Le ragioni di un convegno

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JUS CIVILE
GIOVANNI D’AMICO
LE RAGIONI DI UN CONVEGNO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le questioni da affrontare in un convegno su “Proprietà e diritto europeo”: a)
quale spazio per una disciplina “europea” della proprietà? ‒ 3. (Segue): b) l’ambito di applicazione dell’art.
17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. ‒ 4. (Segue): c) art. 17 CDFUE e art. 42 Cost.
(una distanza veramente radicale e incolmabile?).
1. – Indicare, nello spazio di un brevissimo Intervento (che vuole essere soprattutto di saluto
e di ringraziamento) le “ragioni” del Convegno che fra qualche minuto avrà inizio non è
evidentemente un compito facile. Queste ragioni – oltre tutto – ben più autorevolmente che dalle
mie parole emergeranno dalle Relazioni degli illustri e autorevolissimi Maestri e studiosi che
hanno accettato di prendere parte all’iniziativa odierna, e ai quali va la mia più sincera gratitudine.
Le indicazioni che seguiranno costituiscono pertanto solo una giustificazione – da parte di
chi vi parla – di alcune scelte che traspaiono dal programma predisposto per il nostro Incontro, e
che costituiscono l’esplicitazione di un ideale “inventario di problemi” che mi sono parsi meritevoli di essere presi in considerazione in relazione al tema prescelto.
Proverò a riassumere, in estrema sintesi (e scusandomi per la inevitabile approssimazione)
questo elenco di problemi, indicato attraverso una corrispondente serie di domande.
2. – a) La prima questione che sembra dover essere posta consiste nel chiedersi quale sia lo
spazio che attualmente ha (e/o potrà avere nel prossimo futuro) una disciplina “europea” (o –
come si sarebbe detto sino a qualche anno fa – “comunitaria”) del diritto di proprietà.
Come è noto, l’art. 222 del Trattato di Roma del 25 marzo 1957 istitutivo della Comunità
Economica Europea – poi divenuto l’art. 295 nella nuova numerazione stabilita dal Trattato di
Amsterdam del 1997, e, oggi, (dopo il Trattato di Lisbona del 2007) costituente l’art. 345 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ‒ stabilisce che «I Trattati lasciano del tutto
impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».
Stando alla lettera di questa disposizione sembrerebbe che l’Unione europea lasci ai legislatori nazionali il compito di regolare la proprietà (o, comunque, non lo attribuisca all’Unione
stessa) 1. È proprio così, oppure – come anche è stato scritto 2 ‒ la disposizione in esame è
1
Il significato dell’art. 222 Trattato CEE potrebbe, in realtà essere diverso. Come è stato infatti sottolineato
(cfr. L. NIVARRA, La proprietà europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, in AA.VV., Diritto civile e
principi costituzionali europei e italiani a cura di C. Salvi, Torino 2012, 203 ss., 212) questa norma fu in realtà
dettata «dall’esigenza di consentire agli Stati, ove lo avessero ritenuto opportuno, di procedere alla nazionalizzazione delle imprese».
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soltanto una formulazione del principio di sussidiarietà (onde essa – anche in base alla teoria
dei cc.dd. «poteri impliciti» ‒ non esclude affatto che l’Unione possa occuparsi di (disciplinare
la) proprietà)?
E quali sono i profili della disciplina proprietaria che potrebbero essere (eventualmente) insuscettibili di una regolamentazione adeguata a livello di singoli ordinamenti nazionali, tanto da
richiedere (e da giustificare) un intervento del legislatore sovrannazionale 3?
Ecco la prima questione (che, a sua volta, si traduce in una serie di domande) che può formularsi in relazione al tema del nostro Incontro.
Del resto, bisogna subito aggiungere a quanto appena detto che il c.d. «principio di neutralità» ha sin qui impedito 4 quella che si potrebbe chiamare (una) «regolamentazione diretta» del
diritto di proprietà (e dei diritti reali in genere), che difatti è pressoché assente nell’ordinamento
comunitario 5, ma non ha impedito invece che, nella regolamentazione di altre materie, il
Lasciare impregiudicato il «regime di proprietà» significava, dunque, impegno a non interferire con le
scelte dei singoli ordinamenti circa la configurazione, in relazione a determinati beni, di una proprietà “privata”
o al contrario di una proprietà “pubblica”.
Ne consegue che la disposizione in esame potrebbe anche non essere letta (come, invece, solitamente si fa)
nel senso di una esclusione della competenza dell’Unione nella disciplina del «diritto di proprietà» (e in
particolare del diritto di proprietà privata).
Per la necessità di distinguere «regime di proprietà», «tutela della proprietà» e «diritto di proprietà» cfr. M.
JAEGER, Il diritto di proprietà nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in AA.VV.,
Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani, cit., 25 ss., 27.
2
M. TRIMARCHI, La proprietà: profili generali, in C. CASTRONOVO, S. MAZZAMUTO (a cura di), Manuale
di diritto privato europeo, Milano 2007, 3.
3
Senza alcuna pretesa di rispondere alla domanda appena posta, quel che si può forse dire è che è facile
prevedere che continuerà ancora per lungo tempo a mancare una disciplina europea uniforme in materia di
proprietà, quanto meno una disciplina “organica”, quale siamo abituati a trovare nel codice civile (modi di
acquisto, contenuto del diritto, limiti nell’interesse pubblico e nell’interesse privato, ecc.) –, disciplina che
verrà lasciata ai legislatori nazionali. Più facile che si pervenga (prima o poi) alla formulazione di discipline
specifiche, relative a “beni” particolari.
4
Ammesso che l’impedimento sia dipeso veramente da tale principio quale formulato nel cit. art. 222
Trattato CEE), e non piuttosto da altri fattori (v. anche la nota 1).
5
Se si prescinde dalla disciplina della c.d. «proprietà intellettuale», che l’art. 17 della Carta di Nizza
assimila ora alla proprietà tout court (il che – come è stato scritto ‒ «ha il valore di un pieno riconoscimento del
prevalente carattere immateriale assunto dalla ricchezza del terzo capitalismo»: così L. NIVARRA, La proprietà
europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, cit., 238).
È bene avvertire che le considerazioni che seguono si riferiscono alla nozione “tradizionale” della proprietà
(la proprietà avente ad oggetto “cose”, ossia entità materiali), il che non soltanto esclude da tali considerazioni
la «proprietà intellettuale», ma altresì tutta una serie di altre “entità” e/o utilità connesse a cose (ad es.: avviamento di impresa) ovvero di “diritti” e/o aspettative (es.: diritti a prestazioni sociali), che sono bensì componenti del “patrimonio” (e cioè “beni”), ma non costituiscono oggetto di “proprietà” (almeno nell’accezione di
questo termine propria del sistemi di civil law; assai più ampia è la nozione di property nei sistemi di common
law, nozione alla quale si avvicina la nozione “economica” di proprietà).
Questa nozione ampia è stata fatta propria anche dalla Corte EDU nella interpretazione/ applicazione del
Primo protocollo aggiuntivo (e della formula «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi
beni»; la corrispondente formula dell’art. 17 della Carta di Nizza, recita – come è noto – che «Ogni persona ha
il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente …»). Come è stato evidenziato (da
2
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legislatore europeo abbia potuto dettare regole che hanno interferito e hanno avuto incidenza
anche sul regime dei beni.
Si è giustamente osservato che «politiche ed interventi normativi in materia di moneta, beni
culturali, commercio, libera circolazione, trasporti, agricoltura, concorrenza, beni immateriali
…, inevitabilmente, finiscono per investire anche la disciplina della proprietà ...» 6. È persino
ovvio che sarebbe impossibile immaginare che la proprietà possa restare completamente estranea a (e non essere toccata da) interventi del legislatore europeo nei settori appena indicati, e in
altri che potrebbero immaginarsi.
E, del resto, è proprio in vicende di questo genere che il diritto di proprietà è stato invocato
ed è venuto in rilievo nella giurisprudenza della Corte di giustizia anteriore alla promulgazione
della Carta di Nizza 7.
Marc JAEGER, Il diritto di proprietà nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in
AA.VV., Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani, cit., 25 ss., 32) «la CorEDU ha rivendicato
sin dall’origine una nozione di bene autonoma e più ampia rispetto a quella nazionale. Nel caso Gasus Dossier
und Fördertecknik (1995) essa andò oltre la qualificazione formale del presunto diritto violato (che non era un
diritto di proprietà ma un diritto reale di garanzia), affermando che la nozione di bene non dovesse coincidere
con quella elaborata a livello nazionale. In seguito la CorEDU ha ulteriormente esteso la propria interpretazione, considerando “beni” ai sensi dell’art. 1 anche i diritti reali di godimento quali le servitù e l’enfiteusi, i diritti di credito definitivi e quelli per i quali un soggetto vanti un’aspettativa legittima di concretizzazione (ad es.
le partecipazioni sociali, la clientela, e lo sfruttamento di una licenza di vendita di bibite alcoliche), nonché gli
interessi derivanti dall’autorizzazione ad esercitare certe attività economiche (queste ultime, più che diritti in
senso stretto, interessi economici). Insomma, la CorEDU ha inteso la nozione di bene in termini particolarmente estensivi».
6
Così M. TRIMARCHI, I beni e le proprietà, in A. TIZZANO, Il diritto privato dell’Unione europea, I, in
Trattato di diritto privato Bessone, XXVI, Torino, 2000, 164 (e v. anche ID., Proprietà e diritto europeo, in
Eur. dir. priv., 2002, 711).
È chiaro che – se si considerano anche questi interventi, spesso relativi ad ambiti diversi dal diritto di proprietà oppure riferentisi a situazioni “proprietarie” abbastanza circoscritte e particolari (si pensi, ad es., quanto
al primo profilo, alle misure di “polizia sanitaria”, comportanti l’obbligo di abbattimento di animali affetti in
atto o potenzialmente da “encefalopatia spongiforme bovina”, misure previste a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso da numerose direttive, poi raggruppate in un testo unico dal reg. n. 99 del 2001, di cui si occupava
la sentenza Agrarproduktion Staebelow [Corte di giustizia CE 12 gennaio 2006, n. 504]; oppure, passando al
secondo profilo, alle numerose “decisioni” della Commissione relative a casi specifici e circoscritti, che hanno
dato origine ad altrettante pronunce della Corte di giustizia, come ad es. la famosa sentenza Nold, relativa al
regime di commercializzazione del carbone prodotto nella Ruhr), come «disciplina (regolazione) europea del
diritto di proprietà», la portata del principio di neutralità di cui all’art. 345 TFUE appare effettivamente molto
ridimensionata.
7
Sul punto torneremo anche più avanti. Anticipiamo qui che, in molte delle sentenze della Corte di giustizia che vengono solitamente indicate come relative al diritto di proprietà l’interesse «generale» (di natura “pubblica”) alla limitazione del diritto di “proprietà” (ma – assai spesso– si trattava, in realtà, di limitazione alla
“libertà di iniziativa economica”), derivava dalla necessità di adottare “misure” (attraverso regolamenti comunitari, o decisioni della Commissione) – come ad es. limitazioni alla produzione di determinati “beni” (le c.d.
«quote»), o l’imposizione di “prezzi minimi” (a sostegno del reddito dei produttori) ‒ a protezione di determinati mercati, entrati in crisi (a causa di fenomeni di «sovrapproduzione») in alcuni casi proprio per effetto
della creazione del «mercato comune» (cfr. M. JAEGER, Il diritto di proprietà nella giurisprudenza della Corte
di giustizia dell’Unione europea, cit., 32: «… l’instaurazione di un’organizzazione dei mercati comune, da cui
derivò una riduzione obbligatoria della produzione, la previsione di quote di produzione e l’imposizione di
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In questa giurisprudenza, la Corte di giustizia ha assunto (da un certo momento in poi) il
diritto di proprietà come «diritto fondamentale» appartenente alla «tradizioni costituzionali comuni» dei Paesi membri, e costituente pertanto ‒ come tale ‒ un principio generale dell’ordinamento europeo (che la stessa Corte di giustizia ha provveduto a plasmare nel suo contenuto,
interpretando quelle “tradizioni costituzionali”).
Oggi, il parametro di riferimento per operare il “controllo di legittimità” degli interventi incidenti sul diritto di proprietà è costituito ormai da un testo formalizzato (l’art. 17 della Carta di
Nizza), che ha sì (come buona parte delle norme della Carta) un contenuto “ricognitivo” di quelle tradizioni costituzionali comuni 8 di cui si è appena detto, ma è comunque un enunciato normativo “autonomo”, che (almeno entro certi limiti) “cristallizza” una particolare “interpretazione” delle suddette tradizioni. Non sottacendo, comunque – sin da ora – che a molti autori l’art.
17 è apparso “lontanissimo” (sia nella lettera che nello spirito) dal testo di non poche Costituzioni
europee (come quella italiana o quella tedesca, per citarne alcune). Con la correlativa preoccupazione che la tutela della proprietà ‒ a livello di ordinamento europeo ‒ smarrisca quella
dimensione «sociale» che caratterizza appunto molte delle Costituzioni del vecchio continente.
3. – b) Prima di accennare al problema che si è da ultimo evocato, conviene chiedersi preliminarmente (ed è la seconda questione che si intende segnalare) quale sia l’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 17 della Carta di Nizza.
Si potrebbe, sotto un certo profilo, ritenere che attraverso l’art. 17 sia ormai introdotta –
nell’ordinamento dell’Unione europea ‒ quella «regolamentazione diretta» (sia pure “generalissima” e “di principio”) del diritto di proprietà (con una norma che – come tutte quelle contenute nella Carta dei diritti fondamentali – ha oltre tutto, in base al comma 1 dell’art. 6 del
Trattato di Lisbona, «lo stesso valore giuridico dei trattati») che sin qui non era stata dettata (v.
supra). Tale disciplina, inoltre – proprio perché contenente la “garanzia” di un «diritto fondamentale» (più precisamente, seguendo la sistematica della Carta di Nizza, di un «diritto di
libertà») ‒ sarebbe naturaliter delimitativa del potere del “legislatore” (non solo di quello europeo, ma – eventualmente ‒ anche di quello nazionale, come pure dei giudici dei singoli ordinamenti 9, e costituirebbe criterio immediato di valutazione della “legittimità” dei vari regimi
prezzi minimi provocarono numerosi ricorsi nei quali gli operatori economici rivendicavano sulla base del
diritto di proprietà la tutela degli interessi economici acquisiti prima dell’integrazione …»).
Ed è appunto a difesa dei principi su cui si basa(va) tale «mercato comune» (libertà di circolazione delle
merci, dei capitali, del lavoro, ecc.) che la Corte di giustizia ha (in questa sua giurisprudenza) quasi sempre
giustificato il “sacrificio” del diritto di proprietà (ma – si ripete ‒, il vero diritto che subiva limitazioni era la
libertà di iniziativa economica) conseguente all’adozione delle misure suddette.
8
Che sono richiamate significativamente nell’art. 524 della medesima Carta, secondo cui «laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
9
4
La funzione di regola (direttamente applicabile, e dunque) vincolante per i giudici dei singoli ordinamenti
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proprietari configurati nei diversi ordinamenti nazionali (e in relazione ai diversi beni). Detto
altrimenti: l’art. 17 potrebbe (a seguire un siffatto modo di ragionare) leggersi come una
disposizione che ha abrogato tacitamente l’art. 345 TFUE, perché portatrice di un contenuto
normativo che (in ipotesi) può “pregiudicare” (ponendosi come parametro di valutazione e di
sindacato di legittimità, in difformità dal sopra ricordato «principio di neutralità») il regime di
proprietà esistente negli Stati membri 10.
Ma: è proprio così?
A leggere il comma 2 del medesimo art. 6 ‒ secondo il quale «Le disposizioni della Carta
non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati» ‒ la risposta
sembrerebbe dover essere negativa.
E una conferma in tal senso viene dall’art. 51, par. 1, della Carta di Nizza, ai sensi del quale
le previsioni contenute nella Carta (e, dunque, anche l’art. 17) «si applicano alle istituzioni,
organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati
membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione 11. Pertanto, i suddetti soggetti
rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive
competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati» 12.
si può affermare – seguendo il ragionamento che si ipotizza nel testo ‒ per quelle parti dell’art. 17 che contengano una disciplina sufficientemente “dettagliata”.
Rispondono a questi requisiti – ci si potrebbe chiedere – formule come «giusta indennità», o «pagamento in
tempo utile» ? Se si dà a questa domanda una risposta negativa, l’art. 17 – pur mantenendo il suo valore di
“norma di principio” ‒ non potrebbe legittimare (o, addirittura, rendere doveroso per) i giudici la
disapplicazione delle norme nazionali che essi riconoscessero eventualmente in contrasto con i “principi”
stabiliti nell’art. 17 (almeno sin quando non intervenga una “concretizzazione” di tali principi ad opera della
Corte di giustizia).
10
Un analogo effetto di abrogazione tacita dell’art. 345 TFUE viene da alcuni Autori (es. Trimarchi)
ricollegato – come abbiamo già ricordato ‒ alle varie norme con cui, nel tempo, la UE ha introdotto limiti
incidenti sul regime (di godimento e di disposizione) di determinati beni.
11
Sull’art. 51 Carta di Nizza cfr. anche Corte cost., sent. n. 80/2011, dove si sottolinea come la Carta dei
diritti rilevi «unicamente in rapporto alle fattispecie in cui il diritto dell’Unione è applicabile, e non anche alle
fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale» (sulla sent. n. 80/2011 – che come è stato detto è un po’
«una pronunzia-summa del pensiero della Corte in tema di rapporti interordinamentali» ‒ v., fra gli altri, i
commenti di A. RUGGERI, La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della Carta di NizzaStrasburgo, in www.forumcostituzionale.it, 2011; A. RANDAZZO, Brevi note a margine della sentenza n.
80/2011 della Corte costituzionale, in www.consultaonline.it, 2011; M. CERASE, Brevi riflessioni sull’efficacia
orizzontale della Carta di Nizza, in www.europeanrights.it, 2011). Per il giudice delle leggi la condizione che
la fattispecie ricada nell’ambito di attuazione del diritto europeo si verifica quando il caso non sia disciplinato
esclusivamente da norme interne prive di ogni legame con il diritto europeo, ma appaia «inerente ad atti
dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione ovvero alle
giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto
dell’Unione».
12
Si è osservato – in generale ‒ che le modifiche che la Carta di Nizza ha subito a Strasburgo in vista della
conclusione dei lavori di Lisbona, sono state rivolte a sottolineare l’incapacità del Bill of Rights di ampliare i
campi di intervento dell’Unione ed a enfatizzare i limiti che i giudici nazionali incontrano nel dare ad esso
applicazione, sicché «forte è l’impressione che il senso complessivo dell’operazione sia stato quello di fissare
dei “contrappesi” al riconoscimento del legal value, tanto più che la medesima prospettiva “ridimensionante”
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Né si potrebbe dire che, poiché l’art. 17 (sul diritto di proprietà) fa parte del «diritto
dell’Unione», i regimi giuridici che i singoli ordinamenti nazionali prevedono (o prevederanno
in futuro) in materia di proprietà si possono considerare (d’ora in poi, e – si badi ‒ in relazione
all’intera disciplina che essi danno alla materia proprietaria) «attuazione del diritto dell’Unione» 13. È evidente che una simile interpretazione sarebbe speciosa, e si risolverebbe nell’affermare l’applicabilità tout court (e sempre) dell’art. 17 (come di qualsiasi altra norma della Carta
dei diritti fondamentali) per sindacare qualsiasi normativa nazionale avente ad oggetto il (o, comunque, incidente sul) diritto di proprietà (o ad altro diritto fondamentale) 14, anche se propriamente non relativa alla «attuazione del diritto dell’Unione», in tal modo ponendosi in palese
contrasto con la finalità de-limitativa («… esclusivamente nell’attuazione …») che emerge dal
tenore letterale della disposizione in esame 15.
viene ribadita ad abundantiam – “quasi ossessivamente” (Paciotti) – dallo stesso Trattato, laddove esso
conferma che al catalogo di Nizza-Strasburgo non può guardarsi come a uno strumento di tutela dei diritti
fondamentali oltre le competenze dell’Unione (art. 6, comma 1, par. 2, TUE; Dichiarazione n. 1, allegata
all’atto finale)» (così C. SALAZAR, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un
tormentato passato… a un incerto presente?, su www.gruppodipisa.it/wp-content/uploads/2011/12/SALAZARdiritti-sociali-2011.pdf.
In questa prospettiva va letta (a parte la discutibile distinzione tra «diritti» e «principi», affidata alla famosa
formula delle Spiegazioni, secondo cui «i diritti si rispettano, i principi si osservano»), la (ulteriore) previsione
contenuta nel comma 6 dell’art. 52, secondo cui le disposizioni della Carta che contengono princìpi possono
essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità degli atti degli
Stati membri che diano attuazione al diritto dell’Unione. Ora, è vero (come è stato rilevato sempre dalla
Salazar, nello scritto poc’anzi citato) che «Tale disposizione appare persino un po’ ingenua nel suo tentativo di
depotenziare la Carta, in quanto presuppone, per un verso, che sia sempre facile la distinzione netta tra princìpi
e regole e, per l’altro, che restando nei (per così dire) limiti dell’interpretazione e del “controllo di legalità” il
giudice si riduca a mera “bocca della legge”», ma è anche vero che essa conferma una distinzione di ambiti di
applicazione, che potrebbe essere facilmente aggirata se non valesse anche per i «principi» (oltre che per le
«regole») contenuti nella Carta la delimitazione dell’ambito di applicazione di cui si parla nel testo.
13
È significativo – del resto – che dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di proprietà
emerga chiaramente che le pronunce dei giudici di Lussemburgo hanno (quasi sempre) riguardato atti
dell’Unione (ad es.: decisioni della Commissione) ovvero regolamenti comunitari (dunque, atti normativi,
ancora una volta riferibili direttamente all’Unione europea).
E come abbiamo già detto nella nota precedente, i dati che emergono dal gran numero di ordinanze di
inammissibilità emesse dalla Corte di giustizia confermano che il sindacato ex art. 117 Carta di Nizza può
riguardare atti normativi e/o provvedimenti (amministrativi) promananti da (organi di) un singolo Stato
nazionale solo in ipotesi ben delimitate (e certamente non con carattere di generalità).
14
Parrebbe assecondare una simile argomentazione L. NIVARRA, La proprietà europea tra controriforma e
“rivoluzione passiva”, cit., 215, laddove l’autore afferma che l’interrogativo circa la permanente vigenza del
c.d. «principio di neutralità» riveste oggi «una portata, in larga misura, soltanto retorica, dal momento che l’art.
6 TUE attribuisce alla CDFUE (Carta dir. fond. Unione europea) lo stesso valore giuridico dei Trattati: ciò che
rende la medesima CDFUE l’unica fonte vincolante diretta in materia di diritti fondamentali …» (almeno sin
quando non si sarà perfezionata l’adesione della UE alla CEDU).
L’affermazione (che abbiamo evidenziato in corsivo) non ci sembra corretta perché parrebbe escludere
qualsiasi (residua) competenza delle Carte costituzionali nazionali: il che francamente sembra non vero.
15
Nelle Spiegazioni allegate alla Carta, con riferimento al paragrafo 1 dell’art. 51, si legge che «si tratta di
un principio già affermato dalla Corte di giustizia relativamente ai diritti fondamentali riconosciuti come parte
integrante del diritto dell’Unione (sentenza 17 febbraio 1998, C-249/96 Grant, Racc. 1998, pag. I-621, punto 45
6
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Detto ciò, non si può trascurare ‒ sotto il profilo adesso considerato ‒ che può risultare (in
taluni casi e/o in concreto) difficile tracciare una linea distintiva netta tra ciò che costituisce
“attuazione del diritto dell’Unione” e ciò che è regola (o complesso di regole) meramente
“interna” 16. Ma questa difficoltà – che pur sussiste effettivamente ‒ non dovrebbe condurre ad
obliterare del tutto la possibilità (e, forse, la opportunità, se non anche la necessità) di tenere
ferma la distinzione tra l’ipotesi in cui la protezione di un diritto fondamentale è giusto che
ricada sotto l’egida dell’ordinamento dell’Unione (e, in particolare, delle norme della Carta di
Nizza) in quanto quel diritto trova svolgimento in ambiti che rientrano nella “competenza” dell’Unione (e, dunque, per ciò stesso, manifestano l’esigenza di una regolamentazione uniforme
ed omogenea), e la (diversa) ipotesi nella quale – non vertendosi in un ambito che costituisca
“attuazione del diritto del’Unione” ‒ è ben possibile che la protezione del «diritto fondamentale» si realizzi (di norma) esclusivamente attraverso le norme costituzionali “interne” 17.
Il che ‒ va subito aggiunto ‒ non è detto, poi, che si risolva in un minus di tutela, tanto è vero
che l’art. 53 della Carta di Nizza ‒ stabilendo che «Nessuna disposizione della presente Carta
deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto
della motivazione). Secondo tale principio va da sé che il rinvio alla Carta nell’articolo 6 del trattato
sull’Unione europea non può essere inteso come un’estensione automatica della gamma degli interventi degli
Stati membri che vanno considerati “attuazione del diritto dell’Unione” (ai sensi del paragrafo 1 e della
giurisprudenza citata)» (enfasi aggiunta).
16
E cfr. G. STROZZI, Diritto dell’Unione europea, Torino, 2009, 300 il quale osserva che «l’eccezione, o la
“difesa”, basata sul rispetto delle sfere di competenza e sulle situazioni puramente interne tende progressivamente a perdere di consistenza e di precisione per due ordini di ragioni: si pensi in primo luogo al progredire
e all’ampliarsi del processo di integrazione, al completamento e all’ampliamento del mercato interno in via di
costante evoluzione nei suoi molteplici aspetti, agli sforzi tendenti alla creazione di uno spazio giuridico
europeo; si pensi in particolare all”affermarsi della cittadinanza europea e all’ampio ventaglio di situazioni
connesse allo status di cittadino europeo ... In secondo luogo, per la più recente giurisprudenza della Corte di
giustizia, dalla quale emerge una netta tendenza a fare emergere, anche in situazioni qualificabili come puramente interne … il nesso fra la tutela di un diritto e l’ordinamento comunitario, consentendo per tale via agli
individui di invocare ugualmente le garanzie previste da questo ordinamento …».
Anche A. RUGGERI, Corte Costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in
Quad. europ., 2010, 41, rileva che «la logica di una rigida separazione degli ordinamenti (e, per ciò pure, delle
sfere di competenza delle relative Corti) non ha ormai più alcun senso, se mai ne ha avuto. È vero che gli stessi
ordinamenti parrebbero accreditarla; e basti solo pensare alla perdurante vigenza del principio di attribuzione in
ordine ai riparti di materie e funzioni tra Unione e Stati, come pure – per ciò che specificamente attiene alla
salvaguardia dei diritti – al principio secondo cui la stessa Carta dei diritti dell’Unione dichiara di poter valere
unicamente negli ambiti materiali di competenza dell’Unione stessa. E, tuttavia, l’esperienza ormai insegna che
separare a colpi di accetta gli ambiti stessi è impresa vana, i rapporti, piuttosto, essendo governati da canoni
volti a renderne quanto più possibile duttile lo svolgimento e mobili i confini dei campi».
17
Certo, è poi possibile che anche gli ambiti ai quali l’art. 17 non è direttamente riferibile (onde non può
porsi un problema di “disapplicazione” del diritto interno per contrasto con detta norma, almeno nella parte in
cui la stessa possa ritenersi contenere disposizioni sufficientemente precise e dettagliate) possano per altro
verso ricadere nell’ambito di applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Ma, in tal
caso, spetterà eventualmente alla Corte costituzionale accertare il contrasto tra la normativa interna e la tutela
che un certo diritto fondamentale riceve attraverso la CEDU.
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internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri
sono parti, in particolare dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle Libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri» ‒ implicitamente ammette
che le Costituzioni degli Stati membri possano (occasionalmente) assicurare a un diritto fondamentale una protezione più ampia di quella che è prevista (nell’ambito di propria “competenza”) dalla Carta di Nizza 18.
E, del resto, quando pure questo avvenga, ciò sarà dovuto – verisimilmente – alla correlativa
maggiore protezione che (nel “bilanciamento” con il diritto di cui trattasi) la Costituzione di un
determinato ordinamento nazionale ritenga di accordare ad un altro interesse e diritto fondamentale (ad es. a un interesse della persona). E non v’è ragione – quando appunto non vengano
in rilievo esigenze di “armonizzazione” europea (e, quindi, non si tratti di risolvere “conflitti”
rilevanti in relazione agli obiettivi che si propone l’ordinamento comunitario) ‒ per far prevalere
la visione “europea” di quel diritto rispetto alla visione propria dei singoli ordinamenti nazionali 19.
18
Si tenga presente, comunque, l’acuta osservazione di Zagrebelsky, laddove l’illustre a. evidenzia che «la
nozione … di “livello di protezione” risulta spesso e, quel che è più grave in casi di importanza massima,
insufficiente. È una nozione ‒ si è aggiunto ‒ che poteva forse valere soddisfacentemente quando i diritti operavano, secondo la loro concezione classica liberale, come limitazione negativa del potere pubblico al servizio della intangibilità di ambiti di interesse e di attività libere, riservate al (potere) privato», mentre in tutti
quei casi in cui «siamo di fronte non a singoli diritti, ma a situazioni di conflitto tra diritti che sono sciolte all’interno di equilibri resi possibili da istituti e istituzioni giuridiche, il criterio della maggiore o minore protezione dei diritti è completamente fuori gioco» (così G. ZAGREBELSKY, Intervento in AA.VV., Le libertà e i
diritti nella prospettiva europea, Padova, 2002, 64 ss.). Il che significa – detto altrimenti ‒ che il più delle volte
la maggiore (o minore) tutela che risulti garantita ad un diritto fondamentale dipende dal maggiore (o minore)
“sacrificio” che si ritenga (nel “bilanciamento” con il diritto in questione) di dover imporre ad un altro interesse
(o valore) fondamentale.
In senso analogo si veda U. VILLANI, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Bari, 2011, 48, laddove
questo a. rileva che «spesso … le divergenze dipendono da limitazioni ai diritti dovute all’esigenza di tutelare
altri valori sentiti in determinati contesti sociali come fondamentali (per esempio, la concezione della famiglia
come fondata sul matrimonio eterosessuale), o dal differente bilanciamento che, in ciascun sistema di protezione, esiste tra differenti diritti, per esempio tra il diritto all’informazione e quello alla riservatezza. Specie in
quest’ultima ipotesi le divergenze tra i sistemi di tutela non possono risolversi in base al maggiore o minore
grado di protezione, perché alla maggiore tutela di un diritto corrisponde necessariamente la minore tutela
dell’altro».
Sulla necessità di effettuare una valutazione non tra le singole situazioni giuridiche soggettive che vengono
di volta in volta in rilievo, ma alla luce dell’intero sistema dei diritti fondamentali, si veda anche Corte
costituzionale, 4 dicembre 2009, n. 317 (Pres. Amirante, rel. Silvestri).
19
Merita qui di essere ricordato il Preambolo della Carta di Nizza, nel quale si afferma che l’Unione
contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo di una serie di valori indivisibili e universali «nel rispetto della
diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati membri
e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale» (e per un altro riferimento
alla «identità nazionale» cfr. il comma 2 dell’art. 4 TUE, ai sensi del quale «l’Unione rispetta l’uguaglianza
degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale,
politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali»).
Ed è significativa, altresì, la norma dettata dall’art. 524 della medesima Carta, secondo cui «laddove la
presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
8
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JUS CIVILE
Né – si badi bene ‒ questo “ambito di competenza” delle Costituzioni nazionali è destinato a
venir meno una volta che la UE avrà aderito (in conformità a quanto previsto dall’art. 6, comma
2, TUE) alla CEDU, come pur si è affermato osservandosi che «a quel momento le disposizioni
di quest’ultima, così come interpretate a Strasburgo, attingeranno direttamente rango costituzionale, incontrando pertanto solo i limiti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e
dei diritti inalienabili della persona» 20.
È agevole replicare a tale affermazione che è bensì vero che, avvenuta la adesione della UE
alla CEDU, il contrasto di norme interne con i principi della Carta europea dei diritti dell’uomo
potrà dar luogo alla diretta “disapplicazione” delle prime da parte dei giudici nazionali, ma
(esattamente come per le norme della Carta di Nizza) ciò avverrà, comunque, esclusivamente
nell’ambito delle materie che possano ritenersi costituire «attuazione del diritto dell’Unione» 21.
Per le materie invece che siano regolate da normative meramente “interne” l’eventuale contrasto
con un «diritto fondamentale» tutelato dalla Carta EDU continuerà a non poter essere neutralizzato dal giudice attraverso la (diretta) disapplicazione della norma interna, ma dovrà essere
eliminato attraverso la proposizione di un giudizio di legittimità innanzi alla nostra Corte
costituzionale, giudizio nel quale la norma della CEDU funzionerà da «norma interposta» 22.
4. – c) Veniamo così alla terza questione che merita di essere segnalata, e che si incentra
nella domanda se sia vero che la concezione (europea) del diritto di proprietà come «diritto fondamentale» (concezione – si ripete – operante e vincolante, per quanto riguarda i legislatori e i
giudici nazionali, solo nell’ambito di “conflitti” che risultino rilevanti in relazione agli obiettivi
dell’ordinamento comunitario) sia veramente così lontana dal modo di concepire la «proprietà
privata» nelle (o in alcune delle) Carte costituzionali nazionali, come sovente si afferma.
membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
20
L’affermazione riportata nel testo è di L. NIVARRA, La proprietà europea tra controriforma e
“rivoluzione passiva”, cit., 209.
21
E sempreché la norma della CEDU da “sostituire” alla norma interna disapplicata sia effettivamente
individuabile: il che implica che la disposizione CEDU che tutela un determinato «diritto fondamentale» sia
sufficientemente “precisa” da consentire di essere (immediatamente e direttamente) “applicabile” al caso, in
modo tale da poterne dare una regolamentazione adeguata.
22
Non è, pertanto, condivisibile neanche quest’altra affermazione di L. NIVARRA, La proprietà europea tra
controriforma e “rivoluzione passiva”, cit., 208 e nt. 17, secondo il quale «una volta perfezionatasi l’adesione
dell’Unione europea alla CEDU, la dottrina della norma interposta non avrà più ragion d’essere perché saranno
i giudici ordinari a disapplicare le norme interne in contrasto con quelle della Convenzione».
Come precisiamo nel testo, l’affermazione è accettabile solo con riferimento alle materie in cui la
normativa da applicare possa considerarsi «attuazione del diritto dell’Unione».
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JUS CIVILE
Operando questo raffronto con riguardo all’art. 42 della nostra Costituzione è stato, ad es.,
drasticamente affermato che «sia sotto il profilo sistematico che sotto il profilo esegetico i due
testi non potrebbero essere più distanti» 23.
Il giudizio, per quanto contenga un fondo di verità e corrisponda (almeno in parte) ad una
valutazione largamente diffusa 24, è probabilmente eccessivo.
23
Così L. NIVARRA, La proprietà europea tra controriforma e “rivoluzione passiva”, cit., p. 216, il quale
individua «almeno cinque profili di discrepanza [tra l’art. 17 e l’art. 42] variamente interconnessi: i) attenzione
dettagliata per le facoltà del soggetto proprietario, piuttosto che per le restrizioni che esse possono sopportare;
ii) sostituzione della “causa di pubblico interesse” ai “motivi di interesse generale”; iii) legittimità dell’espropriazione non più legata ad un indennizzo senz’altra specificazione, quanto piuttosto ad una “giusta indennità”
da corrispondere “in tempo utile”; iv) previsione, come contenuto della proprietà, del diritto di lasciare i beni in
eredità, a differenza dell’art. 42, comma 4, Cost., che si ispira invece alla logica “novecentesca” della funzione
redistributiva del diritto successorio (Salvi); v) tutela della proprietà intellettuale».
Per la dottrina in esame (che muove dall’idea che «nella fase attuale dello sviluppo capitalistico» si assista
ad un vero e proprio «rinascimento proprietario», di cui l’art. 17 della Carta di Nizza sarebbe una delle espressioni: op. cit., 204), sarebbe difficile negare che «il modello di proprietà quale emerge, sia dai testi normativi,
sia dalla giurisprudenza delle due Corti, di Strasburgo e del Lussemburgo, presenti tratti protocapitalistici» (op.
cit., 226). Più avanti, poi, l’a. afferma che «dal punto di vista di una interpretazione generale dell’odierno ciclo
di dominio del capitale» l’istituto della proprietà «è chiamato … ad un ruolo di primo piano nella manovra di
destrutturazione del compromesso socialdemocratico», nell’ambito di «una strategia di tipo controriformistico
che ha come obiettivo un drastico ridimensionamento del Welfare, il quale passa anche attraverso la definitiva
archiviazione della funzione sociale weimariana» (ibidem, 239).
24
Cfr., ad es., se pure nell’ambito di una valutazione complessiva meno “negativa”, S. RODOTÀ, Il Progetto
della Carta europea e l’art. 42 della Costituzione, in AA.VV., La proprietà nella Carta europea dei diritti
fondamentali a cura di M. Comporti, Milano 2005, 159, ove si legge che «l’art. 17, letto in sé … è quasi una
restaurazione, una sorta di orologio costituzionale messo indietro di quasi un secolo».
Anche C. SALVI, Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani: il problema, in AA.VV., Diritto
civile e principi costituzionali europei e italiani a cura di C. Salvi, Torino, 2012, 1 ss., 14-15, rileva che «l’incipit
dell’art. 17 … è più simile ai testi ottocenteschi o alle tesi del neoliberismo giuridico e filosofico che alle formule
sociali delle Costituzioni nazionali, ed è anche più arretrato (o più avanzato: dipende dai punti di vista) dell’art.
832 c.c. Per l’espropriazione si richiede una “giusta” indennità (l’aggettivo è assente nel comma 3 dell’art. 42). Il
diritto di lasciare i propri beni in eredità fa parte del contenuto della tutela: garanzia non contemplata nel comma 4
dell’art. 42, che si ispira invece alla logica “novecentesca” della funzione redistributiva del diritto successorio».
Cfr. altresì P. GROSSI, Il diritto civile tra le rigidità di ieri e le mobilità di oggi, in AA.VV., Scienza
giuridica privatistica e fonti del diritto (Quaderni di diritto privato) a cura di M. Lobuono, Bari, 2009, p. 29,
ove si osserva che la Carta ripropone una visione giusnaturalistica e “liberale” della proprietà, lontana
dall’impianto “sociale” della nostra Costituzione. Ancora più severo è il giudizio che l’illustre a. formula con
riferimento, più in generale, al complessivo impianto della Carta di Nizza: la Carta ‒ si legge in un contributo
apparso sulla Riv. it. dir. lav., 2009, 5; e v. anche P. GROSSI, L’ultima Carta dei diritti (lo storico del diritto e la
“Carta di Nizza”), in AA.VV., Carta europea e diritti dei privati a cura di G. Vettori, Padova, 2002 ‒ «pecca
di individualismo, lasciando un minimo spazio all’io sociale e all’io collettivo del cittadino europeo. La “Carta”
nasce vecchia, e non si separa da una tradizione risalente alle dichiarazioni settecentesche dei diritti, certamente
pietre rilevanti nella edificazione della modernità politica e giuridica e notevoli passi avanti rispetto al chiuso e
iniquo orizzonte cetuale dell’antico regime, ma espressioni di una civiltà borghese che tendeva a risolvere (o,
per meglio dire, ridurre) il sociale nel mero rapporto tra individui singoli e Stato, fra individui singoli fra di loro
ciascuno preso nella sua irrinunciabile individualità. Nell’anno Duemila, quando a Nizza si partorì il
documento, sarebbe stato non indebito aspettarsi qualcosa di più complesso e di maggiormente compiuto; si
ebbe invece quella che noi non abbiamo avuto esitazione di qualificare come “l’ultima carta dei diritti”,
l’ultimo anello di una catena che la collegava continuativamente con le “carte” nordamericane e francesi di fine
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JUS CIVILE
È stato autorevolmente sottolineato 25 come sia possibile anche dare una interpretazione diversa dell’art. 17 della Carta, e in particolare una interpretazione che valorizzi (diversamente
dalla corrente lettura “individualista” della disposizione) profili che evidenziano il momento
“oggettivo” della tutela, e l’apertura di quest’ultima alla considerazione di valori diversi da
quelli del proprietario 26.
Orbene, a nostro avviso, quest’ultima impostazione va preferita a quella che enfatizza la
distanza tra il testo europeo e quello delle Costituzioni nazionali (o di alcune di esse). Sebbene,
infatti, la tutela “europea” della proprietà come diritto fondamentale sia destinata ad operare –
come già evidenziato ‒ in un ambito distinto 27 rispetto a quello in cui continueranno ad operare
le tutele nazionali della proprietà (in ipotesi, maggiormente “disponibili” ad ammettere
limitazioni del diritto de quo per ragioni “sociali”), non sembra auspicabile che in questi due
(pur distinti) ambiti si affermino (o si consolidino) “visioni” antitetiche e inconciliabili del
medesimo diritto. E, dunque, meritano di essere assecondate quelle letture che riducono, anziché
aumentare, la distanza (indubbiamente esistente) tra il testo europeo e quello di alcune
Costituzioni nazionali 28.
Del resto – e lo abbiamo già evidenziato – è la stessa Carta di Nizza ad imporre
esplicitamente di interpretare i diritti previsti nella Carta «in armonia con le tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri» 29.
settecento (ma erano trascorsi – e non invano – più di dugento anni!!!)».
25
E il dato è ancor più significativo se si considera che la sottolineatura proviene dal Presidente del
Tribunale UE.
26
Particolarmente significativa, in tal senso, è la lettura della norma proposta da Marc JAEGER, Il diritto di
proprietà nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., 36-37, della quale è
opportuno riportare l’esito conclusivo, che l’A. formula nei seguenti termini: “(…) Se letto in questo modo il
diritto di proprietà diventa un diritto la cui tutela, rispondente ad esigenze di interesse generale, potrebbe essere
commisurata al tipo di bene ed alla luce della sua idoneità ad essere regolata in vista degli scopi della UE. In
conseguenza sembrerebbe ingeneroso evidenziare la matrice esclusivamente individualista dell’art. 17 della
Carta, essendo possibile una lettura alternativa, che non configuri il diritto di proprietà alla stregua di una
libertà illimitata di godere a proprio piacimento di un bene, limitato solo in negativo dalla legge. Al contrario, il
diritto di proprietà esisterebbe solo nel momento in cui i beni, che ne possono essere oggetto, siano meritevoli
di una particolare tutela in vista dell’interesse generale …».
27
Ossia quello delimitato da regolamentazioni attuative del diritto dell’Unione, sia che si tratti di normative
europee direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali, sia che si tratti di normative nazionali che abbiano
dato attuazione al diritto europeo (ad es., recependo delle direttive).
28
Sembra da intendere in questo modo l’autorevole affermazione secondo la quale «il sentiero tortuoso,
il percorso difficile verso questa tutela europea dei diritti fondamentali, anche sociali, è un percorso che
deve necessariamente andare verso la formazione di uno ius commune europeo dei diritti fondamentali. Se
non è questo l’obiettivo corriamo il rischio di non sapere verso dove andiamo» (così G. SILVESTRI, Tutela
nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, in AA.VV., Diritto civile e principi costituzionali
europei e italiani, cit., 58 ss., 59, e ivi la precisazione secondo cui l’espressione “ius commune” viene
utilizzata «nel senso in cui la usava, a proposito del Medio Evo, nelle sue indimenticabili pagine, Francesco
Calasso»).
29
Cfr. l’art. 524 della Carta, già richiamato supra alla nota 7.
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JUS CIVILE
Questo dovrebbe impedire (o, quanto meno, ridurre) il rischio che si aprano ‒ nell’ambito in
cui trova applicazione l’art. 17 Carta di Nizza ‒ inopportune “tensioni” tra la Corte di giustizia
UE e le Corti costituzionali nazionali (e in particolare – per quel che più direttamente ci riguarda
‒ quella italiana), tensioni che sono invece – in qualche modo ‒ ritenute inevitabili (se non
auspicate) da chi invoca la famosa teoria dei «controlimiti» come “argine” ad una tutela
(europea) della proprietà che non dia adeguato spazio (come limite al diritto di proprietà) al
«principio di socialità» cui si ispirano molte Costituzioni nazionali, e che dovrebbe, in questa
prospettiva, essere considerato un «principio supremo dell’ordinamento» idoneo a sbarrare
l’ingresso nel nostro sistema ad una tutela della proprietà privata eccessivamente sbilanciata in
favore del proprietario 30.
Il problema – si badi ‒ potrebbe essere ritenuto (relativamente) secondario, proprio perché
esso dovrebbe porsi in ipotesi (quelle, in cui si verta in materie di competenza dell’Unione) che
scontano in partenza una “cessione di sovranità” a favore della Unione europea, che è stata per
così dire effettuata “a monte”, e in conseguenza della quale gli Stati hanno accettato di affidare
al legislatore sovranazionale il “bilanciamento” tra i vari diritti e interessi (anche di natura
pubblica) coinvolti nella regolamentazione di una certa materia 31.
In realtà, tuttavia, la considerazione dell’importanza (e della vastità) delle materie affidate
alla competenza del legislatore europeo e il fatto che quest’ultimo è “vincolato” a rispettare i
diritti fondamentali previsti dalla Carta (e nel contenuto ivi formalizzato), tra cui il diritto di
proprietà, induce a non sottovalutare il problema.
Che non sembra, però, da affrontare tanto attraverso la strategia “conflittuale” sottesa alla
“teoria dei controlimiti”, quanto piuttosto immaginando una interpretazione delle norme della
Carta di Nizza orientata il più possibile a recepire l’essenza profonda delle «tradizioni
costituzionali comuni» dei Paesi dell’Unione.
Spetterà soprattutto alla Corte di giustizia ‒ quando sarà chiamata a pronunciarsi sull’art. 17
della Carta ‒ individuare le forme possibili di questa “conciliazione” 32.
30
Cfr. C. SALVI, Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani: il problema, cit., 16-17, il quale
peraltro osserva che non è dato ancora sapere «in che cosa più precisamente consistano questi “controlimiti”»,
e si chiede in particolare «se vi sia tra i “controlimiti” di cui parla la nostra Corte costituzionale il principio che
la Costituzione tedesca definisce dello Stato sociale e che per il tribunale costituzionale di quel paese (da
ultimo nella decisione Mangold del 6 luglio 2010) costituisce un “settore inalienabile dell’identità costituzionale”».
31
Ma v. la posizione di Salvi, il quale – dopo aver sollevato, nei termini sopradetti, il problema del «contro
limite sociale» ‒ sembrerebbe ritenere che la questione si ponga soprattutto (se non esclusivamente) con
riferimento agli atti ultra vires dell’Unione «che potrebbero verificarsi – avverte il Tribunale costituzionale
tedesco [decisione Mangold del 6 luglio 2010] ‒ quando “venissero fondati, in via di ulteriore costruzione
giudiziale del diritto, non solo diritti ma anche obblighi dei cittadini, che si rivelerebbero non solo come
interventi limitativi sui diritti fondamentali, ma anche come spostamenti di competenza a svantaggio degli Stati
membri”» (così C. SALVI, Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani: il problema, cit., 18).
32
Conforta circa il fondamento di queste affermazioni l’autorevole previsione secondo la quale «dobbiamo
aspettarci che ci sia un’implementazione in senso sociale dei diritti fondamentali, prevalentemente ad opera
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JUS CIVILE
Del resto, se la Corte di Lussemburgo si muoverà effettivamente in questa direzione, essa
non farà altro ‒ a ben vedere ‒ che dare continuità ad un’elaborazione (del contenuto) del diritto
di proprietà (da ritenersi tutelato a livello dell’ordinamento europeo) iniziata ben prima dell’emanazione della Carta di Nizza (la quale, peraltro, si pone – consapevolmente ‒ in continuazione con quella elaborazione) 33.
Della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di “proprietà privata” antecedente
alla Carta di Nizza, non è possibile compiere in questa sede un esame dettagliato. Interessa, tuttavia, quanto meno evidenziare due profili, e segnalare due “avvertenze”, a nostro avviso imprescindibili se si vogliono evitare fraintendimenti del significato di questa giurisprudenza.
a) La prima avvertenza 34 è che in questa giurisprudenza sovente si parla di “proprietà” (e si
assume – anche se magari soltanto nelle prospettazioni dei ricorrenti ‒ che una certa normativa
della Corte di giustizia, in sinergia con le Corti costituzionali nazionali, con quella tecnica dei piccoli passi, che
è tipica delle Corti supreme. Soltanto commentatori superficiali individuano svolte epocali nella giurisprudenza
di una Corte, perché non hanno studiato bene l’evoluzione della Corte stessa, per vedere che ci sono stati tanti
piccoli passi che poi alla fine sono culminati in una pronuncia che, riassumendo e dicendo in modo più chiaro
quello che si era detto prima, dice qualcosa che appare una svolta storicapronuncia che, riassumendo e dicendo
in modo più chiaro quello che si era detto prima, dice qualcosa che appare una svolta storica» (così G.
SILVESTRI, Tutela nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, cit., 61-62).
Lo stesso a., nel ricordare la dichiarazione congiunta (del 17 gennaio 2011) del presidente della Corte di
giustizia (Skuris) e di quello della Corte di Strasburgo (Costa), nella quale si auspica che si operino
interpretazioni parallele della Carta di Nizza e della CEDU, aggiunge che «se lo stesso metodo si applicasse
anche nei rapporti fra Corte di giustizia e Corti nazionali, sarebbe l’unico modo per uscire dalle difficoltà.
L’omogeneizzazione delle giurisprudenze è l’unico modo per superare e prevenire i conflitti, anche perché la
Carta di Nizza contiene molte norme sovrapponibili a quelle della Costituzione italiana, della Costituzione
tedesca, di altre Costituzioni. Se avessimo interpretazioni differenti, ci troveremmo di fronte ad un ginepraio,
aggravato dal fatto che, essendo tirata in ballo anche la Corte di Strasburgo dall’adesione dell’UE alla CEDU,
potremmo avere tre diverse configurazioni delo stesso diritto fondamentale …» (ivi, p. 65).
33
Certo, in presenza di un testo ormai formalizzato (e il cui tenore letterale delimita, in qualche modo, l’ambito dei significati attribuibili dall’interprete), la “libertà” della Corte di giustizia è, per così dire, meno ampia di
quella di cui il giudice di Lussemburgo godeva quando utilizzava il diritto fondamentale di proprietà come «principio generale» (al pari degli altri diritti fondamentali) dell’ordinamento europeo, desumendone e ricostruendone il
contenuto attraverso la considerazione delle formule contenute nelle varie costituzioni nazionali.
Se, però, si conviene che l’interpretazione di un testo normativo è operazione che non può mai fermarsi al
livello “letterale” dell’enunciato legislativo, ma deve tener conto anche della dimensione “storica” e del
contesto “sistematico” in cui quell’enunciato si colloca, allora le considerazioni che abbiamo sopra svolto
inducono a prevedere che la Corte di giustizia si muoverà nel solco di una sostanziale continuità con la sua
precedente giurisprudenza, e, nel far ciò, ricercherà soluzioni interpretative il più possibile “compatibili” con le
“tradizioni costituzionali comuni” dei vari paesi.
Quanto appena detto trova autorevole conferma in un “passaggio” della sent. n. 80/2011 della nostra Corte
costituzionale, nel quale «la Corte mette in guardia dall’attribuire troppo peso al fatto che si tratti di un catalogo
scritto: se ci si lascia “ingannare” da questo dato, anzi, si potrebbe erroneamente essere indotti a credere che, al
livello dell’Unione, si sia giunti al punto di arrivo costituito dalla “cristallizzazione” – il termine è quello usato
dalla sentenza – dei diritti fondamentali. La redazione del catalogo, come il suo “adattamento” siglato a
Strasburgo, vanno perciò considerati alla stregua di semplici step del processo costituente europeo …» (così
riassume questa parte della sentenza, C. SALAZAR, op. cit., § 7).
34
Riprendiamo qui, da altro angolo visuale, un dato evidenziato sin dall’inizio di queste pagine (v. retro,
alla nota 4).
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riguardi la “proprietà”) in un senso alquanto ampio (e diverso da quello in cui intendono e/o
assumono questa nozione la maggior parte dei testi costituzionali nazionali, e sicuramente la
Costituzione italiana) 35. Il che deve quanto meno indurre cautela nel riferire al «diritto di
proprietà» (nel senso in cui noi lo intendiamo) – e alla tutela che tale diritto riceve nelle
Costituzioni nazionali ‒ affermazioni che si riferiscono assai spesso ad altro, e in particolare alla
«libertà di iniziativa economica» 36.
b) La seconda avvertenza è che queste sentenze sono pronunciate in relazione a quello che
abbiamo or ora definito come «un conflitto rilevante per l’ordinamento comunitario», e dunque
è naturale che quando esse affermano la possibilità che il diritto di «proprietà» (ma si è già detto
che, sotto questo nomen, sovente si tratta – più propriamente – della libertà di iniziativa economica) possa venire “sacrificato” (recte: limitato), lo facciano in relazione ad obiettivi del diritto comunitario (concretizzanti quello che in tali pronunce viene chiamato «interesse generale»), che si riassumono quasi sempre poi nella tutela del mercato (attraverso misure che ripar35
Ad es., nella sentenza Testa e altri (Corte di giustizia 19 giugno 1980, causa C-41/1979) alcuni lavoratori
avevano impugnato un regolamento comunitario secondo il quale l’allontanamento dallo Stato di un lavoratore
disoccupato per più di tre mesi faceva perdere al lavoratore il diritto alle prestazioni di disoccupazione (quindi:
un diritto di credito, secondo le nostre categorie) nei confronti dello Stato. Il ricorrente aveva assunto che il
regolamento violasse, tra le altre disposizioni, anche quelle che hanno ad oggetto il diritto di proprietà privata.
La Corte di giustizia decide nel senso che «anche supponendo che il diritto alle prestazioni di sicurezza
sociale di cui è causa possa essere considerato attinente alla tutela del diritto di proprietà, quale garantita nell’ordinamento giuridico comunitario – questione che non appare necessario risolvere nell’ambito del presente
procedimento ‒ la normativa istituita dall’art. 69 del reg. n. 1408/71 non comporta alcuna limitazione indebita
della conservazione del diritto alle prestazioni in parola».
Significative sono le Considerazioni dell’Avv. generale, il quale – rilevato che le norme e le prassi
costituzionali di tutti gli Stati membri mostrano che è consentito al legislatore disciplinare l’esercizio del diritto
di proprietà privata nell’interesse pubblico (art. 142 Legge fond. tedesca, art. 43.2.2. costituzione irlandese=
utilità collettiva, art. 43.2.1. cost. irlandese = giustizia sociale; art. 422 Cost. it. = funzione sociale del diritto) –
aveva sostenuto che «con ciò risulta chiaro che, in fin dei conti, la funzione sociale determina la portata
concreta della garanzia della proprietà. In altre parole il potere del legislatore di determinare contenuto e limiti
è tanto più ampio quanto più l’oggetto della proprietà abbia rilevanza sociale e risponda ad una funzione
sociale …».
36
Certo, esiste un indubbio nesso tra “attività di impresa” e “proprietà”, nel senso (almeno) che provvedimenti (di carattere legislativo o ‒ più spesso – amministrativo) che incidono sulla prima hanno inevitabilmente
ripercussioni anche sul “patrimonio” dell’impresa e dell’imprenditore, e dunque (indirettamente) sulla proprietà.
Del resto, siccome nelle sentenze che richiameremo fra poco i giudici di Lussemburgo hanno quasi sempre
legittimato (considerandole giustificate dalla presenza di un preminente «interesse generale») le “limitazioni”
alla libertà di iniziativa economica (contenute per lo più in provvedimenti “amministrativi” – si trattava, assai
spesso, di decisioni della Commissione ‒, prevedenti ad es. imposizioni di “prezzi minimi”, o di altri vincoli
contrattuali limitativi della libertà dell’imprenditore), anche a ritenere (assecondando la prospettazione dei
ricorrenti, non sempre condivisa dai giudici della Corte di Lussemburgo) che le controversie in questione
riguardassero (magari indirettamente) il «diritto di proprietà», quel che emergerebbe sarebbe una visione
tutt’altro che “assoluta” di questo diritto, che pur essendo dichiarato “fondamentale” viene cionondimeno considerato “sacrificabile” (purché ciò avvenga in maniera “proporzionata” e senza intaccare la “sostanza del diritto”) ove si profili la necessità di realizzare un «interesse generale» (spesso, in queste sentenze, si evoca una
«funzione sociale dei beni»).
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tiscano equamente le conseguenze di una crisi economica che abbia colpito un determinato settore, o consentano di mantenere un sufficiente livello di redditività delle imprese in presenza di
forti squilibri tra domanda ed offerta) 37.
Sennonché, riconosciuto ciò, non c’è alcun motivo per pensare che – a misura che
nell’orizzonte comunitario si potrà profilare (come del resto avviene già oggi) come «interesse
generale» anche la tutela di determinati interessi «sociali» (di consumatori, lavoratori, utenti,
potenziali fruitori di un bene “culturale”, ecc.) – anche questo tipo di interessi possa, dalla
giurisprudenza europea che verrà elaborata in futuro, essere considerato idoneo a “comprimere”
il diritto (fondamentale) di proprietà, non diversamente da quanto – sulla base degli enunciati
normativi di alcune Carte costituzionali nazionali (tra cui quella italiana) ‒ si ritiene possa
avvenire per l’operare del principio della c.d. «funzione sociale» 38.
In altre parole il c.d. «interesse generale» (inteso come «interesse dell’Unione europea», o ‒
meglio ancora ‒ «interesse al perseguimento degli obiettivi dell’Unione europea») si potrà ben
prestare ‒ man mano che gli obiettivi dell’Unione ingloberanno sempre di più degli interessi di
tipo “sociale” ‒ a giustificare anche quel “sacrificio” (relativo) del diritto di proprietà che viene
in alcuni ordinamenti costituzionali nazionali legittimato attraverso la clausola della «funzione
sociale».
Né sarebbe esatto ritenere che tali “obiettivi” (di tipo sociale) costituiscano niente più che un
“orizzonte” politico, di remota e comunque incerta prospettazione. Facile sarebbe replicare che
‒ al contrario ‒ “obiettivi” siffatti sono già “iscritti” nei Trattati (e, dunque, in quella che in
qualche modo – anche se non formalmente – può essere considerata la Costituzione europea 39, e
37
Va segnalato peraltro che alla “tutela del mercato” si riconducano talora (se pur indirettamente) anche
interessi di tipo lato sensu «sociale» (come ad es. l’interesse al mantenimento dei livelli occupazionali, che
sarebbero compromessi ad es. da un fallimento delle imprese).
38
È stato rilevato (A. MOSCARINI, Proprietà privata e tradizioni costituzionali comuni, Milano 2006,
p.292) che «sul piano terminologico occorre precisare che la Corte di giustizia in alcune sentenze richiama gli
obiettivi di interesse generale, in altre il concetto della funzione sociale, senza presupporre, dietro queste
differenze terminologiche, una differenza sostanziale di contenuto», precisando comunque che «Gli obiettivi di
interesse generale, o corrispondenti alla funzione sociale, che vengono in questione nella maggior parte dei casi
portati all’attenzione della Corte di giustizia sono ascrivibili all’ordine pubblico comunitario, di natura squisitamente economica» (e v. anche,p. 294, dove si ribadisce che sin qui, nel pensiero della Corte, «… soltanto le
ragioni della produzione, l’equilibrio dell’economia di mercato, il rapporto che si instaura tra i mercati dei
diversi Paesi membri, tutti confluenti in un unico mercato comune, motivano la limitazione dei diritti
fondamentali. Nel bilanciamento tra diritto di proprietà e interesse pubblico alla realizzazione di un mercato
aperto e in libera concorrenza, le soluzioni offerte dalla Corte di giustizia sono sempre a favore del secondo
valore, che sembra occupare un rango gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti fondamentali della
persona»).
39
Con riferimento ai diritti fondamentali della Carta di Nizza (e, quindi, anche ai «diritti sociali» in questa
previsti) si è scritto (G. SILVESTRI, Tutela nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, cit., p. 61)
che «dopo il Trattato di Lisbona che ha riconosciuto ufficialmente la Carta di Nizza – anche se l’ha mantenuta
fuori dal corpo normativo dei Trattati ‒ i diritti fondamentali hanno un rango costituzionale», aggiungendo (per
giustificare tale affermazione) che «non dobbiamo rimanere legati al concetto di Costituzione che ci è stato
consegnato in base a certe esperienze storiche, ma dobbiamo vedere nella Costituzione l’insieme dei principi
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nella trama dei «diritti fondamentali» tutelati dalla Carta di Nizza. Che poi questo non basti, e
sia necessario che le istanze “sociali” (di cui queste formule sono espressione) trovino anche
effettività nell’attuazione dell’ordinamento europeo è certamente vero, ma non diversamente né
più di quanto sia vero che non basta che la «funzione sociale» venga solennemente proclamata
in un testo normativo, se essa non diventa anche motivo ispiratore e fondamento di concreti
orientamenti del legislatore.
Naturalmente – ed è veramente l’ultima considerazione che si intende svolgere ‒ non è solo
la Corte di giustizia a dovere tenere nel debito conto le norme delle Costituzioni nazionali e la
loro interpretazione da parte delle rispettive Corti. Sono anche queste ultime che, nell’interpretare le norme costituzionali “interne”, potranno (ed è auspicabile che si orientino in questa
direzione) dare di queste ultime una interpretazione che tenga conto anche delle Carte dei diritti
internazionali o sovranazionali (che vincolano i diversi Stati), in ossequio a quello che forse
potrebbe essere considerato il principio ultimo al quale deve ispirarsi la considerazione della
portata dei diritti fondamentali: ossia il principio della «massima espansione» di tali diritti 40.
Con una doverosa precisazione, senza tener conto della quale si rischierebbe di non intendere
fino in fondo le difficoltà e i problemi di cui questo percorso è costellato, e innanzitutto il problema forse più grave, e cioè (come già si è avuto modo di evidenziare) che in ogni ordinamento
la tutela, maggiore o minore, che ciascun diritto fondamentale riceve, è il risultato di un
“bilanciamento” che il legislatore ha inteso operare tra interessi e valori diversi, ancorché tutti
meritevoli di tutela (e, anzi, “fondamentali”, appunto). Se si ha presente ciò, risulterà chiaro,
allora, che la maggiore tutela di un diritto si risolve, quasi sempre, nel correlativo (maggiore)
sacrificio di un altro diritto (o di un altro interesse, privato o pubblico). Non senza trascurare che
‒ al di là del “bilanciamento” effettuato in astratto dalla norma ‒ il vero “bilanciamento” è poi
fondanti un ordinamento».
40
Per una chiara enunciazione di tale principio si veda, ad es., Corte cost. sent. n. 317/2009, cit., dove si
legge che «con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai
essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e
deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa».
Come ha scritto in altra sede l’estensore di questa sentenza, essa ha voluto, fra l’altro, dire che «la tutela dei
diritti è una tutela sistemica, non isolata. In questa prospettiva – soggiunge l’a. – vediamo quanto sia fruttuoso
il sistema delle interpretazioni parallele: quella sentenza risolveva un caso in cui c’erano già i parametri interni,
l’art. 24 e l’art. 111. Questi parametri interni sono stati, come dire, fertilizzati dall’interpretazione che la Corte
di Strasburgo ha dato, a sua volta, dell’art. 6 della Convenzione, e hanno mostrato potenzialità espansive che
fino a quel momento non erano state prese in considerazione. Vedrei sempre così il processo di intensificazione
della tutela, con alcuni problemi formidabili, che mi guardo bene dal considerare risolti …» (così G. SILVESTRI,
Tutela nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, cit., p. 66).
Trascura il profilo sottolineato nel testo (ossia la necessità di tener conto delle Carte dei diritti internazionali
o sovranazionali nella interpretazione delle corrispondenti norme delle Costituzioni “interne”) C. SALVI, op.
cit., p. 3, il quale cita la sent. n. 317/2009 (insieme ad altre recenti «decisioni garantiste» dei nostri giudici
costituzionali – come ad es. la sent. n. 113/2011) chiedendosi se «era davvero necessario ricorrere alla norma
interposta dalla CEDU, o non sarebbe stato sufficiente applicare le nostre norme costituzionali, nel caso citato
gli artt. 14 e 111».
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quello che occorrerà effettuare sulla base delle circostanze concrete nelle quali si svolge la
vicenda che in ipotesi può “ledere” un diritto fondamentale: il che complica ulteriormente il già
difficilissimo compito di ricercare soluzioni che siano il più possibile “comuni” al sentire dei
vari ordinamenti.
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