero
collettivo ed individuale.
È evidente che il pensiero non riuscirà mai a rappresentarsi il progetto
secondo la tecnica richiesta per la sua traduzione in esperienza: il modello è una
semplificazione rispetto agli accadimenti. Ma, trattandosi di fenomeni creati
dall’uomo e dall’uomo regolati, il modello è come la grammatica per la lingua;
ci dà i principi logici dello svolgimento, ci indica le regole per individuare gli
errori, è criterio per verificare la sua rispondenza all’esperienza in corso; per
stabilire se l’esperienza si sta allontanando dal modello o per delineare un
nuovo modello.
13.- Quale grado di eticità rileviamo nel diritto italiano? Spunti di riflessione.- La
Costituzione italiana aderisce al modello democratico: separazione e
bilanciamento dei poteri nell’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese. Dunque la qualità del diritto, nei rapporti privati e con
l’amministrazione, dipende dalla qualità della legge e del processo
giurisdizionale: la sentenza è giusta, la legge è giusta, se sono giuste le procedure.
Ecco il punto da sottolineare, il procedimento legislativo e così il procedimento
giurisdizionale devono essere efficaci affinché il diritto esista secondo la qualità
richiesta per regolare la società, appunto secondo diritto. L’insufficienza delle
tecniche può tradire la proclamata democraticità delle istituzioni; può tradire lo
Stato in principio proclamato di diritto. Negli ultimi decenni è aggravato il
distacco dell’esperienza dalla Costituzione, riducendo il consenso popolare
nelle principali istituzioni: legislazione giurisdizione e governo. Il contenuto
etico del diritto va svaporando nella formulazione di decisioni sempre meno
assunte razionalmente.
a) La funzione legislativa.- La legge stabilisce e indirizza, con generalità ed
astrattezza, l’evoluzione del diritto come sistema organico adeguato alla pratica.
La sua qualità dipende dalla idoneità del procedimento legislativo a consentire
all’opinione pubblica, attraverso le discussioni parlamentari, di maturarne il
contenuto politico. Perciò la redazione dei testi richiede precisa e chiara
evidenza delle scelte politiche, adeguatezza nella composizione del pensiero e
nella espressione linguistica. Anche le leggi meno complesse devono essere
storicamente spiegate, e motivate nel contesto cui sono destinate ad operare;
figuriamoci la legislazione di vasti sistemi da racchiudere in codici, quali
famiglia, società, fallimento. L’improvvisazione fa perdere il controllo del
diritto, rende difficile la comprensione dell’intervento agli stessi parlamentari,
ed impedisce all’opinione pubblica la maturazione politica dei contenuti,
accrescendo i rischi di deviazioni verso soluzioni contingenti di privilegio.
Intesa nei paesi di common law come intervento sul corpo del diritto tradizionale,
ci spieghiamo la maggiore cura nella funzione legislativa: gli studi più
importanti sulla formazione delle leggi ci vengono proprio dai paesi di
common law, ad iniziare da Bentham. Nei paesi di diritto codificato la legge è
stata intesa piuttosto come atto di volontà libera dalle tradizioni e dal sistema
del diritto, la cui espressione non richiede spiegazioni; ma non per questo nei
paesi a noi vicini è trascurato il procedimento legislativo.
Noi invece soffriamo di un procedimento degradato per vizi inerenti
alla sua organizzazione e al suo svolgimento. L’eccessivo numero di
parlamentari ne diluisce l’impegno e la responsabilità politica; il recente sistema
elettorale fa del parlamentare un anonimo per il suo elettore. Mancano istituti
che garantiscano quella qualità tecnica del disegno di legge che permette lo
sviluppo della discussione pubblica sul senso politico delle scelte. Nel
fraintendimento che la redazione del disegno di legge è politica anche
nell’impiego delle parole, della grammatica e nella formulazione del discorso, il
Governo ed il Parlamento non hanno uffici indipendenti deputati
istituzionalmente a dare parere pubblico sulla comprensibilità dei testi, sul loro
coordinamento e sistemazione con il diritto vigente, sul senso delle scelte
politiche nel confronto con le istituzioni tradizionali: sulla stessa idoneità dei
testi a divenire diritto. Accade talvolta che l’approvazione del disegno in
Consiglio dei ministri non sia ancora nella versione definitiva. Ormai le
relazioni ai disegni di legge sono praticamente inutili: limitiamoci a confrontare
la relazione al codice civile del 1942 o la relazione al disegno di riforma delle
società del 1968, con le relazioni che hanno accompagnato di recente le
riforme delle società e del fallimento. Le leggi di delega sono piuttosto un
elenco di propositi, che la precisa formulazione dell’intervento: confrontiamo
la delega per la riforma tributaria del 1971, con le recenti deleghe tributarie. La
formulazione di emendamenti in sede di approvazione delle leggi non costringe
al deposito del testo con congruo anticipo, accompagnato da relazione
esplicativa, soggetta al parere di organo tecnico che possa spiegarne il
contenuto, la portata e la congruità nella sede. È divenuta quasi prassi attendere
le ultime letture della finanziaria annuale per inserirvi emendamenti della più
diversa natura, in modo da agevolarne l’approvazione, stante il rischio che con
l’emendamento cada l’intera legge finanziaria: in questo modo agli stessi
parlamentari riesce incomprensibile il senso delle proposte, che soltanto il
ristretto numero degli interessati possono valutare.
La regolamentazione secondaria è ormai sovrabbondante, di
competenza non soltanto governativa e ministeriale, ma anche delle sempre più
numerose autorità indipendenti; ed è regolamentazione non meramente
esecutiva della legge; le autorità sono abilitate per materia, praticamente senza
vincoli di legge, per l’assenza di principi direttivi. È una regolamentazione della
massima importanza, che trasforma in fonte amministrativa la disciplina
dell’autonomia privata, nonostante la riserva relativa di legge: per il codice
civile le parti sono liberi di concludere il contratto, nei limiti delle leggi, sicché è
la legge che dovrebbe predeterminare specificamente il limite concretamente
introdotto dal regolamento amministrativo; per di più è un potere che le
autorità esercitano senza divisione delle competenze: normativa, giudiziale,
esecutiva. Anche la forma delle circolari può non raramente assumere effettiva
forza di legge. La coscienza di questa problematica è così diffusa che mi affido
all’esperienza e all’intelligenza dei miei interlocutori per cogliere
immediatamente come invece in altri Paesi si cerchi di dare regola per
controllare il sistema delle fonti ed arginare il fenomeno a difesa del potere
legislativo, cioè della sovranità popolare; anche per il principio di imparzialità
del diritto. Inutile dire che questo disordine genera privilegi, distorsioni,
ipocrisie: quante norme transitorie sono servite a sistemare casi specifici, non
dichiarati? Quante leggi abbiamo che predicano una cosa che nel contempo
contraddicono nel dispositivo?
b) La giurisdizione.- Per l’esistenza del diritto non è sufficiente la formale
istituzione del processo. Nel processo civile le parti, assistite dagli avvocati, si
attendono che la sentenza risolvi il conflitto secondo la convinzione che il
giudice si è fatto in seguito alla piena cognizione dei fatti e del diritto, nel
contraddittorio.
Come dobbiamo intendere la qualità della sentenza? Ricostruiamo la
situazione nelle condizioni di funzionalità. Se il caso viene portato al giudizio
della corte è perché le questioni di fatto e di diritto del conflitto non sono
risolubili secondo la prassi, la giurisprudenza e la dottrina consolidata: sono in
definitiva questioni nuove; se così non fosse sarà la stessa corte che
rapidamente darà la sentenza con motivazione tale da rendere inutile, ed
ingiustificato (ad es. ai fini delle spese) l’appello. La particolarità dei fatti e le
novità delle questioni in diritto devono trovare una corte in grado di
approfondire, con il contraddittorio scritto ed orale, la cognizione della causa,
al punto da rendere possibile al giudice di cogliere le sottigliezze della lite: nel
conflitto su questioni nuove le apparenze possono ingannare e sfociare in
conclusioni superficiali. È evidente che questa cognizione da parte del giudice
richiede quella dedizione al caso che può occupare, per i conflitti più
elementari, almeno una giornata; ma indubbiamente serve spesso qualche
giorno, discutendo ed approfondendo con collaboratori, che appunto aiutino a
cogliere, al di là delle apparenze, le particolarità e le sottigliezze. L’avvocato
coscienzioso per studiare la causa del cliente ha bisogno di giornate di lavoro
con i collaboratori; il bisogno non è diverso per il giudice. Salvo incidenti,
l’approfondimento richiede la concentrazione in poche udienze ravvicinate.
Quando l’avvocato deve riprendere dopo anni la causa, ad es. in Cassazione, è
costretto ad iniziare nuovamente il lavoro, disperdendo le fatiche già affrontate.
Soltanto a queste condizioni lo svolgimento della causa permette al giudicante
quella profondità di cognizione da consentire di motivare la sentenza con la
qualità che rende inutile l’appello, o che comunque concentra l’impugnazione
su questioni non pretestuose, facilitando il compito del secondo giudice: la
qualità del primo giudizio ridurrà i casi di impugnazione a quelli davvero utili,
facilitando alla corte l’individuazione dei casi inutili o pretestuosi, per i quali è
sufficiente una rapida cognizione ed una stringata motivazione. Compito
primario della Cassazione è assicurare l’uniformità nella interpretazione del
diritto, per raggiungere l’attendibile certezza delle norme; se il compito è ben
assolto il numero dei ricorsi si riduce. Non è necessario richiamarsi ad
esperienze straniere; anche da noi in passato riscontriamo un analogo
andamento del processo, che oggi ritroviamo nella Corte costituzionale, e
talvolta nel processo ordinario, quando il caso è sotto l’attenzione dell’opinione
pubblica o quando il giudice si appropria della causa, dominando gli stessi
avvocati. In definitiva la qualità del processo e della sentenza riduce il
contenzioso importante, e relega ai giudici inferiori (di pace) le questioni minori
che sviluppa la società nella quotidianità. Non è l’italiano che per razza è
litigioso; sono le condizioni del processo che generano inutile conflittualità.
Ahimè! Il nostro giudice è solitario, assimila il caso senza l’ausilio di
collaboratori; la distanza delle udienze, il numero delle cause della mattinata,
l’affollamento degli avvocati, la massa delle carte, trascina la causa nel
formalismo del rito, convogliando la vicenda alle conclusioni discusse
oralmente su brevi note di sintesi: la lunga traversia del corso passato è
sostanzialmente perdita di tempo. In queste condizioni la bravura della difesa è
nell’efficacia degli argomenti d’effetto; argomenti sottili e ricercati non trovano
il tempo e le condizioni per essere dovutamente compresi, e possono passare
per elucubrazioni. Nella dialettica processuale vince la seduzione
sull’argomentazione; si apre lo spazio per le furbizie processuali. Seguiamo il
corso del processo; per darsi ragione della delineata configurazione è
sufficiente rilevare l’uso delle difese di stendere personalmente il verbale delle
udienze che si ripetono nel rinvio, senza la partecipazione della corte, la cui
presenza è formale; non raramente le perizie divengono un modo per servirsi
di ausiliari nell’approfondire la causa; la causa può durare in primo grado
qualche anno, con il ripetersi di udienze distanziate di mesi, il cui susseguirsi
dipende più che dalle necessità della cognizione, dal ritmo delle formali
scadenze del rito; quando giungiamo alla conclusione troviamo una persona
che forse si è fatta una generica idea della vicenda, che difficilmente ha avuto
modo e tempo di scendere alla piena cognizione, che ha comunque acquisito
dagli scritti accompagnati talvolta da scambi di parole nelle udienze più
significative; è evidente che la discussione dell’ultima udienza, quando si svolge,
può essere la determinante, ma in questo contesto emergono gli argomenti ad
effetto; argomenti troppo sofisticati richiederebbero di nuovo tempo e quello
studio che è mancato. Nel processo domina la casualità; la giustizia si rivela
piuttosto in soluzioni di equità legate al caso che in decisioni in diritto,
inquinato dall’incertezza. Sono le condizioni che generano il numeroso
contenzioso e le ripetute impugnazioni, nel tentare la fortuna; il conflitto si
risolve per successive approssimazioni, che coinvolgono i diversi gradi, con
spreco di costi; con grave danno per il Diritto. Soltanto una procedura
concentrata ed orale risponde alla qualità del diritto, che non dipende dal
codice di procedura ma dalla organizzazione degli uffici, avvocati ecc.
c) La funzione politica.- Politica è ogni scelta di principio; chiunque
quotidianamente decide la sua politica, assumendosi la responsabilità delle
scelte: la famiglia, l’imprenditore, le associazioni, ogni istituzione sviluppa
scelte politiche. In una società democratica i vincoli sociali si costituiscono per
volontà degli individui, nel consenso: per contratto nelle relazioni private; per
l’imposizione unilaterale dello Stato, legittimata dal consenso del cittadino
attraverso i meccanismi democratici del contratto sociale. Perciò la netta
separazione del privato dal pubblico. Il privato è libero nei limiti della legge,
che configura il suo potere come diritto soggettivo; il pubblico è vincolato ai
fini sociali stabiliti dalla legge, che configura il potere amministrativo come
discrezionale: la legge fissa nel diritto la politica generale che il Presidente del
consiglio dirige, per mantenere l’unità d’indirizzo politico e amministrativo.
Il Governo è fondamentale per ottenere che la sintesi delle espressioni
politiche della comunità sia ubicata in un potere d’iniziativa responsabile nei
riguardi della sovranità popolare, nella nostra Costituzione attraverso la fiducia
del Parlamento, la cui maggioranza è così coinvolta nella funzione governativa.
Perciò la dipendenza del pubblico dalle istituzioni politiche, fondate sulla
sovranità popolare; perciò la concentrazione sulle istituzioni politiche della
funzione di governo. È il modello che ispira la Costituzione, compromesso
dalla crisi della funzione di governo, decisamente aggravata quando, dissolto il
c.d. fattore K, che nel contesto della guerra fredda praticamente congelava
l’elettorato comunista, non si è saputo introdurre rapidamente un sistema
elettorale in grado di costringere le ideologie politiche e le correnti d’interessi in
istituzioni che si propongono all’elettorato alternative nella scelta della
maggioranza, avviando un processo di legittimazione elettorale del primo
ministro. Se forse questo processo si era avviato con la precedente legge
elettorale, è stato compromesso dalla attuale legge. Attraverso l’iniziativa
legislativa il governo è responsabile della qualità dell’ordine giuridico, del valore
etico del diritto. La debolezza del Governo nella sintesi politica, affaticato a
decantare nell’indipendenza decisioni di politica istituzionale, apre un vuoto
che facilmente occupano interessi corporativi, tra i quali si disperdono le sedi di
decisioni politiche, nella moltiplicazione incoerente. Con la debolezza della
funzione di governo si dissolve la responsabilità politica nei confronti di un
elettore che può solo imputare genericamente e demagogicamente alla classe
politica l’insoddisfazione per l’esperienza politica che non riesce a capire e
controllare. Il diritto degrada.
14.- E’ fatale l’annullamento del diritto rappresentato nel nichilismo giuridico?La realtà che viviamo nell’esperienza è ribelle al riordinamento? Al
riordinamento secondo le fondamentali caratteristiche tradizionali dello Stato
di diritto democratico, inserito nel mondo globale, secondo l’idea liberale. È
una realtà di cui dobbiamo soltanto prendere atto, ma che ci vede passivi
spettatori? Realtà che possiamo intellettualmente recepire in una teoria, ad es.
nella decodificazione, dinanzi alla quale tuttavia rinunciamo all’azione,
abbandonandoci nel nichilismo giuridico, come se quanto accade dipenda dalla
natura casuale delle cose; simili ai fatalisti di moda negli anni ’20, spettatori
delle crisi del ‘900, strumenti della demagogia nell’obiettivo di distruggere
razionalmente le istituzioni liberali. Non credo al destino ineluttabile delle cose
umane. Il degrado del diritto che viviamo nell’esperienza è realtà istituzionale,
creata dall’uomo, politicamente orientabile e modificabile secondo la
composizione delle forze politiche che indirizzano lo Stato. Accade altrove di
verificare le difficoltà di gestire un mondo più complesso del passato, ma nella
nostra esperienza è grave la scarsa capacità di reazione all’ipertrofia della
degenerazione. Non sono sbagliate le istituzioni liberali; il loro degrado, che
significa il degrado dei valori da esse impersonate, è tut’altro che irreparabile,
purché si sappia lavorare su quelli che possono apparire dettagli tecnici. Invece di
affidarci all’etica come alternativa ai sistemi giuridici dichiarati obsoleti,
dedichiamoci con impegno alla politica per ricostruire il diritto secondo l’etica
della solidarietà.